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LA CRISI DEL LAVORO
5 MODALITA’ PER CUI SE NE PARLA
1) LAVORO ASSENTE
Lavoro che manca
Lavoro che si perde
Crisi d’identità dei soggetti che perdono/non trovano lavoro
Emigrazione – Fuga cervelli
2) LAVORO RIFIUTATO
Lavoro che c’è ma viene rifiutato: lavori manuali, umili, faticosi (appannaggio di immigrati!?)
NEET: giovani che non studiano, non lavorano, non cercano lavoro (bamboccioni!?)
3) LAVORO INUTILE
Lavoro inefficiente – improduttivo – bassa produttività rispetto ad altri Paesi (si produce meno a
parità di ore/giornate dedicate)
Settore Pubblica Amministrazione: sprechi, inefficienze, burocrazia “inutile”
4) LAVORO SPRECATO
Incapacità di valorizzare energie e risorse
Sotto accusa il sistema formativo: inadeguatezza, incapacità di riscontrare il mercato
Sotto accusa il sistema Italia
5) LAVORO ALIENATO
Peggioramento condizioni di lavoro: ritmi lavoro, infortuni, sicurezza
Decadimento esperienze lavorative
Difficoltà a trovare lavoro a tempo indeterminato
Precarizzazione del lavoro
Concorrenza internazionale e con immigrati
Convinzione dell’inutilità degli anni di studio – Frattura scolarizzazione/lavoro
I MEDIA E IL LAVORO
3 CORNICI CON CUI SE NE PARLA
1) Necessità di maggior efficienza e di razionalizzazione del sistema produttivo;
Riduzione del gap di produttività, anche del lavoro;
Riduzione forbice costo del lavoro;
Razionalizzazione/riduzione costi welfare pubblico;
2) Lavoro come esperienza esistenziale
Il lavoro come esperienza esistenziale
Lavoro = valore umano
Sguardo attento sulle condizioni di vita
Difesa dello Stato sociale come meccanismo in grado di garantire giustizia sociale
3) Difesa del lavoro = difesa delle comunità locali, salvaguardia del tessuto sociale locale
Regionalizzazione c/ globalizzazione e c/ delocalizzazione
LA DIFESA E LA LOTTA PER IL LAVORO
IL SENSAZIONALISMO
Oggi sembrerebbero contare soltanto le prime pagine dei media:
2
a) le grandi manifestazioni
b) i gesti eclatanti
ciò finisce per oscurare:
a) il lavoro quotidiano di tanti rappresentanti sindacali;
b) la rappresentatività delle OO.SS.
LAVORO E CONSUMI
Minor lavoro, precarizzazione/incertezza lavoro = bassi salari, minori redditi = contrazione dei
consumi
Lavoro per consumare?
Pubblicità, stili di vita, finanziamenti al consumo
LAVORO RICREATO O RITROVATO
a) Retorica del talento: talenti che emergono, eccellenze che primeggiano nella ricerca,
nell’imprenditoria, nelle professioni
b) Retorica dell’innovazione: settori tradizionali “perdono colpi” a causa della concorrenza dei
PVS, esaltazione di coloro che sono riusciti a “creare nicchie” sfruttando idee, nuove
tecnologie, …
c) Retorica della riscoperta e valorizzazioni delle origini
LAVORO: DUE CULTURE IN CERCA DI SOLUZIONI
A) CULTURA SECOLARIZZATA: vede il soggetto del lavoro nell’individuo come tale
secondo una concezione utilitaristica del rapporto di lavoro (giustizia, contratti, …) e
valorizza il lavoro in funzione della auto-realizzazione dell’individuo. La disoccupazione è
il risultato di un gioco di utilità.
B) CONCEZIONE UMANISTICA: Il soggetto del lavoro è la persona in relazione con altri.
Rapporto di lavoro come “fatto sociale totale”. Lavoro come bene comune e, quindi,
importanza dei legami primari e secondari: famiglia, formazioni sociali, OO.SS.,
equilibrio/interazione interessi degli “stakeholders”. La disoccupazione è il sintomo di una
distorsione morale sociale perché spegnimento della vita morale delle persone
LAVORO – IMPRESA – IMPRENDITORE
L’impresa crea lavoro - Il lavoro crea impresa
Profitto e lavoro – La forbice salariale
La RSI (Responsabilità sociale dell’impresa) e il lavoro
Il “Welfare” aziendale e valorizzazione del “capitale umano-lavoro”
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I PRINCIPI FONDANTI LA DOTTRINA SOCIALE DELLA CHIESA
Il principio personalista (CDSC 105 – 107)
Principio di maggior importanza di tutta la Dottrina Sociale della Chiesa di cui è l’irrinunciabile
e costante punto di riferimento.
Trae origine dallo stesso dogma cristiano: «la dignità della persona si fonda sul fatto che essa è
creata ad immagine e somiglianza di Dio ed elevata ad un fine soprannaturale trascendente le vita
terrena. L’uomo, quindi, come essere intelligente e libero, soggetto di diritti e di doveri, è il primo
3
principio e, si può dire, il cuore e l’anima dell’insegnamento sociale della Chiesa» (GS 1). E il
Magistero sociale della Chiesa riafferma:
«La Chiesa vede nell'uomo, in ogni uomo, l'immagine vivente di Dio stesso; immagine che trova
ed è chiamata a ritrovare sempre più profondamente piena spiegazione di sé nel mistero di
Cristo, Immagine perfetta di Dio, Rivelatore di Dio all'uomo e dell'uomo a se stesso. A
quest'uomo, che da Dio stesso ha ricevuto una incomparabile ed inalienabile dignità, la Chiesa si
rivolge e gli rende il servizio più alto e singolare, richiamandolo costantemente alla sua altissima
vocazione, perché ne sia sempre più consapevole e degno. Cristo, Figlio di Dio, “con la sua
incarnazione si è unito in un certo senso ad ogni uomo”; per questo la Chiesa riconosce come
suo compito fondamentale il far sì che una tale unione possa continuamente attuarsi e rinnovarsi.
In Cristo Signore, la Chiesa indica e intende per prima percorrere la via dell'uomo, e invita a
riconoscere in chiunque, prossimo o lontano, conosciuto o sconosciuto, e soprattutto nel povero e
nel sofferente, un fratello “per il quale Cristo è morto” (1 Cor 8,11; Rm 14,15)» (CDSC 105).
È il principio che nella sua portata antropologica costituisce la fonte degli altri principi che fanno
parte del corpo della dottrina sociale: «Tutta la dottrina sociale si svolge, infatti, a partire dal
principio che afferma l’intangibile dignità della persona umana».
L’uomo-persona è il soggetto e il centro della società, la quale con le sue strutture,
organizzazioni e funzioni, ha come scopo la creazione e il continuo adeguamento di condizioni
economiche, sociali e culturali che permettano al maggior numero possibile di persone lo sviluppo
delle loro capacità e il soddisfacimento delle loro legittime esigenze di perfezione e di felicità.
Il principio del bene comune (CDSC 164 – 170)
Ogni ambito della società deve primariamente concorrere al bene dell’uomo e di ogni uomo,
perché solo così si potrà realizzare un vero e armonioso sviluppo. L’uomo deve essere sempre
pensato non solo come individuo, ma anche nella sua relazione con la società, cioè con gli altri
uomini che compongono la comunità in cui vive ed opera. Accanto al bene individuale, dunque, c’è
un bene legato al vivere sociale delle persone, «è il bene di quel “noi-tutti”, formato da individui,
famiglie e gruppi intermedi che si uniscono in comunità sociale» (CV 7). Il Compendio tratta del
bene comune offrendo la seguente definizione:
«Dalla dignità, unità e uguaglianza di tutte le persone deriva innanzi tutto il principio del bene
comune, al quale ogni aspetto della vita sociale deve riferirsi per trovare pienezza di senso.
Secondo una prima e vasta accezione, per bene comune s'intende “l'insieme di quelle condizioni
della vita sociale che permettono sia alle collettività sia ai singoli membri, di raggiungere la
propria perfezione più pienamente e più celermente” (Gaudium et spes, n. 26). Il bene comune
non consiste nella semplice somma dei beni particolari di ciascun soggetto del corpo sociale.
Essendo di tutti e di ciascuno è e rimane comune, perché indivisibile e perché soltanto insieme è
possibile raggiungerlo, accrescerlo e custodirlo, anche in vista del futuro. Come l'agire morale
del singolo si realizza nel compiere il bene, così l'agire sociale giunge a pienezza realizzando il
bene comune. Il bene comune, infatti, può essere inteso come la dimensione sociale e
comunitaria del bene morale».
