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La diffusione del lavoratore povero. L’impatto della crisi economica sui lavoratori migranti
di
Devi Sacchetto Francesca Alice Vianello
Paper for the Espanet Conference “Risposte alla crisi. Esperienze, proposte e politiche di welfare in Italia e in
Europa” Roma, 20 - 22 Settembre 2012
Devi Sacchetto, Dipartimento FISPPA, Università di Padova ([email protected]) Francesca Alice Vianello Dipartimento FISPPA, Università di Padova ([email protected])
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Abstract1
Il saggio analizza le ricadute economiche e sociali della disoccupazione su due gruppi di immigrati
di nazionalità marocchina e rumena attraverso 171 interviste in profondità realizzate in una delle
aree più dinamiche del Nord-est italiano. La ricerca in quest’area caratterizzata da piccole e medie
imprese imperniate su relazioni familiari-lavorative mette in evidenza come tra gli effetti più
evidenti della crisi economica ci sia il deciso arretramento nella carriera lavorativa dei migranti e la
diffusione del cosiddetto lavoratore povero. Inoltre, emergono differenti strategie di
fronteggiamento della disoccupazione: i marocchini (non-Eu National) sono geograficamente più
mobili dei rumeni (EU-Nationals) e si muovono all’interno di una migrazione familiare allargata,
mentre i rumeni emigrano su base individuale o familiare-nucleare e mostrano una decisa
intenzione di permanere in Italia.
Introduzione
L’obiettivo di questo articolo è l’analisi delle ricadute economiche e sociali della
disoccupazione su due gruppi di immigrati di nazionalità marocchina e rumena nel Nord-est italiano
attraverso 171 interviste in profondità. La ricerca si è focalizzata su queste due collettività sia
perché costituiscono le principali nazionalità di migranti presenti in Italia e nella Regione Veneto
sia perché si ipotizza che il diverso status giuridico che li caratterizza – i rumeni sono cittadini
dell’Ue e i marocchini sono cittadini di un paese extra-Ue – influenzi i loro margini di mobilità.
L’area socio-economica presa in considerazione è una delle più dinamiche d’Italia – grazie a un
sistema di piccole e medie imprese imperniate su relazioni familiari-lavorative – che impiega quote
consistenti di forza lavoro migrante.
L’articolo si concentra sui percorsi lavorativi dei migranti per evidenziare i più recenti
cambiamenti nel mercato del lavoro e gli atteggiamenti dei due gruppi di immigrati di fronte alla
disoccupazione. Inoltre, il saggio si sofferma sulle ricadute sociali della disoccupazione e sulle
differenti strategie di sopravvivenza messi in campo dai migranti. In generale si può affermare che
gli effetti più evidenti della crisi economica in corso sono il deciso arretramento nella carriera
lavorativa dei migranti e la diffusione del cosiddetto lavoratore povero.
1 Il presente articolo si basa su una ricerca finanziata da Veneto Lavoro, agenzia per il lavoro della Regione Veneto. Alla ricerca hanno partecipato: Vanessa Azzeruoli, Ruben Bassani, Imane Bounoun, Raluca Lazarovici, Graziano Merotto, Devi Sacchetto (coordinatore), Marco Semenzin, Mariangela Treppete, Francesca Alice Vianello.
3
Nella prima sezione affrontiamo brevemente un’analisi di macro livello dell’impatto della
recessione economica sui lavoratori migranti. In seguito, discutiamo alcuni approcci teorici sui
cosiddetti lavoratori poveri poiché consideriamo tale categoria una chiave di lettura particolarmente
preziosa per comprendere le traiettorie dei migranti (Ilo 2011). Dopo una breve descrizione
dell’area socio-economica in cui la ricerca si è svolta e degli aspetti metodologici, presentiamo i
principali risultati della ricerca empirica.
1. Crisi economica e i lavoratori migranti
La crisi economica ha provocato l’incremento dei livelli di disoccupazione in particolare di
tre categorie di lavoratori: gli uomini, i giovani e i migranti (Iom 2010). I ricercatori e le
organizzazioni internazionali nel valutare l’impatto della più grave crisi economica dalla seconda
guerra mondiale, mettono in luce come i lavoratori migranti sono i primi a essere colpiti dalla crisi,
in particolare quando sono maschi, a bassa qualificazione e occupati nei settori delle costruzioni e
del manifatturiero. Molti studiosi osservano però che a differenza di quanto ci si attendesse non si
sono verificati ritorni di massa di immigrati, ma piuttosto una flessione delle nuove partenze (Awad
2009; Beets, Willekenes 2009; Koser 2009; Martin 2009; Papademetriou et al. 2010; Sopemi 2010).
Infatti, diverse analisi storiche rilevano come sia un errore aspettarsi che i migranti rispondano alla
crisi economica e al peggioramento delle loro condizioni di lavoro, tornando nei paesi di origine,
poiché è probabile che in quei paesi gli effetti della recessione siano ancora più cruenti (Castles
2009, Chiswick, Hatton 2003). D’altra parte è ormai evidente che per spiegare i comportamenti dei
migranti nei momenti di crisi occorre ricorrere anche agli elementi sociali e istituzionali, oltre che ai
modelli economici (Tilly 2011: 687).
La forza lavoro migrante è solitamente più a rischio di disoccupazione rispetto alla forza
lavoro locale a causa di differenti fattori intrecciati tra loro. In primo luogo, i lavoratori stranieri
godono di diritti e forme di protezione inferiori rispetto ai lavoratori nativi (Ambrosini, Barone
2007). In secondo luogo, essi sono sovrarappresentanti tra i lavoratori low-skilled, che sono sovente
i primi a essere licenziati (Awad 2009). In terzo luogo, i migranti sono spesso impiegati con
contratti temporanei nei settori del mercato del lavoro più esposti ai cicli economici quali le
costruzioni e i servizi o in settori internazionalizzati lavorando talvolta direttamente in concorrenza
con le imprese delocalizzate nei propri paesi di origine (Papademetriou et al. 2010).
La crisi economica sta colpendo in particolare l’Unione Europea, dove tra il 2007 e il 2010
si registra il maggior incremento della disoccupazione a livello internazionale (Ilo 2011b, p. 27). La
4
diminuzione delle opportunità di impiego e l’aumento della disoccupazione hanno ridotto
l’attrattività dell’UE per i migranti, tuttavia nel 2009 la migrazione netta era ancora positiva in molti
paesi dell’Unione, come Italia, Spagna e Gran Bretagna. Si tratta di lavoratori qualificati e più in
generale di donne che continuano a trovare impiego nei settori della sanità, dell’istruzione e del
lavoro domestico e di cura, che per il momento non sono stati toccati dalla recessione (Iom 2010).
I lavoratori migranti più esposti al rischio di disoccupazione sono i non-EU nationals: tra il
2008 e il 2009 il tasso di disoccupazione dei lavoratori di cittadinanza EU è aumentato di 2,8 punti
percentuali, mentre per i non comunitari si è incrementato di 5 punti percentuali (Iom 2010). Questa
differenza è probabilmente connessa al fatto che i non comunitari sono più spesso occupati nei
settori ciclici e sono maggiormente discriminati (FRA 2009). Inoltre, secondo Reyneri (2009) nel
momento in cui i cittadini UE non dispongono di un’occupazione sono più propensi a tornare
temporaneamente nel proprio paese, poiché non rischiano di perdere il permesso di soggiorno, il
viaggio è relativamente economico e non hanno progetti migratori a lungo termine. Tra i non
comunitari i più svantaggiati nel mercato del lavoro, a prescindere dalla crisi economica, sono i
rifugiati e più in generale coloro che arrivano da paesi politicamente instabili oppure da paesi a
religione islamica (Fleshmann, Dronkers 2010; EUMC 2006).
