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(ITA Buddhismo-Buddismo-Psicologia Transpersonale) Venturini Dalla Biografia Alla Trans-Biografia

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Riccardo Venturini

DALLA BIOGRAFIA ALLA TRANS-BIOGRAFIA

1. La biografia: costruzione dell'identità

La persona come ente storico

Se pensiamo a noi in termini di storia, di biografia, non ci sarà difficile vedere che lenostre "storie" sono scandite temporalmente e spazialmente da quanto è accaduto al nostrocorpo, secondo lo svolgersi del suo "ciclo biologico". Ma, non dovremo dimenticare che cistiamo riferendo non solo o non tanto a un corpo puramente "naturale", quanto a un corpoumano e cioè situato in un contesto culturale e che assume la "coscienza storica della suafinitudine" (Dilthey, 1992) come base della sua stessa liberazione. L'intreccio di eventi naturalie di eventi culturali sarà proprio ciò che pi caratterizza una biografia.

Particolarmente interessante, per l'approfondimento di questa tematica, è il modello cheD. Levinson ci offre del corso della vita e la sua definizione di struttura vitale:

La struttura vitale è l'insieme delle costanti o il grafico della vita di un soggetto, il reticolodel sé-nel-mondo. Le componenti principali sono le relazioni del soggetto: con il sé, con le altrepersone, con i gruppi e le istituzioni, con tutti gli aspetti del mondo esterno che rivestanoqualche importanza nella vita di un individuo. Una persona ha relazioni con il lavoro e con i varielementi del mondo occupazionale; amicizie e reti sociali; relazioni amorose, fra cui ilmatrimonio e la famiglia; esperienze fisiche (salute, malattia, crescita, declino); tempo libero,ricreazione e impiego della solitudine; appartenenze e ruoli in molti contesti sociali. Ognirelazione è come un filo di tappezzeria: il significato di un filo dipende dal posto che essooccupa nel disegno totale (1983, 338) [1] .

Appare evidente che è proprio pensando in termini di storia e costruendo biografie chepossiamo entrare nella rete infinita di legami che connettono l'uomo alla totalità del mondo e ilmondo a noi. Per la fenomenologia

l'individuo non esiste per sé stesso, si ulteriorizza sempre, sia in rapporto a sé sia inrapporto agli altri, cioè in rapporto a qualcosa che lo oltrepassa. Questo trascendere non è daintendersi come qualcosa che va aggiunto all'esserci, ma ne è l'essenziale caratteristica:l'esserci esiste proprio in questo fondamentale fenomeno del "trascendersi", del continuorimando. La trascendenza "nel" mondo è quindi la vera natura dell'uomo, nel mondo delle"relazioni", in cui si è "gettati". (ä) La capacità di relazionarsi (cioè la trascendenza) è lamodalità fondamentale dell'esserci, che irradia "nel" mondo ed è permeata "dal" mondo in cuivive (Callieri, 1971, 25).

Degli infiniti legami, soltanto alcuni saranno individuabili e decifrabili, rimanendo gli altriquel non-detto che, proprio attraverso l'ascolto a partire dal corpo come luogo di solidarietà colmondo, potranno, tuttavia, non rimanere inafferrabili, ma anzi divenire presentiall'immediatezza della nostra coscienza, quando questa si mostri capace di "dilatarsi", di"allargarsi" [2] e di porsi al livello della realtà transpersonale. Quella di costruire una biografia,come anche il riflettere sulla propria storia, diviene dunque indicazione metodologica difondamentale importanza nel contesto clinico, nel quale, come è noto, lo studio dei "casi" haun peso non minore di quello dell'"esperimento" nel contesto delle discipline naturalistiche.

Si ritorna così a quella consapevolezza che autori che si richiamano alla fenomenologiaavevano già sottolineato con forza. Per W. Dilthey

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l'uomo è un ente storico. La finitezza e la temporalità sono costitutive della sua essenza:l'uomo è una creatura del tempo; è un essere sociale in quanto la storia si esplica in istituzionioggettive di carattere sociale e l'"esistenza" è sempre "coesistenza" (Morra, 1992).

La comprensione (della storia) è un'analisi di "eventi storici, connessi dinamicamente,esperibili e riproducibili all'interno dell'uomo" (Sinatra, 1985, 445). Jaspers sottolinea l'unitàdella vita nel suo dispiegarsi temporale e scrive che

ogni vita psichica è un tutto come forma temporale (ä). Ogni vera storia clinica conducealla biografia. La malattia psichica ha le sua radici nell'insieme della vita e per la suacomprensione non si può staccare da essa. Questo insieme si chiama il bios dell'uomo, la cuidescrizione e il cui racconto si chiama "biografia" (nell'uso corrente della lingua è diventatoabituale chiamare biografia anche lo stesso bios dell'uomo) (1964, 719).

