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I JEAN-JACQUES ROUSSEAU Discorso sull’origine e il fondamento dell’ineguaglianza tra gli uomini Concepisco, nella specie umana, due varietà di ineguaglianza: la prima, che definisco naturale o fisica, perché è istituita dalla natura […]; l’altra, che può essere chiamata ineguaglianza morale o politica, perché […] è stabilita dalle convenzioni umane. Essa consiste nei differenti privilegi che alcuni godono ad altrui detrimento. […] I filosofi che hanno esaminato i fondamenti della società hanno avvertito il bisogno di risalire fino allo stato di natura, ma nessuno di loro vi è [realmente] arrivato. […] Tutti, discorrendo senza sosta di bisogno, avidità, oppressione, di desideri e di orgoglio, hanno proiettato nello stato di natura le idee contratte nella società: parlavano del selvaggio e si riferivano all’uomo civilizzato. […] Scartiamo tutti i fatti perché non attinenti alla questione. Non bisogna stimare come verità storiche le ricerche relative all’argomento, ma solo come ragionamenti ipotetici e condizionali, più utili per chiarire la natura delle cose che per mostrare l’origine veridica e assimilabile alle ricerche dei fisici circa la formazione del mondo. La religione ci comanda di credere che, avendo Dio sottratto gli uomini allo stato di natura immediatamente dopo la creazione, sono ineguali perché così ha voluto che fossero; ma non ci impedisce di formulare delle congetture, tratte dalla sola costituzione dell’uomo e degli esseri che lo circondano, circa ciò che avrebbe potuto divenire il genere umano se abbandonato a se stesso. Ecco quanto mi domando e mi propongo di esaminare in questo Discorso. […] Hobbes pretende che l’uomo sia naturalmente ostile e non cerchi che di aggredire e combattere. [Ma] nulla è tanto timido quanto l’uomo nello stato di natura ed è perennemente tremante e pronto a fuggire al minimo rumore che lo sorprende, al minimo movimento percepito. Ciò può verificarsi in rapporto agli oggetti sconosciuti e non dubito che sia spaventato da tutti i

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JEAN-JACQUES ROUSSEAU

Discorso sull’origine e il fondamento dell’ineguaglianza tra gli uomini

Concepisco, nella specie umana, due varietà di ineguaglianza: la

prima, che definisco naturale o fisica, perché è istituita dalla natura […]; l’altra, che può essere chiamata ineguaglianza morale o politica, perché […] è stabilita dalle convenzioni umane. Essa consiste nei differenti privilegi che alcuni godono ad altrui detrimento.

[…] I filosofi che hanno esaminato i fondamenti della società hanno avvertito il bisogno di risalire fino allo stato di natura, ma nessuno di loro vi è [realmente] arrivato. […] Tutti, discorrendo senza sosta di bisogno, avidità, oppressione, di desideri e di orgoglio, hanno proiettato nello stato di natura le idee contratte nella società: parlavano del selvaggio e si riferivano all’uomo civilizzato.

[…] Scartiamo tutti i fatti perché non attinenti alla questione. Non bisogna stimare come verità storiche le ricerche relative all’argomento, ma solo come ragionamenti ipotetici e condizionali, più utili per chiarire la natura delle cose che per mostrare l’origine veridica e assimilabile alle ricerche dei fisici circa la formazione del mondo. La religione ci comanda di credere che, avendo Dio sottratto gli uomini allo stato di natura immediatamente dopo la creazione, sono ineguali perché così ha voluto che fossero; ma non ci impedisce di formulare delle congetture, tratte dalla sola costituzione dell’uomo e degli esseri che lo circondano, circa ciò che avrebbe potuto divenire il genere umano se abbandonato a se stesso. Ecco quanto mi domando e mi propongo di esaminare in questo Discorso.

[…] Hobbes pretende che l’uomo sia naturalmente ostile e non cerchi che di aggredire e combattere. [Ma] nulla è tanto timido quanto l’uomo nello stato di natura ed è perennemente tremante e pronto a fuggire al minimo rumore che lo sorprende, al minimo movimento percepito. Ciò può verificarsi in rapporto agli oggetti sconosciuti e non dubito che sia spaventato da tutti i

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nuovi spettacoli che gli si offrono, ogni volta che gli è impossibile distinguere il danno e il beneficio fisici che deve attendersi, né commisurare le proprie forze con i pericoli che sta per correre; circostanza rara nello stato di natura, dove tutto procede in maniera uniforme, e dove la faccia della terra non è soggetta a quei cambiamenti bruschi e continui causati dalle passioni e dall’incostanza dei popoli riuniti. L’uomo selvaggio, vivendo disperso tra gli animali e trovandosi assai presto nella necessità di misurarsi con loro, fa senza dubbio il confronto; e accorgendosi che li sorpassa in scaltrezza più di quanto loro lo superino in forza, impara a non temerli. […] Ecco la funesta conferma che la maggior parte dei nostri mali sono opera nostra, e che noi li avremmo quasi completamente evitati conservando il modo di vivere semplice, uniforme e solitario che ci è prescritto dalla natura. Se essa ci ha destinati ad essere sani, oso assicurare che lo stato di riflessione è uno stato contro natura, e che l’uomo che medita è un animale depravato.

[…] Stiamo perciò ben attenti a non confondere l’uomo selvaggio con gli uomini che abbiamo sotto gli occhi. Il cavallo, il gatto, il toro […] hanno una taglia più grande e una costituzione più robusta, più vigore, più forza, più coraggio nelle foreste che in casa nostra: perdono la metà delle loro prerogative diventando domestici. […] L’uomo stesso, diventando socievole e schiavo, diviene debole, timoroso, strisciante; e il suo modus vivendi molle ed effeminato finisce di snervare la sua forza e il suo coraggio. […] Le comodità che l’uomo si procura […] sono altrettante cause particolari che lo fanno degenerare più sensibilmente.

Non è quindi un gran danno per questi primi uomini, né soprattutto un grande ostacolo alla loro sopravvivenza […] la mancanza di tutte queste inutilità che noi stimiamo indispensabili.

[…] Fino ad ora mi sono limitato a considerare l’uomo fisico: cerchiamo ora di osservarlo sotto il profilo metafisico e morale.

Ogni animale non è che una macchina ingegnosa, a cui la natura ha dato dei sensi per rifornirsi e per garantirsi, fino ad un certo punto, contro tutto ciò che tende a distruggerla o a danneggiarla. Scorgo esattamente le stesse cose nella macchina umana, con la differenza che la sola natura compie tutte le operazioni nell’animale, mentre l’uomo concorre alle proprie in qualità di agente libero. L’uno sceglie o rifiuta per istinto, e l’altro per un atto di libertà; l’opera dell’animale non può allontanarsi dalla regola prescritta, anche quando sarebbe vantaggioso farlo, l’uomo se ne allontana spesso a proprio danno.

[…] Ogni animale ha delle idee perché ha dei sensi; fino ad un certo livello riesce anche a combinare le proprie idee: a tale riguardo l’uomo non differisce che quantitativamente dall’animale. […] Non è quindi tanto il ragionamento ma la sua qualità di agente libero che fa la differenza tra gli animali e l’uomo. […] C’è un’altra qualità specifica che li distingue e che nessuno può contestare; è la facoltà di perfezionarsi, facoltà che, con l’aiuto

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delle circostanze, sviluppa successivamente a tutte le altre […] mentre un animale dopo qualche mese è già ciò che sarà tutta la vita e la sua specie dopo mille anni ciò che era già dopo il primo. Perché solo all’uomo può accadere di diventare imbecille? Con ciò l’uomo non ritorna nel suo stato primitivo come l’animale, che nulla avendo acquistato e nulla avendo da perdere, rimane sempre col proprio istinto. L’uomo, perdendo a causa della vecchiaia o di altri incidenti tutto ciò che la sua perfettibilità gli aveva permesso di acquisire ricade in uno stato peggiore dell’animale? Sarebbe triste essere costretti a concludere che tale facoltà distintiva e pressoché illimitata è la fonte di tutte le disgrazie dell’uomo.

[…] Malgrado le opinioni dei moralisti, la ragione umana molto deve alle passioni, che, per comune giudizio, a propria volta molto le devono: è per effetto della loro attività che la nostra ragione si perfeziona: […] non è possibile comprendere per quale motivo chi è privo di desideri e di timori dovrebbe darsi la pena di ragionare. Le passioni, a loro volta, traggono origine dai nostri bisogni e i loro progressi dalle nostre conoscenze; perché non si possono desiderare o temere le cose che sulla base delle idee che ce se ne forma o per il semplice impulso della natura; e l’uomo selvaggio, privo di ogni lume intellettuale, sperimenta solo le passioni di quest’ultima specie; i suoi desideri non oltrepassano i bisogni fisici. […] La sua immaginazione non gli dipinge nulla, il suo cuore non gli chiede nulla. […] È tanto lontano dal livello delle conoscenze necessarie per desiderare di acquisirne di maggiori che non può avere né previsione né curiosità. Divenendogli familiare, lo spettacolo della natura gli è indifferente: si mostra sempre il medesimo ordine, sempre i medesimi movimenti; non possiede uno spirito capace di stupirsi delle più grandi meraviglie; e non si deve cercare in lui la filosofia di cui l’uomo ha bisogno per saper osservare ciò che ha sempre visto. La sua anima, che nulla agita, si rivolge esclusivamente al sentimento della sua attuale esistenza senza alcuna idea del futuro, vicino o lontano che sia; e i suoi progetti, limitati come la vista, a fatica raggiungono la fine della giornata. […] Anche se volessimo supporre un selvaggio tanto abile nell’arte di pensare quale lo descrivono i nostri filosofi; anche quando ne facessimo, sul loro modello, un filosofo a sua volta, capace di scoprire, da solo, le più sublimi verità, capace di elaborare massime di giustizia attraverso successioni di ragionamenti astratti […] quale utilità ricaverebbe la specie da tutta questa metafisica, che non potrebbe comunicarsi e che morirebbe col suo ideatore? Quale progresso potrebbe fare il genere umano sparso nei boschi tra gli animali? E fino a che punto potrebbero perfezionarsi e illuminarsi reciprocamente degli uomini che, non avendo né fissa dimora, né reciproco bisogno, si incontrerebbero forse appena due volte in tutta la loro vita, senza conoscersi e senza parlare? […] È impossibile immaginare per quale motivo, nello stato primitivo, un uomo avrebbe bisogno di un altro uomo più che una scimmia o un lupo di un loro simile […] So bene

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che si ripete incessantemente che nulla fu tanto miserabile quanto l’uomo in questa condizione. […] Ma, se ben comprendo il termine “miserabile”, o è una parola senza senso o indica una privazione dolorosa e la sofferenza del corpo o dell’anima: ora vorrei che mi fosse spiegato quale può essere il genere di miseria di un essere libero il cui cuore è in pace e il corpo in salute. Mi chiedo quale, tra la vita civile o naturale, è la più soggetta a diventare insopportabile a chi ne gode. Scorgiamo quasi sistematicamente persone che si lamentano della loro esistenza, molti che se ne privano; e la raccolta delle leggi umane e divine contiene a fatica tale disordine. Domando se si sia mai sentito dire che un selvaggio in libertà si sia solamente sognato di lamentarsi della vita e di darsi la morte. Si giudichi quindi con minore tracotanza dove è situata la vera miseria umana. […] Sembra tuttavia che in questo stato gli uomini, non intrattenendo alcuna reciproca relazione morale, […] non potessero essere né buoni né cattivi e non avessero né vizi né virtù. […] Ma, […] bilancia alla mano, si esamini se ci sono più virtù che vizi tra gli uomini civili, o se le loro virtù sono più vantaggiose di quanto i loro vizi sono funesti, o se il progresso delle loro conoscenze sia una scusa sufficiente per i mali che reciprocamente si procurano nella misura in cui si istruiscono sul bene che si dovrebbero recare, o se non sarebbe meglio non avere né mali da temere né beni da sperare da nessuno che essere sottomessi ad una dipendenza universale e obbligarsi a ricevere tutto da chi non si obbliga a dare loro nulla.

Non concludiamo soprattutto, con Hobbes, che per non avere alcuna idea della bontà, l’uomo sia naturalmente malvagio; che sia vizioso perché non conosce la virtù. […] Hobbes ha acutamente visto il difetto di tutte le definizioni moderne del diritto naturale: ma le conseguenze che trae dalla sua mostrano che la prende in un senso che non è meno falso. Ragionando sui princìpi che stabilisce, questo autore avrebbe dovuto dire che, essendo lo stato di natura quello dove il desiderio della nostra conservazione è il meno pregiudizievole all’altrui, tale stato era per conseguenza il più vicino alla pace e il più conveniente al genere umano. Afferma [invece] precisamente il contrario, per aver introdotto a sproposito nel desiderio di autoconservazione dell’uomo selvaggio il bisogno di soddisfare una moltitudine di passioni che sono l’opera della società e che hanno reso necessarie le leggi. […] Hobbes non ha visto che la stessa causa che impedisce ai selvaggi di usare la loro ragione, come pretendono i nostri giuristi, impedisce l’abuso delle loro facoltà, così che si potrebbe dire che i selvaggi non sono malvagi precisamente perché non sanno cosa sia essere buoni, perché non è né lo sviluppo dei lumi, né il freno della legge, ma la calma delle passioni e l’ignoranza del vizio che impedisce loro di comportarsi malamente. […] C’è, d’altra parte, un altro principio che Hobbes non ha avvertito, e che, essendo dato all’uomo, tempera l’ardore che lo anima per il proprio bene grazie ad un’innata ripugnanza nello scorgere la sofferenza di un simile. […] Parlo della pietà, disposizione appropriata a degli esseri tanto

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deboli e soggetti a tanti mali come noi lo siamo; virtù, d’altra parte, tanto più universale e tanto più utile all’uomo da precedere, in lui, l’impiego di qualsiasi riflessione, e così naturale che gli animali stessi ne mostrano talvolta dei segni. […] Tale è il moto della natura, precedente ogni riflessione. […] Mandeville ha correttamente avvertito che con tutta la loro morale gli uomini non avrebbero potuto essere niente altro che dei mostri se la natura non avesse donato loro la pietà a sostegno della ragione: ma non ha visto che da questa sola qualità discendono tutte le virtù sociali che vuole contestare agli uomini. […] La commiserazione sarà tanto più potente quanto più intimamente l’animale spettatore si identificherà con l’animale sofferente. È evidente che tale identificazione dovette essere infinitamente più stretta nello stato di natura che nello stato della ragione. È infatti la ragione che genera l’amor proprio e la riflessione la rafforza.

