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H. e H. A. FRANKFORT JOHN A. WILSON THORKILD JACOBSEN WILLIAM A. IRWIN LA FILOSOFIA PRIMA DEl GRECI Concezioni del mondo in Mesopotamia, nell'antico Egitto e presso gli Ebrei Piccola Biblioteca Einaudi

La filosofia prima dei Greci. Concezioni del mondo in Mesopotamia, nell’antico Egitto e presso gli Ebrei

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Page 1: La filosofia prima dei Greci. Concezioni del mondo in Mesopotamia, nell’antico Egitto e presso gli Ebrei

H. e H. A. FRANKFORT JOHN A. WILSON THORKILD JACOBSEN WILLIAM A. IRWIN

LA FILOSOFIA PRIMA DEl GRECI

Concezioni del mondo in Mesopotamia, nell'antico Egitto e presso gli Ebrei

Piccola Biblioteca Einaudi

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Titolo originale T be Intellectual Ad venture of Ancient Man.

• . .

An Essay on Speculative Thought in the Ancienl Ncar East

The University of Chicago Press, Chicago 1946

© 1963 Giulio Einaudi editore S. p. A., Torino

Traduzione di Elémire Zolla

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H. e H. A. FRANKFORT

]OHN A. WILSON

THORKILD JACOBSEN

WILLIAM A. IRWIN

LA FILOSOFIA PRIMA DEI6RECI Concezioni del mondo in Mesopotamia, nell'antico Egitto e presso gli Ebrei

Piccola Biblioteca Einaudi

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Indice

p. 9 Prefazione

Introduzione di H. e H. A. FRANKFORT

Ij I. Mito e realtà 24 La logica del pensiero mitopoietico

L'Egitto di JOHN A. WILSON

47 II. L'Egitto: la natura dell'universo 47 Considerazioni geografiche 6o Cosmologia 68 Cosmogonia

82 III. L'Egitto: la funzione dello Stato 82 L'universo e lo Stato 92 Il re

109 I funzionari del re

II7 IV. L'Egitto: i valori della vita II7 N a tura dell'analisi II9 I Regni Antico e Medio I37 L'impero e l'epoca successiva 147 Il ruolo intellettuale deli'Egiuo

La Mesopotamia di THORKILD JACOBSEN

I 53 v. La Mesopotamia: il cosmo come Stato 153 Influenza dell'ambiente in Egiuo

ed in Mesopotamia

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200

202 20.5

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243

Periodo in cui si afferma la concezione mesopotamica del mondo L'atteggiamento mesopotamico di fronte ai fenomeni della natura La struttura dello Stato cosmico

I capi dello Stato cosmico a) Potenza in cielo : l'autorità h) La potenza nell'uragano: la forza c) Il potere della terra : la fertilità d) La potenza dell'acqua: la creatività

INDICE

Sommario: lo Stato cosmico e la sua struttura

Riflessi della concezione dell'universo nei miti primitivi a) Particolari aspetti delle origini

Il mito di Enlil e Ninlil: la luna ed i suoi fratelli Il mito di Tilmun: il mescolarsi della terra e dell'acqua nel cosmo ed i suoi risultati

b) Particolari dell'ordinamento del mondo Enki organizza il maniera del mondo Enki e Ninmah: l'integrazione delle stranezze

c) I particolari della valutazione «II corteggiamento di !nanna»: i meriti rispettivi del pastore e del contadino

Riflesso della concezione del mondo nei miti piu recenti: « Enuma Elish,. a) Dati fondamentali delle origini h) Dati fondamentali dell'ordine del mondo

VI. La Mesopotamia: la funzione dello Stato Lo Stato-città mesopotamico Lo Stato nazionale mesopotamico Lo Stato e la natura

VII. La Mesopotamia : la buona vita Prima virtu, l'obbedienza Il compenso dell'obbedienza

La valutazione dei dati di fatto fondamentali: l'esigenza di un mondo giusto a) Rivolta contro la morte: l'epopea. di Gilgamesh b) Il giusto che soffre : « Ludlul bel nemeqi » c) La negazione di tutti i valori:

un dialogo pessi.mis tic o

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INDICE 7

Gli Ebrei di WILLIAM A. IRWIN

p. 2.59 VIII. Dio

294 IX. L'uomo

336 x. L'uomo nel mondo

372 XI. La nazione, la società, la vita politica

Conclusione di H. e H. A. FRANKFORT

4I3 XII. L'emancipazione del pensiero dal mito

443 Indice dei nomi

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PREFAZIONE

Questo volume raccoglie le conferenze pubbliche te­nute alla Division of Humanities dell'Università di Chi­cago. Salvo alcune varianti di scarsa importanza le pub­blichiamo cosi come furono dette, non tanto per il timo­re di trasformarle in trattati scientifici, quanto perché il metodo dell'esposizione immediata ci pare il piu stimo­lante. Ricordiamo come il Webster definisce il saggio: « componimento letterario di indole analitica e interpre­tativa, che tratta il tema da un punto di vista piu o meno limitato e personale e permette una considerevole liber­tà di stile e di metodo ».

La forma saggistica secondo noi è suscettibile di esse­re applicata anche alle nostre fonti frammentarie e intri­cate, che impongono a chiunque svolga ricerche in que­sto campo come primo ed essenziale dovere l'attenzione ai particolari.

Saggi come questi possono valersi di una nuova liber­tà di metodo: saranno forse costretti a scorciare una trattazione storica per prospettare una nuova sintesi, dovranno passare sotto silenzio la poliedricità di un pro­blema per lumeggiarne un singolo aspetto e talvolta do­vranno proporsi di evocare invece di documentare o di fornire dimostrazioni, ma, per vario che possa essere il metodo adottato, i saggisti che presentiamo hanno una caratteristica comune: tesi come sono a cogliere il si­gnificato culturale e storico dei fenomeni, il loro atteg­giamento è sempre umanistico ed il loro linguaggio è accessibile al profano colto.

Poiché le conferenze si rivolgono in primo luogo ad

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IO PREFAZIONE

un pubblico profano, l'apparato critico e documentario è stato ridotto al minimo e confinato alla fine dei capi­toli. Non sarà comunque difficile ai nostri colleghi distin­guere i punti nei quali esponiamo vedute comunemente accettate da quelli nei quali si offrono delle interpreta­zioni nuove, che con il sussidio di tutta la necessaria do­cumentazione, intendiamo sostenere in pubblicazioni fu­ture.

Per mesi e mesi prima delle conferenze i quattro con­tributi principali sono stati integrati attraverso discus­sioni continue e grazie allo scambio delle prime stesure manoscritte. Ne è risultato un accordo nella visione d'in­sieme tale da unificare i divergenti metodi espositivi. La signora H. A. Groenewegen Frankfort, che per prima suggerf il tema delle conferenze e che ha dato il valido appoggio della sua competenza filosofica specializzata, collaborò con il marito come autrice del primo e dell'ul­timo capitolo.

Istituto orientale dell'Università di Chicago, marzo 1946.

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LA FILOSOFIA PRIMA DEI GRECI

Concezioni del mondo in Mesoporamia, nell'antico Egitto e presso gli Ebrei

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INTRODUZIONE

di H. e H. A. Frankfort

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Capitolo primo

MITO E REALTA

Chi cerchi un « pensiero speculativo » nei documenti degli antichi, dovrà convenire che assai poco nelle fonti scritte merita di chiamarsi «pensiero» in senso stretto. Pochi passi mostrano la disciplina, la forza del ragiona­mento che siamo soliti associare al pensiero. Il pensiero dell'antico Medio Oriente è ammantato di immagini, e noi lo consideriamo contaminato dalla fantasia. Eppure gli antichi non avrebbero ammesso che si potesse prescin­dere dalle forme corpose e immaginose che essi ci hanno tramandato.

Dovremmo ricordarci che anche per noi il pensiero speculativo è la forma meno rigidamente disciplinata fra tutte. La speculazione - come indica l'etimologia della parola - è un modo di conoscenza intuitivo, quasi visio­nario; ciò non significa certo che sia un vagare irrespon­sabile della mente che non tenga conto della realtà o cerchi un'evasione dai problemi che questa propone. Il pensiero speculativo trascende l'esperienza, ma soltanto perché tenta di spiegarla, di uni.ficarla e coordinarla. Es­so raggiunge questo fine mediante ipotesi e se adoperia­mo questa parola nella sua accezione originaria, possiamo affermare che il pensiero speculativo tenta di << puntella­re» il caos dell'esperienza affinché questa sveli le linee di una struttura - un ordine, una coerenza, un signi­ficato.

Il pensiero speculativo pertanto rimane distinto dalla mera speculazione oziosa in quanto non si diparte mai completamente dall'esperienza. Può, se mai,« levarsi mo­mentaneamente » al di sopra dei problemi dell'esperien-

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1 6 INTRODUZIONE

za, ma ad essi rimane connesso in quanto mira a spie­garli.

Il pensiero speculativo si trova oggi piu severamente limitato nel suo ambito di quanto non sia mai stato in altre epoche poiché nella scienza possediamo un altro strumento di interpretazione della natura, che ha rag­giunto risultati mirabili e conserva intatto il suo fascino; nei sacri recinti della scienza non ammettiamo alcuno sconfinamento speculativo: la speculazione deve astener­si dal regno dei fatti verificabili e rinunciare a pretende­re di andare oltre l'elaborazione di ipotesi di lavoro, per­fino nella sfera dove gode di una certa libertà.

Dove potrà dunque spaziare, oggi, il pensiero specula­tivo? Esso si interessa in primo luogo dell'uomo - della sua natura e dei suoi problemi, dei suoi valori e del suo destino. L'uomo non perviene mai completamente a farsi oggetto di se stesso ma il suo bisogno di trascendere la caoticità dell'esperienza e la contraddittorietà dei fatti lo spinge a cercare un'ipotesi metafisica che chiarisca i suoi problemi piu urgenti. Anche oggi l'uomo vuole speculare ostinatamente sul suo « sé ».

Se ci volgiamo verso l'antico Medio Oriente alla ricer­ca di tentativi analoghi, ecco che ci si presentano due fatti tra loro coordinati. Anzitutto la speculazione trova­va illimitate possibilità di sviluppo, non era ristretta a una ricerca della verità di carattere scientifico, ossia di­sciplinato. Poi notiamo che non esisteva una netta distin­zione fra il regno della natura e il regno dell'umano. Gli antichi, come i selvaggi di oggi, non concepivano l'uomo se non come parte integrante della società e vedevano la società inserita nella natura, sottomessa a forze cosmiche. L'uomo e la natura non erano pertanto contrapposti e quindi non richiedevano modi di conoscenza distinti. Ve­dremo, nel corso di questo libro, che i fenomeni naturali erano regolarmente concepiti in termini di esperienze umane e che l'esperienza umana era concepita in termini di eventi cosmici. Parlando di questa differenza tra noi e

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MITO E REALTÀ

gli antichi tocchiamo un punto della massima importan­za per la nostra ricerca.

La differenza fondamentale fra l'atteggiamento dell'uo­mo moderno e l'atteggiamento dell'uomo antico nei con­fronti del mondo circostante è la seguente: per l'uomo moderno, scientifico, il mondo fenomenico è in primo luogo un quid; per l'uomo antico - e anche per il sel­vaggio - è un « Tu ».

Questa formulazione è piu ampia delle solite interpre­tazioni « animistiche » o « personalistiche », e infatti ci mostra l'inadeguatezza di queste teorie comunemente ac­cettate. Il rapporto fra « Io » e « Tu �> è del tutto sui ge­neris. Ne possiamo meglio lumeggiare il carattere unico mettendolo a confronto con due altri modi di conoscen­za : il rapporto fra soggetto ed oggetto ed il rapporto che si instaura quando io « comprendo » un altro essere vi­vente.

La correlazione « soggetto-oggetto » è, naturalmente, alla base di tutto il pensiero scientifico; è solo grazie ad essa che l'intero pensiero scientifico sussiste. Il secondo modo di conoscenza è quella intellezione stranamente immediata che attingiamo quando <( comprendiamo » una creatura che ci sta di fronte -la sua paura, diciamo, o la sua ira. Questa è una forma di conoscenza, fra l'altro, che abbiamo l 'onore di spartire con gli animali.

Le differenze fra il rapporto <( Io-e-Tu » e questi altri due rapporti sono le seguenti: nel determinare l 'identità di un oggetto una persona è attiva. Nel <( comprendere » una creatura-sorella, invece, l'uomo o l'animale sono es­senzialmente passivi, quale che possa risultare l'azione che intraprenderanno in seguito. Per prima cosa, infatti, essi ricevono un'impressione e questo tipo di conoscen­za è pertanto immediato, emotivo e inarticolato. La co­noscenza intellettiva, invece, è articolata e indiiferente sul piano emotivo.

Orbene, la conoscenza che l'<( Io )) ha del « Tu » on­deggia fra il giudizio attivo e la passività propria del <( sottostare ad un'impressione », fra l'intellettivo e l'e­motivo, fra l'articolato e l'inarticolato. Il « Tu » può es­sere problematico, tuttavia è in certo modo trasparente,

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I8 INTRODUZIONE

essendo una presenza viva, le cui qualità e potenzialità possono articolarsi, non già grazie ad una ricerca attiva, bens! per il fatto stesso che il « Tu >>, in quanto presen­za, si rivela.

Ma c'è anche un'altra differenza importante. Un ogget­to, un quid può sempre essere posto in un rapporto scientifico con altri oggetti, apparendo pertanto come parte di un gruppo o di una serie. Cosi la scienza si sfor­za di vedere un quid e riesce a comprendere gli oggetti e gli eventi in quanto retti da leggi universali che ne rendono, date certe condizioni, prevedibili il comporta­mento. Il «Tu >> invece è essenzialmente unico. Il ((Tu >> ha il carattere autoctono, autonomo e imprevedibile di un individuo, di una presenza conoscibile soltanto nei limiti in cui si rivela. Il «Tu» inoltre non è soltanto contemplato o compreso ma anche sentito emotivamente entro un rapporto dinamico di reciprocità. Tutte queste ragioni giustificano l'aforisma di Crawley: «L'uomo pri­mitivo ha una sola forma di pensiero, una sola modalità espressiva, una sola possibilità linguistica - quella per­sonale». Ciò non significa (come spesso si ritiene) che l'uomo primitivo al fine di spiegare i fenomeni naturali, conferisca caratteri umani ad un mondo inanimato. L'uo­mo primitivo semplicemente non conosce un mondo ina­nimato, perciò non « personifica » fenomeni inanimati e neppure riempie un mondo vuoto degli spettri dei morti, come ci vorrebbe far credere l'« animismo ».

Il mondo non appare né inanimato né vuoto al primi­tivo, bensl pregnante di vita, e la vita è dotata di indi­vidualità, sia nell'uomo, come nella bestia, nella pianta, e in ogni fenomeno che si svolga dinanzi all'uomo: il tuono, l'ombra che improvvisamente si profila, la radu­ra che s'apre misteriosa e sconosciuta nel bosco, la pietra che l'offende quando incespica durante una spedizione di caccia. Qualsiasi fenomeno può levarsi dinanzi a lui, non come un quid, ma come un «Tu». Nel confronto il <• Tu » rivela la sua individualità, le sue qualità, la sua volontà. Il <• Tu» non viene contemplato con un intellet­tuale distacco, ma viene sperimentato come una vita che si ponga dinanzi a una vita, che impegni ogni facoltà

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MITO E REALTÀ I9 dell'uomo in un rapporto reciproco. I pensieri, non me­no degli atti e dei sentimenti, sono subordinati a questa esperienza.

Ci stiamo occupando in modo particolare del pensiero. È probabile che gli antichi riconoscessero certi problemi intellettuali e si domandassero « perché », « come », « da quale luogo » e « in quale direzione ». Tuttavia non pos­siamo aspettarci di trovare nei documenti dell'antico Me­dio Oriente una speculazione nella forma prevalentemen­te intellettuale cui siamo abituati, forma che presuppone un procedimento strettamente logico anche quando .. ci sforziamo di trascenderlo. Abbiamo constatato che nel­l 'antico Medio Oriente, come nelle società primitive a noi contemporanee, il pensiero non opera autonomamen­te. È l'uomo nella sua integrità che affronta nella natura un « Tu » vivente, ed è l'uomo integrale - emotivo e immaginativo oltre che intellettuale - che esprime que­sta esperienza.

Ogni esperienza di un « Tu >> è altamente individua­le. e l'uomo primitivo prospetta gli accadimenti come av­venimenti individuali. Un .resoconto di codesti avveni­menti e anche la loro spiegazione può concepirsi soltanto come azione e deve configurarsi narrativamente. In altre parole, gli antichi narravano dei miti invece di presenta­re delle analisi e conclusioni. Noi diremmo, ad esempio, che certi mutamenti meteorologici interruppero una sic­cità e provocarono la pioggia. I Babilonesi osservavano gli stessi fatti, ma li sentivano come interventi dell'uc­cello gigantesco Imdugud che veniva in loro soccorso.

Era lui che copriva il cielo con le nere nubi tempesto­se delle sue ali e divorava il Toro Celeste reo di aver bruciato le messi con il suo fiato rovente.

Nel narrare codesto mito gli antichi non si proponeva­no affatto di divertire e nemmeno cercavano in modo staccato e scevro di secondi fini, spiegazioni intelligibili dei fenomeni naturali. Essi esponevano certi avvenimenti in cui era impegnata la loro stessa esistenza. Avevano un'esperienza diretta di un conflitto di potenze, l'una

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20 INTRODUZIONE

ostile alle messi da cui dipendeva la loro vita, l'altra pau­rosa ma benefica: l'uragano li salvava all'ultimo momen­to sconfiggendo e debellando la siccità. AI tempo in cui ci si fanno incontro nell'arte e nella letteratura, queste im­magini erano già tradizionali, ma alle origini erano state colte nella rivelazione immediata dell'esperienza. Sono dunque prodotti di fantasia, ma non sono mera fantasia. È assolutamente necessario che l'autentico mito venga tenuto distinto dalla leggenda, dalla saga, dalla favola e dai racconti di fate, che possono tuttavia comprendere alcuni elementi del mito. Può anche darsi che una fan­tasia barocca o frivola elabori i miti fino a ridurli a sem­plici racconti, ma il mito autentico presenta le sue im­magini e i suoi protagonisti immaginari non già con il tono giocoso della fantasia, ma con imperiosa autorevo­lezza, perpetuando la rivelazione di un <<Tu>>.

Le immagini del mito non sono affatto un'allegoria, bensf un manto accuratamente prescelto per rivestire il pensiero astratto. Le immagini non sono separabili dal pensiero, in quanto rappresentano la forma in cui l'espe­rienza è diventata autocosciente.

Il mito pertanto deve essere oggetto di seria conside­razione da parte nostra, perché rivela una verità signifi­cativa anche se non verificabile - potremmo dire una verità metafisica. Ma il mito non possiede l'universalità e la lucidità dell'affermazione teorica. Benché corposo, esso rivendica a sé una validità inattaccabile, esige il ri­conoscimento del fedele, non pretende di giustificarsi di fronte al critico.

L'aspetto irrazionale del mito ci si chiarisce meglio se ricordiamo che gli antichi non si accontentavano di dare ai loro miti la veste di racconti destinati a fornire noti­zie, anzi li drammatizzavano, attribuendo ad essi una particolare virru che si poteva far sprigionare mediante la recitazione.

La Comunione è un noto esempio di mito drammatiz­zato. Un altro esempio possiamo trovare in Babilonia. A ogni festa del nuovo anno i Babilonesi tornavano a recitare la vittoria di Marduk sulle potenze del caos nel giorno dell'anno primordiale, quando il mondo era stato

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MITO E REALTÀ 2I

creato. L'epopea della creazione veniva recitata durante la festa annuale. È ovvio che i Babilonesi non si poneva­no di fronte alla loro storia della creazione cosi come noi ad esempio possiamo accettare la teoria di Laplace, cioè come ad una spiegazione intellettualmente soddisfacente di come il mondo venne ad essere cosi come è. II primi­tivo non aveva formulato una risposta, ma questa gli era stata rivelata nell'ambito di un suo rapporto di reciproci­tà con la natura. Se una risposta era pure stata data, egli la condivideva con il «Tu» che gli si era rivelato. Era una misura di evidente saggezza per l'uomo proclamare ogni anno, al volger della stagione, le nozioni che egli aveva in comune con le potenze, affinché queste venis­sero ancora una volta coinvolte in quella verità formi­dabile.

Possiamo dunque sintetizzare il carattere complesso del mito in questi termini: il mito è una forma di poesia che trascende la poesia in quanto proclama una verità, una forma di raziocinio che trascende la ragione, in quan­to desidera produrre la verità stessa che proclama, e in­fine una forma d'azione, di comportamento rituale, che non si consuma nell'atto ma deve proclamare ed elabora­re una forma poetica di verità.

Appare chiaro a questo punto perché all'inizio di que­sto capitolo s'è detto che la nostra ricerca di un pensiero speculativo nell'antico Medio Oriente può condurre a ri­sultati negativi. Non c'è traccia del distacco insito nella ricerca intellettuale. È vero: tuttàvia; nel-quadro del pensiero mitopoietico in certo modo la speculazione è presente. Anche l'uomo dei primordi, fasciato dall'imme­diatezza delle sue percezioni, riconosceva l'esistenza di alcuni problemi trascendenti i fenomeni. Riconosceva il problema delle origini e il problema del telos, dello sco­po e del significato dell'essere. Riconosceva l'invisibile ordine della giustizia sorretto dalle consuetudini, dal co­stume, dalle istituzioni in cui egli viveva, e connetteva l'ordinamento invisibile con l'ordinamento visibile, con la successione dei giorni e delle notti, delle stagioni e de-

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22 INTRODUZIONE gli a�, ovviamente retto dal sole. L'uomo dei primordi meditò anche sulla gerarchia dei diversi poteri che rico: nosc�va nella nat�ra. Nella teologia rnenfìtica, che verra e�ammata nel caplto!o. II, gli Egizi, ad un certo punto, ndussero la moltephcttà del divino ad una concezione senz'altro monoteistica e spiritualizzarono il concetto di creazione. Tuttavia essi parlavano un linguaggio mitico. L'insegnamento di quei testi può essere chiamato << spe­culativo » a titolo di riconoscimento se non del loro ef­fettivo carattere, almeno delle loro i�tenzioni.

Per fornire un esempio precediamo i nostri colleghi e consideriamo alcune delle possibili risposte al problema della nascita del mondo. Alcuni primitivi a noi contem­poranei, come i Shilluk, per molti aspetti collegati agli antichi Egizi, dànno questa risposta : « All 'inizio c'era Ju-ok, il Grande Creatore; egli creò una grande vacca bianca che sorse dal Nilo e venne chiamata Deung Adok. La vacca bianca partorf un uomo-bambino, lo allattò e lo chiamò Kola )) •_ Possiamo dire a proposito di codesta narrazione (e di narrazioni di questo tipo ne abbiamo in­numerevoli) che ogniqualvolta la Genesi venga rappre­sentata come un avvenimento concretamente ra:ffìgurahi­le, chi ha posto la domanda viene pienamente soddisfat­to. Non c'è traccia di pensiero speculativo, anzi c'è una immediatezza di visione tanto concreta e indiscussa quan­to incoerente.

Facciamo un passo avanti allorché la creazione viene immaginata non in maniera meramente fantastica, ma per analogia a situazioni umane. La creazione è concepita come nascita : il modo piu semplice consiste nel postulare una coppia primordiale come genitrice di tutto l'esisten­te. Pare che la Terra ed il Cielo costituissero la coppia primitiva per gli Egizi, cosi come per i Greci e i Maori.

Il passo seguente, e stavolta è un passo che ci fa pro­gredire nella direzione del pensiero primitivo, appartiene alla fase in cui la creazione viene concepita come l'atto di un solo genitore. Potrà essere concepita come nascita da una Grande Madre, sia essa una dea, come in Grecia, o un demone come in Babilonia. Si può alternativamente concepire la creazione come l'atto di un maschio; in Egit-

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MITO E REALTÀ

to, ad esempio, il dio Atum emerse senza soccorso altrui dalle acque primigenie e iniziò la creazione del cosmo dal caos concependo da solo la prima coppia di dei.

In tutte codeste narrazioni della genesi, anche se riu­sciamo a discernere un elemento speculativo, restiamo pur sempre nell'ambito del mito. Ma eccoci avanzare nel­la sfera del pensiero speculativo - e sia pure un pensiero speculativo mitopoietico - con l'affermazione che Atum fu il Creatore, che i suoi figli maggiori furono Shii e Tef­niit, l'Aria e l'Umidità; che i loro figli furono Geb e Niit, Terra e Cielo; che a loro volta ebbero come figli i quattro dei del ciclo di Osiride attraverso i quali (poiché Osi ride era il sovrano morto oltre che un dio) la società è posta in rapporto con le potenze cosmiche. In questo racconto della creazione troviamo un sistema cosmolo­gico ben definito, che è il risultato di una speculazione. Né l'Egitto ci offre un esempio isolato. Il caos stesso di­vennt! oggetto di speculazione. Si affermò che le acque primigenie erano abitate da otto creature spettrali, quat­tro rane e quattro serpenti, maschi e femmine, che pro­dussero Atum, il dio-sole e creatore. Questo gruppo di otto, questa Ogdoad, era parte non già dell'ordine crea­to, ma del caos, come mostrano i nomi stessi. La prima coppia era infatti Niin e Naunet, l'Oceano primigenio e informe e la Materia primigenia; la seconda coppia era Hiih e Hauhet, l'Illimitabile e la Sconfinata. Poi vennero Kiik e Kauket, il Buio e l'Oscurità; infine, Amon e Amaunet, il Nascosto e la Celata- probabilmente identi­ficabili con il vento; infatti il vento <( spira dove vuole, ne odi il suono ma non puoi sapere donde viene e dove va» (Giovanni, 3, 8). Ci troviamo senza dubbio di fron­te ad un pensiero speculativo sotto veste mitologica.

Troviamo un pensiero speculativo anche in Babilonia, dove il caos è concepito non già come la benevola e coo­perante Ogdoad che produce il Sole creatore, bens{ come il nemico della vita e dell'ordine. Dopo che Ti'amat, la Gran Madre, ebbe generato innumerevoli creature, dei compresi, questi, sotto la guida di Marduk, sferrarono una battaglia decisiva in cui riuscirono a sopraflarla e a distruggerla. Da lei nacque l'universo. I Babilonesi po-

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INTRODUZIONE

nevano questo conflitto alle origini stesse dell'esistenza. In tutto l'antico Medio Oriente troviamo, dunque, il

pensiero speculativo in forma di mito. Abbiamo anche visto che l'atteggiamento del primitivo verso i fenomeni naturali spiega la forma mitopoietica del suo pensiero . . Ma, per comprendere piu intimamente la particolarità di: questo pensiero dobbiamo esaminare piu da vicino la for- I ma di cui si riveste.

La logica del pensiero mitopoietico.

Ci siamo sforzati finora di dimostrare che per il primi­tivo i pensieri non sono autonomi, ma rimangono nel­l'ambito di quello strano atteggiamento verso il mondo fenomenico che abbiamo chiamato il confronto della vita con la vita. Vedremo che le nostre categorie di giudizio intellettivo spesso non sono applicabili al complesso di ideazione e volizione che costituisce il pensiero mito­poietico.

Eppure l'uso che abbiamo fatto qui sopra della paro­la « logica » è ben giustificato. Gli antichi esprimevano il loro « pensiero emotivo » (cosi possiamo chiamarlo) in termini di causa ed effetto e spiegavano i fenomeni in termini di tempo, spazio e numero. La forma del loro ragionamento è assai meno contrastante con la nostra di quanto sovente si creda. Gli antichi sapevano ragio­nare logicamente, ma spesso non si curavano di farlo, perché il distacco imposto da un atteggiamento puramen­te intellettuale male si adattava alla loro piu significativa esperienza della realtà. Gli studiosi che hanno dato lun­ghe dimostrazioni della « prelogicità » del pensiero pri­mitivo, invocano spesso a confronto la magia o le prati­che religiose, senza accorgersi che stanno applicando le categorie kantiane non già alla ragione pura, ma ad atti altamente emotivi.

Se procureremo di definire la struttura del pensiero mitopoietico paragonandola a quella del pensiero mo­derno (cioè scientifico), ci accorgeremo che le differenze sono dovute piu all'atteggiamento ed agli intendimenti

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emotivi che alla cosiddetta mentalità prelogica. La distin­zione basilare del pensiero moderno è quella fra sogget­tività e oggettività. È su questa distinzione che il pensie­ro scientifico ha basato il procedimento analitico e critico mediante il quale riduce progressivamente i fenomeni in­dividuali a eventi tipici sottoposti a leggi universali. In tal modo esso apre una frattura sempre piu profonda fra Ja nostra percezione dei fenomeni e le concezioni di cui ci serviamo onde renderceli intelligibili. Vediamo sorge­re e tramontare il sole, ma concepiamo il mondo in rota­zione attorno al sole. Vediamo i colori, ma li descriviamo come lunghezze d'onda. Sogniamo un parente defunto, ma consideriamo quella visione come un prodotto dd nostro subcosciente. Anche se non siamo personalmente in grado di fornire la prova di codesti concetti scientifici pressoché incredibili, li accettiamo perché sappiamo che è possibile provare che sono dotati di un grado di ogget­tività maggiore di quella delle nostre impressioni sensi­bili. Nell'immediatezza dell'esperienza primitiva, comun­que, non è possibile risolvere le percezioni su un piano cos( strettamente critico. Il primitivo non è in grado di ritrarsi dalla presenza dei fenomeni appunto perché gli si rivelano al modo che abbiamo descritto. Perciò la distin­zione fra il soggettivo e l'oggettivo non significa nulla per lui.

È altresi privo di significato, per lui, il nostro contra­sto fra realtà e apparenza. Tutto ciò che è capace di im­primersi nella mente o nel sentire o nella volontà af­ferma per ciò stesso la sua indubitabile realtà. Non c'è ragione alcuna perché i sogni, ad esempio, debbano consi­derarsi meno reali delle impressioni ricevute durante la veglia. Anzi, i sogni spesso si impongono assai piu delle noiose realtà quotidiane, tanto da apparire piu significa­tivi delle percezioni consuete. I Babilonesi, come i Greci, cercavano una guida divina passando la notte in un luo­go sacro, sperando di ottenere delle rivelazioni in so­gno. Anche i Faraoni riferiscono di aver intrapreso certe costruzioni unicamente ispirati dai sogni. Anche le allu­cinazioni sono reali. Troviamo negli annali di Assarhad­don in Assiria' un rapporto su mostri favolosi - serpen-

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INTRODUZIONE

ti a due teste e verdi creature alate - che le truppe esau­ste avevano scorto nella fase piu ardua della loro marcia nel deserto del Sinai. Ricordiamo che anche i Greci vi­dero lo Spirito della Pianura di Maratona sollevarsi nella fatale battaglia contro i Persiani. Quanto ai mostri. gli Egizi del Regno Medio, che avevano orrore del deserto quanto i loro discendenti odierni, dipingevano dragoni e grifi e chimere fra gazzelle, volpi e altra selvaggina, su un piano di perfetta parità.

Come mancava una netta distinzione fra i sogni, le al­lucinazioni e la visione normale, cosf non c'era una sepa­razione netta fra vivi e defunti. La sopravvivenza dei morti e i loro continui rapporti con l'uomo erano consi­derati evidenti, dal momento che i morti entrano nell'in­dubbia realtà dell'angoscia, della speranza o del risenti­mento dell'uomo.

« Operare » per la mente mitopoietica è sinonimo di <� essere ».

I simboli sono trattati alla stessa stregua. Il primitivo impiega i simboli come noi, ma non sa concepirli come significativi e nel contempo separati dagli dei o dalle po­tenze, piu di quanto sappia concepire un rapporto stabi­lito nella sua mente - ad esempio una somiglianza - co­me elemento di connessione degli oggetti fra loro para­gonati e tuttavia da essi distinto. Ne risulta una fusione del simbolo e del significato, cosi come una fusione di due oggetti paragonati fra di loro in modo che l'uno può stare in luogo dell'altro.

Cosf possiamo spiegare la sineddoche pars pro toto, « la parte per il tutto »; un nome, una ciocca di capelli o un'ombra possono valere l'uomo in carne ed ossa, giac­ché in qualsiasi momento quel nome, quella ciocca di ca­pelli o quell'ombra possono sprigionare l'intero signi­ficato dell'uomo al quale appartengono. Tali oggetti gli possono apparire come un « Tu » che ha la fisionomia dell'uomo da cui provengono.

Un esempio della fusione del simbolo e della cosa sim­boleggiata è data dalla concezione del nome come parte integrante della persona - quasi, in certo senso, identica ad essa. Ci restano dei vasi di terracotta sui quali i re

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egizi del Regno Medio avevano fatto iscrivere i nomi delle tribu ostili della Palestina, della Libia e della Nu­bia , i nomi dei loro reggitori ed i nomi di certi egizi ri­belli . Tali vasi venivano solennemente infranti durante un rito, forse durante il funerale del predecessore del re, e lo scopo di codesto rito, che veniva enunciato in modo esplicito, era la morte di tutti quei nemici, evidentemen­te posti fuori del raggio d'azione del faraone. Se chiamia­mo simbolico l'atto rituale della rottura dei vasi, ce ne sfugge il suo significato. Gli Egiziani ritenevano che un danno effettivo venisse cagionato ai nemici con la distru­zione del loro nome. Di tale occasione si approfittava an­che per gettare un incantesimo propiziatorio di piu vasta portata. Dopo l'enumerazione dei nomi dei nemici, « af­finché morissero », si aggiungevano frasi come « ogni pensiero dannoso, ogni parola dannosa, ogni sogno dan­noso, ogni proposito dannoso, ogni contesa dannosa » ecc. Il fatto di enunciare queste cose sui vasi destinati ad essere infranti attenuava il loro potere effettivo di offendere il re o sminuire l'autorità.

Per noi corre una differenza sostanziale fra un atto ed un comportamento rituale o simbolico. Per gli antichi codesta distinzione era priva di senso. Gudea, un capo mesopotamico, descrivendo la fondazione di un tempio, afferma tutt'insieme di aver foggiato un mattone con l'ar­gilla, purificato il luogo col fuoco e consacrato la piatta­forma con l'olio. Quando gli Egizi affermano che da Osi­ris (i Babilonesi da Oannes) ebbero gli elementi della loro cultura, insieme agli usi rituali vi includono l'arti­gianato e l'agricoltura. I due gruppi di attività sono reali in uguale misura. Non avrebbe avuto senso domandare ad un babilonese se la sorte del raccolto dipendesse dal­l'abilità degli agricoltori o dall'esecuzione esatta della cerimonia del nuovo anno. Tutt'e due erano necessari al successo dell'impresa.

Come l'immaginario è riconosciuto come reale ed esi­stente, cosi i concetti vengono facilmente sostanzializzati. L'uomo che ha coraggio o eloquenza possiede tali qualità quasi come sostanze di cui possa essere derubato o che possa spartire con altri. Il concetto di « giustizia » o

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« equità » è designato in Egitto come ma' at. La bocca del re è il tempio di ma' at. Ma' at è personificato da una dea; ma nello stesso tempo si dice che gli dei « vivono secondo ma' at ». Il concetto viene rappresentato concre­tamente: nel rituale giornaliero si offre agli dei una figu­rina della dea, insieme ad altre offerte materiali, cibo e bevanda, per il loro sostentamento. A questo punto in­contriamo il paradosso del pensiero mitopoietico, che, per quanto non conosca la materia inanimata e si trovi di fronte ad un mondo tutto vivente, non riesce a evadere dall'ambito della concretezza ed esprime i suoi concetti come realtà dotate di esistenza per sé.

Un ottimo esempio di codesta tenden:z:a al concreto è fornita dal concetto primitivo della morte. La morte non è, come per noi, un evento - l'atto o il fatto di morire, come lo definisce il dizionario Webster, bensf una realtà in certo modo sostanziale. Ecco ad esempio che leggiamo nelle iscrizioni della piramide una descrizione dei pri­mordi: Non esisteva ancora il cielo

Non esisteva ancora la terra Non esistevano ancora gli uomini, Non ancora erano nati gli dei, Ancora non esisteva la morte 3•

Con le stesse parole il coppiere Siduri compiange Gil-gamesh nell'epopea :

Dove vanno i tuoi passi, Gilgamesh? Non troverai la vita che cerchi: Quando gli dei crearono l'uomo, Gli diedero in sorte la morte, La vita trattennero nella loro mano.

Si osservi che la vita è contrapposta alla morte, il che accentua il fatto che la vita di per sé è considerata infi­nita. Solo l'intervento di un altro fenomeno, la morte, pone termine ad essa. In secondo luogo, dovremmo os­servare il carattere concreto che viene attribuito alla vita nell'affermazione che gli dei la trattennero nelle loro ma­ni. Nel caso che si volesse ravvisare in codesta frase una metafora sarà bene ricordare che a Gilgamesh e, in un altro mito, ad Adapa è data l'opportunità di ottenere la vita eterna semplicemente mangiando la vita come so-

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stanza. A Gilgamesh è mostrata la « pianta della vita», che però gli viene rubata da un serpente. Ad Adapa vie­ne offerto il pane e l'acqua della vita quando entra in cielo, ma egli li rifiuta per suggerimento dell'astuto dio Enki. In entrambi i casi l 'assimilazione di una sostanza concreta avrebbe cambiato la morte in vita.