Nell’UE l’impatto della crisi economica sui migranti non è omogeneo. In Irlanda e in
Spagna la recessione ha colpito maggiormente i lavoratori di origine migrante rispetto a quanto è
avvenuto in Germania e in Gran Bretagna, dove l’aumento della disoccupazione e il gap tra
migranti e nativi è stato più contenuto (Papademetriou et al. 2010). Invece, in Italia le condizioni
lavorative degli stranieri sono peggiorate più lentamente rispetto agli altri paesi dell’Unione
Europea.
In Italia, nonostante l’occupazione straniera continui a crescere anche in tempo di crisi, il
tasso di occupazione diminuisce: nel 2008 il tasso di occupazione straniero era superiore a quello
italiano di 10,5 punti percentuali (68,7% contro 58,2%), mentre nel 2010 la differenza si riduce a
7,6 punti percentuali (6,7 nel primo trimestre) (Italia Lavoro 2011). L’onda d’urto della crisi
economica sui migranti è più visibile nel Nord Italia, dove risiede il 61% della popolazione
straniera: il tasso di disoccupazione degli stranieri è aumentato di oltre tre volte rispetto a quello
degli italiani (1,5 contro 0,4 punti percentuali). Infine, la crisi colpisce in modo diverso i differenti
gruppi nazionali presenti in Italia. Le differenze più significative riguardano, da un lato, gli albanesi
e i marocchini – caratterizzati da una predominanza della componente maschile in genere impiegata
nel settore industriale ed edilizio – che risultano essere i più toccati dalla contrazione dei posti di
lavoro, e dall’altro lato i migranti di origine filippina, polacca e ucraina – in maggioranza donne
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occupate nei servizi alle famiglie – che per il momento hanno risentito in modo marginale della crisi
economica (Istat 2010).
2. La diffusione del lavoratore povero
In molti paesi industrializzati nel corso degli ultimi 20 anni la crescita delle disparità di
reddito, ovvero il passaggio da una fase di tendenziale perequazione dei salari a una di sostanziale
sperequazione è segnalata in modo acuto dall’aumento progressivo dei cosiddetti working poor. Il
fenomeno dei lavoratori poveri è stato registrato e analizzato con maggiore attenzione negli Stati
Uniti a partire dall’epoca reganiana, mentre nei paesi dell’UE si registrava un elevato tasso di
disoccupati (Esping-Andersen 1990; 1999; Fox Piven 2004). In effetti, nei paesi dell’UE il rischio
di diventare lavoratori poveri è inferiore rispetto agli Stati Uniti, specialmente per chi è nato in
questi paesi (Crettaz 2011).
Gli studiosi hanno messo in luce come sia all’incrocio di perequazioni salariali e regime di
welfare, da un lato, e situazione individuale e familiare, dall’altro, che l’analisi deve soffermarsi. In
effetti il basso salario di per sé non necessariamente porta alla povertà se nella famiglia vi sono altri
percettori di reddito (Marx, Verbist 1998; Peña-Casas, Latta 2004; Lohmann 2009). La condizione del
lavoratore povero è connessa quindi: al livello salariale percepito, alla struttura e alle risorse
dedicate al cosiddetto welfare state, nonché alle possibilità del singolo di accedere a tali benefici
(Crettaz, Bonoli 2011; Moeller et al., 2003; Marx, Verbist 1998). Inoltre, la situazione del
lavoratore povero dipende dalle sue capacità professionali e dal sistema di occupazione, nonché
dalle risorse familiari a disposizione.
Noi ipotizziamo che la diffusione dei lavoratori poveri sia addebitabile alla crisi della
sindacalizzazione e alla crescita di nuove tipologie contrattuali, mentre scarsa influenza avrebbe la
presenza di lavoratori migranti. In Italia a partire da primi anni Novanta si è registrato un
progressivo decremento dei livelli salariali e un ampliamento delle disuguaglianze salariali. Nel
2010 secondo l’Istat il 9,3% degli occupati è in condizioni di povertà relativa, ma tra gli operai tale
valore arriva al 15,1%. Una parte di questi lavoratori poveri è in realtà in condizione di forte
privazione: in una situazione di povertà assoluta vi è il 3,5% degli occupati e ben il 6,4% degli
operai. 2
2 Nel 2010 in Italia l’11,0% delle famiglie è relativamente povero (cioè circa 8,3 milioni di individui, il 13,8% dell’intera popolazione). Le famiglie in povertà assoluta sono invece il 4,6% (3,1 milioni di individui, pari al 5,2% della popolazione) (Istat 2011a).
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In generale, in Italia la povertà è spesso connessa a bassi livelli di istruzione a deboli profili
professionali e a quanti hanno scarso accesso al mercato del lavoro formale (Brandolini et al. 2001).
I lavoratori poveri sono prevalentemente giovani e donne, in particolare nel Sud, e migranti.
Tuttavia, occorre rilevare come nella morsa della povertà troviamo ormai anche adulti/e non
anziani, specialmente se sono donne con prole a carico (Bimbi, Trifiletti 2006). Per quanto riguarda
i lavoratori migranti, la loro caduta in uno stato di povertà è frutto della combinazione di diversi
fattori: occupazioni a basso salario e con contratto temporaneo; situazioni familiari mono-reddito
basate sul modello del male breadwinner; presenza di più figli in età scolare o comunque a carico;
scarsa capacità della rete sociale di diversificare la tipologia di occupazioni; difficoltà ad accedere
alle forme di un welfare state sempre più limitato.
Occorre altresì sottolineare come a erodere le capacità di risparmio dei lavoratori migranti vi
è, a differenza di quanto avviene per le famiglie autoctone, l'incidenza di tre fonti di spesa:
l’alloggio (affitto o mutuo); le rimesse a favore dei familiari rimasti in patria e i viaggi di ritorno nel
paese di origine. La disoccupazione diventa quindi una sorta di catalizzatore di una precedente
situazione di debolezza economica e sociale esperita da individui e famiglie che li spinge verso uno
stato prolungato di vulnerabilità sociale. La situazione peggiore viene vissuta da migranti senza
permesso di soggiorno e tra questi quanti non riescono ad accedere all’apprendimento della lingua.
