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LA CONVERSIONE AL TEMPO DELLA SOVVERSIONE SESSUALE. MARIO BINASCO Consiglio di Istituto 30 giugno 2008 La coscienza cristiana e i cristiani stessi si trovano oggi messi in causa dalla questione omosessuale ad un livello a cui non possono sottrarsi per due ragioni: la prima è che i movimenti politico-culturali che innalzano la bandiera dell’omosessualità vogliono far valere e realizzare socialmente un discorso sull’uomo, un’antropologia che falsifichi quella cristiana, vogliono dare alla loro politica un contenuto antropologico; la seconda ragione è che in realtà questa antropologia non è solo un’idea loro, ma è già ampiamente realizzata e dominante nella realtà sociale condivisa, al punto da determinare già la formazione della coscienza anche del cristiano in quanto uomo del suo tempo. A partire da queste due condizioni la sfida omosessuale chiede espressamente alla chiesa di riconoscere come una realizzazione non discutibile questa antropologia e di arrendersi a questa realtà rinunciando a leggerla come contrastante con quella cristiana. Quindi, questa sfida va raccolta su due versanti, certamente legati tra loro. Il primo versante: se è vero che questa antropologia è già passata nella realtà sociale, ne consegue che dobbiamo sottrarci al terreno chiuso della provocazione politica dei movimenti omosessuali, all’illusione che questi siano portatori di un specifica e particolare esperienza, identità o soggettività antropologica, quando invece essi non sono altro che casi particolari, sintomi particolari, effetti e non cause di una trasformazione antropologica che ha cause ben più ampie e determinanti che conviene riconoscere bene: perché è importante accorgersi che la questione omosessuale è oggi la punta usata per spaccare forme istituzionali e di vita legate ad un’antropologia tradizionale, ma è anche importante individuare sia il martello sia la mano che batte su quella punta. Il secondo versante: in questa almeno apparente realizzazione sociale di un altro modo di vivere la vita umana (e in particolare la questione del corpo e del sesso, della generazione e della parentela), la coscienza cristiana di che cos’è l’uomo deve ritrovare la strutture essenziali del reale per poter leggere tra le righe di questa supposta realtà e potersi rivolgere al soggetto che tra quelle righe abita o si nasconde. Non è superfluo ricordare quanto ho appena detto, perché anche nell’ambito della chiesa oggi non sempre c’è la consapevolezza della realtà di questa sfida. Se guardiamo anche solo l’ultimo dossier sulla questione delle convivenze omosessuali apparso su una rivista dei gesuiti di Milano, orientato a «continuare un dialogo sereno, a uscire da vicoli ciechi che costituiscono una sconfitta per tutti ... a identificare uno spazio di incontro tra diverse posizioni», abbiamo l’impressione che il rilievo antropologico della questione sia messo come minimo in secondo piano e cioè che non venga considerato come il punto rilevante della sfida. Ora, che ci sia sfida antropologica è vero e dichiarato, e questa sfida ha poste in gioco reali, almeno per la coscienza cristiana, perché riguarda proprio il fondamento reale della pretesa cristiana e del discorso cristiano sull’uomo. 1/12

La Conversione Al Tempo Della Sovversione Sessuale

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LA CONVERSIONE AL TEMPO DELLA SOVVERSIONE SESSUALE.MARIO BINASCO

Consiglio di Istituto 30 giugno 2008

La coscienza cristiana e i cristiani stessi si trovano oggi messi in causa dalla questione omosessuale ad un livello a cui non possono sottrarsi per due ragioni: la prima è che i movimenti politico-culturali che innalzano la bandiera dell’omosessualità vogliono far valere e realizzare socialmente un discorso sull’uomo, un’antropologia che falsifichi quella cristiana, vogliono dare alla loro politica un contenuto antropologico; la seconda ragione è che in realtà questa antropologia non è solo un’idea loro, ma è già ampiamente realizzata e dominante nella realtà sociale condivisa, al punto da determinare già la formazione della coscienza anche del cristiano in quanto uomo del suo tempo. A partire da queste due condizioni la sfida omosessuale chiede espressamente alla chiesa di riconoscere come una realizzazione non discutibile questa antropologia e di arrendersi a questa realtà rinunciando a leggerla come contrastante con quella cristiana.

Quindi, questa sfida va raccolta su due versanti, certamente legati tra loro.Il primo versante: se è vero che questa antropologia è già passata nella realtà sociale, ne consegue che

dobbiamo sottrarci al terreno chiuso della provocazione politica dei movimenti omosessuali, all’illusione che questi siano portatori di un specifica e particolare esperienza, identità o soggettività antropologica, quando invece essi non sono altro che casi particolari, sintomi particolari, effetti e non cause di una trasformazione antropologica che ha cause ben più ampie e determinanti che conviene riconoscere bene: perché è importante accorgersi che la questione omosessuale è oggi la punta usata per spaccare forme istituzionali e di vita legate ad un’antropologia tradizionale, ma è anche importante individuare sia il martello sia la mano che batte su quella punta.

Il secondo versante: in questa almeno apparente realizzazione sociale di un altro modo di vivere la vita umana (e in particolare la questione del corpo e del sesso, della generazione e della parentela), la coscienza cristiana di che cos’è l’uomo deve ritrovare la strutture essenziali del reale per poter leggere tra le righe di questa supposta realtà e potersi rivolgere al soggetto che tra quelle righe abita o si nasconde.