Tocchiamo a questo punto la categoria della causalità, che ha per il pensiero moderno la stessa importanza della distinzione fra il soggettivo e l'oggettivo. Se la scienza, come abbiamo già detto, riduce il caos delle percezioni entro un ordine in t'Ui gli avvenimenti tipici si situano secondo leggi universali, lo strumento di codesta conver­sione dal caos all'ordine è il postulato della causalità. Il pensiero primitivo riconosceva naturalmente il rapporto di causa ed effetto, ma non poteva adottare la nostra con­cezione di una causalità che opera impersonalmente, mec­canicamente, normativamente. Infatti ci siamo allonta­nati alquanto dal mondo dell'esperienza immediata, nella nostra ricerca delle cause vere, vale a dire, delle cause che, date uguali condizioni , produrranno il medesimo ef­fetto . Dobbiamo ricordare che Newton scoprf il concetto e anche le leggi della gravitazione prendendo in esame tre gruppi di fenomeni del tutto irrelati per l'osservatore che si attenga esclusivamente ai dati della percezione im­mediata : oggetti che cadono liberamente, i movimenti dei pianeti e l 'alternarsi delle maree. Orbene, la mente primitiva non è in grado di astrarsi a tal segno dalla real­tà percepibile, e inoltre non rimarrebbe soddisfatta dalle nostre idee, in quanto essa quando cerca una causa cerca non già il « come», bensf il «chi ». Poiché il mondo fe­nomenico è un « Tu » che il primitivo sente dinanzi a sé, egli non si aspetta di ricavarne la legge impersonale di un processo, ma cerca invece la volontà determinata che esegue un atto . Se i fiumi rifiutano di gonfiarsi, la mancanza di pioggia sulle montagne lontane non appa­re sufficiente a spiegare la calamità: se il fiume non si gonfia, è perché rifiuta di gonfiarsi. Il fiume o gli dei deb­bono essere adirati con la popolazione le cui sorti dipen-

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INTRODUZIONE

dono dallo straripamento o, comunque, il fiume o gli dei intendono comunicare qualcosa alla gente. Si sente allora il bisogno di compiere una certa azione. Si sa che quando le acque del Tigri non salivano, re Gudea andava a dor­mire nel tempio per fare un sogno che gli svelasse il si­gnificato della siccità. Perfino in Egitto, dove fin dalle piu antiche epoche si conservava memoria del livello an­nualmente raggiunto dalla piena del Nilo, il faraone pre­sentava ogni anno certi donativi al Nilo nel tempo in cui il fiume doveva gonfiarsi. A tali donativi, che venivano gettati nelle acque, si aggiungeva un documento che, nel­la forma di un ordine o di un contratto, stabiliva le ob­bligazioni del Nilo.

Il nostro concetto di causalità, per la natura imperso­nale delle spiegazioni che se ne ricavano non varrà dun­que a soddisfare il primitivo. Il principio risulterebbe inoltre insufficiente per la sua generalità : noi infatti com­prendiamo i fenomeni non grazie a ciò che li rende par­ticolari, ma grazie a ciò che li inquadra in leggi gene­rali. Ma una legge generale non serve per rendere giusti­zia al carattere individuale di un avvenimento, mentre è appunto quel carattere individuale che piu fortemente colpisce il primitivo. Possiamo spiegare che certi pro­cessi fisiologici causino la morte di un uomo. Il primiti­vo si domanda : Perché questo uomo deve morire cosi, in questo momento? Non possiamo dire soltanto che, da­te queste condizioni, la morte deve seguire, comunque; egli invece vuoi trovare una causa specifica e individuale come l'avvenimento che è destinata a spiegare. L'avveni­mento non viene analizzato intellettualmente, ma sentito nella sua complessità e individualità, e questi caratteri hanno cause corrispettivamente individuali. La morte è voluta. La questione, allora, si sposta ancora una volta dal << perché » al « chi », e non al « come ».

Questa spiegazione della morte come evento voluto si differenzia da quella fornita dianzi, come sostanza creata, quasi, ad hoc. Incontriamo qui per la prima volta in que­sti studi, una strana molteplicità di vie d'approccio ai vari problemi, caratteristica della mente mitopoietica. Nell'epopea di Gilgamesh la morte era specifica e con-

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MITO E REALTÀ 31 creta, veniva assegnata all'umanità. Il suo antidoto, la vita eterna, era parimenti sostanziale: si poteva assimi­lare con la pianta della vita. Ci si offre ora, invece, una concezione della morte come effetto cagionato da una vo­lontà attiva. Le due interpretazioni non si escludono a vicenda, ma non sono nemmeno compatibili come a noi piacerebbe che fossero. Il primitivo però non riterrebbe valide le nostre obiezioni, poiché egli non isola un evento dalle circostanze in cui sorge, non cerca una spiegazione unica la cui validità sussista in qualsiasi condizione. La morte, quando la si consideri con un certo distacco come uno stato dell'essere, è vista come una sostanza che per­mea tutti coloro che sono morti o in procinto di mori­re, mentre quando la si consideri emotivamente, diventa l'atto di una volontà ostile.

Lo stesso dualismo ricorre nell'interpretazione della malattia o del peccato. Quando il capro espiatorio viene spinto nel deserto, carico dei peccati della comunità, è evidente che quei peccati sono concepiti come un'entità sostanziale. I primi testi di medicina spiegano la febbre come dovuta a materie « calde >> insinuatesi nel corpo umano. Il pensiero mitopoietico dà sostanza ad una qua­lità e pone taluni dei suoi aspetti come cause, altri come effetti. Ma il calore che cagionava la febbre poteva anche essere stato « voluto » per danneggiare l 'uomo mediante la magia o poteva essersi insinuato nel corpo sotto forma di spirito maligno.

Gli spiriti maligni spesso sono null'altro che il male stesso concepito come sostanza e fornito di volontà. Pos­sono eventualmente essere un po' piu precisati, ma co­munque sempre in modo vago, come <�spiriti del de­funto », ma spesso questa spiegazione si riduce ad una elaborazione gratuita della veduta originaria, che altro non è se non un'incipiente personifi.cazione del male. Il processo di personificazione può, naturalmente, essere portato molto avanti quando il male diventa una preoc­cupazione centrale e stimola l'immaginazione: allora ci si presentano demoni dall'individualità pronunciata, co­me Lamashtu in Babilonia. Anche gli dei nascono in tal modo.

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Possiamo addirittura dire che gli dei, in quanto perso­nificazioni del potere, soddisfano, fra l'altro, l'umano bi­sogno di trovare cause capaci di spiegare il mondo feno­menico . A volte questo aspetto originario si può ancora riscontrare nelle divinità complesse delle epoche poste­riori. Testimonianze probanti ci dicono, ad esempio, che la gran dea Iside non era, originariamente, che la deifi­cazione del trono. Sappiamo che fra gli Africani moderni, strettamente imparentati agli antichi Egizi, l'ascensione al trono del nuovo monarca costituisce l'atto centrale nel rituale della successione. Il trono è un feticcio carico del misterioso potere regale. Il principe ci si siede, quando si alza, è diventato re. Perciò il trono è chiamato « la madre » del re. Di qui prese l'avvio la personilicazione; le emozioni venivano predisposte e incanalate c il mito cominciava a elaborarsi. In tal modo Iside « il trono che faceva il re », divenne la « Grande Madre », devota al fi­glio Oro, fedele attraverso le sofferenze al marito Osiri­de - figura che affascinò gli uomini anche fuori d'Egitto, e, dopo la decadenza dell'Egitto, in tutto l'impero ro­mano.

Il processo di personificazione influisce comunque in misura limitata sugli atteggiamenti concreti dell'uomo. Come Iside, la dea del cielo, anche Niit era considerata un'amorevole dea-madre; ma gli Egizi del Nuovo Regno escogitarono un modo per ascendere in cielo senza dover dipendere dalla sua volontà o dai suoi atti : dipinsero nelle loro bare una figura della dea a grandezza naturale, il cadavere le veniva posto fra le braccia e l 'ascesa in cie­lo era garantita . Infatti la somiglianza equivaleva ad una comunione delle qualità essenziali, e l'immagine di Nùt coincideva con il suo prototipo. Nella sua bara, il morto riposava ormai in cielo.

Dove noi non vedremmo che un'associazione d'idee, la mente mitopoietica ravvisa un nesso causale. Ogni somi­glianza, ogni contatto spaziale o temporale stabilisce una connessione fra due oggetti o eventi grazie alla quale è possibile scorgere nell'uno la causa dei mutamenti osser­vati nell'altro. Non dimentichiamo che il pensiero mito­poietico non pretende che le sue spiegazioni rappresenti-

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no un processo continuo: si limita ad accettare una situa­zione iniziale ed una situazione finale unite soltanto dalla convinzione che questa promani da quella. Ecco, ad esem­pio, come gli antichi Egizi, analogamente ai moderni Maori, spiegano i rapporti fra cielo e terra: il cielo posa­va un tempo sulla terra, ma avvenne una separazione e il cielo fu sollevato alla sua attuale posizione. Nella Nuo­va Zelanda la separazione fu prodotta dal loro figliolo, in Egitto dal dio dell'aria Shu, che venne a porsi fra cielo e terra. Il cielo è raffigurato come una donna curva sopra la terra, a braccia tese, sostenuta dal dio Shu.

I mutamenti si possono spiegare semplicemente come la successione di due stati diversi l'uno dei quali deriva dall'altro, senza preoccuparsi di raffigurare questa deri­vazione come un processo intelligibile, ovvero accettan­dola come una metamorfosi. È un procedimento, questo, che viene spesso adoperato per dare ragione dei muta­menti senza che vi sia aggiunta alcuna spiegazione ulte· riore. Cosi un mito spiega perché il sole, considerato pri­mo fra i re d'Egitto, si trovasse ormai in cielo: Re, il dio solare, stanco dell'umanità si era seduto sulla dea ce­leste, Nut, che si trasformò allora in una vacca gigantesca con i piedi puntati sulla terra. Da allora il sole è rimasto in cielo.

La deliziosa incoerenza di questa storia ci rende arduo prenderla sul serio, ma noi, a differenza dei primitivi, siamo propensi a prendere sul serio le spiegazioni piutto­sto che i fatti che esse rivestono. I primitivi sapevano che un tempo il dio sole aveva regnato sull'Egitto, e sa­pevano altresf che ormai il sole si trovava in cielo. Nella prima spiegazione del rapporto fra cielo e terra essi spie­gavano che Shu, l'aria, era venuta a trovarsi fra cielo e terra, nella seconda spiegavano che il sole era giunto in cielo, introducendo, inoltre la ben nota concezione del cie­lo come vacca. Avevano cosi la soddisfazione di vede­re che le immagini ed i fatti conosciuti si inquadravano al loro giusto posto, il che è appunto il risultato che una spiegazione si prefigge (cfr. p. 30 ) .

L'immagine di Re seduto sulla vacca del cielo, oltre ad illustrare un tipo di spiegazione causale che soddisfa

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la mente mitopoietica, lumeggia una tendenza degli anti­chi che abbiamo già trattata. Abbiamo visto che essi sono capaci di presentare l'una accanto all'altra varie descri­zioni dell'identico fenomeno quand'anche esse si esclu­dano a vicenda. Abbiamo visto come Shii sollevasse da terra la dea del cielo Niit. In un'altra storia Nut si alza da sola in forma di vacca. Tale immagine della dea ma­dre del cielo è molto comune specie quando si vuole sot­tolineare il suo carattere di madre di Osiride e pertanto di tutti i defunti, ma è anche la madre che partorisce ogni sera le stelle e ogni mattina il sole. Quando il pen­siero dell'antico Egitto si volgeva alla procreazione, si esprimeva con immagini desunte dalla vita del gregge. Nel mito del sole e del cielo l'immagine della vacca cele­ste non ha ancora assunto il suo secondo aspetto, mater­no, l 'immagine di Niit come vacca evocava soltanto la figura dell'enorme animale che si sollevava portando il sole in cielo. Quando l'attenzione si spostava su Niit che regge il sole, il sole stesso veniva designato come il « vi­tello d'oro » o « il toro ». Ma si poteva considerare il sole, beninteso, non solo in rapporto ai corpi celesti o morti che ivi sono rigenerati, ma in quanto fenomeno cosmico autonomo: in tal caso Niit era descritta come una discendente del creatore Atum, per il tramite dei fi­gli Shii e Tefniit, Aria e Umidità ; e sposata, inoltre, alla terra. In questo caso Niit veniva immaginata in forma umana.

Vediamo, ancora una volta, che la concezione che gli antichi avevano di un fenomeno variava a seconda del modo di considerarlo. Gli studiosi moderni hanno rim­proverato agli Egizi le loro apparenti incongruità e han­no messo in dubbio la loro capacità di pensare lucida­mente. È un atteggiamento presuntuoso: una volta che si siano compresi i procedimenti del pensiero antico, la loro giustificazione è palese. Inoltre, i valori religiosi non si possono ridurre a formule razionalistiche. I fenomeni naturali, phi o meno personificati e divinizzati, mette­vano l'uomo primitivo dinanzi a una presenza viva, ad un « Tu » pregnante di significati, che trascendeva i li­miti di una definizione concettuale. In questi casi la dut-

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MITO E REALTÀ 35 tilità del nostro pensiero e del nostro linguaggio qualifi­ca e modifica certi concetti al punto da renderli atti a portare il peso dell'espressione e del significato che noi gli conferiamo. La mente mitopoietica, tesa al concreto, esprimeva l'irrazionale, non al modo nostro, ma ammet­tendo la validità contemporanea di piu modi di conside­rare il reale. I Babilonesi ad esempio veneravano sotto parecchie forme la forza procreativa della natura : il suo manifestarsi nelle piogge e nelle tempeste benefiche veni­va visualizzata come un uccello dalla testa leonina. Vista nella fertilità del suolo, diventava un serpente. Eppure nelle statue, nelle preghiere e negli atti del culto, essa ve­niva rappresentata come un dio in forma umana. Gli Egi-7.i dei tempi arcaici riconoscevano in Oro, un dio del cie­lo, la loro divinità principale. Era immaginato come un falco gigantesco librato sulla terra ad ali spiegate; le nu­bi variopinte dell'aurora e del tramonto ne erano il petto maculato, il sole e la luna gli occhi. Eppure questo dio era anche visto come un dio solare, poiché il sole, la mas­sima potenza del cielo, era naturalmente considerato co­me una manifestazione del dio e pertanto si stagliava di­nanzi all'uomo con la stessa divina presenza che l'uomo adorava nel falco dalle ali spiegate. Il pensiero mitopoie­tico riconosce, e non dovremmo avere dubbi in proposi­to, l'unità del fenomeno che però concepisce in guise di­verse; la poliedricità delle sue immagini vale a rendere la complessità dei fenomeni. Ma il procedimento seguito dalla mente mitopoietica nell'esprimere un fenomeno at­traverso molteplici immagini (corrispondenti alle svaria­te vie di approcci che ad esso ci possono portare) ci al­lontana, ovviamente, invece di avvicinarci al nostro po­stulato della causalità - che mira a scoprire, in tutto il mondo fenomenico, identiche cause per identici effetti.

Analogo contrasto ci si presenta se dalla categoria del­la causalità ci volgiamo a quella dello spazio. Il pensiero moderno mira a stabilire le cause come relazioni funzio­nali astratte fra i fenomeni, cosi come considera lo spa­zio un mero sistema di rapporti e funzioni. Noi postulia-

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mo uno spazio infinito, continuo, omogeneo - attributi che non ci vengono rivelati dalla mera percezione sensi­bile. Ma il pensiero primitivo non sa astrarre il concetto di spazio dalla sua stessa esperienza dello spazio, e tale esperienza consiste in ciò che chiameremmo associa­zioni qualificanti. I concetti spaziali del primitivo sono orientamenti concreti, riferentisi a località che posseggo­no una coloritura emotiva, che possono essere familiari o straniere, ostili o amiche. Di là dei confini della mera esperienza individuale la comunità avverte certi eventi cosmici che investono di un particolare significato certe regioni dello spazio. Il giorno e la notte conferiscono al­l'oriente ed all'occidente una correlazione con la vita e la morte. Il pensiero speculativo potrà agevolmente rica­vare dalle regioni poste fuori dell'esperienza immediata, ad esempio, i paradisi o gli inferi. L'astrologia mesopota­mica sviluppò un sistema vastissimo di relazioni fra i corpi celesti e gli avvenimenti del cielo e della terra. Co­si può riuscire al pensiero mitopoietico, non meno che al pensiero moderno, di stabilire un sistema spaziale coordinato; ma il sistema è determinato non già con mi­surazioni oggettive, ma in base ad un riconoscimento emotivo di valori. Fino a qual punto questo procedimen­to determini la concezione primitiva dello spazio è me­glio illustrato da un esempio che si incontrerà ancora nei capitoli seguenti come notevole testimonianza della spe­culazione antica.

In Egitto si diceva che il creatore fosse emerso dalle acque del caos e avesse eretto un monte di terra arida sul quale posare. Questo colle primordiale, dal quale pre­se inizio la creazione, veniva tradizionalmente situato nel tempio del sole a Eliopoli, dato che in Egitto il dio­sole era comunemente considerato il creatore. Peraltro il sancta sanctorum di ogni tempio era parimenti sacro e ogni divinità, in quanto divina, era riconosciuta come una fonte di energia creatrice. Perciò il sancta sanctorum di tutti i templi poteva essere identificato con il colle primordiale. Cosi del tempio di Philae, fondato nel IV

secolo a. C., si dice : « Questo [ tempio] sorse quando ancora nulla era sorto e la terra ancora giaceva nella te-

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nebra e nell'oscurità». La stessa pretesa veniva avanzata a favore di altri templi. I nomi che designavano i grandi santuari di Menfi, Tebe ed Ermontide affermano che essi erano la « divinamente emergente isola primordiale » o sottintendono significati analoghi. Ogni santuario posse­deva la qualità essenziale della sacralità originaria, poiché quando veniva fondato un nuovo tempio, si pretendeva che la sacralità potenziale del luogo si rendesse manife­sta. L'equazione con il colle primordiale riceveva altres1 espressione architettonica. Si salivano alcuni gradini o si seguiva un piano inclinato per raggiungere dalle varie entrate del cortile o del vestibolo il sancta sanctorum, che era pertanto posto ad un livello notevolmente piu alto dell'atrio.

Ma questo identificarsi dei templi con il colle primor­diale non ci dà ancora l'intera misura del significato che il luogo sacro assunse per gli antichi Egizi. Anche le tom­be regali erano costruite in modo da coincidere con esso. I defunti, ed, in primo luogo, il re, risorgevano nell'al di là. Non c'era luogo piu propizio, né sito capace di offrire maggiori opportunità di superare vittoriosamente la cri­si della morte, se non il colle primordiale, centro delle forze creative, dove la vita ordinata dell'universo aveva mosso i suoi primi passi. Pertanto la tomba reale era fog­giata a piramide, stilizzazione eliopolitana del colle pri­mordiale.

Per noi tale concezione è del tutto inaccettabile. Nel nostro spazio continuo e omogeneo, ogni luogo è incon­fondibilmente situato. Noi insistiamo sul fatto che ci de­v'essere stato un unico luogo in cui il primo colle di ter­ra arida effettivamente emerse dalle acque del caos. Ma agli Egizi tali obiezioni sarebbero apparse puri sofismi. Poiché i templi e le tombe regali erano sacri quanto il colle primordiale ed avevano forme architettoniche che lo ricordavano, esse partecipavano della sua essenza. Sa­rebbe quindi stato frivolo discutere se, a maggior ragio­ne degli altri, questo o quel monumento dovesse chia­marsi il colle primigenio.

Non diversamente le acque del caos, dalle quali ogni vita era emersa, si consideravano presenti in varii luoghi,

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talvolta svolgendo un ruolo nell'economia del paese, ta­l'altra portando il loro indispensabile contributo alla na­scita della concezione egizia dell'universo. Si immagina­va che le acque del caos esistessero nella forma dell'oceano che cingeva la terra, dal quale la terra era emersa ed ora su di esse galleggiava. Pertanto tali acque erano anche presenti nel sottosuolo. Nel cenotafio di Seti I ad Abido la bara era situata sopra un'isola con doppia scala ad imi­tazione del geroglifico che rappresentava la collina pri­mordiale; ed era circondata da un canale sempre colmo di acqua del sottosuolo. Sepolto in tal modo, il sovrano defunto si riteneva dovesse risorgere nel luogo stesso del­la creazione. Ma le acque del caos, le Niin, erano anche le acque infernali, che dovevano essere riattraversate dal sole e dai morti. D'altro canto le acque primordiali ave­vano un tempo racchiuso tutta la vita allo stato potenzia­le, ed erano quindi anche le acque dell'inondazione an­nua del Nilo, che rinnova e risuscita la fertilità dei campi.

La concezione mitopoietica del tempo è, al pari di quella dello spazio, qualitativa e concreta, non quantita­tiva ed astratta. Il pensiero mitopoietico non conosce il tempo come durata uniforme o come successione di mo­menti qualitativamente indifferenti. Il concetto di tempo come è usato nelle matematiche o in fisica è sconosciuto al primitivo allo stesso modo del tempo che forma l'in­telaiatura della nostra storia . n primitivo non astrae il concetto di tempo dali'esperienza del tempo.

Si è rilevato, da parte del Cassirer, ad esempio, che l'esperienza del tempo è insieme ricca e sottile, anche per i popoli piu primitivi . Il tempo viene sentito nella perio­dicità e nel ritmo della vita stessa dell'uomo cosi come nella vita della natura. Ogni fase della vita dell'uomo -infanzia, adolescenza, maturità, vecchiaia - è un tempo dotato di particolari qualità. La transizione da una fase ad un'altra è una crisi nella quale l'uomo è assistito dalia comunità che a lui si unisce nei riti appropriati, ali'epoca della nascita, della pubertà, del matrimonio o della mor­te. Cassirer ha denominato codesta particolare concezio-

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MITO E REALTÀ 39 ne del tempo, in quanto è una sequenza di fasi di vita essenzialmente diverse, « tempo biologico ». Il manife­starsi del tempo nella natura, il succedersi delle stagioni, cd i moti dei corpi celesti furono concepiti fin dai tempi arcaici come segni di un processo vitale simile a quello umano e ad esso connesso. Purtuttavia non vengono consi­derati come processi « naturali » nel nostro senso. Quan­do c'è un mutamento c'è una causa, ed una causa, come s'è visto, è una volontà. Nella Genesi, ad esempio, leg­giamo che Dio strinse un patto con le creature viventi, promettendo non solo che non si sarebbe mai piu pro­dotto il diluvio, ma anche che <( per tutti i giorni della terra, la semenza e la messe, il freddo e il calore, l'estate e l'inverno, la notte e il giorno non sarebbero mai cessa­ti » (Genesi, 8, 22) . L'ordine del tempo e l'ordine della vita della natura (che sono tutt'uno) sono liberamente largiti dal Dio dell'Antico Testamento nella pienezza del suo potere; e quando si considerino nella loro totalità, come ordine costituito, sono, anche altrove, fondati su una volizione dell'ordine della creazione.

Ma è possibile anche un'altra pt:ospettiva, una prospet­tiva del tempo non già come una sequenza di varie fasi considerate come un tutto, bensi come vera e propria transizione da una fase ad un'altra successiva - come un vero e proprio succedersi di fasi. La durata variabile del­la notte, gli spettacoli sempre cangianti dell'aurora e del tramonto, le tempeste equinoziali non suggeriscono un alternarsi placido degli « elementi » del tempo mitopoie­tico. Indicano piuttosto un conflitto, e l'indicazione è corroborata dall'ansietà dell'uomo stesso, che dipende in­teramente dal tempo e dai mutamenti stagionali. Wen­sinck ha chiamato questo atteggiamento <( concezione drammatica della natura ». Ogni mattina il sole sconfigge le tenebre ed il caos come già fece il giorno della crea­zione e come fa ogni anno, il primo giorno dell'anno. Questi tre momenti si fondono, vengono sentiti come un'essenziale unità. Ad ogni aurora e ad ogni inizio d'anno ripete la prima aurora del giorno della creazione, e per la mente mitopoietica ogni ripetizione si fonde con l'avve­nimento originario, anzi è praticamente identico ad esso.

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INTRODUZIONE

Riscontriamo qui, nella categoria del tempo, un paral­lelo al fenomeno che abbiamo individuato nella categoria dello spazio quando abbiamo scoperto che certe località archetipe, come il colle primordiale, si riteneva che esi­stessero in parecchie località sparse nel paese perché tali località avevano in comune con il loro prototipo certi ca­ratteri essenziali. Chiamammo tale fenomeno la coinci­denza nello spazio.

Un esempio di coincidenza nel tempo è un versetto egizio che maledice i nemici del re. Si ricordi che Re, il dio-sole, era stato il primo sovrano dell'Egitto e che il faraone era, nella misura in cui regnava, un'immagine di Re. Il versetto dice dei nemici del sovrano : « Saranno come il serpente Apofide il mattino del primo dell'an­no » '. Il serpente Apofi.de è la tenebra ostile che il sole sconfigge ogni notte nel suo viaggio attraverso gli inferi dal luogo dov'esso tramonta a occidente al luogo dove sorge all'oriente. Ma perché i nemici debbono essere co­me il serpente Apofide il mattino del primo dell'anno? Perché le nozioni della creazione, dell'aurora d'ogni gior­no, e dell'inizio del nuovo ciclo annuale si fondono e cul­minano nelle feste del nuovo anno. Pertanto viene invo­cato, cioè evocato, il nuovo anno per rafforzare la male­dizione.

Questa « concezione drammatica della natura che scor­ge dovunque una lotta fra il divino ed il demoniaco, fra le potenze cosmiche e caotiche » (Wensinck), non fa del­l'uomo un mero spettatore . Egli è troppo impegnato, la sua prosperità dipende troppo ampiamente dalla vittoria delle forze benefiche perché non senta il bisogno di par­teggiare per esse. Cosi in Egitto ed in Babilonia vediamo che l'uomo, cioè l'uomo nella società - accompagna i principali mutamenti della natura con riti adeguati. Tan­to in Egitto come in Babilonia il nuovo anno, ad esem­pio, era occasione di complesse celebrazioni nelle quali le battaglie degli dei venivano mimate o durante le quali si combattevano finte battaglie.

Dobbiamo anche ricordare che questi riti non sono meramente simbolici; sono una vera e propria compo­nente degli eventi cosmici, e in essi rappresentano il ruo-

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MITO E REALTÀ

lo dell'uomo. A Babilonia, dal m millennio fino al perio­do ellenistico, troviamo una festa del primo dell'anno della durata di parecchi giorni. Durante la celebrazione veniva recitata la storia della creazione e si combatteva una finta battaglia nella quale il re impersonava il dio vit­torioso. Per ciò che riguarda l'Egitto siamo a conoscenza di finte battaglie in parecchie feste imperniate sulla rina­scita o resurrezione: l'una aveva luogo ad Abido, duran­te l'annuale Gran Processione di Osiride; l'altra la vigi­lia del primo dell'anno, all'erezione del pilastro di Djed, un'altra ancora veniva combattuta, almeno al tempo di Erodoto, a Papremide, nel Delta. Durante tali feste l'uo­mo partecipava della vita della natura.

L'uomo organizzava la sua stessa vita, o almeno la vi­ta della società cui apparteneva, in modo che un'armo­nia con la natura, una coordinazione delle forze naturali c sociali, aggiungesse forza alle sue imprese e aumentasse le sue probabilità di successo. Tutta la scienza degli au­spici mira ovviamente a questo fine. Ma ci sono esempi precisi che illustrano il bisogno del primitivo di agire al­l 'unisono con la natura. Tanto in Egitto come in Babilo­nia l'incoronazione del re era differita al momento in cui un nuovo ciclo naturale offrisse un favorevole inizio per il nuovo regno. In Egitto il tempo poteva cadere di pri­ma estate, quando il Nilo cominciava a sollevarsi, o nel­l'autunno, quando l'inondazione decresceva ed i campi fertilizzati erano pronti ad accogliere la semente. A Ba­bilonia il re cominciava a regnare il primo dell'anno; e l 'inaugurazione di un nuovo tempio veniva celebrata solo in quel tempo.

Questo deciso coordinamento degli avvenimenti cosmi­ci e sociali mostra chiaramente che il tempo, per il primi­tivo, non era una struttura neutra e astratta cui riferire gli avvenimenti, bensf una successione di fasi ricorrenti, cariche, ciascuna d'esse, di un valore e di un significato particolari. Come s'è detto parlando dello spazio, anche qui troviamo certe « regioni » di tempo sottratte all'espe­rienza immediata, che quindi stimolano fortemente il pensiero speculativo: il passato remoto ed il futuro. L'u­no e l'altro possono diventare normativi ed assoluti e

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possono pertanto cadere di là dell'ambito del tempo. Il passato assoluto non si allontana gradualmente ed al fu­turo assoluto non ci avviciniamo per gradi. Il « regno di Dio >> può irrompere in qualsiasi momento nel nostro presente. Per gli Ebrei il futuro è normativa. Per gli Egi­zi, d'altra parte, era normativa il passato, e nessun fa­raone poteva sperare di raggiungere qualcosa di piu del ristabilimento delle condizioni « del tempo di Re, agli inizi ».

Ma a questo punto ci troviamo dinanzi a temi che do­vremo trattare nei capitoli seguenti. Abbiamo procurato di dimostrare che la « logica », la particolare struttura del pensiero mitopoietico si può ricavare dal fatto che l 'intelletto non opera autonomamente perché esso non può mai spiegare l'esperienza fondamentale del primiti­vo, quella per cui egli si trova dinanzi ad un « Tu >> ric­co di significato. Pertanto quando il primitivo viene al­le prese con un problema intellettuale nella multiforme complessità della vita, non esclude mai i fattori emotivi e volitivi, e le conclusioni alle quali egli perviene non so­no giudizi critici ma immagini complesse.

Non è nemmeno dato di tenere separate le sfere alle quali queste immagini si riferiscono. Ci siamo proposti di trattare in questo libro del pensiero speculativo che considera r ) la natura dell'universo 2) la funzione dello stato e 3 ) i valori della vita. Ma il lettore avrà compreso che questo nostro timido tentativo di distinguere le ri­spettive sfere della metafisica, della politica e dell'etica è condannato a restare una convenzione di comodo desti­tuita di ogni piu profondo significato. Infatti la vita del­l'uomo e la funzione dello Stato, per il pensiero mitopoie­tico, strettamente incorporati alla natt}ra e i processi natu­rali sono influenzati dagli atti umani non meno di quan­to la vita dell'uomo dipenda dal suo armonico integrarsi nella natura. L'esperienza di una simile interezza, sentita con la massima intensità, era il piu alto beneficio che l'an­tica religione orientale potesse largire. Il fine del pensie­ro speculativo nell'antico Medio Oriente fu appunto con­cepire questo integrarsi nella forma dell'immaginazione intuitiva.

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Note al Capitolo primo.

1 SELIGMANN, nel Fourth Report o/ the Wellcome Tropical Research Laboratories at the Gordon Memoria/ College, Kharto11m, London I9II, vol. B. Generai Science, p. 219. ' D. D. LUCKE.NBILL, Ancient Records o/ Assyria and Bab)'lonia, vol. II, § ,s.

l SETHE, Die altaegyptischen Pyramidentexte nach den Papierabdriik­ken und Photograpbien des Berliner Museums, Leipzig 1908, § 1466.

' ADOLP ERMAN, Aegypten 11nd aegyptisches Leben im Altertum, a

cura di Hermann Ranke, Tiibingcn 1923, p. 170.

Letture consigliate.

CASSIRER, l!.RNST, Philosophie der symbolischen Formen, II. Das mythi­sche Denken, Berlin 192,.

FRANKFORT, HENRI, Kingship and the Gods: A Study o/ Ancient Near Eastern Religion as the Integration o/ Society anJ Nature, Chicago 1948.

LEEUW, G. VAN DER, Religion in Essence and Mani/estation: A Study in Phenomenology, New York 1938.

LÉVY-BRUHL, L., Les fonctions mentales dans les sociétés in/érieures, Pa­ris 1910.

ono, RUDOLP, Il Sacro, Bologna 1926 (trad. di Das Heilige). RADIN, PAUL, Primitive Man as Philosopher, New York 1927.

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L'EGITTO

di ]ohn A. Wilson

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Capitolo secondo

L'EGITTO:

LA NATURA DELL'UNIVERSO

Considerazioni geografiche.

La divisione di questi capitoli, che rispettivamente stu­dieranno l'Egitto, la Mesopotamia e gli Ebrei, è necessa­ria, poiché le tre culture specifiche esprimono in termini individuali e secondo linee di sviluppo autonome la loro generica uniformità. In ognuno di codesti ambiti quel­l'atteggiamento mentale verso i fenomeni dell'universo di cui si è trattato nel capitolo introduttivo risulta fon­damentale. Non ci proponiamo certamente di sostenere che i fenomeni riscontrati nell'ambito egizio sono unica­mente peculiari ad esso, sebbene, occupandoci noi esclu­sivamente dell'Egitto, si possa far sorgere il dubbio che gli elementi comuni all'Egitto ed ai suoi vicini siano stati lasciati in ombra. Il terreno comune è l'aspetto piu rile­vante per coloro che si propongono di studiare lo svilup­po della mente umana, piuttosto che di approfondire la mentalità egizia. Il nostro materiale documentario illu­stra pertanto la mentalità primitiva e preclassica median­te esempi tratti da una delle tre culture dianzi menzionate.

Pur nell'uniformità dell'atteggiamento fondamentale le tre culture differiscono nella misura in cui la cultura bri­tannica differisce da quella dell'Europa continentale o da quella degli Stati Uniti. Il fattore geografico non è l'uni­co a determinare le diversità sul piano culturale, ma le caratteristiche geografiche si prestano a rilievi cosi elo­quenti che una considerazione della peculiarità geografi­ca dell'Egitto varrà a suggerire alcuni elementi di difle-

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L'EGITTO

renziazione. In tutto il Medio Oriente esiste un contra­sto fra il deserto e le terre coltivate. L'Egitto offriva e offre l'esasperazione di questo contrasto.

La parte essenziale dell'Egitto è uno squarcio di vita feconda tagliato attraverso le brune distese del deserto. La linea di confine fra la vita e la non-vita è di una niti­dezza sconcertante: sull'orlo della terra coltivata si sta con un piede sul suolo nero e irrigato e con l'altro sulle sabbie del deserto. Il paese non conosce piogge, solo le acque del Nilo rendono possibile la vita dove altrimenti non si vedrebbero che interminabili distese di sabbie e rocce.

Ma quale vita è resa mai possibile dal Nilo ! I minu­scoli villaggi agricoli si restringono al massimo per non usurpare i fertili campi di riso, cotone, grano o canna da zucchero. Quando venga ben curata, la terra può dare due raccolti all'anno. In condizioni normali l'Egitto di­spone comodamente di un'eccedenza di prodotti agricoli per l'esportazione.

La ricchezza è limitata alla verde vallata dd Nilo. Solo il 3 ·5 per cento dell'Egitto odierno è coltivabile e abita­bile, il restante 96,5 per cento è costituito da un deserto nudo e inabitabile. Oggigiorno un 99 ,5 per cento della popolazione vive su quel 3 ,5 per cento di terreno suscet­tibile di accogliere una popolazione. Questo comporta un contrasto ancor maggiore fra il deserto e la terra coltiva­ta e fa s{ che su quest'ultima ci sia una concentrazione umana prossima al suo punto di saturazione. Oggi la par­te abitabile dell'Egitto conta 1 200 abitanti per miglio quadrato. Le statistiche per il Belgio, che è il paese piu densamente popolato d'Europa segnano un 700 abitanti per miglio quadrato; per Giava un 900 abitanti per mi­glio quadrato. La densità della popolazione in Egitto og­gigiorno è pari quindi a quella di un paese industriale e urbanizzato, e non già rurale. Eppure l'Egitto, col suo suolo fertile, è pur sempre un paese essenzialmente agri­colo.

Non si hanno statistiche relative all'antico Egitto, va da sé, e la popolazione non poteva essere numerosa co­me oggigiorno, ma i caratteri essenziali dovettero essere

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LA NATURA DELL'UNIVERSO 49

gli stessi : un tubo ermeticamente sigillato nel quale la vita era concentrata fino al suo punto massimo di satu­razione. Questi due caratteri dell' isolamento e della po­polazione semiurbana si combinano a differenziare l'Egit­to dai suoi vicini. Oggi gli Arabi palestinesi e iracheni si sottomettono alla supremazia culturale dell'Egitto, in quanto è il paese arabo piu progredito, eppure non con­siderano gli Egiziani come Arabi autentici. Gli Egiziani sfuggono al deserto arabico ed alle influenze conservatri­ci che ne derivano. Dai deserti che cingono la Palestina e l'Iraq proviene l'elemento piu feroce e puritano di quelle popolazioni . L'Egitto, con la sua ricchezza agrico­la, con i suoi abitanti agglomerati, raggiunge presto un grado di raffinatezza che sul piano intellettuale si espri­meva in una tendenza all'universalità e al sincretismo. In Egitto le concezioni piu divergenti erano accettate con tolleranza e fuse in ciò che potrà apparire a noi moderni una stridente mancanza di sistematicità filosofica, ma che appariva agli antichi un'integrazione dei vari elementi. Il semita, in contatto col deserto, si aggrappava fieramente alla tradizione, resistendo alle innovazioni che minaccia­vano di travolgere la purezza e la semplicità dell'esisten­za. L'egizio, invece, accettava le innovazioni incorporan­dole nel suo pensiero, senza tuttavia scartare l'antico e il vecchio. Perciò sarà impossibile riscontrare nell'antico Egitto un sistema nel senso nostro, ordinato e coerente. L'antico e il moderno stanno l'uno accanto all'altro, sen­za fratture, come in un quadro surrealista la giovinezza e la vecchiaia su un volto solo.

Ma se l'egizio era tollerante rispetto alle divergenti concezioni intellettuali, ciò non significa che fosse tolle­rante verso gli altri popoli, anzi, essendo di mente urba­na e raffinata considerava rozzi e ignoranti gli stranieri. Il mare ed il deserto lo tagliavano fuori dai contatti con i suoi vicini ed egli si sentiva in grado di chiudersi entro un superiore isolamento. Distingueva da un lato gli <( uo­mini» e dall'altro i Libi, gli Asiatici o gli Africani ' . La parola <( uomini » in questa accezione equivaleva ad Egi­zi, altrimenti equivaleva a uomini, in contrapposto a <( dei ». In altri termini gli Egizi erano <( la gente » co-

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mune, « il popolo >>, gli stranieri no. In tempi di sven­tura nazionale, quando il vecchio ordine e l;:� vecchia sta­bilità erano crollati, si levò il lamento: « gli stranieri sono entrati in Egitto . . . Ovunque gli stranieri si sono fatti popolo » '. Non è affatto peculiare del mondo mo­derno l'idea che solo il gruppo al quale apparteniamo sia costituito da <� gente », e che quanti ne stanno fuori man­chino di qualche cosa per poter essere considerati umani.