Il concetto di bene comune, dunque, delegittima una concezione privatistica dei diritti i quali,
pur essendo formulati per esprimere l’uguale dignità di ogni persona, frequentemente sono invocati
per rivendicare beni auspicati per se stessi, nell’oblio dei doveri verso gli altri. Ciò è proprio di una
concezione contrattualistica della società per la quale l’uomo è un essere costitutivamente
individuale, spinto ad associarsi con altri uomini per mera convenienza. All’interno di una
concezione contrattualistica e individualista della società, le relazioni sono improntate a una logica
utilitaristica, centrata sul proprio tornaconto, «ne vediamo i frutti nella piaga dell’evasione fiscale e
nell’impiego a fini personali di beni pubblici; nella corruzione e nell’indifferenza verso i poveri. In
4
sintesi, l’individualismo genera solitudine».1
Il bene comune, dunque, non va confuso né con il bene privato, né con il bene pubblico. Nel
bene comune, il vantaggio che ciascuno trae per il fatto di far parte di una certa comunità non può
essere scisso dal vantaggio che altri pure ne traggono. Ciò significa che l'interesse di ognuno si
realizza insieme a quello degli altri, non già contro (come accade con il bene privato), né a
prescindere dall'interesse degli altri (come accade con il bene pubblico). Al riguardo è stato
giustamente sottolineato che «così inteso, il bene comune ha oggettivamente dei nemici: chi si
comporta da “opportunista”, vivendo alle spalle degli altri; ma anche chi si comporta da “altruista
puro”, volendo annullare il proprio legittimo interesse per favorire l’altro. Né egoismo, né altruismo
puro sono in grado di sostenere un ordine sociale veramente umano. Ciò che fa crescere il bene
comune è un comportamento ispirato al principio di reciprocità, che ci fa sentire parte di un corpo,
legati gli uni agli altri».2
Le ragioni dunque per chiamare «comune» questo bene sono due. Una ragione è che questo bene
può essere costruito, raggiunto, accresciuto solo comunitariamente, cioè dallo sforzo comune di
un’intera società. L’altra ragione è che è un bene indivisibile, se ne può godere soltanto tutti
insieme. Il bene comune deve essere come l’ossigeno che alimenta ciascuna cellula dell’organismo
sociale e ne stimola la vita e l’attività.
Il principio di solidarietà (CDSC 192 - 196)
La solidarietà, unitamente al concetto di sussidiarietà, è un principio che nella Chiesa è stato da
sempre affermato, anche se in modo implicito, in quanto parte integrante della visione
antropologica cristiana derivante dalla Rivelazione. Ciò è ben sintetizzato nel Compendio nel quale,
operando una sapiente sintesi di quanto affermato nelle singole encicliche del magistero sociale, è
ben sottolineato che
«La solidarietà conferisce particolare risalto all’intrinseca socialità della persona umana,
all’uguaglianza di tutti in dignità e diritti, al comune cammino degli uomini e dei popoli verso
una più convinta unità. Mai come oggi c’è stata una consapevolezza tanto diffusa del legame di
interdipendenza tra gli uomini e i popoli, che si manifesta a qualsiasi livello».
La percezione della vicendevole dipendenza porta ogni uomo a sentirsi eticamente responsabile
del bene dell’altro uomo, di ogni altro uomo; la solidarietà, quindi, non è «un sentimento di vaga
compassione o di superficiale intenerimento per i mali di tante persone, vicine o lontane» ma si
presenta «sotto due aspetti complementari: quello di principio sociale e quello di virtù morale».
La solidarietà è un «principio sociale» e deve essere colta «nel suo valore di principio ordinatore
delle istituzioni, in base al quale le “strutture di peccato” che dominano i rapporti tra le persone e i
popoli, devono essere superate e trasformate in strutture di solidarietà, mediante la creazione o
l’opportuna modifica di leggi, regole del mercato, ordinamenti».
In quanto “virtù morale” la solidarietà «è la determinazione ferma e perseverante di impegnarsi
per il bene comune: ossia per il bene di tutti e di ciascuno, perché tutti siamo veramente
responsabili di tutti».
Dal principio della solidarietà dovrebbe discendere per ciascun uomo, per tutti gli uomini, la
consapevolezza del debito che hanno nei confronti della società entro la quale sono inseriti:
«sono debitori di quelle condizioni che rendono vivibile l’umana esistenza, come pure di quel
patrimonio indivisibile e indispensabile, costituito dalla cultura, dalla conoscenza scientifica e
tecnologica, dai beni materiali e immateriali, da tutto ciò che la vicenda umana ha prodotto. Un
simile debito va onorato nelle varie manifestazioni dell’agire sociale, così che il cammino degli
1
ANGELO BAGNASCO, La questione antropologica della Dottrina Sociale della Chiesa, Relazione
all’Incontro pre pasquale con i politici, Aula Magna Università della Santa Croce, Roma 7 marzo 2012. 2 TARCISIO BERTONE, Il contributo di Joseph Ratzinger-Benedetto XVI alla riflessione etica sull’economia
odierna, Lectio Magistralis all’Apertura del Centro Universitario di Studi del pensiero di Joseph Ratzinger –
Benedetto XVI, Bygdoszcz, 11 giugno 2012.
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uomini non si interrompa, ma resti aperto alle generazioni presenti e a quelle future, chiamate
insieme, le une e le altre, a condividere, nella solidarietà, lo stesso dono».
Il principio di sussidiarietà (CDSC 185 – 188)
Il principio di sussidiarietà è un asse portante dell’insegnamento sociale della Chiesa e, a livello
di attualizzazione, uno dei principi più fecondi poiché in grado di fornire concreti orientamenti nella
soluzione dei problemi che le vicende storiche sottopongono all’uomo e alla società.
Il suo nome deriva dal termine latino subsidium che vuol dire rinforzo, aiuto, sostegno, soccorso.
Il principio della sussidiarietà afferma:
«è illecito togliere agli individui ciò che essi possono compiere con le forze e l’industria propria
per affidarlo alla comunità, così è ingiusto rimettere a una maggiore e più alta società quello che
dalle minori e inferiori comunità si può fare. Ed è questo insieme un grave danno e uno
sconvolgimento del retto ordine della società; perché l’oggetto naturale di qualsiasi intervento
della società stessa è quello di aiutare in maniera suppletiva le membra del corpo sociale, non già
distruggerle e assorbirle».
Le istituzioni sociali sono molte; il principio della sussidiarietà sostiene che quelle più vicine alla
persona, cioè quelle di livello inferiore devono essere aiutate da quelle di livello superiore a
svolgere il loro compito senza sostituirsi a loro. Ciò in quanto principio, soggetto e fine della
società è la persona e, quindi, devono essere valorizzate e non eliminate le società intermedie e
naturali le quali, in quanto più vicine alla persona, sono «più umanizzanti», meno anonime, meno
burocratizzate, valorizzano maggiormente il senso di appartenenza e favoriscono la partecipazione
attiva.
In base al principio della sussidiarietà il Compendio puntualizza come «tutte le società di ordine
superiore devono porsi in atteggiamento di aiuto (subsidium) - quindi di sostegno, promozione,
sviluppo - rispetto alle minori. In tal modo, i corpi sociali intermedi possono adeguatamente
svolgere le funzioni che loro competono, senza doverle cedere ingiustamente ad altre aggregazioni
sociali di livello superiore, dalle quali finirebbero per essere assorbiti e sostituiti e per vedersi
negata, alla fine, dignità propria e spazio vitale».
Il principio di sussidiarietà ha ricevuto un’ulteriore specificazione con la lettera enciclica Caritas
in Veritate:
«Manifestazione particolare della carità e criterio guida per la collaborazione fraterna di credenti
e non credenti è senz'altro il principio di sussidiarietà, espressione dell'inalienabile libertà
umana. La sussidiarietà è prima di tutto un aiuto alla persona, attraverso l'autonomia dei corpi
intermedi. Tale aiuto viene offerto quando la persona e i soggetti sociali non riescono a fare da sé
e implica sempre finalità emancipatrici, perché favorisce la libertà e la partecipazione in quanto
assunzione di responsabilità. La sussidiarietà rispetta la dignità della persona, nella quale vede
un soggetto sempre capace di dare qualcosa agli altri. Riconoscendo nella reciprocità l'intima
costituzione dell'essere umano, la sussidiarietà è l'antidoto più efficace contro ogni forma di
assistenzialismo paternalista. Essa può dar conto sia della molteplice articolazione dei piani e
quindi della pluralità dei soggetti, sia di un loro coordinamento».
Ogni forma di accentramento, di assistenzialismo, di burocratizzazione dei rapporti, l’eccessiva
presenza dello Stato e dell’apparato pubblico, dunque, sono modalità che mortificano il principio di
sussidiarietà poiché per tale via si «provoca la perdita di energie umane e l’aumento esagerato degli
apparati pubblici, dominati da logiche burocratiche più che dalla preoccupazione di servire gli
utenti, con enorme crescita delle spese».
Il principio della sussidiarietà è comunque soggetto al criterio di discernimento del «bene
comune correttamente inteso, le cui esigenze non dovranno in alcun modo essere in contrasto con la
tutela e la promozione del primato della persona e delle sue principali espressioni» e «va mantenuto
strettamente connesso con il principio di solidarietà e viceversa, perché se la sussidiarietà senza la
solidarietà scade nel particolarismo sociale, è altrettanto vero che la solidarietà senza la sussidiarietà
scade nell'assistenzialismo che umilia il portatore di bisogno».