Non è superfluo ricordare quanto ho appena detto, perché anche nell’ambito della chiesa oggi non sempre c’è la consapevolezza della realtà di questa sfida. Se guardiamo anche solo l’ultimo dossier sulla questione delle convivenze omosessuali apparso su una rivista dei gesuiti di Milano, orientato a «continuare un dialogo sereno, a uscire da vicoli ciechi che costituiscono una sconfitta per tutti ... a identificare uno spazio di incontro tra diverse posizioni», abbiamo l’impressione che il rilievo antropologico della questione sia messo come minimo in secondo piano e cioè che non venga considerato come il punto rilevante della sfida.

Ora, che ci sia sfida antropologica è vero e dichiarato, e questa sfida ha poste in gioco reali, almeno per la coscienza cristiana, perché riguarda proprio il fondamento reale della pretesa cristiana e del discorso cristiano sull’uomo.

Il punto fondamentale di questa pretesa e di questo discorso è che per il cristianesimo l’uomo esiste ed è reale. Questo non è una banalità scontata, anzi è il contenuto proprio della sovversione che il cristianesimo ha prodotto storicamente, facendo esistere un nuovo soggetto nella realtà: l’essere umano è reale perché è interlocutore di Dio: è creato da Dio che gli ha parlato, è stato accompagnato e seguito da Dio nella sua storia , ed è stato direttamente incontrato da un Dio che per salvarlo si è egli stesso incarnato nella realtà umana. Se Dio ha assunto la natura umana e l’ha poi conservata nella resurrezione, allora l’uomo è reale in un senso radicalmente diverso da ogni altro essere, perché ha la radice più reale che c’è.

Ciò deve comportare il fatto che le operazioni vitali dell’uomo pur ritornando sempre su se stesse — come quelle di qualunque essere vivente — tuttavia non si chiudano su se stesse senza includere almeno la traccia vuota della presenza di un Altro fattore, ma una traccia reale, strutturale, sulla quale il tentativo di chiusura non possa che inciampare; questo mi sembra sinteticamente il requisito minimo o l’ipotesi minima con la quale un’antropologia cristiana affronti la realtà e la vita.

La questione e la sfida veicolata dalla questione omosessuale si situa a questo livello: la posta in gioco non è una ridefinizione o una plastica di questo o quel lineamento del volto umano, ma la posta in gioco è lo statuto reale dell’uomo, è che cosa c’è di reale nell’uomo e nella sua condizione, dato che con questo reale Dio stesso si è compromesso, fornendogli quel supplemento che chiamiamo salvezza.

Fuori del discorso cristiano (che include quello ebraico) è dubbio che l’uomo sia reale: tralasciando altri discorsi religiosi, nel discorso della scienza — che oggi è quello dominante e che è all’origine della sfida di cui parliamo — , nel discorso della scienza il reale che essa ipotizza e dimostra non è affatto umano, non ha alcun volto umano — e infatti l’espressione di «scienze umane» è discutibile e discussa. Nel discorso della scienza quindi l’uomo non è a priori reale, l’uomo può venire ridotto ad una semplice possibilità, per di più già sperimentata, e che si tratta di superare; considerare l’uomo come «il suo stesso esperimento» vuol dire questo, renderlo solo possibile, senza voler sapere di punti di resistenza, di impossibile riduzione, che egli può opporre alla propria stessa azione distruttiva. Fuori del discorso cristiano, poi, reale è al massimo la collettività e il potere che la muove, non certo le

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persone individuali: la singolarità dei legami personali non è reale, anzi non deve esserlo (universalismo scientifico).

Perciò, oggi, nei dibattiti intraecclesiali su questi temi, bisogna avere chiaro la posta in gioco: che è dell’ordine del reale, e riguarda la natura stessa del nostro legame sociale, e se esso si orienti a negare l’esistenza dell’uomo, oppure invece a mantenere lo spazio per questa ipotesi. Qui non si tratta di decidere, per bontà nostra, se la società deve o può modificare il significato formale di certe parole legali e istituzionali (matrimonio, padre, madre, ecc.) per dare un riconoscimento anche ad altre esperienze di rapporto personali e sessuali: come se fosse scontata l’esistenza dell’essere umano e la sua realtà, la sua sessualità, il suo amore o la sua soddisfazione, come se tutti condividessimo la stessa antropologia di fondo.

Dunque, l’uomo come reale ex-siste nel/al discorso cristiano («che è l’uomo perché di lui Ti ricordi e i suoi figli soccorra...»): e non sorprende che ci sia chi voglia far cessare l’uno per negare l’altro (cominciando, a piacere, dal primo o dal secondo). [Penso alla negazione dell’uomo a cui arriva un Michel Foucault, o viceversa all’affermazione di Giovanni Paolo II che senza il mistero di Dio l’uomo diventa inspiegabile: sottolineo inspiegabile, non solo incomprensibile].