3. Lavoratori migranti nei distretti industriali de l Nord-est
Le aree di Camposampiero (vicino a Padova) e Montebelluna (vicino a Treviso) oggetto di
questa ricerca sono caratterizzate dalla presenza di piccole e medie imprese spesso all’interno di reti
distrettuali (Piore, Sabel 1987; Blim 1990; Harrison 1994). Queste aree di produzione per
l’esportazione di merci e servizi hanno fatto uso estensivo di lavoro manuale. Nel corso degli anni
Novanta queste aree di piccola e media impresa hanno iniziato a reclutare, regolarmente e
irregolarmente manodopera straniera proveniente da un ampio numero di paesi con differenze
notevoli per quanto riguarda: le storie migratorie, le esperienze occupazionali, le condizioni di vita
nel paese di origine (Andall 2007). All’inizio la maggior parte dei migranti erano assunti come
lavoratori non qualificati, indipendentemente dai loro livelli di istruzione e di capacità lavorative,
mentre negli anni più recenti una piccola parte è assunta con livelli di qualificazione superiori; in
particolare, quanti sono assunti come lavoratori qualificati sono i migranti provenienti dai paesi
dell’Europa orientale che possono solitamente reperire posti di lavoro migliori rispetto a chi
proviene da un paese africano o asiatico. Negli anni 2000 queste aree produttive si sono trasformate
profondamente, in particolare perché un numero consistente di imprese si sono trasferite all’estero e
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particolarmente nei paesi dell’Europa orientale. Queste trasformazioni hanno prodotto una
terziarizzazione dell’economia locale: il Nord-est è oggi caratterizzato da una minore produzione
manifatturiera e da una più ampia quantità di “logistica” che riesce a gestire le produzioni
esternalizzate all’estero. Allo stesso tempo in quest’area fenomeni quali un basso livello di
sindacalizzazione, la prevalenza di una contrattazione informale e forme di discriminazione contro i
lavoratori stranieri sono piuttosto diffuse. La grande maggioranza dei lavoratori stranieri è occupata
come operaio generico a prescindere dal titolo di studio; si tratta di mansioni spesso esposte in
modo elevato alla possibilità di un infortunio (Allasino et al. 2004).
Per i migranti funziona un sistema per cui essi svolgono quelle attività nelle quali i livelli
salariali e più in generale le condizioni di lavoro sono peggiori e dalle quali gli/le italiani/e si sono
smarcati/e quando questo era possibile, talvolta in complicità con i loro datori di lavoro che così li
hanno sgravati da tali mansioni. L’assunzione di lavoratori stranieri per le mansioni più nocive può
infatti consentire la promozione di una parte dei lavoratori locali ad attività più remunerate con
ricadute importanti nella conservazione di un certo ordine sociale (Gambino 1981). Questo
inserimento dei migranti ha permesso, tra l’altro, ai datori di lavoro di mantenere mediamente bassi
livelli tecnologici in alcuni settori, evitando la delocalizzazione. L’attuale crisi economica sta
facendo ritornare, almeno in parte, gli autoctoni a svolgere una serie di mansioni dalle quali
pensavano di essersi emancipati. A tal proposito, è ipotizzabile che il ritorno di una parte importante
della manodopera autoctona a mansioni nocive e a basso salario possa garantire nel lungo periodo
una diminuzione delle forme di discriminazione.
La vera e propria esplosione delle tipologie contrattuali che si è registrata in Italia a partire
dal 1997 garantisce un’ampia scelta delle modalità con cui è possibile acquistare e vendere forza
lavoro. I contratti di lavoro a termine interessano sia gli italiani sia i migranti, anche se questi ultimi
in ben più larga percentuale rimangono a lungo in una condizione di incertezza lavorativa (AA. VV.
2000). Lavorare sotto diverse condizioni produce maggiori divisioni tra gli stessi lavoratori.
A partire dalla metà degli anni Novanta, all’interno delle imprese il collettivo operaio è stato
progressivamente suddiviso e alla tradizionale differenziazione per mansioni si è aggiunta quella
per contratto di lavoro, per datore di lavoro (dipendente diretto, subfornitore o cooperativa) e per
condizione giuridica (autoctono o immigrato). Quasi sempre non è stata una trasformazione
improvvisa, quanto piuttosto graduale e capillare. Il lavoro sotto condizioni diverse, cooperativa-
azienda ad esempio, ma per alcuni aspetti anche contratto a tempo indeterminato-determinato o
interinale, provoca forti differenze e notevoli difficoltà di aggregazione. La destrutturazione delle
aziende e il progressivo affacciarsi di sub-appalti permette di segmentare con più facilità anche il
mercato dei posti di lavoro rendendo più difficoltoso il controllo sindacale delle condizioni di
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lavoro. Nell’atomizzazione crescente la rete parentale e amicale continua a funzionare da
selezionatrice e da primo disciplinamento al lavoro in ampie aree rurali dell’Italia settentrionale;
essa costituisce per gli imprenditori un valido aiuto nella scrematura preliminare della forza lavoro e
nel controllo successivo. Tale sistema viene adottato anche con lavoratori e lavoratrici migranti, i
quali vengono spesso reclutati attraverso le reti comunitarie.
4. Aspetti metodologici
Il presente saggio si basa su 171 interviste in profondità raccolte nell’ambito di una più
ampia ricerca che ha indagato l’intero universo, sebbene limitato, dei marocchini e dei rumeni
iscritti nell’ottobre 2010 a due Centri per l’impiego (Cpi)3. I romeni disoccupati e immediatamente
disponibili al Cpi di Camposampiero risultavano essere complessivamente 399 (192 femmine e 207
maschi), mentre i marocchini in eguale condizione presenti negli elenchi del Cpi di Montebelluna
erano 363 (101 femmine e 262 maschi). Il gruppo di ricerca ha provato a contattare tutte le persone
iscritte (complessivamente 762); di queste quante erano disponibili, sono state intervistate
telefonicamente. Complessivamente sono stati fatti oltre 1300 tentativi di contatto telefonico. La
quota di persone intervistate telefonicamente è stata elevata, oltre il 57% (435), con frequenza
maggiore tra le donne rumene e minore tra le donne marocchine. Le interviste telefoniche erano
composte di ventiquattro domande tese a comprendere aspetti generali quali: attuale situazione
lavorativa; composizione famigliare; eventuali sostegni al reddito; forme di mobilità.
In seguito, quanti disponibili sono stati intervistati faccia a faccia. Sono state così raccolte
77 interviste in profondità a cittadini rumeni (33 uomini e 44 donne) e 94 a cittadini marocchini (84
uomini e 10 donne)4. La traccia di intervista che è stata usata lasciava ampi margini di
discrezionalità a intervistatori/trici, nonché una discreta libertà narrativa all’intervistato/a. Le
interviste svolte da dicembre 2010 a maggio 2011, della durata variabile dai 45 ai 120 minuti, hanno
permesso di raccogliere informazioni sulla storia del percorso migratorio, sulle prospettive
lavorative precedenti e successive alla crisi, sulle modalità attraverso le quali la crisi è stata
affrontata e sugli effetti prodotti in ambito familiare.
Le interviste sono state svolte nelle abitazioni degli/lle intervistati/e e nei locali pubblici
adiacenti alle loro abitazioni. Visitare le abitazioni ci ha permesso di conoscere anche altri membri
3 I Centri per l'Impiego sono delle strutture pubbliche che forniscono servizi e propongono interventi personalizzati a sostegno dell'occupazione nel territorio. I datori di lavoro sono obbligati a inviare ai Cpi ogni informazione relativa alle assunzioni, proroga, trasformazione o cessazione dei rapporti di lavoro. 4 Le interviste in profondità rappresentano circa il 22% dell’intero universo indagato; rumeni/e sono stati/e in genere meno disponibili (19,2%), rispetto a marocchini/e (25,9%).I nomi degli/lle intervistati/e sono fittizi, in alcuni casi scelti dagli stessi/e intervistati/e.
9
del nucleo domestico delle persone intervistate nonché di osservare le condizioni abitative
(tipologia di alloggi, qualità degli edifici, tipologie di coabitazioni, tipo di arredamento e uso del
riscaldamento).