6
L’attualizzazione del principio, dunque, impone in primo luogo la promozione effettiva del
primato della persona e della famiglia, «prima e vitale cellula della società», e la valorizzazione
delle associazioni e delle organizzazioni intermedie; solo in un secondo momento, constatata
l’impossibilità dei corpi intermedi ad assumere autonomamente le iniziative, lo Stato può
intervenire con funzioni di supplenza al fine di rimuovere le cause di impedimento e di squilibrio
ricreando le condizioni di uguaglianza, di giustizia e di pace.
La coniugazione della sussidiarietà, in altre parole, caratterizza l’articolazione pluralistica della
società, incoraggia l’iniziativa privata, attua il decentramento burocratico e amministrativo, è
espressione di un corretto equilibrio tra sfera pubblica e quella privata favorendo la «funzione
sociale del privato» cioè la «responsabilizzazione del cittadino nel suo “essere parte” attiva della
realtà politica e sociale del Paese».
In sintesi si può affermare che il principio di sussidiarietà postula una società partecipativa in cui
le persone o i gruppi siano realmente corresponsabili e solidali, ciò in quanto affonda le sue radici
nel primato della persona e nella natura sociale della persona.
La sussidiarietà, inoltre, presuppone due livelli di articolazione: uno verticale, discendente e
ascendente, e l’altro orizzontale.
L’articolazione verticale «discendente» presuppone che le società maggiori diano subsidium a
tutte le società inferiori che rientrano nelle loro sfera di competenza affinché realizzino pienamente
i loro fini. Il livello verticale «ascendente», invece, presuppone che le società inferiori siano tenute
a dare il proprio contributo per la realizzazione degli obiettivi delle società maggiori, cioè del bene
comune regionale, nazionale, internazionale.
L’articolazione orizzontale implica che ogni società è chiamata a riconoscere, rispettare e aiutare
in modo complementare le società appartenenti al proprio livello.
L’interrelazione fra i quattro principi
I quattro principi fondamentali che costituiscono l’ossatura, il fulcro, il nucleo fondante del
Magistero sociale della Chiesa sono tra loro interconnessi e intrecciati a tal punto che il richiamo di
uno attira, coinvolge necessariamente anche gli altri. Al riguardo è suggestiva un’immagine offerta
da Benedetto XVI ai partecipanti all’assemblea plenaria della Pontificia Accademia delle Scienze
Sociali.
Avendo a mente che le definizioni di dignità umana («valore intrinseco della persona creata a
immagine e somiglianza di Dio e redenta in Cristo»), di bene comune («insieme delle condizioni
sociali che permettono alle persone di realizzarsi collettivamente e individualmente»), di solidarietà
(«virtù che permette alla famiglia umana di condividere in pienezza il tesoro nascosto dei beni
materiali e spirituali») e di sussidiarietà («coordinamento delle attività della società a sostegno della
vita interna delle comunità locali») possono essere comprese nel loro profondo significato «solo se
vengono collegate organicamente le une alle altre e considerate di sostegno reciproco».
Ebbene, avvalendosi della ben nota rappresentazione matematica denominata «sistema di
riferimento cartesiano», Benedetto XVI suggerisce di «tratteggiare le interconnessioni fra questi
quattro principi ponendo la dignità della persona nel punto di intersezione di due assi, uno
orizzontale, che rappresenta la “solidarietà” e la “sussidiarietà”, e uno verticale, che rappresenta il
“bene comune”. Ciò crea un campo su cui possiamo tracciare i vari punti della dottrina sociale della
chiesa che formano il bene comune».
Il Papa è conscio che la realtà è molto più complessa di quanto l’analogia grafica possa
suggerire: «le profondità insondabili della persona umana e la meravigliosa capacità dell'umanità di
comunione spirituale, realtà queste pienamente dischiuse solo attraverso la rivelazione divina,
superano di molto la possibilità di rappresentazione schematica». L’esame dei principi di solidarietà
e sussidiarietà, invero, non sono semplicemente orizzontali:
«entrambi possiedono un'essenziale dimensione verticale. Gesù ci esorta a fare agli altri ciò che
vorremmo fosse fatto a noi (cfr Lc 6, 31), ad amare il nostro prossimo come noi stessi (cfr Mt 22,
35). Questi comandamenti sono iscritti dal Creatore nella natura stessa umana (cfr Deus caritas
7
est, n. 31). Gesù insegna che questo amore ci esorta a dedicare la nostra vita al bene degli altri
(cfr Gv 15, 12-13). In questo senso la solidarietà autentica, sebbene cominci con il
riconoscimento del pari valore dell'altro, si compie solo quando metto volontariamente la mia
vita al servizio dell'altro (cfr Ef 6, 21). Questa è la dimensione "verticale" della solidarietà: sono
spinto a farmi meno dell'altro per soddisfare le sue necessità (cfr Gv 13, 14-15), proprio come
Gesù "si è umiliato" per permettere agli uomini e alle donne di partecipare alla sua vita divina
con il Padre e lo Spirito (cfr Fil 2, 8; Mt 23, 12)».
Anche la sussidiarietà si coniuga in una dimensione verticale poiché incoraggia gli uomini ad
instaurare «rapporti donatori di vita con quanti sono loro più vicini». Per Benedetto XVI
«una società che onora il principio di sussidiarietà libera le persone dal senso di sconforto e di
disperazione, garantendo loro la libertà di impegnarsi reciprocamente nelle sfere del commercio,
della politica e della cultura (cfr Quadragesimo anno, n. 80). Quando i responsabili del bene
comune rispettano il naturale desiderio umano di autogoverno basato sulla sussidiarietà lasciano
spazio alla responsabilità e all'iniziativa individuali, ma, soprattutto, lasciano spazio all'amore
(cfr Rm 13, 8; Deus caritas est, n. 28), che resta sempre la "via migliore di tutte" (1Cor 12, 31)».
L’invito di Benedetto XVI, quindi, è di sondare in profondità le dimensioni «verticale» e
«orizzontale» della solidarietà e della sussidiarietà al fine di individuare e poter proporre modalità
più efficaci per la risoluzione dei molteplici problemi che attanagliano l’umanità alle soglie di
questo terzo millennio.
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LA TEMATICA DEL LAVORO
NELLA BIBBIA E NELLE “ENCICLICHE SOCIALI”.
Il Lavoro in una prospettiva biblico-storica.
Nel contesto storico in cui si è sviluppata la vicenda di Gesù di Nazareth, ossia il mondo
dell’impero romano, il lavoro era ritenuto affare degli schiavi. Chi lavorava era lo schiavo, il
padrone doveva pensare alla propria casa, dilettarsi di filosofia, frequentare il Ginnasio e la piazza,
organizzare cene e pranzi con altri signori, viver nell’otium. Era lo schiavo che doveva occuparsi
del lavoro che, appunto, era detto “lavoro servile”.
La novità che la vita cristiana ha portato è stata dirompente: per il cristiano fa fede la vicenda di
Gesù di Nazareth che per trent’anni ha lavorato e di San Paolo. Lui, missionario itinerante, si
manteneva con i frutti del proprio lavoro: era fabbricatore di tende e non ne faceva mistero. Tutti,
da san Paolo, sono esortati a farsi un punto di onore nel lavorare con le proprie mani così da non
aver bisogno di nessuno (1Ts 4,11-12) e a praticare una solidarietà anche materiale, condividendo i
frutti del lavoro con chi si trova in necessità (Ef 4,28).
I Padri della Chiesa invece non considerano mai il lavoro come “opus servile”, ma sempre come
“opus humanum” e tendono ad onorare tutte le espressioni. Mediante il lavoro l’uomo governa con
Dio il mondo, insieme a Lui ne è signore, e compie cose buone per sé e per gli altri. L’ozio (attività
del signore romano) nuoce all’essere umano, mentre l’attività giova al suo corpo e al suo spirito. Il
cristiano è chiamato a lavorare non solo per procurarsi il pane, ma anche per sollecitudine verso il
prossimo più povero, al quale il Signore comanda di dare da mangiare, da bere, da vestire,
accoglienza, cura e compagnia (Mt 25,35-36). Ciascun lavoratore, afferma sant’Ambrogio, è la
mano di Cristo che continua a creare e a fare del bene.
Rerum Novarum (15 maggio 1891)
Leone XIII affronta la cosiddetta questione operaia. L’enciclica ha a che fare con i problemi di una
classe nata dalla rivoluzione industriale. La chiave di lettura non è il concetto di lavoro in sé ma la
difesa della dignità del lavoratore anche se implicitamente si svela un concetto di lavoro. Ecco un
passo molto preciso a riguardo del tema in questione: “Ha il lavoro dell’uomo come due caratteri
8
impressigli dalla natura, cioè di essere personale, perché la forza attiva è inerente alla persona, e del
tutto proprio di chi l’esercita e al cui vantaggio fu data; poi di essere necessario, perché il frutto del
lavoro è necessario all’uomo per il mantenimento della vita” (n° 42).
