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A NNO VII, N UMERO 02/2013 “Così continuiamo a remare, barche controcorrente, sospinti senza posa nel passato”

La Canestra, Febbraio

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Page 1: La Canestra, Febbraio

ANNO VII, NUMERO

02/2013

“Così continuiamo a remare, barche

controcorrente, sospinti senza posa

nel passato”

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ANNO VII, NUMERO IV P AGINA 2

Caro lettore,

chiunque tu sia, in qualun-que luogo tu stia leggendo questa pagina, qualsiasi pensiero vorticasse nella tua mente fino a due mi-nuti fa, non importa, per-ché ora sarai catapultato nei turbolenti anni ’20 e ’30. Un passato idealizza-to, la cui influenza si riper-cuote in un presente dai valori standardizzati, con l’oppressiva propensione dell’uomo a cercare di inventa-re nuove diavolerie per ingan-nare il tempo che passa. Que-sta ossessione infatti è insita nella natura umana, poiché l’uomo, insoddisfatto della mo-notona banalità del suo quoti-diano, si illude di trovare una via d’uscita nel passato. La peculiarità di questo periodo storico risiede nel fervente cli-ma culturale che caratterizzò

l’Occidente, i cui effetti sono visibili nella società contempo-ranea. Dalla nuova figura della donna all’interno della società alla nascita delle tematiche esistenzialistiche, sviluppate nell’arte e nella letteratura, da eventi storici di rilevanza mon-diale, come la crisi economica del ’29, alla temporanea so-spensione della politica demo-cratica con i movimenti nazifa-scisti e ai ritratti di personaggi

di spicco nel panorama culturale. Queste sono le massime storiche e cultu-rali che abbiamo voluto analizzare, al fine di in-quadrare gli “anni ruggen-ti” nel processo di mitizza-zione del passato.

Ora sta a te, lettore, sce-gliere se immergerti nel passato e lasciarti travol-gere dagli “anni ruggenti”, oppure se guardare agli

anni ’20 e ’30 come un’epoca lontana, in maniera distaccata e quasi indifferente. Sei tu il protagonista, perché abbiamo scelto di scrivere per te, che tu sia consapevole e felice di que-sto o sprezzante e noncurante. Oltre a questo tacito invito a fare un salto nel passato, ti e-sortiamo a dirci, qualora tu notassi una stonatura, una sfu-matura estranea tuo pensiero, come noi possiamo migliorare. Vi riportiamo di seguito l’indice di questo numero del giornale.

Buona lettura!

Un salto nel passato: gli Anni Ruggenti

La Canestra Libertà di espressione

nella scuola

Indice

P. 3

P. 3

P. 5

P. 6

P. 7

P. 8

P. 9

P. 11

P. 12

P. 13

P. 14

P. 15

P. 16

P. 17

La (tragi)commedia del fascismo / Carmine Bianco, II H

1929: La Grande Depressione / Claudia Triggiani, I E

A lezione di moda / Federica Cipriani, III B

Garçonne / Deborah Carenza, II B

La fotografia è donna / Carla Ferri, III C

Macchine per i figli o macchine per il successo? / Silvia Di Conno e Giorgia Maffei, I E

“E poi, ecco..” / Onofrio De Tullio, III B

Un dramma statico / Valeria D’Ignazio, II B

Topolino: un secolo di storia / Daniele Molinari II B

L’angolo Manga / Giuseppe Battista, II B

La comunicazione è una partita a scacchi / Sara Bellomo, II H

"Non significa nulla (se non c'è quello swing)"

Bella e dannata / Paola Caputo, I G

Il cielo è azzurro su Roma… / Chiara Bizzoco, II B

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Uno dei leitmotiv della dittatu-ra fascista fu sicuramente la volontà di esaltazione dell'i-dentità nazionale di un'Italia che per la propaganda era "nata sui sette colli di Roma", ma che in realtà non aveva an-cora completato il proprio pro-cesso di unificazione. Di qua l'auto-proclamazione, dopo la conquista dell'Abissinia, dell’Impero Italiano" e le innu-merevoli parate militari e ma-nifestazioni ginniche: qualcosa di banale, comune a molte al-tre dittature. Peculiare del fa-scismo fu però lo sforzo di ita-lianizzazione della cultura, e-sercitata sistematicamente at-traverso le famigerate "veline" del Ministero per la Cultura popolare. I cartoni animati stranieri vennero progressiva-mente banditi (unica eccezione Topolino, per ragioni a noi sco-nosciute), e si diede adito alla tendenza tutta italiana di italia-nizzare nomi geografici e lette-rari. Il Milan diventò "Milano", il Genoa "Genova", e molti ge-rarchi del fascismo (uno su tut-ti, Achille Starace) si impegna-

rono nella spasmodica ricerca di sinonimi italiani per le parole straniere. Se alcuni vocaboli, come "calcio" sono entrati nell'uso comune, molte altre, ad esempio "torpedone" e "autorimessa", suonano desue-te, e alcune addirittura ridicole: se i cocktail venivano chiamati "arlecchini", sono inimmagina-bili i risultati che si sarebbero ottenuti nel tradurre il linguag-gio informatico, probabilmente più ridicoli di quelli ottenuti dal francese ("ordinateur", "octet"). "Ridicolo" è il termine perfetto per descrivere tali ma-nifestazioni. Al substrato di oppressione e terrore proprio di ogni regime dittatoriale fu sovrapposta una particolare "patina italiana", che, a poste-riori, appare quasi divertente: dall'abolizione della stretta di mano "borghese", ai "saluti fascisti" in chiusura delle lette-re, ai resoconti radiofonici di "Topolino in Abissinia". Tutto ciò nasconde una carenza di ideali propria del fascismo, che difettava di quei "maestri" sui quali poggiavano le ideologie

mente in tutto il mondo la pro-duzione, l'occupazione, i guada-gni, i salari, i consumi, gli investi-menti, si cominciò a non rispar-miare più, insomma vennero meno tutti i dati che compongo-no lo stato di progresso dell'eco-nomia di un paese. Quella del 1929 viene considerata la mag-giore crisi economica nella storia dell'Occidente. La crisi scoppiò

Quando in questi ultimi anni si parla di crisi economica, spesso viene citato il crollo di Wall Street, la grande crisi del 1929, che richiama un particolare mo-mento della storia economica del Novecento durante il quale, nel martedì nero della Borsa di Wall Street, ci fu una crisi plane-taria, a seguito di una serie di fenomeni: calarono notevol-

La (tragi)commedia del fascismo

1929: la Grande Depressione Strumento del passato per comprendere il presente

tutto a un tratto ma già c'erano state avvisaglie. Infatti, alla fine dell’estate del 1929 la Borsa di New York progrediva e c'era crescita. Poco dopo ci fu un periodo di incertezze e poi, giovedì 24 ottobre, il primo giorno di panico, poi - martedì 29 ottobre - la crisi definitiva. Le banche cercarono di porre freno alla situazione ma il valo-

del socialismo reale e del nazi-smo. Facile, dunque, abbando-narsi allo sciovinismo: è conve-niente, rende ogni regime po-polare, soprattutto dopo crisi causate da potenze straniere. E l'ironia avvicina il politico alla "pancia" della gente comune: proprio per questo mi vengono i brividi, quando vedo uomini politici sventolare sorridenti il tricolore e rievocare insistente-mente la propria italianità, piuttosto che discutere delle proprie idee. Fascismo, niente più.