5. L’articolazione dei percorsi migratori tra occupazione e disoccupazione
I flussi migratori di marocchini e romeni verso l’Italia si caratterizzano per caratteristiche
alquanto diverse. Come è noto, la migrazione marocchina è iniziata negli anni Ottanta e ha
acquistato dimensioni di grande rilievo negli anni Novanta (Mghari 2010). Nel caso dei/lle nostri/e
intervistati/e, molti sono arrivati tra il 1989 e il 1999, ma una componente significativa è giunta
anche in anni più recenti. Numerosi intervistati/e hanno raggiunto la zona del montebellunese solo
dopo un lungo itinerario che li/le ha portati/e ad attraversare diversi paesi affacciati sulle sponde sia
meridionali sia settentrionali del Mediterraneo. La migrazione rumena verso l’Italia è invece più
recente, risalendo alla seconda metà degli anni Novanta (Sacchetto 2004; Cingolani 2010; Perrotta
2011) essa ha subìto un rapido aumento soprattutto a partire dal 2002, grazie all’eliminazione della
necessità del visto Schengen per periodi inferiori a tre mesi, e, dal 2007, con l’acquisizione della
cittadinanza dell’Unione europea e quindi di una certa libertà di movimento. In breve, la
maggioranza dei/lle rumeni/e intervistati/e sono arrivati in Italia tra il 2002 e il 2008. Inoltre, a
differenza dei migranti di origine marocchina i rumeni sono giunti direttamente nel Veneto e spesso
proprio nell’alta-padovana, area nella quale risiedono tuttora.
I/le migranti marocchini/e e rumeni/e indagati provengono prevalentemente da due aree
caratterizzate da un’economia per lo più agricola: la provincia marocchina di El Kelâat Es-Sraghna
e il distretto rumeno di GalaŃi.5 Le due grandi catene migratorie che sono state rilevate nel corso
della ricerca si basano su legami parentali e di vicinato che facilitano e sostengono i migranti alla
partenza convogliandoli verso le aree di destinazione e quindi cercando di inserirli al lavoro. I
legami parentali sono significativi per entrambi i gruppi analizzati, tuttavia la ricerca ha riscontrato
una differenza rilevante nella ridefinizione dei confini della famiglia nel corso dell’esperienza
migratoria. Per molti marocchini le relazioni di parentela permangono centrali anche dopo la prima
fase migratoria, poiché il dovere di sostegno reciproco persiste nel tempo. E’ pur vero che i giovani
marocchini e una parte al momento minoritaria di donne esprime forme di rottura del modello
migratorio e in alcuni casi dei legami familiari, intraprendendo percorsi e scelte dolorose che
possono talvolta attivare forme liberatorie di agibilità autonoma e individuale (Salih 2003; Heering,
5 Altre zone di provenienza degli intervistati, ma non altrettanto significative da un punto di vista numerico, sono: Piatra Neamt, Braşov e Costanza, per i rumeni; Casablanca, Settat, Rabat, Taza, Beni Mellal e Khouribga, per i marocchini.
10
van der Erf, von Wissen 2007; Zontini 2010). Nel caso dei rumeni le scelte migratorie sono centrate
più spesso sull’individuo o, al massimo, sulla famiglia nucleare; la catena migratoria sostenuta da
amici e parenti è importante prevalentemente nella prima fase, mentre successivamente ognuno
viene lasciato “libero” di investire le proprie energie sul proprio percorso. In questo caso, i giovani
e una parte delle donne non solo mettono in campo comportamenti individuali, ma tendono ad
assumere forme di mimetismo sociale piuttosto pronunciate (Sandu 2006).
Il percorso migratorio tipico tra i marocchini è quello del giovane maschio che raggiunge
qualche familiare e/o conoscente in Italia; egli parte celibe e dopo qualche anno si sposa con una
connazionale in occasione di uno dei ritorni in Marocco (Lievens 1999), effettuando poi il
ricongiungimento familiare (Tognetti 2011). Tra i rumeni, invece, non vi è un modello migratorio
dominante: donne e uomini di qualsiasi stato civile possono costituire gli apripista (first-migrants),
sebbene spesso partano persone adulte sposate e con figli. Appena possono queste ricongiungono il
resto della famiglia.
Nei primi mesi di immigrazione molti degli intervistati hanno lavorato irregolarmente, in
particolare in agricoltura, edilizia, nei servizi di cura domiciliare e nelle piccole imprese
manifatturiere. A questa fase, che talvolta si prolunga per diversi anni, segue solitamente la
regolarizzazione giuridica che permette l’inserimento, senza particolari difficoltà nel mercato del
lavoro formale, anche grazie all’aiuto di parenti e amici. Nel complesso i percorsi occupazionali
delle e dei migranti sono segmentati e il turnover lavorativo è elevato. Nel periodo precedente alla
crisi economica internazionale, essi raramente rimanevano alle dipendenze di un datore di lavoro
per più di 4-5 anni. Il turnover lavorativo era connesso non solo alla maggiore sensibilità del loro
posto di lavoro alle fluttuazioni del ciclo economico, ma anche perché si licenziavano per cercare
un impiego più remunerato oppure erano licenziati per il mancato rispetto delle regole lavorative,
prolungando ad esempio il periodo di ferie nel proprio paese. Tale approccio al lavoro risulta essere
più diffuso tra i marocchini, che sembrano maggiormente indisciplinati rispetto alle monotone e
ossessive cadenze industriali, mentre i rumeni si mostrano più stabili.
L’articolazione delle mansioni nelle quali sono stati occupati gli immigrati è eterogenea e
solitamente i marocchini contano una maggiore varietà di esperienze lavorative rispetto ai rumeni.
A eccezione di pochi giovani laureati, tutti/e gli immigrati intervistati/e si percepiscono come
“operai generici” e ne hanno di fatto svolto le mansioni, solitamente nel settore manifatturiero, in
edilizia e nel lavoro domestico (negli ultimi due casi si tratta spesso di rumeni/e).
Una parte di donne marocchine svolge un lavoro salariato: solitamente nel settore dei servizi
alle persone o alle imprese, e spesso irregolarmente, per qualche ora al giorno. Si tratta di una
situazione simile a molte immigrate rumene che, tuttavia, dispongono solitamente di maggiori
11
margini di scelta. Pulizie della casa e degli uffici, lavapiatti e cameriere, qualche settimana in
agricoltura o anche nell’industria sembrano caratterizzare la condizione di lavoro di una parte delle
donne rumene con figli. Per alcune donne intervistate, sia rumene sia marocchine, il lavoro di cura
connesso alla nascita di un figlio ha ridotto la loro partecipazione al lavoro salariato, poiché a fronte
di politiche di conciliazione carenti non potevano ricorrere né al sostegno informale delle proprie
reti familiari né al mercato. L’adozione di un modello familiare male breadwinner pone le donne in
una posizione di dipendenza dal marito, riproducendo modelli patriarcali che, pur in modo diverso,
sono presenti in entrambe le società di origine (Verdery 1994; Oprica 2008; Sadiqui, Ennaji 2006).
In altri casi la decisione di rimanere a casa, nonostante il periodo di crisi è connesso alle
discriminazioni subite all’interno dei posti di lavoro, solitamente più diffuse tra le marocchine
specialmente per quanto riguarda l’uso dell’hijab, ma che colpiscono comunque anche le rumene.
6. Esperienze e condizioni di lavoro nella disoccupazione
In generale, tra i disoccupati intervistati si nota una parabola discendente nei percorsi e nelle
carriere lavorative, in particolare tra coloro che hanno alle spalle una lunga esperienza migratoria.