In questa enciclica la sottolineatura prevalente è l’aspetto penitenziale del lavoro. La RN coglie del
lavoro, dal punto di vista teologico, quasi esclusivamente la dimensione espiativa, legata alle
conseguenze del peccato originale dell’uomo, secondo il testo biblico di Gen 3. Tale sottolineatura
va collocata nel contesto storico della situazione drammatica dell’infinita moltitudine di proletari
nella società industriale della fine del secolo scorso, alla quale è imposto un giogo quasi servile.
Quadragesimo anno (15 maggio 1931)
Pubblicata quando ancora non erano state rimarginate le ferite causate dal “venerdì nero” (18
ottobre 1929) che aveva visto il vertiginoso crac della borsa USA, la QA allarga l’analisi delle
situazioni storiche, prendendo in esame non solo la “questione sociale”, ma l’intera vita economica,
dominata dal capitalismo finanziario dei grandi “trust” (=affari/traffici) e caratterizzata
dall’evoluzione del socialismo.
Del lavoro si afferma il carattere personale e spirituale. Nel lavoro si deve “riconoscere la dignità
umana dell’operaio e di conseguenza, non lo si può mercanteggiare come una merce qualsiasi” (n.
90). Circa la dimensione teologica, si afferma la possibilità di santificazione in qualsiasi tipo di
professione “lucrativa” «purchè tutto ciò si cerchi col debito ossequio della legge di Dio e senza
danno dei diritti altrui, e se ne faccia uso conforme all’ordine della fede e della retta ragione» (n.
136).
Pio XII (1939-1958)
In un periodo di storia complesso e tormentato che va dalla seconda guerra mondiale alla “guerra
fredda”, Pio XII non si espresse mai nella forma dell’enciclica ma piuttosto attraverso
radiomessaggi, allocuzioni, discorsi che offrono una abbondante materia di analisi.
Per quanto riguarda il tema del lavoro egli, superando la concezione del lavoro in senso puramente
industriale (in quanto è lavoro qualsiasi attività volta a conseguire un bene materiale o spirituale che
possa essere utile alla conservazione o perfezione della persona umana), afferma una
considerazione più positiva di esso: “Ora invece il lavoro, in cui si fa spesso sentire la fatica anche
dolorosa ed aspra, è però in se stesso bello e nobilitante, perché prosegue, in quanto produce,
l’opera iniziata dal Creatore ed è generosa collaborazione di ciascuno al benessere di tutti”
(Discorso agli artigiani il 27 marzo 1949).
L’attività produttiva non è solo un modo di produrre beni materiali e culturali, è anche un mezzo
per attualizzare l’immagine di Dio, impressa nell’anima umana.
Ci troviamo di fronte ad un approfondimento della dottrina rispetto ai documenti precedenti. Il
lavoro non solo è intima relazione con la persona, ma è anche espressione necessaria della persona.
Da qui deriva il dovere di lavorare e, correlativamente, il diritto al lavoro.
Pio XII parla frequentemente e anche in termini positivi di “progresso tecnico”, ne scorge tuttavia il
vantaggio unicamente nel fatto che “allevia il peso della fatica e accresce la produttività” (Discorso
natalizio 1953).
Mater et Magistra (15 maggio 1961)
L’orizzonte della questione sociale non è più solo nazionale ma mondiale con i nuovi proletari della
società del benessere. Il discorso sul valore positivo intrinseco del lavoro viene inquadrato da
Giovanni XXIII nel discorso più ampio e impegnativo del globale rapporto tra chiesa e civiltà
moderna, concepito non in termini di contrapposizione ma di dialogo e collaborazione (n. 269).
Il lavoro come realtà antropologica viene approfondito attraverso un collegamento più stretto tra il
valore del lavoro e la persona, associando in modo più esplicito il lavoro e il soggetto che lavora.
Superando le remore e i timori di Pio XII rivendica il diritto dei lavoratori di partecipare alla vita e
alle decisioni aziendali.
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3. Fede e Lavoro nel Compendio della Dottrina della Chiesa
Il terzo paragrafo del capitolo sei del Compendio intitolato “La dignità del lavoro”: di fatto il
Compendio qui si avvale dell’apporto mirabile offerto da Giovanni Paolo II nell’enciclica
LABOREM EXERCENS del 14 settembre 1981 data in occasione del 90° anniversario della
Rerum Novarum.
Il CDSC al capitolo sesto sintetizza e chiarifica ciò che si deve intendere per lavoro. Ciò che il
Compendio fa è una sintesi articolata e poderosa di quello che la riflessione magisteriale ha finora
prodotto a riguardo di questo tema. Probabilmente siamo di fronte al primo tentativo di rielaborare
teologicamente le indicazioni contenute nelle varie encicliche papali.
Per capire la vastità della tematica riporto l’indice del capitolo 6° del CDSC intitolato «Il lavoro
umano»:
1. Aspetti biblici
1.1 Il compito di coltivare e custodire la terra
1.2 Gesù uomo del lavoro
1.3 Il dovere di lavorare
2. Il valore profetico della Rerum Novarum
3. La dignità del lavoro
3.1 La dimensione soggettiva e oggettiva del lavoro
3.2 I rapporti tra lavoro e capitale
3.3 Il lavoro, titolo di partecipazione
3.4 Rapporto tra lavoro e proprietà privata
3.5 Il riposo festivo
4. Il diritto al lavoro
4.1 Il lavoro è necessario
4.2 Il ruolo dello Stato e della società civile nella promozione del diritto al lavoro
4.3 La famiglia e il diritto al lavoro
4.4 Le donne e il diritto al lavoro
4.5 Lavoro minorile
4.6 L’emigrazione e il lavoro
4.7 Il mondo agricolo e il diritto al lavoro
5. Diritti dei lavoratori
5.1 Dignità dei lavoratori e rispetto dei loro diritti
5.2 Il diritto all’equa remunerazione e distribuzione del reddito
5.3 Il diritto di sciopero
6. Solidarietà tra lavoratori
6.1 L’importanza dei sindacati
6.2 Nuove forme di solidarietà
7. Le Res novae del mondo del lavoro
7.1 Una fase di transizione epocale
7.2 Dottrina sociale e res novae
Il capitolo è molto ricco e completo. Di fronte ai tanti argomenti, è opportuno sottolineare di più la
parte teologica. Si tratta del primo paragrafo intitolato, nel Compendio, “la dignità del lavoro”. È
questa la parte che fonda tutto il capitolo.
La dimensione soggettiva e oggettiva del lavoro (CDSC nn. 270 – 275).
Il lavoro umano ha una duplice dimensione: oggettiva e soggettiva.
In senso oggettivo è l’insieme delle attività, risorse strumenti e tecniche di cui l’uomo si serve per
produrre, per dominare la terra, secondo le parole del Libro della Genesi.
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Il lavoro in senso soggettivo è l’agire dell’uomo in quanto essere dinamico, capace di compiere
varie azioni che appartengono al processo del lavoro e che corrispondono alla sua vocazione
personale: «L’uomo deve soggiogare la terra, la deve dominare, perché come “immagine di Dio” è
una persona, cioè un essere soggettivo capace di agire in modo programmato e razionale, capace di
decidere di sé e tendente a realizzare se stesso. Come persona, l’uomo è quindi soggetto del lavoro»
(LE 6).
Il lavoro in senso oggettivo costituisce l’aspetto contingente dell’attività dell’uomo, che varia
incessantemente nelle sue modalità con il mutare delle condizioni tecniche, culturali, sociali e
politiche. In senso soggettivo si configura, invece, come la sua dimensione stabile, perché non
dipende da quel che l’uomo realizza concretamente né dal genere di attività che esercita, ma solo ed
esclusivamente dalla sua dignità di essere personale. La distinzione è decisiva sia per
comprendere qual è il fondamento ultimo del valore e della dignità del lavoro, sia in ordine al
problema di un’organizzazione dei sistemi economici e sociali rispettosa dei diritti dell’uomo.
La soggettività conferisce al lavoro la sua peculiare dignità, che impedisce di considerarlo come
una semplice merce o un elemento impersonale dell’organizzazione produttiva. Il lavoro,
indipendentemente dal suo minore o maggiore valore oggettivo, è espressione essenziale della
persona, è «actus personae». Qualsiasi forma di materialismo e di economicismo che tentasse di
ridurre il lavoratore a mero strumento materiale, finirebbe per snaturare irrimediabilmente l’essenza
del lavoro, privandolo della sua finalità più nobile e profondamente umana. La persona è il metro
della dignità del lavoro: «Non c’è, infatti, alcun dubbio che il lavoro umano abbia un suo
valore etico, il quale senza mezzi termini e direttamente rimane legato al fatto che colui che lo
compie è una persona». La dimensione soggettiva del lavoro deve avere la preminenza su quella oggettiva, perché è quella
dell’uomo stesso che compie il lavoro, determinandone la qualità e il valore più alto. Se manca
questa consapevolezza oppure non si vuole riconoscere questa verità, il lavoro perde il suo
significato più vero e profondo: in questo caso, purtroppo frequente e diffuso, l’attività lavorativa e
le stesse tecniche utilizzate diventano più importanti dell’uomo stesso e, da alleate, si trasformano
in nemiche della sua dignità.