Comunque il sentimento isolazionista o nazionalista de­gli Egizi era in funzione del fatto geografico e sociale piuttosto che di una teoria razziale o di una xenofobia dogmatica. « Il popolo » era quello che abitava in Egitto, senza distinzioni di razza o di colore. Una volta che uno straniero fosse venuto a stabilirsi in Egitto, avesse impa­rato a parlare egizio, avesse adottato il costume egizio, veniva accettato come uno del « popolo » e cessava di es­sere oggetto di sufficienza e di scherno. Gli Asiatici o i Libi o i Negri potevano, una volta acclimatati, diventare egizi di alto rango, potevano addirittura salire al rango massimo, quello del re-dio padrone della nazione. In egi­zio c'è una sola parola per designare la « terra » d'Egitto e senz'altro « la terra ». Si può tranquillamente affermare che una volta incorporato a quella terra, qualsiasi ele­mento meritava di essere accettato senza riserve.

Il sentimento dell'antico egizio, che la sua terra , cioè, fosse l'unica importante, era corroborato dal fatto che gli altri paesi con i quali era in immediato contatto ave­vano una cultura meno sviluppata della sua. Babilonia e la regione degli Ittiti erano troppo lontane perché si po­tesse stabilire un valido paragone, ma le terre circonvici­ne dei Libi, dei Nubiani, e dei beduini asiatici erano ma­nifestamente inferiori nel loro sviluppo culturale. La Pa­lestina e la Siria vennero talvolta colonizzate dall'Egitto, o subirono la sua supremazia culturale e commerciale. Finché gli Assiri, i Persiani, e alla fine i Greci, non ven­nero a conquistarli e a dominarli, gli Egizi poterono go­dere della piacevole sensazione di essere superiori a tutti gli altri. Una storia egizia pone questa sconvolgente di­chiarazione sulla bocca di un principe siriano che si ri­volge ad un inviato giuntagli dalla terra del Nilo: « In

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verità Amon [l'imperiale dio] fondò tutte le terre. Le fondò, ma prima di tutte fondò la terra d'Egitto, di dove sci venuto. Infatti opere di mano esperta ne giunsero fin qui dove sono io, e fin qui dove sono io ne giunsero non pochi insegnamenti » 1• Poiché la fonte è egizia, non pos­siamo essere certi che un principe di Siria effettivamente abbia pronunciato tali parole di riconoscimento e di lode verso l 'egemonia egizia nella dottrina e nell'artigianato, ma questa storia conferma che si trattava di una convin­zione quanto mai piacevole per coloro che credevano di vivere al centro del mondo.

Cosi si può affermare che l'isolamento fisico dell'Egit­to produsse un egocentrico sentimento di distinzione dal­le altre terre, al quale si mescolavano svariati altri ele­menti. È compito nostro sciogliere alcune di queste ap­parenti incongruenze e ordinarie in modo da renderle comprensibili al lettore. Sarebbe certamente un grave er­rore suggerire l'idea che si trattasse di un caos anarchico : nessun popolo riuscirebbe a vivere duemila anni accerta­ti, senza posare su solide fondamenta. Rintracceremo le pietre di queste fondamenta e anche la struttura intelli­gibile che da esse sorge; benché possa talvolta riuscire imbarazzante, per un visitatore, trovare una porta cen­trale su ognuno dei quattro lati di un edificio.

Torniamo ancora una volta alla geografia dell'Egitto. Abbiamo l'immagine di uno squarcio verde di vita che solca le brune distese della non-vita. Osserviamo la dina­mica del paesaggio egiziano. Il Nilo salendo dal cuore dell'Africa si apre un cammino verso il nord, scavalca cinque cateratte rocciose e finalmente si riversa nel Me­diterraneo. Le cateratte sono il baluardo che l'Egitto alza contro i popoli camitici e negri del sud cosi come i deser­ti ed il mare sono la barriera contro i popoli libi e semi­tici al nord, all'est e all'ovest. Al mattino il sole sorge all'est, attraversa il cielo durante il giorno, e tramonta a ovest a sera. Si, lo sapete, ma vale la pena di ripeterlo piu volte, data l'importanza che ha per l'Egitto, perché la nascita, il cammino e la quotidiana morte del sole so­no eventi dominanti nella vita e nel pensiero dell'egizio. In un paese essenzialmente arido, l'orbita giornaliera del

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L'EGITTO

sole è di importanza lampante. Potremmo pensare che ci fosse troppo sole in Egitto e che l'ombra fosse benvenu­ta e necessaria , eppure l'egizio detesta l'oscurità e il fred­do e tende le braccia felice a salutare il sole nascente. Sa che il sole è la fonte della sua vita. La notte « la terra è nelle tenebre, come morta �> •. Pertanto la personifìcazio­ne del potere del sole, il dio-sole, è il dio supremo e il dio creatore.

È strano che gli Egizi diano scarsa importanza ad un'al­tra forza, il vento. Il vento che spira piu frequente in Egitto viene dal nord, attraversa il Mediterraneo e poi scorre per la vallata del Nilo, mitigando il calore impla­cabile del sole e rendendo la vita piu facile. È in netto contrasto con i venti caldi e secchi della tarda primavera, che portano tempeste di sabbia ed effimere ondate di caldo dall'Africa.

Il vento del nord è buono, e gli Egizi esprimono la loro gratitudine facendone una divinità minore ; ma ri­spetto alla potenza onnipresente del sole, il vento è pres­soché trascurato.

Il caso del Nilo si presenta lievemente diverso. Il fiu­me è una cosi evidente sorgente di vita che, pur non po­tendo competere con il sole, gode di un posto onorato nella gerarchia delle cose. Il Nilo ha un ciclo annuale di vita e di morte, che corrisponde alla nascita ed alla mor­te quotidiana del sole. D'estate il fiume scorre basso e lento fra le sue sponde ristrette, mentre i campi che lo costeggiano si crepano e si convertono in polvere che viene spazzata verso il deserto.

Se, grazie ad una serie di elevatori l'acqua non viene estratta dal fiume o da profondissimi pozzi, lo sviluppo agricolo si arresta, la popolazione e il bestiame si assotti­gliano ed ecco avanzare il torpido volto della carestia.

Ma proprio quando la vita è al suo livello piu basso, ecco che il Nilo prende pigramente a gonfiarsi, dispiegan­do a poco a poco tutta la sua potenza. Durante l'estate cresce lentamente ma con progressiva accelerazione, fin­ché le sue acque possenti iniziano la corsa, straripano da­gli argini e invadono di furia le terre piatte che lo costeg­giano. La terra è ricoperta di masse di acqua mobile e

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LA NATURA DELL'UNIVERSO

fangosa che negli anni di acque alte aggrediscono i vil­laggi inerpicati sugli isolotti sopra i campi, rodono le ca­se di mattoni e di fango, facendone crollare non poche. La terra, dalla distesa inerte e polverosa che era, si con­verte in un corso d'acqua basso e largo carico di un fer­tilizzante deposito melmoso. Poi la piena decresce e le acque si fanno piu pigre. Cumuli brevi di terra emergono dalle distese allagate, freschi di un limo nuovo e ferace. Scompare il torpore negli uomini, che entrano a guado nella melma spessa e prendono a seminare con ansiosa cura il primo trifoglio o il primo grano. La vita è tornata all'Egitto. Ben presto un vasto tappeto verde di campi produttivi completerà l'annuale miracolo della vittoria della vita sulla morte.

Ecco dunque i due eventi centrali della vita dell'Egit­to : la trionfale rinascita del sole e la trionfale rinascita annuale del fiume. È da questi due miracoli che gli anti­chi Egizi traggono la certezza che la vita rinnovata può sempre riuscire vittoriosa sulla morte.

Dobbiamo a questo punto precisare meglio ciò che è stato presentato come un mero e libero dono di vita e di fertilità. L'Egitto era ricco ma non prodigo; il frutto non cadeva dagli alberi ai piedi di agricoltori indolenti. Il so­le ed il Nilo si univano per produrre nuova vita, ma solo a prezzo di una battaglia contro la morte. Il sole riscal­dava, ma d'estate distruggeva. Il Nilo recava acqua e terra fertilizzanti, ma la sua inondazione annuale era ca­pricciosa e imprevedibile. Quando si sollevava in misura eccezionale distruggeva i canali, gli argini, e le case degli uomini. Quando la piena era poco pronunciata, ecco pro­filarsi la carestia. L'inondazione veniva all'improvviso e procedeva rapidamente, era necessario un lavoro inces­sante, estenuante per arginare e suddividere le acque on­de sfruttarle piu a fondo e piu a lungo. Il deserto era sempre pronto a rodere le coltivazioni, trasformando il limo fertile in arida sabbia. Il deserto, in ispecie, era pie­no di serpenti velenosi, leoni e favolosi mostri. Nelle di­stese ampie e melmose del Delta, una giungla di acqui­trini doveva essere prosciugata e ripulita per essere tra­sformata in campi arabili. Per piu di un terzo dell'anno

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L'EGITTO

i caldi venti del deserto, il sole cocente, e il Nilo in ma­gra portavano il paese ai limiti della morte, fino al mo­mento in cui il tempo mutava e il fiume faceva riaffiuire abbondanti le acque. Cosf l'Egitto, diversamente dai suoi vicini, era ricco e benedetto, ma doveva pur sempre sop­portare le lotte, le privazioni ed i pericoli che rendevano reale e concreto il suo annuale trionfo. Ne derivava l'im­pressione che il trionfo non fosse un privilegio naturale, ma qualcosa da ottenere pagando un certo prezzo.

Abbiamo già accennato al fatto che gli Egizi nutrivano un sentimento di sufficiente e compiaciuto isolazionismo. Abbiamo detto che usavano la parola « uomini » per di­stinguere con essa gli Egizi dagli stranieri. Il concetto dell'Egitto come centro focale dell'universo portava a de­finire il bene ed il male universali secondo ciò che era normale in Egitto. Il Nilo che scorreva verso il nord e recava l'acqua necessaria alla vita era la caratteristica sa­liente del paese. Gli Egizi guardarono agli altri popoli ed agli altri modi di vita secondo le categorie che valevano per il loro ambiente. La parola egizia per « andare verso il nord » è la stessa che vale per « seguire la corrente », mentre la parola « andare verso il sud » è la stessa che vale per « andare contro corrente ». Quando gli Egizi s'imbatterono in un altro fiume, l 'Eufrate, che scorreva verso il sud, espressero la loro perplessità per tale con­trosenso, chiamandolo « quell'acqua circolante che si vol­ge contro corrente pur seguendo la corrente », che può anche tradursi « quell'acqua invertita che segue la cor­rente andando a sud » 5• La navigazione sul Nilo si valeva della forza della corrente muovendo verso il nord. Le barche che si dirigevano a sud dovevano alzar la vela per sfruttare il vento del nord, capace di spingerle contro corrente. Poiché questo procedimento era normale, di­venne anche un ideale valido per tutti i mondi, compre­so il mondo dell'al di là. Nelle loro tombe gli Egizi ponevano due modellini di barche, che potevano essere proiettati magicamente nell'al di là per potervi navigare. Una delle barche aveva le vele ammainate, per poter se­guire la corrente sulle acque dell'al di là; l'altra aveva le vele spiegate per poter navigare verso il sud col vento

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LA NATURA DELL'UNIVERSO 55

del nord che in ogni mondo normale, sia terreno che ol­treterreno, non poteva certo mancare.

Cosi anche le piogge erano intelligibili solo in ragione di ciò che avveniva in Egitto. L'adoratore egizio, quando si rivolge al dio, riconosce la sua bontà verso l'Egitto: « Tu fai il Nilo negli inferi e lo mandi dove vuoi, onde sostenere l 'umanità ». Poi, mostrando un insolito inte­resse per le terre straniere, l'adoratore prosegue:

E i paesi stranieri e lontani tu fai che vivano anch'essi. Hai posto un [altro] Nilo nel cielo perché scenda in loro aiuto, sollevi ondate simili a marosi contro le montagne, inondi i loro campi e le loro campagne, le loro contrade ... Hai creato un Nilo celeste per i popoli stranieri e [per] tutte le bestie degli altipiani che camminano sulle zampe, mentre il [vero] Nilo viene dagli inferi per [il popolo dell'] Egitto •.

Se rovesciamo la nostra idea secondo la quale l'acqua normalmente cade dal cielo e accogliamo come giusto che invece zampilli dalle caverne solo per sostentare la no­stra vita, potremo concepire la pioggia in termini analo­ghi. Non è che l'Egitto sia privo di piogge : è che gli altri paesi hanno un Nilo che si rovescia dal cielo.

Nella citazione or ora fornita si vedono riuniti signifi­cativamente in un sol gruppo i popoli stranieri e le bestie degli altipiani. Non voglio dire che sia significativo il fat­to di accoppiare i barbari ed il bestiame: benché da ciò scaturisca piu d'un suggerimento, bensi è significativo il fatto che tanto i barbari quanto gli animali abitino luo­ghi in contrasto con la vallata del Nilo in quanto elevati. L'Egitto è una frittella piatta di terra nera =. Ogni paese straniero è formato da colli ondulati di sabbia ros­siccia. Lo stesso segno geroglifico viene usato per <( paese straniero » e per <( altopiano )> o per <( deserto » �. un segno assai simile è usato per « montagna » �. perché le catene montuose che costeggiano la vallata del Nilo era­no tanto deserte quanto straniere. Cosi l'egizio accoppia pittoricamente lo straniero con la bestia del deserto e ne­ga pittoricamente allo straniero le benedizioni della fer­tilità e dell'uniforme armonia.

Come gli abitanti delle pianure dell'America occiden­tale provano un certo senso d'oppressione visitando le

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L'EGITTO

colline della Nuova Inghilterra, cosi gli Egizi sentivano una certa claustrofobia in ogni paese in cui lo sguardo non potesse spaziare lontano nella pianura, dove non si vedesse il sole percorrere l'intera sua orbita. Un egizio scriveva ad un compatriota :

Non hai percorso la strada di Meger [in Siria], dove il sole è scuro di giorno, che è cosparsa di cipressi, di querce, di cedri che raggiungono il cielo. Vi sono là piu leoni che pantere o iene, ed i beduini la circondano da [ogni] lato ... Un brivido ti assale, [i capelli della] testa ti si rizzano, e l'anima ti sta nella mano. Il cammino è irto di rocce e di sassi, né ci si trova un sentiero pra· ticabile, invaso com'è da canne, pruni, rovi e giunchi. Il preci· pizio si spalanca da un lato e la montagna si erge dall'altro 7•

Un sentimento analogo, che una terra di montagne, di piogge, e di alberi generi squallore, si esprime in queste parole : « Misero l'asiatico, sciagurata è la sua terra, scon­volta dall'acqua, inaccessibile per i numerosi alberi, con le strade cattive a causa delle montagne ». E come la sua terra è tutta sbagliata, cosf il misero asiatico è un essere incomprensibile : « Non vive in un sol luogo, ma i suoi piedi camminano. Ha combattuto fin dai tempi di Oro, ma non conquista né è conquistato, e non annuncia mai il giorno nel combattimento . . . Può saccheggiare una co­lonia solitaria, ma non prenderà una città popolosa . . . Non ti preoccupare di lui : [ soltanto] un asiatico » 8• I cri­teri relativi al nostro modo di vivere vengono applicati agli altri, e in base a quel criterio, li troviamo manche­voli.

C'è un'altro carattere topogra6co nella vallata del Ni­lo che ha il suo corrispettivo nella psicologia egizia: l'u­niformità del paesaggio. Il Nilo si snoda al centro del paese, sulle due sponde si stendono fertili campi, e la sponda orientale corrisponde a quella occidentale. Poi viene il deserto, che si alza verso i contrafforti montuosi che costeggiano la vallata. La montagna occidentale cor­risponde alla montagna orientale. Coloro che vivono sul­la terra nera e fertile scorgono ovunque, attraverso l'aria limpida, il medesimo scenario. Se fanno un giorno di viaggio verso il sud o due giorni di viaggio verso il nord, la scena rimane immutata. I campi si stendono ampi e

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LA NATURA DELL'UNIVERSO 57 lisci; gli alberi sono radi e piccoli; il panorama non sof­fre interruzioni, tranne dove qualche tempio è stato eret­to dall'uomo, e salvo le due catene montuose, che sono in realtà i limiti esterni dell'Egitto.

Nelle vaste estensioni del Delta l'uniformità è ancor piu evidente: le piatte distese dei campi si susseguono monotone senza alcun rilievo. L'unica terra che conta in Egitto è uniforme e simmetrica.

Un effetto interessante dell'uniformità è l'accentuazio­ne di ogni minimo rilievo che incida sulla monotonia del­l'abitudine. Nel deserto ci si rende conto di ogni monti­cello, di ogni orma animale, di ogni tempesta di sabbia, di ogni indizio di movimento. La rara irregolarità diven­ta sconcertante in un ambiente di regolarità universale. È animata, nella struttura dominante della non-vita pos­siede una vita. Cosi anche in Egitto la uniformità preva­lente del paesaggio sbalzava in rilievo tutto ciò che aveva qualcosa di eccezionale nei confronti di quella unifor­mità. Un albero solitario di qualche grandezza, un colle di forma particolare, una valle percorsa dalle tempeste era cosi eccezionale da assumere un carattere individuale. L'uomo che viveva a contatto con la natura dava un'ani­ma a quel fatto eccezionale; la sua mente lo vedeva per­vaso di vita.

Lo stesso atteggiamento mentale investiva gli animali che si muovevano su quello scenario : il falco che aliava nel cielo senza altra forza motrice apparente che il sole; lo sciacallo che scivolava fantomatico sui margini del de­serto, il coccodrillo accovacciato in una massa informe sulle bassure melmose, o il toro possente nel quale si na­scondeva il seme della procreazione. Queste bestie erano forze che superavano il normale paesaggio, trascendendo la natura degli animali cosi com 'era colta dall'osserva­zione. Quindi tali animali si stagliavano netti sullo sce­nario e venivano investiti di una inscrutabile forza con­nessa ad un mondo extraumano.

Forse questa è un'eccessiva semplificazione del punto di vista animistico della natura propria del primitivo. Na­turalmente è vero che tutti i popoli agricoli sentono le forze operanti nella natura e giungono a personificare

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L'EGITTO

ogni singola forza. Prima che giungessero i naturalisti a spiegare il meccanismo delle piante o degli animali, ad analizzare il rapporto di causa ed effetto nel comporta­mento degli altri oggetti del nostro mondo, l'unico metro con cui l'uomo poteva giudicare della normalità era l'u­manità. Ciò che egli conosceva in se stesso e nella sua esperienza era umano e normale, le deviazioni dalla nor­malità erano extraumane e pertanto potenzialmente so­vrumane. Come fu sottolineato nel capitolo introduttivo, l 'umano si rivolse all'extraumano in termini di rapporti umani: il mondo fenomenico non era un << oggetto » ma un << Tu ». Non era necessario che l'oggetto diventasse definitivamente sovrumano e fosse riverito come un dio per essere concepito come un « Tu ». In quanto extra­umano, ma non di natura divina, ad esso l'uomo preferi­va attribuire il carattere di un « Tu ». Gli Egizi erano ca­paci di personificare qualsiasi cosa, e lo facevano : la te­sta, il ventre, la lingua, la percezione, il gusto, la verità, un albero, il mare, una città; l 'oscurità e la morte. Ma poche di queste cose venivano personificate con regolari­tà o con sgomento, cioè poche di esse venivano sollevate al rango di dei o semidei. Erano forze con le quali l'uo­mo stava in un rapporto di io-tu. È invero difficile pen­sare a qualcosa nel mondo fenomenico con il quale non si potesse instaurare quel rapporto, cosi come ci è indi­cato nelle pitture e nei testi. Se ne ricava che lo si poteva instaurare con tutto ciò che si presentava nel mondo fe­nomenico.

Un altro aspetto dell'uniforme paesaggio egizio era la simmetria : la sponda orientale corrisponde a quella occi­dentale, la catena montuosa dell'est corrisponde a quella dell'ovest. Sia che questa simmetria del paesaggio ne fos­se o meno alla radice, gli Egizi avevano un forte senso dell'equilibrio, della simmetria e della geometria. Que­sto risalta chiaramente nell'arte, i cui prodotti migliori mostrano una cura delle proporzioni e un'attenzione stra­ordinaria all'equilibrio e all'armonia degli elementi. Ri­salta altresi nella letteratura, dove i prodotti migliori mostrano un cosi consapevole e sonoro parallelismo del­le varie parti da produrre effetti notevoli per dignità e

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LA NATURA DELL'UNIVERSO 59

ritmo; quand'anche si tratti di un ritmo alquanto mono­tono per un orecchio moderno.

Vogliamo illustrare questo equilibrio letterario citan­do da un testo che riproduce la dichiarazione di un re Egizio:

Fate attenzione alle mie parole l Ascoltatele. Vi parlo l Vi rendo noto Sono il figlio di Re l Che nacqui dal suo corpo. Scggo sul trono giubilando l Poiché mi ha consacrato re l Signore

della sua terra. I miei consigli sono ottimi l I miei piani vengono attuati Proteggo l'Egitto l Lo difendo '·

L'equilibrio perseguito dall'artista potrebbe essere ri­scontrato nelle sculture o nelle pitture egizie. Invece vo­gliamo citare dall'iscrizione di un « maestro artigiano, pittore, e scultore », che si dilungò a illustrare le sue abi­lità tecniche. Del suo modellare disse: « So come foggia­re la creta, come proporzionarla secondo le regole, come dar forma ad essa o introdurla in modo che [ogni] mem­bro si situi al suo [giusto] posto ». Del suo disegno dis­se: <( So [esprimere] il movimento di una figura, il por­tamento di una donna, la posa di un singolo istante, il rannicchiarsi del prigioniero isolato, o come un occhio guarda l'altro » ••. Sono sottolineate, nella sua vantata abi­lità, la proporzione, l'equilibrio e la statica.

Lo stesso equilibrio si manifesta nella cosmologia e nella teologia egizie, nelle quali viene ricercato il con­trappeso di ogni fenomeno osservato o di ogni elemento sovrannaturale. Se c'è un cielo sovrastante dev'esserci un cielo sottostante, ogni dio deve avere la sua dea consor­te, anche se essa non ha una funzione divina distinta, ma rappresenta soltanto la controparte femminile. Questo de­siderio di equilibrio appare talvolta sforzato ai nostri oc­chi, e indubbiamente nacquero dei concetti artificiosi nel­la ricerca di un contrappeso a tutto ciò che veniva os­servato o concepito. Comunque l'esigenza psicologica di equilibrio simmetrico che faceva scaturire il concetto ar­tificioso non era artificiosa in se stessa, ma rispondeva ad un desiderio, profondamente radicato, di una statica sim­metria.

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Quella profonda esigenza di equilibrio appanra con­traddittoria rispetto alla mancanza di ordine che avemmo a deplorare nella acquiescenza degli Egizi di fronte a ogni concetto nuovo, conforme o meno che fosse ad un con­cetto antico, e nella loro giustapposizione di concetti ap­parentemente contraddittori. Qui siamo di fronte ad una contraddizione, ma crediamo di poterla spiegare. L'anti­co egizio aveva un forte senso della simmetria e dell'e­quilibrio, ma scarso senso di coerenza: era disposto ad accettare le incompatibilità. Inoltre aveva uno scarso sen­so della causalità, del fatto che A porta per conseguenza B e che B porta per conseguenza C. Come fu rilevato nel capitolo introduttivo, gli antichi non riconoscevano il ca­rattere impersonale e vincolante del rapporto di causali­tà. È un eccesso di semplificazione affermare che il pen­siero egizio era piuttosto geometrico che algebrico, ma è tuttavia un'affermazione che può metterne in rilievo le limitate capacità. L'ordine nella sua filosofia poggia piut­tosto sulla disposizione fisica che sulla sistematicità inte­grata e consequenziale.

Cosmologia.

È ormai tempo di considerare i termini nei quali l'egi­zio prospetta l'universo fisico, quell'universo di cui la sua terra costituisce il centro focale. Anzitutto egli si orienta dal Nilo, la fonte della sua vita. Guarda a sud, di dove arriva la corrente. Uno dei termini che designano il sud è anche lo stesso che designa il volto; la parola che desi­gna il « nord » è probabilmente connessa alla parola « nu­ca )>. Alla sinistra c'è l'est e alla destra l'ovest. « Est )) e << sinistra » sono espressi dalla medesima, e cosi pure « ovest )> e « destra )>.

Incorremmo in un'inesattezza tecnica affermando che l'egizio si orienta dal sud. Dovremmo dire, piu esatta­mente che l'egizio si « australizza » verso la sorgente del Nilo . È significativo il fatto che non si orientasse fonda­mentalmente dall'est, la terra del sole nascente, la regio­ne che chiamava « Terra di Dio )>. Vedremo piu avanti

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che l a teologia formulata dà un particolare risalto all'o­riente, ma nei tempi preistorici, prima che la teologia si fosse cristallizzata, quando i vocaboli della lingua egizia erano in fase di formazione, l'abitatore del Nilo guardava al sud, verso la fonte della fertilità della sua terra. Per­tanto pare accertato che la priorità teologica del sole sia un frutto di epoca piu tarda.

Forse ci troviamo di fronte a due ricerche indipenden­ti dell'orientamento. Nell'ansa dell'alto Egitto dove il Ni­lo scende cosi chiaramente dal meridione, costituendo il principale carattere del paesaggio, l'attenzione dell'uomo era polarizzata dal sud. Nel Delta, invece, dove le ampie distese non avevano un'attrazione magnetica altrettanto pronunciata, il nascere del sole dall'oriente costituiva un fenomeno di maggiore importanza. L'adorazione del sole poté quindi metter piu profonde radici nel nord e si di­ramò nell'intero paese in veste di teologia ufficiale nel corso di qualche preistorica conquista del sud da parte del nord . Tale conquista avrebbe imposto il primato teo­logico del sole e fatto dell'oriente (da cui il sole costan­temente si leva) un'area di importanza religiosa, ma non poté influire sul linguaggio che indica l'originario orien­tamento dell'uomo verso il sud.

La teologia cristallizzata, a noi nota dai tempi storici, fece dell'oriente (la terra del sorgere del sole), la regione della nascita e della rinascita, e dell'occidente (la terra del tramonto del sole), la regione della morte e dell'oltre­tomba. L'oriente era ta-netjer, « Terra di Dio », perché vi sorgeva il sole in giovanile gloria. Questo termine generi­co per l'oriente fu anche usato per designare determinati paesi stranieri, che del resto erano disprezzati. La Siria, il Sinai, il Punt, tutti luoghi posti a oriente, potevano si essere afflitti da montagne, alberi e piogge, potevano si es­sere abitati da « miseri asiatici », ma appartenevano an­che al giovane dio-sole, sicché erano chiamati anche « Ter­ra di Dio », e fruivano di una gloria riflessa, non per me­riti intrinseci, bensi a causa d'un accidente geografico. Implicitamente i buoni prodotti di tali paesi orientali ve­nivano attribuiti al dio-sole piuttosto che ai loro abitan­ti : « Tutta la buona legna della Terra di Dio, cumuli di

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gomma, di mirra, alberi di fresca mirra, ebano, e chiaro avorio . . . babbuini, scimmie, levrieri e pelli di pantere �> 11 o « cedro, cipresso e ginepro . . . tutta la buona legna della Terra di Dio » 11•

Nel dogma che sorse dall'esaltazione del sole nascen­te riecheggiava senza sosta la riconoscente gioia di tutto il creato dinanzi alla rinnovata apparizione del sole. L'opposizione fra la sera ed il mattino coinciderà con l'op­posizione fra la vita e la morte. « Quando vai in pace all'orizzonte occidentale, l la terra è nell'oscurità come morta . . . [ma] quando irrompe il giorno, quando tu sor­gi sull'orizzonte, . . . si destano e si levano in piedi. . . vivo­no poiché sei sorto per loro » 13• Non solo l'umanità si unisce a questo rinnovarsi della vita, ma <� tutte le bestie si rizzano sulle zampe, e tutto ciò che vola o si muo­ve » ", e « le scimmie lo adorano; " Lode a Te ! " [dico­no] tutte le bestie all'unisono » 15• Le pitture egizie mo­strano animali nella mattutina adorazione del sole : le scimmie stirano le membra intirizzite dalla notte, quasi a salutare il calore del sole, gli struzzi si flettono all'alba danzando una solenne pavana sotto i primi raggi. Questi fenomeni evidenti costituivano la prova visibile della co­munione fra uomini, bestie e dei.

Ma per tornare al concetto che l'egizio aveva del mon­do in cui viveva, tenteremo di renderlo in un unico qua­dro, solo parzialmente giustificato. In primo luogo, ci sta di fronte qualcosa come tremila anni di storia osservata, con sparse vestigia di sviluppi preistorici in parte osser­vabili ; e per tutto questo tempo ci fu un mutamento len­to e costante. In secondo luogo l 'egizio non ci lasciò al­cuna formulazione delle sue idee che ci possa servire come punto di partenza: quando raccogliamo da fonti di­sparate brani di idee, non facciamo che soddisfare il biso­gno che noi moderni sentiamo, di un singolo sistema in­tegrato, cioè il nostro desiderio di cogliere questa realtà in un solo quadro è fotografico e statico, mentre il qua­dro che si presentava all'antico egizio era cinematico e fluido. Cosi noi vorremmo sapere, ad esempio, se il sole poggiava su pilastri oppure era tenuto su da un dio; l'e­gizio avrebbe risposto : « Si, poggia su pilastri o è tenuto

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su da un dio - oppure poggia su muri, oppure è una vac­ca, o è una dea che tocca con le braccia e i piedi la ter­ra ». Qualsiasi di quei quadri l'avrebbe via via soddisfat­to a seconda del suo atteggiamento particolare; inoltre, in un solo quadro egli avrebbe potuto vedere due diversi sos tegni del cielo: la dea le cui braccia e i cui piedi rag­giungono la terra, e il dio che sostiene la dea celeste. Questa possibilità di punti di vista complementari vale anche per altri concetti. Pertanto sceglieremo un solo quadro, pur sapendo che esso ci narra una storia caratte­ristica, ma non la sola possibile.

L'egizio concepiva il sole come un largo piatto dal bor­do ondulato. L'incavo del piatto era la terra alluvionale e piatta d'Egitto, e il bordo ondulato la catena monta­gnosa dei paesi stranieri. Il piatto galleggiava sull'acqua. Queste acque abissali erano chiamate dagli egizi « Niin ». Nun erano le acque degli inferi e secondo un solo con­cetto via via sviluppato, Niin erano le acque primordiali dalle quali era scaturita la vita. La vita continuava a sca­turire da queste acque infere, poiché il sole rinasceva ogni giorno da Nun, e il Nilo sprizzava di continuo da caverne alimentate da Nun. Oltre ad essere le acque in­fere, Nun erano le acque che circondavano il mondo, 1'0-keanos che formava il limite estremo, chiamato anche il « Grande Circuito » o <c Gran Verde » . Era quindi evi­dente che il sole, dopo il suo viaggio notturno attraverso il mondo, dovesse risorgere di là dell'orizzonte orientale fuor �ella cerchia delle acque, cosi come tutti gli dei pro­venivano da Nun.

Sopra la terra stava la padella rovesciata del cielo, li­mite esterno dell'universo. Come dicemmo avanti, il bi­sogno di simmetria, oltre al senso della limitatezza dello spazio, esigeva un controcielo sottoterra, che delimitasse il mondo degli inferi. Era questo l'universo nel quale operavano l'uomo e gli dei e i corpi celesti.

A completare il quadro sono necessarie alcune aggiun­te. Il quadro da noi fornito sospende il cielo in una spe­cie di levitazione sopra la terra, ma ciò sarebbe apparso pericoloso all'antico egizio, che avrebbe sentito l'esigenza di un sostegno visibile. Come già accennammo, egli fornf

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vari mezzi di sostegno mediante una serie di concetti, la cui incompatibilità veniva allegramente ignorata. Il ritro­vato piu semplice consisteva in quattro pioli che, fissati sulla terra, reggevano il peso del cielo. Erano questi i li­miti estremi

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della terra, quali vengono indicati dai seguenti testi : « Ho imposto. . . il terrore di te fino ai quattro pilastri del cielo » 16 dove il numero quattro suggerisce una disposi­zione secondo i quattro punti cardinali. Fortunatamente questa disposizione piacque all'egizio per la sua saldez­za e per la sua durevolezza : « [Saldo] come il cielo che poggia sui suoi quattro pioli » è una metafora ricor­rente 17•

Ma il cielo poteva avere anche un altro sostegno. Fra cielo e terra era Shu, il dio dell'aria, la cui funzione con­sisteva nel poggiare saldamente sulla terra per sopporta­re il peso del cielo. Nei Testi delle Piramidi ( I 1 0 1 ) è det­to : « le braccia di Shu sono sotto il cielo, sf che lo possa reggere ». È significativo che un'altra versione del testo fornisce la variante: « Le braccia di Shu sono sotto NGt, perché la possa reggere », poiché, naturalmente il cielo era personificato in una divinità, la dea del cielo, Nut, che viene rappresentata inarcata sopra la terra, con i pie­di e le dita sul suolo, mentre il sole, la luna e le stelle ne adornano il corpo. In quella posa poteva sostenersi da sola, oppure il dio dell'aria, Shu, poteva sostenere una parte del suo peso con le mani sollevate.

Inoltre la volta celeste poteva essere rappresentata co-

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me il basso ventre di una vacca celeste, tempestato di stelle, dal quale fluiva la via lattea sulla quale la barca del sole poteva seguire il suo corso celeste. Che questi concetti si presentassero come alternative non sembrava mrbare l'egizio, che nel corso di un sol testo era capace di usare tutte queste contrastanti idee attorno al cielo, poiché ognuna lo soddisfaceva e teneva un suo posto in un universo dove pressoché ogni cosa era possibile agli dei. Non mancavano d'altronde di una loro coerenza en­tro i loro criteri del credibile e del persuasivo. Tutti i vari concetti del cielo e dei suoi sostegni fornivano sicu­rezza invece di incertezza, perché erano tutti solidi e du­revoli, e perché ciascun concetto poteva considerarsi complementare e non contraddittorio rispetto agli altri.

Sotto la volta del cielo stavano i corpi celesti, sia che le stelle pendessero dalla padella rovesciata, sia che tem­pestassero il ventre della vacca o della dea, e la luna su­biva un analogo trattamento. La luna aveva un'importan­za relativa nella mitologia egizia, o per meglio dire, la documentazione che ci rimane attribuisce ad essa scarsa importanza. Ci sono prove dell'esistenza di centri di ado­razione lunare nei tempi primitivi, ma in epoca storica questo culto venne deviato in direzioni meno cosmiche. Cosi il dio lunare Thot era piu importante come dio del­la sapienza e come giudice divino che non in grazia della sua attività celeste. II disco lunare calante e crescente co­me uno dei due occhi celesti ebbe una parte ufficiale nella storia di Osiride, servendo a rappresentare la ferita che Oro aveva subito combattendo per il padre, ferita che ve­niva risanata ogni mese dal dio lunare. Presumibilmen­te l'idea era stata ricavata da qualche mito anteriore nel quale la luna aveva un'importanza paragonabile a quella del sole, l'altro occhio celeste. Nell'epoca storica non si dava troppa importanza al paragone fra i due corpi.

Analogamente le stelle avevano la loro importanza nel­la misurazione del tempo e due o tre costellazioni erano divinità di qualche importanza. Ma un solo gruppo di stelle divenne realmente importante in Egitto. Anche que­sto aveva un rapporto con il trionfo della vita sulla mor­te. Nella limpida aria dell'Egitto le stelle spiccano con

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vivace scintillio. Molte di esse attraversano il cielo come falciandolo, per poi sparire sotto l'orizzonte. Ma una por­zione del cielo circoscrive un'orbita piu piccola nella qua­le le stelle calano verso l'orizzonte senza però mai scom­parirvi. Sono queste le stelle che ruotano attorno alla stella polare, e gli egizi le chiamavano <( quelle che non co­noscono distruzione » oppure <( quelle che non conoscono stanchezza >>, e le consideravano simboli dei defunti vit­toriosi della morte e pronti ad entrare nella vita eterna. Quella porzione settentrionale del cielo era nei tempi ar­caici una parte importante dell'universo. Evidentemente in essa la morte era assente, pertanto doveva essere il luogo della beatitudine eterna alla quale gli Egizi ago­gnavano. Nei primi testi funebri, che i moderni chiamano i testi delle Piramidi, la meta dei defunti era la regione di Diit nella parte settentrionale del cielo, dove essi avreb­bero raggiunto le stelle <( che non conoscono distruzio­ne » per viverci in eterno. Là erano situati i loro Campi Elisi, il « Campo dei giunchi » e il <( Campo delle offerte votive », dove i morti sarebbero vissuti come un akh, os­sia uno spirito autentico.

Con il passar del tempo, man mano che la predomi­nante mitologia solare metteva radici nella nazione, la re­gione di Dàt si spostò dalla parte settentrionale del cielo agli inferi. I vecchi testi che ricorrono ad ogni mezzo per proiettare in cielo il defunto, venivano ancora ripetuti con solenne fervore. Ma oramai l'entrata nell'al di là era a occidente e i due Campi Elisi si trovavano sotto terra. Era evidente, perché il sole moriva a occidente, percor­reva la sua orbita spirituale sotto terra, e gloriosamente rinasceva a oriente. Anche i morti dovevano pertanto con­dividere la promessa di una vita perpetua e dovevano es­sere spostati in prossimità del sole onde partecipare ai suoi fati. Cosi nel nostro quadro dell'universo dobbiamo far posto a Dàt, lo spazio fra la terra e il controcielo, re­gno dei morti immortali.