Così come non sorprende che fuori del discorso cristiano si pensi all’uomo essenzialmente come a un assemblaggio di parti — per esempio di geni — nessuna delle quali contiene la differenza specifica umana: vedi i vari discorsi sugli embrioni-chimera o sugli scimpanzé che hanno il 98 per cento di geni in comune con gli umani, ecc.). Quello che di nuovo stupisce, è che anche dentro la chiesa trovino tranquilla ospitalità idee di questo tipo, che sostanzialmente implicano la rinuncia a cercare o a pensare l’identità della realtà umana in termini di differenza assoluta, quindi «non negoziabile», in termini di «tutto o nulla». Invece che pensare la differenza — che comunque è una caratteristica della vita soggettiva, perché è una caratteristica del parlare, del logos e della sua struttura — ci si immagina improbabili dosaggi di fattori quantitativi, alimentando superstizioni scientifiche in serie, il cui unico senso è appunto quello di negare l’uomo come soggetto.

Se si può pensare che nella realtà umana esistano solo dosaggi e assemblaggi, si capisce perché anche nella chiesa si possa perdere l’idea che c’è una posta in gioco nella questione antropologica, che come tutte le poste in gioco si può vincere o perdere: realmente. Ma nella coscienza cristiana se si perde il mistero dell’uomo si perde Dio, perché Cristo li ha legati indissolubilmente. È così che molti anche cristiani, non sapendo più letteralmente a quale santo — reale — votarsi, (su quale reale orientarsi), rischiano anche loro di immaginare che la società umana esista su questa terra per il bene dei suoi membri, sì, ma al modo di Babbo Natale o di un grande bazar, al solo scopo di far giocare i suoi membri-bambini al Lego dei diritti. Così molti si paralizzano nel pensiero, spaventati, non appena questi diritti mostrano la loro natura insaziabile, e cioè impossibile da soddisfare, perché sono giochi fatti per non pensare ai costi reali che la vita umana e sociale comporta. Pensieri, questi poco giocosi e poco gai. Stupisce davvero, tra i cristiani, che dovrebbero sapere che il tratto più reale (e più realistico) della condizione e della natura umana è che deve essere salvata, vedere come non si acccorgano neanche più dei costi che le società umane pagano per restare unite. (Almeno lo strisciante ritorno del sacrificio umano servirà a ridestarli?).

Cristo — che ha assunto anche la natura umana — è anche chiamato nel dogma «Logos» o «Verbo»: ma perché oggi è così difficile prendere sul serio questi nomi e accorgersi che sta in questi la differenza che fa l’uomo, che sta nel rapporto unico che egli ha col Logos e col Verbo, col parlare e col il vuoto, il buco, che questo scava nella sua natura animale? Per cui la differenza che rende umana la vita umana, non sta in un gene in più, in un organo in più, in un dispositivo in più, in un Uno-in-più, ma piuttosto in un Uno-in-meno, e cioè nell’Altro che gli manca, nella mancanza dell’Altro che il Logos apre nel soggetto vivente umano, e che niente può chiudere?

Questo aspetto radicale della sovversione cristiana del soggetto è quello forse oggi meno percepibile, dopo secoli nei quali altre sovversioni di altro segno si sono prodotte: mi riferisco alla scienza moderna e, più recentemente, alla sua alleanza con la tecnica e col discorso capitalistico: il dominio di questi esiti del discorso della scienza è ciò che determina in modo capillare e quotidiano tutto lo spettro dei modi di soppressione del soggetto che oggi invadono la vita umana con una sovversione che va al contrario di quella cristiana. [Non c’è da dilungarsi a dimostrare: ma basta pensare a come il concetto e scopo dominante del farmaco, oggi, è quello dell’enhancement, del potenziamento delle prestazioni, dunque quello di un intervento diretto sull’economia del godimento del corpo che bypassa la relazione simbolica con l’Altro, e quindi esclude il soggetto dal circuito dell’azione sul suo stesso corpo: esclusione che noi realizziamo oggettivamente, senza accorgercene, ogni volta che usiamo un farmaco in questo modo automatico. Difficile poi spiegare, anche a noi stessi, la differenza etica tra un cogniceutical o un emoticeutical o un sensoceutical , e un preservativo.]

Uno degli effetti principali di questa sovversione al contrario operata dal discorso della scienza in connessione col mercato è quella che Lacan ha chiamato «sovversione sessuale».

J.Lacan scriveva nel 1970, di una «sovversione sessuale su scala sociale» da indagare nella sua correlazione «con i momenti incipienti nella storia della scienza».

Credo sia utile a questo punto che io cerchi di riassumere — riferendovi e parafrasando ampiamente diversi contributi su questi temi e tesi formulati nella mia comunità psicoanalitica — le idee che gli analisti che conosco si sono fatti sugli effetti di questa sovversione nel modo di vivere il corpo, l’amore e il sesso, sia come

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differenza sessuale, sia come relazione corporea di godimento. Queste idee esprimono esperienze e punti di vista abbastanza condivisi sui fenomeni che gli psicoanalisti incontrano nella loro pratica e sui quali mettono al lavoro i loro soggetti.

La prima ragione per dirvi queste cose è che la psicoanalisi viene considerata, e non a torto, aver contribuito notevolmente al prodursi di questa sovversione se non esserne addirittura l’origine, e dunque è interessante sentire che cosa ne pensano gli analisti.

La seconda ragione è che in ogni caso la psicoanalisi resta pur sempre un modo di incontrare e di trattare la realtà umana, modo che è orientato al reale, pur senza precludere la soggettività della persone: un realismo, ma non in opposizione al soggetto come accade nel resto della scienza.

E la quantità di esperienze cliniche, e cioè personali e singolari, che la psicoanalisi ha accumulato è notevole e significativa.