Il lavoro umano non soltanto procede dalla persona, ma è anche essenzialmente ordinato e
finalizzato ad essa. Indipendentemente dal suo contenuto oggettivo, il lavoro deve essere orientato
verso il soggetto che lo compie, perché lo scopo del lavoro, di qualunque lavoro, rimane sempre
l’uomo. Anche se non può essere ignorata l’importanza della componente oggettiva del lavoro
sotto il profilo della sua qualità, tale componente, tuttavia, va subordinata alla realizzazione
dell’uomo, e quindi alla dimensione soggettiva, grazie alla quale è possibile affermare che
il lavoro è per l’uomo e non l’uomo per il lavoro
e che «lo scopo del lavoro, di qualunque lavoro eseguito dall’uomo – fosse pure il lavoro più “di
servizio”, più monotono, nella scala del comune modo di valutazione, addirittura più emarginante –
rimane sempre l’uomo stesso».
Il lavoro possiede anche un’intrinseca dimensione sociale. Il lavoro di un uomo, infatti, si
intreccia naturalmente con quello di altri uomini: «Oggi più che mai lavorare è un lavorare con gli
altri e un lavorare per gli altri: è un fare qualcosa per qualcuno». Anche i frutti del lavoro offrono
occasione di scambi, di relazioni e d’incontro. Il lavoro, pertanto, non si può valutare giustamente
se non si tiene conto della sua natura sociale: «giacchè se non sussiste un corpo veramente sociale e
organico, se un ordine sociale e giuridico non tutela l’esercizio del lavoro, se le varie parti, le une
dipendenti dalle altre, non si collegano fra di loro e mutuamente non si compiono, se, quel che è di
più, non si associano, quasi a formare una cosa sola, l’intelligenza, il capitale, il lavoro, l’umana
attività non può produrre i suoi frutti, e quindi non si potrà valutare giustamente né retribuire
adeguatamente, dove non si tenga conto della sua natura sociale e individuale».
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Il lavoro è anche «un obbligo, cioè un dovere dell’uomo». L’uomo deve lavorare sia perché il
Creatore gliel’ha ordinato, sia per rispondere alle esigenze di mantenimento e sviluppo della sua
stessa umanità. Il lavoro si profila come obbligo morale in relazione al prossimo, che è in primo
luogo la propria famiglia, ma anche la società, alla quale si appartiene, la Nazione, della quale si è
figli o figlie, l’intera famiglia umana, di cui si è membri: siamo eredi del lavoro di generazioni e
insieme artefici del futuro di tutti gli uomini che vivranno dopo di noi.
Il lavoro conferma la profonda identità dell’uomo creato a immagine e somiglianza di Dio:
«Diventando – mediante il suo lavoro – sempre più padrone della terra, e confermando – ancora
mediante il lavoro – il suo dominio sul mondo visibile, l’uomo, in ogni caso ed in ogni fase di
questo processo, rimane sulla linea di quell’originaria disposizione del Creatore, la quale resta
necessariamente e indissolubilmente legata al fatto che l’uomo è stato creato, come maschio e
femmina, “a immagine di Dio”». Ciò qualifica l’attività dell’uomo nell’universo: egli non ne è il
padrone, ma il fiduciario, chiamato a riflettere nel proprio operare l’impronta di Colui del quale egli
è immagine.
I rapporti tra lavoro e capitale: complementarietà, spesso conflittualità; priorità sempre del lavoro
sul capitale; la principale risorsa e il fattore decisivo in mano all’uomo è l’uomo stesso
Il lavoro, titolo di partecipazione: dei lavoratori alla proprietà, alla gestione, ai frutti dell’impresa
Rapporto tra lavoro e proprietà privata: il lavoro garantisce la proprietà privata; i mezzi di
produzione non possono essere posseduti contro il lavoro neppure posseduti per possedere.
Il riposo festivo: è un diritto; la domenica è un giorno da santificare con operosa carità, riservando
attenzioni alla famiglia e ai parenti, come anche ai malati, agli infermi, agli anziani; giorno del
Signore come giorno della liberazione; necessità familiari o esigenze di utilità sociale possono
legittimamente esentare dal riposo domenicale, ma non devono creare abitudini pregiudizievoli per
la religione, la vita di famiglia e la salute.
Il lavoro è necessario: per formare e mantenere una famiglia, per avere diritto alla proprietà, per
contribuire al bene comune della famiglia umana.
Il ruolo dello Stato e della società civile nella promozione del diritto al lavoro: i problemi
dell’occupazione chiamano in causa le responsabilità dello Stato al quale compete il dovere di
promuovere politiche attive del lavoro.
La famiglia e il diritto al lavoro: Famiglia e lavoro strettamente interdipendenti; la vita di famiglia
e il lavoro si condizionano reciprocamente in vario modo.
Le donne e il diritto al lavoro: il genio femminile è necessario in tutte le espressioni della vita
sociale.
Lavoro minorile: nelle sue forme intollerabili, costituisce un tipo di violenza meno appariscente di
altri, ma non per questo meno terribile. Sfruttamento che costituisce una grave violazione della
dignità umana.
L’emigrazione e il lavoro: l’immigrazione può essere una risorsa, anziché un ostacolo per lo
sviluppo. Le istituzioni dei Paesi ospiti devono vigilare accuratamente affinché non si diffonda la
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tentazione di sfruttare la manodopera straniera, privandola dei diritti garantiti ai lavoratori
nazionali, che devono essere assicurati a tutti senza discriminazioni.
Il mondo agricolo e il diritto al lavoro: merita particolare attenzione per il ruolo sociale, culturale
ed economico; necessario un approfondimento sul significato di lavoro agricolo nelle sue diverse
dimensioni; condanna dei latifondi.
Dignità dei lavoratori e rispetto dei loro diritti: i diritti dei lavoratori si basano sulla natura della
persona umana e della sua trascendente dignità. «Il Magistero sociale della Chiesa ha ritenuto di
elencarne alcuni, auspicandone il riconoscimento negli ordinamenti giuridici: il diritto ad una
giusta remunerazione; il diritto al riposo; il diritto «ad ambienti di lavoro ed a processi produttivi
che non rechino pregiudizio alla sanità fisica dei lavoratori e non ledano la loro integrità morale»;
il diritto che venga salvaguardata la propria personalità sul luogo di lavoro, « senza essere violati
in alcun modo nella propria coscienza o nella propria dignità »; il diritto a convenienti
sovvenzioni indispensabili per la sussistenza dei lavoratori disoccupati e delle loro famiglie; il
diritto alla pensione nonché all'assicurazione per la vecchiaia, la malattia e in caso di incidenti
collegati alla prestazione lavorativa; il diritto a provvedimenti sociali collegati alla maternità; il
diritto di riunirsi e di associarsi. Tali diritti vengono spesso offesi, come confermano i tristi
fenomeni del lavoro sottopagato, privo di tutela o non rappresentato in maniera adeguata. Spesso
accade che le condizioni di lavoro per uomini, donne e bambini, specie nei Paesi in via di sviluppo,
siano talmente inumane da offendere la loro dignità e nuocere alla loro salute. »
Il diritto all’equa remunerazione e distribuzione del reddito: remunerazione strumento più
importante per realizzare la giustizia nei rapporti di lavoro; «il lavoro va ricompensato in misura
tale da garantire all'uomo la possibilità di disporre dignitosamente la vita materiale, sociale,
culturale e spirituale sua e dei suoi, in relazione ai compiti e al rendimento di ognuno, alle
condizioni dell'azienda e al bene comune».
«Il benessere economico di un Paese non si misura esclusivamente sulla quantità di beni prodotti,
ma anche tenendo conto del modo in cui essi vengono prodotti e del grado di equità nella
distribuzione del reddito, che a tutti dovrebbe consentire di avere a disposizione ciò che serve allo
sviluppo e al perfezionamento della propria persona».
Il diritto di sciopero: legittimità dello sciopero quando appare lo strumento inevitabile, o quanto
meno necessario, in vista di un vantaggio proporzionato; deve essere sempre un metodo pacifico di
rivendicazione e di lotta.
L’importanza dei sindacati: ruolo fondamentale dei sindacati. I rapporti all’interno del mondo del
lavoro vanno improntati alla collaborazione: l’odio e la lotta per eliminare l’altro costituiscono
metodi inaccettabili. «Al sindacato, oltre alle funzioni difensive e rivendicative, competono sia una
rappresentanza finalizzata ad « organizzare nel giusto ordine la vita economica », sia l'educazione
della coscienza sociale dei lavoratori, affinché essi si sentano parte attiva, secondo le capacità e le
attitudini di ciascuno, in tutta l'opera dello sviluppo economico e sociale e della costruzione del
bene comune universale».