Abbiamo parlato a sufficienza della suprema importan­za del sole nell'ambito di questo quadro. Rimane da dire della forza motrice che lo spingeva nel suo viaggio quoti­diano. Per lo piu esso viene rappresentato sopra una bar-

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ca, e la simmetria bilaterale amata dagli Egizi gli fornisce una barca per il giorno ed una per la notte. Molti dei importanti formano l'equipaggio delle due navi. Può an­che capitare che il viaggio non si svolga in solennità e letizia : sul percorso un serpente sta in agguato per at­taccare la barca e probabilmente per ingoiare il sole. È ne­cessario ingaggiare battaglia per domare la bestia. In mol­ti paesi si condivide questa credenza secondo la quale le eclissi avvengono quando un serpente o un drago inghiot­te il sole. Ma non è necessario che si produca un'autenti­ca eclisse : ogni notte nel regno degli inferi veniva fru­strato un tentativo di inghiottire il sole.

Il sole può anche avere un'altra forza motrice : pare si trattasse di una palla rotolante. E in effetti esisteva una P•llla rotolante ben nota agli Egizi : la pallottolina che lo scarabeo stercorario spinge sulla sabbia. Cosf uno scara­faggio, uno scarabeo divenne il simbolo del sole mattuti­no, la cui controparte serale era un vecchio che stanca­mente si trascinava verso l'orizzonte occidentale. Inoltre il simbolo del falco che saliva alto nel cielo apparente­mente senza sforzo suggeriva l'idea che anche il sole pos­sedesse ali capaci di portarlo nel suo volo senza fatica. Anche qui, come prima, i vari concetti apparivano com­plementari e per nulla in contrasto. La gloria del dio era accresciuta dal fatto di possedere una pluralità di mani­festazioni.

Dovremo notare alcuni ulteriori aspetti del dio sole Re per poter allontanare ancor pio il concetto del sole dal piano fisico, dall'idea di un disco infocato che gira tut­te le ventiquattro ore attorno alla terra. Come dio su­premo Re era un sovrano divino e la leggenda riferisce che era stato re d'Egitto nei tempi primordiali. Era per­tanto rappresentato come una divinità barbuta, incorona­ta da un disco. Come dio supremo si prestava ad altri dei onde accrescerli e conferir loro un primato entro deter­minati limiti geografici o funzionali. Era pertanto Re e Re-Atum, il dio creatore ad Eliopoli. Era Re-Harakhte cioè Re-Oro dell'orizzonte, in quanto dio giovanile dell'o­rizzonte orientale. In varie località divenne Montu-Re, un dio-falco, Sobek-Re un dio coccodrillo, e Khnoum-Re,

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un dio caprone. Divenne Amon-Re re degli dei in quanto dio imperiale di Tebe. Abbiamo detto che queste varie manifestazioni lo accrescevano, non era infatti soltanto un disco solare, aveva anche una sua personalità come dio. Torniamo, a questo punto, alla distinzione fra il con­cetto scientifico di un fenomeno in quanto « oggetto » e l'antico concetto di un fenomeno in quanto <� Tu », for­nita nel capitolo I, dove s'è detto che la scienza è in gra­do di comprendere l'oggetto come regolato da leggi che ne rendono relativamente prevedibile il comportamento, mentre il <{ Tu » ha il carattere imprevedibile dell'indivi­duo, « presenza conosciuta soltanto nella misura in cui ci si rivela ». Posto in tali termini il carattere apparen­temente capriccioso e proteico del sole diventa semplice­mente l'ambito nel quale può giocare l'abilità di un in­dividuo versatile e onnipresente. Si cessa di stupire della poliedrica personalità di codesto essere e ci si aspetta or­mai che esso possa intervenire, con competenza adegua­ta, in qualsiasi congiuntura.

Cosmogonia.

Esamineremo ora alcune delle storie egizie sulla crea­zione. È significativo che dobbiamo usare il plurale e che non si possa stabilire un unico e codificato racconto delle origini. L'egizio accoglie vari miti e non ne scarta nessu­no. Bisogna inoltre notare che è piu facile riscontrare punti di contatto assai notevoli fra i racconti Babilonesi ed Ebraici della Genesi che non mettere in rapporto con essi i racconti egizi. Nell'ambito di uno sviluppo paralle­lo che abbraccia una vasta zona del Medio Oriente, l'E­gitto in buona misura fa parte a sé.

Abbiamo già notato che Niin, l'abisso primigenio, è la ragione donde è scaturita in origine la vita. Ciò vale in primo luogo per il sole, che riafliora ogni giorno dagli abissi, e per il Nilo, formato dalle acque del suolo. Ma la frase « colui che sorse da Niin » viene usata per molti al­tri singoli dei e per il concilio degli dei come gruppo. Non è necessario cercare un mito dietro codesta idea : le

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profondità delle acque primordiali sono un concetto che non abbisogna di una storia teleologica; quando Tenny­son parla della vita come di « ciò che si trasse fuori dallo smisurato abisso » non è necessario fornire spiegazioni.

Comunque dovremo concedere maggior attenzione ad uno dei racconti sulla vita che emerge dalle acque e che situa il luogo della creazione su d'un « colle primige­nio ». Abbiamo ricordato che quando la piena del Nilo raggiungeva il suo punto massimo, vaste distese d'acque coprivano l'Egitto, e che il decrescere delle acque schiu­deva alla vista qua e là le prime collinette di fango rin­novate da un nuovo limo fertilizzante : dovevano essere le prime promesse di nuova vita per il nuovo anno agri­colo. Quando questi primi colli di fanghiglia si levano dalle acque alluvionali sotto la cocente calura del sole, è facile immaginare che crepitassero di nuova vita. Gli Egi­ziani moderni credono che quel deposito di melma con­tenga un potere speciale, apportatore di vita, e non sono i soli a crederlo. Poco meno di tre secoli fa si accese una disputa scientifica sulla generazione spontanea, cioè sulla capacità che aveva la materia inorganica di produrre or­ganismi viventi. Un inglese scrisse che se il suo dotto op­positore metteva in dubbio che la vita nascesse attraver­so la putrefazione prodotta dal fango o dal limo <( doveva andare in Egitto a vedere i campi infestati dai topi nati dal fango del Nilo, con grave danno degli abitanti » 11• Non è difficile credere che la vita animale nasca da que­sto fango cosi denso.

Le prove di questo mito egizio sull'origine della vita sul colle primordiale sono sparse e allusive. Il punto es­senziale è che il dio-creatore fece la sua prima apparizio­ne su quell'isola solitaria. Almeno due sistemi teologici diversi pretendevano il primato grazie al possesso di un colle primigenio, e alla lunga ogni tempio che potesse of­frire un rialzo al suo dio, si considerava il luogo stesso della creazione. Anche le piramidi mutuano questa idea di un colle elevato come promessa di rinascita per il mor­to seppellito all'interno. Come fu indicato nel I capito­lo, il punto importante è il concetto di un colle della creazione. Che poi fosse situato a Eliopoli od Ermopili,

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questo per l'egizio non costituiva affatto un problema. Prendiamo un passo del Libro dei Morti, che riferisce

la prima e solitaria apparizione del dio creatore Re-Atum. Il testo è fornito di glosse esplicative :

lo sono Arum, che era solo nel Niin [le acque primordiali] Sono Re nel suo primo apparire, quando prese a regnare su ciò che aveva creato. Che cosa significa ciò? Questo: « Re quando co­minciò a regnare su ciò che aveva creato » significa che Re comin­ciò apparendo come re, come uno che era esistito prima che [il dio dell'aria], Shii avesse sollevato [il cielo dalla terra ] , quando egli [Re] stava sul colle primordiale che era ad Ermopoli ".

Il testo prosegue sottolineando il fatto che il dio era stato creato da se stesso e che creò (( gli dei che ne for­mano il seguito ».

Il geroglifico egizio che rappresenta i1 colle primordia­le significa anche <( apparire in gloria ». È un monte ton­do, redimito dai raggi del sole 6 , immagine grafica del­la prima apparizione del dio creatore.

Il testo or ora citato situa la creazione su d'un monti­cello della città di Eliopoli, patria di certi dei che erano esistiti prima della creazione. Comunque l 'anomalia di un'esistenza anteriore alla creazione non ci deve preoccu­pare troppo, perché i nomi di quegli dei mostrano che essi rappresentano l'informe caos che esisteva prima che il dio creatore traesse l'ordine dal disordine. Dovremo definire con una certa elasticità questo termine <( caos » poiché codesti dei anteriori alla creazione sono nitida­mente divisi in quattro coppie, un dio ed una dea per ogni qualità del caos, ulteriore esempio dell'amor di sim­metria. Queste quattro coppie di dei rimasero nella mito­logia come gli « Otto » che erano esistiti prima dell'ini­zio. Erano Niin, le acque primordiali, e la consorte Nau­net, che diventò poi il controcielo; Huh le smisurate distese dell'informe primordiale, e la consorte Hauhet; Kiik, <( l'oscurità », e la consorte Kauket, Amun, cioè Amon, « il nascosto », che rappresentava l'intangibilità e l 'impercettibilità del caos, con la consorte Amaunet. Tut­to ciò è un modo di esprimere ciò che narra la Genesi, che prima della creazione <( la terra era deserta e vuota; e l'oscurità era sul volto dell'abisso ». Huh e Amiin, smi-

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LA NATURA DELL'UNIVERSO 71 suratezza e impercettibilità, sono grosso modo paralleli ai tohu wavohu ebraici, « deserto e vuoto », mentre Kiik, l 'oscurità e Niin, l'abisso, sono chiaramente simili all'E­braico hoshek al-penei tehom, « l'oscurità sul volto delle acque profonde ». La somiglianza è interessante ma non seducente, perché le due narrazioni, l'egizia e l'ebraica divergono non appena si giunga ai singoli episodi della creazione, al qual punto l'Egitto dà risalto all'emergere autonomo di un dio creatore, mentre il dio creatore della Genesi esisteva accanto al caos. È necessario cominciare con un concetto e pertanto i primitivi dovunque procu­rarono di concepire una mancanza di forma prima della creazione della forma. Questo « informe » poteva essere designato con gli stessi termini generali presso tutti i po­poli. Ma torneremo piu avanti sulla narrazione della Ge­nesi.

Non possiamo seguire il progressivo emergere di un colle primordiale in altri centri di culto e le conseguenze che questo pensiero ebbe sulle credenze e sull'iconogra­fia dell'Egitto. Preferiamo invece affrontare un fenome­no mitologico piu sviluppato che ha la sua importanza nelle narrazioni della creazione.

Nei tempi arcaici il dio sole aveva una sua famiglia di divinità che era altresi il supremo concilio degli dei. Que­sto gruppo, che ha il suo maggior centro nel tempio del sole ad Eliopoli, è l'Enneade, « Nove », costituita da cop­pie imparentate, sormontate da un antenato comune. Que­sta Enneade o « Nove » si può opporre all'« Otto », che abbiamo già trattato, in quanto gli <c Otto » includevano gli elementi del disordine cosmico, mentre i « Nove » comprendevano solo i successivi gradini dell'ordine co­smico: aria e umidità, terra e cielo, le creature della ter­ra. Ne deriva che la creazione segna chiaramente la linea divisoria fra la precedente confusione e l'ordine presente. Il dio creatore non conquistò e distrusse gli elementi del caos e non pose al loro posto gli elementi dell'ordine, an­zi, appare ovvio che gli dei anteriori alla creazione, come Niin, le acque infere, e Kiik, l'oscurità, continuarono ad esistere dopo la creazione, senonché vennero situate nel posto giusto e non piu nell'universale e informe disordi-

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ne. In questo senso questa creazione ha dei punti di con­tatto con la creazione della Genesi: una separazione della luce dall'oscurità ed una separazione delle acque infere dalle acque supere.

Il dio sole Atum, appollaiato suJ colle primordiale era autocreato, o, come si esprimeva l'egizio : « divenne per opera propria ». Orbene il nome Atum significa « tutto >> e significa anche « nulla », il che è meno paradossale di quanto sembri, perché la parola significa « ciò che è fini­to, completato, perfezionato », e tutti codesti termini so­no positivi e negativi. « Finis » in fondo ad un libro si­gnifica « È tutto, non c'è altro ». Ancora : Atum significa l'onnicomprensività e anche il vuoto, all'inizio piuttosto che alla fine. Atum è la fase iniziale di tutto, come la quiete gravida che precede l'uragano.

Fin qui le varie narrazioni della creazione stessa . Il Libro dei Morti afferma che il dio creatore creò i suoi nomi, in quanto capo dell'Enneade. I l che viene spiegato nel senso che diede un nome alle varie parti del suo cor­po e che in tal modo <( nacquero gli dei che formano il suo seguito >>. Questo è un tratto squisitamente primiti­vo ed ha una sua interna coerenza. Le parti del corpo hanno un'esistenza separata ed un carattere distinto, sic­ché possono essere in rapporto con divinità diverse. Il nome appartiene all'individualità ed alla potenza e l'atto di pronunciare un nuovo nome è un atto creativo . Cosi ci si presenta l'immagine di un creatore acquattato sul suo isolotto intento a inventar nomi per le otto parti del suo corpo - ovvero per le quattro paia di parti - mentre ogni parola pronunciata fa nascere un nuovo dio.

I Testi delle Piramidi offrono un quadro diverso. L'i­scrizione, rivolgendosi ad Atum e rammentando il giorno in cui il dio era inerpicato suJ colle primordiale, prose­gue: <( Tu sputasti ciò che fu Shii; tu sputasti fuori ciò che fu Tefniit. Li cingesti delle tue braccia come braccia di un ka, perché il tuo ka era in loro » ( 1 652-5 3 ). Qui la creazione è dipinta come una espulsione piuttosto violen­ta dei due primi dei. Forse ebbe la forza esplosiva di uno starnuto perché Shu è il dio dell'aria e la consorte Tef­niit la dea dell'umidità. La menzione del ka esige una

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spiegazione. Piu avanti tratteremo del ka o della seconda personalità dell'individuo. Il concetto eli ka ha qualcosa dell'alter ego e qualcosa dello spirito custode dalle brac­cia protettrici : ecco perché Atum getta le braccia in ge­sto di protezione attorno ai suoi due figli, perché in loro era il suo ka, come parte essenziale di lui.

Un altro testo, piu triviale, fa della procreazione eli Shii e Tefniit un atto eli masturbazione da parte eli Atum "'. Si tratta di un evidente tentativo eli superare il problema della generazione per opera di un dio solo, senza la pre­senza di una dea.

La coppia Shii e Tefniit, aria e umidità , procrearono il cielo e la terra , il clio della terra Geb e la dea del cielo Niit. Secondo un'altra versione il dio dell'aria Shii solle­vandosi scisse l'uno dall'altro cielo e terra. A loro volta Geb e Niit, terra e cielo, s'accoppiarono, procreando due coppie, il dio Osiride e la consorte Iside, il dio Seth e la consorte Nephthis, che rappresentano le creature eli que­sto mondo, siena esse umane, divine o cosmiche. Non vorrei usurpare il tempo discutendo dell'esatto significa­to originale di questi quattro esseri, dato che non posse­diamo alcun dato sicuro al riguardo.

Atum Shii-Tefnùt

Geb-Nùt Osi ride-Iside Seth-Nephthis

Questa famiglia regnante di dei d offre implicitamente una storia della creazione; Atum, il vuoto ipersaturato, si scisse nell'aria e nell'umidità, come se, nell'ipotesi del­la nebulosa, l'aria e l'umidità si fossero condensate in cielo e terra. Dalla terra e dal cielo vennero gli esseri che popolano l 'universo.

Non vogliamo qui addentrarci in altre storie della crea­zione, come quella che fa del dio stesso la « terra emer­gente » sulla quale si produsse il miracolo. È interessante notare che ci manca una narrazione specifica della crea­zione dell'umanità, se non in termini estremamente allu­sivi. Di un dio caprone, Khnoum si dice che formò l'u­manità sulla sua ruota da vasaio, e il dio solare viene chia-

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mato « scopritore dell'umanità » 21 • Ma non è necessaria una storia della distinta creazione dell'uomo, per una ra­gione che tratteremo piu ampiamente in seguito, cioè che non esisteva una linea di demarcazione ferma e definitiva fra uomini e dei. Una volta che la creazione era incomin­ciata ed erano nati degli esseri, poteva proseguire, fosse­ro quegli esseri dei, semidei, spiriti o uomini.

Uno dei testi che commenta incidentalmente la crea­zione afferma che l'umanità fu creata secondo l'immagi­ne dd dio. Il testo sottolinea la bontà dimostrata dal dio creatore nel prendere cura delle sue creature umane.

Ben curati sono gli uomini, il bestiame del dio. Egli fece il cielo e la terra secondo il loro desiderio, e ricacciò il mostro delle acque [al momento della creazione]. Fece il fiato [della] vita [per] le loro narici. Essi sono le sue immagini che sono uscite dalle sue membra. Egli sale in cielo secondo il loro desiderio. Per loro fece le piante e gli animali, gli uccelli ed i pesci, per nutrirli. Uccise i suoi nemici e distrusse [perfino] i [loro] figli quando cospirarono per ribellarglisi :u.

Il testo è interessante e inusuale nel far coincidere i fini della creazione con gli interessi degli uomini, per lo piu infatti il mito narra le fasi della creazione senza indi­cazioni teleologiche. Il testo in esame dimostra forti in­tendimenti morali; si noti il riferimento, ad esempio, al­la distruzione da parte del dio dell'umanità che gli si era ribellata. Nel prossimo capitolo torneremo su questo pa­rallelismo con la narrazione del diluvio biblico.

Ci resta ancora da esaminare un ultimo documento re­lativo alla creazione. Si tratta d'una iscrizione chiamata Teologia menfitica, un testo cosi strano e diverso da quel­lo finora trattato che sembra provenire da un altro mon­do. Tuttavia una disamina piu approfondita ci garantisce che la differenza è soltanto di grado e non di natura, poi­ché tutti gli strani elementi che vi si riscontrano si tro­vano in punti isolati di altri testi; in questo essi vengono riuniti in un ampio sistema filosofico sulla natura dell'u­niverso.

Il documento in esame è una pietra incisa che si trova al British Museum e reca il nome di un faraone che re­gnò attorno al 700 a. C. 21• Il faraone però affermava di

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essersi limitato a ricopiare un'iscrizione degli antenati, e l 'asserzione è convalidata dal linguaggio e dalle condizio­ni fisiche del testo. Stiamo prendendo in esame un docu­mento proveniente dagli albori della storia egizia, quan­do le prime dinastie stabilirono la capitale a Menfi, la città del dio Ptah. Menfi, come centro dello Stato teocra­tico, era una nuova venuta, non avendo mai avuto impor­tanza nazionale. Per peggiorare la situazione Eliopoli, la capitale religiosa tradizionale, patria del dio secolare Re e del dio creatore Re-Atum distava appena venticinque miglia da Menfi. Occorreva dare una giustificazione allo spostamento del centro del mondo? Il testo in esame fa parte di una dimostrazione teologica del primato del dio Ptah e di conseguenza della sua patria, Menfi.

I testi relativi alla creazione esaminati poco fa erano redatti in termini rigorosamente fisici : il dio separa la terra dal cielo o procrea l'aria e l'umidità. Questo nuovo testo invece si avvicina, per quanto consentito ad un egi­zio, alla concezione di una creazione in termini filosofici : un pensiero si insinua nel cuore di un dio che dandogli imperiosa voce lo trasforma in realtà. Tale creazione do­vuta alla formulazione di un pensiero seguita dalla pro­nuncia di un discorso, richiama alla concreta esperienza dell'autorità del capo, capace di creare mediante il co­mando. Ma l'unico legame fra la Teologia menfitica ed i testi precedenti è l'uso di termini fisici come « cuore » in luogo di pensiero e <( lingua » in luogo di comando. Ci avviciniamo, come ha indicato il Breasted allo sfondo sto­rico della dottrina neotestamentaria del Lago: <( In prin­cipio era il Verbo, e il Verbo era in Dio, e il Verbo era Dio )).

Prima di affrontare direttamente l'arduo testo, vorrem­mo precisare i fattori conoscibili che svolgono un ruo­lo nell'interpretazione del testo stesso. In primo luogo questo prende le mosse dai racconti della creazione che abbiamo già esposto : Atum che nasce da Nun, le acque primigenie, Atum che crea l'Enneade degli dei. Il testo menfitico mostra di sapere che queste concezioni erano prevalenti in Egitto, e invece di scartarle come concor­renti, si prefigge di assorbirle entro una filosofia piu alta,

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di trarne vantaggio dimostrando che esse appartengono ad un piu elevato sistema.

Il sistema piu elevato si vale dell'elemento dell'inven­zione come conoscenza mentale di un'idea e della pro­duzione attraverso la pronuncia di un comando creatore. Orbene il pensiero ed il linguaggio sono in Egitto antichi attributi del potere, impersonati da divinità fin dalla let­teratura arcaica. Si presentano per lo piu come una cop­pia di attributi correlativi del dio solare: Hii <• pronun­ciamento autorevole », ovvero il linguaggio efficace al punto di creare, e Sia, « percezione », conoscenza recet­tiva di una situazione di fatto, di un oggetto o di un'i­dea. Hii e Sia erano gli attributi che implicavano l'auto­rità suprema. Nei Testi delle Piramidi il dio-monarca abbandona la tomba e consegna il suo ufficio al re morto, perché questi <( ha catturato H ii e controlla Sia » ( 300 ) . Nel nostro testo menfitico questi due attributi del potere vengono resi in termini materiali : il cuore è l'organo che concepisce il pensiero e la lingua l'organo che crea una realtà fenomenica sulla base del pensiero concepito. È il dio Ptah di Menfi cui è attribuita questa attività, ed es­so è il pensiero ed il linguaggio di ogni cuore e di ogni lingua, e fu il primo principio creatore cosi come lo è oggi.

La parte del testo che ci interessa comincia coll'iden­tificare Ptah con Niin, le acque primigenie dalle quali emerse Atum, normalmente accettato come il dio creato­re, il che rende Ptah anteriore al dio solare : priorità, questa, che compare saltuariamente anche in altri testi. Ma la priorità non è presentata come un fatto implicito, anzi è chiaramente definito il meccanismo mediante il quale Ptah produsse Atum.

« Ptah il Grande è il cuore e la lingua dell'Enneade degli dei . . . che creò gli dei.. . nacque nel cuore e nacque sulla lingua [ qualcosa] nella forma di Atum ». Ecco l'in­venzione e la produzione di Atum : dal nulla nacque l'i­dea di un Atum, di un dio creatore; quell'idea « sorse, nel cuore » del mondo divino, il quale cuore - la qual mente - era lo stesso Ptah; poi l'idea <( sorse, sulla lin­gua )> del mondo divino, la quale lingua - la quale paro-

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la, era Ptah stesso. L'egizio usa un linguaggio pittorico e fisico che si esprime per ellisse : « nella-forma-di-Atum sorse, nel cuore, e sorse, sulla lingua », ma il significato è incontroverso. La concezione ed il parto stanno rac­chiuse in questi termini.

Ma il potere creativo di Ptah non si arresta alla pro­duzione del dio creatore tradizionale. « Grande e possen­te è Ptah, che ha trasmesso [ il potere a tutti gli dei ] , cos( come pure a i loro spiriti, attraverso questa [ attività del] cuore e questa [attività della] lingua ». Il principio creatore non si arresta nemmeno agli dei. « È avvenuto che il cuore e la lingua controllano [ogni] membro [ del corpo] insegnando che egli [Ptah] è in ogni corpo [nel­la forma del cuore] e in ogni bocca [nella forma della lingua] di dei, uomini, animali [ tutti ] , degli esseri che strisciano e di tutto ciò che vive, pensando [come cuo­re] e comandando [come lingua] Ptah tutto ciò che de­sidera ». In altri termini, non abbiamo un singolare mi­racolo del pensiero concepito ed articolato, bens( i prin­cipi della creazione che valsero a trarre Atum dalle acque primordiali sono tuttora validi e operanti. Ptah continua a creare dovunque ci sia pensiero e comando.

Il testo fa una distinzione inoltre fra la creazione tra­dizionale con cui Atum fece nascere Shu e Tefnut e quel­la con cui Ptah fece nascere, parlando, Shii. e Tefniit. I denti e le labbra di Ptah sono gli organi che articolano il linguaggio produttivo. Abbiamo detto prima che una delle versioni della storia di Atum fa di Shii. e Tefniit i prodotti della masturbazione del dio creatore. Cos( i denti e le labbra di Ptah formano un parallelo con il seme e le mani di Atum. Per i nostri pregiudizi moderni, ne de­riva che la creazione di Ptah è un'attività piu nobile, ma non pare che gli antichi intendessero sminuire la crea­zione piu strettamente fisica. Forse miravano semplice­mente a esprimere la corrispondenza reciproca fra miti che costituivano un'alternativa quando dicevano : « Ora l'Enneade di Atum nacque dal suo seme per opera delle sue dita; ma [quanto all'] Enneade [di Ptah] furono i denti e le labbra della sua bocca che pronunciarono il no­me di ogni cosa e [cosi] ne nacquero Shii. e Tefnii.t ».

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Abbiamo visto che dar voce ad un nome è un atto crea­tivo.

Il testo prosegue particolareggiando i prodotti dell'at­tività del cuore che concepisce e della lingua che crea, senza aggiungere alcun elemento nuovo. Spiega anche la relazione meccanicistica dei vari sensi con il cuore e con la lingua affermando che la funzione della vista, dell'udi­to e dell'olfatto dev'essere riferita al cuore. Sulla base di queste informazioni sensorie il cuore libera « tutto ciò che è completo », cioè, tutti i concetti, e poi « è la lingua che annuncia ciò che pensa il cuore >>.

In seguito il testo sunteggia le capacità creative di Ptah come cuore e lingua. Cosi nacquero gli dei, cosi nacque tutto l'ordine divino, cosi vennero stabiliti i destini che forniscono di cibi e provviste l'umanità, cosi venne trac­ciata la distinzione del giusto e dell'ingiusto, cosi furono create tutte le arti, i mestieri e le attività umane, cosi Ptah creò città e province e pose gli dei locali nei loro posti di comando. Infine : « Venne scoperto e compreso che il suo [di Ptah] potere è maggiore di quello [degli altri] dei. Cosi Ptah riposò dopo aver creato ogni cosa, insieme all'ordine divino ». Bisogna riconoscere che la pa­rola « riposò >> forma un parallelo con l'episodio del ri­poso di Dio al settimo giorno della Genesi. Invero si può difendere la tradm:ione « riposò », ma è forse piu pru­dente tradurre : <( E cosi Ptah fu soddisfatto, dopo aver creato ogni cosa » .

È ovvio che questo testo ha qualcosa di una defensio­nale, e rappresenta il tentativo di una teologia ultima ar­rivata di affermarsi come nazionale ed universale contro un pensiero piu antico e tradizionale. Questo risulta chia­ro da una citazione appena fornita, che si può parafrasare cosi: per queste ragioni tutti gli uomini di retto intellet­to sono giunti alla conclusione che Ptah è il piu potente degli dei. Il fatto che il testo offra anche codesto aspetto particolare non deve preoccuparci soverchiamente ; come abbiamo già detto, la Teologia menfitica non mirava a conquistare ed annientare la teologia eliopolitana, ma sol­tanto a conquistarla ed assimilarla. Infine ci interessa maggiormente la possibilità, che in essa si profila, di un

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pensiero speculativo sviluppato, che non la controversia fra due importanti santuarii.

Forse sarebbe opportuno definire una libera parafrasi la nostra versione delle parole <( la parola del dio » in « l'ordine divino ». Tuttavia riteniamo di doverla soste­nere : <( la parola di dio » può significare (e nel caso in esame effettivamente significa) « faccenda degli dei » ov­vero « interessi degli dei ». Ma <( l'ordine divino » signi­fica che gli dei posseggono un sistema nel quale possono situarsi tutti gli elementi creati non appena creati . Nel contesto vengono enumerati gli elementi creati : dei, for­tune, cibi , provvigioni, città, distretti ecc. , elementi che vengono sommati nel termine <( ogni cosa », al quale se­gue « e anche la parola del dio ». E che cosa può signi­ficare questo se non l'ordine direttivo?

Si può rivendicare lo stesso significato in altri testi egizi. Ad esempio l'asserzione che il giusto non viene an­nientato dalla morte ma fruisce dell'immortalità a cagio­ne del buon ricordo che si lascia dietro, viene avallato con le seguenti parole : « Questo è il metodo di calcolo della parola di dio » ; in versione piu libera : « ecco il principio dell'ordine divino )> 14•

Poiché gli Egizi consideravano la parola in termini fi­sici e concreti e poiché il clero era l'interprete del divino, questa « parola di dio » venne a identificarsi con una de­terminata letteratura, i sacri scritti, pur restando sempre l'allocuzione direttiva degli dei. Ad un nobile defunto ve­niva promesso « ogni cosa buona e pura , in conformità della trascrizione della parola del dio che fece Thot [ il dio della sapienza] )) n. In un altro passo uno scriba rim­provera un collega per l'empia presunzione delle sue van­terie : <( stupisco quando dici " Sono piu profondo come scriba del cielo, della terra e degli inferi ! " La casa dei libri è celata e invisibile; il concilio degli dei è nascosto e distante . . . Cosi ti rispondo: " Attento che le tue dita non sfiorino la parola di dio! " )) 26, Ciò che gli dei hanno detto ha in se stesso la forza di dirigere e controllare: esso pone un ordinamento entro il quale operano l'uomo e gli altri elementi dell'universo.

Cosi la « parola di dio )> non coincide semplicemente,

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So L'EGITTO

in questi testi con « la divina scrittura >> ovvero con i ge­roglifici. È la parola o l'occupazione o l'interesse degli dei che si applica agli elementi che gli dei hanno creato. Non furono creati soltanto elementi materiali, ma venne creata una « parola >> per essi, che ad essi si applicava e che li situava al loro giusto posto entro la divina gerar­chia delle cose. La creazione non fu una produzione irre­sponsabile di pezzi stranamente assortiti, distribuiti da una grossa ruota della fortuna, essa fu accompagnata e diretta da una parola che esprimeva un certo genere di ordine divino, che permetteva di comprendere gli ele­menti creati.

Riassumendo : l'antico Egitto aveva coscienza di sé e del proprio universo e concepi un cosmo in base alla pro­pria osservazione ed alla propria esperienza. Simile alla valle del Nilo, codesto cosmo era limitato nello spazio, ma dotato di un ritmo rassicurante: la sua cornice strut­turale ed il suo meccanismo permetteva un continuo rin­novamento della vita grazie all'inesauribilità delle ener­gie vitali. I racconti della creazione dovuti agli antichi egizi erano basati sulla particolare esperienza dei loro au­tori anche se mostrano qua e là una certa somiglianza con altre narrazioni del genere. Il progresso piu interessante da loro compiuto fu il tentativo assai precoce di mettere la creazione in rapporto con il pensiero e con il linguag­gio invece di attribuirla ad un'attività meramente fisica. Anche questa filosofia « piu alta )> però viene espressa in termini fantastici scaturiti dall'esperienza egizia.

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Note al Capitolo secondo.

1 CHAMPOLLION, Mon., 238-40. 2 Admon., 3, I; I, 9· 3 Wenamon, 2, 19-22. 4 Inno ad Aton, ) . ' Tombos, linea I). • Inno ad Aton, 9-Io. 7 Anast., l, I9, 2-4; 24, I·4· • Me!ikare, 9I-98. ' Med. Habu, Il, 83, linee ,7.,8. 10 Louvre, C 14, 8-xo. 11 Urk., IV, 329. 12 lbid., 373· u Inno ad Aton, 3-6. 14 lbid., ,. " BD, inno inuoduuivo. 1' Urk., IV, 612. 17 lbid. , 183, 843· 11 EnciclopediD BritDnnicD (n• ed.). '" Urk., V, 6 = BD, 17. 2o Pyr. • I248. 21 In Beatt:y, l, p. 24. 22 Merikare, 13o-34· u KURT SETHI!, DramDtische Texte zu Dltiigyptischen Mysterienspielen. 14 Peasant, Br, 307-11. 25 Cairo, 28 oS,; LACAU, SDrc. Dnt., p. 206. 26 Anast., l, n, 4-7.

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Capitolo terzo

L'EGITTO:

LA FUNZIONE DELLO STATO

L'universo e lo Stato.

I primi due capitoli hanno tentato di determinare l'at­teggiamento mentale con cui l'uomo nell'antichità affron­ta il mondo circostante. Prima di cominciare a studiare lo Stato ed il posto che esso occupava in Egitto, dobbiamo prendere in esame due problemi preliminari. L'egizio ve­deva forse una differenza essenziale fra l'uomo, la socie­tà, gli dei, le piante, gli animali e l'universo fisico? Rite­neva che l'universo fosse benevolo, ostile o indifferente nei suoi confronti? Sono quesiti che si riflettono sul rap­porto fra lo Stato e l'universo e sul funzionamento dello Stato a beneficio dell'uomo.

Affrontiamo anzitutto la questione relativa alla diffe­renza sostanziale fra uomini, dei e gli altri elementi del­l 'universo. È un problema che ha tormentato i teologi cristiani per secoli. Per ciò che concerne l'antico Egitto possiamo fornir soltanto una risposta personale. È vero che l'uomo è una cosa ed il cielo o l'albero sono un'altra, cosi almeno, pare; tuttavia per l'egizio tali concetti ave­vano una natura proteica e complementare. Il cielo po­teva essere considerato come una volta materiale inarca­ta sopra la terra, oppure come una vacca oppure come una femmina. Un albero poteva essere un albero oppu­re una donna, la dea arborea . La verità poteva essere trat­tata alla stregua di un concetto astratto, o come divinità, come divino eroe vissuto un tempo sulla terra. Un dio poteva essere rappresentato come uomo, falco, o uomo

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dalla testa di falco. In un testo il re è identificato con il sole, con una stella, con un toro, con un coccodrillo, con un leone, con un falco, con uno sciacallo, con le due di­vinità tutelati dell'Egitto - non tanto per metafora quan­to per partecipazione di essenza 1• Una sostanza omoge­nea permeava i fenomeni dell'universo, fossero essi orga­nici, inorganici o astratti. Non risalta il fatto che il nero sia il contrario del bianco bensf il fatto che l'universo è uno spettro dove un colore sfuma neii'altro senza rigide linee di separazione. In esso, anzi, ogni colore può, in determinate condizioni, trasformarsi in un altro.

Vorremmo trattare piu a fondo questo punto. Soster­remo la tesi che per l'egizio gli elementi dell'universo erano consustanziali. Una volta provata ne seguirebbe che le cose da noi meglio conosciute - quelle attinenti al comportamento umano - fornirebbero la struttura alla quale andrebbero riferiti i fenomeni extraumani. Sareb­be altresf ozioso indagare se l'universo, o gli dei dell'uni­verso fossero considerati benevoli, malevoli oppure in­differenti, visto che essi sarebbero esattamente come gli uomini : benevoli, malevoli o indifferenti a seconda del caso. Ossia, benevoli quando la benevolenza fosse la loro occupazione ufficiale, e malevoli quando la loro occupa­zione ufficiale fosse la malvagità. Questa conclusione avrebbe un diretto rapporto con gli affari di Stato e con le forze che dello Stato portavano la responsabilità.

Il primo argomento che possiamo portare a favore del­la tesi per cui gli elementi dell'universo erano di un'uni­ca sost�nza è il principio della libera sostituibilità, del­l'intercambiabilità ovvero della facoltà che ogni elemen­to ha di rappresentare un altro. Era facile che un elemento prendesse il posto di un altro. Il defunto aveva bisogno di pane per non soffrir la fame nell'oltretomba. Da vivo quindi aveva provveduto a stabilire dei contratti in base ni quali dei pani venivano portati regolarmente sulla tom­ba, affinché il suo spirito potesse tornare a mangiare. Ma era ben consapevole del carattere precario dei contratti e dell'ingordigia dei servi; pertanto provvedeva a soddi­sfare i suoi bisogni con altre specie di pane. Un model­lino in legno della forma di pane veniva lasciato nella

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tomba onde rappresentare adeguatamente il pane vero e proprio. La pittura di pani sulla parete della tomba sa­rebbe valsa a nutrire i defunti, in base al principio della rappresentazione. Se facevano difetto altri mezzi per pre­sentare il pane, la parola « pane » detta o scritta e riferi­ta al nutrimento, poteva costituire una adeguata sostitu­zione. Il concetto è facile: una volta l'uomo fisico era stato qui, adesso il defunto è di là: è necessario proiet­tare verso di lui non già il pane fisico ma il pane spiri­tuale e basta pertanto il nome e l'idea a sostituire l'og­getto reale.

Vogliamo spostare il principio della rappresentazione ad un altro settore. Un dio rappresentava qualcosa di molto importante nell'universo : il cielo, un distretto del­l 'Egitto o la regalità. La sua funzione prestava al dio i caratteri dell'intangibilità e dell'estensione. Ma poteva anche essere localizzato nel nostro mondo in un luogo dove potesse sentirsi di casa, vale a dire che gli si poteva destinare un santuario particolare, dove poteva manife­starsi in un'immagine. L'immagine non era il dio, bensi un mezzo di pietra, di legno o di metallo grazie. al quale poteva apparire. Gli Egizi lo affermano in una delle loro narrazioni della creazione. Il dio creatore agi per gli al­tri dei, e <( fece i loro corpi in conformità a ciò che pia­ceva ai loro cuori. Cosi gli dei entrarono nei loro corpi [fatti] di [ogni sorta di] legno, di sasso, di creta . . . in cui avevano preso forma » 2• Queste immagini venivano loro fomite affinché avessero un posto dove prendere una forma visibile. Cosf il dio Amon poteva trovarsi ad agio in una statua di pietra di forma umana, in un caprone od in un papero particolari. Rimaneva se stesso e non ve­niva ad identificarsi con questa forma in cui appariva, tuttavia appariva sotto forma diversa a seconda del fine di volta in volta perseguito, cosi come gli uomini pote­vano avere diverse case o indossare piu abiti diversi.

È ovvio che diamo uno sviluppo razionale all'immagi­ne od all'animale sacro concependolo come una vuota scorza della divinità fintanto che la divinità non vi pren­da forma manifesta. Tuttavia sotto un'altra luce l'imma­gine o l'animale rappresenta la divinità ed era la divinità

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stessa. Cioè : la divinità è presente nel luogo dov'essa si manifesta tutte le volte che il suo ufficio lo richiede, e questo avviene quando l'atto di adorazione dinanzi al­l'immagine la richiama in sede. Pertanto l'immagine ef­fettivamente fa le veci del dio tutte le volte che l'adora­tore le si rivolge. In questo senso l'immagine è il dio a tutti gli effetti pratici.