Carmine Bianco, II H

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re delle azioni crollò. La re-sponsabilità furono attribuite alla politica economica Usa perché v'era stata una cattiva distribuzione del reddito (troppa disparità fra stipendi), cattiva gestione delle aziende industriali e una struttura poco solida delle banche, che conce-devano prestiti per fini specula-tivi (cercare di guadagnare con operazioni finanziarie e non

con il lavoro o con prestiti a imprenditori). I ceti medio bor-ghesi furono quelli maggior-mente colpiti dalla crisi.

Crisi che si propagò rapidamen-te nelle nazioni che avevano rapporti finanziari con gli Stati Uniti, in particolare quelle eu-ropee che avevano ricevuto aiuti economici dagli statuni-tensi dopo la prima guerra mondiale: Gran Bretagna, Au-

stria e Germania, spingendo nelle difficoltà anche Italia e Francia. Così, tutte queste na-zioni subirono un calo di pro-duzione e un rincaro di prezzi, ci furono crolli in Borsa, falli-menti e chiusura di industrie e banche, aumento di disoccupa-ti (12 milioni negli Usa, 6 in Germania, 3 in Gran Bretagna). Il risultato fu fame diffusa, po-vertà, disoccupazione a livello mondiale.

Gli Stati si comportarono come imprenditori, intervenendo economicamente con iniziative previdenziali (leggi per la sicu-rezza sociale). Si tratta di inter-venti definiti negli Stati Uniti New Deal e in Italia, negli anni Trenta, per attutire gli effetti della crisi, fu fondato l'IRI(Istituto per la ricostruzione industriale).

Nel 1929, come ai giorni nostri, le crisi economiche rappresen-tano lo specchio di un capitali-smo che si rigenera sulle sue stesse ceneri, che si pensa es-sere un sistema eterno, infalli-bile, che incorre in crisi periodi-che, tamponate con i metodi stessi che le hanno generate.

Claudia Triggiani, I E

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ma che rivo-luziona il mondo della c o m o d i t à femmini le . Con Gabriel-le Coco Cha-nel il tailleur d i v e n t a l ’ u n i f o r m e per una si-gnora che lavora e quindi, non ha il tempo per potersi c a m b i a r e ,

ma deve sempre sentirsi a po-sto: ne sviluppa una versione soft, declinata nei mitici tessuti in tweed, decorata da i bottoni d’oro e dalla cintura a catena.

È il periodo della nascita del tubino nero, il piccolo essenzia-le abito nero nato nel ’26 dall’intuizione di Coco Chanel che diventerà l’epitome dello chic più raffinato di una sempli-cità elegante e moderna, il “must have” di ogni guardaro-ba femminile. Il tubino nero segna l’intersezione definitiva tra il desiderio e il comfort, la classe e il rigore, la purezza e la fantasia. La sua estrema versa-tilità lo ha reso un passe-partout per ogni donna, infatti così come cambia volto e stile a seconda degli accessori (per poi rivelare che l’accessorio fondamentale è l’essere se stesse), così “la petite robe noir” (così Chanel nomina la sua creazione) cambia forma e si adatta a seconda di chi lo veste: in futuro asseconderà le forme di Marilyn Monroe ( in “A qualcuno piace caldo”). Ol-

Libero da busti e corsetti, il cor-po femminile di esibisce, le gonne si accorciano, le scarpe si abbassano, nei guardaroba femminili compaiono i primi capi sportivi. Alla fine degli an-ni Venti, l’icona della moda di tutti i tempi, Coco Gabrelle Chanel rivoluziona l’ideale di bellezza , cambia completa-mente il concetto di femminili-tà creando “la moda della don-na indipendente”. Da Deauville Chanel propone i suoi vestitini neri essenziali (nasce il tubino “la petite robe noir”), i tailleur e gli chemisier, il jersey e il tweed, imponendo uno stile sobrio ed elegante alla donna dell’epoca, non più costretta in abiti rigidi che nascondono le forme ma esposta a nuovi stili, a nuovi generi: quando infatti parliamo di “tailleur” ci riferia-mo non solo alla tipica gonna accompagnata dalla sua giacca ma anche a composizioni di pantaloni e giacche, uno stile che chiameremo “androgino” poiché tipicamente maschile,

A lezione di Moda: stile e icone imperanti negli anni ‘20/’30

tre che dalla mitica Chanel il tubino nero sarà reso immorta-le da quella che è considerata la sua incarnazione fisica Au-drey Hepburn perché a partire dalla nascita del cinema muto succede che al’icona da indos-sare si sovrapponga l’immagine di chi l’ha resa immortale. Con l’esplosione del cinema infatti sono le dive americane a incar-nare gli ideali di bellezza ed eleganza, dettano legge con le loro chiome decolorate, le so-pracciglia sottili e ben disegna-te, le labbra scarlatte e la pelle bianchissima assieme ad abiti sobri ma che mirano a sottoli-neare le forme della donna, fino ad allora coperte. La rivo-luzione avviene anche nei tes-suti: nuovi tessuti artificiali e sintetici, come il nylon, comin-ciano a diffondersi abbassando considerevolmente il prezzo di alcuni capi. I capelli per la pri-ma volta vengono tagliati corti e i cappelli sono piccole cloche calzate fino alle sopracciglia. La sera gli abiti, senza maniche e con spalline sottili, sono in tes-suti leggeri e velati, come chif-fon, tulle, organza e seta, spes-so impreziositi con perline e frange assieme alle prime calze trasparenti. Per ultimo ma non meno importante e degno di nota è il primo profumo firma-to da un sarto, che nasce in questi anni “ruggenti”: l’intramontabile Chanel n°5. Lo stile di Coco Chanel è passato alla storia come sinonimo di eleganza, modernità, raffina-tezza e comfort. Riuscì a sedur-re donne e uomini di tutta la Francia e di tutto il mondo tutt’oggi con le sue creazioni.