Una fase di transizione epocale: fenomeno della globalizzazione: «Due sono i fattori che danno
impulso a questo fenomeno: la straordinaria velocità di comunicazione senza limiti di spazio e di
tempo e la relativa facilità di trasportare merci e persone da una parte all'altra del globo. Ciò
comporta una conseguenza fondamentale sui processi produttivi: la proprietà è sempre più lontana,
spesso indifferente agli effetti sociali delle scelte che compie. D'altro canto, se è vero che la
globalizzazione, a priori, non è buona o cattiva in sé, ma dipende dall'uso che l'uomo ne fa, si deve
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affermare che è necessaria una globalizzazione delle tutele, dei diritti minimi essenziali,
dell'equità».
«Una delle caratteristiche più rilevanti della nuova organizzazione del lavoro è la frammentazione
fisica del ciclo produttivo, promossa per conseguire una maggiore efficienza e maggiori profitti…
le tradizionali coordinate spazio-tempo entro le quali si configurava il ciclo produttivo subiscono
una trasformazione senza precedenti, che determina un cambiamento nella struttura stessa del
lavoro… conseguenze rilevanti nella vita dei singoli e delle comunità, sottoposti a cambiamenti
radicali sia sul piano delle condizioni materiali, sia su quello culturale e dei valori… fenomeno sta
coinvolgendo, a livello globale e locale, milioni di persone, indipendentemente dalla professione
che svolgono, dalla loro condizione sociale, dalla preparazione culturale. La riorganizzazione del
tempo, la sua regolarizzazione e i cambiamenti in atto nell'uso dello spazio — paragonabili, per la
loro entità, alla prima rivoluzione industriale, in quanto coinvolgono tutti i settori produttivi, in
tutti i continenti, a prescindere dal loro grado di sviluppo — sono da considerarsi, pertanto, una
sfida decisiva, anche a livello etico e culturale, nel campo della definizione di un sistema rinnovato
di tutela del lavoro».
«Grazie alle innovazioni tecnologiche, il mondo del lavoro si arricchisce di professioni nuove,
mentre altre scompaiono. Nell'attuale fase di transizione, infatti, si assiste ad un continuo
passaggio di occupati dall'industria ai servizi. Mentre perde terreno il modello economico e sociale
legato alla grande fabbrica e al lavoro di una classe operaia omogenea, migliorano le prospettive
occupazionali nel terziario e aumentano, in particolare, le attività lavorative nel comparto dei
servizi alla persona, delle prestazioni part time, interinali e « atipiche », ossia forme di lavoro che
non sono inquadrabili né come lavoro dipendente né come lavoro autonomo».
«La transizione in atto segna il passaggio dal lavoro dipendente a tempo indeterminato, inteso
come posto fisso, a un percorso lavorativo caratterizzato da una pluralità di attività lavorative; da
un mondo del lavoro compatto, definito e riconosciuto, a un universo di lavori, variegato, fluido,
ricco di promesse, ma anche carico di interrogativi preoccupanti, specie di fronte alla crescente
incertezza circa le prospettive occupazionali, a fenomeni persistenti di disoccupazione strutturale,
all'inadeguatezza degli attuali sistemi di sicurezza sociale».
«Il decentramento produttivo, che assegna alle aziende minori molteplici compiti, in precedenza
concentrati nelle grandi unità produttive, fa acquistare vigore e imprime nuovo slancio alle piccole
e medie imprese. Emergono così, accanto all'artigianato tradizionale, nuove imprese caratterizzate
da piccole unità produttive operanti in settori di produzione moderni oppure in attività decentrate
dalle aziende maggiori… Il lavoro nelle piccole e medie imprese, il lavoro artigianale e il lavoro
indipendente possono costituire un'occasione per rendere più umano il vissuto lavorativo».
Dottrina sociale e res novae: «Di fronte alle imponenti « res novae » del mondo del lavoro, la dottrina sociale della Chiesa raccomanda, prima di tutto, di evitare l'errore di ritenere che i mutamenti in atto avvengano in modo deterministico. Il fattore decisivo e « l'arbitro » di questa complessa fase di cambiamento è ancora una volta l'uomo, che deve restare il vero protagonista del suo lavoro»
«Le interpretazioni di tipo meccanicistico ed economicistico dell'attività produttiva, sebbene prevalenti e comunque influenti, risultano superate dalla stessa analisi scientifica dei problemi connessi con il lavoro. Tali concezioni si rivelano oggi più di ieri del tutto inadeguate a interpretare i fatti, che dimostrano ogni giorno di più la valenza del lavoro in quanto attività libera e creativa dell'uomo». «Cambiano le forme storiche in cui si esprime il lavoro umano, ma non devono cambiare le sue esigenze permanenti, che si riassumono nel rispetto dei diritti inalienabili dell'uomo che lavora. Quanto più profondi sono i cambiamenti, tanto più deciso deve essere l'impegno dell'intelligenza e della volontà per tutelare la dignità del lavoro, rafforzando, ai diversi livelli, le istituzioni interessate».
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«Gli squilibri economici e sociali esistenti nel mondo del lavoro vanno affrontati ristabilendo la giusta gerarchia dei valori e ponendo al primo posto la dignità della persona che lavora».
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IL CRISTIANO NEL MONDO DEL LAVORO OGGI
Esistono diversi modi di approcciarsi al mondo del lavoro ai cui estremi sostanzialmente si
rilevano due visioni opposte tra loro ed entrambe problematiche.
Anzitutto quella che si potrebbe declinare col seguente slogan: fare tutto quanto è in nostro
potere per faticare il meno possibile. L’idea di fondo è che purtroppo si deve lavorare, ma la vita,
quella vera, è altrove, non di certo dentro al mondo del lavoro. Dietro a questo modo di pensare
troviamo persone che entrano e stanno nel mondo del lavoro senza passione e senza grandi
interessi, con la rassegnazione che per vivere si deve lavorare. Chi la pensa così ha un sogno nel
cassetto: vincere qualche grande lotteria per non lavorare più. Insomma, la caratterizzazione di
fondo di questo modo di intendere e vivere il lavoro è la scissione tra lavoro e vita, sono due ambiti
in conflitto tra loro.
La seconda visione del lavoro, all’estremo opposto della prima ma altrettanto problematica,
si può declinare col motto: vivo per lavorare. Esistono persone che, quando sono in ferie, vivono
questo tempo con difficoltà. La cosa, che di primo acchito potrebbe apparire paradossale, si verifica
laddove si fa diventare il lavoro un idolo. Per qualcuno l'attività lavorativa è luogo dove si
proiettano tutte le proprie energie migliori perché rapiti dal sogno del successo attraverso
l'affermazione professionale e della conseguente ricchezza. Questo porta i c.d. “rampanti” (molto
spesso giovani) a sacrificare tutto (famiglia, amici, affetti, Dio) per il mito del lavoro: la vita diventa
lavoro!
Due opposte visioni, nella prima prevale la scissione, nella seconda la sovrapposizione tra
vita e lavoro.
La virtù, come ben intuiamo, sta in una via mediana che, a partire da una visione
antropologica e umanistica ponga al centro l’uomo: «a partire dall’uomo!», dunque, potrebbe
essere lo slogan che riassume questa terza visione.
Giovanni Paolo II nella sua enciclica Laborem Exercens, scritta nel 1981, pietra miliare
della Dottrina Sociale della Chiesa per quel che concerne il lavoro, con grande forza ribadisce: «Il
primo fondamento del valore del lavoro è l'uomo stesso [...] per quanto sia una verità che l'uomo è
destinato ed è chiamato al lavoro, però prima di tutto il lavoro è “per l'uomo”, e non l'uomo “per il
lavoro”» (LE 6).
Il punto di partenza, che vale per il lavoro (ma anche per ogni attività che si compie), è
quella di esserci con tutto se stessi. Nel senso che non basta la presenza fisica. Infatti, così come
non è sufficiente allo studente recarsi a scuola per espletare pienamente il suo compito, ma gli è
richiesto di ascoltare quanto viene detto, al contrario sarebbe lì solo a “scaldare il banco”, allo
stesso modo, chi lavora deve essere presente con tutto se stesso, mettendo in campo tutto il suo
essere (intelligenza, volontà, forza, impegno, …) [peraltro, in talune tipologie di lavoro le
distrazioni costano caro, possono provocare gravi danni fisici a sé e agli altri oltre che materiali].
Lo stile di vita a cui ci stiamo abituando sempre di più, attraverso le nuove tecnologie, non
sempre aiuta questo stile di concentrazione che porta ad essere pienamente presenti laddove si è.
Quanti lavorano (o studiano, o guidano, o …) incollati al cellulare e in vario modo pluri-connessi
alle decine di chat, e-mail, …? Sembra che se non si è “multitasking” non si è nessuno. Tutto questo
produce dispersione e non aiuta l'attività principale che si sta svolgendo.
«II Signore Dio prese l'uomo e lo pose nel giardino di Eden, perché lo coltivasse e lo custodisse» (Gen 2, 15).
All’uomo, creato ad immagine e somiglianza di Dio, è dato il compito di prendersi cura di
quel giardino che è il mondo intero. Si comprende, quindi, come il lavoro sia vocazione per chi
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crede nel Dio che crea il mondo e lo mette al centro del cosmo per migliorarlo attraverso l'attività di
ogni giorno.