Il metodo biografico nella clinica

Come per il corpo, in cui va distinto l'organismo (o corpo oggettivo) dal corpo vissuto,così andrà distinto il tempo cronologico dal tempo dell'esperire o tempo vissuto. Il metodobiografico è stato da sempre impiegato in medicina, costituendo l'anamnesi uno dei momentiobbligati in cui si articola l'esame del malato. Ma, come nota O. Sacks [3] , il neurologo cheattualmente ha, con molto successo, riportato l'attenzione sull'importanza delle storie cliniche,altra cosa è la descrizione oggettiva del decorso di una malattia, altro il cercare di entrare nelmondo soggettivo di un uomo ammalato. Questo "salire al concreto", prestando attenzione allapersona nella sua globalità,

è non solo un principio etico, ma anche scientifico. La fisiologia, la neurologia ed anche lastessa neuroscienza hanno bisogno del concetto di individuo. Lurija stesso ha utilizzato questoprincipio in maniera decisiva. In realtà egli (ä) pensa che la raccolta dei dettagli storici, l'ideadella ricchezza di una vita e della sua piena concretezza, siano strumenti necessari se si vuoletrattare un qualsiasi paziente. Ecco che la storia di un caso impersonale deve essere sostituitada una biografia profonda ed essenzialmente personale. Lurija stesso si trovava sempre aquesto punto di intersezione tra biologia e biografia, sia come clinico che come scrittore (Sacks1990, 9).

Infatti, dice ancora Sacks:

Ippocrate introdusse il concetto storico di malattia, l'idea che le malattie hanno un corso,dai primi accenni al climax o crisi, e quindi alla risoluzione, lieta o fatale. Ippocrate introdusseperciò l'anamnesi, una descrizione, o quadro della storia naturale della malattia, espressa conprecisione dal vecchio termine "patografia". Le anamnesi sono una forma di storia naturale, manon ci dicono nulla sull'individuo e sulla sua storia; non comunicano nulla della persona e dellasua esperienza, di come essa affronta la malattia e lotta per sopravvivere. Non vi è "soggetto"nella scarna storia di un caso clinico; le anamnesi moderne accennano al soggetto con formulesbrigative ("albino femmina trisomico di 21 anni") che potrebbero riferirsi a un essere umanocome a un ratto. Per riportare il soggetto il soggetto umano che soffre, si avvilisce, lotta alcentro del quadro, dobbiamo approfondire la storia di un caso sino a farne una vera storia, unracconto: solo allora avremo un "chi" oltre a un "che cosa", avremo una persona reale, unpaziente, in relazione alla malattia in relazione alla sfera fisica. L'intima natura del paziente èdel tutto pertinente all'àmbito d'indagine pi elevato della neurologia e alla psicologia, poichéesse hanno intimamente a che fare con la personalità del paziente, e lo studio della malattianon può essere disgiunto da quello dell'identità.

La tradizione di storie cliniche attente alla personalità umana tocca il suo culminenell'Ottocento per poi declinare con l'avvento di una scienza neurologica impersonale. Hascritto Lurija: ´La capacità di descrivere, così comune nei grandi neurologi e psichiatridell'Ottocento, oggi è quasi scomparsaä » necessario ridarle vitaª. (ä) La tradizioneottocentesca di cui parla Lurija, la tradizione del primo storico medico, Ippocrate, e la

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tradizione universale e preistorica che ha sempre visto i pazienti raccontare al medico la lorostoria.

Le fiabe classiche hanno figure archetipiche eroi, vittime, martiri, guerrieri. I pazientineurologici sono tutte queste figureä Possiamo vederle come viaggiatori diretti verso terreinimmaginabili, terre di cui altrimenti non avremmo idea, che non potremmo raffigurarci. Eccoperché le loro vite e i loro viaggi hanno per me qualcosa di fiabesco, ecco perché (ä) sento didover parlare di storie e fiabe non meno che di casi. In questi campi, lo scientifico e ilromantico, il romanzesco, chiedono a gran voce d'incontrarsi: Lurija amava parlare di "scienzaromantica". Essi s'incontrano al punto d'intersezione tra fatto e fiaba, intersezione checaratterizza (come già nel mio libro Risvegli) le vite dei pazienti qui [nel libro L'uomo chescambiò sua moglie per un cappello] raccontate.

Ma che fatti! Che fiabe! A che cosa paragonarli? Forse non possediamo i modelli, lemetafore o i miti necessari. Che sia giunto il tempo di nuovi simboli, di nuovi miti? (Sacks,1986, 12-14).

Le domande di Sacks sono certamente assai stimolanti e ci fanno intravedere una via dipossibile rinnovamento del guardaroba concettuale della psicologia. Per ora vogliamo almenoleggere, nel successo avuto dalla sua opera, l'esigenza e la speranza di una medicina dal voltoumano, attenta alla persona nella sua soggettività, capace di rendersi conto

di quell'unità significativa che promana sempre dalla storia interiore di un singolo e che siriporta non alla sua determinazione energetica, ma alla sua decisione, al "come" egli haassunto e fatto proprio il suo "limite naturale" (Cargnello, 1977, 178 s.).