Si tratta di una regressione della propria condizione materiale e sociale aggravata dalla presenza
della famiglia e dai debiti contratti (nel caso di mutuo) (Meo 2010). Essi descrivono spesso la loro
condizione nei termini di una precarizzazione spinta. In un mercato del lavoro come quello del
Veneto in cui le opportunità di lavoro rimangono relativamente ampie (Veneto Lavoro 2011),
quanti non riescono a reperire un’occupazione per alcuni mesi, magari senza contratto, sono pochi.
La condizione odierna di molta forza lavoro, anche autoctona, è di un continuum tra lavoro e non
lavoro: non solo perché la situazione di disoccupazione è accompagnata spesso da una attiva ricerca
di lavoro, ma perché molti degli intervistati continuano a svolgere piccole attività regolarmente o
irregolarmente. Il rischio per una parte di essi è di una permanenza semi-continuativa nell’area
“grigia”, costituita da occupazioni a termine o irregolari con ripercussioni anche su tutti i membri
della famiglia.
La crisi sembra aver peggiorato il processo di incasellamento in alcune mansioni. Dopo la
perdita del lavoro qualche decina di persone si sono spostate in altre aree italiane, sulla base della
richiesta di manodopera per l’agricoltura, oppure cercano di acquisire nuove competenze per
aumentare la loro occupabilità, come nel caso di chi è riuscito a ottenere l’agognata patente per
12
poter condurre autoarticolati o di chi ha ottenuto il titolo di operatrice socio sanitaria.6 La ricerca di
un lavoro sembra avvenire prevalentemente attraverso agenzie interinali o conoscenti, mentre è in
declino la ricerca porta a porta che ha sostenuto la costruzione dell’industria manifatturiera del
Nord-est. Le principali differenze tra le due nazionalità riguardano la maggiore facilità dei/lle
rumeni/e di reperire un’occupazione; mentre i/le marocchini/e rispondono in modo più rigido alle
opportunità lavorative.
La situazione nel momento dell’intervista di quanti erano iscritti ai due Centri per l’impiego
può essere così sintetizzata: a) una parte consistente di marocchini e più limitata di rumeni
disoccupati è in difficoltà a reperire un’occupazione; b) rumeni/e e marocchini che lavorano
regolarmente con un contratto a termine (molti attraverso un’agenzia interinale) o meno
frequentemente con contratto a tempo indeterminato nel settore manifatturiero, in particolare nella
metallurgia e nelle costruzioni;7 c) donne rumene e marocchine che sono occupate regolarmente o
irregolarmente nel lavoro domestico (soprattutto tra le rumene, ma in espansione anche tra le
marocchine) o che cercano un’occupazione part-time come integrazione del reddito del marito. A
queste categorie occorre aggiungere chi, di entrambe le nazionalità, o dispone di un elevato titolo di
studio, o sta cercando di conseguirlo, mirando a mansioni qualificate.
Quanti non riescono a reperire un’occupazione sono sovente ultracinquantenni con un
passato da operaio generico. Essi cercano un’occupazione e svolgono qualche lavoro occasionale,
come, ad esempio, lavori socialmente utili nei comuni di residenza. Lo stato di disoccupazione è
vissuto con molta sofferenza, mentre la socialità inizia a ridursi e la situazione si ripercuote anche
sulla propria identità. Anghel T., un 60enne rumeno arrivato in Italia nel 1994, è disoccupato da tre
anni, durante i quali ha percepito l’indennità di mobilità; egli ha svolto piccoli lavori come
giardiniere, facchino e badante, ma non riesce a reperire un lavoro regolare. Così descrive la sua
attuale attività: “fai pulizie, finisci la pulizia. E dopo cosa fai?... Questi tre anni lavoravo due, tre
giorni... Guardavo la televisione, facevo pulizie qua, andavo in giro un poco qua, un poco là,
giardiniere” (7 January 2011, Loreggia).
Diversamente dalle ipotesi iniziali, l’epoca di arrivo in Italia non rappresenta sempre una
variabile discriminante, mentre è decisamente più importante l’età dei soggetti. Una parte dei
migranti che si sono stabiliti in Italia da più di dieci anni e che hanno ricongiunto la famiglia si
trova infatti penalizzata dalla crisi economica e più in generale da un mercato del lavoro che
costringe a una prospettiva di breve periodo, dato il sostanziale crollo dei contratti a tempo
indeterminato e la lenta ripresa delle assunzioni a tempo determinato (interinali e soci di
6 In particolare nel caso dei rumeni la patente viene sovente conseguita in patria, poiché il costo è nettamente inferiore. 7 Una parte degli intervistati aveva infatti già trovato un lavoro al momento dell’intervista.
13
cooperativa compresi) (Veneto Lavoro 2011, p. 53). Ibrahim O., marocchino di 35 anni, è nato a
Taza e fa parte di quanti sembrano considerare arrivato a conclusione il proprio percorso
migratorio. Egli, arrivato in Italia nel 2000 attraverso la Spagna e quindi la Francia, ha ottenuto un
permesso di soggiorno con la regolarizzazione del 2002. Da questo momento inizia una serie di
lavori quasi tutti come saldatore in diverse ditte della zona di Valdobbiadene, che lo porterà a
lavorare anche in due cantieri a Torino e Milano. L’ultima ditta in cui Ibrahim è occupato inizia a
ridurre il personale e nel 2009 egli rimane senza lavoro; per i primi 8 mesi ha percepito l'assegno di
disoccupazione (800 euro), perciò poteva mantenere la moglie e la figlia, ma successivamente la
situazione è diventata insostenibile e ha deciso di rimandarle in Marocco. Al momento
dell’intervista racconta che non paga l'affitto da due mesi e che sopravvive grazie agli aiuti della
Caritas e del fratello. Sta pensando di tornare in Marocco, ma anche là non è facile trovare un
lavoro.
Se non trovo lavoro, cosa fai? Torno per forza. Anche se cambio zona è uguale, non penso che trovi diverso... Se non c’è qua, non c'è lavoro neanche da altre parti. […] Sono stato in Marocco quasi un mese. Sono stato là, ho provato a cercare lavoro là, però non sono riuscito. Trovo lavoro in città, però in città non c'è casa, qualcosa dove andare. Se rimango a casa di mio padre fuori città non trovi niente. Non c’è lavoro per contadini del Sud che non hanno l'acqua,.... contadini poverini fanno farina, fanno quella roba che non costano niente perché loro non hanno possibilità di usare il trattore...capito il discorso? (Ibrahim O., Marocco, 35 anni, maschio, 13-3-2011 Montebelluna)
La disoccupazione causata dal mancato rinnovo del contratto interinale o a termine sembra
sostanzialmente dovuta a due motivi: la mancanza di lavoro da parte dell’azienda oppure evitare di
dover assumere il dipendente perché ha già svolto tre anni di contratti a tempo determinato. In una
delle poche grandi aziende dell’area una lavoratrice rumena è stata occupata per diversi mesi finché
alla scadenza del contratto questo non è più stato rinnovato, quando ormai era quasi arrivata ai
trentasei mesi di occupazione. Lina, che era occupata alla Nuova Ompi, mette in luce sia questo
aspetto sia il senso di impotenza percepito da una parte dei lavoratori/trici.