Allora: la psicoanalisi ha contribuito a questa sovversione sessuale? Sicuramente, ma bisogna capire bene il perché ed il modo. Con la psicoanalisi Freud ha inventato una pratica del tutto nuova ed inedita, situata nel campo della scienza e guidata dagli ideali scientifici, che però affrontava un oggetto inedito nella scienza anche medica, e cioè non l’organismo muto, ma il corpo parlante e dunque il soggetto di quel corpo. Il procedimento freudiano della cura, fondato sul parlare secondo l’associazione libera e sulla relazione con l’analista che ne risultava, era fatto perché il soggetto potesse cogliere e distinguere i diversi fattori del suo modo di vivere la sua vita di soggetto — e cioè il rapporto con se stesso e con gli altri, con gli ideali e con la realtà — fattori che nella sua esperienza si presentavano intrecciati e indistinguibili come tali, anche perché molti di essi, essenzialmente quelli inconsci, erano come la fodera, il rovescio implicito degli altri. Il soggetto dunque, nella relazione di parola, ma radicalmente asimmetrica, con l’analista poteva cogliersi come diviso tra questi diversi fattori, che quindi coglieva essi stessi come disgiunti e disgiungibili, isolabili se non separabili: questa era una proprietà solo della relazione analitica, e in nessun’altra forma di rapporto il soggetto poteva vivere questa disgiunzione. Questo però bastava perché la psicoanalisi, come pratica e come teoria, desse avvio e consistenza all’idea di una possibile disgiunzione dei fattori della vita del soggetto parlante e dei suoi rapporti, tra i quali, fondamentali, quelli in senso lato amorosi.

Così Freud e la sua pratica rendevano possibile un’analisi della vita amorosa che permetteva di mostrare come disgiunti tre assi lungo i quali la vita amorosa si sviluppava: questi assi erano sempre intrecciati nella realtà dell’esperienza, ma una volta distinti e disgiunti secondo la rispettiva consistenza o coerenza di ciascuno di essi, la vita amorosa si poteva pensare non più come una essenza semplice che seguiva una sola legge — la norma eterosessuale da sempre a fondamento di ogni società — , ma come la risultante dei loro modi di intrecciarsi: in questo senso la prevalenza della norma eterosessuale e della sua semplicità simbolica, sembrava piuttosto mascherare o dissimulare in certo modo la disgiunzione di questi tre assi, disgiunzione che invece diveniva evidente non appena in qualche caso la prevalenza o l’efficacia di questa norma veniva meno. Questi tre assi erano: quello delle pulsioni, quello della scelta d’oggetto sessuale, quello dell’identità sessuale.

Le pulsioni sono quelle istanze di soddisfacimento che pur radicandosi nel corpo, sono alla base della vita psichica soggettiva e di ogni appetizione ed esperienza del soggetto vivente, e che ovviamente sono particolarmente interessate nella vita sessuale del soggetto in quanto relazione di corpo e col corpo di altri (a cominciare dal corpo materno per il bambino). Le pulsioni sono dette «parziali» in psicoanalisi, perché pur essendo «sessuali», in realtà «rappresentano solo parzialmente» la sessualità nell’essere umano, in un certo senso sono ciò che resta, ma anche che sostituisce ad un altro livello gli istinti sessuali che nell’essere umano mancano. La scelta d’oggetto sessuale è appunto ciò per cui il sesso dell’altro, del partner desiderato, diventa importante o essenziale per l’investimento amoroso e sessuale del partner. L’identità sessuale consiste sia nell’attribuzione che un soggetto fa di se stesso ad un sesso, sia nella natura sessuata — maschile o femminile — di ciò che ricava dal sesso e dello stile sessuato della sua vita amorosa.

Cito una nota di Freud nel 1915: «Dal punto di vista della psicoanalisi, quindi, l’interesse sessuale esclusivo del’uomo per la donna è anch’esso un problema che richiede una spiegazione e non qualcosa che va da sé e che si potrebbe attribuire ad una attrazione chimica nel suo fondamento.» E poi: «La ricerca psicoanalitica si oppone con la maggiore determinazione al tentativo di separare gli omosessuali dagli esseri umani in quanto gruppo particolarizzato.» E ancora: «si può esigere che l’inversione dell’oggetto sessuale sia strettamente separata sul piano concettuale dalla mescolanza dei caratteri sessuali nel soggetto. Anche in questo caso non possiamo negare ai due poli di questa relazione un certo grado di indipendenza.»

Freud dunque constata dall’esperienza dell’analisi che le vicende delle pulsioni di un soggetto non spiegano da sole la scelta dell’oggetto sessuale, né l’identità sessuale, e che queste vanno spiegate ricorrendo ad altri fattori. Per Freud era la funzione normativa inconscia del complesso di Edipo che spiegava come avveniva l’intreccio tra questi assi: lo spiegava per esempio con l’azione delle identificazioni ideali (di natura simbolica e sociale) che limitavano le pulsioni e orientavano la libido, cioè il desiderio.