Non esistono altri sostituti per gli dei. Il re d'Egitto è egli stesso uno degli dei e rappresenta il paese fra gli dei. Inoltre è l'unico intermediario ufficiale fra il popolo e gli dei, l'unico sacerdote riconosciuto di tutti gli dei. Investito di divinità il faraone ha il carattere proteico della divinità, può incorporarsi con i suoi confratelli di­vini e diventare uno di essi. In parte ciò si riduce a mero simbolo, aiJa recitazione di una parte in un dramma reli­gioso o ad una figura rettorica di lode. Ma l'egizio non distingue il simbolismo e la partecipazione, se afferma che Oro è il dio, non intende dire che il re recita la parte di Oro, bensf che il re è Oro, che il dio è effettivamente presente nel corpo del re durante quella particolare atti­vità.

E come potrà il re essere il dio-re se il dio-re non è presente in lui al punto che i due facciano tutt'uno? Un testo di esaltazione del re lo identifica con una serie di divinità: « Egli è Sia », il dio della percezione; « Egli è Re », il dio sole; « Egli è Khnoum », il dio che crea l'u­manità sulla sua ruota di vasaio ; « Egli è Bastet », la dea che protegge; « Egli è Sekhmet », la dea che punisce '. Il comprendere, la regola suprema, l'incremento della popo­lazione, la protezione e la punizione sono tutti attributi del re; il re era tutte queste cose, ciascuno di codesti attributi si manifestava in un dio o in una dea, dunque il re era ciascuno di questi dei e ciascuna di queste dee.

Avanzando ancora sulla via di questa sostituzione, se il re può rappresentare un dio, è anche vero che può es­sere rappresentato da un uomo. L'ufficio monarchico pre­senta funzioni troppo particolareggiate per essere compa­tibile con il dominio assoluto di un solo individuo, sic­ché certe attività debbono essere svolte per delegazione anche se il dogma di Stato afferma che il re fa tutto. Allo

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stesso modo il dogma di Stato può anche affermare che il re è l'unico sacerdote di tutti gli dei; ma non gli è pos­sibile di officiare ogni giorno in tutti i templi sicché an­che quella attività deve essere delegata. Il principio di rappresentazione però si applica piu limitatamente : il sacerdote o il funzionario agiscono per il re, non come re. Si tratta piuttosto di una delegazione che non di una partecipazione d'essenza . La differenza esiste, ma non è assoluta. Coloro che agiscono in luogo di un altro parte­cipano in qualche misura, condividono qualcosa della personalità dell'altro. Il fatto che le tombe dei funziona­ri dell'Antico Regno sono raggruppate attorno alla pi­ramide del faraone mostra che essi avevano voluto par­tecipare alla sua gloria divina grazie al fatto che a lui appartenevano e pertanto partecipavano di lui. Apparte­nevano allo stesso spettro luminoso e godevano di una consustanzialità ultima con lui , che in parte era derivata e in parte innata. Fra il dio e l'uomo non c'era un luogo dove potesse essere eretto il termine divisorio che stabi­lisse che in quel punto la sostanza mutava cangiandosi da divina, superumana, immortale in mondana, umana, mortale.

Lo stato fluido dei concetti degli Egizi e la tendenza a sintetizzare gli elementi divergenti hanno portato certi egittologi a credere che essi fossero in realtà monoteisti e che tutti gli dei si riducessero ad uno solo . Fra poco produrremo un testo che parrebbe fornire la documenta­zione decisiva per questa tesi di un monoteismo sostan­ziale, ma vogliamo farlo precedere dall'osservazione che non vi si tratta tanto di un singolo dio quanto di una sin­gola natura dei fenomeni osservati nella natura, che apre evidentemente la possibilità di sostituzioni e scambi . Gli Egizi, per ciò che riguarda uomini e dei erano monofìsi­ti : esistevano molti uomini e molti dei ma tutti di una sola natura.

Il testo or ora citato presenta un'antica trinità egizia : i tre dei piu importanti durante un determinato momen­to storico vengono convogliati entro una divinità unica, al fine di accrescere il dio Amon incorporando nel suo essere gli altri due dei.

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« Tutti gli dei sono trini - Amon, Re e Ptah - e non hanno secondo ». Amon è il nome di questo essere trino, Re ne è la testa, e Ptah il corpo. « Solo lui è: Amon e Re [e Ptah] insieme i tre » '. Tre dei sono uno, eppure l'e­gizio in altri luoghi insiste sulla individualità separata di ciascuno.

In un altro gruppo di inni che è stato chiamato mono­teistico ' ci si rivolge al dio come ad un unico personag­gio in forma composita, Amon-Re-Atum-Herakhte, cioè i vari dei solari-supremi-nazionali fusi in uno. Il testo prosegue spezzando codesto essere nelle sue varie facce : Amon, Re, Atum, Oro e Harakhte, identificando inoltre con esso Khepri, Shii, la luna e il Nilo. Se questo sia o meno monoteistico dipende dalla definizione che si dà del termine. Potrà sembrare che stia spaccando capelli in quattro . ma noi preferiamo parlare dei principi di con­sustanzialità e di libero scambio di essenze, affermando che gli Egizi erano monofisiti e non monoteisti. Ricono­scevano l'esistenza di esseri diversi, ma li consideravano di una sola essenza, come un arcobaleno dove certi co­lori predominano in certe condizioni mentre altri predo­minavano sotto condizioni mutate. Una personalità tota­le comprende vari aspetti distinti della personalità.

Uno degli aspetti della consustanzialità sta nel fatto che gli dei egizi sono molto umani, con le debolezze e i mutevoli umori degli uomini. Non restano su un alto e coerente piano di infallibilità. Nessun dio inoltre si de­dica con unità d'intenti ad una singola funzione. Ad esempio il dio Seth è ben conosciuto come il nemico de­gli dei « buoni �> , Osiride ed Oro; pertanto Seth è il ne­mico della bontà, e, grosso modo, il diavolo. Eppure in tutta la storia egizia Seth appare anche come il dio buo­no che agisce beneficamente verso i defunti, che combat­te dalla parte del dio sole e che si adopra per accrescere lo Stato egizio. Oro, che rappresenta in tutta la storia egizia la parte del buon figliolo, si adira ad un certo mo­mento contro la madre Iside, mozzandole la testa, e co­stringendo la povera dea a prendere la forma di una sta­tua acefala • .

Gli Egizi amano l'umanità dei loro dei. Una storia ben

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nota racconta che Re, il dio creatore, si penti di aver creato l'umanità, che aveva tramato contro di lui. Decise di distruggerla e mandò Sekhmet, la « Potente », con­tro di essa. La dea trucidò l'umanità, guazzò nel sangue ed esultò della strage. Poi Re si placò e si rammaricò del suo desiderio di distruzione, ma, invece di ordinare a Sekhmet di interrompere l'eccidio, ricorse ad uno strata­gemma. Settecento vasi di birra di color rosso vennero versati sul cammino di Sekhmet, affinché ella la scam­biasse per sangue. Con gran gusto ci sguazzò dentro, se ne ubriacò e interruppe l'eccidio '. Abbiamo qui riferito questa favoletta puerile, tanto diversa, per l'assenza di una motivazione morale, dal racconto biblico del diluvio, solo per additare la meschinità cosi frequente negll dei egizi. Mutano parere, ricorrono a trucchetti per attuare i loro propositi. Tuttavia, in un altro testo possono appa­rire nobili e coerenti.

Un altro racconto, piu raffinato, riferisce di un pro­cesso dinanzi al tribunale divino. Una divinità minore si alza a insultare il dio supremo che presiede la seduta, gridando : « Il tuo santuario è vuoto ! » Allora Re-Ha­rakhte, addolorato per l'invettiva, si sdraia sulla schiena, il cuore pieno di amarezza. << Allora l'Enneade usci . . . si avviò alle tende. Cosf il grande dio trascorse un giorno sdraiato sulla schiena nel suo giardino, solo, col cuore colmo d'amarezza ». Per curare le sue paturne, gli altri dei gli mandano la dea dell'amore, che gli svela le sue attrazioni : « Allora il gran dio rise di lei e levatosi in piedi andò a risedersi con l'Enneade », ed il processo fu ripreso '. Questo è certamente un raccontino piccante d'intrattenimento, ma la caratterizzazione che essa dà de­gli dei si accorda con il quadro fornitoci da testi piu se­veri.

Se cosi umani sono gli dei, non c'è da stupire se gli uomini si rivolgono loro in termini bruschi: non sono rari i testi nei quali l'adoratore ricorda agli dei i servizi resi e minaccia coloro che non li contraccambiano. Uno dei passi piu famosi della letteratura egizia è chiamata l'Inno del cannibale, perché il defunto esprime l'inten­zione di divorare quanti incontrerà sul suo cammino,

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uomini o dei che siano. Scritto originariamente per il re morto, fu poi adottato anche dagli uomini comuni.

Si ottenebra il cielo, si oscurano le stelle... tremano le ossa del dio della terra ... quando vedono [questo morto] che appare, ani­mato, come un dio che vive dei suoi padri, che si nutre delle sue madri... colui che mangia gli uomini e si nutre degli dei... colui che mangia la loro magia e divora la loro gloria. I piu grandi gli servono per colazione, quelli di media grandezza servono per il pranzo, i piu piccoli per la cena. I vecchi e le vecchie gli servono solo da combustibile •.

Ne deriva che qualsiasi uomo è capace · di diventare tanto potente da poter consumare i piu grandi dei e, con­sumandoli, assorbirne la magia e la gloria. Ecco l 'affer­mazione piu radicale della consustanzialità del piu alto e del piu basso. Può suonare infantile, simile alle fanta­sticherie di un fanciullino che sogna di diventare Super­man, l'eroe dei fumetti e di conquistare il mondo. Ma il fanciullino non è ancora diventato adulto, e i suoi sogni possono includere la sua ascesa ad un'incredibile gran­dezza. Questa estensione del possibile per l 'egizio costi­tuisce una unica sostanza che va da lui all'immensità sco­nosciuta.

Questa affermazione che andiamo ribadendo, dell'uni­cità àella sostanza che formava l'universo degli Egizi, va­le per il lungo periodo arcaico del pensiero egizio, che si stende forse fino al 1 300 a. C. Questo concetto della consustanzialità esclude una diversità fondamentale fra uomini e dei. Circa il periodo piu tardo della storia egi­zia, però, bisogna fare qualche riserva. Come si vedrà nel capitolo seguente, ci fu un tempo in cui si approfondi la frattura fra l'uomo debole e meschino ed il dio pos­sente : allora la diversità fu sentita e i due esseri non par­teciparono piu di un'unica sostanza. Per ora ci preme non già di rilevare il mutamento susseguente bensf l'uni­tà che lo precedette.

Piu si scruta l 'ipotesi della consustanzialità, tanto piu è necessario ammettere delle eccezioni e fare delle preci­sazioni. Abbiamo già ammesso un'eccezione nel capitolo precedente, dimostrando che gli Egizi non consideravano gli stranieri come esseri della loro natura. Ne accoglie-

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remo un'altra nel corso di questo capitolo, allorquando indicheremo una diversità nella discrezionalità ammini­strativa del re , che era un dio, e dei suoi ministri, che erano uomini . Bisogna precisare se si parla di una diffe­renza qualitativa ( differenza di sostanza) ovvero quanti­tativa (gradazioni della stessa sostanza). Noi riteniamo che si tratti di una differenza quantitativa inerente alla medesima sostanza. Al contrario di noi e di altri popoli, gli Egizi consideravano l'universo come una sola sostan­za omogenea, senza una linea di demarcazione netta fra le varie parti.

Per tornare al problema dell'atteggiamento dell'uni­verso verso l'egizio, amichevole, ostile o indifferente, bi­sogna premettere che, essendoci una sostanza unica este­sa dall'uomo su su fino all'ignoto, al mondo dei morti, degli dei e degli spiriti, della natura organica e inorgani­ca, era necessario prospettare il problema stesso nei ter­mini propri al comportamento umano. Gli altri uomini ci sono amici, nemici o indifferenti? Si risponde che non sono posseduti da nessuna di codeste disposizioni in mo­do esclusivo, ma che gli esseri umani a noi interessati so­no benevoli o malevoli secondo che i loro interessi siena complementari o opposti ai nostri, e che gli esseri che non hanno alcun interesse verso di noi sono indifferenti. Il problema si sposta dunque agli interessi che muovono la forza in esame e alla particolare disposizione di quella forza ad un determinato momento. Il sole dà la vita in­sieme col calore, ma la può distruggere facendola scoppia­re, come può anche distruggerla ritirandosi e raffreddan­do. Il Nilo apporta la vita, ma un Nilo eccezionalmente pieno o basso può apportare distruzione e morte.

L'egiziano moderno si sente circondato da forze invi­sibili personificate, i ginn, ciascuno preposto ad un de­terminato fenomeno : un bimbo, un agnello, una casa, un albero, l'acqua corrente, il fuoco ecc. Taluni sono amici, altri ostili, ma i piu sono inattivi salvo se offesi, ché allo­ra diventano malevoli a meno che non se ne invochi la benevolenza. L'antico egizio aveva un sentimento analo­go del mondo di forze che lo circondava. Una madre do­veva cantare una ninnananna al bambino addormentato:

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Corri via, tu che vieni nell'oscurità l Che entri J?iano piano l Il suo naso è la sua nuca l La sua faccia rovesciata, 1 Che è turbata per ciò per cui è venuta l Sei venuta per baciare questo bimbo? l Io non permetterò che tu lo baci l Sei venuta per ammutolirlo? 1 Io non permetterò che tu lo ammutolisca. l Sei venuta per fargli dd male? l lo non permetterò che tu gli faccia del male. l Sei venuta per rapido via? l Non ti permetterò di strapparlo dalla mia mano. l L'ho munito delle protezioni contro di te con trifo­glio ... cipolle ... miele ... ••.

In una formula magica contro la malattia fra le forze maligne che possono portare il male vengono incluse « ogni benedetto maschio, ogni benedetta femmina, ogni maschio defunto, ogni femmina defunta », cioè i morti che hanno raggiunto uno stato di gloria eterna, come pu­re quelli che sono morti senza una certezza d'immor­talità ".

Comunque, nonostante questo ambiente di forze spiri­tuali incerte, la regola generale stabiliva che certi esseri avessero una funzione ed un'attività precise, ostili o ami­che. Cosf il sole aveva funzioni solitamente benefiche, cosf come il Nilo, il vento del nord, Osiride o Iside; al­trettanto note erano le funzioni pericolose o maligne del demonio Anophis, di Seth o Sekhmet. Ma data la gene­ralità di quelle funzioni, poteva rendersi necessario assi­curare una protezione ad un individuo determinato dal « buon » Osiride oppure affidare un altro individuo alla propizia attività del <� cattivo » Seth, cosf come gli uomi­ni di questo mondo hanno una molteplicità d'aspetti en­tro il loro carattere.

Se questa autorità e responsabilità inerenti alla fun­zione appaiono chiari, ne deriva che dobbiamo cercare la soluzione del problema della funzione dello Stato in quelle forze che avevano autorità sullo Stato e dello Sta­to erano responsabili. Il pensiero speculativo degli anti­chi Egizi non ci offre alcun trattato di filosofia politica o sul rapporto fra il governo e i sudditi, ma si interessa piuttosto dei poteri, delle attribuzioni e degli interessi degli dei che si occupavano in forma permanente ed in modo particolare dell'Egitto. La nostra attenzione fini­sce col convetgere su quei passi che trattano dd « dio buono » che era re d'Egitto. Impareremo meglio a deter-

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minare le funzioni dello Stato precisando gli ideali enun­ciati in fonti sparse a proposito dell'unico individuo che portasse la responsabilità del governo - il re.

Il re. L'amore degli Egizi per l'equilibrio simmetrico creò

un capo ideale nel quale si contemperavano la grazia ed il terrore, dato che il potere è nutrimento e anche control­lo. Questo equilibrio torna di continuo nei testi. Il re è « quel dio benefico, il timore del quale è in tutti i paesi come [il timore di] Sekhmet in un anno di pestilenza » u. Poemi di lode sottolineano i due aspetti del suo essere con sconcertanti e improvvisi spostamenti d'accento : « Egli esulta, il fracassatore di fronti, si che nessuno sa resistergli . . . Combatte senza riposo, senza rispanniare, e non rimane piu nulla [da distruggere] . È maestro di grazia, ricco di dolcezza, e conquista con l'amore. La sua città, lo ama piu di se stessa e gioisce piu di lui che del suo dio [locale] » ". Qui in due affermazioni vicine si af­ferma che il re conquista con compiaciute distruzioni e con cortese amore. Ci troviamo ancora una volta dinanzi ad una personalità poliedrica, uno spettro solare nel qua­le può essere accentuato l 'uno o l'altro colore. Ma qui il pensiero speculativo ha ragione di stabilire un equilibrio di forze. Il governo dev'essere grazioso ma terribile, co­me il sole ed il Nilo sono graziosi ma terribili quando mostrano l'efficacia del loro potere.

Partiamo dalla premessa che il re dell'Egitto era un dio, ed era un dio in vista dei fini dello Stato egizio. Non già che questo venga affermato in una bella formula ca­pace di far del faraone la personificazione della terra d'Egitto o di dare al potere la forma di un principio per­sonificato; però il dio supremo, Re, affidava il paese al figlio, il re. Dall'antico regno in poi, uno dei titoli del re egizio era « Figlio di Re )), Nella mitologia l'unico figlio di Re era Shii, il dio dell'aria, ma il faraone diventava fi­glio di Re allo scopo ben preciso di reggere la terra d'E­gitto, che era l'interesse piu vivo di Re. « Quanto al­l'Egitto, si afferma che [dal tempo degli] dei, essa è

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l 'unica figlia di Re, e che la figlia di Re siede sul trono di Shii » 14• Il testo accoppia la dea ed il dio (l'Egitto co­me unica figlia di Re e il faraone come figlio di Re), alla stregua delle molte coppie di fratello e sorella che si ri­scontrano fra le divinità egizie. Come si esorta nei libri sapienziali il marito a prendere cura amorosa della mo­glie, perché essa « è un campo vantaggioso per il suo si­gnore » ", cosi il re ha la proprietà, l'autorità e la respon­sabilità della terra, che egli deve controllare col potere, ma deve, anche se è saggio, nutrirla con cura.

L'egizio ribadisce sovente che il re è il figlio in senso fisico, uscito dal corpo del dio sole, Re. È bensf ricono­sciuto che egli era stato partorito da una donna su que­sta terra, ma il padre che l'aveva generato era in defini­tiva un dio. Re in persona deve garantire il giusto domi­nio divino della terra d'Egitto. Per provvedere al futuro egli spesso fa visita alla terra al fine di produrre degli eredi. Un racconto che riferisce le origini della V dina­stia descrive l'umile madre dei futuri monarchi : <( È la moglie di un prete [ ordinario] di Re, signore di Sakhe­bu, che è incinta di tre figli di Re, signore di Sakhebu, ed egli [ Re] di loro ha detto che eserciteranno il bene­fico ufficio [ di re] su tutta questa terra » '".

Anche il problema del padre terrestre, che sorge dal fatto che i re effettivamente esistono e procreano effetti­vamente figli che diventano in seguito re a loro volta, non è insuperabile. Per poter procreare, il dio supremo assume la forma del re vivente e fornisce il seme desti­nato a diventare il <( Figlio di Re ». Hatshepsiit era evi­dentemente la figlia di Thutméise I, ma il racconto della divina nascita che le permise di diventare faraone d'E­gitto dimostra che ci dovette essere nel suo caso una sostituzione e che il dio supremo Amon Re era il suo pa­dre effettivo. La regina-madre venne prescelta dagli dei e Amon la visitò mentre il re godeva ancora del vigore giovanile « [Amon prese] la forma di lui, della maestà del suo marito, il re [Thutméise l] . . . poi andò subito da lei; poi ebbe rapporto con lei . . . La maestà del dio fece con lei tutto ciò che desiderava. Le parole che Amon, si­gnore dei troni delle due terre, pronunciò in sua presen-

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za : " Ora Khenemet-Amon-Hatshepsiit è il nome della figlia che ho posto nel tuo corpo . . . essa eserciterà il be­nefico regno sull'intera terra " )) ". Sono parole che espon­gono come meglio non si potrebbe i propositi ed i me­todi divini. Il faraone è procreato dalla divinità suprema, mascherato nella forma del re, per essere un dio e regna­re sulla terra.

In questa teologia solare il re d'Egitto prende origine dal corpo del dio sole, ed alla sua morte torna al corpo del genitore. Ecco come viene esposta la morte dei faraoni : « Trentesimo anno, terzo mese della prima stagione, gior­no nove: il dio compare all'orizzonte. Il dio dell'alto e del medio Egitto, Sehetepibre, sall in cielo e si uni al di­sco solare, sicché il corpo divino si fuse in quello che l'aveva creato >> ". È questo il necessario perfezionamento dell'adesione filiale al dio supremo: dalla concezione fi­no al supremo trionfo sulla morte, il re è il « Figlio di Re ». Come vedremo un sistema filosofico opposto fa del re defunto, Osiride, il signore del regno dei morti.

La lista ufficiale dei titoli pertinenti al re d'Egitto si suddivide in tre gruppi. Abbiamo visto che si chiama fi­glio e successore del dio sole, fra poco tratteremo della sua identificazione con Oro; ora prenderemo in esame la responsabilità, che su di lui gravava, delle due parti dell'Egitto.

Fisicamente e culturalmente la terra d'Egitto è for­mata dalla stretta valle del Nilo e dal vasto Delta. L'al­to Egitto ha rapporti con il deserto e con l'Africa; il basso Egitto s'affaccia sul Mediterraneo e sull 'Asia. Da tempo immemorabile le due regioni sono ben consapevoli della loro separazione. Stando cosi vicine eppur lontane dai popoli che le circondano, si rendono conto delle loro di­versità. I vecchi testi esprimono un sentimento di con­trasto e opposizione; un uomo che aveva impulsivamente abbandonato il suo ufficio cosi dava voce al suo smarri­mento dinanzi alle forze che l'avevano indotto a quell'at­to inspiegabile : « Non so che cosa mi abbia staccato dal mio posto; era come un sogno, come se un uomo del Delta si trovasse [di colpo] ad Elefantina » ". Allora, come del resto anche oggi, i dialetti delle due regioni va-

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riavano talmente da causare equivoci. Uno scrittore inet­to veniva rimproverato con queste parole : « I tuoi rac­conti. . . quando si ascoltano appaiono confusi, e non c'è interprete che li possa spiegare ; sono come il dialogo di un uomo del Delta con un uomo di Elefantina >> ". Le due regioni erano in antico diverse e in antagonismo tradizionale e permanente. Tuttavia costituivano un'uni­tà in quanto dipendevano entrambe dal Nilo. Una delle funzioni del governo era quella di fare dell'alto e del bas­so Egitto una sola nazione, ed essa veniva svolta incorpo­rando l'autorità e la responsabilità delle due regioni in una sola figura, il dio-re.

In base ai suoi titoli ufficiali egli era Signore delle Due Terre, cioè era re dell 'alto Egitto e re del basso Egitto, colui che portava la corona simboleggiante l 'unione delle due regioni; inoltre era « Le Due Signore », cioè la fu­sione delle due dee tutelari che rappresentavano il nord ed il sud. Un titolo parallelo « I Due Signori », espri­meva il dogma per cui i due dei rivali dell'alto e del bas­so Egitto, Oro e Seth, risiedevano fisicamente e si ri­conciliavano nella persona del re. Un rito importante nell'incoronazione del re era « La Riunione delle Due Terre », una cerimonia che stava in una certa qual rela­zione con il trono di una regalità bina.

Ora, questa consapevolezza della divisione in due par­ti del paese veniva espressa sul piano amministrativo con una dualità di uffici e di funzionari. C'erano due vi­zir, due tesorieri, e spesso due capitali. Bisognava dare un riconoscimento ai bisogni distinti delle due regioni, creare una specie di autonomia amministrativa. Ma l'u­nico potere assoluto sulle due terre era quello del farao­ne, che nella sua individualità partecipava in pari misura della divinità di entrambe le regioni . E questa divisione risultò efficace: in tutti i periodi di tranquillità della sto­ria egizia un solo re dominava sulle Due Terre unite. Il dio-re era un'espressione felice dell 'unità nazionale.

Il terzo gruppo di titoli ufficiali del faraone fa di lui la personificazione del dio Oro, un falco il cui divino ter­ritorio è il cielo. Come nelle due precedenti serie di titoli, « Figlio di Re » e personificazione della divinità delle

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Due Terre, l'identificazione con Oro pare che abbia fatto del faraone il re d'Egitto. Non sappiamo con precisione quando questo fatto si produsse. E vero che i miti dico­no che Oro lottò per il regno di suo padre morto, Osiri­de, conquistandolo, e diventando cosf il dio vivente che aveva preso la successione del re morto, Osiride. Ogni re vivente era Oro e ogni re defunto Osiride. Noi moderni però vorremmo conciliare l'idea del regale Oro, figlio e successore di Osiride, con l 'idea del « Figlio di Re », suc­cessore regale del dio solare. Ma in frasi successive di un unico testo il faraone viene chiamato figlio di Osiride, uscito dal corpo di Iside, e si afferma che fu Rè a pro­creare la sua maestà " .

Ancora una volta sarà opportuno rinunciare a scindere idee che dovevano certo essere complementari e tali da accrescere la potenza del trono. Probabilmente venivano a questo modo ribaditi due aspetti diversi della divi­nità del faraone. Il titolo « Figlio di Rè » dà rilievo alla storia della sua nascita fisica come dio, mentre il titolo << Oro » davano risalto alle divine credenziali in base alle quali aveva signoria sul palazzo, come il dio che aveva ricevuto il regno dal tribunale divino. Comunque Oro domina tutta la terra e non soltanto una parte di essa. Tutti i suoi titoli ribadivano che solo un essere poteva reggere l'Egitto intero per diritto divino.

La persona divina del faraone è troppo sacra perché ci si potesse rivolgere a lui direttamente. Un ordinario mortale non parlava << al » re, bensf << in presenza del » re. Varie circonlocuzioni venivano impiegate per evitare ogni riferimento diretto al re : << Che la tua maestà possa udire », invece di << che tu possa ascoltare » , e << venne comandato » invece di « egli comandò >> . Una di queste circonlocuzioni, per-aa « La Grande Casa » diede origi­ne al nostro vocabolo, « faraone », cosf come noi usiamo dire « La Casa Bianca ha annunciato oggi . . . >>

Non si sa di preciso se questa cura nell'evitare i con­tatti verbali con la sgomentevole maestà corrispondesse ad una cura uguale nell'evitare i contatti fisici con la per­sona regale. C'è invero un racconto alquanto oscuro di un cortigiano che, toccato dal bastone di cerimonia del

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re, viene dal re rassicurato che non soffrirà alcun male in conseguenza. Il fatto di essere colpito con un bastone non basta a giustificare l'esagerazione dell'episodio al punto da inciderlo sul muro di un sepolcro. Probabil­mente la potenza della maestà era cosf terrificante da do­ver essere esorcizzata dalle parole divine 22• Forse, d'al­tronde, sopravalutiamo personalmente questo racconto, e ci è stato fatto presente che le rassicurazioni del re po­trebbero essere semplicemente delle scuse e non l'esor­cizzazione di un influsso possente. Delle scuse regali po­tevano ben essere un segno d'attenzione sufficiente a giu­stificare che venissero registrate in un sepolcro.

Un'incertezza analoga circonda quest'altro esempio. Un racconto di epoca piuttosto inoltrata ci riferisce uno scherzo alqùanto enigmatico. L'ombra del parasole di un principe straniero cade su d'un egizio, e questi è ironi­camente avvertito di stare attento perché è stato toccato dall'ombra del faraone d'Egitto. Potrebbe sembrare che una parte intima della persona regale, com'era l'ombra, fosse investita di un carattere sacro troppo intenso per­ché potesse essere avvicinato da un uomo 23• Se questo è vero, il corpo del re sarà stato pericoloso per il comune mortale. Ma il faraone doveva avere attendenti e servi addetti alla sua persona e per essi ci doveva certo essere un mezzo per scongiurare la potenza letale della maestà_ Diodoro ci informa (I , 70), che i servi del re venivano scelti fra le classi piu alte, che avessero dei legami di sangue con il sovrano; inoltre, si doveva ritenere che gli altri dei avessero i loro attendenti, destinati a soddisfare i loro bisogni piu intimi, sicché anche il re divino poteva avere dei servi sacerdotali, autorizzati ad assistere la sua persona, e quindi al riparo dal pericolo di essere annien­tati dal contatto con un dio. È significativo che l'epiteto « puro di mani » era usato tanto per i preti che serviva­no gli dei e per gli attendenti del re.

Siccome le prove dell'inavvicinabilità fisica del farao­ne sono esigue, vorremmo rilevare alcuni altri punti, seb­bene questo non ci possa portare a dirimere la questione. Alcuni individui erano ammessi alla vicinanza del re ed erano immuni dall'effetto distruttivo del sacro. Questo

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fatto era probabilmente implicito in titoli come « Unico Compagno », « Consigliere Privato della Casa del Matti­no », « Colui che sta accanto al re » (letteralmente: « sot­to la testa del re »). Alcuni favoriti erano graziosamente ammessi a baciare il piede regale, invece di baciare la terra davanti al faraone (Urk., I, 4 r ; 53 ; BAE, I, 260). Il serpente sulla fronte del re era una strega che sputava fuoco, proteggendo la persona regale dall'approccio di persone non autorizzate. Lasciamo aperta la questione se questi argomenti dieno prova o meno dell'esistenza di un dogma dell'inavvicinabilità.

Come la persona del re deve avere un voltaggio peri­colosamente alto, cosf le sue alte responsabilità implica­no conoscenze ed abilità superiori alle capacità di un uo­mo comune: come ebbe a dire uno dei suoi ministri piu importanti : « Ora sua maestà sa che cosa accade. Non c'è cosa che egli non sappia. Egli è in ogni cosa [il dio della sapienza] Thot : non c'è materia che egli non abbia compresa » ''; o come gli veniva detto dai suoi proni cor­tigiani : « Sei come Re in tutto ciò che fai. Ciò che il tuo cuore desidera si attua. Se nel cuore della notte de­sideri (attuare) un piano, all'alba tosto è concretato. Ab­biamo visto una serie di meraviglie tue dal momento in cui apparisti come re delle Due Terre. Non possiamo udire, né i nostri occhi vedono [come ciò accada] eppu­re dovunque [le cose] si avverano » ". Era questo un tratto superumano, il segreto accuratamente tutelato del­la regalità. In tempi in cui lo Stato era stato travolto e in cui il potere si era disgregato nell'anarchia, si credeva che appunto la divulgazione di tale segreto avesse reso possibile il frantumarsi del divino potere: « Ecco che si è giunti ad [un punto in cui] la terra è spogliata della regalità da poche persone irresponsabili . . . Ecco, il segre­to del paese, i cui limiti sono sconosciuti, è divulgato, sicché la residenza [del re] nello spazio di un'ora viene rovesciata . . . I segreti dei re dell'alto e del basso Egitto sono stati divulgati » �.�.

Noi moderni, d'abito analitico, consideriamo le dot­trine della divinità, della maestà dalla potenza letale, ed il mistero del re d'Egitto come semplici espedienti pro-

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LA FUNZIONE DELLO STATO 99 pagandistici volti ad accreditare la figura d'un uomo che era unico responsabile per lo Stato. Ma non possiamo scartarle per questo : avevano la realtà innata in un suc­cesso protratto, erano reali nell'antico Egitto quanto nel tempio di Salomone a Gerusalemme - o come nel Giap­pone moderno.

Questo dio-re egizio era un essere solitario. Stava solo e segregato fra gli uomini e gli dei. I testi e le scene della vita dànno spicco a questa solitaria responsabilità. Le scene che si svolgono nei templi lo mostrano unico sacer­dote nelle cerimonie che si svolgono a cospetto degli dei. Un inno dedicato ad un dio dice : « Nessuno ti conosce tranne tuo figlio, [il re] , al quale dài conoscenza dei tuoi piani e del tuo potere �> 11• Era il re che costruiva templi e città, che vinceva le battaglie, faceva le leggi, che perce­piva le tasse, o che provvedeva il bottino per le tombe dei suoi nobili. II fatto che il faraone potesse anche non aver avuto notizia di una battaglia fino al momento in cui ne veniva fatto rapporto alla corte non scalfiva la te­si: il mito letterario e pittorico della potenza dell'Egitto imponeva di mostrarlo nell'atto di sconfiggere il nemico da solo. L'egizio di una città di provincia poteva anche stringere un contratto relativo all'approvvigionamento della sua tomba dopo la sua morte, e il faraone poteva anche non avere alcuna parte in quella stipulazione, tut­tavia nel quadro secolare delle attività funebri i beni sa­rebbero venuti pur sempre come <( offerta donata dal re », segno di regale favore.

Soltanto gli dei nazionali potevano intervenire negli affari di Stato; il dio solare poteva chiedere al re di ripu­lire dalla polvere la sfinge, o Amon incaricare il re di in­traprendere una campagna contro i Libi. Altrimenti il faraone era lui stesso un dio nazionale, designato a svol­gere le funzioni statuali.

Poiché ci è possibile penetrare sotto le bardature della divinità e scorgere il cuore umano del faraone, riusciamo a provare simpatia per la sua condizione di solitario am­ministratore. Mentre agli altri dei era dato di evadere per qualche tempo in regni estranei a questo mondo, egli era, fra gli dei, quello che doveva vivere la sua vita soli-

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taria circondato da uomini, che potevano perfino osare, fatti forti dalla quotidiana intimità, intromettersi nella sua onniscienza e onnipotenza. Un vecchio re lasciò uno stanco avvertimento al figlio e successore :

Sei apparso come un dio, ascolta ciò che ho da dirti, affinché tu possa essere re della terra e padrone delle sponde del fiume, s( che tu possa ottenere il bene in abbondanza. Raccogliti in te stesso contro i tuoi subordinati, affinché non si avverino impensa­bili orrori. Non accostarti a loro nella tua solitudine. Non colmare il tuo cuore [dell'amore] per un fratello, non conoscere amico, non crearti degli intimi - tutto ciò non porta a esiti [felici] . .. Diedi al povero ed allevai l'orfano ... [ma] fu costui a mangiare il mio cibo ed a sollevare le mie truppe [contro di me] ... e coloro che erano vestiti del mio bisso mi guardarono come se fossi er­baccia secca ,. .

La pena che si doveva scontare per essere un dio era la distanza, propria della divinità, dal mondo umano. Gli dei l'avevano mandato a curare l'umanità, ma egli non apparteneva all'umanità.

È questo forse il quadro piu esatto del buon re egizio, che doveva essere il pastore del suo gregge . Le funzioni dello Stato erano la proprietà, il controllo, la direzione, la disciplina e la difesa, ma anche la cura, il nutrimento, il riparo e l'accrescimento della popolazione. Colui che deteneva l'autorità sul popolo in virru di un mandato di­vino era il pastore che lo dirigeva ai verdi pascoli, che combatteva per assicurare ad esso nuovi pascoli, ricaccia­va le belve voraci che l'attaccavano, percuoteva i capi che erravano fuor del gregge aiutando i deboli ad avanzare.

I testi egizi si valgono della stessa immagine. Uno dei faraoni dichiarò le ragioni che avevano fatto di lui il si­gnore : « Mi fece pastore della sua terra, poiché vide che io gliel'avrei tenuta in ordine; mi affidò ciò che protegge­va )) ''. In un'epoca di sciagura, gli uomini si affisavano nel re ideale del futuro: « È il pastore di tutti, senza traccia di male nel suo cuore. Il suo gregge potrà essere decimato, ma egli passerà la sua giornata curandolo » '". Altrove il re viene chiamato « il buon pastore, oculato nel sorvegliare tutta l'umanità, il suo creatore l'ha sotto la sua sorveglianza )> " . Il dio solare « lo designava pasto­re della sua terra, per tenere in vita il popolo, vegliando

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la notte come il giorno, per scoprire l'azione benefica, per studiare le possibilità di rendersi utile » 32, L'antichità di questo concetto del re ci si svela dal fatto che il pasto­rale è una delle insegne piu antiche del faraone e sta al­l 'origine di una delle parole che significano « dominare ».

Il concetto del re-pastore ha il suo polo negativo nella conseguenza che gli uomini non sono che bestiame, og­getti di proprietà posti su un gradino piu basso dell'esi­stenza. Questo aspetto non viene mai enunciato perché essendo il faraone considerato Signore o Possessore delle Due Terre, senza possibilità di discussioni, i testi si oc­cupano naturalmente piuttosto del buon esercizio della proprietà piuttosto che della proprietà stessa. Ad esem­pio c'è un lungo racconto che narra di un torto fatto ad un contadino e delle proteste di costui contro gli ammi­nistratori della giustizia, che dovrebbero assumere un atteggiamento costruttivo e non passivo verso coloro che a loro si rivolgono. Bisogna rinnegare certe espres­sioni abituali dell'indifferenza verso le sorti degli uomini comuni; ad esempio il proverbio « Il nome del povero viene pronunciato solo in grazia del padrone », viene ci­tato come un esempio dell'ingiustizia contro la quale sta lottando il contadino n. Un magistrato è sollecitato da altri funzionari a non intervenire a favore del contadino, perché questi ha scavalcato il suo padrone diretto : « Non disturbare l'esercizio dei normali poteri disciplinari di un padrone », <( rifletti che questo è ciò che essi [nor­malmente] fanno ai contadini che si rivolgono ad altri piuttosto che a loro »; l'amministrazione della giustizia non deve immischiarsi nell'esercizio della proprietà ". In questo testo, alla fine viene attuata la giustizia, e que­sto è caratteristico, dato che gli Egizi rifiutarono sempre l'angusta teoria secondo la quale il proprietario non in­corre in responsabilità nell'esercizio del suo diritto. Il polo positivo è il dovere del pastore di nutrire ed accre­scere le sue greggi.