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Stati Uniti. 26 agosto 1920. Il diritto di voto è esteso alle donne. Costituzionalmente pari all’uomo rivendicano la libertà e indipendenza che è stata loro negata per secoli. La donna, da anticonformi-sta, abbatte gli stereotipi, accostandosi all' uomo: ne imita gli atteggiamenti, persino l' acconciatura e sfoggia per la prima volta nella storia capelli corti alla garçonne <maschietta>. La moda americana anni 20, trovando una donna sicura di sè e sfrontata, rielabora i canoni di femminilita' stravolgendoli completamente. Nella donna lavoratrice si privilegia la comodità, liberando dall' oppressione del corpetto i busti. Sono sulla cresta dell’onda volumi geo-metrici e squadrati, che impongono un corpo tassativa-mente longilineo in cui le curve naturali sono accenna-te. Scarne e quasi mascoline, indossano gonne corte e semplici, graziose e lunghe collane di perla.

E' proprio in questo clima di rivoluzione tutta femminile che fa il suo trionfale ingresso nella storia mondiale della moda: Gabrielle Chanel, detta Coco.

Sperimentando in prima persona le sue idee, aprí le frontiere verso un nuovo modo di vestire. Dalle labbra di un rosso ardente, raffigurata sempre con una siga-retta in mano, divenuta simbolo dell' emancipazione, creava i suoi abiti non per una cerchia ristretta ma per l' intera popolazione femminile. In contrapposizione agli abiti semplici, il trucco era molto elaborato e accentua-to con un nero Kajal, con ombretti per dare profonditá allo sguardo. Se pur con il subentrare degli anni 40 il mito di questa donna esuberante e sfrontata sia cadu-to, cedendo il posto di onore ad un nuovo genere (non si sa quale), l' eleganza e la semplicitá di una nuova femminilitá sono l' ereditá maggiore lasciataci da Cha-nel. Maestra del buon gusto, ha esaltato il vero valore della donna, dimostrando che l' eleganza è una qualitá inalienabile della donna del XX secolo.

Deborah Carenza, II B

“Le mode passano, lo stile resta” diceva Coco Chanel, il che significa continuità culturale, lettera di un alfabeto estetico con cui ognuno di noi definirà poi la propria immagine quotidiana, ma che parte proprio da quei segni e da quei sogni di cui non possiamo fare a meno. Ciascuno di noi, infatti, può indossare a modo proprio i jeans, personalizzare una t-shirt, avere una variante del tubino nero. Ma senza la presenza di quei “capi d’ordinanza” i nostri guardaroba ogni mattina ci guarderebbero con occhi smarriti. I grandi basici della moda (resi tali probabilmente da Chanel stessa) regalano la sicu-rezza che serve a renderci tranquilli e allo stesso tempo si adeguano a far parte del nostro lessico ve-stimentiario. E siccome il linguaggio dei vestiti, al pari di quello verbale, ha un vocabolario, una gram-matica e una sintassi, ogni abito, ogni gioiello, ogni accessorio corrisponde a una parola e quella pa-rola designa un nome che diamo all’immagine di una cosa, di una passione, di una persona, di un per-sonaggio o di noi stessi. Questo, ritengo personalmente, che sia il messaggio lanciato al mondo della moda da Gabrielle Coco Chanel negli anni ‘20/ ’30.

Federica Cipriani, III B

Garçonne

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LA CANESTRA P AGINA 7

La fotografia è donna

Gli anni venti e trenta del ‘900 vedono il campo della fotografia svilupparsi in maniera ecceziona-le: si intensificano gli studi sul colore e le apparecchiature diven-tano sempre più sofisticate. Il mondo sta vivendo enormi cam-biamenti, la Grande Guerra si è da poco conclusa e le nazioni, sia vinte che vincitrici affrontano tut-ti i problemi legati al dopoguerra. È proprio in questi anni difficili, ma di rinascita, che irrompe sulla scena artistica una giovanissima fotografa italiana con una storia affascinante quanto travagliata.

Tina Modotti è nata ad Udine nel 1896 e qui, frequentando sin dall’età di dodici anni lo studio fotografico dello zio, ha appreso le basi dell’arte della fotografia. Alla ricerca di un lavoro segue il padre emigrato in America e, una volta a San Francisco, intraprende la carriera di attrice e sposa un pittore. La vera svolta nella sua vita arriva quando incontra il fotografo di fama nazionale Edward Weston, che la sceglie come modella e la rende ben presto sua amante. Quando il marito di Tina muore improvvisamente, i due giovani amanti si trasferiscono a Città del Messico e nel 1927 si iscrivono al Partito Comuni-sta. Tina diventa ben presto una fotografa di fama indiscussa, pubblica le sue foto sulle riviste di estrema sinistra, le sue mostre vengono definite “rivoluzionarie”, collabora con due grandi artisti contemporanei: Diego Rivera e Frida Kahlo.

Le fotografie della Modotti, già conosciute in tutto il Messico, diventano famose subito dopo la sua morte, avvenuta in nella capitale messicana in condizioni misteriose. Sono scene di vita quoti-diana, come una mamma che al-latta il suo bambino ma anche sce-ne che rappresentano emblemati-camente il suo credo politico, co-me la falce e il martello adagiati su un ampio sombrero. Tina Modotti insieme a tante altre grandi donne vissute negli anni venti (Frida, Cha-nel, Dora Maar) costituisce un mo-dello da imitare, ha lasciato un segno indelebile nel campo della fotografia e ha descritto con le sue immagini la bellezza ma anche il grido di aiuto del popolo messica-no.

Carla Ferri, III C

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Dalla rivoluzione francese ('800) agli anni 1920-30: un brusco passaggio dalle mobilitazioni femministe delle suffragette per la difesa dei propri diritti, alla negazione di questi con l'avvento del fascismo. Nell' '800 con il termine "suffragette" si voleva far rife-rimento al suffragio, ossia il dichiarare la propria volonta' in pro-cedimenti elettivi o deliberativi, in altre parole: il diritto di voto anche al femminile. I movimenti femministi creatisi sembravano essere completamente sfumati con l' instaurarsi in Italia e in Ger-mania di regimi dittatoriali, con rispettivamente a capo le figure di Mussolini e Hitler. Vanificate tutte le lotte costate caro alle suffragette, ecco che alle donne stesse viene semplicemente chiesto di "sfornare" figli, futuri soldati da poter arruolare un do-mani.