[…] Il selvaggio non possiede tale ammirabile talento e privo di saggezza e di ragione lo vediamo sempre abbandonarsi sventatamente ai primi sentimenti dell’umanità. […] La pietà è senza dubbio un sentimento naturale, che […] concerne la conservazione della specie, […] che nello stato di natura sostituisce le leggi, i costumi e la virtù, col vantaggio che nessuno è tentato di disobbedire alla sua dolce legge. […] È in tale sentimento naturale, piuttosto che negli argomenti sottili, che bisogna cercare la causa della ripugnanza che ogni uomo proverebbe a fare del male anche indipendentemente dai principi dell’educazione. Per quanto possa appartenere a Socrate e agli spiriti della sua tempra acquisire la virtù tramite la ragione, già da molto tempo il genere umano sarebbe scomparso se la sua conservazione fosse dipesa dai ragionamenti dei loro compositori.

Con passioni così poco attive e un freno così salutare, gli uomini, più selvatici che malvagi e più attenti a difendersi dal male che potrebbero ricevere che tentati di farne ad altri, non erano soggetti a distinzioni pericolose: non avendo alcuna specie di reciproco commercio, non conoscevano né la vanità […] né il disprezzo, non avevano la minima cognizione del tuo e del mio, né alcuna attendibile idea della giustizia; consideravano le violenze subite come un male facile da riparare e non come un’ingiuria che occorre punire, non sognavano nemmeno la vendetta, se non forse irriflessivamente e temporaneamente.

[…] Tra le passioni che agitano il cuore umano, ce n’è una ardente, impetuosa, che rende un sesso necessario all’altro; passione terribile che sfida tutti i pericoli, abbatte tutti gli ostacoli e che, nel suo furore, sembra distruggere il genere umano che è destinata a conservare. […] Cominciamo distinguendo il fisico dal morale nel sentimento dell’amore. Il fisico è questo desiderio generale che conduce un sesso a unirsi ad un altro. Il morale è ciò che qualifica questo desiderio e lo fissa esclusivamente su un oggetto, o che almeno gli dà per l’oggetto prediletto un maggior grado di energia. È facile constatare che

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l’aspetto morale dell’amore è un sentimento artificiale nato dall’abitudine della società e celebrato molto abilmente dalle donne per costituire il loro impero e rendere dominante il sesso che dovrebbe obbedire. Essendo questo sentimento fondato su nozioni di merito o di bellezza che un selvaggio non può possedere e su paragoni che non è in grado di operare, dev’essere per lui pressoché inesistente. Come il suo spirito non ha potuto formarsi idee astratte di regolarità e di proporzione, così il suo cuore non è suscettibile di sentimenti di ammirazione e di amore che, anche inavvertitamente, nascono dall’applicazione di certe idee. Egli ascolta solo il temperamento ricevuto dalla natura e non il gusto che non ha potuto acquistare ed ogni donna è buona per lui.

Limitato al solo lato fisico dell’amore e abbastanza fortunato da ignorare quelle preferenze che irritano il sentimento e accrescono le difficoltà, gli uomini dovevano avvertire meno frequentemente e meno vivacemente gli ardori del temperamento e quindi incappare in dispute più rare e meno crudeli. L’immaginazione, che produce tante devastazioni tra noi, non parla affatto ai cuori selvaggi; ciascuno attende pacificamente l’impulso della natura, vi si consegna con immediatezza, con più piacere che furore e, una volta soddisfatto il bisogno, tutto il desiderio è estinto.

È quindi incontestabile che l’amore, come tutte le altre passioni, ha acquisito solo nella società questo ardore impetuoso che lo rende spesso funesto agli uomini.

[…] Vagando nelle foreste, senza industria, senza linguaggio, senza domicilio, senza guerra e senza legami, senza alcun bisogno dei propri simili come senza alcun desiderio di nuocere loro, forse senza nemmeno conoscerne qualcuno individualmente, il selvaggio, soggetto a poche passioni e bastando a se stesso, non possedeva che sentimenti e raziocini propri a questo stato. Non avvertiva che i propri autentici bisogni, non guardava che quanto credeva gli interessasse vedere, la sua intelligenza non progrediva più della sua vanità. […] L’arte periva con l’inventore. Non c’erano né educazione né progresso; le generazioni si moltiplicavano inutilmente e ciascuno, procedendo dal medesimo punto, i secoli trascorrevano nella rozzezza delle prime epoche; la specie era vecchia e l’uomo rimaneva bambino. […] Ho creduto […] di dover mostrare […] quanto l’ineguaglianza, anche naturale, sia lontana dal possedere in questo stato la realtà e l’influenza pretesa dai nostri scrittori.

In effetti è facile vedere che tra le differenze che distinguono gli uomini, molte passano per naturali mentre sono solo l’opera dell’abitudine e dei diversi generi di vita adottati in società. […] Ma quand’anche la natura nella distribuzione dei beni dispensasse tutte le preferenze che si pretende, quale vantaggio ne ricaverebbero a detrimento dei rimanenti i più favoriti in una condizione che non ammetterebbe pressoché nessuna relazione tra loro? […] Sento spesso ripetere che i più forti opprimono i deboli. Mi si spieghi però che cosa si intende col termine di oppressione. Gli uni domineranno con violenza,

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gli altri gemeranno asserviti ai loro capricci. Ecco precisamente quanto osserviamo tra noi. Non vedo come potrebbe dirsi altrettanto dei selvaggi, a cui sarebbe difficile perfino spiegare cosa siano servitù e dominio. Un uomo potrà sicuramente impadronirsi dei frutti coltivati da un altro. […] Come giungerà alla conclusione di farsi obbedire? E quali potrebbero essere i legami di dipendenza di uomini che non possiedono nulla? Se mi si caccia da un albero, sono pronto a raggiungerne un altro, se mi si tormenta in un luogo, che cosa mi impedisce andare altrove? Si trova un uomo dalla forza tanto superiore alla mia, tanto depravato e […] feroce da costringermi a provvedere alla sua esistenza mentre rimane ozioso? Occorre che si risolva a non perdermi di vista un solo istante […] per la paura che fugga o lo uccida. Ciò significa che si espone volontariamente ad una fatica maggiore di quella che vorrebbe evitare e che mi impone. Inoltre, la sua vigilanza si rilassa per un istante, un rumore imprevisto lo sollecita a volgere altrove il capo, faccio venti passi nella foresta, le mie catene sono spezzate e non mi rivedrà per il resto della sua vita.

Senza prolungare inutilmente questi dettagli, ciascuno vede che i legami servili non essendo formati che dalla reciproca dipendenza degli uomini e dei bisogni che li uniscono, è impossibile asservire un uomo senza averlo precedentemente reso incapace di fare a meno di un altro, situazione che, non esistendo nello stato di natura, vi lascia ciascuno libero dal giogo e rende vana la legge del più forte.

[…] Il primo che, avendo recintato un terreno, osò dire: questo è mio, e trovò gente abbastanza semplice da credergli, fu il vero fondatore della società civile. Quanti crimini, guerre, morti, miserie e orrori avrebbe potuto risparmiare al genere umano chi […] avesse gridato ai suoi simili: «Non ascoltate questo impostore; siate perduti se dimenticate che i frutti sono di tutti e che la terra non è di nessuno!». Ma è assai verosimile che le cose fossero ormai giunte al punto da non poter continuare come in precedenza perché questa idea di proprietà, derivante da molte idee anteriori che non hanno potuto nascere che successivamente, non si formò immediatamente nello spirito umano. […] Nella misura in cui il genere umano si moltiplica, le pene si moltiplicano con gli uomini. Le differenze dei territori, dei climi, delle stagioni poterono forzarli a metterne nei loro modi di vivere. Annate sterili, inverni lunghi e duri, estati torride […] esigono una nuova industria. […] Questa relazione […] dovette naturalmente generare nello spirito umano le percezioni di specifici rapporti. […] I nuovi lumi che risultarono da questo sviluppo accrebbero, mostrandogliela, la sua superiorità sugli altri animali. […] In tal modo il primo sguardo che portò su se stesso produsse il primo moto d’orgoglio. In tal modo […] considerandosi primo per la specie, si preparava a pretendere [la medesima posizione] per l’individuo.

Malgrado i suoi simili non fossero per lui ciò che sono per noi, e non avesse più relazioni con loro che con gli altri animali, non furono trascurati

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nelle sue osservazioni. […] Concluse che il loro modo di pensare e di sentire era interamente conforme al suo. Tale importante verità […] lo indusse a seguire […] le migliori regole di condotta che, per il suo vantaggio e la sua sicurezza, gli conveniva osservare con loro.

Istruito dall’esperienza che l’amore del benessere è il solo movente delle azioni umane, si trovò in grado di distinguere le rare occasioni in cui l’interesse comune poteva fargli contare sulla collaborazione dei suoi simili. […] Ecco come gli uomini poterono insensibilmente acquistare qualche primitiva idea dei reciproci impegni e dei vantaggi della loro osservanza, ma solo nella misura in cui poteva esigerlo l’interesse presente e sensibile. La previsione non esisteva per loro e ben lungi dall’interesse per un lontano avvenire, non pensavano nemmeno all’indomani.

[…] Questi primi progressi indussero l’uomo ad altri più rapidi. […] In questo nuovo stato […] gli utensili […] furono impiegati per procurarsi diversi generi di comodità sconosciute ai loro avi e questo […] rappresentò la prima fonte dei mali che prepararono ai loro discendenti.

[…] Tutto comincia a mutare aspetto. Lentamente gli uomini si avvicinano, si riuniscono in diverse compagini formando infine una nazione particolare in ciascuna regione. […] Il rapporto episodico richiesto dalla natura presto ne induce un altro non meno dolce e più stabile per la reciproca frequentazione. Ci si abitua a stimare differenti oggetti, a compararli; si acquisiscono inavvertitamente delle idee di merito e di bellezza che producono preferenze. A forza di vedersi, non si può stare senza vedersi. Un dolce e tenero sentimento si insinua nell’anima e per la minima opposizione si trasforma in impetuoso furore. La gelosia si sveglia con l’amore, la discordia trionfa e la più dolce delle passioni riceve sacrifici di sangue umano. […] Ciascuno iniziò a guardare gli altri e a voler, a propria volta, essere guardato. La pubblica stima ebbe un prezzo. Chi meglio danzava o cantava, il più bello, il più forte […] divenne il più stimato. Questo fu il primo passo verso l’ineguaglianza e nello stesso tempo verso il vizio: da queste prime preferenze nacquero da un lato la vanità e il disprezzo, dall’altro la vergogna e l’invidia. La fermentazione causata da questi nuovi timori produsse infine dei complessi funesti alla felicità e all’innocenza.

[…] Ecco precisamente il grado a cui era giunta la maggior parte delle popolazioni selvagge note. Ed è per non aver sufficientemente distinto le idee e annotato quanto queste popolazioni erano già lontane dal primitivo stato di natura, che molti si sono affrettati a concludere che l’uomo è naturalmente crudele e che ha bisogno di sorveglianza per addolcirlo, mentre nulla è così dolce come lui nello stato primitivo quando, situato dalla natura a eguale distanza dalla stupidità dei bruti e dalla ragione funesta dell’uomo civile […] è trattenuto dalla pietà naturale da azioni malvagie verso qualcuno.

[…] Bisogna ricordare che la società avviata e le relazioni stabilite tra

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gli uomini esigevano qualità differenti dalle relazioni intrattenute nello stato primitivo. Cominciando ad introdursi la moralità nelle relazioni umane e ciascuno, prima delle leggi, essendo il solo giudice e vendicatore delle offese ricevute, la bontà adeguata al puro stato di natura non conveniva più alla nascente società. Occorreva che le punizioni divenissero più severe nella misura in cui le occasioni di offendere divenivano più frequenti ed era il terrore delle vendette a sostituirsi al freno della legge. […] Questo periodo di sviluppo delle facoltà umane, rappresentando un giusto mezzo tra l’indolenza dello stato primitivo e la petulante attività del nostro amor proprio, dovette essere il più felice e il più stabile. Più si riflette e più ci si accorge che questo stato era il meno soggetto alle rivoluzioni, il migliore per l’uomo e che non dovette uscirne che a causa di qualche caso funesto. […] L’esempio dei selvaggi trovati in tale condizione sembra confermare che il genere umano era nato per restarvi perennemente, che questo stato era la vera giovinezza del mondo e che ogni ulteriore progresso è stato in apparenza un passo verso la perfezione dell’individuo, in effetti verso la decrepitezza della specie.

[…] Dal momento in cui un uomo ebbe bisogno dell’aiuto di un altro, […] l’uguaglianza sparì, la proprietà si introdusse, il lavoro divenne necessario e le vaste foreste si mutarono in ridenti campagne che fu necessario nutrire con il sudore degli uomini e nelle quali si vide ben presto la schiavitù e la miseria germogliare e crescere con le messi.