Il pastore è in primo luogo il <( nutritore », e la pri­ma responsabilità dello Stato è quella di provvedere alla nutrizione del popolo. Cosi il re d'Egitto è il dio che portava la fertilità all'Egitto, producendo le acque da-

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triei di vita e presentando agli dei il covone di grano che simboleggiava l'abbondanza. Una delle funzioni essen­ziali della regalità è quella del medicone che garantisce con la magia le buone messi. In una delle cerimonie re­gali il faraone circondava quattro volte un campo per conferire ritualmente la fertilità alla terra ''. Controllava l'acqua che dava vita all'Egitto e lo rendeva fertile. « Il Nilo è al suo servizio, ed egli ne apre la caverna per dar vita all'Egitto » ". Come gli dissero i suoi cortigiani: « Se tu stesso ti rivolgi al tuo padre Nilo, padre degli dei con le parole : " Fa' che l'acqua scorra sulle montagne! " ; Egli agirà secondo le tue parole » 37•

Come il faraone controllava l'acqua del Nilo, cosi !ar­giva le piogge ai paesi stranieri. Un testo fa dire ad un re ittita che il suo paese dovrà aprire parlamentari col faraone, perché « se il dio non accetta la sua offerta, esso non vede le acque del cielo, poiché è in potere del re d'Egitto » 11• Il faraone stesso era un poco piu modesto, non posava a datore di pioggia per le terre straniere ma come intercessore di piogge presso gli dei. Pensando ad un'ambasceria che aveva mandato in Siria ed in Anatolia,

sua maestà prese consiglio con il suo cuore: « Che sarà di coloro che ho inviato, che debbono recarsi in missione a Djahi nei giorni di pioggia e di neve che giungono nell'inverno? » Allora fece un'offerta al padre [il dio Seth] ; e pregando disse: « Il cielo è nelle tue mani, e la terra sono i tuoi piedi. . . [ che tu possa] ritar­dare la pioggia ed il vento del nord e la neve fino al momento in cui mi giungano le meraviglie che mi hai assegnato! » . . . Allora suo padre Seth udi ogni parola e i cieli furono sereni, e vennero per [lui] i giorni estivi ''·

Tutta la parte della natura che aveva rapporto con la prosperità dell'Egitto era sotto il giogo del faraone, che era il signore « della dolce brezza », il vento fresco che spirava dal Mediterraneo, rendendo abitabile l'Egitto '". Anzi, come arei-mago controllava la luna e le stelle, sic­ché i mesi, i giorni, e le ore si succ�devano con uguali cadenze. Un inno di gioia per l'accessione al trono dei nuovi re dice:

Sia lieta di cuore, l'intera terra, poiché i giorni buoni sono ar­rivati. È stato dato un signore a tutte le terre . .. Le acque si gon-

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fiano e non si disseccano, il Nilo porta una gran [piena] . [Ora] i giorni sono lunghi, le notti hanno ore, e le lune sorgono normal­mente. Gli dei sono sereni e lieti di cuore, le genti vivono fra risa e stupori 41•

Le dottrine ed i riti sempre ripetuti facevano del fa­raone il dio che assegnava all'Egitto i suoi periodi e le sue stagioni, che portava le acque copiose e dava i rac­colti fertili.

C'era in pratica una giustificazione amministrativa del dogma che faceva del faraone un dio delle acque e dei campi. Pare che il governo centrale mantenesse istitu­zioni nazionali di astronomia e di cronologia, per quanto non ce ne sia una prova esauriente. Citiamo un docu­mento a favore della tesi, una sbarra d'avorio nero rac­colta nel museo dell'Orientai Institute dell'Università di Chicago, che fa parte di un apparecchio astronomico per registrare i movimenti stellari, sul quale è iscritto il no­me di Tutankhamon. Non possiamo appurare se si trat­tasse di un diporto regale o se l'osservazione dei corpi celesti fosse una funzione della regalità. Possiamo affer­mare comunque che il dogma della responsabilità del fa­raone per il cibo, l'acqua e le stagioni trovava espres­sione concreta nel funzionamento degli uffici del governo regio.

Diodoro tratteggia un quadro tremendo del re d'E­gitto, schiavo dei regolamenti che ne controllavano ogni ora ed ogni atto. « Le ore del giorno e della notte erano calcolate secondo un piano, ed alle ore prestabilite era perentoriamente necessario che il re facesse ciò che le leggi esigevano e non ciò che a lui pareva meglio )) (l , 70-7 I ) . Diodoro prosegue dicendo che questi regolamen­ti si estendevano non solo agli atti amministrativi del re, ma anche alla sua facoltà di fare una passeggiata, di prendere un bagno, o perfino di dormire con sua moglie. Non gli era concessa alcuna iniziativa personale nelle sue funzioni di governo ma doveva agire in conformità alle leggi vigenti. Diodoro sottolinea che gli ultimi faraoni erano perfettamente felici in questa stretta camicia di forza delle prescrizioni, ritenendo essi che gli uomini i quali seguivano le loro emozioni naturali cadessero in

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errore, mentre i re, dipendendo rigidamente dalla legge, venivano esentati da ogni responsabilità per i loro sbagli.

Il re vuoto e arido di Diodoro ha un parallelo nel quadro desolato che Erodoto (II, 3ì) fornisce della re­ligione egizia, quando dice che gli Egizi erano piu reli­giosi di qualsiasi altra nazione - e usa la parola theose­bes : timorati di Dio. Ne risulta che Erodoto affermava che erano servilmente devoti al rituale, scrupolosissimi della purezza rituale e delle forme preordinate, ma senza alcun segno di spiritualità o di un'etica operante.

Nel prossimo capitolo vorremmo fare una distinzione fra un periodo primitivo ed uno piu tardo della storia dell'Egitto antico. Nel periodo primitivo dominava uno spirito di conformismo ai precetti, ma stava all'individuo di mostrarsi degno con le sue azioni e con l'esercizio del­la sua libertà di scelta entro la legge generale. Nel pe­riodo piu tardo lo spirito era diventato esclusivamente conformista e l'individuo doveva mostrare pazienza ed umiltà nel seguire ciò che gli dei avevano predisposto. Riteniamo che Diodoro ed Erodoto esponessero un co­stume ed uno spirito che non erano normali nell'Egitto di cui abbiamo trattato in questo capitolo. Ai loro tempi dominava uno spirito portato a ritrarsi negli usi consa­crati dal tempo, mentre la temperie dei tempi anteriori era quella di una libertà d'iniziativa privata entro il qua­dro generale della legge umana e di quello che abbiamo chiamato « l 'ordine divino ».

I primi re d'Egitto, nel periodo in cui la cultura si sviluppava come fatto nazionale, erano spinti a espri­mere la loro individualità come un settore della legge umana e dell'ordine divino a cui essi appartenevano. In questa prima fase viene accentuata la giustizia personale piuttosto che la legge impersonale. Nel prossimo capi­tolo, dedicato all'esame dei « valori della vita » tratte­remo del concetto di giustizia; per ora il lettore dovrà accettare come dato che il vocabolo ma' a t significa giu­stizia, uno degli attributi essenziali dello stato egizio e che tale giustizia non pare venisse codificata o fissata da precedenti giurisprudenziali, ma piuttosto era espressa soltanto dalla rettitudine cui erano ispirate le azioni ver-

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so le persone e nei confronti delle varie situazioni. Il capo che amministrava la giustizia veniva esortato ad amministrarla in relazione ai bisogni, e a dare addirittura piu del dovuto. Lo Stato doveva pertanto prendere l'i­niziativa, agendo in modo da far fronte ai bisogni della nazione.

Limiteremo la nostra dimostrazione di codesta tesi del carattere personale e flessibile - paternalistico, se si vuole - del governo, salvo per dare qualche esempio di proteste contro la non-giustizia impersonale. Il contadi­no che abbiamo menzionato, in lotta contro l'ingiustizia, non si sottometteva umilmente al potere del magistrato, anzi gridava amaramente : « Allora il figlio di Meru con­tinua a errare ! » e proseguiva con una serie di amareg­giate accuse contro la mancanza di criteri dell'alto fun­zionario, che era come una città priva di sindaco o una nave senza comandante ". Cosf Ramses II abbandonato in battaglia dal dio Amon gridò : « Che cos'hai, padre Amon! Ha il padre dimenticato il figlio? Ho forse fatto mai qualcosa senza di te? », continuando poi a elencare i benefici da lui recati al dio, degni di un miglior com­penso ". Manca ogni traccia di rassegnazione al destino o ai piani imperscrutabili degli dei, anzi vibra il senti­mento indignato che il merito personale doveva essere ricompensato. Sarebbe facile accumulare gli esempi trat­ti da questo primo periodo della storia egizia a dimostra­re che i capi non operavano entro il meccanismo della legge e della consuetudine, ma come individui liberi.

Certamente esisteva uno schema preordinato a cui il re ideale doveva adeguarsi ed esistevano dei precedenti radicati nel tempo: vogliamo esaminare alcuni dei pre­cetti fissati per il buon capo. Egli dev'essere un contem­peramento d'amore e di terrore, che agli Egizi appaiono colori complementari dello stesso spettro solare. Il buon governo era paternalistico ed il principio del controllo disciplinare era oggetto di devozione, il che è meno stra­no di quanto possa sembrare ad una generazione dedita ad una pedagogia progressiva. La parola egizia « insegna­re » significa anche « punire », come il nostro vocabolo « disciplina », e si riteneva che « il Signore castiga colui

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che ama ». Le componenti del buon governo erano l'au­torità di origine divina e la divina magnanimità.

Nel capitolo precedente abbiamo esaminato il testo del­la Teologia menfìtica, nel quale i principi creativi perma­nenti sono il cuore che concepiva il pensiero e la lingua che dà l'ordine. Abbiamo menzionato una coppia di at­tributi fra loro correlati del dio solare, che sono essi stes­si personificati come divinità : Hu << pronunciamento au­torevole » ovvero l'allocuzione di comando che attua una situazione, e Sia, « percezione », la ricezione conoscitiva di un oggetto, di un'idea o di una situazione. Queste sono qualità divine, la percezione di qualcosa entro una struttura di termini integrativi e costruttivi e la parola di comando che crea qualcosa di nuovo.

Le due qualità non appartenevano esclusivamente al dio solare, ma anche al re. Al faraone si diceva : << La pa­rola di comando è invero ciò che è sulla tua bocca, e la percezione [è ciò che] è nel [ tuo cuore] » ... Si possono citare altri due testi nei quali queste due qualità del di­scernimento e del comando vengono poste come caratteri essenziali della regalità 'S, ma ci interessa piuttosto il fat­to che taluni testi aggiungano un terzo membro alla com­binazione delle qualità indispensabili a un sovrano. Nei due passi : « la parola di comando, la percezione e la giu­stizia sono con te » .. e << la parola di comando è sulla tua bocca, la percezione è nel tuo cuore, e la tua lingua è il ricettacolo della giustizia �' u, la parola ma' a t, « giusti­zia » o « rettitudine » o « verità », è aggiunta a significa­re il controllo morale che deve accompagnare l'intelli­genza e l'autorità.

La giustizia era la qualità che accompagnava il re al trono. In tempi di disordine nella nazione, si profetizza che sarebbe sorto un re ad unire le Due Terre, « e la giu­stizia occuperà il suo posto e l'ingiustizia verrà caccia­ta » 41• Un poeta, rallegrandosi dell'accessione d'un nuovo re, esclama : « La giustizia ha bandito l'inganno ! » " , una perfezione naturale, come indicano le parole che seguo­no : « e la normalità è ritornata al suo posto » 50• Ogni giorno il re offriva la giustizia al dio, presentando sim­bolicamente il geroglifico della dea Ma' a t, « Verità » o

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« Giustizia ». Grazie a codesta offerta rituale giornalier'l la giustizia tendeva effettivamente a diventare una mera formalità, che si poteva soddisfare conformandosi lette­ralmente alla legge o al rituale.

Ma viene anche ribadito che la giustizia è qualcosa di piu positivo del neutro conformismo e che essa consiste nel fare piu di quanto è necessario. La piu lunga disser­tazione sulla giustizia pone il diritto divino come equa­zione della giustizia e della bontà: « ma la giustizia [ du­ra] sempre e segue colui che la pratica fin nella necropoli. Quando egli è sepolto e unito alla terra, il suo nome non viene cancellato sulla terra, ma viene ricordato per la sua bontà. Questo è un principio dell'ordine divino » 51• Lo scrittore mette la giustizia in rapporto alla regola aurea che ingiunge di fare agli altri ciò che si può aspettare da loro. « Fa' all'altro affinché egli faccia [a te] . Questo si­gnifica ringraziarlo per ciò che potrebbe fare ; è un modo per pareggiare ciò che deve ancora prodursi » 52• Esten­dendo codesto pensiero, lo scrittore rifiuta l'ingiustizia di un mero adempimento dello stretto dovere, come nel ca­so del traghettatore che esige il pagamento prima di tra­sportare oltre il corso d'acqua i passeggeri. Rivolgendosi al magistrato indifferente, dice : « Ecco, sei un traghetta­tore che trasporta soltanto colui che possiede il nolo, un uomo retto la cui rettitudine è tarpata » 53• Un governo cosi impersonale, privo di paterna benevolenza, è in real­tà una mancanza di governo: « Ecco, sei una città senza sindaco . . . una nave senza capitano, una compagnia sen­za il suo comandante » ,._ I testi insistono sull'obbligo del governante di dare secondo i bisogni e non sulla base di un quid pro quo. I tre attributi principali del governo sono l'intelligente percezione delle situazioni, l'abilità nel comandare con autorità, e l'autentica giustizia compren­deva la clemenza.

Forse potremmo valerci di un unico testo per sintetiz­zare la combinazione di benevolenza e di forza imperso­nata dal re: l'istruzione che un alto ufficiale lasciò ai suoi figli " :

Adorate Qntro i vostri corpi i l re Nemaatre, eternamente vi· vente, e associate la sua maestà ai vostri cuori. Egli è la perce·

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zione che è nei vostri cuori, poiché i suoi occhi scrutano tutti i corpi. Egli è Re, grazie ai cui raggi vediamo, è colui che rende le Due Terre piu luminose di [quanto faccia] il disco solare. t colui che rende la terra piu verde [di quanto faccia] una piena del Nilo. [Pertanto] ha colmato le Due Terre di forza e di vita. Gelano le narici se egli s'incollerisce e perciò egli rimane paci­fico affinché l'aria sia respirabile. Dà cibo a coloro che lo seguono e rifornisce colui che calca il suo sentiero. Il re è il ka e la sua bocca è l'abbondanza. Ciò significa che egli fa nascere ciò che deve essere.

L'equazione del re e del ka come forza costruttiva e approvvigionante ha bisogno di un breve commento. Il ka è una parte staccata della personalità che prepara i piani e agisce per la parte restante della persona. Pittori­camente il ka è rnffigurato come due braccia sollevate a chiedere aiuto e protezione. Nasce con l'individuo come un gemello ad esso identico e l 'accompagna nella vita come forza sostenitrice e costruttiva, precedendolo nella morte per preparargli un'esistenza felice nell'al di là. È difficile tradurre concisamente codesto concetto, per quanto ci piaccia il termine di <( forza vitale » che taluno ha usato. In altri passi il re è chiamato <( Il buon ka che rende festose le Due Terre e colma i bisogni di tutto il paese » ". Il sovrano è quindi visto come la forza vitale dell'Egitto, suo creatore e sostentatore.

Ripigliando il nostro testo : « Egli è [il dio plasmato­re] Khnoum per tutti i corpi, il creatore che fa nascere la gente. Egli è [ la dea benevola] Bastet, che protegge le Due Terre; [ ma ] colui che lo adorerà sfuggirà al suo braccio. Egli è [la dea punitrice] Sekhmet per colui che trasgredisce i suoi ordini; [ma] è mite verso colui che pe­na >» . In queste ultime due equazioni troviamo quel ca­ratteristico equilibrio fra la protezione e la forza, fra la punizione e la magnanimità. Il testo conclude ricordando che la lealtà al re significa vita e successo, la slealtà signi­fica l'estinzione. « Lotta per il suo nome; sii puro per la sua vita; e sarai libero da [ogni] traccia di peccato. Co­lui che il re ha ama t o sarà [uno spirito] riverito, ma non c'è tomba per colui che si ribella alla sua maestà; il suo corpo verrà gettato nell'acqua. Se farete queste cose i

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vostri corpi saranno sani. [Cosi] staranno le cose in eterno ».

Se da un lato si intima al sovrano di accostarsi al polo positivo della giustizia, dall'altro lo si esorta ad allonta­narsi dal polo negativo dell'uso arbitrario dell'autorità. La punizione delle infrazioni alle norme è certamente ne­cessaria, ma è altresf necessario temperare l'esercizio del­la forza preservandolo dagli eccessi. « Attento a non pu­nire ingiustamente. Non trucidare, questo non va a tuo vantaggio; punisci invece con vergate e arresti. Cosi que­sto paese sarà [bene] assestato ». L'unico delitto che me­riti la morte è il tradimento contro lo Stato « L'eccezione è costituita dal ribelle, quando i suoi piani sono scoperti, poiché il re conosce il cuore infido, ed il dio abbatte i suoi peccati nel sangue >) 51•

I funzionari del re.

Il passo riportato definisce gli ideali del buon governo cosi come apparivano impersonifìcati dal re. Solo le pro­teste rivelano che in pratica il re doveva delegare l'auto­rità ed il governo ad altri e che lo sviluppo dello Stato portava ad una burocrazia venale e abbarbicata ai suoi privilegi. Potremmo anche passare sotto silenzio questo aspetto, dato che questo capitolo è dedicato alla funzione dello Stato cosi come è formulata nelle speculazioni de­gli uomini, e dato che la molteplicità delle funzioni è sin­tetizzata negli ideali ai quali si doveva conformare il buon sovrano. Ma non sarebbe giusto dare l'impressione che gli Egizi fossero tanto preoccupati dalle questioni di prin­cipio da metterle in pratica con successo. Il governo ve­niva costantemente frantumato nelle funzioni subordina­te e nella pluralità dei funzionari, al punto che i burocrati minori erano lontanissimi dal re divino nel quale erano incorporati i principi del buongoverno.

In un paese dove gli uffici si moltiplicano fino a esclu­dere la responsabilità personale, occupare un ufficio di­venta una sinecura che offre la possibilità di grossi pro­fitti che pertanto diventano lo scopo principale. Abbiamo

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parecchi documenti nei quali si esorta il giovane a diven­tare scriba o funzionario perché si tratta di un lavoro ri­spettabile, pulito e facile. « Metti la scrittura nel tuo cuo­re, si da proteggere la tua persona da ogni [sorta di] fa­tiche, si da diventare un funzionario rispettabile » ". Le altre attività sono pesanti e faticose : « lo scriba, invece, è colui che dirige l'opera di [ogni] altro. Paga le impo­ste scrivendo, sicché non ha obblighi [veri e propri] » 59•

Al disprezzo delle responsabilità, implicito in codeste dichiarazioni, va unita la convinzione che l'ufficio debba offrire l'opportunità di guadagni segreti. Ci viene data una commovente descrizione del povero gettato nell'ambien­te dei tribunali senza un garante; il tribunale lo schiaccia ed egli ode il grido: « Argento e oro per gli impiegati del tribunale ! Vesti per gli uscieri ! » '". Messo in una tale situazione ben può esclamare : « Sfruttatori ! Ladri! Sac­cheggiatori ! funzionari! - e tuttavia posti in ufficio al fi­ne di punire il male ! Gli uffici pubblici sono il rifugio dell'arrogante - eppure egli è posto in ufficio per punire la falsità ! » ". Soffocato dai funzionari cinici e corrotti il cittadino ordinario si lamenta: << La terra è scemata ma i suoi reggitori sono aumentati di numero. [La terra è] nuda, ma le imposte sono pesanti. Il grano è scarso ma la misura del grano è abbondante e viene usata senza cri­terio (dai collettori delle imposte) >> "'.

Naturalmente si esagera da una parte e dall'altra, il quadro ideale del governo della giustizia non si tradusse mai nella realtà, e la corruzione della classe dominante variò da un'epoca all'altra e da funzionario a funzionario. L'Egitto non fu mai solamente nobile o solamente corrot­to. La definizione della giustizia e il conflitto fra una giu­stizia morale e l'uso arbitrario dell'autorità erano que­stioni sempre aperte.

Ci riesce sovente arduo accertare se le proteste contro la corruzione si basino su alti sentimenti morali o nasca­no da ragioni politiche, ad esempio da attacchi di coloro che restano esclusi dal potere contro coloro che lo deten­gono. Ad esempio un funzionario egizio denuncia i furti alle tombe della ventesima dinastia (nei quali gli alti am­ministratori non lucrarono poco). Il funzionario che pro-

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testa è mosso da una indignazione sincera per la profana­zione dei sacri beni e per la cinica complicità dei suoi colleghi? O non si tratta piuttosto di uno che non era riuscito a profittare dell'affare e allora tenta di <( mettere in difficoltà la banda » 63? La rivoluzione di Akhnaton, ispirata da alti sentimenti, contro il dominio totalitario dei vecchi dei imperiali - una rivoluzione che si valeva della parola d'ordine ma' at, « giustizia >> - fu in realtà una protesta morale contro l'abuso del potere oppure sempli­cemente una mossa politica per far acquistare il potere ad un nuovo partito? Non possiamo dare una risposta definitiva a codesti interrogativi; la situazione sfuggirà sempre ad un'analisi semplice ed arbitraria e le nostre ri­sposte possono essere influenzate da pregiudizi personali. Io ad esempio sono un romantico incurabile e di natura caritatevole; sia che le ragioni politiche vi avessero parte sia che no, credo che gli uomini in questione fossero ef­fettivamente pervasi da una giusta indignazione contro gli abusi. L'ordine divino che faceva tutt'uno dell'uomo e degli dei esigeva che gli uomini avessero in sé qualcosa di divino. E la giustizia era il nutrimento degli dei .

Poiché la dottrina ufficiale faceva tutt'uno del re e del­lo Stato e poiché il re doveva delegare ad altri la sua au­torità e le sue responsabilità, sarà istruttivo esaminare le parole con le quali delegava il potere ad uno dei massimi funzionari, il visir. Tali parole erano la formulazione dei principi di governo, salvo che l'autorità delegata fa con­vergere l'attenzione sul « come » si governa piuttosto che sul <( perché » si governa: l'esercizio del potere si svolge­rà nell'ambito della legge e dei precedenti piuttosto che della giustizia discrezionale e particolare. Per il magistra­to la legge e la giustizia possono anche coincidere.

Comunque il visir era posto abbastanza in alto da po­ter usare talvolta del suo potere discrezionale, e ci resta­no prove del fatto che spesso i visir suonavano a orecchio piuttosto che seguendo lo spartito. Questa è per lo meno la nostra interpretazione del <( governare il paese con le dita >>. Il testo cui ci riferiamo è un inno al dio Amon-Re nella sua qualità di magistrato al quale si possono rivol­gere i poveri e gli inermi. « Amon-Re . . . o visir del pove-

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ro! Non accetta un'ingiusta mercede; non parla [ solo] a colui che può produrre testimoni; non presta attenzione [solo] a colui che fa promesse. [No ] , Amon giudica la terra con le sue dita; le sue parole appartengono al cuo­re. Separa l'ingiusto e lo affida al luogo fiammeggiante, ma il giusto lo affida all'occidente » ... Lo schema divino cui si rifà l'operare del magistrato tende piuttosto ad at­tuare la giustizia ed a soddisfare i bisogni che alla mera tutela della legge e dei diritti di proprietà.

Quando il re investiva il visir del suo ufficio, faceva alcune raccomandazioni sullo spirito del governo, come cosa distinta dalla pratica amministrativa.

« Bada a codesto ufficio di visir; sii vigile riguardo a [ tutto] ciò che vi si compie. Attento che è il pilastro di tutto il paese. L'ufficio di visir non è dolce, bada - anzi è amaro . . . bada che non significa prestare attenzione [sol­tanto] ai funzionari ed ai consiglieri, né nel fare di cia­scun [sottoposto] . . . Perciò vedi che tutto si svolga in conformità alla legge e che tutto avvenga secondo i pre­cedenti dando a ciascuno il suo ». La ragione che viene data per la necessità di conformarsi alla legge ed ai pre­cedenti è l'impossibilità per il pubblico ufficiale di sfug­gire alla pubblicità delle sue azioni. « Osserva, le acque e i venti riportano tutto ciò che fa il funzionario sempre esposto alla vista del pubblico; quindi bada che le sue azioni non possono essere ignorate... Orbene il rifugio del funzionario sta nell'agire in conformità ai regolamen­ti, cioè nel fare ciò [che è contenuto] in un ti t o lo esecu­tivo dell'attore . . . » " .

Fin qui non è stata fornita una motivazione morale delle istruzioni. n visir è esposto all'attenzione pubblica e l'« amarezza » del suo ufficio consiste nella necessità di applicare rigidamente la legge. Il passo che segue mostra un'uguale austerità, per quanto si sottolinei piuttosto a questo punto la necessità di agire secondo una tetrago­na equità nell'amministrazione della giustizia. <( Mostrare parzialità è abominio dinanzi al dio. Questa è l'istruzione e cosi tu non agirai : " Tu guarderai a colui che conosci come a colui che non conosci, a colui che ha accesso [a te] come a colui che è lontano [dalla tua casa] " . . . Non

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LA FUNZIONE DELLO STATO 1 1 3 essere ingiustamente severo verso un uomo; dovrai esse­re severo [soltanto] verso ciò che merita la severità. Ispi­ra timore di te, sicché gli uomini ti temano, [poiché] il funzionario temuto è il [vero] funzionario ». Questa asprezza deve essere mitigata da parole di cautela. « Ba­da [che il rispetto per un funzionario (deriva dal fatto) che egli amministra] la giustizia. Bada, se un uomo ispi­ra il timore di sé un milione di volte, è segno che l'opi­nione della gente trova in lui qualcosa che non va, e che essa non dice di lui " È un uomo! " . . . Bada che devi uni­re alle funzioni dell'ufficio l'amministrazione della giu-• o 66 stlzJa » .

Questa è la formula del buon governo secondo le pa­role che il re rivolge al suo piu alto funzionario. Sono piuttosto formalistiche; la giustizia risiederebbe nell'im­parziale applicazione delle leggi piuttosto che nel tenta­tivo di raddrizzare l'ingiustizia umana. Le parole del vi­sir stesso che commenta le sue attività mitigano di poco questa impressione : « Quando giudicai non mostrai al­cuna parzialità e non chinai lo sguardo per un compen­so . . . ma liberai il timido dall'arrogante » "7• Qui compare una traccia di clemenza, ma non si va oltre la probità e l'imparzialità. Forse la soluzione sta nel fatto che la giu­stizia fuori dello stretto diritto non può essere delegata da un uomo ad un altro, poiché ciascuno deve scoprire per conto suo quando sia il caso di fare un'eccezione alla legge al fine di attingere alla giustizia. Forse la soluzione sta invece nel fatto che la percezione, la parola di coman­do e la giustizia sono caratteri divini, che spettavano al divino faraone. Comunque è piu sicuro per il delegato umano trovare il suo « rifugio )> nella « conformità ai re­golamenti » . D'altra parte la piena discrezione nell'ope­rare fuori o dentro le leggi può essere concessa al divino faraone, che è <( il padrone del destino e colui che crea la fortuna >> .. . Egli si può, nel libero esercizio dell'intelli­genza, del comando e della giustizia, ispirare i due indis­solubili effetti del buon governo: amore e timore.

Abbiamo visto nel corso di questo capitolo che l'uni­verso era composto di un'unica sostanza e che il re for­mava il punto di contatto fra gli uomini e gli dei, come

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divino sovrano investito della cura dello Stato. Abbiamo visto che la sua responsabilità di pastore del suo popolo esigeva un equilibrio di forza e di tenera attenzione. Ab­biamo anche visto che il re doveva esercitare un'intelli­genza creativa, un'abilità nell'emanare i giusti comandi ed una giustizia che stava al di sopra della legge. I suoi funzionari erano piu legati alla legge e al precedente, mentre le qualità divine di cui si ammantava, permette­vano al re di usare della sua discrezionalità nel governare.

In questa trattazione sono sottintesi alcuni problemi concernenti i fini morali dello Stato, fuori del suo mero aspetto patrimoniale. Tali problemi riguardano il fine del­la vita individuale e di gruppo e le distinzioni morali fra il bene e il male. Ci accingiamo ora ad affrontare taluni di questi problemi.

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Note al Capitolo terzo.

1 Urk., IV, 6I4·I8. 2 Teologia menfitica, 6o-61. 3 Sehetepibre. 4 Inno ad Amon (di Leyda), 4, 2I·26. s Beatty, IV r. 6 lbid., l, 9, 7•IO. 7 Distruzione, I·24. • Beatty, I, 3, Io · 4, 3 · g Pii., 393-404. 10 Multer und Kind, I, 9 • 2, 6. 11 Smith, I9, 6. 12 Sinuhe, B 44·4'· u lbid. , ,.67. 14 Israel, I2·IJ. 15 Ptahhotep, 330. 16 Westcar, 9, 9-n. 17 Urk. , IV, 2I9·:U. 1' Sinuhe, R ,; cfr. Urk., IV, 896. •• Sinuhe, B 224-26. 20 Anast., l, 28, ,-6. 21 Nauri, 3·4· 22 Urk., I, ;132. D Wenamon, 2, 45·47· 21 Urk., IV, I074· 25 Kubban, IJ·I4. 26 Admon., 7, z-6. 27 Inno ad Aton, 12. 28 Amenemhet, I, 2-6. l9 Rotolo di cuoio di Berlino, I, 6. 30 Admon., I2, r. lt oiiMICHEN, Hist. Inscb., II, 39, 2,. 32 Cairo, 34,oi . ll Peasant, B rS-20. 34 l bi d. , B 42-46. 35 « Analecta Orientalia », 17, 4 sgg. 36 Egyptian Religion, I933. p. 39· 37 Kubban, 2I·22.

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II6

:u Anast., I I , 2 , 4 · 39 Matrimonio, 36-38. 40 Egyptian Religion, 1933, p. 41. 41 Sall., I, 8 · 7-9, r . 41 Peasant, Br, r88 sgg. 0 Poema di Kadcsh, 26. 44 PE1'RIE, Koptos, XII, 3 , 4-45 Pir. , 300, 307. 44 Admon, 12, 12. 47 Kubban, r8. 41 Nefenohu, 68-69. 49 Sali., l, 8, 9-10. 50 I bi d., 8, 8. 51 Peasant, B, 307-II. 5 1 Ibid. , B, 109-II-SJ Ibid., B, 171·73· 54 lbid., B, 189-92. ss Sehetepibre. 56 Amarna, III, 29. 57 Meri.k&le, 48-:;o. 51 Lansing, 9, 3 -"' Sali., I, 6, 8-9. 60 Anast., II, 8, ,.7. 61 Peasant, B, 296-98. 61 Nefenohu, :;o-:;r. 63 Cfr. ]EA, 2.1, r86. 64 Bologna, 1094, 2, 3-7. 15 Urk., IV, 1087-89 . .. Ibid., 1090o92-17 Ibid., ro82 . .. Inscr. déclic., 36.

L'EGITTO

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Capitolo quarto

L'EGITTO:

I VALORI DELLA VITA

Natura dell'analisi.

Per ciò che concerne la materia dei due capitoli prece­denti, pochi metterebbero in discussione la conclusione generale, che l'egizio, cioè, concepisse l'universo in base al suo ambiente ed alla sua esperienza immediata e che lo Stato fosse stato affidato al divino faraone affinché lo reggesse e lo nutrisse come un pastore cura il suo gregge. Ora però dobbiamo ricercare i valori che l'antico egizio attribuiva alla vita. Se la nostra tesi ( secondo la quale l'uomo era parte essenziale di un universo consustanziale e che pertanto applicava le norme dell'um2no al non-uma­no) regge fino a questo punto, ci resta ora da scoprire quale norma egli applicasse a se medesimo. Eccoci per­tanto al vero problema del pensiero speculativo: Perché mi trovo al mondo? Non si può sfoderare una bella gene­ralizzazione che copra duemila anni di storia, e le ge­neralizzazioni che pur potremo fornire non troveranno facile accoglienza fra gli altri studiosi se, com'è inevitabi­le, usiamo la nostra personale filosofia per valutare quel­la degli altri. Le nostre conclusioni possono essere abba­stanza rigorose per ciò che riguarda la natura delle prove; quanto al valore delle prove, tuttavia, ci atterremo al no­stro parere personale.

Quali erano i fini della vita? Per poterei rappresentare vividamente le risposte possibili , potremmo fare una vi­sita all'Egitto ed esaminare due strutture paragonabili fra di loro '. Ciascuna di esse è la tomba di un visir egizio, il

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massimo funzionario del paese, al quale veniva delegata in primo grado la potestà regale. Accanto alla piramide a gradini di Saqqara entriamo nella tomba di un visir del­l 'Antico Regno, vissuto circa 2400 anni a. C. Le camere sono decorate con scene vivaci e sfarzose dalle quali spri­giona un intenso desiderio di vita. Il visir è raffigurato nell'atto di infilzare dei pesci, mentre i suoi servi ten­gono a bada un ippopotamo mugghiante. Il visir sorve­glia la cattura e la macellazione del bestiame, il raccolto nei campi, i falegnami ed i fabbri nelle loro botteghe e la costruzione di navi per il proprio corteo funebre, pre­siede alla strenua punizione degli evasori fiscali e os­serva i giochi dei bambini. Sia che riposi, sia che ascolti la moglie intenta a suonar l'arpa, un'impressione di in­tensa energia si sprigiona da questa figura, quasi fosse sul punto di scattare all'azione. La sua tomba non sug­gerisce un senso di vita spirituale, bens1 ci parla essen­zialmente di azione fattiva. È questo il monumento che lo eterna, è cosf che vuoi essere ricordato, è questa la buona vita di cui desidera resti un'eterna testimonianza.

Lasciamo la sua tomba ed ecco a distanza di qualche metro, la tomba di un visir dell'ultimo periodo, vissuto attorno al 6oo a. C. Milleottocento anni le hanno confe­rito una calma raccolta: qui non ci si presentano nobili gagliardi, né ippopotami mugghianti, né bambini che gio­cano. Le pareti sono ricoperte di testi rituali e magici. Ci sono alcuni ritratti composti e ottusi del visir, raggelato in un atteggiamento ieratico dinanzi al dio dei morti. Al­cune vignette illustrano i testi con scene d'oltretomba e rappresentano i genii che vi abitano. In codesto mondo la vita è del tutto assente, l'uomo si interessa soltanto ai servizi funebri e al mondo dei morti. Il monumento che lascia alla posterità non contempla la vita, bensf l'oltre­tomba. I suoi tesori sono la magia, i riti ed il favore del suo dio.

Ecco il problema che ci si presenta. Da un lato si dà rilievo alla vita, all'azione e al mondo materiale, dall'al­tro alla morte, al riposo e alla religione. La nostra indagi­ne dovrà evidentemente colmare un simile scarto, prospet­tando storicamente il trapasso da una fase all'altra. Do-

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I VALORI DELLA VITA

vremo esaminare i due massimi periodi del pensiero egi­zio: i primi tempi · ottimistici e traboccanti di forza ag­gressiva e gli ultimi, umili e trepidi di speranza, con il lungo periodo di transizione che li separa. Fu come un uragano, nel quale dopo i venti impetuosi dell'est si sia formato un centro morto di instabile equilibrio sconvol­to, poi, dai venti che dall'ovest irrompono con pari vio­lenza. I primi venti orientali erano radicali e individuali­stici, gli ultimi, occidentali, conservatori e comunitari. Ma come già s'è detto, tutto dipende dall'osservatore che analizza i diversi filoni: e ci fu chi ravvisò nel filone pri­mitivo una tendenza verso forme associative, e nell'ulti­ma un interesse soprattutto rivolto al benessere persona­le. Inevitabilmente nella trattazione sono coinvolti i pre­giudizi religiosi, politici, e sociali dello studioso.

I Regni Antico e Medio.

L'emergere dell'Egitto nella luce della storia pare sia stato un fenomeno improvviso, simboleggiato dall'appa­rizione subitanea di un'architettura in pietra della massi­ma perfezione tecnica. Il dottor Breasted ha configmato drammaticamente questa smagliante fioritura :

Nel Museo del Cairo troverete il massiccio sarcofago di gra­nito che contenne un tempo il corpo di Khufu-onekh, l'architetto che costruf la grande piramide di Gizeh. Lasciamo che la nostra immaginazione segua questo architetto fino alla pianura desertica dietro il villaggio di Gizeh. Era a quel tempo una nuda distesa desertica, punteggiata soltanto dalle rovine di poche minuscole tombe di remoti antenati. La piu antica costruzione di pietra era stata eretta dal nonno di Khufu-onekh. Era preceduto da solo tre generazioni di architetti... Forse non c'erano molti muratori, né molti esperti di costruzioni in pietra allorché Khufu-onekh s'inol­trò per la prima volta nella nuda pianura di Gizeh per delimi­tare il tracciato della grande piramide. Immaginatevi il coraggio di colui che ordinò ai suoi geometri di tracciare la base quadrata di ventitremila metri di lato! ... [Egli sapeva che d sarebbero vo­luti] quasi due milioni e mezzo di blocchi del peso di due ton­nellate e mezzo ciascuno per elevare su quel quadrato di tredici acri una montagna alta quattordicimilaseicento metri... La grande piramide di Gizeh è pertanto un documento della storia della mente umana. M ostra chiaramente il senso di sovrano dominio

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dell'uomo nel suo trionfo sulle forze materiali. Per sé e per il suo monarca l'ingegnere del faraone raggiungeva l'immortalità sottomettendo le forze della materia 2•

Questa vivace descrizione illustra quell'improvviso vi­gareggiare e quell'impulso ad agire e a raggiungere risul­tati concreti che caratterizzò il Regno Antico. Alcune del­le massime conquiste intellettuali datano da quell'epoca, come la filosofia della Teologia Menfitica che trattammo dianzi e l'atteggiamento scientifico espresso dal papiro chirurgico di Edwin Smith. Si impone pertanto all'atten­zione il problema delle origini di questo popolo ardito e possente. Esse appaiono appena nelle modeste produzio­ni dell'Egitto predinastico, eppure non ci pare che questa sia una ragione per dedurre che queste conquiste doves­sero essere introdotte da invasori stranieri : questo sareb­be nient'altro che risolvere un elemento ignoto proiet­tandolo in un mondo ignoto. A volte lo spirito umano si eleva vertiginosamente senza seguire il lento cammino che parrebbe normale nell'evoluzione culturale, e ci sono buone ragioni per credere che questa manifestazione di potenza fosse strettamente localizzata, stimolata soltanto dalla conoscenza di sviluppi similmente meravigliosi del­la Mesopotamia. Non sono chiare le ragioni di questo improvviso rigoglio di potenza. Fu una rivoluzione, una fioritura subitanea di un lento sviluppo per influsso di uno stimolo che rimane oscuro. Si potrebbe rilevare che la stabilità dello Stato e della società che permise la na­scita delle dinastie egizie faceva nascere nuove esigenze individuali, dato che l'individuo era meglio organizzato, grazie alla delimitazione delle sue funzioni . Uno era in­caricato di fare l'architetto, l'altro l'intagliatore di sigilli, l'altro l 'archivista : funzioni che erano state, in società piu semplici, secondarie e che ora diventavano abbastan­za importanti da trasformarsi in professioni e favorivano il manifestarsi di quelle abilità che nei periodi precedenti erano rimaste in ombra. Per secoli gli Egizi avevano rac­colto le loro forze nella valle del Nilo, finché si annunciò il giorno in cui si destarono con una subitaneità che ci sconcerta . Anch'essi avevano l'impressione che si avve­rasse qualcosa di portentoso; si sentivano capaci di gran-

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I VALORI DELLA VITA 1 2 1 di imprese. I l successo materiale era l a prima meta di una buona vita, per loro.