J. Bruner [4] , nella sua proposta di una "psicologia culturale", sottolinea l'importanza delconcetto di un Sé narratore, un Sé che narra storie in cui la descrizione del Sé fa parte dellastoria. Sul significato di tali storie, egli ricorda che per D. Spence (autore di Verità narrativa everità storica) in analisi non è tanto importante la verità storica che il paziente racconta ma laverità narrativa in grado di innescare un processo ricostruttivo, in ciò essendo meno unarcheologo sche scava e recupera il passato e pi un artista che crea, connette, riesce acogliere il senso che riconduce al proprio problema. L'analisi fenomenologica studiando i modiin cui la presenza umana si declina e si progetta nel suo dispiegarsi storico, rileva le successivemodalità con cui ha realizzato le sue diverse possibilità (cfr. Bruner, 1992, 111).

R. Schafer, per parte sua, soffermandosi sulle modalità di tale costruzione narrativa,afferma che

per tutta la vita non facciamo che raccontare noi stessi. Possiamo ritenere, per diversefinalità, che raccontare queste storie su di noi agli alt r i equivalga a eseguire dei veri e propriatti narrativi. Tuttavia, nel dire che raccontiamo queste storie anche a noi stessi, noiracchiudiamo una storia nell'altra. » la storia che c'è un Sé a cui raccontare qualcosa, qualcunaltro che funga da pubblico, che è sé stessi o il proprio Sé. Quando le storie che noiraccontiamo agli altri su noi stessi riguardano altri nostri Sé, per esempio quando diciamo:"Non sono padrone di me stesso", allora di nuovo stiamo racchiudendo una storia nell'altra. Daquesto punto di vista il Sé è un raccontare. Questo raccontare può variare a seconda delleoccasioni e delle persone (Bruner, 1992: 110).

Poiché anche gli altri vengono resi in modo narrativo, la narrazione su di noi a un altrodiviene doppiamente narrativa e

in quanto progetto dello sviluppo personale, l'analisi personale modifica le principalidomande che ognuno di noi pone alla storia della sua vita e della vita di altri significativi. Lasfida per l'analista e per l'analizzato diviene allora questa: "Vediamo come si può riformularequesta storia in modo da permetterti di comprendere le origini, i significati e la portata delle

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tue difficoltà attuali e di farlo in modo che renda concepibile e possibile un cambiamento"(ibidem).

Ancora pi radicale è J. Hillman [5] nel sostenere che la psicoterapia è riuscita ainventare una narrativa che cura, una narrativa che, nella nostra cultura, possa svolgerequell'intento terapeutico che l'arte dello scrivere si prefiggeva, donando catarsi e unitàtematica a un'anima.

La terapia riscatta il mondo sottile delle immagini dal mondo grossolano dei fatti e volgel'anima verso gli dèi. Per questo, naturalmente, ha invaso il campo delle arti e della criticad'arte, diventando, con i suoi rituali, le sue "botteghe", la forma d'arte predominante nelnostro tempo. Essa è la sola che ardisca di penetrare nella vita immediata dell'animaindividuale e di impegnarvisi, con l'intento di guarire l'anima dalla sua condizione prosaica,offrendole una nuova storia per le sue immagini. (ä) Immagino che la mente sia fondata nonsulle microstrutture del cervello o del linguaggio, ma su quelle storie supreme, gli dèi, checostituiscono i modelli fondamentali del nostro agire, credere, conoscere, sentire e soffrire,dove possono persino trovare dimora. » soltanto nelle storie che questi Dei si mostranoancora. La mente è fondata nelle sua stessa attività narrativa, nel suo fare fantasia. Questo"fare" è poiesis. (Hillman, 1984, III).

Le storie cliniche, sostiene Hillman, non sono importanti in quanto residui del modellomedico o esempi paradigmatici che suffraghino l'una o l'altra teoria, ma per il loro esserefenomeni soggettivi, storie dell'anima.

Ci danno una narrazione, un'invenzione letteraria che deletteralizza la nostra vita dallasua ossessione proiettiva per l'esteriorità, perché la iscrivono dentro una storia. Ci spostano,dalla finzione della realtà alla realtà della finzione. Ci donano la possibilità di riconoscerci neldisordine del mondo, per esserci impegnati e per essere sempre impegnati nel fare-anima [6] ,dove "fare" ritorna al suo significato originario di poiesis: fare anima come poiesis psicologica,il fare dell'anima tramite l'immaginazione delle parole. [äForse andiamo in analisi] per ricevereuna storia clinica, il dono di trovare sé stessi nel mito; nei miti dove gli Dei e gli uominis'incontrano. (Hillman, 1983, 63)