La metallurgia e l’agricoltura furono le due arti la cui invenzione produsse questa grande rivoluzione. […] Da quando si sono resi necessari uomini per fondere il ferro, si sono resi necessari altri uomini per nutrirli. […] Dalla cultura della terra seguì necessariamente la sua divisione e, una volta accettata la proprietà, le prime regole di giustizia. Per rendere a ciascuno il proprio, occorre che ciascuno possa avere qualcosa. Di più: cominciando gli uomini a pensare al loro futuro e considerando i beni che avrebbero potuto perdere, non ci fu nessuno che non temette la rappresaglia per i torti che avrebbe potuto fare. È inoltre evidente che è impossibile non attribuire alla prestazione d’opera la nascita della proprietà perché l’uomo può appropriarsi delle cose che non ha fatto solo tramite il lavoro. Solamente il lavoro, conferendo al contadino il diritto sul prodotto della terra che ha coltivato, glielo conferisce anche sul fondo, almeno fino al raccolto e così di anno in anno. Così il possesso continuo progressivamente si trasforma in proprietà.

[…] Il più forte [però] otteneva una maggior quantità di prodotto, […] il più ingegnoso trovava il modo per abbreviare il lavoro. […] Tutti ugualmente lavorando, l’uno guadagnava molto, l’altro quanto appena era sufficiente per vivere. In tal modo l’ineguaglianza naturale si sviluppa insensibilmente con quelle combinazioni e le differenze tra gli uomini sviluppate da quelle circostanze si rendono più sensibili, permanenti nei loro effetti.

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[…] Essendo le situazioni così trasformatesi, è facile arguire il resto. Non perderò tempo a descrivere l’invenzione successiva delle altre arti. […] Mi limiterò a gettare un colpo d’occhio sul genere umano collocato in tale nuovo ordine.

Ecco quindi tutte le nostre facoltà sviluppate, la memoria e l’immaginazione in azione, l’amor proprio interessato, la ragione resa attiva e lo spirito giunto pressoché al termine della perfezione di cui è suscettibile. Ecco tutte le qualità naturali messe in azione, il rango e la sorte degli uomini stabiliti non solamente sulla quantità dei beni e il potere di servire o di nuocere, ma sullo spirito, la bellezza, la forza o la destrezza, sul merito o sui talenti. Poiché queste qualità erano le sole capaci di attirare la considerazione, occorreva o averle o simularle. Si rese necessario, per il proprio vantaggio, mostrarsi diversi da ciò che in effetti si è. Essere ed apparire divennero due cose completamente differenti. Da tale distinzione derivarono il fasto imponente, l’astuzia ingannevole e tutti i vizi che ne rappresentano il corteo. D’altra parte ecco l’uomo, da ricco ed indipendente, assoggettato, per una molteplicità di nuovi bisogni, all’intera natura e soprattutto ai suoi simili, di cui diviene lo schiavo anche divenendo loro padrone: ricco necessita dei loro servizi, povero abbisogna del loro aiuto e la mediocrità non lo mette in grado di trascurarli. Occorre quindi che incessantemente cerchi di interessarli al suo destino, cerchi di far loro trovare, in effetti o in apparenza, un proprio profitto nel lavorare per il suo. Ciò lo rende furbo e artefatto con gli uni, imperioso e duro con gli altri e lo pone nella necessità di ingannare tutti coloro di cui ha bisogno quando non può farsi temere. […] Infine l’ambizione divorante, il desiderio di accrescere la propria fortuna, meno per un autentico bisogno che per collocarsi al di sopra degli altri, ispira ad ogni uomo una nera inclinazione a nuocersi reciprocamente, una gelosia segreta tanto più dannosa che, per raggiungere i propri obbiettivi in tutta sicurezza, assume sovente la maschera della benevolenza. […] Tutti questi mali sono il primo effetto della proprietà e il corteo inseparabile della nascente ineguaglianza. […] La nascente società accolse il più orribile stato di guerra: il genere umano, umiliato e desolato, non potendo tornare sui propri passi […] non lavorando che alla propria vergogna, tramite l’abuso delle facoltà che l’onorano, si pose a capo della propria rovina.

È impossibile che gli uomini non abbiano riflettuto su una situazione tanto miserabile. […] Soprattutto i ricchi dovettero avvertire lo svantaggio di una guerra perpetua di cui, soli, facevano tutte le spese e nella quale il rischio della vita era comune, e quello dei beni particolare. […] Il ricco, spinto dalla necessità, concepisce infine il progetto più ponderato mai entrato nello spirito umano: impiegare a proprio favore le forze di chi lo attaccava, farsi difensore dei suoi avversari, ispirare loro altre massime, offrire loro altre istituzioni che fossero loro tanto favorevoli quanto il diritto naturale era loro contrario. […] «Uniamoci.» disse loro […] «Invece di volgere le nostre forze contro noi stessi,

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raccogliamole in un potere supremo che, capace di governarci seguendo leggi sagge e di proteggere e difendere tutti i membri dell’associazione, respinga i nemici comuni e ci mantenga in una concordia universale». [Tutti credettero di assicurarsi la libertà] perché, dotati di abbastanza raziocinio per comprendere i vantaggi di un’istituzione politica, non avevano abbastanza esperienza per prevedere i danni: più capace di presentire gli abusi era precisamente chi contava di approfittarne.

[…] Tale fu o dovette essere l’origine della società e delle leggi, che intralciarono con nuove pastoie i deboli e conferirono nuove energie a i ricchi, irrimediabilmente distrussero la libertà naturale, fissarono per sempre la legge della proprietà e dell’ineguaglianza, di un’accorta usurpazione fecero un diritto irrevocabile e, per il profitto di qualche ambizioso, assoggettarono l’intero genere umano alla servitù e alla miseria. Si vede facilmente come l’istituzione di una sola società renda indispensabile l’istituzione di tutte le altre e come, per tener testa a delle forze riunite, occorra a propria volta riunirsi. Moltiplicandosi ed estendendosi rapidamente le società, ricoprirono presto la superficie della terra e non fu più possibile trovare un solo angolo dell’universo dove potersi affrancare dal giogo.

[…] I corpi politici, rimanendo così reciprocamente nello stato di natura, risentirono ben presto degli inconvenienti che avevano costretto i singoli ad uscirne. Tale stato divenne ancora più funesto tra questi grandi corpi di quanto non lo fosse in precedenza tra gli individui. Così sortirono le guerre nazionali, le battaglie, i morti, le rappresaglie, che fanno fremere la natura e urtano la ragione e tutti gli orribili pregiudizi che elevano al rango di virtù l’onore di spargere il sangue umano. Le più oneste persone appresero ad annoverare tra i loro doveri sgozzare i propri simili. […] Si procuravano più morti in un solo giorno di guerra di quanti [omicidi] non fossero stati commessi durante tutti i secoli nello stato di natura.

[…] Il barbaro […] preferisce la libertà più tempestosa a un assoggettamento tranquillo. Non si devono giudicare le disposizioni naturali dell’uomo favorevoli o contrarie alla servitù dall’avvilimento dei popoli asserviti, ma dai prodigi che compiono tutti i popoli liberi per garantirsi dall’oppressione. I primi non fanno altro che vantare la pace e il riposo di cui gioiscono nelle loro catene, ma quando vedo gli altri sacrificare i piaceri, il riposo, la ricchezza, la potenza e la vita stessa alla conservazione di questo solo bene così sdegnato da chi l’ha perso, […] sento che non compete agli schiavi ragionare della libertà.

[…] Agli occhi del saggio la società non offre che un assemblaggio di uomini artificiali. […] Il selvaggio e l’uomo civile differiscono talmente nel fondo del loro cuore per le inclinazioni che quanto fa la suprema felicità del primo ridurrebbe l’altro alla disperazione. […] Il cittadino, sempre attivo, suda, si agita, si tormenta senza sosta alla ricerca di occupazioni ancora più laboriose;

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lavora fino alla morte, vi corre per mettersi in condizione di vivere o rinuncia alla vita per acquistare l’immortalità; fa la corte ai grandi che teme e ai ricchi che disprezza; nulla risparmia per ottenere l’onore di servirli; si vanta con orgoglio della propria bassezza e della loro protezione; fiero della propria schiavitù, parla con sdegno di chi non ha l’onore di condividerla. […] Il selvaggio vive in se stesso; l’uomo sociale sempre fuori di sé. Non sa vivere che nell’altrui opinione e solamente, per così dire, dal loro pregiudizio ricava il sentimento della propria esistenza. Non intendo poi mostrare come da tale disposizione nasca tanta indifferenza verso il bene e il male, coronata da meravigliosi discorsi sulla morale; come, chiedendo sempre agli altri ciò che noi siamo e non osando mai interrogarci in prima persona al riguardo, in mezzo a tanta filosofia, tanta umanità, cortesia e sublimi massime, non abbiamo che un’esteriorità illusoria e frivola, onore senza virtù, ragione senza saggezza e piacere senza felicità. A me basta aver dimostrato che non è tale la condizione originale dell’uomo e che solo lo spirito della società e l’ineguaglianza generatavi mutano e alterano ogni nostra inclinazione naturale.

Voltaire, letto il “Discorso” di Rousseau, gli inviò una lettera il 30 agosto 1755

Signore, ho ricevuto il vostro nuovo libro contro il genere umano. Vi

ringrazio. […] Voi dipingete a tinte ben vivaci gli orrori della società umana la cui ignoranza e debolezza promettono tanta dolcezza. Nessuno aveva mai impiegato altrettanta intelligenza nell’intento di renderci bestie.

Leggendo il vostro scritto vien voglia di procedere a quattro zampe. Tuttavia, avendone perduto l’abitudine da più di sessant’anni, mi risulta impossibile riprenderla. Lascio quindi tale andatura naturale a chi, più di voi e me, ne è più degno. Non posso inoltre imbarcarmi per raggiungere i selvaggi del Canada, innanzitutto perché le malattie alle quali sono condannato mi rendono indispensabile un medico europeo, secondariamente perché in quel paese c’è la guerra e l’esempio delle nostre nazioni ha reso i selvaggi malvagi quanto noi. Mi limito quindi ad essere un pacato selvaggio nella solitudine che ho scelto vicino alla vostra patria.

[…] Ammetto che in alcune circostanze le lettere e le scienze hanno procurato molto male.

I nemici del Tasso trasformarono la sua vita in una tessitura di infelicità, quelli di Galileo lo fecero gemere in prigione all’età di settant’anni per aver riconosciuto il movimento della terra e la cosa più vergognosa è la condanna alla ritrattazione.

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Da quando i vostri amici cominciarono l’edizione del dizionario enciclopedico, furono dai loro oppositori dileggiati come deisti, atei e perfino giansenisti.

[…] Ma […] ammettete anche che le spine attaccate alla letteratura […] non sono che fiori se paragonati agli altri mali che in ogni epoca hanno inondato la terra. Ammettete che né Cicerone, né Lucrezio, né Virgilio, né Orazio furono gli autori delle proscrizioni di Mario, di Silla, del dissoluto Antonio, dell’imbecille Lepido.

[…] Ammettete che lo scherzo di Marot non ha prodotto la strage di san Bartolomeo e che la tragedia del Cid non ha causato la guerra della Fronda. I grandi crimini sono stati commessi da celebri ignoranti. Trasforma e sempre trasformerà questo mondo in una valle di lacrime l’insaziabile cupidità e l’indomabile orgoglio degli uomini. […] Le lettere nutrono l’anima, […] la consolano e procurano anche la vostra gloria mentre voi scrivete contro di loro.

Rousseau rispose il 10 settembre 1755 Voi vedete bene che non aspiro a ristabilire l’uomo nella sua

animalità, per quanto rimpianga quel poco che ne ho perduto. […] Concordo circa tutte le disgrazie che perseguitano le celebrità delle lettere; concordo inoltre circa tutti i mali che affliggono l’umanità e che sembrano indipendenti dalle nostre vane conoscenze. Gli uomini hanno aperto su se stessi tante fonti di miseria che quando il caso ne devia qualcuna, non ne sono meno inondati. D’altra parte ci sono nel progresso legami nascosti che l’uomo volgare non percepisce ma che non si sottrarrebbero allo sguardo del saggio che vi volesse riflettere. Non sono né […] Cicerone né Virgilio, […] non sono né i sapienti né i poeti che hanno prodotto la sciagura di Roma e i crimini dei romani. Senza però il veleno lento e segreto che impercettibilmente corrompeva il più robusto governo che la storia ricordi, Cicerone e Lucrezio […] non sarebbero esistiti o non avrebbero scritto. […] Il piacere della letteratura si origina presso un popolo da un crescente vizio interiore e se è innegabile che ogni progresso umano è pernicioso per la specie, quello dello spirito e delle conoscenze che accrescono il nostro orgoglio e moltiplicano i nostri smarrimenti, accrescono senza dubbio le nostre sciagure. Ma viene un tempo nel quale il male è tale che le cause che l’hanno prodotto sono necessarie per impedirgli di aumentare. È la spada che bisogna lasciare nella ferita affinché il ferito non muoia estraendola. Se avessi seguito la mia prima vocazione e non avessi né letto né scritto, sarei senza dubbio stato più felice. Tuttavia se ora la letteratura venisse distrutta, sarei privato del solo piacere che mi resta. È in essa che mi consolo di ogni mio

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male. È tra i suoi cultori che assaporo la dolcezza dell’amicizia e imparo a gioire della vita senza timore della morte. Devo loro il poco che sono, devo loro anche l’onore di essere da voi conosciuto.

[…] In questo secolo saccente, però, non si vedono che zoppi ansiosi di insegnare ad altri a camminare. Il popolo accoglie le opere dei saggi per giudicarli e non per istruirsi. […] Se ricercheremo la fonte dei disordini della società, troveremo che tutti i mali degli uomini provengono più dall’errore che dall’ignoranza e che ciò che non sappiamo ci nuoce molto meno di ciò che noi crediamo di sapere. Ora, quale più sicuro mezzo per trascorrere da errore in errore che il furore di sapere tutto? Se non si fosse preteso di sapere che la terra non ruota, non si sarebbe punito Galileo per aver detto che ruota. Se solo i filosofi ne avessero reclamato il titolo, l’Enciclopedia non avrebbe avuto dei persecutori.

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Il contratto sociale

Libro I

Capitolo I L’argomento di questo primo libro L’uomo è nato libero, e dovunque è in catene […] Come si è

verificato questo mutamento? Lo ignoro. Cosa può renderlo legittimo? Credo di poter risolvere tale questione.