Gesù stesso nelle sue parabole benedice l'operosità delle persone, richiamandole alla
responsabilità. Si pensi alla parabola dei talenti: a ciascuno è dato qualcosa perché lo faccia
fruttificare e il servo “pigro” viene gettato fuori e non prende parte alla gioia del suo padrone come
gli altri (Mt 25, 14-30).
Uno dei compiti fondamentali dell'educazione cristiana è quello di aiutare le persone a
comprendere lo stretto nesso tra fede e vita. L'incontro col Signore e il suo Vangelo permea tutta la
vita dell'uomo in ogni sua dimensione e quindi anche quella del lavoro. Si deve evitare la
separazione tra la propria vita cultuale, fatta di preghiera e pratica dei sacramenti e il resto delle
attività. La spiritualità del lavoro è precisamente credere che lo Spirito Santo guida l'azione delle
persone dando loro un’impronta cristiana in ogni attività svolta e, quindi, anche all’interno di quella
lavorativa.
«Quale stile dovrebbe avere un cristiano sul posto di lavoro?».
Anche in questo caso esistono due opposti, due estremi da evitare. II primo è sintetizzabile con
slogan: la fede è mia e me la gestisco io. È l'atteggiamento di chi sul lavoro evita assolutamente di
far trasparire la propria fede, sia per timore che questa possa danneggiarlo, sia per timidezza, sia per
l'errata convinzione che non sia argomento che deve trapelare in ambito lavorativo.
All’opposto troviamo quelli che ostentano la fede e si credono i salvatori del mondo, dimenticando
che vi è un solo Salvatore e che quando è venuto ha avuto un profondo rispetto della libertà degli
uomini e delle donne che ha incontrato sul suo cammino.
Ancora una volta, lo stile passa da una presenza che, senza ostentare, non si sottrae al confronto su
tutto e quindi anche sul proprio credo.
Il cristiano è chiamato attraverso il suo vivere a testimoniare nei fatti ciò in cui crede.
Saper ascoltare le persone, esercitare la discrezione, fare bene le proprie mansioni (semplici
o complicate che siano), vivere la solidarietà e porre segni di gratuità: sono tutti gesti non scontati
che dicono di uno stile simile a quello che troviamo in Gesù nel suo Vangelo.
Anzitutto, si tratta di accorgersi degli altri, che siano colleghi o persone con le quali si entra in
contatto a causa del tipo di lavoro che si svolge.
In secondo luogo, ci è chiesto di non cadere nei pettegolezzi o in quella che nella Bibbia prende il
nome di “mormorazione”.
Aspetto centrale è l’essere responsabili e far bene le mansioni richieste: «Se un uomo è
chiamato ad essere uno spazzino, egli dovrebbe pulire le strade proprio come Michelangelo
dipingeva, o Beethoven componeva musica, o Shakespeare scriveva poesia. Dovrebbe pulire le
strade così bene che tutte le legioni del cielo e della terra dovrebbero fermarsi per dire: qui è
vissuto un grande spazzino, che faceva bene il suo lavoro» (Giovanni Bachelet al 30° convegno
Bachelet, Università La Sapienza, Roma, 12 feb. 2010 citando una famosa frase di Martin Luther
King)
E ancora: il recupero dei legami di solidarietà e gratuità con i colleghi di lavoro. Un tempo
se un lavoratore veniva licenziato, quelli che condividevano con lui quell’attività si coalizzavano e
verificavano, nei limiti del possibile, che non vi fossero ingiustizie. Vi è stata una stagione in cui i
lavoratori sentivano con forza il loro legame. Oggi, in un'epoca sempre più segnata
dall'individualismo, questi tipi di legami si sono fortemente indeboliti e il segno più eloquente è lo
scarso ricorso ai “contratti di solidarietà” che consentono ai lavoratori delle ditte in crisi di lavorare
un po’ tutti, anche se meno. Un cristiano, di fronte al collega licenziato, non può fare affermazioni
del tipo: «per fortuna non è toccato a me», nemmeno pensarle.
Aggiungiamo alcune indicazioni significative sono offerte dal Magistero di Papa Francesco .
Nella Esortazione apostolica Evangelii Gaudium troviamo «quattro principi che orientano
specificamente lo sviluppo della convivenza sociale» (EG 221).
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1. Il tempo è superiore allo spazio. Sostiene Papa Francesco che: «Questo principio permette di
lavorare a lunga scadenza, senza l’ossessione dei risultati immediati. Aiuta a sopportare con
pazienza situazioni difficili e avverse, o i cambiamenti dei piani che il dinamismo della realtà
impone» (EG 223). Il Pontefice ha in mente soprattutto quel modo di fare politica tentato di
privilegiare gli spazi di potere piuttosto che i tempi dei processi. Ma pensando a un giovane che
entra nel mondo del lavoro, sento la necessità di segnalare la pertinenza di questo principio in
relazione alla possibile creazione di nuove start-up. La narrazione di giovani “vincenti” che dal
nulla hanno costruito un impero economico cavalcando semplicemente un’idea vincente, va messa
in relazione alla storia di tante start-up fallite con dispendi economici e scoraggiamenti.
Immaginarsi imprenditori di se stessi è in sé qualcosa di positivo, ma non basta lo spazio di un’idea
per buttarsi in un’impresa nuova. Decisivo appare il confronto con persone che conoscono i
processi economici e sono in grado di vedere se l’intuizione potrà resistere alla prova del tempo.
2. L’unità prevale sul conflitto. Anche il mondo del lavoro è abitato da conflitti, anzi è uno dei
luoghi dove il conflitto è la regola. Vivere in modo positivo il conflitto è arte tutta d’apprendere e
dove lo stile del cristiano può dire qualcosa a tutti. Significa non cedere alla logica dell’arrivismo
che schiaccia i colleghi, non cadere nella pratica sterile del pettegolezzo sugli assenti, lavorare bene
con i compagni di lavoro, praticare la solidarietà e capire che la qualità relazionale è la vera chiave
con cui affrontare oggi il nostro impegno quotidiano. Nelle situazioni di crisi talvolta i lavoratori si
spaccano perché non prevale la logica del bene comune ma quella dell’interesse individuale. Essere
uomini e donne di unità nei luoghi di lavoro ha un valore inestimabile ed è per questo che quanto
detto in precedenza sul tema della solidarietà e della gratuità si applica pienamente a questo
principio.
3. La realtà è più importante dell’idea. Per spiegare meglio questo principio Francesco afferma:
«Ciò che coinvolge è la realtà illuminata dal ragionamento. Bisogna passare dal nominalismo
formale all’oggettività armoniosa. Diversamente si manipola la verità, così come si sostituisce la
ginnastica con la cosmesi» (EG 232). Serve un grande realismo per cogliere i cambiamenti in atto
nel mondo del lavoro. La cosiddetta “Industria 4.0” è già realtà. Dopo la rivoluzione del carbone e
della macchina a vapore; dopo quella del petrolio, dell’energia elettrica e della produzione di massa;
e dopo quella più recente di internet e delle tecnologie dell’informazione e dell’automazione, oggi
siamo nel campo dell’intelligenza artificiale (ovvero macchine capaci d’apprendere), della stampa
3D, delle nanotecnologie e delle biotecnologie. È con questa realtà che ci dobbiamo misurare senza
paura, ma col realismo di chi sa che solo un’intelligenza non rigida sarà in grado di scorgere le
nuove opportunità lavorative che si aprono a fronte di quelle che vanno ad esaurirsi.
4. Il tutto è superiore alla parte. È la grande sfida, che copre anche il mondo della produzione, tra
locale e globale. Con la globalizzazione (di cui Papa Benedetto XVI ci ha offerto un’analisi
lungimirante nella Caritas in veritate) il mondo si è fatto più piccolo e le interazioni sono
aumentate esponenzialmente. Chi entra e chi sta oggi nel mondo del lavoro deve avere uno sguardo
ampio e capace di cogliere non solo i limiti della globalizzazione, ma soprattutto le opportunità. La
conoscenza di altre lingue, oltre all’italiano, è sempre più uno strumento essenziale per non
rimanere isolati dal resto del Pianeta. Si lavora nel piccolo, con ciò che è vicino, però con una
prospettiva più ampia: Pensare globalmente, agire localmente.
Infine, piace ricordare l’esempio dei benedettini presente nella Laudato si’ quando si
affronta la questione lavorativa: «Raccogliamo anche qualcosa dalla lunga tradizione monastica.
All’inizio essa favorì in un certo modo la fuga dal mondo, tentando di allontanarsi dalla decadenza
urbana. Per questo i monaci cercavano il deserto, convinti che fosse il luogo adatto per riconoscere
la presenza di Dio. Successivamente, san Benedetto da Norcia volle che i suoi monaci vivessero in
comunità, unendo la preghiera e lo studio con il lavoro manuale (Ora et labora). Questa
introduzione del lavoro manuale intriso di senso spirituale si rivelò rivoluzionaria. Si imparò a
cercare la maturazione e la santificazione nell’intreccio tra il raccoglimento e il lavoro. Tale
maniera di vivere il lavoro ci rende più capaci di cura e di rispetto verso l’ambiente, impregna di
sana sobrietà la nostra relazione con il mondo» (126).