Fenomenologia e racconto di sé

L'analisi esistenziale fenomenologica sottolinea il valore epistemologico e la peculiarità diquesto tipo di esplorazione/costruzione:

Proprio nel nesso tra l'evento, l'accadimento e l'Erlebnis [7] possiamo trovare con moltaevidenza le differenze tra un atteggiamento naturalistico/genetico e uno antropologico/modale.L'Erlebnis è infatti contemporaneamente un esperire "qualche cosa" e un sapere intorno a"qualche cosa" che ci capita. Dunque anche un sapere alcunché di noi stessi (ä). Non è chel'uomo si limiti a introdurre un significato all'accadere, ma piuttosto egli, in quanto ne parla ovi pensa o lo coglie o anche semplicemente "lo subisce", immediatamente lo assume("interpreta") in un determinato senso, cioè in un modo oppure in un altro ancora, secondo chiegli è e come egli è. Senso e significato infatti hanno senso e significato solo e soltanto perquel certo uomo e per il mondo che è il suo "mondo". [ä] Riassumendo [ä]: il polo costituitodall'esperire (Erleben), cioè dalla soggettività, e il polo costituito dall'oggettualità, debbonovenir intesi come correlativi a un'unica e medesima costituzione ontologica; in altre parole,correlativi al modo pi proprio con cui l'individualità si decide e si schiude rispetto al suo esseree al suo comprendersi (Cargnello, 1977, 180-81).

La psichiatria fenomenologica riconosce a Freud il merito di aver mostrato, come nessunoprima di lui, l'importanza della storia interiore, potendo la prassi psicoanalitica in definitivaricondursi a una

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sistematica ricostruzione (sia pure da un particolare punto di vista) di quel continuum diesperienze intime che segnano, nel loro concatenato succedersi, le tappe e la traiettoria deltestimoniarsi di un individuo proprio come umana presenza e non già soltanto la meraregistrazione anamnestica delle vicissitudini attraverso cui è trascorso (ivi, 176-77).

Ma al principio metodologico innovativo fa riscontro il riduzionismo teorico einterpretativo che, in nome dell'homo-natura, ha ignorato il multicategoriale homo-existentia, i"modi" originari della presenza (Dasein), fino a ridurre l'espressività artistica, l'agire etico e lareligiosità a mere "illusioni", con una contraddizione che ha fatto dire a L. Binswanger [8] :

» davvero sorprendente dover constatare come l'approfondimento scientifico piintensivo della storia interioreä la sua pi sistematica e paziente esplicitazione psicologico-ermeneutica, e cioè la psicoanalisi di Freud, rappresenti in pari tempo il pi chiuso e violentotentativo di condurre questa interpretazione distorcendola in senso dinamico-funzionalistico(cit. in Cargnello, 1977, 177).

Ogni riduzionismo ha la pretesa, se non l'arroganza, di saper tutto spiegare e tuttointerpretare. L'adozione del metodo fenomenologico, con le parole di U. Galimberti, "nonconcede pi alla psicoanalisi di spiegare la totalità dell'um ano, ma semplicemente dicomprendere qualcosa al livello umano" (Galimberti, 1987, 211). L'analisi esistenziale sioccupa, invece, dei modi in cui si rivela l'umana presenza, il suo progettarsi, il come essere nelmondo, presenza attuale, che tuttavia compendia

anche il futuro, inteso come poter-essere, e il passato, come essere-già-stati. Infatti, sela presenza è un anticiparsi, questa possibilità di futuro non è un insieme di generichepossibilità, ma di determinate possibilità che trovano la loro base in ciò che essa già fu (1987,203).

Modi della presenza che saranno da un lato quelli del poter-liberamente-essere, in cui siattua la "grazia" dell'autorealizzazione e rivelazione di sé, dall'altro quelli della "miseria"dell'esser-costretto-ad-essere (dell'essere cioè nel segno dell'altrui imposizione), modi, questi,che pur nella loro "disgraziata" tragicità rimangono sempre forme dell'umana rivelazione. Perchi, nella convinzione della "pre-esistenza ontica del 'noi' rispetto all''io'", ha compreso cheesistere è partecipare, che l'esistenza è coesistenza (esse est coesse), che la coscienza ha unafondazione interpersonale, che è proprio nella consapevolezza della "noità", stabilitanell'incontro, che risiede la chiave ermeneutica della condotta e dei suoi disturbi, la psichiatriaviene a configurarsi

non soltanto come lo studio delle distorsioni della comunicazione interumana, ma anche,e forse soprattutto, come lo studio delle distorsioni (antropologiche) dell'incontro (ä), come lascienza che studia l'uomo nella sua capacità e incapacità di costituirsi in Noi (Callieri 1989,167).