Se non considerassi che la forza e l’effetto che ne deriva, direi: “Fin a quando un popolo, costretto ad obbedire, obbedisce, fa bene; se appena può scuotere il giogo, e lo scuote, fa ancora meglio: perché recuperando la propria libertà con lo stesso diritto con il quale gliela si è sottratta, o è giustificato a riprendersela, o era ingiustificato togliergliela”. Ma l’ordine sociale è un diritto sacro, fondamento di tutti gli altri. Tuttavia questo diritto non è fondato nella natura; è dunque fondato su convenzioni. Si tratta di sapere quali sono tali convenzioni.

Capitolo VI Del contratto sociale Suppongo gli uomini giunti a quel punto in cui gli ostacoli che

nuocciono alla loro conservazione nello stato di natura superano, con la loro resistenza, le forze che ciascun individuo può impiegare per mantenersi in quello stato. Allora questo stato primitivo non può più sussistere; e il genere umano perirebbe se non mutasse il suo modo d’essere1.

Ora, poiché gli uomini non possono generare nuove forze, ma solamente unire e dirigere quelle esistenti, non posseggono altro mezzo, per

1 Diversamente da Hobbes, Rousseau postula uno stato di natura non conflittuale.

Il suo abbandono non è tuttavia frutto di libertà, ma di necessità. La pressione delle circostanze fisiche (clima? Insufficienze produttive della natura malamente affrontata?) impone agli uomini l’adozione della decisione di realizzare una società. Come in Hobbes, però, è la ragione a ingiungere all’uomo di uscire dallo stato di natura

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sopravvivere, che formare per aggregazione una somma di forze che possa vincere la resistenza, avviarle con un impulso e farle agire concordemente.

Questa somma di forze non può nascere che dal concorso di molti; ma essendo la forza e la libertà di ciascun uomo i primi strumenti della sua conservazione, come li impiegherà senza nuocere e senza trascurare la cura che deve a se stesso? Questa difficoltà, ricondotta al mio soggetto, può enunciarsi nei seguenti termini:

“Trovare una forma d’associazione che difenda e protegga con tutta la forza comune la persona e i beni di ciascun associato, e per la quale ciascuno, unendosi a tutti, tuttavia non obbedisca che a se stesso, rimanendo così libero come prima”. Questo è il problema fondamentale di cui il contratto sociale offre la soluzione2.

Le clausole di questo contratto sono talmente determinate dalla natura dell’atto, che la minima modifica le renderebbe vane e ne annullerebbe l’effetto3. […] Queste clausole, correttamente intese, si riducono tutte a una sola: cioè, l’alienazione totale di ogni associato con tutti i suoi diritti nell’intera comunità: perché, innanzitutto, dandosi ciascuno interamente, la condizione è uguale per tutti; ed essendo la condizione uguale per tutti, nessuno ha interesse a renderla onerosa agli altri4.

Inoltre, facendosi l’alienazione senza riserve, l’unione è tanto perfetta quanto può esserlo, e nessun associato ha più nulla da reclamare: perché, se rimanesse qualche diritto agli individui, non essendoci alcun superiore comune abilitato a pronunciarsi tra loro e il pubblico, ciascuno, essendo su qualche punto giudice di se stesso, pretenderebbe ben presto di esserlo su tutto; vigerebbe lo stato di natura, e l’associazione diverrebbe necessariamente tirannica o vana.

Infine, dandosi ciascuno a tutti non si dà a nessuno; e non essendoci alcun associato sul quale non si acquisti lo stesso diritto che gli si cede su di sé, si guadagna l’equivalente di tutto ciò che si perde, e maggior forza per conservare ciò che si ha. […] Invece della persona particolare di ciascun contraente, quest’atto associativo produce un corpo morale e collettivo,

2 Il Contratto sociale si propone come una quadratura del cerchio perché intende

coniugare necessità e libertà. Non esiste infatti associazione che non esiga la rinuncia, almeno parziale e temporanea, dell’individuo alla libertà. La socializzazione è, d’altra parte, indispensabile alla sopravvivenza. Come è dunque possibile contemporaneamente salvare la vita e la libertà?

3 Le clausole del contratto promuovono una società perfetta, cioè una società che non può essere migliorata e poiché i termini del contratto sociale sono espressione della ragione, ogni deroga ai suoi princìpi è espressione dell’irrazionalità. Non esistono insomma comunità migliori e comunità peggiori. Esiste invece un’unica società perfetta e razionale a fronte di molte irrazionali.

4 L’uguaglianza è dunque il requisito fondamentale dell’associazione. Sull’uguaglianza Rousseau intende fondare la libertà.

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composto di tanti membri quanti sono i voti dell’assemblea, che riceve da questo stesso atto la sua unità, il suo io comune5, la sua vita e la sua volontà.

Capitolo VII Del sovrano […] È contro la natura del corpo politico che il sovrano si imponga

una legge che non possa infrangere. […] È perciò evidente che non c’è né ci può essere alcun genere di legge fondamentale obbligatoria per il corpo del popolo, nemmeno il contratto sociale6. […] Ciò non significa che questo corpo non possa efficacemente impegnarsi verso altri, in ciò che non rappresenta una deroga a questo contratto; perché, in rapporto allo straniero, diviene un essere semplice, un individuo.

Ma il corpo politico o il sovrano, non ottenendo il proprio essere che dalla santità del contratto, non può mai obbligarsi, anche verso altri, a nulla che deroghi a questo atto primitivo, come alienare qualche porzione di se stesso, o sottomettersi a un altro sovrano. Violare l’atto tramite il quale esiste, equivarrebbe ad annullarsi; e ciò che è nulla non produce nulla7.

[…] Ora il sovrano, non essendo formato che dagli individui particolari che lo compongono, non ha né può avere interessi contrari ai loro; conseguentemente il potere sovrano non ha alcun bisogno di garanzie verso i

5 L’io empirico (o singolo, o sensibile) si distingue (e si oppone) all’io comune.

Quando, al mattino, suona la sveglia posta sul comodino, l’io empirico ambirebbe a riprendere sonno, e ostinatamente insiste per farlo. Le esigenze sociali, l’io comune, costringono invece a fuggire la tentazione e ad abbandonare il riposo. Rousseau definisce l’io comune “corpo morale” perché assume l’introiezione dell’esigenza sociale espressa come ingiunzione. Avendo ogni singolo uomo interamente alienato la propria libertà nella collettività, ha rinunciato al proprio volere: può volere unicamente ciò che vuole la collettività. Abbandona così la libertà naturale, per guadagnare la libertà civile. Dei suoi atti non decide più la sua singolarità empirica, la sua sensibilità. Decide la comunità, cioè la sua ragione, che gli ha comandato di alienare interamente la sua volontà nella collettività. È libero, dunque, non chi riprende il sonno, ma chi si alza con sollecitudine. Le decisioni del corpo collettivo sono decisioni della ragione, e si presentano come comandi giusti (perché razionali). È tuttavia impossibile fondare, come Rousseau pretende, la moralità di un comando sulla sua utilità. Il contratto sociale è stipulato dai contraenti per interesse, dunque per un vantaggio che ciascuno intende ottenere. La morale, per essere tale e non semplicemente sembrare tale, è invece fondata sul completo disinteresse. Rousseau attribuisce al contratto sociale l’identità della necessità e della libertà, ma è ben lungi dal dimostrarne la realtà.

6 Come nessun individuo è vincolato dagli impegni presi con se stesso, così il corpo sociale non è sottomesso alle leggi che si è spontaneamente dato. Il sovrano cioè, in quanto autore delle leggi, può in ogni istante abrogarle.

7 Gli stati possono dunque stipulare reciproci patti, purché il loro contenuto non contempli la deroga, nemmeno parziale, alla sovranità.

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sudditi perché è impossibile che il corpo voglia nuocere ai suoi membri8. […] Il sovrano, per il solo fatto di essere, è tutto ciò che deve essere9.

Ma non è così dei sudditi in rapporto al sovrano, verso il quale, malgrado l’interesse comune, niente garantirebbe il loro impegno, se [il sovrano] non trovasse i mezzi per garantirsi la loro fedeltà10.

In effetti ogni individuo può, come uomo, avere una volontà particolare contraria o dissimile dalla volontà generale che ha come cittadino: il suo interesse particolare può parlargli in modo completamente diverso dall’interesse comune; la sua esistenza assoluta e naturalmente indipendente può fargli considerare ciò che deve alla causa comune come un contributo superfluo, la cui perdita sarà meno nociva agli altri di quanto il pagamento sia oneroso per lui e considerando la persona morale che costituisce lo Stato come un essere di ragione, perché non è un uomo, gioirà dei diritti del cittadino senza voler adempiere i doveri di suddito; ingiustizia il cui progresso causerà la rovina del corpo politico11.

Affinché non sia una formula vana, il patto sociale include

8 Negazione dello stato di diritto: lo stato non può, per definizione, nuocere ai suoi

membri. 9 Le deliberazioni del sovrano sono sempre giuste e sante proprio in quanto

deliberazioni del sovrano. Non possono essere impugnate. È esclusa ogni critica alle decisioni dello stato. La socializzazione integrale dell’uomo non avrebbe potuto produrre risultati differenti. È, naturalmente, negata l’obbiezione di coscienza. È cioè negato il diritto di resistere alle deliberazioni del sovrano perché contraddicenti princìpi morali del suddito. Infatti, aveva scritto Rousseau nel capitolo VI, “se rimanesse qualche diritto agli individui, non essendoci alcun superiore comune abilitato a pronunciarsi tra loro e il pubblico, ciascuno, essendo su qualche punto giudice di se stesso, pretenderebbe ben presto di esserlo su tutto; vigerebbe lo stato di natura, e l’associazione diverrebbe necessariamente tirannica o vana”. La questione è estremamente importante e pone interrogativi anche in rapporto ad organizzazioni politiche che non esigono l’integrale socializzazione dei membri. Se, come avviene nelle democrazie liberali, la legislazione contemplasse circostanze lecite (e quindi anche illecite) per l’obbiezione di coscienza, essa non sarebbe più tale. L’obbiezione di coscienza è infatti un rifiuto ad obbedire alla legge in nome di una superiore autorità indicata nella coscienza del singolo. Non può dunque essere lo stato a stabilire le circostanze in cui le è lecito pronunciarsi perché la pretesa sottometterebbe la voce della coscienza alla supervisione dello stato. L’obiezione di coscienza rappresenta quindi un diritto di appello, per così dire, selvaggio, non passibile di normazione. In tal modo, però, nessuna imposizione può ritenersi legittima. L’esito è il ritorno allo stato di natura o, ma solo il nome è diverso, l’anarchia.

10 Sudditi astuti e ingannatori, dunque. Accettate le clausole del patto sociale, rifiutano successivamente l’obbedienza ai decreti dello stato. Risorge l’io empirico, sensibile, cioè il principio del male, come avversario dell’io comune, della ragione, principio del bene. La completa socializzazione è il paradiso futuro dell’uomo nuovo. Il presente vede l’uomo vecchio, terreno, facile preda delle tentazioni.

11 Rousseau illustra la meccanica del peccato sociale. Un suddito che ricevesse l’ordine di partire per il fronte potrebbe facilmente osservare che, obbedendo, esporrebbe la propria persona al massimo pericolo, mentre la sua diserzione, sottraendo una sola unità da un numeroso esercito, procurerebbe un danno trascurabile allo stato.

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implicitamente questo impegno, che solo conferisce forza agli altri, che chiunque rifiuterà di obbedire alla volontà generale, vi sarà costretto da tutto il corpo: ciò non significa altra cosa se non che lo si costringerà ad essere libero12.

Capitolo VIII Dello stato civile Questo passaggio dallo stato di natura allo stato civile produce

nell’uomo un notevole cambiamento, sostituendo nella sua condotta la giustizia all’istinto, e conferendo alle sue azioni la moralità precedentemente loro mancante. È solo allora che succedendo la voce del dovere all’impulso fisico e il diritto all’appetito, l’uomo […] si vede costretto ad agire con altri princìpi, e a consultare la ragione prima di ascoltare le sue inclinazioni. Benché in questo stato si privi di numerosi privilegi derivantigli dalla natura, ne guadagna di così grandi […] che se gli abusi di questa nuova condizione non lo degradassero spesso al di sotto di quella da cui è uscito13, dovrebbe senza sosta benedire il fortunato istante che l’ha affrancato per sempre e che, di un animale stupido e limitato, ne ha fatto un essere intelligente e un uomo. […] Ciò che l’uomo perde attraverso il contratto sociale, è la sua libertà naturale e un diritto illimitato a tutto ciò che lo attira e che può desiderare; ciò che guadagna è la libertà civile e la proprietà di tutto ciò che possiede14. […] Si potrebbe, inoltre, aggiungere

12 Ossimoro celebre. Naturalmente non è possibile obbligare nessuno ad essere

libero, perché la libertà è spontaneità, che, come tale, non può essere coatta. È possibile costringere qualcuno a fare ciò che non vorrebbe, non a volere ciò che non vorrebbe.

13 La società è il terreno di cultura dell’uomo. Qui realizza pienamente se stesso, perché sviluppa le proprie facoltà. Tuttavia la società può trasformarsi da fattore di sviluppo etico in artefice di corruzione morale. Entrando in relazione con i suoi simili l’uomo può migliorarsi o peggiorarsi, ma non permanere nell’innocenza che caratterizza lo stato di natura, qualificato da Rousseau come al di là del bene e del male. Nello stato di natura l’uomo è infatti buono solo perché non sa (né può) essere malvagio. È, cioè, naturalmente buono, non moralmente buono. Gli istinti vengono giudicati buoni perché intrinsecamente non malvagi. Solo la società corrompe o esalta le prerogative dell’uomo. Non c’è traccia di una corruzione metafisica, di un peccato originale, di una naturale inclinazione al male, come in Hobbes (che scorge nella società l’indispensabile strumento per rendere feconda l’originaria malvagità, non per cancellarla). Il peccato è un fenomeno politico: il cattivo ordinamento sociale corrompe l’uomo. Sarà dunque necessario e sufficiente mutare l’assetto della comunità per correggere le storture umane.