Quanto a Lacan, egli ha distinto le pulsioni parziali dalla perversione, che è una vera e propria posizione del soggetto, pur sostenendo che si ha accesso al partner sessuale solo tramite le pulsioni parziali: il che significa che non c’è un rapporto diretto e preformato, universale, tra i godimenti sessuati dell’uomo e della donna — ovvero

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che non c’è un livello animale per così dire automatico e autosufficiente nel rapporto tra i sessi, e che perciò a livello soggettivo ciascun soggetto supplisce con le sue pulsioni, che sono però parziali. Attenzione: stiamo parlando del piano per il quale la relazione sessuale è una relazione di corpo a corpo — che ovviamente non è l’unico piano su cui questa relazione vive. Inoltre per Lacan è solo attraverso l’Altro del linguaggio, che include la funzione del padre, che ciascuno può trovare ordine e norma nel suo essere e agire come uomo o come donna.

Perché ricordare tutte queste cose? La sovversione sessuale di cui parliamo è qualcosa che accade nell’intero corpo sociale — e quindi in modi diversi vale per tutti, condiziona tutti e ciascuno — sia nelle pratiche reali che nei discorsi che le accompagnano. Ora, praticamente questa sovversione sembra consistere nel fatto che quella disgiunzione che la psicoanalisi aveva intravisto e ricostruito dall’intreccio della soggettività inconscia nel chiuso della relazione analitica, ora si trova invece realizzata al livello sociale più condiviso nelle pratiche e nei discorsi sul sesso e sull’amore. Constatiamo che questi fattori della vita amorosa, che la psicoanalisi traeva a fatica dal nascondimento della rimozione attraverso le sue interpretazioni ora si trovano a cielo aperto nella società.

Per esempio, le pulsioni parziali: Freud le scopriva soggiacenti alla rimozione perché incompatibili con gli ideali: ora esse hanno diritto di cittadinanza, sono legittimate, incoraggiate, anzitutto perché commercializzate, messe sul mercato, che ipso facto si qualifica come mercato universale del godimento.

Tanto che i disagi soggettivi sui quali si lavora oggi nelle analisi, i disagi attuali non provengono dalla repressione delle pulsioni, ma proprio dal suo contrario: provengono dallo slegamento, dall’autonomizzazione e legittimazione del registro pulsionale: legittimazione che a ben guardare — ed è un punto molto importante — arriva fino al vero e proprio imperativo di godere, all’ingiunzione a godere, che è ben presente e attiva, anche se latente nell’intreccio col consumismo dominante.

L’esigenza di soddisfazione sensuale, che nella nostra società era interdetta al di fuori dei legami legittimi, è ora passata al registro del diritto soggettivo al godimento individuale, sfruttato dal supermercato capitalista della perversione polimorfa. [Ho già citato altre volte la cruda, ma efficace affermazione dello scrittore Gay Talese: «la rivoluzione sessuale in realtà si è risolta nell’industrializzazione della masturbazione maschile».] Si è creato un grande mercato del godimento, sul quale inevitabilmente tutti ci troviamo, e che produce ciò che il cardinal Scola ha chiamato «erotismo pervasivo» della nostra società: c’è erotismo pervasivo perché i rapporti con gli altri sono ormai vissuti — per «default», in mancanza di altri sensi e altri modi di rapporto — come merci sul mercato dei godimenti.

D’altronde basta guardarsi attorno: pornografia, pratiche variate extra vas debitum, fellatio, sodomia, sadismi à la carte, perfino uccisioni. [Da notare anche il cambiamento di statuto che la morte ha subito da quando è stata messa su questo mercato: da limite assoluto per il soggetto, inafferrabile e indicibile che era prima (e che sarebbe ancora, veramente), è diventata un oggetto di domanda e di offerta: nella forma della morte dell’altro, naturalmente, ma anche della morte di quell’altro che noi stessi diventiamo quando ci facciamo oggetto sul mercato: da notare come questo ha cambiato i termini della questione dell’eutanasia]. Ce n’è per tutti i gusti, da vedere o da fare, con tutti i partners, omo o etero, ovviamente: è il mercato del godimento che produce l’uguaglianza, l’equivalenza, e al limite l’indifferenza — a priori — del sesso dell’oggetto sessuale. Il tutto sostenuto — altro fattore importante — da un sistema dei media diciamo «anti-sublimatorio», che si pasce dell’orrore, dello scandalo, della violenza, della crudità senza veli, ecc.

In tutto questo scenario i vari «corpo a corpo» del godimento sono dappertutto.L’amore, invece, dove lo si trova? quasi da nessuna parte.Il fatto è che il disintreccio dei fattori di cui si diceva, si ripercuote nel rapporto del soggetto con l’oggetto

d’amore.Freud già nel 1912, nel testo Su una delle più comuni degradazioni della vita amorosa, parla della

disgiunzione, della non fusione tra ciò che chiama la corrente tenera e la corrente sensuale — diciamo tra l’amore e il godimento — che appare come un sintomo particolare in certi soggetti, che, cito «là dove desiderano non amano, e là dove amano non desiderano»; ma subito dopo egli dice che è una caratteristica dell’uomo civilizzato, e poco dopo ancora, una caratteristica inerente ala pulsione sessuale come tale.

Sono quei casi nei quali c’è non-coincidenza dell’oggetto del desiderio, o della pulsione, con l’oggetto d’amore: la pulsione tende a sostituire lei il partner dell’amore, e quindi la sua emancipazione può creare minacce al legame sociale, che si fonda sull’amore, cioè sul rapporto da soggetto a soggetto.

E l’oggetto d’amore, a sua volta, di per sé non c’entra con l’oggetto del godimento, ma solo è in rapporto con la mancanza che sta al cuore del soggetto.