Contemporaneamente, dall'altra parte del pianeta, in un conte-sto di sfrontato benessere americano viene proposto un nuovo stereotipo di donna, che vive la sua femminilita' con fare mascoli-no, disinibita negli atteggiamenti e nel modo di vestire. E' come se lo stesso problema abbia attraversato senza tregua generazio-ni e generazioni: da una parte la volonta' delle donne di rifiutare quelli che sono i modelli imposti, dall'altra il bisogno di rifarsi a un'icona. Le due situazioni, da un lato quella dell'Italia e della Germania e dall'altro quella dell'America, pur se apparentemen-te estremamente contrapposte, sono paradossalmente analo-ghe: in entrambi i casi ci vengono proposte donne macchine, adi-bite a fare figli o a fare soldi. Si tende a far coincidere la seconda possibilita' con l'idea di successo, senza considerare che il vero successo non e' essere macchine da pilotare, ma piloti liberi di essere liberi nel far volare il proprio aereo.

Silvia Di Conno - Giorgia Maffei, I E

Macchine per i figli o macchine per il successo?

Emmeline Pankhurst viene arrestata dopo aver protestato vicino a Buckingham Palace a Londra il 22 maggio 1907

Spunti di riflessione...

Il passato è fruttuoso non quando serve a nu-trire il risentimento o il

trionfalismo ma quando il suo gusto amaro ci

porta a

trasformarci.

Tzvetan Todorov

O donne, o cavalieri

O giardini, o palagi! A voi pensando,

In mille vane amenità si perde

La mente mia. Di vanità, di belle

Fole e strani pensieri

Si componea l’umana vita: in bando

Li cacciammo: or che resta? Or poi che il verde

E’ spogliato alle cose? Il certo e solo

Veder che tutto è vano altro che il duolo.

Giacomo Leopardi

Fotografa: Giorgia Loveri, II B

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LA CANESTRA P AGINA 9

mente, piuttosto lo lascerei tranquillo, questo coltello: a che scopo star sempre a toccare qualche cosa? Gli oggetti non sono fatti perché uno li tocchi”

La Nausea, capolavoro di Sartre, edito nel 1938, rappresenta il punto d’arrivo di un’evoluzione antropologica la cui sorgente, o uno dei punti di partenza, potrebbe essere vagamente e ap-prossimativamente riscontrabile (se vogliamo proprio almeno sembrare colti, supposto che serva a qualcosa esserlo – ci direbbe il buon Jean-Paul, magari davanti ad un caffè) in un piccolo verso dell’ancora giovane Pirandello.

“O conscio mar di tante egemonie,

conscio di tante lotte, o mar conteso,

Mediterraneo, dammi

dammi l’oblio, l’oblio.”

Il mare, detentore di età storiche, immobile spettatore, vittima delle carneficine degli uomi-ni contro se stessi, seduce il giovane Pirandello, ormai consapevole dell’assurdità della vita.

E ora ci sono io, in questa stanza, che vi scrivo alla luce fioca di una lampada blu, che ammira (o critica? Vive?) ciò che sto per scrivervi. Per-ché viviamo, senza prima accorgerci che esistia-mo? La risposta potremmo trovarla nelle condi-zioni del giovane Luigi Pirandello, che, ormai convinto dell’assuefazione delle masse, dell’inevitabile senescenza dell’umanità, trop-po attratta dal progresso industriale, dialoga con un Tevere maltrattato, il quale gli suggeri-sce il suicidio: perché dolersi nel tentativo di far comprendere alle genti il non senso dell’esistenza? Perché piuttosto non mi limito io solo a comprendere l’assenza di significato, di fine, di causa e di scopo nell’esistenza, e guardo la gente vivere mentre io semplicemen-te esisto? Cosa è più possibile che io pensi o costruisca se ho capito, da giovane, che la vita non ha un senso, è semplicemente esistenza? Dopo che ho compreso, guardo la gente indaf-farata, le folle, in preda all’abbaglio dei saldi,

Mentre Matteotti ripone le ultime forze nel do-mandare in tono di sfida la preparazione dei suoi funerali dopo il celebre discorso del 30 maggio 1924, il Vate, da esteta, come una donna d’alto rango che non facilmente si concede, si faceva elo-giare dal credo fascista, il “ministro della malavi-ta”, al secolo Giolitti, esalava gli ultimi respiri dopo il monumentale periodo dell’Italietta di inizio No-vecento, l’amarezza della conquista dello “scatolone di sabbia” libico era ancora latente ne-gli illusi, Hitler con il Mein Kampf seduceva uomini di facili opinioni, pervasi e scossi nell’intimo da un morboso bisogno di fervente nazionalismo, men-tre la società di massa descritta da Ortega y Gasset emergeva nella suo prepotente conformismo, non troppo di nascosto emergeva sempre maggior-mente, con moti vorticosi e caotici, il disagio dell’uomo contemporaneo. Per la prima volta nel-la storia, l’uomo ha posto se stesso al centro del significato della vita: con la crisi delle categorie interpretative del positivismo emerge l’uomo in tutta la sua precarietà, tanto nella letteratura (si veda L’Esclusa) quanto nell’indagine filosofica. Un uomo che ammira la tazza di caffellatte di mattina, con gli occhi ancora assonnati, e si domanda il per-ché ogni mattina ripeta quel gesto, o piuttosto, il perché debba ripeterlo. E lì fuori il caotico mondo degli affari che esala aliti intinti di veleno. E’ que-sto il momento così talmente ordinario da risulta-re assolutamente inutile che Sartre ben ci spiega nell’episodio del pranzo con l’Autodidatta, nelle peripezie immobili de La Nausea.

“La mia mano è contratta sul manico del coltello da dessert. Sento questo manico di legno nero. E’ la mia mano che lo tiene. La mia mano. Personal-

“E poi, ecco: d’un tratto, era lì, chiaro come il giorno:

l’esistenza si era improvvisamente svelata.”