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Queste ultime parole sono l’augurio per una spiritualità del lavoro dove il lavoro, la preghiera e lo
studio si armonizzano in una vita ordinata e santa.
Quattro parole e quattro aggettivi che possono dar senso al nostro lavoro, che possono cioè
indicarci la via, la strada maestra, per un nuovo umanesimo del lavoro.
Le quattro parole, che si traducono immediatamente in gesti, che evocano direttamente
comportamenti, sono: festa, vocazione, condivisione, testimonianza.
Perché parlare di festa in un contesto così problematico che investe il mondo del lavoro (che
manca, o di cattivo lavoro, o di lavoro precario, sottopagato, dai ritmi vertiginosi, ecc.)?
Festa non è l’ebrezza di una sciocca evasione o la pigrizia di starsene in poltrona ma, come ci
ricorda Papa Francesco (Udienza 12 agosto 2015), perché la festa l’ha inventata Dio aiutandoci a
capire, da un lato, che il lavoro non è tutto noi stessi e, dall’altro, che noi stessi non siamo il lavoro
che facciamo. Per celebrare la festa è necessario poter celebrare il lavoro; l’uno scandisce il tempo e
il ritmo dell’altra. Vanno insieme: la settimana inizia con la domenica, ma siamo capaci di
insegnarlo e di testimoniarlo? Celebrare il lavoro per poter celebrare la festa significa impegnarci
affinché un lavoro dignitoso, il lavoro per la dignità dell’uomo e della sua famiglia, ce l’abbiano
tutti. Festa, dunque, per non dimenticare che viviamo anche grazie al lavoro, ma non di solo lavoro.
Guardare al lavoro in termini vocazionali significa imparare (e imparare a ricordarcelo) che il
lavoro non è riducibile a merce di scambio, o a forza contrattuale, il lavoro non è qualcosa di
separato da chi lo produce. Vocazione vuol dire parlare di uomini e donne che lavorano per
edificare quell’autentica comunità umana che ognuno di noi desidera per sentirsi veramente persona
(Dio ha creato l’uomo a sua immagine e somiglianza e si è incarnato nella nostra umanità
diventassimo “partecipi della natura divina”, e “così noi conoscessimo l’amore di Dio”.
L’apostolo ed evangelista Giovanni, il discepolo amato, nei suoi scritti ce lo ricorda più di una
volta: “In questo s’è manifestato per noi l’amor di Dio: che Dio ha mandato il suo unigenito
Figliuolo nel mondo affinché per mezzo di lui vivessimo” (1 Giovanni 4,9); “Dio infatti ha tanto
amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non muoia, ma abbia
la vita eterna” (Giovanni 3:16).
Nella Mater et magistra parlando del lavoro agricolo, ma il pensiero si estende a tutte le tipologie di
lavoro, si afferma: «nel lavoro agricolo la persona umana trova mille incentivi per la sua
affermazione, per il suo sviluppo, per il suo arricchimento, per la sua espansione anche sul piano
dei valori dello spirito. È quindi un lavoro che va concepito e vissuto come una vocazione e come
una missione; come una risposta cioè a un invito Dio a contribuire all’attuazione del suo piano
provvidenziale nella storia; e come un impegno di bene ad elevazione di se stessi e degli altri e un
apporto all’incivilimento umano».
Il lavoro dunque come un impegno di bene per sé e per gli atri, come passione di civiltà. E Papa
Francesco su questa dimensione vocazionale del lavoro ci esorta «a percorrere la strada luminosa e
impegnativa dell’onestà fuggendo le scorciatoie dei favoritismi e delle raccomandazioni».
Leggiamo nella Laudato si, e siamo alla terza parola, la condivisione: «qualsiasi forma di lavoro
presuppone un’idea di relazione che l’essere umano può o deve stabilire con l’altro da sè».
Quando incontriamo situazioni strazianti o ci imbattiamo in ferite che il lavoro provoca nella vita
delle persone, abituiamoci a non fare i soliti grandi discorsi presuntuosi che di sofferenza sanno
poco o niente; la nostra preoccupazione dovrebbe essere quella di creare spazi e tempi dove chi
soffre possa raccontare quel che non va. Se si incontra qualcuno che ci ascolta si riaccende in noi
quel desiderio di relazione che ci fa sentire persone e non cose.
Educare ed educarci al senso morale del lavoro significa essere capaci di reagire prontamente,
con sollecitudine inquieta e creativa, per aiutare chi non ce la fa e per rimuovere quegli ostacoli che
oscurano la dignità dell’uomo che lavora. È una sensibilità etica che si apprende e che va
costantemente allenata, soprattutto perché viviamo in un contesto ce culturalmente tende a farci
assuefare alla miseria umana. Papa Francesco, rivolgendosi al Movimento cristiano lavoratori lo ha
detto con molta chiarezza: «di fronte alle persone in difficoltà e a situazioni faticose non serve fare
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prediche; occorre invece trasmettere speranza, confortare con la presenza, sostenere con l’aiuto
concreto».
In sintesi:
ri-umanizzare il lavoro (festa);
umanizzare se stessi nel lavoro (vocazione);
umanizzare gli altri attraverso il lavoro (condivisione e testimonianza).
I quattro aggettivi li prendiamo direttamente dall’esortazione apostolica Evangelii gaudium (n. 192)
e che sono stati posti a fondamento della recente 48° Settimana Sociale dei Cattolici (svoltasi a
Cagliari 26-29 ottobre) declinandola con il titolo “Il lavoro che vogliamo: libero, creativo,
partecipativo e solidale”.
Lavoro libero da oppressioni, da ideologie che lo rendono “merce” di scambio alla pari di altre
merci: L’uomo che lavora non è un mero fattore economico in più, usabile o scartabile a
piacimento. L’uomo che lavora ha una natura e una dignità non riducibili a semplici calcoli
economici.
Vogliamo un lavoro creativo animati dalla convinzione che ogni uomo porta in sé una capacità
unica e originale di manifestare il bene che Dio gli ha posto nel cuore. Papa Francesco al riguardo ci
ricorda che «ogni uomo e donna è “poeta” … quando gli si permette di esprimere in libertà e
creatività alcune forme di impresa, di lavoro collaborativo svolto in comunità che consentano a lui
e ad altre persone un pieno sviluppo economico e sociale».
Ma il lavoro dell’uomo, per poter incidere nella realtà secondo il “poema” che Dio ha inscritto nella
creazione dev’essere partecipativo: l’uomo che lavora, sia esso un dipendente o un imprenditore,
un libero professionista o un artigiano, è chiamato a esprimere il lavoro secondo la logica che gli è
più propria, cioè quella relazionale: vedere sempre nel lavoro il volto dell’altro e la collaborazione
responsabile con altre persone. L’impresa, l’azienda, lo studio professionale, l’ufficio, la scuola, la
bottega artigiana, oltre che essere organizzazioni efficienti e ordinate di mezzi di produzione sono
innanzitutto comunità di persone, «comunità di uomini che, in diverso modo, perseguono il
soddisfacimento dei loro fondamentali bisogni e costituiscono un particolare gruppo al servizio
dell’intera società» (CA 39).
È il lavoro stesso a creare la comunità, e la solidarietà che è possibile sperimentare in essa
rappresenta per i lavoratori tutti un’occasione di autorealizzazione personale. Il lavoro, d’altro
canto, è anche il mezzo che consente l’edificazione di altre comunità: la famiglia, il gruppo umano,
la nazione. «Come persona l’uomo è quindi soggetto del lavoro. Come persona egli lavora, compie
varie azioni appartenenti al processo del lavoro; esse, indipendentemente dal loro contenuto
oggettivo, devono servire tutte alla realizzazione della sua umanità, al compimento della vocazione
ad essere persona, che gli è propria a motivo della stessa umanità … per quanto sia una verità che
l’uomo è destinato ed è chiamato al lavoro, però prima di tutto il lavoro è per l’uomo e non
l’uomo per il lavoro» (LE 6).
Concludo con alcune parole prese a prestito dai pensieri di Spartaco Lucarini, che seppur scritte
da oltre cinquant’anni, sono a mio avviso di una freschezza e un’attualità immense:
«Occorre, come Gesù, spezzare il pane con questa umanità negli ambienti dove viviamo:
farci uno con il fratello che lavora con noi, come Gesù lavoratore si è fatto uno nel suo
ambiente di lavoro a Nazareth. Nella fabbrica, nell’ufficio, nello studio professionale, nella
scuola passiamo la maggior parte della nostra giornata, come non sentire che in questi
ambienti deve rifiorire una comunità viva? Occorre che il lavoro collettivo diventi servizio
dell’uno all’altro, cooperazione mutua, reciproco aiuto, unità. Ma bisogna prima rivestirci di
Gesù: essere Gesù operaio, Gesù impiegato, Gesù artigiano, Gesù avvocato, insegnante,
studente, ma anche e soprattutto Gesù disoccupato, povero, emarginato, cioè occorre amare
il fratello che sta accanto a noi negli ambienti di vita e di lavoro».