Presenza e decentramento

L'attenzione alla biografia non vuole certo, in alcun modo, rappresentare un rigurgito dinarcisismo, un ritorno a una coscienza separata e alla contrapposizione sé/non-sé, ma porsicome una modalità per realizzare la consapevolezza delle connessioni e dell'interdipendenza,come un abitare il luogo in cui la consapevolezza dello svolgersi e della finitezza nel tempodiviene rivelazione della costitutiva essenza umana: "centrarsi" sul bÌos vuol dire dunqueritrovare, "concentrato" in noi, il BÌos che è anche oltre noi; in altri termini, ciò significa"decentrarsi" dall'illusione di noi come entità separate e realizzare il paradosso di partire dalbiografico per uscire dal biografico. In questa luce, l'interazione, il dare e ricevere, comecostitutivi di ogni incontro nella reciprocità, vengono a essere costitutivi anche della relazionemedico/paziente. Questa consapevolezza ha portato molti a ridiscutere il problema di fondodella psicoanalisi, cioè il concetto di transfert, che finirebbe per essere

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una finzione naturalistica escogitata dall'analista per eludere l'incontro col paziente.Secondo questi studiosi (e viene qui in mente il Fromm di L'arte di am are, così vicino allateoria scheleriana dell'amore) solo l'autentico interesse personale per il pazientedeterminerebbe in questo la disposizione alla guarigione [ä]. Solo quando il paziente si apreall'incontro (ammesso che il terapeuta vi sia interiormente disposto e ne sia capace) solo allorail neurotico comincia ad essere autenticamente capace di comunicare, di porsi in relazione. »necessario quindi riscattare il transfert dalla sua limitazione (naturalistica) e schiuderloall'incontro, cioè al "noi" (ivi, 166).

Ricostruire una storia diviene dunque un costruire insieme un tratto di vita, rimodellareparti di sé e delle rappresentazioni della propria identità e del proprio contesto sociale. Questoè possibile nella misura in cui si è capaci di ascolto, ossia di comprensione e di esperienza. Selo psichiatra, in quanto medico, tende all'obiettivazione del paziente e al suo inquadramentonelle categorie dell'alienazione, lo psichiatra, come human scientist, vivrà l'altro non pi comeun "caso", ma come un tu concreto, un alter-ego con cui formare un "noi".

Sapersi mantenere con l'altro e non meramente di fronte all'altro, anche se psicotico,significa scorgere l'uomo (cioè un "ordine") anche là dove con altra impostazione siscorgerebbe non altro che un disturbo mentale, cioè un "disordine". » forse questa delladimensione interpersonale la vera "rivoluzione copernicana" dell'attuale psichiatria. (ivi, 179).

Oggi si tende a sottolineare l'esigenza di sviluppare, accanto alla formazione tecnica dellopsichiatra e dello psicoterapeuta, caratteristiche eminentemente umane come la capacità didarsi, la disponibilità, l'accettazione del "diverso" e dell'"anormale", il bisogno autentico dicomprendere e di amare il paziente, qualità che permettano di realizzare, anche nell'incontroclinico, un'occasione per quello che l'antropologia fenomenologica chiama "l'essere-insieme-nell'amore". Questo ci pone certamente un nuovo stimolo alla consapevolezza dellamotivazione e del vissuto del "professionista della salute mentale". Come osserva infatti unodei rappresentanti della scuola fenomenologica italiana,

la necessità di un simile incontro, antropologicamente valido, non ci dispensa dalchiederci che cosa spinga l'uomo-psichiatra ad accostarsi all'alienato fino a tendere allarealizzazione di un incontro. Forse è nella sua dialettica con l'Irrazionale, nel confronto con lesituazioni angoscianti degli altri, che egli affronta la problematica della propria angoscia.Questo equilibrio precario e delicato, sul filo del rasoio, col continuo rischio di essere infranto,porta lo psichiatra ad una posizione essenzialmente ambigua: le sue possibilità di essere-con-qualcuno-nel-mondo, pur accrescendosi, si problematizzano (ivi, 176).

Ma, se vogliamo affermare un modo radicalmente diverso di essere psicologi,psicoterapeuti, psichiatri di fronte al problema/sintomo e a chi ne è portatore e lo esprime, nonsi può sfuggire al rischio dell'impegno, dell'empatia e dell'amore. Per concludere, usandoancora le parole di B. Callieri,

Parlare d'amore e in termini d'amore può certamente suonar scandalo sia alle orecchiodel medico che del filosofo, sia del naturalista che del metafisico. Ma è un rischio che oggi valla pena di correre (ivi, 168).

2. Il campo autobiografico

La scrittura e la pratica letteraria

Nella clinica ricostruire una storia significa dunque costruire insieme un tratto di vita,rimodellare parti di sé. Al di fuori del campo propriamente clinico queste stesse finalità possonoessere ritrovate nei diversi "modi" della narrazione, dall'oralità alla scrittura, dalla scritturaprivata alla scrittura letteraria. In particolare, alcuni generi della scrittura sembrano giàesplicitamente volti al tema della ridefinizione dell'identità. L'autobiografia appare come unvasto campo in cui troviamo diversi generi.