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negozi carichi di merce da consumare, i capitali-sti che lucrano sfruttando le maggioranze, i po-litici che battagliano sui ring elettorali, le madri delle madri che si dolgono dell’assenza di fede nel mondo? Penso che non esista più un motivo per agire se la vita stessa, prima animata da una competitiva dinamicità, ora si è ridotta alla pura esistenza. E’ la crisi dell’Io. Sartre supera questa crisi con un sentimento di rigetto: la Nausea. L’esistenza è decadimento: è declino inarrestabile verso il Nulla. E perché è prove-nienza dal Nulla? E’ tutto così assurdo. Che non possiamo dire nemmeno essere eterno, perché semplicemente non è. Avere la Nausea, odiare coloro che tentano ripetutamente, in maniera convulsa ed estremamente ridicola, di dotare la vita di un senso, che sia esso frutto di una ceri-monia, del perbenismo e dell’apparenza piccolo borghese, non è nemmeno la condizione del misantropo. Essere misantropi significa appar-tenere ad una categoria intellettuale, aderire ad un filone di pensiero. Il Sartre della Nausea non è misantropo, ma nemmeno non lo è. A-vendo potuto capire l’assenza di un significato in questa vita, è lì, immobile, ammira tutto ciò che è vita, e che non bada all’esistenza, e ne prova un violento impeto di disgusto, che nem-meno disgusto è, perché sarebbe il contrario di compiacimento. Il Sartre de La Nausea è l’Uomo che emerge nella sua caoticità, l’Uomo non circoscrivibile in etichette interpretative stabili, è l’Uomo dai confini incerti, offuscati, labili, inafferrabili. E’ l’Uomo che realizza l’inutilità dell’esistenza, che non vuole integrar-si nel sistema sociale, nella bestia linfatica, ma che nemmeno non può trarsene del tutto fuori. Il Sartre de La Nausea è anche un po’ il Piran-dello del Fu Mattia Pascal: l’Uomo che brama la libertà, nella perfetta “gratuità dell’esistenza”, ovvero nella mancanza di senso. Un Uomo che, traendosi fuori dalla società, scopre che la liber-tà altro non è che costrizione della società nell’appartenenza a se stessa. Un Uomo che, né pessimista né ottimista, né misantropo né fol-gorato da una sorta di umanitarismo, né inseri-to né alienato, è investito di un solo grande senso, una enorme e opprimente percezione: la Nausea, frutto della totale e gratuita mancanza di senso delle cose, e dell’Essere.

E’ il tramonto delle credenze.

Tutto si rivela fittizio e fortuito.

E’ la fine delle certezze.

E’ la brama di vedersi realizzati nella società bor-ghese che cede il passo all’angoscia esistenziale, all’attesa della Morte.

Le utopie politiche sono puri castelli di sabbia, inutili, perché l’Uomo è inutile.

Le guerre sono pupazzate, tentativi dell’uomo di prevalere contro il nemico: per cosa? Per quale motivo? Ha un senso tutto ciò? Siamo realmente utili noi Uomini? Se perissimo tutti, l’Universo continuerebbe ad esistere. Tutto qui. Ciò dimostra l’inutilità dell’Uomo.

D’altronde, però, siamo uomini. E, come tali, ten-diamo all’apparenza di condurre un’esistenza che ci appaghi, anzi, che appaghi le nostre illusioni. Un’esistenza che ci illuda per non lasciarli spro-fondare nell’indefinita sensazione della Nausea. Dopo aver compreso, interiorizzato, il significato lasciatoci in eredità da Sartre e da Pirandello, si crea una gerarchia, tra quelli che Levi definirebbe (e noi impropriamente) i sommersi e i salvati, u-sando questi come categorie sociali su base filoso-fica. Sommersi loro a cui è stato negato dall’istruzione la possibilità di comprendere tutto ciò, Salvati quanti hanno compreso, e si elevano al di sopra delle inette masse, per ammirarle e diri-gerle, verso la crescita globale in senso egualita-rio. Come il Marx del Manifesto.

E poi ci sono quanti si ripiegano dolcemente su se stessi, e vivono crogiolandosi delle pitture e dei freddi marmi, dei minuti e minuziosi particolari, venerando il Bello, l’Artificio del Bello: essi diven-tano Arte, e l’Arte rappresenta null’altro che se stessa. Sono chiuse le barriere alla socialità, i par-ticolarismi emergono come maree. Ammirano un quadro, lo analizzano, e intanto (forse) pensano che è tutto, assolutamente, inevitabilmente, inuti-le.

Onofrio De Tullio, III B

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Un dramma statico

LA CANESTRA P AGINA 11

Appartenenti alla borghesia, i protagonisti de “Gli Indif-ferenti” sono i membri di una famiglia sull’orlo di uno stallo economico, che vivono in uno stato di “movimento statico”, in perenne attesa di un cambiamento che dia una svolta decisiva alla monotonia della vita. Un’attesa, quella degli indifferenti, fatta di falsi convincimenti, spe-ranze vacillanti, amare delusioni, che scalfiscono ripetu-tamente la maschera di apparente noncuranza, dietro la quale si nascondono e dissimulano i loro tormenti. È questo il dramma di un’esistenza che scivola via a suon di lotte interne, invisibili all’esterno, nell’angoscioso spa-smo della monotonia, con la paura di sentire e affrontare la vita. Non è però l’ignavia la colpa degli indifferenti, perché l’apparente mancanza di volontà o la passività nei confronti della vita che li ritraggono non sono altro che la traslazione esistenziale del perverso dolore della non-vita.

La decadenza autodistruttiva dei personaggi è palpabile

nello stile secco e sottile usato da Moravia, che dimostra

la sua maestria con l’alta tragicità contenutistica del ro-

manzo, trasmessa quasi con toni freddi ed indifferenti;

l’autore stesso sembra non essere coinvolto emotiva-

mente nella funzione di narratore onnisciente, ma la re-

altà è che, tra le righe, traspare la sua passione per la

vita, l’insita e spietata compassione nei confronti dei

protagonisti, ma soprattutto verso tutti quelli che si sen-

tiranno un po’ colpevoli leggendo questo libro.

Valeria D’Ignazio, II B

Nato nel 1907, in una famiglia dei piani alti della borghesia romana, Alberto Pin-cherle fu un gigante dalle ossa malate; era una di quelle coincidenze talmente esatte e fatali, da risultare allineate con l’imprevedibile perfezione del destino. Da bambino contrasse una forma di tu-bercolosi ossea, che lo costrinse a studia-re da autodidatta e che lo portò ad ap-passionarsi alla letteratura, a tal punto da voler diventare uno scrittore. Sua zia Amelia gli era molto cara: le scrisse du-rante la malattia e fu a lei che inviò la sua prima novella, andata perduta; in un certo senso fu l’ispiratrice e la spettatri-ce in prima fila della sua metamorfosi. Fu così, crescendo, lottando contro la sua malattia, spendendo tutti i suoi risparmi per un libro di Joyce, iniziando a ripudia-re i paraocchi e l’egida economica della società borghese, che si trasformò in un gigante della letteratura: Alberto Mora-via.