Dopo ho trovato subito alla Nuova Ompi è qua a Piombino Dese che fanno dei flaconcini per le medicine, ho trovato là e sono andata avanti per tre anni, ma sempre a termine e dopo dall'anno scorso mi hanno lasciata a casa…[Il ritmo di lavoro era] pesante all'inizio perché non sapevo, non ero abituata, non riuscivo a dormire, ma dopo... Ed eravate tanti contratti a tempo determinato? 72 persone più o meno… La fabbrica va, lavoro c'è… Ma sono rimasti a casa solo quelli a tempo determinato? Solo quelli a tempo determinato E come mai vi hanno lasciati a casa? Non lo so... perché dicono, io non conosco nemmeno la legge, che per legge dopo tre anni la fabbrica deve assumerti a tempo indeterminato... cosa posso dire io? Non sono andata neanche a sindacati, cosa faccio io che sono piccola così mi metto a fare la guerra (Lina T., Romania, 39 anni, femmina, 02-02-2011, Piombino Dese).
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Le donne marocchine intervistate, come una parte delle rumene, sono disponibili al
lavoro solo a certe condizioni per quanto riguarda tempi, mobilità, e mansioni da svolgere. Nei
loro volti e parole è possibile scorgere un minore stress dovuto alla disoccupazione, rispetto ai
maschi; esse cercano di arrangiarsi con quanto posseggono, senza preoccuparsi troppo del futuro.
Vero è che per quanti/e tra i marocchini/e hanno deciso di rimanere in Italia il lavoro femminile
costituisce sempre meno un elemento accessorio anche perché il lavoro di cura sembra risentire
meno della crisi economica. Fatiha è riuscita, ad esempio, a reperire un’occupazione nel settore
domestico in modo irregolare, come donna di pulizie presso diverse abitazioni.
Mi diceva che fa dei lavoretti di qualche ora qua, qualche ora là? Si. Non ogni giorno; un giorno o due la settimana… Quattro ore, tre ore in giorno. Non hai tutta la giornata… Pulizie, stirare, baby sitter, quando hanno bambini (Fatiha E., Marocco, 40 anni, femmina, 01-01-2011, Caerano 10).
La crisi economica ha ripercussioni su tutti i lavoratori, oltre che sui disoccupati. Quanti
sono hanno già reperito un’occupazione a tempo indeterminato esperiscono spesso una più debole
capacità di contrattazione poiché sembra arrivato il tempo di “stare al riparo”. Aziz N., oggi 25enne,
fa parte di quel gruppo relativamente ampio di giovani marocchini (e rumeni) che assomigliano
profondamente ai coetanei, operai e artigiani, locali. Egli sembra perfettamente adeguarsi al
modello iperlavorista dell’operaio-lavoratore autonomo veneto e assumerne, anche attraverso
l’intercalare dialettale, i modi di dire oltre che quelli di fare. Come molti altri giovani suoi
connazionali, non ha alcuna intenzione di tornare in Marocco poiché è totalmente proiettato a
esprimere la propria individualità nel luogo di vita e di lavoro, sebbene non manchino gli
atteggiamenti discriminatori che talvolta subisce e ai quali risponde puntualmente. Tuttavia anche
Aziz che un lavoro lo ha, ritiene che non sia questo il momento per chiedere miglioramenti salariali
o lavorativi: “Prima, quando c'era lavoro tanto, c’erano tanti operai... chiedevi i tuoi diritti, chiedevi
l'aumento, chiedevi anche i permessi magari per andare a far festa. Adesso è dura, adesso se tu
chiedi diritti o un aumento ti dicono: ‘licenziati’” (7 gennaio 2011 Volpago).
Infine, la ripresa del lavoro come ambulante caratterizza una parte esigua delle esperienze
dei marocchini. Infatti, in diversi casi, l’ambulantato viene rifiutato esplicitamente, mentre un
numero più esiguo accetta di ritornare a svolgere tale lavoro, anche se lo percepiscono come un
arretramento rispetto alla propria carriera migratoria e lavorativa.
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7. Vivere la disoccupazione
7.1 Strategie di sopravvivenza
I periodi di disoccupazione hanno inciso a fondo sulle risorse economiche delle famiglie,
nonostante un numero relativamente elevato di persone abbia ricevuto una qualche forma di
sostegno al reddito, quali la Cassa integrazione e l’assegno di disoccupazione. Gli intervistati solo
in rari casi hanno ottenuto un aiuto economico dai comuni che spesso sono governati dal partito
della Lega Nord, ostile alla presenza dei migranti.
Come sottolinea anche la letteratura italiana relativa ai processi di impoverimento (Micheli,
Laffi 1995), la disoccupazione prolungata ha ripercussioni sociali diversificate sulle persone
intervistate, in base al tipo e alle dimensioni delle loro famiglie e alla composizione della rete
sociale in cui sono inserite. Innanzitutto, la disoccupazione ha effetti radicalmente differenti se
l’individuo che perde il lavoro è celibe/nubile o sposato e se deve mantenere o meno delle altre
persone oltre a sé stesso. I disoccupati single sono più flessibili e riescono ad adattarsi con maggior
facilità alla nuova condizione di povertà, comprimendo in modo elevato i consumi. Tuttavia, la
solitudine può anche essere un elemento di vulnerabilità, poiché i migranti privi di legami familiari
in loco possono contare solamente sulle proprie forze. Al contrario, i migranti sposati e con figli
sono inseriti all’interno di una rete di dipendenze che li rende meno mobili e flessibili.
Una delle variabili che può modificare in modo significativo le ripercussioni della
disoccupazione sull’individuo consiste nel numero dei redditi di cui dispone una famiglia. I
disoccupati che vivono con familiari occupati, siano essi il partner, un fratello, un genitore o un
figlio, sono meno a rischio di povertà e godono di maggiori risorse per reperire un nuovo impiego.
Ad esempio, Christian A. un rumeno trentatreenne, al momento dell’intervista era disoccupato da
circa un anno, ma grazie all’indennità di disoccupazione e allo stipendio di sua moglie – impiegata
come cuoca in un ristorante – racconta che il tenore di vita della famiglia non è sostanzialmente
cambiato: “La qualità della vita è rimasta come prima, ma cerchiamo di non spendere tanti soldi.…
E' un po' difficile, ma per il momento ce la facciamo. Sappiamo le spese che abbiamo e quello che
rimane serve per la bambina, per la scuola e basta” (24 febbraio 2011 Cittadella). Nonostante che vi
sia una significativa riduzione del reddito familiare, in taluni casi sono sufficienti alcune
rimodulazioni nei consumi per poter far fronte alle spese correnti. Tuttavia, queste rinunce incidono
sulla costruzione della propria identità e su quella dei propri figli/e, oltre che erodere gli eventuali
risparmi. Alcuni intervistati, come Marcela G.8, affermano con profondo rammarico di non poter
più permettersi di mandare i figli al campo estivo, in gita scolastica o a svolgere un’attività sportiva
8 Marcela G., Romania, 35 anni, femmina, 27-12-2010 Arsego.
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extrascolastica. Specialmente tra i genitori marocchini si nota una particolare attenzione a limitare
le ricadute delle difficoltà economiche sui figli per evitare loro ulteriori sofferenze. I migranti
marocchini ritengono infatti che per i bambini sia già di per sé difficile vivere in una società che li
discrimina in quanto stranieri.