Diversi elementi differenziano il comunismo rousseauiano dal comunismo platonico: il primo è egualitario, il secondo gerarchico (o élitario); il primo afferma l’originaria bontà dell’uomo, il secondo la nega; il primo fonda lo stato sulla razionale salvaguardia dell’interesse di ciascuno, il secondo pone a capo dello stato un filosofo che, contemplando il bene eterno, immutabile e trascendente, costruisce la città ispirandosi al modello.

14 L’uomo è libero quando segue la ragione, non quando è trascinato dagli istinti,

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all’acquisizione dello stato civile la libertà morale, che sola rende l’uomo padrone di sé; perché la spinta del solo appetito è schiavitù, e l’obbedienza alla legge che ci si è prescritta è libertà.

Libro II

Capitolo I La sovranità è inalienabile […] Se l’opposizione degli interessi particolari ha reso necessaria

l’istituzione delle società, è l’accordo di questi stessi interessi che l’ha resa possibile. È ciò che c’è di comune tra i diversi interessi che forma il legame sociale; e se non ci fosse qualche punto in cui tutti gli interessi si accordano, non potrebbe esistere nessuna società. Ora, è unicamente su questo interesse comune che la società deve essere governata15.

Sostengo dunque che la sovranità, non essendo che l’esercizio della volontà generale, che non è altro che un essere collettivo, non può essere rappresentata che da se stessa: il potere può trasmettersi, ma non la volontà16.

In effetti, se non è impossibile che una volontà particolare si accordi in qualche punto con la volontà generale, è quantomeno impossibile che questo accordo sia durevole e costante; perché la volontà particolare tende, per sua natura, verso le preferenze, e la volontà generale all’uguaglianza17. […] Se dunque il popolo promette semplicemente di obbedire, per questo stesso atto si dissolve, perde la sua specificità di popolo; non appena c’è un padrone, non c’è più un sovrano, e da allora il corpo politico è distrutto.

anche se spesso è convinto del contrario.

15 Viene ribadita l’affermazione che l’interesse dei contraenti rappresenta il legame del contratto

16 È infatti possibile incaricare altri dell’attuazione di una decisione senza derogare alla propria sovranità. Non è invece possibile alienare ad altri la facoltà di decidere.

17 Il popolo non può dunque alienare la propria volontà nelle mani di un terzo (come pretendeva Hobbes, che aveva cercato di mostrare la convenienza degli interessi del sovrano e del popolo), perché l’individuo opera in vista del personale e non del comune vantaggio. L’eventuale accordo dei fini (e dei mezzi) è questione di fatto, non di diritto. Può cioè contingentemente verificarsi, ma non rappresenta una necessità.

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Capitolo II La sovranità è indivisibile Come la sovranità è inalienabile, così è indivisibile; perché la volontà

o è generale o non lo è18; è quella del corpo politico, o solamente di una sua parte19. Nel primo caso, questa dichiarata volontà è un atto di sovranità e crea la legge; nel secondo non è che una volontà particolare, o un atto di magistratura; tutt’al più è un decreto20.

Ma i nostri politici, non potendo dividere la sovranità nel suo principio, la dividono nel suo oggetto21: […] la dividono in potere legislativo e in potere esecutivo. […] Fanno del sovrano un essere fantastico e formato di parti giustapposte.

[…] Questo errore proviene dal non essersi fatti delle nozioni esatte della sovranità, e dall’aver preso per parti di questa autorità ciò che non erano che delle emanazioni. Così, ad esempio, si è considerato l’atto di dichiarare guerra e quello di concludere la pace come atti di sovranità; ciò che non è, perché nessuno di questi atti è una legge, ma solamente un’applicazione della legge, un atto particolare che determina il caso della legge.

[…] Ci si inganna ogniqualvolta si crede di vedere la sovranità divisa; […] i diritti ritenuti parti della sovranità gli sono subordinati, e suppongono sempre delle volontà supreme di cui questi diritti non offrono che l’esecuzione.

18 La volontà generale non conosce limiti, altrimenti non sarebbe generale. Non

possono esistere dunque più centri decisionali. Potere legislativo, esecutivo e giudiziario sono unificati.

19 Se la volontà non è generale, appartiene solamente ad una parte del corpo politico.

20 Il potere autentico della volontà generale è il legislativo. L’esecutivo non è, propriamente, il potere della volontà generale, limitandosi ad attuare la decisione del legislativo.

21 La sovranità è, per principio, indivisibile perché la decisione è un atto unitario, anche se può nascere da un compromesso (che, proprio in quanto tale, è una decisione comune, cioè unitaria). Può però essere divisa in quanto l’oggetto possiede numerosi aspetti. Così, ad esempio, una legge di riforma della scuola (che è una decisione, in quanto tale unitaria, della volontà generale) esige che il testo della legge venga comunicato agli organi periferici, che vengano iniziate le operazioni necessarie ad attuare la riforma, che venga punito chi disattende la sua attuazione, ecc. L’esecuzione della legge non è un atto di sovranità e quindi non la divide, ma i “nostri politici” cui si riferisce Rousseau, dividendo i momenti dell’esecuzione, credono di dividere la decisione. La dividono, cioè, “nel suo oggetto”.

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Capitolo III Se la volontà generale può errare Da quanto precede segue che la volontà generale è sempre retta e

tende sempre all’utilità pubblica22: ma non segue che le deliberazioni del popolo abbiano sempre la stessa rettitudine. Si vuole sempre il proprio bene, ma non lo si vede sempre23: non si corrompe mai il popolo, ma sovente lo si inganna, ed è solo allora che sembra volere ciò che è male.

C’è spesso una differenza tra la volontà di tutti e la volontà generale; questa non concerne che l’interesse comune; l’altra concerne l’interesse privato, e non è che una somma di volontà particolari24: ma cancellate da queste stesse volontà il più e il meno che si elidono reciprocamente, rimane come somma delle differenze la volontà generale.

Se, quando un popolo sufficientemente informato delibera, i cittadini non avessero alcuna reciproca comunicazione, dal grande numero delle piccole differenze risulterebbe sempre la volontà generale, e la deliberazione sarebbe sempre buona25. Ma quando si formano dei partiti, delle associazioni parziali a danno della grande, la volontà di ciascuna delle associazioni diviene generale in

22 L’indefettibile applicazione della massima di amare il proprio prossimo come se

stessi, se privata di essenziali specificazioni, non sortisce necessariamente l’effetto desiderato. Se fosse infatti rivolta ad un gruppo di masochisti, gli esiti sarebbero devastanti. Bisognerebbe preliminarmente specificare che la massima prescrive innanzitutto di amare se stessi. Così non si può escludere che una comunità si avvii alla catastrofe anche se, in virtù del contratto sociale, nessuno ha interesse a rendere onerose ad altri le clausole della convivenza. Se i singoli si ingannano circa il loro bene (o il loro utile) non si vede come non possa ingannarsi la comunità che della volontà dei singoli è l’espressione, prescindendo da ogni occulto disegno ordito da misteriosi terzi. Appare qui il pericoloso limite dell’argomentazione rousseauiana. Il filosofo platonico contemplando il Bene immutabile e trascendente modella la città. Il popolo rousseauiano non ha invece alcun sentore di valori trascendenti ciò che ritiene essere il proprio interesse. Per Rousseau è l’accordo tra gli uomini resi tutti uguali che rende la città giusta, per Platone è la capacità di ordinarla seguendo una misura eterna che pochi riescono a scorgere. Per Rousseau, insomma, la giustizia è un prodotto della decisione umana, per Platone un dono degli dei.

23 Affermazione di sapore socratico, che contraddice l’esperienza quotidiana. 24 Ciascun cittadino può valutare l’incidenza di un provvedimento politico in

rapporto al proprio individuale vantaggio. Dalla somma delle opinioni nasce la volontà di tutti. Può però anche valutarne l’incidenza in rapporto al vantaggio comune. Esprimerà allora una personale opinione, differente da molte altre, non riferendosi all’interesse privato, ma al bene pubblico. Nasce così la volontà generale.

25 Se nessuno può sperare di rendere vantaggiosa per sé la deliberazione politica (perché non può influenzarla con la sua isolata e individuale iniziativa) allora cercherà di renderla non onerosa per ciascuno. Poiché l’associazione in partiti permette di rendere efficaci gli interessi privati, è necessario che i votanti esprimano in un completo isolamento la propria opzione.

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rapporto ai suoi membri, e particolare in rapporto allo Stato26: si può allora dire che non ci sono più tanti votanti quanti uomini, ma solamente quante associazioni. Le differenze divengono meno numerose e offrono un risultato meno generale. Infine quando una di queste associazioni è così grande che supera tutte le altre, non si ha più per risultato una somma di piccole differenze, ma una differenza unica; allora non c’è più una volontà generale, e l’opinione che domina non è che un’opinione particolare27.

Occorre dunque, per avere il reale pronunciamento della volontà generale, che non ci siano società particolari nello Stato, e che ogni cittadino non si pronunci che da solo […] Se ci sono società parziali, occorre moltiplicarne il numero e prevenirne l’ineguaglianza […] Queste sono le uniche precauzioni efficaci affinché la volontà generale sia sempre manifestata, e che il popolo non si inganni mai.

Capitolo IV Dei limiti della volontà generale Come la natura dà a ciascun uomo un potere assoluto su tutti i suoi

membri, il patto sociale dà al corpo politico un potere assoluto su tutti i suoi28; ed è questo stesso potere che, diretto dalla volontà generale, porta […] il nome di sovranità.

Ma oltre la persona pubblica, noi dobbiamo considerare le persone private che la compongono, e la cui vita e libertà sono naturalmente indipendenti da essa. Bisogna dunque distinguere i diritti rispettivi dei cittadini e del sovrano.

[…] Si riconosce che tutto ciò che ciascuno aliena, tramite il patto sociale, del proprio potere, dei propri beni, della propria libertà, è solamente la porzione di tutto ciò il cui uso coinvolge la comunità; ma bisogna anche

26 Quando il partito e non lo stato rappresenta gli interessi del cittadino, nel partito

e non nello stato il cittadino aliena la propria volontà. Il vantaggio del partito è il suo stesso vantaggio. Valuterà allora le iniziative del partito non riferendole al personale vantaggio, ma giudicandole alla luce dell’interesse del raggruppamento cui appartiene. Quando (e se) l’interesse personale e l’interesse del partito dovessero divaricarsi, nulla impedisce all’aderente di uscire dall’associazione.

27 È la volontà della maggioranza, intesa come somma degli interessi individuali, che è altra cosa dalla volontà della maggioranza come espressione della volontà generale. Rousseau ha indicato un metodo, una procedura per l’individuazione della volontà generale.

28 Metafora organicistica dello stato, che esprime adeguatamente la subordinazione e il riassorbimento completi dell’individuo entro il potere politico. Nessuna parte del corpo può infatti sopravvivere separata dal complesso cui appartiene né può rivendicare una volontà diversa dalla volontà generale.

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convenire che il sovrano solo è giudice di questa importanza29. […] Il sovrano, da parte sua, non può legare il soggetto con alcuna catena inutile alla comunità: non può nemmeno volerlo; perché, sotto la legge della ragione, niente è fatto senza una causa, più di quanto non avvenga sotto la legge di natura30.

[…] La volontà generale, per essere veramente tale, deve esserlo tanto nel suo oggetto quanto nella sua essenza31 […] e […] perde la sua rettitudine naturale quando tende a qualche oggetto individuale e determinato. […] Quanto generalizza la volontà è meno il numero delle voci che l’interesse comune che le unisce32. […] Il patto sociale stabilisce tra i cittadini una tale eguaglianza, che tutti si impegnano sotto le medesime condizioni e devono fruire di tutti i diritti. […] Ogni uomo può pienamente disporre di quanto gli è stato lasciato dalle convenzioni [sociali] dei suoi beni e della sua libertà33; così

29 Ciascun cittadino possiede unicamente quei diritti, perennemente revocabili, che

lo stato gli accorda che gli vengono elargiti non perché ritenuti inderogabile strumento dell’esercizio dei diritti personali, ma perché inutilizzabili contro lo stato.

30 Natura nihil facit frustra né alcunché di dannoso per sé. Il cosmo politico conosce un’ecologia dalla struttura non differente dall’ecologia del cosmo naturale.

31 Deve, cioè, non solo esprimere la volontà unitaria di tutti coloro che hanno alienato la personale volontà tramite il contratto sociale, ma deve anche riferirsi ad oggetti universali. La volontà generale così è il potere legislativo (lex, ligare), che, in quanto tale, si esercita su un universo di oggetti, reciprocamente legati. Il potere esecutivo si occupa invece di applicare le decisioni ai singoli casi, cioè di declinarle. Il potere legislativo è il potere delle regole, il potere esecutivo è il potere della sussunzione del caso particolare alla regola. Che il peso lordo sia equivalente al peso netto aggiunto alla tara, che il peso netto sia la tara sottratta al peso lordo, e che la tara sia il peso netto sottratto al peso lordo, è una regola. Applicare la formula, cioè scoprire come applicare la regola (quale dei dati sia peso netto, quale tara e quale peso lordo) significa sussumere il caso particolare alla regola. Significa valutare se il caso particolare, il dato preso in esame, rientra (e in quale modo) nella regola, vi sta sotto. La capacità di concepire le regole è molto diversa dalla capacità di applicarle. È infatti possibile conoscere l’intera sintassi e tutto il lessico latino senza per ciò riuscire a tradurre una sola proposizione. È possibile conoscere l’intera anatomia, l’intera fisiologia, l’intera patologia dell’organismo umano senza riuscire a formulare una diagnosi. L’incapacità di applicare una regola, cioè di eseguire, è da Kant (eloquentemente) denominata “grullaggine”. Il potere esecutivo, contaminandosi con l’individuale, non può essere legge, ma solo decreto. La volontà generale, avendo riposto il proprio valore e il proprio significato nell’eguaglianza, non può occuparsi di decisioni che concernono individui. Potremmo anche dire che il potere esecutivo interpreta il potere legislativo proprio in quanto deve scegliere (non certo arbitrariamente, cioè senza attinente motivazione) le modalità della sua applicazione. La distinzione tra potere legislativo e potere esecutivo non equivale ad una bipartizione del potere, perché il luogo della decisione delle regole rimane il legislativo. Per usare una terminologia già introdotta: l’esecutivo incarna il potere, non la volontà.