Nel 1929 pubblicò il suo primo romanzo a sue spese, “Gli Indifferenti”, fortunata conseguenza di un tentativo malriuscito di scrivere una tragedia. Una storia dalle forti tendenze antiborghesi e antifasci-ste, che rese l’autore inviso ai maggiori esponenti rappresentativi del regime politico, ragion per cui Moravia si vide costretto a chiarire le sue posizioni poli-tiche e, per evitare la censura, cominciò a scrivere in maniera allegorica. Il ro-manzo, infatti, divenne un veicolo me-diatico contro la frivolezza e la carente integrità morale della borghesia degli anni ’20 e ’30, una denuncia ai danni del credo marziale fascista, ma in primis fu una presa di coscienza per lo stesso Mo-ravia: «Essendo nato e facendo parte di una società borghese ed essendo allora borghese io stesso, “Gli indifferenti” fu-rono tutt’al più un modo per farmi ren-dere conto di questa mia condizione. Che poi sia risultato un libro antiborghe-se è tutta un’altra faccenda. La colpa o il merito è soprattutto della borghesia ».

Page 12: La Canestra, Febbraio

ANNO VII, NUMERO IV P AGINA 12

Era il 18 No-v e m b r e 1928 quan-do per la prima volta Walt Disney

presentò Topolino al Colony Theatre di New York. Mickey Mouse, prima concepito come Mortimer Mouse ma poi scar-tato perché troppo macabro, nacque nel 1927 con i suoi pri-mi due cortometraggi ("L'aereo impazzito" e "Gallopin' Gau-cho"), che però non riscossero molto successo e non furono distribuiti subito.

Il primo vero debutto di Topoli-no avvenne invece con "Steamboat Willie" nel 1928, segnando l'inizio della fortuna di Disney e della sua stessa cre-atura. Fu il primo cortometrag-gio animato a fare uso del so-noro sincronizzato.

Topolino nacque in un momen-to in cui Walt Disney necessita-va di trovare assolutamente una nuova idea per il prosieguo della propria attività: dei sem-plici topi che scorazzavano ai piedi della scrivania del suo ufficio e il contrasto con l'allora famosissimo gatto Felix furono determinanti nell'idea del topo antropomorfo (Felix The Cat nacque nel 1919, disegnato in inchiostro nero e figura antropomorfa di un gatto). Gli furo-no subito affiancati, per poter circondare il protagonista di nuovi personaggi, la compagna Minnie e l'antagonista Gamba-dilegno.

Non passò molto

tempo dalla nascita del perso-naggio alla sua edizione a fu-metti, che in Italia fu distribuita sottoforma di giornale dal 1932 al 1949 e sottoforma di libretto dal 1949 ad oggi per quasi 3000 numeri.

Dopo la sua prima apparizione Topolino è diventato protago-nista di oltre cento cortome-traggi, senza contare film e vi-deogiochi. Il suo inserimento all'interno dell'universo Disney, popolato dalla grande varietà di personaggi disegnati dalla Walt Disney Company dal 1923 ad oggi, ha portato poi alla nascita di svariati ibridi che hanno

riscosso grande successo, pri-mo fra tutti Kingdom Hearts. Topolino è insomma diventato per la compagnia un personag-gio di importanza tale che, a partire dal 2010, tutti i prodotti Disney si aprono con uno scor-cio del primo successo di Mi-ckey: "Steamboat Willie".

Mickey Mouse, il topolino che Walt Disney tirò fuori dalla pol-vere di una vecchia scrivania degli anni '20.

Daniele Molinari II B

Topolino: un secolo di storia! “Steamboat Willie”

Felix The Cat

Kingdom Hearts

Page 13: La Canestra, Febbraio

LA CANESTRA P AGINA 13

America, anni ’20: pochi anni dopo la Prima Guerra Mondiale questo grande paese sta viven-do un periodo di profondi conflitti interni, il più spaventoso dei quali è sconosciuto ai più… Si tratta della guerra contro i demoni, portata avan-ti da un organizzazione conosciuta come “Ordine di Maddalena”. E’ compito di Rosette, suora dell’ordine, e Chrono, demone pentito, esorciz-zare e, quindi, eliminare più demoni possibile, in modo da liberare l’America da questa piaga, e, nel contempo, trovare Joshua, fratello scompar-so della ragazza. E’ il legame che c’è tra Rosette e Chrono, tuttavia, che rappresenta il tema centra-le su cui si svolge la storia: Rosette, infatti, è la contraente di Chrono, da cui quest’ultimo attinge il potere necessario a risvegliare tutte le sue fa-coltà demoniache, con conseguenze rovinose…

L’angolo manga di Giuseppe Battista!

Chrono Crusade, di Daisuke Moriyama

infatti, più Chrono utilizza l'energia vitale della ragazza, più l’anima di questa va spe-gnendosi.

Così, tra costanti richiami all’iconografia ed alla storia cattolica, personaggi che hanno ricevuto un dono dalla Madonna stessa ed apostoli alati che richiamano la figura degli angeli, ha luogo un epico scontro tra bene e male, tra uomini e demoni, tra luce ed ombra, con risvolti sempre più imprevedi-bili.

Giuseppe Battista II B

Page 14: La Canestra, Febbraio

ANNO VII, NUMERO IV P AGINA 14

La terra desolata di cui scrive T.S. Eliot è abitata da un’umanità degradata, guasta. Le sole relazioni che l’uomo del primo dopoguerra –Eliot, infat-ti, scrive The Waste Land intor-no al 1920- prigioniero dell’inferno urbano, è in grado di instaurare sono sterili in quanto non fondate sulla vera comunicazione, che risulta im-possibile. Per comunicazione vera si intende una situazione di interazione verbale in cui ciascun soggetto è in grado di recepire e interpretare corret-tamente il messaggio che gli proviene dall’altro, e dà egual peso alle parole del suo interlo-cutore (o dei suoi interlocutori) e alle proprie. La crisi della co-municazione è stato un tema caro ad Eliot sin dai tempi della sua prima poesia The Love Song of J. Alfred Prufrock . Qui il protagonista, quasi certa-mente un esponente dell’alta borghesia inglese, denuncia l’ipocrisia di una classe sociale che nasconde dietro mille ceri-monie e convenzioni la propria incapacità di agire (ci sarà tem-po, ci sarà tempo per preparare/ una faccia per in-

contrare le facce da incontrare […] e ancora tempo per mille decisioni e indecisioni, / e per cento visioni e revisioni, / pri-ma di prendere un toast col tè) ma soprattutto di interagire: e ne sarebbe valsa la pena, dopo tutto,/ dopo le tazze, la mar-mellata, il tè […] se una, acco-modandosi un cuscino sotto la testa,/ avesse detto: <<Questo non lo volevo dire affatto. / Questo non è il punto, affat-to>>. Anche il primo personag-gio che si incontra nella secon-da sezione della Terra desolata, A Game of Chess, fa parte della upper class, come denota la descrizione di un interno lussu-oso. Questa volta si tratta di una Lady che, nel suo boudoir,