I disoccupati che vivono in famiglie mono-reddito, sono particolarmente vulnerabili e
rischiano di precipitare rapidamente in condizioni di povertà estrema, a meno che non abbiano dei
risparmi o una rete sociale in grado di aiutarli (Meo, Romito 2010; Meo 2010). Le strategie di
sopravvivenza messe in atto da questi disoccupati sono numerose. Innanzitutto, se sono proprietari
di un appartamento acquistato mediante l’accensione di un mutuo, pratica molto diffusa tra i
migranti (Ponzo 2009), contrattano la sospensione del pagamento delle rate. Se, invece, abitano in
affitto cercano di accordarsi con il padrone di casa per una riduzione o sospensione del canone. In
secondo luogo, limitano il consumo di acqua, elettricità e gas: durante l’inverno spengono il
riscaldamento per gran parte della giornata e, se è condominiale, lo bloccano; nelle vecchie
abitazioni di campagna usano stufe a legna; disattivano il frigo e durante i mesi invernali
conservano gli alimenti fuori dalla finestra; usano l’acqua calda per le pulizie personali con minor
frequenza. I tentativi di ridurre le spese correnti non sono sempre sufficienti e in numerosi casi i
disoccupati risultano saltuariamente insolventi nei confronti sia dei proprietari di casa sia delle
banche, sia infine delle aziende di fornitura di servizi di pubblica utilità; essi rischiano così lo
sfratto o il pignoramento dell’abitazione oltre che vedersi interrotta la fornitura d’acqua, di energia
elettrica o del gas (Istat 2011b).
Anche la mobilità delle persone disoccupate e dei loro familiari risente in modo significativo
del processo di impoverimento. Numerosi sono gli intervistati che hanno ridotto le spese legate
all’automobile e ai mezzi di trasporto pubblico, e che si spostano solamente in bicicletta. La
riduzione del raggio di mobilità incide però negativamente anche sulle possibilità di reperire un
impiego. Tra le spese che i migranti limitano vi sono poi le rimesse a favore dei familiari rimasti nel
paese di origine (Mohapatra, Ratha 2009), che, come è noto, rappresentano il simbolo del legame
nonché della fedeltà dei migranti alla famiglia-patria di origine (Sayad 2004); gli stessi ritorni
periodici, diventano meno frequenti sia per i costi del viaggio sia perché è impossibile acquistare i
doni per parenti e amici.
Infine, per contenere le spese i migranti riducono le visite mediche – in particolare per i
membri adulti della famiglia – e la quantità dell’alimentazione, accontentandosi di prodotti di bassa
qualità (Istat 2011b). L’auto-produzione del cibo mediante la coltivazione dell’orto o la
preparazione di pane o di altri alimenti è una strategia raramente adottata dagli intervistati, sia
perché la ritengono poco conveniente sia perché pochi dispongono di un orto.
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7.2 Forme di solidarietà nella disoccupazione
Una risorsa fondamentale che consente a molti migranti di resistere alle difficoltà economiche
prodotte dalla disoccupazione consiste nella solidarietà espressa da parenti, amici, ex datori di
lavoro, conoscenti e organizzazioni di stampo laico e religioso. L’accesso a tale risorsa dipende non
solo dalla conformazione della loro rete sociale, ma anche dalle norme sociali che regolano i
rapporti di parentela e, talvolta, religiosi.
Dalle interviste si evidenzia una differenza abbastanza decisiva tra i due gruppi nazionali
rispetto alle forme di solidarietà che i disoccupati hanno ricevuto nel periodo di maggior difficoltà
economica. Tra i migranti marocchini la solidarietà è elevata tra i membri della famiglia allargata,
mentre è attenuata, sebbene presente, quella con gli amici ed eventualmente con gli altri membri
della comunità religiosa (Giacalone 2002). I rumeni si distinguono invece per un alto grado di
individualismo, che talvolta li porta a rinunciare all’aiuto perfino dei familiari più stretti (Ponzo
2005).
Nell’ambito delle famiglie allargate marocchine circolano risorse di vario tipo, quali denaro,
alloggio, informazioni relative alle opportunità di lavoro e sostegno morale. I legami parentali su
cui si basano tali forme di solidarietà sono in genere di tipo agnatico, tipico del sistema di filiazione
patrilineare, per cui vi sono profondi doveri di reciprocità tra padri e figli e tra fratelli, ed è
frequente la condivisione delle risorse con i cugini paralleli patrilineari e con il fratello della moglie
(Persichetti 2003). Oltre che sui familiari, i marocchini possono contare anche sulla solidarietà degli
amici, specialmente sul versante dell’alloggio. I coinquilini, ad esempio, pagano non di rado
l’affitto del compagno disoccupato e lo mantengono fino a quando non trova una nuova
occupazione. Infine, una risorsa importante per coloro che frequentano la moschea è la comunità
religiosa. Molti intervistati descrivono il sistema caritatevole organizzato dall’imam, che fornisce
aiuti economici, ma anche talvolta opportunità di impiego, alle persone che si trovano in estrema
difficoltà. Alcuni intervistati marocchini hanno però criticato, anche ferocemente, questo sistema
solidale, accusando gli imam di appropriazione o di gestione clientelare.
Le forme di solidarietà di cui beneficiano i disoccupati rumeni sono nettamente più limitate
e diverse rispetto a quelle dei marocchini. Innanzitutto, i legami familiari si presentano più corti e
deboli, ed è considerato legittimo chiedere aiuto solamente ai parenti di primo grado in linea retta
(genitori e figli) e in alcuni casi ai parenti di secondo grado in linea collaterale (fratelli e sorelle).
Infatti, si osserva un sostegno relativamente forte dei figli nei confronti dei genitori rimasti nel
paese di origine, mentre la solidarietà tra fratelli e sorelle si attiva più raramente e in casi di estrema
necessità.
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La rete amicale dei migranti rumeni è però eterogenea e comprende talvolta cittadini italiani
(colleghi, datori di lavoro e proprietari di casa), che rappresentano una risorsa preziosa. Essi
sospendono il canone d’affitto, se sono i padroni di casa, regalano vestiti e generi alimentari e
offrono opportunità di impiego. Piccoli prestiti di denaro sono, invece, relativamente più frequenti
tra connazionali, ma il principio della reciprocità non è sempre rispettato.
Infine, un altro elemento di distinzione tra i due gruppi nazionali intervistati riguarda
l’accesso a forme di solidarietà di tipo religioso. Nonostante nella zona ci siano alcune chiese
ortodosse del Patriarcato di Romania molti intervistati che si definiscono ortodossi non le
frequentano perché sono troppo lontane, mentre altri le visitano solamente in occasione delle
celebrazioni più importanti (Natale e Pasqua). Inoltre, secondo gli intervistati le comunità religiose
ortodosse rumene non prestano alcun tipo di sostegno ai fedeli bisognosi.
8. Tra radicamento e ritorni
Il ritorno è un’opzione relativamente poco praticata. Allo stesso tempo l’avvio di una
mobilità circolare non sembra così diffusa. A dispetto delle difficoltà, l’Italia rappresenta per molti
degli/lle intervistati/e l’orizzonte della vita futura. I marocchini nonostante siano migranti non-Eu e
abbiano maggiori difficoltà normative sono molto più mobili dei rumeni: essi si muovono
all’interno di uno spazio familiare che continua ad avere le sue, spesso solide, radici in Marocco. I
rumeni al contrario sembrano aver scelto in modo quasi costrittivo l’Italia come paese in cui vivere.
In generale è comunque limitato il numero di coloro che progetta il ritorno nel paese di
origine, sia perché non hanno un posto materiale e simbolico in cui tornare, sia perché il ritorno si
ripercuoterebbe negativamente sui figli, i quali nati e/o cresciuti in Italia non hanno alcuna
intenzione di tornare in Marocco o in Romania.9 La famiglia è il principale freno alle migrazioni di
ritorno e un volano per il radicamento sociale nel territorio di immigrazione, anche perché per i figli
il paese di origine è la terra dei nonni e il luogo delle vacanze estive (de Haas; Fokkema 2011).