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La complessità del tema si palesa già nel guardare i diversi ambiti e i diversi scopi del"fare autobiografia". Se cerchiamo di individuare l'autobiografia come genere letterario, in cuirientrano narrazioni con valore sia di testimonianze di vita (J.-J. Rousseau) sia di strumenti dicrescita e di trasformazione (in quanto pratiche di autosvelamento; Confessioni di S.Agostino), ci accorgiamo subito della incertezza dei suoi confini e della difficoltà stessa di unaclassificazione delle forme del narrare, ognuna dotata di specifici caratteri e anche di specifichedifficoltà di manipolazione. Meglio forse parlare di un "campo autobiografico", in cui possanotrovare posto: diari, corrispondenze pubbliche o private, l'album delle fotografie, gli oggetticollezionati e i libri raccolti, il curriculum vitae, l'anamnesi medica, le interviste, leconversazioni, il monologo interiore in cui il soggetto si racconta quotidianamente la propriastoria. Proviamo ad affidarci allora alla definizione che ci offre Ph. Lejeune, uno studioso che haconsacrato l'essenziale delle sue ricerche proprio al tema dell'autobiografia:

Chiamiamo autobiografia il racconto retrospettivo in prosa che qualcuno fa della propriaesistenza, quando mette l'accento principale sulla vita individuale, in particolare sulla storiadella propria personalità (1986).

Ci domandiamo quindi: è possibile un racconto di questo tipo e quali effetti possiamoaspettarci da esso? Se l'obiettivo è quello di operare una trasformazione di sé, ci dobbiamointerrogare non solo su quali possano essere le forme di narrazione dotate di questa capacitàma anche sul significato da dare alla stessa auspicata trasformazione. Allorquando lanarrazione sia vista come coscienza di sé e pratica di cambiamento, come modo di auto-svelamento, non solo, ma anche del costituirsi del soggetto, non possiamo non far rientrare nelcampo autobiografico la stessa psicoterapia, intesa come modo per ri-costruire una storia, perunificare e dare senso agli eventi della vita, peculiare luogo in cui operare, con l'aiuto di un co-narratore (il terapeuta), la ri-composizione di una incerta o compromessa identità.

L'idea che, narrandosi, l'uomo si disveli presuppone che la vita sia già una storia (che lanarrazione sia cioè adeguata al suo oggetto) e che sia vera, realizzando così una identità fra itre termini di auto (io stesso), bio (la vita come si svolge) e grafia (io nel senso di un mecontratto nella mia mano che scrive). Ma si tratterà di una reale unità o di una chimericaunione di tre parti inconciliabili? Non viene in ciò celato qualcosa che maschera e che, comeassenza e differenza, diviene proprio il campo della scrittura?

La "pretesa" di poter operare una biografia compiuta la troviamo nelle parole con le qualiJ.-J. Rousseau inizia le sue Confessioni. Rousseau si rivolge al lettore quasi con unaintimidazione, perché non osi dubitare che egli ci sta dando una storia vera:

Mi accingo a un'impresa che non conosce esempi e che non conoscerà imitatori. Vogliomostrare ai miei simili un uomo in tutta la verità della propria natura, e quell'uomo sono io. Iosolo. So leggere nel mio cuore e conosco gli uomini (1988).

Non siamo qui di fronte a un discorso di verità piuttosto che a un discorso vero? Nellagiustificazione, in cui il filosofo vuole offrire una sorta di garanzia affermando je dis la verité,non possiamo non vedere che egli ci dice piuttosto je dis que je dis la verité. Può infatti dircelala verità? Quale? E quanta? J. Lacan sembra far eco e rispondere contrapponendosi: "Je distoutjours la verité: pas toute, parce que toute la dire, on n'y arrive pas [ä] Les mots ymanquent" (1966).

Nell'Esodo troviamo l'archetipo dell'autobiografia, l'autobiografia nella sua forma picompiuta e pi breve, perfetta nella coincidenza del soggetto dell'enunciazione col soggettodell'enunciato. Quando Mosè interroga il Signore per chiedergli come dovrà presentarlo al suopopolo, Dio gli risponde dicendo: "Sono colui che sono". Se questa è la autobiografia, a noi èconcesso realizzare soltanto una o delle autobiografie. Tuttavia, anche se non è possibile darela "verità di sé", rimane la tentazione di ritrovarsi e offrirsi attraverso una configurazionecoerente, unitaria, sensata, che veda gli eventi della vita come "operatori di destino".Nell'impossibilità di comprendersi in una solitaria autoreferenzialità, il soggetto scopre che si

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co-narra o che viene narrato. C'è infatti una basilare dimensione paradossale nella scritturaautobiografica, consistente nel fatto che le due scene fondamentali della nostra vita, la nascitae la morte costituiscono per noi un indicibile fondamentale, appartengono a spettatori estranei,ad altrui narrazioni, sottolineandosi così la insuperabile estraneità di noi a noi [9] . E comeparlare dell'altro mistero, posto tra l'inizio e la fine, il desiderio, di cui non ci sono trasparentiné la genesi né gli obiettivi profondi?