pronuncia un celebre monolo-go. Non che lei sia sola nella stanza, ma le risposte dell’interlocutore vengono si-stematicamente ignorate: se da una parte la nevrotica Si-gnora si serve di modi della comunicazione quali la doman-da e il comando, che presup-pongono quasi sempre un’interazione fra due parti, se anche ella riceve risposta, cam-bia argomento per passare ad una nuova domanda (<<Ho i nervi scossi stanotte. Sì, scossi. Sta’ con me./ Parlami. Perché non parli mai? Parla./ A cosa stai pensando? Pensando cosa? Cosa?/ Io non so mai che cosa pensi. Pensa.>> Io penso che stiamo nel vicolo dei topi/ Do-ve i morti hanno perso le loro ossa. <<Cos’è questo rumore?> > ) Così l’angoscia esistenziale, la paura di vedere la propria alie-nazione riproporsi all’infinito (A. Serpieri) prevale su qualun-que altro sentimento e impedi-sce di controllare le mosse dell’avversario in quelle partite a scacchi che sono le relazioni umane.

Sara Bellomo, II H

La comunicazione è una partita a scacchi

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Page 15: La Canestra, Febbraio

LA CANESTRA P AGINA 15

"Non significa nulla (se non c'è quello swing)"

La musica Swing è stata la rea-zione in ambito musicale dell'America degli anni '20 al declino socioeconomico attra-verso le idee dei giovani com-positori di quell'epoca. In pochi anni locali si popolarono di gruppi musicali che sotto for-ma di "big band" (trombe, clari-netti, sax, chitarre, percussioni, pianoforte e contrabbasso) o di semplici gruppi di quattro o cinque persone invasero il pa-norama musicale con le loro innovazioni stilistiche. Le diffi-coltà di quegli anni vennero così fronteggiate da quest'a-vanguardia musicale che diven-ne un vero e proprio simbolo di quell'America che nonostante il periodo sicuramente difficile, riusciva ancora a guardarsi a-vanti per incamminarsi verso l'affermazione come superpo-tenza a tempi allegri e movi-mentati. La grande fortuna di questo movimento musicale fu principalmente dovuta alle sue novità ritmiche che invasero i grammofoni e i cuori di quell'e-poca (definita addirittura "Swing Era") prima a Kansas City e a New York, poi in Ameri-ca e nel resto del mondo. Nello stesso periodo si stava svilup-pando un altro tipo di industria culturale che stavolta aveva come fruitore l'intera società del primo dopo guerra: la sto-ria della musica Swing infatti si intreccia con la storia del cine-ma in quanto l'uno garantì e contribuì alla diffusione ed al successo dell'altro reciproca-mente. A dimostrazione di que-sto profondo legame, gli artisti di quel periodo non saranno solo attori o solo cantanti: un esempio tra tutti è il caso di

Frank Sinatra, grande cantante di musica Swing che non trovò però alcuna difficoltà ad entra-re nel mondo del cinema e a diventarne un'icona. E' impor-tante ricordare che l'immagine è il miglior mezzo di diffusione del suono e viceversa e fu ad Hollywood che si capì per la prima volta che anche il popo-lo, e non più solo i ricchi nei teatri, poteva usufruire di que-sti sistemi di comunicazione per diventare esso stesso un "affezionato al prodotto", in questo caso musicale e visivo. Personaggi del calibro di Djan-go Reinhardt, Sun Ra, Benny Goodman, Louis Prima e Gene Krupa diventarono così dei veri punti di riferimento per la mu-sica Jazz, Progressive Blues e poi Mainstream, capaci di ispi-rare molti artisti contempora-nei e posteri: moltissime avan-guardie musicali moderne han-no infatti ripreso i tratti carat-teristici della musica Swing contaminandoli con effettistica e/o basi elettroniche, rievocan-do così quel mondo musicale passato ma sotto tutt'altra chiave interpretativa ("Caravan

Palace" e "Parov Stellar" ad esempio per tutti).

In Italia lo Swing troverà validi compositori solo a partire dagli anni '40 con Alberto Rabagliati per poi arrivare, attraverso Na-talino Otto e Fred Buscaglione, fino agli "urlatori" degli anni '50-'60.

Per quanto fosse nato come impeto reazionario allegro e "dondolante" di quei giovani musicisti degli anni '20 Ameri-cani troppo stanchi di stare senza far niente in un periodo di crisi, il fenomeno della musi-ca Swing non sopravviverà al secondo conflitto mondiale: in quel periodo vennero infatti chiuse quelle sale da ballo che erano generalmente animate da quelle sonorità spensierate, romantiche o semplicemente allegre, per le quali non c'era un'effettiva ragione di essere alla luce del nuovo conflitto mondiale e di ciò che si andava prospettando. Da allora la vita ebbe tutt'altro "swing".

Sergio Picella III B

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ANNO VII, NUMERO IV P AGINA 16

Zelda Sayre Fitzgerald, la regina de ”L’ età del jazz”.

Era il primo decennio del ‘900, a Montgomery, una cittadina nel profondo sud degli Stati Uniti, essere donne significava essere “stupide, belle, piccole e stupide”; eppure tra queste ce n’era una che non seguiva gli stereotipi dell’epoca: si chiamava Zelda Sayre, e la piccola cittadina, i pet-tegolezzi e il cucito erano una prigione per lei. La sua figura anticonformista lasciò il segno in Francis Scott Fitzgerald, che se ne innamorò folle-mente. Ma Zelda detestava i limiti, le costrizioni e non rinunciava a interessarsi ad altri uomini. Do-po abbandoni e riappacificazioni si sposò con Francis nel 1920: l’enfant prodigio della letteratu-ra americana sposa la bellissima viziata ragazza del sud.

Nel 1924 gli Stati Uniti sono percorsi da un brivi-do: Scott pubblica “Di qua del Paradiso”, la cop-pia diventa simbolo di un’America giovane che vuol far discutere e far sentire la propria voce ne ” l’età del jazz”. Zelda è spinta dal desiderio bra-moso di vivere la vita in ogni sua sfaccettatura, anche nelle più tetre.