32 La volontà generale non è espressa dal numero. La volontà della maggioranza non è automaticamente la manifestazione della volontà generale. Chi allora conosce la volontà generale? E attraverso quale strumento riesce ad appurarla?

33 La libertà, intesa come sfera di autodeterminazione privata, conosce una restrizione maggiore nel rousseauianesimo che nell’hobbesismo. Qui è ridotta a ciò che le leggi non proibiscono, là in ciò che consentono. Qui è lecito tutto ciò che non è contemplato, là è

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che il sovrano non ha mai il diritto di oberare un soggetto più di un altro perché in tal caso, divenendo la questione particolare, il suo potere non è più competente.

Ammesse queste distinzioni, è falso che nel contratto sociale ci sia, da parte dei singoli, alcuna autentica rinuncia. […] La loro situazione, per effetto di questo contratto, si trova realmente preferibile a quella precedente. […] Invece di un’alienazione non si è fatto che uno scambio vantaggioso tra una maniera di essere incerta e precaria e un’altra migliore e più sicura. […] La […] stessa vita, che hanno devoluto allo Stato, risulta continuamente protetta; e quando l’espongono per la sua difesa, cosa fanno se non rendere ciò che hanno da lui ricevuto? Che cosa fanno che non facessero più frequentemente e con maggior pericolo nello stato di natura, quando, ingaggiando battaglie inevitabili, difendevano a rischio della loro vita ciò che serviva a conservarla?34

Capitolo VI Della legge […] Quando affermo che l’oggetto della legge è sempre generale,

intendo dire che la legge considera i soggetti in quanto corpo [collettivo] e le azioni come astratte, mai un uomo come individuo né un’azione particolare. Così la legge può certamente stabilire dei privilegi, ma non li può attribuire nominalmente a nessuno; la legge può istituire diverse classi di cittadini […] ma non può includervi un tale o un altro35.

[…] Definisco dunque repubblica ogni Stato retto dalle leggi, qualunque sia la sua amministrazione. […] Ogni governo legittimo è repubblicano. […] Le leggi non sono propriamente che le condizioni dell’associazione civile. Il popolo, sottomesso alle leggi, ne deve essere l’autore. […] Come una moltitudine cieca, che spesso non sa ciò che vuole, perché raramente conosce il proprio bene, compirebbe un’impresa così grande, così difficile come un sistema legislativo36? […] La volontà generale è sempre retta,

proibito tutto ciò che non è contemplato.

34 Rousseau dimentica di aver precedentemente posto lo stato di natura come pacifico.

35 La legge potrà, ad esempio, stabilire che tutti i reduci di guerra che hanno riportato ferite invalidanti hanno diritto ad una pensione, ma non potrà individuare gli ex-combattenti, le specifiche persone. Sarà il potere esecutivo a dichiarare che il cittadino X Y ha diritto ad usufruire o a non usufruire della pensione di invalidità.

36 Le espressioni spregiative qui impiegate da Rousseau non contraddicono gli elogi precedentemente tributati al popolo. Bisogna infatti distinguere il popolo reale, il popolo, cioè, di carne e di sangue, il popolo storicamente esistente, dal popolo ideale, il popolo esistente nella mente e nell’attesa di Rousseau. Solo il secondo è capace di scorgere e di realizzare il

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ma il giudizio che la guida non è sempre illuminato. Bisogna mostrargli gli oggetti quali sono, qualche volta come devono apparirgli, mostrargli il buon itinerario che sta cercando, garantirlo dalle seduzioni delle volontà private, avvicinare ai suoi occhi i luoghi e i tempi, bilanciare l’attrazione dei vantaggi presenti e sensibili con il danno dei mali lontani e nascosti. Gli individui vedono il bene che rifiutano, il pubblico vuole il bene che non vede. […] Ecco donde nasce la necessità di un legislatore.

Capitolo VII Del legislatore Per scoprire le regole sociali che meglio si addicono alle nazioni,

occorrerebbe un’intelligenza superiore che vedesse ogni passione umana senza provarne alcuna; che non avesse alcun rapporto con la nostra natura, e che la conoscesse a fondo; il cui bene fosse indipendente da noi, e che ciononostante di noi volesse occuparsi. […] Occorrerebbero degli dei per dare le leggi agli uomini37.

[…] Ma se è vero che un gran principe è un uomo raro, cosa dire di un gran legislatore38? Il primo si limita a seguire il modello proposto dall’altro. […] Quando nascono le società, dice Montesquieu, sono i capi della repubblica che fanno l’istituzione, ma poi è l’istituzione che forma i capi della repubblica39.

Chi osa iniziare l’istituzione di un popolo deve sentirsi capace di cambiare, per così dire, la natura umana40, di trasformare ogni individuo, che in

proprio bene, il primo deve essere sapientemente educato e diretto da un saggio legislatore.

37 Affermazione apparentemente paradossale, ma che testimonia la sagacità non meno dell’astrattezza della riflessione rousseauiana. Non bastano le volontà umane unificate nella volontà generale a creare buone leggi? Il popolo può essere ingannato ma mai corrotto, può accadere che voglia un bene che tuttavia non vede. Il popolo verso il quale Rousseau è fiducioso non è il popolo reale, storico, esistente, ma un popolo ideale, appartenente ad un inverosimile futuro, un ideale, un progetto geometricamente perfetto ma, per ciò stesso, irrealizzabile. Il Contratto sociale si propone due obbiettivi: 1) disegnare la fisionomia della società perfetta 2) misurare la distanza tra la società perfetta (il futuro) e l’attuale configurazione sociale (cioè dell’uomo quale attualmente è) contemporaneamente indicando l’itinerario e gli espedienti che permettano la transizione della seconda alla prima.

38 Il principe dispone unicamente del potere esecutivo. 39 Le istituzioni (e quindi, a maggior ragione, le leggi) creano una mentalità. Il

potere pubblico possiede sempre un’immensa autorità morale a cui è difficilissimo sfuggire. Chi osa sottrarvisi, in nome di un superiore ideale o, ancora peggio, in nome della propria irriducibile individualità, è inesorabilmente punito (es.: Socrate).

40 Affermazione terribile, se assunta in senso forte. È ragion d’essere del totalitarismo, sua specifica fisionomia, l’aspirazione a mutare la natura umana. L’osservazione viene solo apparentemente mitigata precisando che Rousseau si riferisce alla sostituzione all’uomo naturale (in sé buono unicamente perché incapace di essere buono o cattivo essendo la

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se stesso è una totalità perfetta e solitaria in parte di un tutto più grande da cui quest’individuo riceve in qualche modo la vita e l’esistenza; di alterare la costituzione dell’uomo per rinforzarla; di sostituire una esistenza parziale e morale41 all’esistenza fisica e indipendente che abbiamo ricevuto dalla natura. Bisogna, in una parola, che tolga all’uomo le sue forze per donargliene di estranee, e che non possa impiegare senza l’altrui concorso. Più queste forze naturali sono morte e annientate, più le acquisizioni sono grandi e durevoli, più, inoltre, l’istituzione è solida e perfetta: così che se ciascun cittadino è niente, né qualcosa può se non attraverso tutti gli altri, […] si può dire che la legislazione ha raggiunto il più alto grado di perfezione42.

Il legislatore è sotto ogni rispetto un uomo straordinario all’interno dello stato. Se è necessario che lo sia per la sua intelligenza, non è meno necessario che lo sia per la sua esemplarità. […] Era abitudine delle città greche riservare agli stranieri l’istituzione delle loro [leggi … e i romani si videro prossimi alla dissoluzione] per aver riunito sotto la medesima autorità il potere legislativo e il potere sovrano.

[…] Chi redige le leggi né ha né deve avere alcun potere legislativo, e il popolo stesso non può, quand’anche lo volesse, spogliarsi di questo diritto inalienabile43.

coscienza, organo di distinzione del bene e del male, un prodotto sociale) dell’uomo culturale. La transizione si risolverebbe in una realizzazione, in un dispiegamento di doti implicite nell’uomo naturale, aristotelicamente: in un’attualizzazione di energie latenti. La trasmutazione non sarebbe quindi uno stravolgimento ma una riappropriazione. È tuttavia senza residui la socializzazione pretesa dal contratto sociale. Non conservando l’uomo singolo alcuna emergenza dalla comunità, la sua individualità è cancellata. Per l’alienazione integrale della volontà (poco importa se, rousseauianamente, di ciascuno in ciascun altro o, hobbesianamente, a vantaggio di un terzo) è cancellata l’obbiezione di coscienza, che salvaguarda la libertà individuale.

L’espressione di Rousseau mostra inoltre tutta la distanza che lo separa da Hobbes. Per il primo il contratto sociale muta l’uomo, che smette di essere un animale stupido per trasformarsi in essere libero e intelligente. Rousseau pensa che ogni malanno abbia radice nell’irrazionale ordinamento della società e che, cancellate le sue disarmonie, l’individuo sia guarito da ogni peccato. Hobbes è invece assai meno utopista. L’uomo non smette il suo abito ferino entrando in una società costruita non per mutare la natura dei suoi membri ma per impiegare, fin dove è possibile, la radicale e inestirpabile malvagità dei componenti per il maggior bene possibile. Insomma, per Rousseau, ma non per Hobbes, la socializzazione cancella la malvagità umana.

41 Parziale perché per il contratto sociale ciascuno può agire solamente tramite ciascun altro. La comunità rousseauiana è inoltre un corpo morale e collettivo.

42 Rousseau deprime inesorabilmente l’io empirico (naturale) a vantaggio dell’io comune (sociale). Il finito, l’io empirico, viene disprezzato in quanto artefice del male. Sua specificità è, per il pensatore ginevrino, un pervicace, capriccioso, egoismo, un’inaccettabile irrazionalità. Il finito si presenta così, per essenza, come distorsione da raddrizzare, dove possibile, e da estirpare dove impossibile. La volontà generale si incarica del compito. Manca in tutto il Contratto sociale la cognizione dell’io personale, la cognizione del finito come positivo.

43 Al popolo appartiene la prerogativa di approvare le leggi, cioè di legiferare, ma

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[…] Così si ritrovano nell’attività legislativa due realtà apparentemente inconciliabili: una decisione che supera le forze umane e, per eseguirla, un’autorità che è nulla44.

C’è un’ulteriore difficoltà che merita attenzione. I saggi che vogliono parlare al popolo col loro linguaggio non potrebbero essere compresi45. Ci sono migliaia di pensieri che è impossibile tradurre nel linguaggio del popolo. Le prospettive troppo generali e gli oggetti troppo lontani sono al di là della sua portata: ogni individuo, non riuscendo ad apprezzare del governo che quanto si riferisce al suo personale interesse, difficilmente percepisce il vantaggio che deve attendersi dalle continue privazioni imposte dalle buone leggi46. Affinché un popolo neonato potesse gustare le sane massime della politica e seguire le regole fondamentali della ragion di Stato, occorrerebbe che l’effetto potesse divenire la causa, che lo spirito sociale, opera dell’istituzione, presiedesse alla

la proposta di legge è allogena. Rousseau sospetta che il popolo, per pigrizia, ambisca ad alienare il proprio potere. Gli ricorda allora i suoi doveri (che sono anche necessità sotto il profilo logico).

44 Il legislatore, l’uomo che propone le leggi, dispone di una vista penetrante, che oltrepassa l’orizzonte comune. Le sue decisioni sono connotate da una profonda saggezza, che di molto supera il comune raziocinio umano. Il suo potere è tuttavia nulla, perché l’approvazione delle leggi pertiene al popolo.

45 Il saggio è isolato non solo perché scorge problematiche e realtà che si sottraggono all’occhio della maggioranza degli uomini, ma anche perché non riesce a comunicarle. Non potrebbe infatti accadere che il saggio, viste cose che agli altri sfuggono, riuscisse ad indicarle, così da non essere più il solo a conoscerle.

46 L’individuo è cioè miope perché abbarbicato alla propria finitezza (sensibilità), al proprio io empirico. Ma non aveva in precedenza Rousseau sostenuto che la volontà generale (sempre retta) sarebbe scaturita da una votazione nella quale non si fossero costituiti partiti? Perché ora il popolo non potrebbe, votando le proposte del legislatore, approvarle? Le proposte del legislatore non sono l'espressione di quella volontà generale che il singolo non può apprezzare, ma che il popolo non può mancare di riconoscere? Ricompare la differenza tra il popolo perfetto, ma inesistente, e il popolo quotidiano, imperfetto ma reale. Il contratto sociale rappresenta la fabbricazione del popolo ideale, del popolo che sarà. È un’operazione trascendentale, cioè di fondazione, non di ciò che esiste nella storia, ma di ciò che il pensatore ginevrino si attende giunga ad esistenza proprio attraverso l’astuta pedagogia del legislatore e l’opera paziente delle buone leggi. Si precisano qui le annotazioni e gli avvertimenti circa l’inutilità di un apparato giuridico deputato alla difesa del cittadino dallo stato e invece l’indispensabilità di misure capaci di tutelare il corpo sociale dalle defezioni dell’individuo. Ma allora, chi riconosce la razionalità di quell’azione che produce il Contratto sociale? Non si tratta solamente di informare l’uomo dei termini del contratto, di mostrargli i suoi infiniti vantaggi. Non basta produrre un rischiaramento dell’intelletto perché nessun rischiaramento intellettuale può prodursi senza un’adeguata propedeutica. Il popolo non basta a se stesso, ha bisogno di guide capaci di stratagemmi. É dunque inutile, anzi, dannoso, dire la verità. È indispensabile, per il suo stesso bene, utilizzare l’inganno. Ancora: posta la futura emancipazione del popolo, quando e chi deciderà della sua avvenuta maturazione? Rousseau stima il popolo meno di quanto Platone stimasse gli uomini in cui prevale l’anima concupiscibile. Per il primo la persuasione poteva essere indotta solamente dalla parola di una divinità, per il secondo bastava il decreto del filosofo.