Uno dei pi tipici romanzieri dell'io e memorialisti moderni, Chateaubriand, scriveva:"Vedo i riflessi di un'aurora di cui non vedrò mai levarsi il sole. Non mi resta che sedermi albordo della mia fossa; dopo di che scenderò arditamente, il crocifisso in mano, nell'eternità".Tra revisione e previsione, l'immagine dell'oltretomba, come limite del sé, trasforma l'auto-biografia in etero-biografia.

Lejeune, vede tutta la convenzionalità, il "come se", dell'autobiografia e parla per questodi un pacte autobiographique (e ha intitolato Autopacte, dal nome di un personaggio di J. de LaBruyère, il sito Internet sulla scrittura autobiografica che egli amministra) per sottolineare lanatura contrattuale, giuridica dell'autobiografia, forse solo un modo distinto da quelli impostidal patto romanzesco o fantasmatico o altro.

Autobiografia come testimonianza, narrazione di eventi, selezione, composizione,montaggio del passato per restituire la storia di una vita; oppure intenzionale pratica di auto-osservazione, autocostruzione, autosvelamento, strumento attraverso cui la vita si organizza eacquista senso. In questo caso la scrittura diventa una vera e propria "tecnologia del sé",grazie alla quale connettere i diversi livelli dell'esperienza, fino alle connessioni trans-personali,quindi trans-storiche, trans-narrative, trans-biografiche. Scrittura come strumento per portarein campo quei bisogni "superiori" che il modello psicologico pre-transpersonale non era ingrado di giustificare. Il raccontarsi biografico diventa così la premessa di una diversaautobiografia, quella transpersonale.

Trans-biografia: oltre l'identità personale

Il racconto di sé può diventare una modalità per realizzare la consapevolezza delleconnessioni e dell'interdipendenza: dal bÌos che è "in noi", al Bìos che è "oltre noi". In questosenso, il racconto di sé può essere visto come il prolungamento del mito. Altrimenti, perchémai sarebbe tanto importante sapere quel che succede alla marchesa che prende il tè allecinque? Come notava M. Eliade

Credo che ogni narrazione, anche quella di un fatto banalissimo, prolunghi le grandistorie raccontate dai miti perché spiegano in che modo questo mondo è nato e come mai lanostra condizione è quella che noi oggi conosciamo. Penso che l'interesse per la narrazione faparte del nostro modo di essere al mondo. Essa corrisponde al bisogno che abbiamo dicomprendere quel che è successo, quel che hanno fatto gli uomini, ciò che possono fare, irischi, le avventure, le prove di ogni sorta. [ä] Siamo esseri di "avventura". E mai l'uomo faràa meno di ascoltare storie (1980, 152).

I. Calvino (1993) vede la letteratura e in particolare

il romanzo contemporaneo come enciclopedia, come metodo di conoscenza, e soprattuttocome rete di connessione tra i fatti, tra le persone, tra le cose del mondo.

Letteratura, quindi, come forma di conoscenza che ci aiuta a comprenderel'interdipendenza e ci orienta verso un pensiero a rete: un modo di pensare, di sentire, di agireper connessioni e relazioni. Letteratura come "pratica di vita", come tecnologia del sé, cheincide sulla organizzazione stessa della mente e nel riorientamento di bisogni e motivazioni,che promuove la consapevolezza della comune "natura" di tutti gli uomini e la fondamentale"solidarietà" tra uomo e ambiente. Attraverso la scrittura e il racconto di sé, la mente puòoggettivarsi, può guardarsi e riorientarsi, rivolgendo il suo interesse al di là dei confini

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individuali, per comprendere aspetti pi ampi della vita e dell'umanità. La scrittura rende pi"reale" la vita, portandola oltre la sua transitorietà e dandole senso nel connetterla a ciò che èreale al di là della immediatezza spaziale e temporale, al di là dell'ordinaria contingenza.

Viene così a delinearsi una diversa identità: connettiva, complessa, interrelata,un'identità che va oltre la limitata individualità biologica, storica, culturale e personale perriconoscersi parte di una pi ampia intelligenza-compassione che comprende l'intero universo.