La “bella e dannata” per ec-cellenza, rimane vittima dei movimenti sinuosi della dan-za, fino a diventarne ossessio-nata. Aveva anche lei un so-gno: diventare una ballerina; ma il susseguirsi di fallimenti la portò alla follia. Erano gli anni d’oro di “Belli e dannati” e, soprattutto, de “Il grande Gatsby”, il romanzo più celebre di Francis Scott Fitzgerald che riuscì a stravolgere gli ideali di un’intera ge-nerazione. Eppure della coppia che aveva incan-tato gli Stati Uniti e l’Europa non restava niente, se non una compulsiva rivalità e un’ossessione condivisa per l’alcol.

Il desiderio disperato di Zelda di non vivere più nell’ombra di suo marito, era così lacerante da averla indotta alla pazzia. Spasmi, allucinazioni e ospedali psichiatrici non le impedirono di chiede-re ancora un ultimo valzer; infatti pubblicò “Save me the waltz” (Lasciami l’ultimo valzer). Questo romanzo rappresenta il declino della profonda

ma lacerante relazione col marito, amore che l’aveva spinta oltre l’impossibile, oltre ogni desi-derio, ma l’aveva privata della gioia di vivere e spento i suoi profondi occhi azzurri.

A soli quarant’anni rimase sola, morto Francis, colpito da un infarto e caduto nell’infame vizio del bere. La bella viziata ragazza del sud si detesta; soprattutto odia la sua vita: era riuscita a sedurre tutta l’America, eppure la sua esistenza non aveva alcun senso. La schizofrenia aveva preso il soprav-vento e una mania suicida la tormentava: non era stata altro che una bella seduttrice sconfitta, or-mai malata, cha aveva tentato di rendersi indipen-dente, fallendo miseramente.

Fu rinchiusa in un ospedale psichiatrico, tenuta in vita dall’unica passione che da sempre era stata parte di lei: scrivere.

I suoi diari erano stati d’ispirazione alle eroine che prendevano forma nei romanzi del marito e le sue novelle, di carattere autobiografico, essenziali per i periodici dell’epoca. Questa passione e una certa inclinazione sarebbero state la fine del suo amore,

originata dalla grande invi-dia nei confronti dell’altro. L’ultima cosa che videro i suoi occhi furono le fiamme, che arsero l’ospedale dov’era rinchiusa. Di lei ri-mase solo cenere. Molti commentarono dopo il tra-gico evento “Con il fuoco si distruggono le ribelli, le

streghe e le sante”.

Ora è sepolta, nella quiete di un cimitero del Mar-yland, assieme al marito.

“Così continuiamo a remare, barche contro cor-rente, risospinti senza posa nel passato“ è inciso sulla loro lapide; ultima frase del romanzo che tanto l’aveva tormenta; lei che per una vita, aveva remato contro sogni impossibili, ideali per tutti gli altri errati, solo per riuscire a brillare, condannata da una società che la costrinse a una prigionia fat-ta di ombre.

Paola Caputo, I G

Bella e dannata

Page 17: La Canestra, Febbraio

LA CANESTRA P AGINA 17

Il trionfo della nazionale italiana di calcio ai campionati del mondo del 1934

La seconda edizione della “Coppa del mondo Ju-les Rimet” si è svolta in Italia, dal 27 maggio al 10 giugno 1934. A trionfare fu proprio la nazionale di casa.

Fortemente voluto da Mussolini, il campionato mondiale di calcio fu utilizzato come espediente per favorire l’inizio di un’unità nazionale di un’Italia ancora profondamente radicata nella tradizione rurale.

Le partite furono disputate in otto città: Bologna, Firenze, Genova, Milano, Napoli, Torino, Trieste e Roma.

Alla fase finale del primo campionato del mondo parteciparono dodici squadre nazionali europee, tre americane e una africana. La sorpresa di que-sto mondiale fu caratterizzata dall’assenza della nazionale campione in carica, l’Uruguay, che rifiu-tò l’adesione al torneo in segno di protesta con-tro i rifiuti di molte nazionali europee, tra le quali l’Italia, a giocare il torneo svoltosi quattro anni prima nel loro paese.

Il mondiale si svolse in un clima teso e di sospet-to: si pensava, infatti, che la vittoria della nazio-nale italiana fosse viziata da alcuni accordi presi precedentemente l’inizio del torneo. In particolar modo vennero contestate le due partite contro la Spagna; oltre ad alcune scelte arbitrali abbastan-za discutibili, il fattore scatenante fu determinato da un episodio della partita Italia - Spagna. Non essendo stata ancora inserita la regola dei calci di rigore alla fine di una partita terminata in pareg-gio dopo i tempi supplementari, questa avrebbe dovuto essere ripetuta. Il gol del pareggio italiano

fu segnato dopo che era stato commesso un fallo sull’estremo difensore spagnolo, Zamora. Il portie-re, per il colpo ricevuto, fu costretto a saltare la ripetizione della gara il che, secondo alcuni, può aver determinato il risultato finale, in favore dell’Italia.

Nonostante tutte le vicende avverse alla nostra nazionale, l’undici di Vittorio Pozzo riuscì a qualifi-carsi per la finale romana e a battere la Cecoslo-vacchia per 2 - 1.

Non fu un mondiale molto seguito dai tifosi italia-ni, in quanto il calcio non aveva ancora assunto quel ruolo “patriottico” tipico del periodo che va dal dopoguerra ai giorni nostri.

La nazionale italiana non partiva fra le favorite a vincere il torneo, ma, come spesso accade nel cal-cio, in quel mondiale del 1934 furono il campo, la testa e il cuore dei giocatori a parlare, dimostran-do una voglia di vincere e far bene che portò a grandi successi nelle manifestazioni sportive degli anni successivi, come le Olimpiadi del 1936 e il secondo trionfo mondiale consecutivo del 1938.

Chiara Bizzoco IIB

Il cielo è azzurro su Roma...per la prima volta!

Page 18: La Canestra, Febbraio

Caporedattori:

Onofrio De Tullio III B

Marta Marotta II B

Valeria D’Ignazio II B

Francesca Tarantino III C

Carla Ferri III C

Daniele Molinari II B

Giuseppe Rubino I G

Redattori:

Claudia Triggiani I E

Federica Trovato I E

Deborah Carenza II B

Sergio Picella III B

Carmine Bianco II H

Giuseppe Battista II B

Paola Caputo I G

Silvia Di Conno, I E

Giorgia Maffei, I E

Chiara Bizzoco, II B

Impaginazione:

Daniele Molinari II B

Onofrio De Tullio III B

#CANESTRA CINEFORUM - MARZO 2013

Film proiettato: DETACHMENT, regia di Tony Kaye, 2011

Ore 16:00, giorno precedente l’assemblea d’istituto

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