Oggi, tra i giovani è abbastanza diffusa la distinzione tra la ricerca del godimento e quella dell’amore, è diffusa l’idea che il godimento del corpo è una cosa e l’amore un’altra, anche se molti si ostinano a sognare (pochi a pensare) la loro convergenza. Dunque stiamo assistendo ad una degradazione della vita amorosa generalizzata, perché l’emancipazione delle pulsioni ha come correlato l’eclissi dell’amore: e questa volta chiaramente l’eclissi non è dovuta alla psicoanalisi, ma a ciò che chiamiamo la caduta di ogni simbolico consistente nella nostra società, la caduta degli ideali e delle sembianze sociali senza i quali l’amore non si sostiene perché non trova forme consistenti da vivere, perché l’amore è sociale.

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Quindi non è che non c’è più l’amore, anzi: solo che non ci sono più modelli socializzati e condivisi dell’amore: e questo lo fa entrare in qualche modo in clandestinità. Di qui un curioso spostamento del pudore e dell’oscenità nella nostra cultura: si può far vedere tutto e dire tutto del corpo, ma non dei sentimenti teneri e amorosi.

Oggi la clinica dell’amore e quella del sesso si presentano in parte divise. D’altronde è vero che, come dice Lacan: «godere di un corpo non è il segno dell’amore», non c’è un cogito che direbbe: «godo del tuo corpo dunque ti amo» e ancora meno «ti amo dunque godo del tuo corpo»: e infatti ci sono modi di amore che non si realizzano affatto attraverso il godimento del corpo dell’altro, anche perché parlare dell’amore è già in se stesso un godimento.

Il fatto fondamentale nella nostra società e civiltà a riguardo del godimento, è che come dice Lacan, oggi non riusciamo a pensare il nostro godimento — compreso quello in gioco nella relazione sessuale e anche nelle relazioni d’amore in genere — se non come un «plus-godere» fornito da un oggetto, e addirittura non riusciamo a parlarne in altro modo.

Il godimento per noi oggi è solo quello accumulabile, capitalizzabile, cioè che può avere un più e un meno, dunque che è paragonabile, confrontabile, è un godimento legato alla discontinuità, al quantitativo, appunto al «plus-godere». E, sempre secondo Lacan, in realtà questo oggetto del godimento, produce una quantità di godimenti insoddisfacenti, quindi in realtà alimenta l’insoddisfazione soggettiva (che non per nulla spinge ancora a ritentare il godimento): infatti questo oggetto è incapace di rispondere alla mancanza d’essere del soggetto.

È per questo che esso ha anche effetti di spinta all’eccesso che oggi si moltiplicano: droghe, sadomasochismo: ma l’eccesso è sempre il segno di un troppo che risponde ad un non abbastanza, è segno di insoddisfazione, secondo una dinamica strutturale del soggetto umano.

Potremmo non capire bene questo discorso sul modo di godimento attuale, se ci dimenticassimo che ci sono state epoche (e che forse ci sono ancora luoghi, comunità di esperienza e di vita) in cui il godimento si diceva in altro modo, se ne parlava in termini d’amore, e perfino d’amore totale, ineffabile, infinito, fino al «puro amore» dei mistici.

Su questo Lacan nel 1961 parlando del santo osservava che per il santo e per la sua gioia Dio era un nome del suo godimento. I mistici parlano in termini d’amore del godimento, sì, ma del godimento Altro, il godimento non legato e prodotto dal «plus-godere», ma che punta al tutto, al tutto-amore, nel quale ci si dà tutto o tutta, ad un Altro che ti prende tutto o tutta.

I miei colleghi psicoanalisti pensano che tutto questo è finito — e l’esperienza quotidiana non dà loro torto, anche se noi possiamo chiederci se è sempre e comunque così, se quando noi parliamo dell’amore non parliamo proprio di quell’amore totale. Ma ritorno dopo su questo.

Tutte queste considerazioni sono derivate dalla clinica psicoanalitica, e sostenute e condivise perciò da analisti estranei alla tradizione ed all’esperienza cristiana. Se le paragoniamo con quello che prima ho chiamato la nostra ipotesi antropologica minima, notiamo che esse vi corrispondono in qualche modo, sia nella descrizione o diagnosi che fanno del modo attuale di «vivere» il sesso e l’amore, sia nelle categorie, le nozioni strutturali sulle quali si appoggiano. Schematicamente mi pare che da un lato la nozione di godimento renda conto del fatto che il vivente tende a chiudersi su di sé, sul fatto di «vivere la propria vita», dunque che non può evitare la questione del possesso, dell’uso e del godimento di sé come vivente: al punto che si può dire che ne ha la responsabilità oggettiva. Dall’altro lato mi pare che il vivente, in quanto umano, in quanto integra nel suo vivere il logos, e quindi include dentro la sua vita la presenza dell’Altro della parola e del linguaggio, della relazione simbolica, del segno, ha un rapporto con se stesso radicalmente mediato dall’Altro, ha un rapporto con se stesso al cuore del quale c’è un vuoto di godimento corporeo, c’è la mancanza che fa il posto dell’Altro. Questa mancanza si manifesta come insoddisfazione nel godimento stesso, oppure come persistente e inevitabile domanda d’amore all’Altro.