Sentiamo il piacere con cui un nobile dell'Antico Regno enuncia i suoi progressi nella scala sociale <( [ Il re] mi fece conte e sovrintendente dell'alto Egitto .. . Mai prima d'allora questo ufficio era stato conferito ad un servo. ep­pure io servii come sovrintendente con sua soddisfazio­ne . . . Ricoprii una carica che consolidò la mia reputazione nell'alto Egitto. Mai prima d'allora era stata compiuta una cosa simile nell'alto Egitto }> '. Era l'atteggiamento di uno spirito pionieristico, tutto teso a risultati concreti, quale segue i primi successi in una nuova impresa. Que­sta era un'arroganza giovanile e compiaciuta, perché igna­ra di fallimenti. L'uomo bastava a se stesso. E gli dei? Si, esistevano anch'essi in qualche luogo remoto, ed essi avevano fatto questo ottimo mondo, per certo, ma il mondo era ottimo perché l'uomo ne era il padrone, e non aveva bisogno dell'aiuto costante degli dei.

Il mondo dell'uomo non era completamente fuori del­la presenza del dio, perché il dio, o gli dei, avevano po­sto le norme che lo reggevano e chiunque avesse trasgre­dito doveva risponderne alla divinità. Anche in questo primo periodo la parola << dio » è usata al singolare quan­do ci si riferisce al suo sistema, ai desideri che nutre nei riguardi dell'uomo, o alla sua attività di giudice delle in­frazioni al sistema. Non è chiaro, nell'Antico Regno, a quale dio specifico ci si riferisca quando si usa la parola cosi al singolare. A volte si tratta certamente del re, tal­volta è certamente il creatore o dio supremo che aveva posto le norme generali del gioco della vita. Ma altre vol­te pare che la volontà del « dio » cristallizzi l'ideale di un comportamento corretto ed efficiente, unificato e personi­ficato, e in questi casi il « dio » non è augusto e distante come il re o il dio creatore. Se l'ipotesi della consustan­zialità è valida, riteniamo anche di aver affrontato già prima questo problema della unificazione ed universalità della divinità. Non si trattava di monoteismo, ma di un monofisismo applicato alla divinità.

Per ciò che concerne i principi del retto comportamen­to nel campo dell'etichetta o della procedura amministra-

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ti va , sarà per lo piu il ka ad assumere il ruolo del « dio » '. Come dicemmo nel capitolo precedente, il ka era la parte staccata della personalità umana, che proteggeva e soste­neva l'individuo. Come tale poteva ben essere la forza divina dentro all'uomo che ne guidava l'attività retta e destinata al successo. La frequenza con cui si trovano no­mi come « Rè-è-il-mio-ka » e « Ptah-è-il-mio-ka » nell'An­tico Regno ci suggerisce l'idea che i principi della con­sustanzialità e della libera fungibilità facessero del ka il dio privato dell'uomo, talvolta, e talaltra la divinità in generale, e altre ancora, come un dio particolare, simile ad un santo patronimico o un santo patrono.

Questo vale per l'Antico Regno, quando gli dei del pantheon erano piu remoti dall'uomo comune, per quanto non fossero necessariamente lontani dal ka, che fungeva da intermediario. Piu tardi la situazione mutò e nell'ul­timo periodo dell'Impero l'egizio instaurò un rapporto personale e strettissimo con un dio particolare, che era il suo protettore e dominatore, e questo rapporto diretto con un dio personale si manifesta prima dell'Impero nel « dio della città », che equivale al santo locale. Nei primi tempi della diciottesima dinastia, ad esempio, cosi viene augurato ad un nobile: « Che tu possa trascorrere l'eter­nità con la gioia del cuore e col favore del dio che è in te » S. e dell'augurio abbiamo una variante: « nel favore del dio del1a tua città » •. Comunque, a) questi concetti sono raramente precisi e fermi, b) in certi contesti « il dio » è il re o un particolare dio che regge l'universo, il dio creatore.

Il senso di autosufficienza e di indipendenza dell'egizio del periodo delle piramidi risulta chiaramente dalla po­sizione decentralizzata delle tombe dei nobili del tempo. Prima i funzionari venivano sepolti strettamente vicini al dio-re che avevano servito ; attraverso la sua certezza di eternità le loro speranze di continuare la loro esisten­za si sarebbero potute attuare. Ben presto, comunque, mostrarono sufficiente sicurezza in se stessi da allonta­narsi dal re, cercando la loro eternità nei distretti dove abitavano. Nel quadro del dominio divino ognuno gode­va del suo personale successo in modo indipendente in

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I VALORI DELLA VITA 123 questa vita, ed essi confidavano che altrettanto valesse per il futuro. Bastavano le loro proprie forze per conti­nuare nella vita futura, raggiungendovi i loro ka, diven­tando akh, « esseri reali », conducendo una energica vita eterna. Il fatto che avessero accumulato successi monda­ni garantiva loro, per contratto e forza di precedenti, una conquista sulla morte. In tal senso si' può affermare che esistesse una corrente decisamente democratica - o, piu precisamente, individualistica - in tutto l'Antico Regno.

« Individualismo » è un termine che designa meglio di « democrazia » questo spirito, perché si tratta di preci­sare le regole di condotta personale e non il regime poli­tico. Un sentimento di autosufficienza può anche portare ad un governo decentralizzato, limitando quindi le ambi­zioni democratiche. Ma non ci è dato di ravvisare nel­l'antico Egitto quella democrazia politica che il quinto capitolo ci rivelerà in Mesopotamia. Il dogma della di­vinità del faraone egizio era una forza connettiva troppo forte per poter essere frantumata delle forze individua­listiche.

In questo primo periodo non era necessario abbando­narsi servilmente ad un dio per attingere i grandi beni della vita: il successo in questo mondo e una vita che si prolungasse nell'al di là. L'uomo per lo piu era respon­sabile dinanzi al re, al dio creatore, ed al suo ka. ma non era umilmente prono dinanzi ad un determinato dio del pantheon, e non era personalmente responsabile dinanzi ad Osiride, il sovrano dei morti. La sua ricchezza e la sua posizione in questa vita gli dava la fiducia di essere al­l 'altezza della situazione sia ora che in futuro, e - come ci mostrano le vivide pitture tombali - desiderava un al di là altrettanto lieto, emozionante e dispensatore di successi quanto la terra.

Vorremmo sottolineare al massimo che gli Egizi di que­sto periodo erano un popolo allegro e voluttuoso. Ama­vano in pieno la vita, e troppo l'amavano per rinunciare al suo corroborante sapore. Pertanto negavano la morte e proseguivano nell'al di là la stessa vita allegra ed ener­gica di cui godevano in questo mondo.

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Ci resta di questo primo periodo un manuale di eti­chetta per un funzionario : « le espressioni di un bellis­simo discorso . . . a istruzione di chi sia ignorante della conoscenza e delle regole del bell'eloquio, che sono di vantaggio a colui che vorrà ascoltare e di svantaggio a chi ne vorrà abusare )> 1• Vi leggiamo il vangelo dell'ar­rivista, le auree regole del giovanotto che si sta facen­do. È stato cosi sunteggiato :

L'ideale è un uomo corretto, che saggiamente evita di lasciarsi trascinare dagli impulsi e si inserisce con le parole e con gli atti nel sistema amministrativo e sociale. Lo attende una carriera si­cura come funzionario. Non vi si discute di concetti morali di bene e di male; il modello consiste piuttosto nei caratteri che distinguono il saggio dall'ignorante, termini che forse si rendono meglio con le parole « sveglio » e « sciocco ». Si può imparare a essere svegli ... Pertanto vengono fornite le regole da seguire per far carriera. Chi vi porrà attenzione, sarà sveglio, troverà la via giusta in rutte le situazioni che la vita propone grazie alla sua sveltezza, e grazie alla sua correttezza avrà successo nella sua car· riera '.

Il libro contiene consigli circa il modo di ottenere suc­cesso con i superiori, con i propri pari e con gl'inferiori. Cosi quando ci si trova dinanzi ad un interlocutore che ha maggior padronanza dell'argomento della discussione, il consiglio che viene dato è di « evitare di parlar male col non opporsi a lui » ; colui che incontra un suo pari dovrà mostrare la sua superiorità con il silenzio, affinché i funzionari presenti rimangano impressionati, ed un av­versario inferiore dev'essere trattato con indifferente ne­gligenza, poiché in tal modo « lo colpirai con la punizione dei grandi )> '. Colui che siede a tavola con un superiore deve tenere un contegno tranquillo, prendendo solo ciò che gli viene offerto, e ridendo soltanto quando ride l'o­spite, cosi il grande sarà compiaciuto e gradirà tutto ciò che si potrà fare ••. Un funzionario che debba ascoltare i pianti dei clienti dovrà prestare orecchio con pazienza e senza rancore, perché « un litigante desidera che si faccia attenzione a ciò che egli dice ancor piu di quanto desi­deri che venga compiuto ciò che l'ha spinto a presentar­si )> 11 • È consigliabile fondare una casa, amare una moglie, perché « ella è un campo vantaggioso al suo padrone », e

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I VALORI DELLA VITA I25 si deve far attenzione a che ella non diventi padrona del­la casa ". C'è una saggezza pratica e materialistica nell'in­giunzione: « il saggio si alza presto al mattino per raffor­zarsi )> " o nel consig1io di essere generoso verso i propri seguaci, perché sono imprevedibili le esigenze del futuro, ed è saggio premunirsi con un corpo di sostenitori rico­noscenti 14•

Non sarebbe giusto dare l'impressione che tutto il te­sto sia ispirato ad un materialismo opportunista. C'è in esso un passo che avverte il funzionario che l'onestà è la miglior politica, ma anche ciò nasce piuttosto dall'espe­rienza che dai principt

Se sei un condottiero che dirige una moltirudine, bada ad ogni buona occasione che la rua condotta sia impeccabile. La giustizia è di vantaggio e la sua utilità è durevole. Essa è rimasta tetragona dai tempi del suo creatore, e chi ne viola le norme incontra la punizione ... È [vero che] il male può procurare la ricchezza, ma la [vera] forza della giustizia sta nella sua durevolezza, poiché un uomo può dire: « Fu di mio padre [prima che mia] » 15•

Sono questi i valori di quell'età, un patrimonio tra­smissibile e l 'acquisita esperienza del fatto che un uomo avanzava nel mondo se era abbastanza sveglio da seguire certi principi di buon senso. Il vero bene consisteva in un successo visibile a tutti. Ecco i valori supremi del­l' Antico Regno, e rimasero in auge in tutta la storia egizia.

Era facile riverire il successo fin tanto che esso con­feriva i suoi benefici a tutti gli uomini, fin tanto che pi­ramidi ben curate e tombe si ergevano come simboli della durevole potenza del successo mondano. Ma quello stato di cose felice non durò. L'Antico Regno si disintegrò nei torbidi, i vecchi valori della posizione e della pro­prietà furono spazzati da un'anarchia di violenze e ra­pine. Gli Egizi attribuirono le loro sciagure in parte alla dissoluzione del loro carattere, ma anche alla presenza bellicosa di Asiatici nel Delta. Comunque è dubbio se gli Asiatici si presentarono come un'orda di invasori e sterminatori, anzi è ben piu probabile che un cedimento interno dell'Egitto, permise a piccoli gruppi di Asiatici di entrare nel paese e di stabilirvisi, ma tali penetrazioni

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irrilevanti furono piuttosto la conseguenza che la causa del collasso.

La vera origine del tracollo fu la decentralizzazione progressiva. Vi erano altri reggitori oltre ai faraoni della dinastia, che si sentivano capaci di agire indipendente­mente e che quindi stabilirono dei governi rivali fino a che la tensione frantumò l'Egitto in una quantità di fa­zioni in guerra l'una con l'altra. Ciò faceva parte della corrente individualistica ed arrivistica che era venuta via via rafforzandosi durante il periodo dell'Antico Regno. Ora che si era disciolto il potere unico e centralizzato, le mene rivali degenerarono in un'anarchia che si propagò fino agli strati piu bassi della società. L'Egitto si era ve­nuto allontanando dall'autarchia e dirigendo verso il se­paratismo basato sulla capacità di agire di ciascun indivi­duo, ma la nazione era malpreparata a valersi del crollo dell'autarchia per istituire immediatamente un sistema di governo su piu larga base. Nella generale confusione man­cò ogni specie di governo.

Ci restano parecchie manifestazioni di sgomento degli Egizi dinanzi al rovesciamento del loro antico mondo. Non dominano piu la stabilità e la sicurezza già cosi altamente apprezzate, il paese ormai è sbalestrato in un moto frenetico, come una vorticosa ruota di vasaio. Co­loro che sono stati ricchi e potenti si trovano adesso la­ceri e affamati, mentre chi era povero oramai gode di beni e di potere. Noi uomini d'oggi leggiamo con sottile divertimento le proteste che si levavano contro la decisa decadenza dell'alta corte di giustizia e contro il disprezzo delle leggi, contro i poveri che oramai si potevano ve­stire di bisso, le serve che diventavano insolenti verso le padrone, il lavandaio che arbitrariamente rifiutava di por­tare il suo fardello. Quella continuità della vita che era stata visibilmente mantenuta grazie all'amorevole preser­vazione delle tombe fu bruscamente lacerata, le tombe furono saccheggiate, perfino le piramidi dei faraoni, ed i riveriti cadaveri degli antenati giacquero abbandonati sulla pianura desertica. Le nitide frontiere che avevano conferito un geometrico ordine all'Egitto furono cancel­late; il rosso deserto si era spinto fin dentro alla fertile

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terra nera, gli Stati provinciali erano « fatti a pezzi » e gli stranieri entravano in Egitto. Quando le province ri­fiutarono di pagare le imposte, l 'amministrazione centrale dell'agricoltura crollò e nessuno piu arò nemmeno quan­do la piena del Nilo era favorevole. Il vecchio e proficuo commercio con la Nubia e la Fenicia era tramontato, tan­to che l'appal'izione di qualche miserabile commerciante del deserto, giunto ad offrire erbe ed uccelli, era un av­venimento degno di nota , •.

L'Egitto poteva ben muoversi verso l'individualismo e la decentralizzazione del potere, finché restava il soste­gno essenziale della monarchia; quando essa scomparve, l'intero edificio crollò. <( Ecco, siamo giunti ad un punto in cui al paese è rapita la monarchia da pochi irrespon­sabili . . . Ecco: il segreto del paese, inconoscibile in tutta la sua vastità, è stato esposto, e la reggia è stata distrutta nello spazio di un'ora » ". Abbiamo visto nella letteratu­ra sapienziale primitiva che la norma della buona vita era stato l'ideale del funzionario fortunato. Ora i fun­zionari conoscevano la fame ed il bisogno. « Ecco che non c'è un ufficio al suo [giusto] posto, come una man­dria dispersa senza pastore » ". <( Grandi mutamenti si sono verificati : sicché non avviene [piu] come l'anno precedente, ma un anno è piu gravoso dell'altro » ".

I vecchi valori di una carriera coronata dal successo, che miravano alla ricchezza, alla posizione nell'ammini­strazione, ed alla tomba con provviste per l'eternità era­no stati sradicati. Quali valori li potevano sostituire? Nello sconvolgimento taluni trovarono solo la risposta negativa della disperazione e dello scetticismo. Alcuni ri­corsero al suicidio, e leggiamo che i coccodrilli del fiume erano sazi poiché gli uomini vi si gettavano spontanea­mente '". Uno dei piu bei documenti della letteratura egizia riporta la controversia fra un uomo tentato di suicidarsi e il suo ka o anima. La vita gli è oramai insopportabile ed egli si propone di cercare la morte nel fuoco. È un sintomo dei tempi che l'anima, che dovrebbe tendere fer­mamente verso la morte, sia invece l'interlocutore piu incerto, incapace di trovare una risposta soddisfacente al­la malinconia dell'uomo. Dapprima è propensa ad accom-

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pagnarlo quale che debba essere la sua fine, ma poi muta parere e tenta di dissuaderlo dalla violenza. Tuttavia le mancano argomenti costruttivi per indurlo a cercare la buona vita su questa terra e può soltanto esortarlo a di­menticare le sue cure ed a cercare il piacere sensuale. Infine, dopo che l'uomo ha posto in rilievo le miserie di questa vita a contrasto con i sobri piaceri dell'al di là, l'anima consente a stare con lui, quale che sia per essere il suo destino. Si deve concludere che questo mondo è cosi malvagio che l'al di là rappresenta una liberazione.

Il documento contiene una filosofia pessimistica degna di essere studiata. L'uomo espone il suo caso all'anima in quattro poemi di trittici uniformi che mettono in con­trasto la vita e la morte liberatrice. Il primo poema af­ferma che il nome dell'uomo puzzerà se egli aderisce al consiglio dell'anima dandosi al piacere, e poiché aderisce ancora ai suoi ideali, non può permettere che il suo buon nome venga danneggiato.

Il mio nome puzzerà in te Piu del tanfo dei pescatori Piu delle acque stagnanti dove hanno pescato.

Il mio nome puzzerà in te Piu del tanfo dello sterco d'uccelli Nei giorni d'estate, quando il sole è caldo 21•

Nelle sei stanze seguenti l 'uomo continua a insistere sul cattivo odore della sua reputazione nel caso che se­gua il consiglio dell'anima. Nel secondo poema lamenta il crollo degli ideali nella società del suo tempo. Tre del­le stanze del poema dicono :

A chi posso rivolger la parola? I compagni sono malvagi; Gli amici non sanno piu amare.

[A chi posso rivolgere la parola? ] L'uomo genrile è perito, Ma il violento è ricevuto da tutti.

A chi posso rivolgere la parola? Nessuno r�r;tmcnta [le lezioni] del passato; Nessuno plU rende [il bene] per il bene 22•

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L'uomo ritrae lo sguardo dai malanni della vita per contemplare la morte come una liberazione benedetta.

Oggi la morte mi si para innanzi. È come la salute del malato, È come l'uscita del convalescente.

Oggi la morte mi si para innanzi, Come fragranza di mirra Come starsene all'ombra un giorno di vento.

Oggi la morte già mi viene incontro È il desiderio caro della casa Dopo molti anni di prigionia 11•

Infine l 'uomo ricorda gli alti privilegi dei morti, che hanno il potere di opporsi al male e possono aver libero accesso agli dei.

In verità chi sarà sull'altra sponda Sarà un dio vivente E punirà il malfattore.

In verità chi sarà sull'altra sponda Sarà un uomo sapiente E non gli sarà impedito di fare appello a Re quando parla u.

Quest'uomo supera la sua epoca quando rifiuta i va­lori della vita attiva a favore dei valori della passività della beatitudine futura. Come vedremo, questo atteggia­mento sottomesso avrebbe costituito, mille anni dopo, la caratteristica psicologica dominante. Che si dovesse cer­care la morte come liberazione piuttosto che ribadire la continuità della vita cos! come essa è conosciuta in que­sto mondo, non è qui che una mossa incerta nel quadro del pessimismo dell'epoca.

In questo dibattimento l'anima ad un certo punto ri­corda all'uomo che è inopportuno prendere la vita trop­po sul serio ed esclama : « Cerca di metterti d'umore fe­stoso e scorda gli affanni! » 25• Questo tema dell'edonismo amorale ricorre anche in un altro testo dell'epoca, dove si sostiene che, essendo ormai crollati i vecchi ideali del­la ricchezza e della posizione sociale non resta alcuna cer­tezza di futura felicità, sicché giova cercare la felicità che si può ottenere in questo mondo. Il passato mostra soltanto che questa vita è breve e transeunte - ma è una transizione verso un futuro inconoscibile.

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Le generazioni passano e altre succedono fin dal tempo dei no­stri avi... Di coloro che costruiscono edifici non esistono piu le dimore. Che cosa ne è stato fatto?

Ho udito le parole [dei sapienti antichi] Irnhotep e Hardedef, i cui detti vengono ripetuti cosi spesso dagli uomini - ma che cosa sono diventate le loro dimore? Le loro mura sono crollate, le loro dimore non esistono, come se fossero mai esistite.

Nessuno ritorna di laggiu, s! da poterei raccontare dove si trovano, si da acquietare i nostri cuori fintanto che [anche] noi andiamo là dove essi sono andati 36,

Poiché la sapienza che era tenuta in tanto onore nel tempo antico non aveva assicurato al sapiente una so­pravvivenza visibile in tombe ben curate, e poiché era impossibile sapere come i morti si trovassero nell'al di là, che cosa rimaneva da fare in questo mondo? Nulla se non cogliere i piaceri sensuali che ogni giorno offriva.

« Fa' festa e non ti stancare ! Ecco, non è dato all'uo­mo di portare con sé la sua ricchezza. Ecco, nessuno di quanti ci vanno ne ritorna ! » 71•

Le prime reazioni al crollo di un mondo dispensatore di successo e ottimistico erano la disperazione ed il cini­smo. Ma non furono le uniche reazioni. L'Egitto posse­deva ancora un vigore spirituale e intellettuale tale da potersi rifiutare di negare il valore essenziale dell'indivi­duo in sé e per sé, che restava pur sempre un oggetto dotato di valore ai suoi propri occhi. Se i suoi vecchi ideali del successo fisico e sociale si erano rivelati di na­tura effimera, prese a cercare altri ideali di indole piu durevole. Oscuramente e con incertezza si rese conto del­la grande verità che le cose visibili sono temporali, ma che le invisibili potevano essere la sostanza stessa del­l 'eternità. Una vita eterna era pur sempre la sua meta suprema.

Le parole che abbiamo appena usato e quelle che ci accingiamo ad usare pregiudicano la trattazione in quan­to la traspongono nei termini validi per i giudizi etici moderni. È un effetto d'altronde voluto deliberatamente: noi ri teniamo che il Regno di Mezzo avesse raggiunto grandi altezze morali nella sua ricerca della vita buona. Questo è un pregiudizio personale, che condividiamo con il professar Breasted, per quanto la nostra analisi perso-

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naie dei fattori diverga leggermente dalla sua. Un'opi­nione opposta è stata avanzata da altri, che mettono in rilievo come gli Egizi del primo periodo perfettamente conoscibile, quelli dell'Antico Regno, attinsero altezze che mai vennero sorpassate in seguito - nell'abilità tecnica (come nella grande piramide e nella scultura), nelle scien­ze (come nel notevole papiro chirurgico e nell'istituzione di un calendario), nella filosofia (come nella Teologia men­fìtica). Aderendo a codesta impostazione si negherebbe ogni progresso di là di quello cosi raggiunto. Anzi essa negherebbe l'idea del progresso in se stesso, affermando che noi possiamo soltanto individuare dei mutamenti e che questi mutamenti nel quadro di una determinata cul­tura sono in gran parte statici: piu questa cultura muta tanto piu rimane uguale a se stessa. Questa opinione indubbiamente racchiude molta parte della verità. Il ma­terialismo che sottolineammo come carattere fondamen­tale dell'Antico Regno era tuttora un fattore importante in questo nuovo periodo. I progressi sociali e morali che additeremo in questo nuovo periodo erano già presenti nell'Antico Regno (progressiva democraticizzazione, con­cetto di giustizia ecc. ) . L'opinione in esame rifiuterebbe l'imposizione dei nostri criteri consapevolmente morali­stici agli antichi Egizi. Abbiamo noi il diritto di tradurre ma' at come « giustizia », « verità » o « rettitudine )> in­vece che come « ordine )>, « regolarità )> o « conformità )>? Abbiamo il diritto di salutare la progressiva democrati­cizzazione nell'antico Egitto come « un progresso )> mo­ralmente « buono )>?

Noi ribadiamo che si ha il diritto di emettere giudizi morali e di parlare in termini di progresso o di decaden­za. Sono invero questioni soggettive e non strettamente scientifiche, ma ogni generazione ha il diritto - anzi, il dovere - dopo aver documentato i fatti con dovuta og­gettività di dare poi una valutazione soggettiva dei me­desimi. Sappiamo che l'oggettività non può essere com­pletamente scissa dalla soggettività, ma uno studioso può tentare di mettere in luce le prove dei fatti mostrando a quale punto esattamente intervenga la sua critica perso­nale. Nel periodo che ci accingiamo adesso ad esaminare,

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siamo disposti a convenire che continuava a sussistere un duro e pratico indirizzo materialistico e che la forza anti­etica della magia svolgeva un ampio ruolo, e che le ten­denze morali che metteremo in risalto erano state pre­senti prima cosf come continuarono ad esistere poi. Ma ci basta affermare che in questo periodo si accentuarono determinati aspetti e che tali accentuazioni paiono dei progressi ad un americano moderno.

I due grandi mutamenti che possiamo riscontrare sono uno scadere dell'ideale della « buona vita » come raggiun­gimento di una posizione e di una ricchezza materiale, mentre si accentua l'ideale della bontà come giustizia so­ciale; intanto la tendenza individualistica dell'Antico Re­gno continua fino a dischiudere potenzialmente a chiun­que i beni della vita. Queste due correnti sono in fondo una sol cosa : se i beni della vita sono a portata di chiun­que, ricco o povero che sia, allora il potere e la ricchezza non sono i valori ultimi, e si sollecita l'uomo a vivere in un giusto rapporto con gli altri uomini.

Lumeggeremo con tre citazioni questa nuova situazio­ne. Uno dei fini che si era tentato strenuamente di rag­giungere nel periodo precedente era stata l'erezione di una tomba, un imponente monumento funebre destinato a durare per l'eternità. Il Medio Regno continuò a edi­ficare le tombe, ma introdusse un elemento nuovo : <( Non essere malvagio, [perché] la bontà è il bene. Fa' si che il tuo monumento sia durevole in virtu dell'amore per te . . . [Allora] il dio sarà lodato per compensarti » ". Il monumento durevole era costituito dalla gratitudine de­stata dalla benevolenza. Un altro passo dichiara chia­ramente che il dio gode piu del buon carattere che delle offerte, i l povero quindi può destare quanto il ricco l'in­teresse del dio. <( È piu accetto il carattere di un giusto che non il bue del malvagio » ,._

Il tratto piu notevole di questo periodo compare solo in essi e - per quel che ne sappiamo - non ritorna piu in seguito. Esso rimane isolato, eppure non era estraneo al­la massima aspirazione dei tempi e questa è una ragione per situare ad un livello morale piu alto lo spirito di que­st'epoca, rispetto a quello delle epoche che precedettero

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o seguirono. I l passo afferma che tutti gli uomini erano creati con uguali opportunità: in queste parole il dio su­premo enuncia i fini della creazione.

Ti riferisco le quattro buone azioni che fece per me il mio cuore ... per mettere a tacere il male. Feci quattro buone azioni sotto la porta dell'orizzonte.

Feci i quattro venti affinché ogni uomo potesse respirame come il suo fratello. Questa è la prima azione.

Feci grosse le acque delle piene affinché il povero ne godesse come il potente. Questa è la seconda delle buone azioni.

Feci ogni uomo simile al suo fratello. Non fui io a ordinare che commettessero il male, furono i loro cuori a violare ciò che avevo detto. Questa è la terza delle mie buone azioni.

Feci si che i loro cuori non scordassero l'occidente, affinché le sacre offerte potessero esser presentate agli dei delle pro­vince. Questa è la quarta delle mie buone azioni 30•

I primi due passi di questo testo affermano che il ven­to e l'acqua sono ugualmente a disposizione, in pari mi­sura, degli uomini di ogni rango. In un paese dove la prosperità dipendeva dalla possibilità di assicurarsi una porzione adeguata delle acque alluvionali e dove il con­trollo delle acque dovette essere un fattore importante nel dominio di un uomo sull'altro, l'assicurare ugual di­ritto d'accesso alle acque comportava una uguaglianza fondamentale delle opportunità offerte a ciascuno. L'af­fermazione « feci ogni uomo simile al suo fratello », che equivale a « tutti gli uomini sono creati uguali », era ac­coppiata all'altra, che il dio non aveva voluto che essi agissero male, ma che erano stati i loro cuori a volgersi verso il male-. Questo accostamento dell'eguaglianza e del­l'azione malvagia ci dice che l'ineguaglianza sociale non rientra nei piani del dio, ma che l'uomo deve portarne la responsabilità, cioè si afferma chiaramente che la so­cietà ideale sarebbe egualitaria. Certamente l'antico Egit­to non si avvicinò mai a quell'ideale, salvo che al modo in cui ci avviciniamo noi, rimandando piamente la piena eguaglianza alla vita futura, ma si trattava tuttavia di una valida sublimazione delle piu alte aspirazioni del tempo. Con un punta di desiderio si dice che tutti gli uomini do-

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vrebbero essere uguali, poiché il dio creatore non li ha fatti diversi.

L'ultima delle buone azioni del dio supremo fu quella di richiamare l 'attenzione degli uomini all'occidente, la regione della vita eterna, esortandoli a rendere pio omag­gio agli dei provinciali al fine di raggiungere l'occidente. Si tratta di due importanti mutamenti di questo perio­do : la democraticizzazione dell'al di là e l'attaccamento piu intimo agli dei. Ormai tutti gli uomini potevano go­dere dell'eternità al modo stesso in cui prima ne aveva goduto soltanto il re. Non conosciamo con precisione qual genere di continuità della vita fosse stato concesso all'uomo comune dell'Antico Regno. Doveva continuare a vivere con il suo ka e doveva diventare un akh, una personalità autentica. Il faraone dell'Antico Regno co­munque doveva diventare un dio nel regno degli dei. Ora il futuro del faraone era dischiuso anche ai plebei, an­ch'essi potevano diventare dei, come lui. Mentre nel pe­riodo antico soltanto il faraone era diventato Osiride, ora tutti gli Egizi dopo morti diventavano il dio Osiride. Inoltre si metteva in rapporto il fatto che egli diventasse Osiride e attingesse alla eterna beatitudine con un giu­dizio nell'oltre tomba nel quale il suo carattere veniva valutato da un tribunale di dei .

Questo giudizio sul carattere veniva già reso pittorica­mente come una pesatura giudiziale. Nel futuro sarebbe diventato un giudizio dinanzi a Osiride il dio dei morti, dove il cuore dell'uomo veniva messo su uno dei piatti della bilancia mentre sull'altro posava il simbolo della giustizia. Questi elementi erano già presenti nel Medio Regno : Osiride era il dio dei morti e il defunto ve­niva giudicato secondo giustizia, ma non erano ancora riuniti entro un unico quadro . Si manteneva ancora la vecchia concezione per cui il dio supremo, il dio solare fungeva da giudice. L'oltretomba era si reso democratico e si affermava la figura di Osiride, ma l'ingresso nella vi­ta eterna non era sotto l'esclusivo controllo di Osiride. Vi sono accenni alla « bilancia di re, con cui pesa la giu­stizia » '1 , e al defunto si assicurava che « la tua colpa verrà cacciata ed il tuo peccato cancellato dalla pesatura

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il giorno in cui saranno esaminati i caratteri, e ti si per­metterà di riunirti a coloro che si tro·,1ano sulla nave del sole » 3\ e che « non vi sarà un dio che ti quereli, né una dea che ti quereli, il giorno in cui si giudicheranno i ca­ratteri » 33• Era un tribunale di dei, probabilmente sotto la presidenza del dio supremo, al quale il defunto dove­va rispondere. « Raggiungerà il concilio degli dei, il luo­go dove si trovano gli dei, il suo ka sarà con lui, le sue offerte saranno davanti a lui, e la sua voce sarà giustifi­cata nel conteggio di ciò che sovrabbonda, per quanto possa esporre i suoi peccati, questi verranno cacciati da lui da ciò che potrà dire » ,.. Tutto ciò dimostra che nel giudizio dei morti si contrapponeva il peso dell'eccesso o della deficienza del bene da lui compiuto al male e che un risultato favorevole della pesatura era una condizione preliminare alla beatitudine eterna. La pesatura era un calcolo della ma' at o giustizia.

Ci siamo già imbattuti nel termine ma'at, che origina­riamente è un termine fisico : « uniformità, dirittura, cor­rettezza » nel senso di regolarità e ordine, donde l'uso metaforico come « rettitudine, verità, giustizia ». Ma' at ha un rilievo nel Medio Regno nell'accezione di giu­stizia, retto agire nei confronti del prossimo. Era questo il tema essenziale della storia del contadino eloquente, che proviene appunto da questo periodo. In tutte le sue istanze il contadino chiedeva all'alto ufficiale pura giusti­zia come suo diritto morale: il minimo etico consisteva nell'adempimento coscienzioso dei propri doveri. « Le frodi diminuiscono la giustizia, [mentre] colmare la giu­sta [misura] - né troppo poco né sovrabbondantemente

- è giustizia » ". Ma come vedemmo nel capitolo prece­dente, la giustizia non era soltanto il commercio giuridi­co ma anche la ricerca del bene in rapporto ai bisogni : consisteva nel traghettare all'opposta riva il povero che non potesse pagare il nolo e nel fare il bene prima anco­ra che si prospettasse un profitto. Uno dei temi che ri­corrono nel Medio Regno era la responsabilità socia­le : il re era un pastore che accudiva alle sue greggi, il funzionario aveva dei doveri positivi verso la vedova e l'orfano, in breve ciascuno aveva accanto ai suoi diritti

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L'EGITTO

dei correlativi doveri verso gli altri. Anche le sculture del periodo in esame mirano a esprimere il carattere co­scienzioso e abbandonavano la raffigurazione della maestà e della forza per rendere la preoccupazione di adempiere ai propri doveri. Sono ben noti i ritratti di faraoni del Medio Regno, travagliati da ansiose cure .

Il Breasted ha illustrato questi punti con eloquenza e non è necessario fornirne una documentazione piu parti­colareggiata. Se si vuole affermare questa tesi in forma diversa la si potrà individuare come una diversa defini­zione della « coscienza » o del « carattere » rinunciando eventualmente al tono semplice e netto del Breasted. Nel periodo precedente era sentita un'esigenza di giustizia in terra e nell'al di là ••, e le robuste personalità che aveva­no costruito uno Stato cosi forte non erano certo state prive di carattere. Ma ora nel Medio Regno il mag­gior rilievo di certi aspetti e il minor rilievo di certi altri diede luogo ad un periodo di autentica coscienza sociale, il cui fondamento psicologico e morale era la credenza che ogni uomo fosse una creazione degna di ogni cura del dio.

Fino al tempo del Medio Regno la corrente domi­nante dell'antico Egitto era stata atomistica e centrifuga; il valore si accentrava nell'individuo. Dapprima era stata valorizzata la sua abilità, e poi era stato dato riconosci­mento ai suoi diritti. L'Egitto si era mosso un poco cie­camente sulla strada che dall'autarchia teocratica condu­ce ad una tal quale democrazia. Lo spirito dominante esortava a infondere uno spirito attivo nella propria vita, ed a ciascuno veniva fornita l'opportunità di vivere una vita tumultuosa, pratica e importante. Di conseguenza gli Egizi continuavano ad amare la vita ed a sfidare la morte. La definizione del successo poté anche mutare lie­vemente, ma era tuttora vero che una vita coronata dal successo si estendeva e ripeteva felicemente nell'al di là e pertanto le tombe, che erano i ponti fra i due mondi, continuavano ad esaltare una vita allietata dall'abbondan­za. Le scene di caccia, di costruzioni navali, di feste era­no sempre vivacissime, salvo che un maggior interesse alle scene di sepoltura e qualche raffigurazione di festivi-

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I VALORI DELLA VITA 137 tà religiose dànno un nuovo tono di severità. Valeva pur sempre la tesi per cui il massimo bene consiste nella buo­na vita in terra e non nella fuga da questa vita ad una vita futura diversa o nella rassegnata sottomissione agli dei. L'uomo continuava a godere della sua individuale felicità.

L'impero e l'epoca successiva.

A questo punto tocchiamo la causa della grande svolta nella storia etica dell'Egitto. Siamo giunti alla seconda rivoluzione politica, al secondo periodo intermedio, che si stende fra il Regno di Mezzo e l'impero, fra i secoli XVIII e xvi a. C. Ancora una volta crolla il governo cen­trale, e ancora una volta il potere è conteso da uno stuo­lo di principotti. Forse un affievolirsi della forza e del­l'autorità del governo centrale disfrenò l'individualismo arrivistico dei principotti locali . Ma questa volta un ele­mento nuovo si presenta : l'invasione ineluttabile e vio­lenta di un popolo straniero. Alcuni principi asiatici, che chiamiamo gli Hyksos, instaurano capisaldi armati nel­l'interno dell'Egitto e dominano il paese con un rigore che soffoca lo spirito nazionale, ancora in piena fioritura. Per la prima volta l'intero Egitto vede andare in frantu­mi la filosofia che affermava : Noi siamo il centro ed il culmine della terra, possiamo permettere un pieno svi­luppo spirituale a chi vive nell'ambito della nostra comu­nità. Ora per la prima volta quella comunità si accorge di una grave minaccia esterna, per la prima volta è co­stretta a raggrupparsi e far massa per affrontare e storna­re la minaccia.