L'apertura a un atteggiamento anegoico ci fa comprendere la frustrazione insita neglisforzi di dare significato alla vita di un individuo astratto e illusorio nel suo isolamento. Inquesto senso, dicevano ironicamente O. Wilde: "Ciascuno deve trovare la propria strada, ma lestrade non portano da nessuna parte" o E. Flaiano: "Conoscere sé stesso. Dopodiché diventaimpossibile vivere con sé stesso". E ancora, Calvino (1995) parlando del gesto quotidiano diraccogliere e buttare i resti, la spazzatura, nella poubelle (o secchio delle immondizie), sispinge a comparare due generi di spazzatura domestica: i prodotti della cucina e i prodottidella scrittura, il secchio dei rifiuti e il cestino della carta. In effetti, per Calvino, "scrivere èdispossessarsi non meno che il buttar via", è un allontanare da sé e l'autobiografia diventa unmodo di riconoscersi attraverso l'espellere: "spazzatura come autobiografia". L'atto stessodella scrittura è un liberarsi, un espellere i resti dell'esperienza: l'autobiografia comespazzatura di un individuo che proprio in quanto tale sembra condannato a restareirredimibile. Scrivere, raccontarsi è "espellere i resti", ma è proprio attraverso tale evacuazioneche si produce uno scarto, un intervallo dal quale gettare uno sguardo d'insieme, configuraregli eventi, cogliere l'essenziale. Scrivere diventa allora un'opera di "salvataggio" dall'effimero eun argine allo scorrere indifferenziato del tempo. In conclusione, conosciuto il limite bisognaandare oltre.

Anzitutto egli rilevò che la sua convinzione che la vita non avesse alcun significatoprendeva in considerazione soltanto questa vita finita. Egli cercava il valore di un termine finitoin quello di un altro, e il risultato finale non poteva essere che una di quelle equazioniindeterminate della matematica che terminano con 0=0. Tuttavia, questo è tutto ciò chel'intelletto raziocinante può ottenere con le sue forze, a meno che un sentimento irrazionale ouna fede non portino in campo l'infinito (1982, p. 184).

Le scienze umane (e in particolare la psicoanalisi) hanno già effettuato un recupero delleantiche tecniche di verbalizzazione, ma la nuova consapevolezza con cui, nella prospettivatranspersonale, possiamo oggi guardare a questi documenti di psicologia spirituale non potràche ulteriormente valorizzare questa forma di scrittura che si qualifica come una delle tecnichepi efficaci per la costituzione di un nuovo sé, nella consapevolezza che

la vera anamnesi storiografica sbocca anch'essa su un tempo primordiale, il tempo in cuigli uomini fondavano i loro comportamenti culturali, nella convinzione che questicomportamenti fossero stati loro rivelati dagli Esseri soprannaturali. Ogni memoria sarà cosìmemoria dell'origine, e ogni memoria dell'origine, luce e salvezza. Poiché niente è perduto;poiché grazie al tempo, distruttore e creatore, l'origine ha preso significato. Si vedrebbe beneallora, perché la storia si compie in ermeneutica, e l'ermeneutica in creazione, in poesia(Eliade, 1980, 168).

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[ ] Sulla problematica del ciclo vitale, dalla nascita (o dalla concezione) alla morte, vedi Guy LefranÁois ( ).

[ ] » noto che questi erano i termini impiegati dal "movimento della nuova coscienza" americano. Tra i tantidocumenti su di esso ricordiamo almeno Jukebox all'idrogeno ("Il messaggio è: allargate l'area della coscienza") eTestimonianza a Chicago di Allen Ginsberg.

[ ] Oliver Sacks, nato a Londra

è professore di neurologia. Abile narratore, ha scritto libri di grandesuccesso: Risvegli, L'uomo che scambiò sua moglie per un cappello, e così via. I libri sono testimonianza delle sueesperienze cliniche ed espressione della sua profonda umanità.

[ ] Jerome S. Bruner, nato nel , psicologo cognitivista, considera la narrazione una modalità fondamentale diorganizzazione dell'esperienza.

[ ] James Hillman, nato nel , americano, ma di formazione europea, insegna al Dallas Institute ofHumanities and Culture. La sua "psicologia archetipica" rappresenta un originale sviluppo della psicologia junghiana.

[ ] Su questo concetto di Hillman, cfr. altre sue opere come Il mito dell'analisi e Re-visione della psicologia.

[ ] Secondo Cargnello, con Erlebnis possiamo intendere un arricchimento esperienziale significativo, sia graditosia sgradito.

[ ] Ludwig Binswanger ( - ), psichiatra svizzero, ha elaborato in modo personalmente creativo l'approcciofenomenologico in psichiatria. In Italia hanno dato importanti contributi a questa corrente psichiatri e studiosi comeCargnello, Calvi, Borgna, Callieri, Galimberti, Sini, e così via.

[9] Non mancano, tuttavia, esempi di autotanatografia, di scritture della/sulla propria morte, esemplati sul prototipo del racconto socratico delFedone (ma, com'è ben noto, scritto da Platone), a un tempo, racconto filosofico e filosofia della morte. E ogni caso ripropone gli interrogativi sulrapporto tra letteratura e testimonianza, tra scrittura e indicibile.

da, con modifiche, M. Cavallo (a cura di), Il racconto che trasforma, Roma, EDUP, 2001, pp. 141-54.

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