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stessa istituzione; e che gli uomini fossero prima delle leggi ciò che devono divenire per loro tramite. Così, dunque, il legislatore non potendo impiegare né la forza né la ragione, necessariamente deve ricorrere ad un’autorità di diverso ordine, capace di trascinare senza violenza e persuadere senza convincere.

Ecco ciò che costringe i padri delle nazioni di ogni tempo a ricorrere all’intervento del cielo […] affinché i popoli, sottomessi alle leggi dello Stato come alle leggi della natura47 […] obbedissero spontaneamente e portassero docilmente il giogo della felicità pubblica. Questa sublime motivazione, che si eleva oltre lo sguardo degli uomini volgari, induce il legislatore ad attribuire le [proprie] decisioni alla volontà degli immortali, per trascinare attraverso l’autorità divina chi non potrebbe essere smosso dalla saggezza umana48. Ma non tutti gli uomini possono far parlare gli dei, né spacciarsi per loro credibili interpreti. La grande anima del legislatore è il vero miracolo capace di provarne la missione49. Chiunque […] può fingere un segreto commercio con qualche divinità. […] Chi [però] non saprà fare altro potrà anche raccogliere casualmente una masnada di insensati, ma non fonderà mai un impero, e la sua stravagante opera morirà con la sua persona. Un illusorio prestigio rappresenta un legame passeggero, solo la saggezza lo rende duraturo. La legge giudaica, tuttora sussistente […] che da dieci secoli regge la metà del mondo, testimonia ancor oggi la grandezza degli uomini che l’hanno dettata; e per quanto l’orgogliosa filosofia o il cieco spirito di parte non vi vedano che imposture, l’autentico politico ammira la grande e possente intelligenza che presiede alle decisioni durevoli50.

Con ciò non è necessario concludere […] che la politica e la religione abbiano un oggetto comune, ma che, nell’origine delle nazioni, l’una è strumento dell’altra.

47 Le leggi di natura vengono accettate non solo con la rassegnazione di chi ne

conosce l’ineluttabilità, ma anche con la serenità di chi ne percepisce la saggezza. 48 L’uomo segue assai più facilmente l’autorità che la ragione. 49 Il legislatore deve dunque possedere ciò che, in termini weberiani, potremmo

definire potere carismatico. 50 Disprezzare le sentenze religiose che reggono le costituzioni politiche di

numerosi popoli come imposture inventate dai preti, significa mostrare la propria pochezza intellettuale, incapace di scorgere l’eccezionale rilievo che la finzione riveste nell’economia della società. Rousseau conclude dunque che, per il bene del popolo, è non solo lecito, ma addirittura auspicabile essere ingannato. Si ripropone allora drammaticamente la domanda che attraversa tutta la riflessione del Contratto sociale: chi conosce la volontà generale?

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Libro III

Capitolo I Del governo in generale […] Ogni azione libera ha due cause che concorrono a produrla:

l’una morale, cioè la volontà che determina l’atto: l’altra fisica, cioè il potere che la esegue. Quando mi dirigo verso un oggetto, occorre innanzitutto che voglia andarvi, secondariamente che i miei piedi mi ci portino. […] Il corpo politico possiede gli stessi moventi: vi si distinguono […] la forza e la volontà; questa sotto il nome di potere legislativo, l’altra sotto il nome di potere esecutivo.

[…] Abbiamo visto che il potere legislativo appartiene al popolo, e non può che appartenere che a lui. Al contrario, è facile vedere […] che il potere esecutivo non può appartenere alla generalità come legislatrice o sovrana, perché questo potere non consiste che in atti particolari che non sono di pertinenza della legge, né di conseguenza del sovrano, i cui atti non possono essere che leggi. […] Ecco qual è, nello Stato, la ragion d’essere del governo, erroneamente confuso col sovrano, di cui non è che un ministro.

Cos’è dunque il governo? Un corpo intermedio posto tra i sudditi e il sovrano […] preposto all’esecuzione delle leggi e al mantenimento della libertà tanto civile che politica.

I membri di questo corpo si chiamano magistrati o re, cioè governatori; e il loro corpo intero porta il nome di principe. Ha così pienamente ragione chi pretende che l’atto tramite il quale un popolo si sottomette a dei capi non è in nessun modo un contratto. Non è che una commissione, un incarico, in cui semplici ufficiali del sovrano esercitano in suo nome il potere di cui li ha fatti depositari. [Il sovrano] può limitare, modificare e riprendere il proprio potere] quando ritiene opportuno.

[…] Definisco dunque governo o suprema amministrazione l’esercizio legittimo del potere esecutivo, e principe o magistrato l’uomo o il corpo incaricato di questa amministrazione.

È nel governo che sono riposte le forze intermediarie. […] Se il sovrano vuol governare, o se il magistrato vuol fare le leggi, […] la forza e la volontà non agiscono più coordinatamente e lo stato dissolto precipita nel dispotismo o nell’anarchia.

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XXXI

Capitolo XV Dei deputati o rappresentanti Non appena il servizio pubblico smette di essere la principale

occupazione dei cittadini51 e preferiscono servire con la loro borsa che con la loro persona, lo stato è già vicino alla rovina. Bisogna andare in guerra? Pagano le truppe e restano a casa. Bisogna andare al consiglio? Nominano dei deputati e rimangono a casa. A forza di pigrizia e di rappresentanti, ottengono dei soldati per asservirlo e dei rappresentanti per venderlo.

Sono le preoccupazioni del commercio e delle arti52, l’avido interesse del guadagno, la mollezza e l’amore delle comodità, che trasformano le prestazioni personali in denaro.

[…] Più solidamente è costituito lo stato, più, nello spirito dei cittadini, gli affari pubblici prevalgono sui privati. Ci sono anche molti meno affari privati, perché la somma dei beni comuni fornendone a ciascuno una porzione più rilevante, gliene resta meno da cercare nelle preoccupazioni particolari53. […] Non appena qualcuno dice dello Stato: che cosa mi importa? si deve stimare perduto lo Stato.

L’intiepidirsi dell’amore per la patria54, l’esercizio degli interessi privati55, le dimensioni dello Stato56, le conquiste57, l’abuso del governo58, hanno

51 Il servizio pubblico smette di essere la principale occupazione dei cittadini non

appena si profilano gli interessi privati, che Rousseau mostra di disprezzare e temere come la maggiore minaccia all’integrità dello stato.

52 Correttamente Rousseau individua nel commercio e nelle arti la sfera degli interessi privati, che l’età moderna ha visto svilupparsi a dismisura. L’accrescimento della ricchezza è legato al loro incremento. L’atteggiamento moralistico del Contratto sociale spinge il suo autore a sottovalutarne l’importanza. Rousseau vorrebbe un popolo di virtuosi interamente dediti al pubblico bene e immagina che l’antichità l’abbia conosciuto.

53 Se cresce l’attenzione per il bene pubblico, cresce anche la ricchezza comune e quindi aumenta la porzione riservata a ciascun cittadino.

54 Ecco il primo fattore di disgregazione: un elemento sociologico. 55 Un secondo elemento di natura economica. 56 Terza componente, di natura politica. Innegabilmente nel cittadino si affievolisce

la percezione (e la persuasione) dell’importanza del proprio contributo alla comunità in misura direttamente proporzionale alle sue dimensioni. È un problema non trascurabile delle democrazie di massa. Per Rousseau, che è un democratico antiliberale, cioè totalitario, libero non è l’uomo in quanto riesce a resistere al potere ritagliandosi una sfera di assoluta autonomia. Libero è l’uomo in quanto partecipa alle decisioni. La disaffezione verso la politica ferisce quindi in maniera assai più grave, in maniera addirittura mortale, il democratico. Se libertà significa infatti partecipazione alle decisioni, il rifiuto, o anche solo la freddezza, verso i luoghi e i tempi delle deliberazioni collettive equivale alla morte della libertà. Per il liberale, invece, che concepisce la libertà come esercizio di attività poste oltre ogni possibile interferenza del potere pubblico, l’indifferenza per la vita politica rappresenta l’affermazione della libertà. Migliore è lo stato che meno esige in termini di contributo alla realizzazione della res publica e che minori impedimenti frappone al pieno dispiegamento delle energie dell’individuo completamente

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fatto escogitare l’espediente dei deputati o rappresentanti del popolo nelle assemblee della nazione.

[…] La sovranità non può essere rappresentata, per la stessa ragione per cui non può essere alienata; consiste essenzialmente nella volontà generale, e la volontà non si rappresenta. […] I deputati del popolo dunque non sono né possono essere i suoi rappresentanti, non ne sono che i commissari. […] Gli inglesi pensano di essere liberi. Si sbagliano di grosso; non lo sono che durante l’elezione dei membri del parlamento: non appena sono stati eletti, [gli inglesi] sono schiavi, sono nulla59. L’uso che fanno del breve momento della libertà, merita pienamente che la perdano.

L’idea dei rappresentanti è moderna: ci proviene dal governo feudale, questo iniquo e assurdo governo nel quale la specie umana è degradata e dove il nome dell’uomo è disonorato60. Nelle antiche repubbliche e anche nelle monarchie mai il popolo ebbe dei rappresentanti; il termine era sconosciuto.

[…] Nel potere legislativo il popolo non può essere rappresentato; ma può e deve esserlo nel potere esecutivo. […] Ciò dimostra che ben esaminando si troverà che pochissime nazioni hanno delle leggi.

autonomo. Stiamo perciò ascoltando una sciocchezza quando sentiamo qualche sprovveduto dichiarare: “Siamo in democrazia, quindi io (inteso come individualità astratta dalla comunità) faccio ciò che voglio”. La democrazia esige infatti che ciascuno si adegui perfettamente alle decisioni prese dal popolo. La democrazia è, nella sua essenza, nella sua versione pura, non declinata da alcun aggettivo, totalitaria. “Siamo in regime liberale, quindi io (inteso come individualità astratta dalla comunità) faccio ciò che voglio” rappresenta la formulazione corretta. Naturalmente anche per il liberale è posto il vincolo delle leggi, che tuttavia hanno più marcatamente un significato negativo: tracciano il limite di ciò che è consentito più che indicare ciò che deve (o non deve) essere compiuto.

57 Quarto elemento, di natura militare. 58 Un fattore etico: la corruzione che inevitabilmente accompagna il potere. 59 Non solamente l’estensione del territorio e il numero degli abitanti rendono

necessaria la forma rappresentativa della vita politica. L’attenzione per gli affari privati costituisce una motivazione altrettanto forte. Il tempo e le energie che richiedono rende impossibile la vita politica e necessaria la delega delle decisioni relative al bene pubblico. L’elettore si riserva di verificare l’operato di un rappresentante che, fino alla scadenza del mandato, gode di piena autonomia decisionale. Non potrebbe, infatti, consultare i suoi elettori in occasione di ogni deliberazione. Il suo mandato, quindi, non è imperativo. La vita politica è opera di un uomo libero, cioè affrancato dalle necessità economiche. I greci si permettevano interminabili discussioni nell’agorà unicamente perché altri, gli schiavi e gli abitanti delle città sottomesse, svolgevano le mansioni connesse alle esigenze della sopravvivenza biologica. Quando, nel ventesimo secolo, si vollero introdurre i lavoratori a tempo pieno nella vita politica, si fece ricorso ai Soviet.

60 Il medioevo non conobbe la democrazia delle società antiche e moderne, ma conobbe la libertà come resistenza al potere. Per trovare un giudizio opposto alla stroncatura rousseauiana del medioevo è sufficiente riferirsi a Tocqueville, attento difensore delle libertà dell’individuo e sottile critico dell’uguaglianza.

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Libro IV

Capitolo VI Della dittatura L’inflessibilità delle leggi, che impedisce loro di piegarsi agli

avvenimenti può, in certi casi, renderle perniciose e causare la distruzione dello Stato durante la sua crisi. L’ordine e la lentezza delle forme esigono un intervallo di tempo che le circostanze in qualche caso rifiutano. Possono presentarsi mille circostanze alle quali il legislatore non ha pensato ed è un’indispensabile preveggenza sapere che non è possibile prevedere tutto.

Non è dunque possibile voler consolidare le istituzioni politiche fino a vietarsi il potere di sospenderne l’efficacia.

[…] Ma […] non si deve mai arrestare il potere sacro delle leggi se non quando si tratta della salvezza della patria. In questi casi rari e manifesti61, si provvede alla sicurezza pubblica tramite un atto particolare che attribuisce l’incarico al più degno. […] Se il pericolo è tale che l’apparato delle leggi diventa un ostacolo alla loro stessa garanzia, allora si nomina un capo supremo, che metta a tacere ogni legge e momentaneamente sospenda l’autorità sovrana. In simili casi la volontà generale non è dubbia ed è evidente che la prima preoccupazione del popolo è che lo stato non muoia. Così la sospensione dell’autorità legislativa non l’abolisce in alcun modo: il magistrato che la fa tacere non può farla parlare; la domina senza poterla rappresentare. Può fare ogni cosa, eccetto le leggi.

Capitolo VIII Della religione civile All’inizio gli uomini non ebbero altri re che le divinità, né altro

governo che il [governo] teocratico. […] Occorre un lungo mutamento di sentimenti e di idee per decidersi ad accettare un proprio simile come guida, e

61 Non è dubbia la rarità dei casi, è dubbia la loro evidenza. Chi dovrebbe

riconoscerla? Il popolo? Quale popolo? Il popolo ideale o il popolo reale? Solo il primo non può essere ingannato, il secondo, come ammette lo stesso Rousseau, lo è fin troppo facilmente. E quando siano stati attribuiti tutti i poteri (eccetto il legislativo) al dittatore, cosa garantisce la sua lealtà allo stato? Certamente un semplice calcolo invita ad accettare il pericolo: se non venisse nominato il dittatore lo stato perirebbe con certezza, se viene nominato c’è solo la possibilità che non intenda restituire il potere ricevuto.