Finora non abbiamo parlato specificamente di omosessualità: perché tutto questo giro?Anzitutto perché ho voluto situare la condizione della civiltà, il quadro generale nel quale si colloca la sfida

omosessuale.Poi perché ritengo che non solo non è possibile, ma è controproducente accettare il discorso

sull’omosessualità accettando il terreno del discorso specializzato, che va incontro di fatto alla richiesta di identità avanzata da questi gruppi come identità sociale, di tribù o di villaggio (gay village). Dobbiamo renderci conto del fatto che l’omosessualità oggi è così operativa nella società perché è un caso particolare, quello che forse più si presta, di tutta una situazione, condizione della civiltà: esso fa apparire, relativizzando la differenza sessuale nell’oggetto d’amore o nel partner sessuale (e poi il sesso stesso come gender), fa venire alla luce ormai che l’amore e la partnership sessuale, un tempo più o meno legate, ora sono solo fatte da varianti e serie di oggetti tutti equivalenti in quanto tutti oggetti di consumo («plus-godere»).

Naturalmente resta interessante nello specifico vedere come si costituiscono nei soggetti le forme di scelta d’oggetto omosessuale o più genericamente di desiderio omosessuale: ma questo si può fare nel contesto delle cure analitiche, che sono cure del soggetto, e non dei sintomi di cui si lamenta, resta un interesse dell’analista (oltre che del soggetto stesso).

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Però possiamo certamente chiederci come si propaga, come si trasmette, come agisce soggettivamente questa condizione della civiltà su descritta, «la salita allo zenith sociale dell’oggetto di godimento», per produrre i suoi effetti su tutti i rapporti del soggetto col corpo e con l’Altro.

Molti sono probabilmente i modi e le vie: ma per averne un’idea concreta basta forse evocare i rapporti educativi primari col bambino: se il desiderio dell’uomo sorge nel nesso col desiderio dell’Altro, come Lacan e Freud dimostrano, come può non avere effetti il fatto che il bambino sia lui stesso oggi per il genitore (e per la società), questo tipo di oggetto del godimento, del consumo?

E che da qui derivano: sia le difficoltà del genitore a fare il genitore, cioè a non mettere l’oggetto-bambino in posizione dominante per sé, come oggetto che egli non può pensare di perdere e dal quale si attende la soddisfazione della sua domanda d’amore; sia il ruolo di sintomo sociale che la pedofilia oggi svolge nella nostra società, assieme alla vera fobia che c’è rispetto alla pedofilia (a differenza dell’omofobia, che semplicemente non esiste come sintomo sociale.)

[[Ho insistito su un punto che questa clinica manifesta: e cioè il rapporto sempre problematico, il dissidio e la tensione sempre incipiente nel soggetto di oggi tra il godimento e l’amore, e ne ho indicato alcune ragioni strutturali, tra le altre la mancanza, socialmente parlando, di un simbolico che aiuti ad annodare i diversi fattori della vita amorosa. La forma sociale attuale del matrimonio non è sufficiente, come tale, a costituire questo simbolico: e lo vediamo dal fatto che i cristiani stessi ricorrono sempre più esplicitamente alla dimensione sacramentale per dare consistenza alla propria vita coniugale e per sostenersi in essa, segno che la forma sociale matrimonio come tale non è un sostegno: anche se, in mancanza d’altro, viene ancora giustamente invocata per tentare di vivere l’avventura coniugale.

La disgiunzione tra l’amore e il regime dell’oggetto di godimento è non solo presente, ma strutturale e fondamentale anche nei rapporti omosessuali che si vogliono di coppia: anzi, in essa è del tutto evidente il funzionamento del godimento pulsionale come genericamente perverso. Quindi la realtà della coppia omosessuale è da questo punto di vista una realtà che si sa fallimentare.

Credo che anch’essa chieda il matrimonio come unica forma per sostenere un tentativo di legame amoroso. Ma con una notazione: che lo chiede come forma vuota, sganciata dal suo contenuto reale eterosessuale che qualificava il matrimonio come tentativo della civiltà e del simbolico di fare presa sul e di spiegarsi il mistero della differenza sessuale. Quindi chiede il matrimonio a prezzo della rinuncia consapevole al suo significato. E lo chiede con un argomento, in fondo, di questo tipo: poiché anche la coppia eterosessuale ha fallito nel matrimonio, se ci si sposa sapendo in partenza che si fallisce, allora anche noi possiamo dare al nostro personale fallimento la forma del matrimonio.]]

Come dicevo, la posta in gioco antropologica è fondamentale: a me pare che il problema davanti a questa sfida non è quello di trovare un modo sereno di comporre delle posizioni, perché la chiesa o la coscienza cristiana non ha da comporre niente, né ha la competenza per farlo; il problema per la coscienza cristiana è quello di offrire l’esperienza, il fatto, la dinamica che la costituisce, e così aiutare i soggetti a interrogarsi, a mettere in questione e a dire bene anche l’esperienza dell’omosessualità, ma non come pretesa di affermazione sociale di una supposta pienezza, ma come esperienza di soggetti divisi; non come bandiera di pretesa felicità, ma come esperienza del fallimento anche di questa illusione. D’altronde, se la felicità sta nella pratica omosessuale (e perché allora non della sessualità tout court?), allora la felicità non sta nella persona di Cristo: questo dovrebbe essere chiaro. Anche il discorso gay si pone come una buona novella, per quanto risibile e parodistica. (Ricordo cosa mi disse un giovane che seguivo, cattolico, dopo un tentativo interrotto di analisi: «ho deciso di cercare la felicità», e intendeva cercare dei partners omosessuali). O almeno può rientrare nella categoria della «durezza del vostro cuore»?