Non puoi andare in Marocco, perché adesso io sono abituata di vivere, così. Non posso neanche pensare che vado in Marocco dico: “Guarda io non c’ho soldi, non c’è la possibilità per vivere, non…”. No, è una vergogna di dire, di dire queste cose alla mia famiglia. Non posso. Anche adesso qualche volta io mi arrabbio, dico: “Mamma mia lascio tutto e vado in Marocco”. Ma dopo sempre penso: “Adesso miei figli?”. Perché i figli adesso sono nati qui, eee, non parlano, non è il problema che non parlano arabo, parlano arabo ma dialetto. Non parlano la lingua araba. E allora adesso i nostri figli, tutti i figli di stranieri qui, marocchini che sono qui in Italia, è difficile tornare a studiare in Marocco. Perché i bambini non parlano arabo né francese. Parlano italiano. Italiano in Marocco
9 Nel corso degli ultimi mesi la strategia del ritorno sembra essersi maggiormente concretizzata, sebbene si tratti ancora al momento di una parte esigua di migranti.
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non è una, una lingua obbligatoria. È difficile per i bambini. Se vai anche a una scuola privée [privata] serve, un aiuto economica di soldi per pagare. E noi ha detto sempre “Aspettiamo, aspettiamo…”. Non per me, per noi, anche per i bambini. Anche adesso i bambini, io sempre, io dico “mi piace il Marocco”. Perché? Perché io sono nata di là, sono cresciuta di là in Marocco, anche sono abituata al tempo del Marocco. Ma loro adesso sono nati qui, abituati a qui. Anche se vai in Marocco loro non puoi anche, loro non piace rimane più di un mese, più di un venti giorni. Dicono “Basta, basta, torniamo a nostro paese” [ride]. Perché loro dicono “Questo è il nostro paese”, non è come noi, noi sempre pensiamo tornare in Marocco. Ma quando fai i bambini pensi sempre al loro bene (Aicha M., Marocco, 42 anni, femmina, 24-02-2011 Volpago del Montello).
Per una parte dei/lle marocchini/e quarantenni che stanno attraversando difficoltà
economiche l’Italia rappresenta una trappola. Essi/e vivono in modo contradditorio l’attuale
situazione, sono “sospesi tra due mondi” (Sayad 2004): da un lato il ritorno in patria costituirebbe
un fallimento del progetto migratorio, dall’altro lato la permanenza in Italia è complicata dalla
mancanza di opportunità lavorative. Piuttosto una delle strategie adottate dagli uomini marocchini è
quella di “mandare” i familiari inattivi – moglie e figli – nel paese di origine, vendere i mobili del
proprio appartamento e trasferirsi a casa di amici o parenti. Nel caso dei/lle rumeni/e questa
divisione non sembra avvenire.
Oltre alle difficoltà economiche legate alla crisi internazionale, tra le motivazioni del ritorno
vi sono, specialmente per i/le marocchini/e, il disagio rispetto al diffuso clima discriminatorio e
islamofobo. I/le rumeni/e, invece, manifestano una certa sicurezza nell’affermare che intendono
stabilirsi in Italia per non tornare alle condizioni di vita e di lavoro del paese di origine; tali
affermazioni sono probabilmente connesse anche al tentativo di rappresentare al ricercatore una
volontà assimilazionistica volta ad affrancarsi dallo stigma di “essere stranieri” in Italia (Sacchetto
2011).
Comunque la mia idea era di tornare in Romania, però col tempo, cioè 5 anni sono tanti, io sento che sono cambiata. Torno là ma non mi piace rimanere. Infatti sono andata con il mio ragazzo che l'ho presentato a mia mamma e ho detto beh, come ti sembra? La lingua... magari un giorno torniamo... e lui mi fa: “cosa facciamo qua? Dove lavoriamo?”. Mah! Non lo so! [...] Voglio diventare cittadina italiana. Il motivo per cui ho fatto la richiesta è che voglio sentirmi cittadina a tutti gli effetti con gli stessi diritti di tutti, votare, cioè scegliere... vabbè che poi non vuol dire niente, non si sa i voti dove vanno a finire però vabbè, voglio sentirmi in grado di poter dare voce alla mia voce e non essendo cittadina italiana certe cose non le puoi fare (Monica A., Romania, 28 anni, femmina, 28-03-2011 Padova).
L’ipotesi di una nuova migrazione verso altri paesi UE è presente solamente tra un limitato
numero di intervistati. Nel complesso, diversamente da quanto si potrebbe pensare, i marocchini
sembrano essere lievemente più propensi dei rumeni all’eventualità di intraprendere una nuova
migrazione sia interna all’Italia sia verso altre mete europee (Belgio, Francia), anche se il loro status
di cittadini extra-UE rappresenta un ostacolo. Le principali motivazioni che rendono appetibili
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queste nuove destinazioni sono un welfare state più generoso e maggiori possibilità di impiego,
accanto alla presenza di conoscenti e/o parenti, condizione indispensabile per il trasferimento.
Conclusioni
Come negli altri paesi dell’Europa meridionale, i lavoratori migranti in Italia, prima della
crisi economica evidenziavano un forte legame tra bassa disoccupazione e al contempo
un’occupazione instabile, a salario relativamente basso e con una certa segregazione lavorativa. La
crisi economica ha senza dubbio colpito i lavoratori migranti più duramente dei locali, ma le
differenze sembrano essere inferiori a quanto si poteva ipotizzare. I migranti, infatti, pur avendo
perso il posto di lavoro più dei nativi, lo trovano più facilmente (Fullin, Reyneri 2010). La
questione centrale rimane tuttavia un netto peggioramento sia nelle condizioni contrattuali sia nei
rapporti sociali di produzione.
Nonostante il peggioramento nel lavoro e nella disponibilità di reddito il ritorno semi-
definitivo (individuale, familiare o di alcuni membri della famiglia) nei paesi di origine continua ad
essere una soluzione scarsamente praticata. Il ritorno segna spesso il successo (o il fallimento) del
processo migratorio, ma il peggioramento delle condizioni di lavoro sembra avere un’influenza
labile sui ritorni, perché le migrazioni non sono connesse né solo agli eventi nel paese di
immigrazione né solo agli elementi economici. I processi migratori sono infatti intrecciati alle
situazioni economiche nelle diverse aree di origine e di destinazione, così come ai percorsi
individuali e familiari, nonché alla possibilità di disporre di reti sociali di sostegno, ma anche di
socialità.
I/le rumeni/e, che dovrebbero essere i più titolati a una migrazione circolare per mettersi
momentaneamente al riparo dalla crisi, sembrano smentire l’impulso a tornare in patria. Piuttosto
quanti ritornano sono coloro che sono giunti da poco in Italia senza alcuna esperienza lavorativa in
Romania (Stânculescu et al. 2011). Oltre alla situazione economica nel paese di immigrazione e nel
paese di origine, decisiva è la scelta individuale e familiare frutto dei rapporti sociali e delle
aspettative. Forse, come dopo il 1973 in Europa, la crisi potrebbe favorire una stabilizzazione dei
migranti che però sembrano poter contare su occupazioni più precarie di prima (Castles 2009). Un
fenomeno che potrebbe ripercuotersi anche sulle opportunità e sulle aspirazioni di scolarità, di
lavoro e di vita dei/lle figli/e con ripercussioni anche sui tentativi dell’EU di sviluppare società
inclusive.
21
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