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illudersi che ci si troverà bene62. Dal solo fatto che si metteva Dio a capo di ogni società politica,

consegue che ci furono tante divinità quanti popoli. […] Dalle divisioni nazionali risultò il politeismo e da ciò l’intolleranza teologica e civile, che naturalmente è la medesima.

[…] Se si chiede come nel paganesimo, dove ogni Stato aveva il proprio culto e le proprie divinità, non ci fossero guerre di religione63, rispondo che era per lo stesso motivo per il quale ogni Stato, avendo un proprio culto come un proprio governo, non distingueva le proprie divinità dalle proprie leggi. La guerra politica era anche teologica; le circoscrizioni degli dei erano, per così dire, fissate dai limiti delle nazioni. […] Gesù venne a stabilire sulla terra un regno spirituale e così, separando il sistema teologico dal sistema politico, provocò la rottura dell’unità dello Stato e provocò le divisioni interne che non hanno mai cessato di sconvolgere i popoli cristiani. Ora, non avendo mai potuto entrare nella testa dei pagani questa nuova idea di un regno dell’altro mondo, considerarono sempre i cristiani come degli autentici ribelli che, dietro un’ipocrita sottomissione, attendevano solamente l’opportunità di rendersi indipendenti e padroni e di usurpare abilmente l’autorità che fingevano di rispettare nel periodo della loro debolezza. Tale fu la causa delle persecuzioni.

Quanto i pagani paventavano si è verificato. Così tutto ha mutato volto. Gli umili cristiani hanno mutato linguaggio e ben presto si è visto questo preteso regno dell’altro mondo diventare, sotto la guida di un capo visibile, il più violento dispotismo in questo.

Tuttavia, essendoci sempre stato un principe e delle leggi civili, da questo doppio potere è risultato un continuo conflitto di giurisdizione che ha reso impossibile negli stati cristiani ogni buona costituzione politica e non si è mai riusciti a sapere se si doveva obbedire al padrone o al prete.

[…] Tra tutti gli autori cristiani, Hobbes è l’unico ad aver visto con precisione il male e il rimedio. [L’unico] che ha osato proporre di riunire le due teste dell’aquila e ricondurre tutto all’unità politica, senza la quale mai Stato né governo saranno ben organizzati. Ma ha dovuto rendersi conto che lo spirito dominatore del cristianesimo era incompatibile con il suo sistema e che l’interesse del prete sarà sempre più forte di quello dello Stato64. Non è tanto ciò che c’è di orribile e di falso nella sua politica, quanto ciò che c’è di giusto e di vero, che l’ha reso odioso.

62 Come già ampiamente mostrato nel cap. VII del libro II, occorre un lungo

tirocinio perché l’umanità, educata da buone leggi, promulgate da un carismatico legislatore, possa giungere alla maturità necessaria per riconoscere il valore del contratto sociale, associazione puramente umana (nei fondamenti, negli scopi, nelle norme).

63 Naturalmente non c’erano guerre di religione all’interno dello stato. Tra stato e stato, invece, ogni guerra politica era contemporaneamente guerra religiosa.

64 La religione, nell’anima umana, raggiunge profondità inaccessibili alla politica. È assai più il potere politico ad aver bisogno del potere religioso che non viceversa.

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[…] Per farmi compiutamente intendere basta conferire una maggiore precisione alle idee troppo vaghe di religione relative al mio soggetto.

La religione […] può dividersi in due generi, ossia: la religione dell’uomo e quella del cittadino. La prima, senza templi, senza altari, senza riti, limitata al culto puramente interiore del Dio supremo e ai doveri eterni della morale, è la pura e semplice religione del Vangelo, il vero teismo, ciò che può definirsi il diritto naturale divino. L’altra, appartenente ad un solo paese, gli offre le sue divinità, i suoi numi propri e tutelari. Ha i propri dogmi, i propri riti, il proprio culto esteriore prescritto dalle leggi. Oltre la sola nazione che la segue, tutto è per lei infedele, straniero, barbaro. […] Tali furono tutte le religioni dei popoli primitivi, ai quali si può dare il nome di diritto divino civile o positivo. […] La seconda è buona in quanto riunisce il culto divino e l’amore per le leggi e perché, facendo della patria l’oggetto dell’adorazione dei cittadini, insegna loro che servire lo stato non è che servire il Dio che li difende. È una specie di teocrazia, nella quale non si deve avere altro pontefice che il principe, né altro prete che il magistrato. Allora morire per il proprio paese è andare al martirio; violare le leggi significa essere empio. […] Ma è cattiva in quanto, essendo fondata sull’errore e sulla menzogna, inganna gli uomini, li rende creduli e superstiziosi, e annega il culto autentico della Divinità in un vano cerimoniale. È ancora malvagia quando, facendosi esclusiva e tirannica, rende un popolo sanguinario e intollerante, così che non respira che martirio e massacro e crede di compiere un’azione santa uccidendo chiunque non ammetta le sue divinità. Tutto ciò pone il popolo in uno stato naturale di guerra con tutti gli altri, estremamente nocivo alla propria sicurezza.

Rimane dunque la religione dell’uomo ovvero il cristianesimo, non quello di oggi ma quello del Vangelo, che è completamente differente. Per questa religione santa, sublime, veritiera, gli uomini, figli dello stesso Dio, si riconoscono tutti fratelli e la società che li unisce non si dissolve neppure con la morte.

Ma questa religione, non avendo alcuna relazione particolare con il corpo politico, lascia alle leggi la sola forza che deriva da loro stesse senza aggiungergliene altra e così uno dei grandi legami della società […] rimane senza effetto. Ma, peggio ancora, lungi dal legare i cuori dei cittadini allo Stato, li distacca come da tutte le cose della terra. Non conosco nulla di più contrario allo spirito sociale.

Ci dicono che un popolo di veri cristiani formerebbe la società più perfetta che si possa immaginare. […] Questa supposta società non sarebbe, con tutta la sua perfezione, né la più forte né la più durevole: a forza di essere perfetta, mancherebbe di legame; il suo vizio distruttore starebbe nella sua stessa perfezione.

Ciascuno compirebbe il proprio dovere; il popolo sarebbe sottomesso alle leggi, i capi sarebbero giusti e moderati, i magistrati integri, incorruttibili; i

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soldati disprezzerebbero la morte; non ci sarebbero né vanità né lusso. Tutto ciò è molto bello, ma guardiamo più lontano.

Il cristianesimo è una religione completamente spirituale, occupata unicamente delle cose del cielo, la patria del cristiano non è di questo mondo. [Il cristiano] compie il proprio dovere, è vero, ma lo compie con profonda indifferenza circa il buono o cattivo esito delle sue cure. Purché nulla debba rimproverarsi, poco gli importa che tutto proceda bene o male quaggiù. Se lo Stato è florido, a mala pena osa gioire della pubblica felicità, teme di inorgoglirsi della gloria del proprio paese. Se lo Stato deperisce, benedice la mano di Dio che pesa sul suo popolo.

Perché la società fosse pacifica e l’armonia si mantenesse, bisognerebbe che tutti i cittadini senza eccezione fossero egualmente dei buoni cristiani: ma se sfortunatamente si trova un solo ambizioso, un solo ipocrita, un Catilina, per esempio, un Cromwell, costui avrà certissimamente buon gioco con i suoi compatrioti. […] Non appena avrà trovato con qualche astuzia l’arte di imporsi loro e di impadronirsi della pubblica autorità, ecco un uomo costituito in dignità: Dio vuole che lo si rispetti. Ecco immediatamente un potere: Dio vuole che gli si obbedisca. Il depositario di questa autorità ne abuserà? È la verga con cui Dio punisce i suoi figli. Bisognerebbe turbare la tranquillità pubblica, usare la violenza, versare il sangue: tutto ciò si accorda male con la dolcezza del cristiano, e dopo tutto, cosa importa essere liberi o schiavi in questa valle di lacrime? L’essenziale è andare in paradiso, e la rassegnazione non è che un mezzo ulteriore.

Scoppia qualche guerra, i cittadini si incamminano senza difficoltà verso il combattimento; nessuno pensa alla fuga; compiono il proprio dovere, ma senza passione per la vittoria; sanno piuttosto morire che vincere. Che siano vincitori o vinti, che importa? La Provvidenza non sa meglio di loro ciò che è necessario? È facile immaginare quale vantaggio può trarre un nemico fiero, impetuoso, appassionato dal loro stoicismo! Mettete di fronte a loro questi popoli generosi che l’amore ardente della gloria e della patria divorano, immaginate la vostra repubblica cristiana dinanzi a Sparta o a Roma.

[…] Le truppe cristiane sono eccellenti, si dice. Personalmente non conosco truppe cristiane. Mi si citeranno i crociati. Senza discutere il valore dei crociati, faccio notare che, ben lungi dall’essere cristiani, erano soldati del prete, cittadini della Chiesa: combattevano per il proprio paese spirituale, che avevano, non si sa come, reso temporale. A ben guardare, ciò rientra nel paganesimo. Poiché il Vangelo non pone affatto una religione nazionale, ogni guerra sacra è impossibile tra i cristiani.

[…] Ma, lasciando da parte le considerazioni politiche, torniamo al diritto, e fissiamo i princìpi circa questo punto importante. Il diritto sui sudditi che il patto sociale conferisce al sovrano non supera, come già detto, i limiti dell’utilità pubblica. I sudditi non devono dunque render conto al sovrano delle

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loro opinioni che nella misura in cui queste opinioni ricadono sulla comunità. Sicuramente importa allo Stato che ogni cittadino abbia una religione che gli faccia amare i propri doveri, ma i dogmi di questa religione non interessano né lo Stato né i membri se non in quanto questi dogmi si riferiscono alla morale e ai doveri che chi la professa è tenuto a compiere verso gli altri. Ciascuno può avere, in aggiunta, tutte le opinioni che preferisce, senza che il sovrano abbia diritto di conoscerle perché, non avendo competenza nell’altro mondo, non è suo affare la sorte dei cittadini nella vita futura, essendo sufficiente che siano buoni cittadini in questa.

C’è dunque una professione di fede puramente civile di cui appartiene al sovrano fissare gli articoli, non come dogmi religiosi, ma come sentimenti di socievolezza senza i quali è impossibile essere buon cittadino o suddito fedele. Senza poter obbligare nessuno a credere, può bandire dallo Stato chiunque non crede, non come empio, ma come asociale.

[…] I dogmi della religione civile debbono essere semplici65, poco numerosi66, enunciati con precisione67, senza spiegazioni né commenti68. L’esistenza della divinità potente, intelligente, benevolente, preveggente e provvidente, la vita futura, il premio dei giusti, la punizione dei malvagi, la santità del contratto sociale e della legge: ecco i dogmi positivi. Quanto ai dogmi negativi, li limito a uno solo, è l’intolleranza. […] Chi distingue l’intolleranza civile e l’intolleranza religiosa, a mio avviso, si inganna. È impossibile vivere in pace con gente che si crede dannata. Amarli sarebbe odiare Dio che la punisce, occorre assolutamente che li si converta o li si perseguiti. Ovunque l’intolleranza teologica è ammessa, è impossibile che non abbia qualche effetto civile e fino a quando ne ha il sovrano non è più tale. […] Allora i preti sono i veri padroni, i re non sono che i loro ufficiali.

Ora che non c’è né può più esserci una religione nazionale esclusiva, devono essere tollerate tutte quelle che tollerano le altre, se i loro dogmi non contraddicono i doveri del cittadino. Ma chiunque osi dire: fuori della Chiesa non c’è salvezza, deve essere espulso dallo stato, a meno che lo Stato non sia la Chiesa e che il principe non sia il pontefice. […] La ragione per la quale si dice che Enrico IV ha abbracciato la religione romana la dovrebbe far abbandonare a ogni uomo onesto e soprattutto a ogni principe che sappia ragionare69.

65 Così da essere immediatamente comprensibili. 66 Così da poter essere facilmente ricordati. 67 Così da evitare ambiguità. 68 Perché spiegazioni e commenti inducono alla discussione, la discussione alla

critica, e la critica alla dissidenza. 69 Enrico IV di Borbone, pur di ottenere la corona di Francia, ha accettato di

convertirsi al Cattolicesimo, ha accettato cioè la sottomissione al Papa. Malgrado le rassicuranti dichiarazioni rousseauiane, ogni religione che non sia identificata con il potere politico deve essere bandita dallo stato perfetto. Non esiste infatti opzione religiosa privata senza ricadute politiche, possibili o attuali. Chi crede può sempre invocare il proprio diritto all’obiezione di

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coscienza. La religione dell’uomo non rappresenta, a tale proposito, un’eccezione. Lo stato rousseauiano non è dunque laico, ma ateo (se si eccettua la religione del cittadino). È indifferente in materia religiosa perché ha già prescritto i limiti dell’obbiezione di coscienza. I rapporti tra politica e religione appaiono però insolubili non solo nella teorizzazione rousseauiana, ma per ogni associazione umana. L’obbiezione di coscienza non può infatti essere normata. Non può, cioè, preliminarmente stabilire lo Stato gli argomenti e le modalità dell’obbiezione di coscienza, che riconosce, come unico tribunale solamente se stessa (se riconoscesse lo stato come istanza suprema non potrebbe impugnare nessuna sua deliberazione). L’assetto politico della comunità è dunque o totalitario (se il tribunale ultimo delle deliberazioni è lo stato) o anarchico (se il tribunale ultimo delle deliberazioni è la coscienza individuale). Ciò che implica la logica della politica non esige tuttavia la prassi, che, operando sul fondamento della ragionevolezza e non della ragione, media gli estremi accomodando un ordinamento non perfetto ma perfettibile.