Non ci può essere serena composizione tra il dire, il discorso, che fa socialmente l’omosessualità — assieme beninteso a tutta una serie di ideologie del godimento, tecnoscientifiche, consumiste e capitaliste attuali — e il dire, il discorso di Cristo che interpreta, nel suo incontro, la mancanza strutturale dell’uomo: sono due dire del tutto diversi, e noi non possiamo che scegliere: proprio perché le proposte omosessuali si inscrivono nel dire della società consumista, che consiste in una forclusione della questione dell’amore e del sesso, in una fondamentale negazione del problema, di cui si pone come una soluzione che evita però di porlo e di viverlo.

Ciascuno di noi è un buco irriducibile nel reale, e abbiamo la responsabiltià di questo buco che siamo, anzi è l’unico significato della parola responsabilità: la nostra vocazione, la nostra vita stanno in questo. Come cristiani abbiamo un desiderio da offrire — cioè qualcosa di cui manchiamo — ed è il desiderio che anche per l’altro si apra quel buco, quel vuoto, quella mancanza che Cristo ha aperto e rivelato in noi come verità del vivere: è la stessa mancanza che è strutturale della vita umana e alla quale Cristo dà in certo modo il suo nome.

Concludo con un’immagine, che rappresenta bene la questione: il quadro di Caravaggio sulla vocazione di Matteo. Il quadro mostra bene come l’indirizzo personale della chiamata di Cristo interviene sui rapporti di identificazione tra il soggetto Matteo e il suo ambiente, il suo compito o lavoro, il suo status sociale: il gesto di chiamata di Cristo isola evidentemente Matteo dai vicini ai quali è legato socialmente, e-voca, chiama fuori da quei

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Page 7: La Conversione Al Tempo Della Sovversione Sessuale

legami e fa sorgere letteralmente un soggetto nuovo ponendogli la questione radicale della sua soddisfazione vitale ultima in tutto questo, e mostra già, quasi solo a lui, che questa soddisfazione, o meglio che la risposta a questa questione è incarnata, è già presente lì, incarnata in Colui che ha fatto sorgere la questione stessa.

Alcuni dei partners abituali di Matteo non si accorgono nemmeno di questa e-vocazione, restano nel rapporto usuale col denaro, oggetto del loro lavoro: ma è chiaro che almeno per Matteo questo rapporto viene profondamente relativizzato e dunque potenzialmente sovvertito dal fatto che in quel campo chiuso della relazione col denaro si introduce un altro rapporto personale che immediatamente apre e rivela un vuoto vitale: questo vuoto gli permette di accorgersi che c’è una soddisfazione che non gli viene data dal rapporto di possesso e di godimento col denaro né con un altro oggetto di possesso o godimento, ma che è di un Altro ordine e di un Altro rapporto, e gli permette di sperarla, cioè desiderarla ed attenderla da questo rapporto: per questo ordine e rapporto il Vangelo usa un certo termine della gamma dei significanti dell’amore, agape o caritas: le due encicliche di Benedetto XVI non per nulla sono dedicate alla carità e alla speranza.. Il quadro mostra bene questo effetto dell’incontro con Cristo, che è paradigmatico e strutturale, non eventuale ed accessorio al fatto cristiano, effetto che chiamiamo di conversione: esso non consiste anzitutto nell’aderire ad un sistema stabilito, universale, di riti di idee e di discorsi, ma in un cambiamento dell’assetto economico della vita soggettiva, cioè dell’insieme delle soddisfazioni e dell’uso dei godimenti vitali che permettono appunto a ciascuno di vivere. Nel quadro, nella vocazione, è un incontro contingente e singolare che appare addirittura come sovversivo del rapporto di Matteo col suo ordine sociale costituito, (anche se poi quell’incontro contingente si rivelerà via e veicolo di un accesso al reale incomparabile). È molto difficile pensare che i rapporti dell’esattore con i contribuenti potessero continuare esattamente come prima — e stiamo parlando di una società nella quale comunque questi rapporti erano una realtà accettata — proprio per il tarlo della relativizzazione, della de-assolutizzazione, introdotto in essi dal nuovo rapporto personale con Cristo che chiama: la contingenza e novità della chiamata buca il rapporto di godimento, cioè gli toglie il compito e la pretesa di rappresentare la realizzazione e il compimento della persona. Come minimo pone al soggetto il problema seguente: è possibile continuare a vivere in parallelo i propri godimenti e il nuovo amore che li buca? e quale rapporto sarebbe possibile tra i due? quale rapporto che non insulti la verità?

Il Vangelo non ci parla delle eventuali resistenze di Matteo vissute nella trasformazione della sua economia soggettiva, di sue difficoltà ad lasciar trasformare il suo rapporto col denaro: ci parla però del giovane ricco (ricco, appunto, del godimento di molti beni), e dell’impasse in cui si è trovato nel momento in cui riconoscere la verità nuova implicava perdere l’illusione di perfezione e di salvezza inerente al sistema dei beni e della legge, al sistema dei godimenti — compresi quelli morali — legittimi e consacrati dalla legge.

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