L'Egitto riusd a coalizzarsi e a ricacciare i « vagabon­di » che avevano osato governare il paese « nell'ignoran­za di Re >> n. Ma non bastò, per sviare il pericolo, ricac­ciarli oltre i confini dell'Egitto : fu necessario inseguir li fino in Asia e colpirli duramente e senza tregua affinché la terra del Nilo fosse libera dalla loro minaccia. Nacque una psicosi della sicurezza, una consapevolezza neurotica del pericolo, simile a quella che ha contrassegnato l'Eu-

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rapa nei tempi moderni. Il comune bisogno di sicurezza trasformò l'Egitto in una nazione cosciente di sé. Si è osservato che soltanto in questo periodo di lotta per la libertà gli Egizi parlano delle loro truppe come del « no­stro esercito >>, senza considerarne il re l'unico titolare 31 • Il fervore patriottico fa sf che gl'interessi nazionali siano anteposti a quelli dell'individuo.

Fu il senso del comune pericolo a far nascere quello spirito di unità; il generale bisogno di sicurezza avrebbe anche potuto non sopravvivere dopo che l'impero egizio ebbe spinto le sue frontiere fin dentro l'Asia, scongiu­rando in tal modo qualsiasi minaccia alle frontiere del paese. Ormai la sicurezza interna era garantita al punto che avrebbe ben potuto scomparire il bisogno di formare una comunione solidale; ma era un'epoca inquieta e sul lontano orizzonte si profilavano sempre nuovi pericoli, che, dal momento che l'unità tornava a vantaggio di certi poteri centrali, potevano essere invocati per mantenere unita la comunità. Quando la minaccia degli Hyksos de­clinò, comparve la minaccia degli Ittiti a mettere a re­pentaglio l'impero asiatico egizio. Poi vennero i popoli del mare, i Libi, gli Assiri . La psicosi della paura, una volta provocata, rimase, e determinate forze in Egitto la attizzavano allo scopo di mantenere vivo l'ideale unitario.

L'imperialismo cerca la sua giustificazione nel quadro di una « crociata >>, nell'accettazione di un « destino evi­dente » che spinge a estendere il dominio di una cultura su d'un'altra. Sia l 'impero fondamentalmente di natura economica, sia esso invece di natura politica, deve pur stagliarsi su uno sfondo religioso, spirituale ed intellet­tuale. In Egitto esso era sanzionato attraverso la figura del dio-re che rappresentava lo Stato e attraverso gli altri dei nazionali che avevano aiutato a stornare la minaccia dall'Egitto col favorire l 'espansione delle frontiere nazio­nali. Gli dei nazionali incaricavano il faraone di avanzare e di ingrandire il paese, anzi marciavano con lui alla te­sta delle sue divisioni. Quanto piu si accresceva il paese, altrettanto aumentava la loro potenza.

Rimane incerto quanto gli dei investissero nella vitto­ria egizia nell'accezione strettamente economica del ter-

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I VALORI DELLA VITA 13 9

mine. Non sappiamo se i templi fungessero da banche nel finanziamento della conquista e dell'espansione im­periale. Forse quando si arricchirono e godettero di ampi introiti lo fecero , dal momento che l'impero accresceva la loro prosperità. Comunque investirono davvero non poco nella vittoria egizia, in senso spirituale-propagan­distico, dando la divina benedizione e la divina garanzia all'impero e ricevendone in cambio un guadagno econo­mico. Nei monumenti la cosa è detta piuttosto esplicita­mente: il faraone costruiva edifici, istituiva, fornendole di un appannaggio, certe festività, regalando terre e schia­vi al dio che aveva dato la vittoria. I templi che fino a quel momento erano stati di modeste dimensioni creb­bero in grandezza, aumentò il numero dei sacerdoti che impinguarono il loro patrimonio con l'annessione di ter­re e di a1tri beni, :fino a divenire un fattore dominante della vita politica, sociale ed economica. Si è calcolato che dopo trecento anni di vita attiva dell'impero, i tem­pli possedevano un abitante su cinque e quasi un terzo della terra coltivabile ". Naturalmente i templi avevano interesse a perpetuare ed a rafforzare un sistema che tor­nava in s! gran misura a loro vantaggio e, per poterlo garantire, dovettero adoperarsi affinché quella solidarietà nazionale che aveva reso ricchi e possenti i templi, ]ungi dall'andar distrutta, mettesse sempre piu profonde radi­ci. Alla fine essi inghiottirono non soltanto il popolo ma anche il faraone.

Ed ora si consideri il significato che questo sviluppo storico aveva per l 'individuo. Le tendenze anteriori, dal­l' Antico Regno fino all'impero erano state centrifughe, atomistiche, individualistiche : la buona vita consisteva nello sviluppo piu completo del singolo. Ora dominava una tendenza centripeta, nazionalistica, comunitaria: la << buona vita » si identificava con gli interessi di gruppo e all' individuo si chiedeva di conformarsi alle esigenze che si attribuivano al gruppo. Ogni ondeggiamento, ogni tentativo di esprimere la propria individualità venne sof­focato ; ogni opinione che ravvisasse nella comunità egi­zia un valore autonomo diventava un dogma.

Una rivoluzione di questo genere, spirituale e intellet-

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L'EGITTO

tuale non si attua per volontà di un congresso che lanci un manifesto per proclamare la novità, ma avviene cosi gradatamente da rendersi visibile solo nel decorso di se­coli. Perfino una ribellione contro il nuovo stato di cose come la rivolta di Amarna fu forse in pari misura una protesta informe contro gli strumenti materiali del mu­tamento e contro i principi che determinavano il muta­mento. Per secoli i testi egizi avevano continuato a ripe­tere le vecchie formule, mentre le tombe ripetevano il tema del voluttuoso godimento delle molteplici opportu­nità della vita. Sarebbe come se gli Americani si volges­sero lentamente ad una forma di governo socialista e ad un'etica razionale pur continuando a ripetere le loro parole d'ordine di democrazia e di protestantesimo calvi­nistico; rimarrebbero all'oscuro della trasformazione rea­le per parecchio tempo.

L'impero durava già da secoli quando l'entità del mu­tamento si manifestò nella letteratura e nell'arte. Le vec­chie formule stereotipate vennero sostituite a poco a poco da altre nuove. Quando la rivoluzione ebbe com­piuto il suo ciclo, le mete dell'esistenza non erano piu quelle di una vita robusta, individualistica, destinata a ripetersi nell'al di là, ma quelle di un'esistenza conformi­stica e formalista. Per ciò che concerne l'individuo, il suo orizzonte si era notevolmente ristretto; gli si consigliava di rassegnarsi all'impoverimento della sua vita, offrendo­gli un'evasione dalle angustie di questo mondo mediante allettanti promesse per l'al di là. La realizzazione delle promesse ora non dipendeva tanto dalle sue azioni, quan­to dal libero dono degli dei. Si verificava quindi non sol­tanto uno spostamento del valore dall'individuo al grup­po, ma anche dal godimento di questo mondo all'attesa di un mondo futuro. Questo spieghi il contrasto fra le due tombe che mettemmo in luce all'inizio di questo ca­pitolo, fra la tomba della prima epoca, piena di vivaci descrizioni del lavoro dei campi, di botteghe e di mer­cati, e quella dell'ultimo periodo, che accentua l'atteg­giamento ritualistico verso la vita dell'oltretomba.

Vorremmo ora documentare questa tesi in base alla letteratura ed in particolare alla letteratura sapienziale.

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I VALORI DELLA VITA I4I

La prima impressione è che la precettistica dell'ultimo periodo sia uguale a quella del primo, poiché raccoman­da al giovane funzionario, col tono del discorso di Polo­nia, gli accorgimenti per far carriera. Il tema dominante è l'etichetta da tenere a tavola, per la strada, in tribuna­le, ma poco a poco ci si rende conto delle differenze : le motivazioni delle raccomandazioni sono mutate. Nei vec­chi tempi si raccomandava all'uomo di aver cura della moglie << perché è un campo vantaggioso al suo padro­ne », ora si esortava a ricordare la pazienza e la devozione della propria madre, trattando la moglie nella misura del­la sua amorosa riconoscenza verso la madre '0• Mentre i testi piu antichi avevano esortato alla pazienza ed all'im­parzialità il funzionario che avesse da trattare con clienti poveri, ora gli si faceva dovere di agire positivamente a favore dei poveri. << Se trovi che un grosso debito è a ca­rico di un povero, dividilo in tre parti, escludine due, !asciane soltanto una ». Perché mai si dovrebbe compiere un'azione cosi antieconomica? Si risponde che non po­trebbe vivere con la sua coscienza se agisse altrimenti. « Lo troverai conforme al costume. Ti coricherai e dor­mirai. Al mattino te lo ritroverai come una buona noti­zia. È meglio essere lodato come colui che il popolo ama che [aver] ricchezze nel deposito. Migliore il pane quan­do il cuore è felice delle ricchezze sotto [il peso] degli af­fanni » ". Si era prodotto un mutamento rispetto agli an­tichi testi: oramai la posizione e il patrimonio erano me­no importanti del sentimento di giusti rapporti con gli altri uomini. L'uomo non apparteneva soltanto a se stes­so ma anche alla società.

La parola chiave dello spirito di quest'epoca giunto a maturità era << silenzio », che possiamo anche tradurre come « calma, passività, tranquillità, sottomissione, umil­tà, mitezza ». Questo « silenzio » è associato alla debolez­za o alla povertà in taluni contesti, come ad esempio: « Tu sei Amon, il signore del silenzioso, che accorre quando ode la voce del povero �> " e « Amon il protettore del silenzioso, il salvatore del povero » ". In base a que­sta equazione di silenzio e povertà queste caratteristiche manifestazioni di umiltà sono state intese come espres-

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sioni di una religione dei poveri 44• È vero che la debolez­za è sempre stata una virtu da raccomandare ai nullate­nenti, ma ciò che ci preme sottolineare è che ogni Egizio a quell'epoca era in certo senso un nullatenente, in quan­to era privato del diritto all'autoespressione; non veniva piu spinto a dare libera espressione alla sua personalità e anzi veniva piegato ad una sottomissione deterministica alle esigenze di gruppo. Lo spirito di umiltà non era li­mitato ai miserabili : un altissimo ufficiale si sforzava di descriversi come « veramente silenzioso » ., e anche l'alto sacerdote di Amon ribadiva di essere « veramente e ade­guatamente silenzioso » ••. Secondo lo spirito dei tempi il funzionario intraprendente e fortunato doveva mettere in risalto il suo conformismo all'ideale nazionale. I testi rappresentano come spregevole opposto dell'uomo silen­zioso, l'uomo <( infuocato » o <( appassionato », l'uomo dalla <( voce alta ». Si raffigura il contrasto in termini che ricordano il primo Salmo (e anche Geremia, 1 7, 5-8) :

Quanto all'uomo appassionato nel tempio, egli è simile ad un albero che cresce all'aperto. All'improvviso sopraggiunge la per­dita del fogliame, e sopravviene la fine nei cantieri, oppure è fatto galleggiare; a distanza di miglia dal luogo dove è cresciuto, e suo sudario è una fiamma. Ma l'uomo veramente silenzioso si tiene in disparte. È come un albero che cresce in un orto. Fiori­sce, raddoppia i suoi frutti; cresce sotto l'occhio del suo padrone. I suoi frutti sono dolci, la sua ambra deliziosa, e sempre nell'orto giunge alla fine dei suoi giorni ".

Spesso si era raccomandato il silenzio nel periodo an­teriore ma era stato un particolare silenzio : non parlare, non polemizzare se non sei abbastanza sveglio 48• Inoltre si metteva in rilievo che l'eloquenza poteva anche riscon­trarsi negli strati sociali piu bassi e che vi doveva essere incoraggiata ". Ora, in questo mutato spirito, si esortava costantemente al solo silenzio. Il successo definitivo po­teva essere raggiunto nei rapporti coi superiori o negli uffici governativi soltanto grazie al silenzio sottomesso '". Il silenzio era messo in rapporto ai desideri del dio <( che ama l'uomo silenzioso piu di colui che ha la voce alta >> " e la cui protezione avrebbe confuso gli avversari " . <( Quan­to alla dimora del dio, il suo abominio è il clamore. Prega

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I VALORI DELLA VITA I43 con il cuore amoroso, del quale tutte le parole sono ce­late. Allora egli soddisferà tutti i tuoi bisogni ; udrà ciò che dici e gradirà le tue offerte » ., . Il pozzo della sapien­za non è a disposizione di tutti coloro che vorrebbero at­tingerne, « è suggellato a colui che scopre la sua bocca, è aperto al silenzioso » 54•

La nuova filosofia deterministica era racchiusa nel con­cetto della volontà divina, posta a riscontro dell'inermità umana. « Il dio conosce sempre il successo, mentre l'uo­mo soltanto il fallimento ». Una della prime espressioni del proverbiale <( l 'uomo propone e Dio dispone » riaffer­ma il bisogno che l'uomo ha del dio : « Una cosa sono le parole che dicono gli uomini, altro è ciò che fa il dio » 55• Scomparsa è l'antica fiducia dell'uomo in se stesso inseri­to nel quadro dell'ordine universale; ora egli è destinato sempre al fallimento a meno di conformarsi alle diretti­ve emanate dal dio.

Cosi in quest'epoca si sviluppò un senso del fato, ov­vero di una potenza esterna predominante. Si potrebbe obiettare che questo non era del tutto mancato nemme­no nei tempi precedenti, sotto forma di questa o quella forza magica; il ka era stata una parte semistaccata della personalità che influiva sulla carriera dell'uomo, ma ora il dio-Fato e la dea-Fortuna erano poste fuori della per­sonalità e mantenevano un controllo remoto ma rigidis­simo. Non era piu possibile perseguire i propri interessi senza prendere in considerazione questi dominatori inve­stiti di potere dagli dei. <( Non spingere il tuo cuore alla ricerca delle ricchezze, [perché] è impossibile ignorare il Fato e la Fortuna. Non dedicare il tuo cuore alle esterio­rità, [perché] ogni uomo appartiene all'ora [che gli è designata] » 16• All'uomo veniva consigliato di non tenta­re di approfondire troppo i disegni degli dei, poiché le divinità del destino lo vincolavano strettamente. « Non [tentare] di scoprire i poteri del dio, [come] se non esistessero il Fato e la Fortuna » 57•

Il ruolo del fato assume un'importanza fondamentale soltanto in questo periodo, ma una certa misura di vo­lontarismo esisteva ancora, pur entro lo schema determi­nistico. Il giovane veniva esortato ad astenersi da un

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fatalismo che l 'avrebbe inceppato nella ricerca della sa­pienza:

Attento a non dire: « Ogni uomo è come impone l a sua na­tura_ L'ignorante ed il saggio sono della stessa stoffa. La Fortuna ed il Fato sono incisi nella natura [d'un uomo] ad opera del dio stesso. Ognuno trascorre la sua vita in un'ora ». No, la sapienza giova, e non ci si stanca di essa, ed un figlio dovrebbe rispondere con le parole del padre. Ti insegnerò a conoscere ciò che è bene nel tuo cuore, affinché tu faccia ciò che ti apparirà giusto 18•

Se il successo dipendeva soltanto dal dio e se l'uomo era votato al fallimento, dovremmo aspettarci di trovare espresso quel senso di inadeguatezza personale che si ma­nifesta in ultima analisi come coscienza del peccato, e fu ciò infatti che si produsse appunto in quest'epoca. Certo la natura del peccato non è sempre chiara , e può denotare eventualmente solo una irregolarità nel rituale piuttosto che una trasgressione alle leggi dell'etica. Ma possiamo ben ravvisare un riconoscimento di colpa !ad­dove un uomo afferma: « Per quanto il servo sia normal­mente propenso al malfare, tuttavia il dio è disposto alla clemenza >) ... In un'altro caso è un grave delitto di falso giuramento a far dire del dio: « Mi fece considerare da­gli uomini e dagli dei come un uomo che compie abomi­ni contro il suo Signore. Giusto fu Ptah, dio della verità, verso di me, quando mi corresse » 60•

Che cosa rimane agli uomini quando viene loro impe­dita la libera espressione della personalità e vengono in­seriti in un rigido sistema di conformismo? Ebbene, c'e­ra una via di scampo dalle angustie di questo mondo, nella promessa di un altro mondo, e si può riscontrare un'intensificazione del desiderio di evasione che porta in ultima analisi al monachesimo ed agli annunci apocalitti­ci. Ma la promessa di cose lontane rimane malcerta nel cuore dell'attività quotidiana, si desidera qualcosa di piu caloroso subito e immediatamente. Cos1 il senso del pec­cato richiede come antidoto il senso della vicinanza e della clemenza divina. L'individuo era inghiottito in un grande sistema impersonale e si sente smarrito, ma esi­steva un dio che si interessava di lui, ne puniva le tra­sgressioni, e lo risanava con misericordia. I testi ripetono

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frequentemente la esortazione ad un dio o ad una dea affinché abbiano compassione di un sofferente :

Chiamai la mia Signora, [allora] la vidi venire a me fra dolci aure. Mostrò misericordia verso di me, dopo avermi mostrato la sua mano. Si volse di nuovo verso di me con misericordia, mi fece scordare la malattia che aveva gravato su di me. SI, il Vertice dell'Occidente è misericordioso quando lo si invoca 61•

Cosi, a compensare la scomparsa del volontarismo in­dividualistico e l'imposizione di un determinismo comu­nitario, nacque una relazione personale piu calorosa fra l'egizio ed il suo dio, ed il periodo del tardo impero è stato caratterizzato dal Breasted come « l'epoca della pie­tà ». Il fedele provava amore e fiducia mentre da parte sua il dio concedeva giustizia e misericordia. NeUa rivo­luzione che sconvolge il sentire degli Egizi la buona vita non consiste piu nel coltivare la propria personalità, ma nell 'abbandonarla a qualche potenza piu forte, abbando­no che veniva compensato dalla tutela che quella forza offriva.

Ci vorrebbe troppo tempo per trattare distesamente Io sviluppo complessivo di questa evoluzione neUa psico­logia di un popolo. L'incentivo individualistico sostituito con la misericordia del dio non dette frutti soddisfacenti. La gioia scomparve dalla vita, si pretendeva che l'egizio si adagiasse con letizia nell'umiltà e nella fede, ma umil­tà egli non mostrò. La fede è « sostanza delle cose spe­rate e argomento delle non parventi ». L'egizio sperava sf di ottenere piu alte cose nel mondo a venire, nia le sue convinzioni sulle « non parventi » era limitata dal­l'esperienza delle parventi. Vedeva che il suo dio perso­nale, che gli mostrava misericordia nella sua debolezza era anch'egli meschino e debole. Vedeva che i massimi dei dell'Egitto, gli dei nazionali erano lontani, potenti ed esigenti. Il clero egizio accresceva pur sempre il suo potere e il suo dominio esigendo un conformismo cieco al sistema che garantiva potenza e controllo ai loro tem­pli. L'individuo era intrappolato dai riti e dalle obbli­gazioni ed il suo unico conforto stava nelle blande parole e nelle promesse di un futuro lontano. Da un voluttuoso

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compiacimento per questa vita egli si volse alla fuga dal­la vita.

Nel desiderio di fuggire il presente, l'egizio si volse non solo al futuro ultraterreno, ma anche al felice pas­sato. Come vedemmo nel primo capitolo agli Egizi i tem­pi remoti diedero sempre un'impressione di potenza, di dignità, e sempre si volsero ai modelli del passato, sia ai tempi mitici del dominio degli dei come ai tempi va­gamente storici dei primi re.

Piu sopra in questo capitolo abbiamo riportato un an­tico passo di sapore agnostico, nel quale l'autore afferma che gli antichi saggi Imhotep e Hardedef, benché citati soventissimo, sono incapaci di proteggere le loro tombe o di tutelare il loro patrimonio : a che cosa serve dun­que la loro sapienza? In tempi piu tardi il giudizio che si dava di quei predecessori mutò: la loro sapienza ave­va loro giovato, dal momento che li aveva fatti soprav­vivere nel ricordo deferente dei posteri :

Quanto a quegli scribi eruditi vissuti dopo l'epoca degli dei... i loro nomi si sono perpetuati, per quanto essi siano scomparsi... Non si fecero costruire piramidi di metallo con sepolcri di fer­ro. Non lasciarono figli che ereditassero [da loro] . .. Ma lasciarono come eredi gli scritti e la letteratura sapienziale ... Libri sapienziali furono le loro piramidi, e la penna fu la loro prole .. . C'è qualcuno ora simile a Hardedef? C'è qualche altro Imhotep? ... Sono spa­riti e dimenticati, ma i loro nomi li fanno ricordare attraverso i loro scritti! 61•

Il senso di un passato ricco e fiero confortò un'epoca che si sentiva incerta del suo presente. Infine questa no­stalgia dei tempi passati divenne arcaicismo, degeneran­do in un ricalco cieco e ignorante delle forme di un pas­sato remoto. La pietà individuale non era in grado di placare il disagio entro la concezione di un dio unico e paterno. La rict!rca dell'aiuto spirituale della religione deviò e ricorse agli oracoli ed all'osservanza strettissima del rituale, al punto che la religione si svuotò al punto di diventare vuota come la vide Erodoto. Chiuso nei li­miti di un conformismo nazionale anche il dio-re divenne un m::ro pupazzo alla mercè delle leggi, cosi come lo vi­de Diodoro. L'Egitto non ebbe né l'opportunità né la

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capacità di elaborare i rapporti reciproci fra l'uomo ed il dio in termini soddisfacenti a entrambi. Per esprimerci diversamente, l 'Egitto non trovò l'opportunità o la ca­pacità di elaborare il rapporto reciproco fra l'individuo e la comunità in termini soddisfacenti per entrambi. Gli Ebrei progredirono in questo senso, ma si trovano anco­ra oggi in difficoltà.

Il ruolo intellettuale dell'Egitto.

Forse che l'Egitto diede il contributo di un elemento significativo al progresso della filosofia, dell'etica, della coscienza universale dei tempi posteriori? Non certo en­tro ambiti ben precisi, come nel caso della scienza babi­lonese, della teologia ebraica, o del razionalismo greco o cinese. Si potrebbe osservare da un punto di vista critico che il peso dell'antico Egitto non fu pari al suo territo­rio, che i suoi contributi intellettuali e spirituali non fu­rono adeguati alla misura dei suoi anni di storia ed ai suoi monumenti, e che esso fu incapace di portare a com­pimento le promesse degli inizi.

Ma l'estensione stessa dell 'Egitto lasciò una traccia sui suoi vicini. Gli Ebrei ed i Greci erano profondamente consapevoli del potere e della stabilità passate di quel vi­cino colossale e riverivano vagamente e senza senso cri­tico « tutta la sapienza degli Egizi ».

Questa valutazione altissima fu di stimolo al loro pen­siero: rappresentò un senso di alti valori posti fuori del loro tempo e del loro territorio, sicché le loro filosofie ebbero il vantaggio di un retroscena storico, e lo stimolo di una curiosità per le piu alte conquiste egizie nell'ar­chitettura e nell 'arte, nell'amministrazione e nel senso dell'ordine geometrico. Per soddisfare quella loro curio­sità osservarono i progressi compiuti dall'Egitto, ma po­terono soltanto valutarli nei termini ricavati dalla loro stessa esperienza, perché quei progressi appartenevano ormai alla storia antica dell'Egitto. Gli Ebrei od i Greci dovevano riscoprire per loro conto �li elementi che ave­vano già perduto vigore in Egitto, la cui cultura aveva

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attinto i suoi vertici intellettuali e spirituali troppo pre­sto per poter sviluppare una filosofia che potesse essere tramandata nei secoli. Come Mosè, la cultura egizia colse l'immagine lontana della terra promessa, ma furono gli altri a varcare il Giordano per iniziare la grande con­quista.

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Note al Capitolo quarto.

1 Le due tombe sono quelle di Merekura, un visir della sesta dina­stia, e di Bekenrenef, un visir della ventiseiesima dinastia. C&. PORTER e Moss, Topographical Bibliography, vol. III: Menfi, pp. 140 sgg., 171 sgg.

2 « Dedication Addxess », ' dicembre 1931 . ' Utk., l , xo,-6. 4 Ptahhotep, passim. 5 Urk., IV, I I7. ' Ibid. , 499· 7 Ptahhotep, 42-,o. • ANTHI!.S, Lebensregeln und Lebensweisheit der alten Aegypter, pagi-

ne x2-13, • Ptahhotep, 6o-83. IO Ibid., 119-33· 11 Ibid., 264-69. IZ Ibid., J25·J2. u Ibid., 573. 14 Ibid. , 339·49· IS I bid. . 84·98. " Admon., passim. 17 Ibid. , 7, 2·4. 11 I bi d. , 9, 2. 19 Khekheperresonbu, ro. 111 Admon., 2, 12. 11 Leb., 93-95; 86-88. 21 Ibid. , 103·16. 2l lbid., 130·42. 24 I bi d., 142-47. 15 Ibid., 68. 16 Harris, 500, 6, 2·9·

27 Ibid. , 7, 2·3 · 21 Merikare, 36-37. 29 Ibid., n8-29. 10 Testi sepolcrali, B3C, linee 57o-76; B6C, linee 501-11; BrBo, linee

618-22; cfr. BREASTED, Dawn of Conscience, p, 22I . '1 TR, 37; Ree., 30, 189. n Testi sepolcrali, I, 181. " Bersheh, Il, XIX, 8, 8-9. :14 BIFAO, 30, 425 sgg.; il << tu » è mutato in « egli » nell'ultima frase. JS Peasant, B, 25o-,2. 36 Ad esempio, Pyr. Spr., 26o; cfr. SETIIE, Kommentar, l, 394: « Der

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150 L'EGITTO

rate Faden in dem Texte ist: Gerechtigkeit, in dem was dcm Toten im Le ben zuteil wurde und in dcm, was er selbst nach seinem tode thut ».

17 Urk., IV, 36o. 31 BREASTED, Ancient Records, vol. Il, § 39, n. d. 19 scriAEDEL, Die Listen des grossen Papyrus Haffis, p. 67. 40 Anii, 7, 17 - 8, 3 · 41 Amenemope, 16, 5-14 . " Berlino, 20 377; ERMANN, Denksteine, pp. 1086 sgg. 41 Berlino, 6910, Aeg. lnschr., II, 70. 44 JEA, 3, 83 sgg. 45 Urk., IV, 993; cfr. ibid. , 66; BIFAO, 30, _:j04 - tutti della diciot­

tesima dinastia. 46 Bibl. Eg., IV, 279, 281 ; Cairo, 42155; entrambi Bck<!nkhonsu del­

la diciannovesima dinastia. " Amenemope, 6, 1-12. '" Prisse, I , 1-3; 8, n-12; II, 8-n. Peasant, B, 298-99; B, 313-16;

Khekheperresonbu, verso, 4; Sali., II, 9, 9 - ro, I.

49 Ptahhotep, _:jS-,9; Peasant, B, 74-So. 50 An ii, 3, 17 · 4, r; 9, 10; Amenernope, 22, 1-18; 22, :zo - 23, II. 5 1 Beatty, IV, recto, '· 8; cfr. Beauy, IV, verso, '' 1-2. 51 Amenemope, 23, ro-n. 51 Anii, 4, 1-4. " Sali., l, 8, 5-6. 55 Amenemope, 19, 14-17. 56 I bid., 9. I0-13. S7 lbid. , 21, 1'·16. 58 Beauy, IV, verso, 6, 5-9. 59 Berlino, 20377. 60 British Museum, 589. 61 Torino, 102. 61 Beatty, IV, verso, 2, 5 - 3, r r .

Letture consigliate.

l rimandi dati nelle note ai capitoli II-IV sono forniti con abbre­viazioni note agli eginologhi che vogliano controllase la nostra tradu­zione. Per lo piu si riferiscono alle fonri. Per una letrura piu gene­rica non c'è un'opera sull'antico Egitto che svolga i temi di questi capi­toli. Comunque, certi titoli possono essere elencati in quanto possono fornire la possibilità di trattare la materia esaminata. JAMES H. BREASTED,

De1•elopment o/ Religion and Thought in Ancient Egypl (Scrihner's, New York 19r:z) fu un'eccellente opera introduttiva, che non è ancora stata sorpassata, neonche dall'altra opera dello stesso autore The D11wn o/ Consciencc (Scribner's, New York 1933). Vi sono capitoli udii in GEORGE STEIDORFF e KEITH c. SEELE, W ben Egypt Ru/ed the East (Chicago 1942) e in Th<! l..egac)' o/ Egypt, curato eia S. R. K. Glanville (Oxford 1942). I lettori che desiderino trovare traduzioni di testi egizi possono ricorrere ad ADOLF ERMANN, Tbc Literature of t be Ancient Egyptians ( traduzio­ne in inglese di Aylward M. Blackman, London 1927). Oltre ai due li­bri di Breasted, un'opera autorevole sulla religione egizia è ERMAN, Die Religion der Aegypter (Berlin-Leipzig 1934). Due trattazioni brevi degne di essere raccomandate sono gli opuscoli: ALAN n. GARDtNER, The Atti­rude o/ the Ancient Egyptians lo Death and the Dead (Cambridge 193') e RUDOLF ANTIIES, Lebensregcln und Lebensweisheit der alten Aegypter (Leipzig 1933).

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LA MESOPOTAMIA

di T horkild ] acobsen

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Capitolo quinto

LA MESOPOTAMIA:

IL COSMO COME STATO

Influenza dell'ambiente in Egitto ed in Mesopotamia.

Nel passare dall'antico Egitto all'antica Mesopotamia abbandoniamo una civiltà i cui monumenti imperituri si ergono tuttora, « fiere piramidi che proclamano il sovra­no potere dell'uomo trionfante sulle forze naturali » per accostarci ad una civiltà i cui monumenti sono scomparsi, le cui città - come disse il profeta - « sono diventate macerie ». Le grige montagnole che sole testimoniano del passato della Mesopotamia serbano assai poco dell'antica magnificenza e ciò corrisponde perfettamente al diverso carattere delle due civiltà. Se un egizio tornasse a vivere oggigiorno si rincuorerebbe vedendo che le piramidi per­durano, poiché la civiltà cui egli appartenne attribui al­l'uomo ed alle sue opere tangibili un piu alto significato che non la maggior parte delle altre civiltà; se invece tor­nasse in vita un mesopotamico non rimarrebbe troppo scosso accorgendosi che le sue opere sono state disperse, poiché egli ha sempre saputo, e saputo profondamente, che « i giorni dell'uomo sono contati; qualunque cosa faccia egli non è altro che vento » 1• Per lui il centro ed il significato dell'esistenza furono sempre posti al di là dell'uomo e delle sue opere, al di là delle cose tangibili nelle potenze intangibili che governano l'universo.

Non è facile chiarire le ragioni per cui la civiltà egizia e la civiltà mesopotamica hanno avuto atteggiamenti tan­to divergenti - l'una fiduciosa, l 'altra scettica di fronte al potere dell'uomo ed al significato ultimo della vita. L'in-

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I 54 LA MESOPOTAMIA

dirizzo di una civiltà è la risultante di un processo cosi complesso da sfidare un'indagine precisa. Ci limitiamo pertanto a indicare uno solo dei tanti fattori che sembra­no aver svolto un ruolo importante: l 'ambiente. I ca­pitoli secondo-quarto hanno già ribadito ] 'importanza decisiva dell'ambiente nel determinare l'atteggiamento dell'antico Egitto di fronte all'universo. La civiltà egizia sorge in una terra dove ogni villaggio si affianca in una confortante vicinanza ad altri villaggi in una terra cinta e isolata tutt'intorno da baluardi montani. Su questo mondo ben riparato transita ogni giorno il sole imman­cabile, che non delude mai l'attesa e, dopo le tenebre della notte, risveglia l'Egitto alla vita ed all'opera quoti­diana; ogni anno il Nilo fedele straripa per fertilizzare e vivificare il terreno. Pare quasi che la natura si sia deli­beratamente disciplinata, che abbia voluto isolare la val­le affinché l'uomo ci si goda in pace l'esistenza.

Non meraviglia che una grande civiltà, fiorita in un si­mile ambiente si sentisse pervasa dal senso della propria potenza e fosse profondamente compresa delle sue stesse opere, ossia delle opere dell'uomo. Nel quarto capitolo si è attribuito all'Egitto primitivo un << atteggiamento pio­nieristico, teso a risultati concreti , quale segue i primi successi in una nuova impresa » . Si trattava di un'arro­ganza giovanilmente fiduciosa in quanto ignara di falli­menti. L'uomo bastava a se stesso. E gli dei? Esistevano anch'essi in qualche luogo remoto e si doveva loro, sen­za dubbio, la creazione di quel mondo meraviglioso, ma il mondo era meraviglioso perché l'uomo ne era il pa­drone e poteva far benissimo a meno dell'aiuto costante degli dei.

L'esperienza della natura che determinò questo indi­riz7.0 si esprime nel concetto egizio del cosmo. Il cosmo dell'egizio è guanto mai garantito e confortevole. Possie­de, per citare le parole del secondo capitolo : « un ritmo rassicurante ; la sua cornice strutturale ed il suo mecca­nismo permettono un continuo rinnovarsi della vita gra­zie all'inesauribilità delle energie vitali » .

In un ambiente ben diverso nasce la civiltà mesopota­mica; vi riscontriamo, naturalmente, gli stessi grandi rit-

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IL COSMO COME STATO 155

mi cosmici, il volgere delle stagioni, il corso infallibile del sole, della luna e delle stelle, ma vi riscontriamo al­tresi un elemento di forza e di violenza che nell'Egitto è assente. Il Tigri e l'Eufrate non somigliano al Nilo, si abbandonano a piene imprevedibili e capricciose, infran­gendo gli argini eretti dall'uomo e sommergendo le messi. Si scatenano torridi venti che coprono l'uomo di polvere, minacciando di soffocarlo ; piogge dirotte trasformano la .terra solida in un mare di fango e privano l'uomo d'ogni possibilità di movimento : ogni viaggio è precluso. In Mesopotamia la natura non è soggetta ad alcuna discipli­na, anzi con furia scatenata contrasta e spegne la volontà dell'uomo, respingendolo sempre piu a fondo nella sua nullità.

Lo spirito della civiltà mesopotamica è un riflesso di questa situazione; l'uomo non è tentato di sopravalutarsi quando contempla le forze della natura : l'uragano e l'i­nondazione annuale. Dell'uragano il mesopotamico dice : « tremende vampe di luce coprono la terra come una col­tre » 2• Ecco un vivido quadro dell'inondazione:

Rampante dalle rive il fiotto travolge ogni cosa, Squassa la terra ed il cielo, madre e tiglio Nel suo sudario orribile avviluppa. Del canneto opulento stronca il fiore, E al tempo del rigoglio affoga le alte messi.

Acqua crescente, triste a vedersi, L'Onnipotente diluvio spaccando Gli argini falcia gli alberi robusti, Folle tempesta, che stracci e confondi Ogni cosa nella tua furia veloce '.

Preso fra tali forze, l'uomo intuisce la propria fragilità e si vede intrappolato in un gioco di gigantesche poten­ze. II suo animo si tende, mentre la sua debolezza gli fa sentire acutamente la presenza di tragiche eventualità.

L'esperienza della natura che ha dato origine a questo sentimento trova espressione nel concetto che si fa del cosmo l 'uomo mesopotamico. Egli non è affatto cieco di­nanzi ai grandi ritmi cosmici, ed il cosmo gli appare co­me un ordine, non come un caos. Ma quest'ordine non è per lui cosi garantito e confortevole come per l'egizio,

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LA MESOPOTAMIA

ed anzi egli sente in esso e sotto di esso una molteplicità di volontà individuali , potenzialmente opposte, poten­zialmente in conflitto, dalle quali una possibilità di anar­chia non poteva essere esclusa. Nella natura il mesopota­mico sente forze personali, gigantesche e caparbie.

L'ordinamento cosmico, quindi, non gli appare come un che di dato, anzi lo considera come una conquista, ot­tenuta da una continua integrazione delle molte volontà cosmiche personali, possenti e terrificanti. La sua nozione dell'universo tende pertanto a esprimersi come integra­zione di volontà, cioè come una molteplicità di ordina­menti sociali , come la famiglia, la comunità, e, in parti­colar modo, lo Stato. In breve: egli ravvisa nell'ordina­mento cosmico un ordinamento di volontà - uno Stato.

Nel presentare questa visione cosmica, tratteremo dap­prima il periodo nel quale si può supporre che sia nata, poi affronteremo il problema di ciò che il mesopotamico scorgeva nei fenomeni del mondo circostante, per dimo­strare come gli fosse possibile trasporre il concetto del­l'ordinamento sociale dalla sfera dello Stato al mondo completamente diverso della natura. Infine tratteremo particolareggiatamente tale ordinamento, soffermandoci a esaminare le forze che vi svolgevano un ruolo impor­tante.

Per;odo in cui si afferma la concezione mesopotamica del mondo.

Il concetto mesopotamico dell'universo sembra aver assunto la sua formulazione tipica press'a poco al tempo in cui si affermò compiutamente la civiltà mesopotamica, cioè nel periodo della scrittura primitiva, attorno alla metà del IV milleunio a. C.

Migliaia di anni erano già trascorsi dal tempo in cui l'uomo aveva fatto il suo ingresso nella vallata dei due fiumi, e le culture preistoriche si erano susseguite - l'una sostanzialmente simile all'altra, e non diverse, nell'insie­me, da quelle che caratterizzavano altre parti del mondo. In quei millenni l 'agricoltura era stata la principale fonte

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IL COSMO COME STATO 157

di sostentamento; gli strumenti venivano ricavati dalla pietra e raramente dal rame; l'agglomerato-tipo era quasi certamente il villaggio, costituito da famiglie patriarcali. Il cambiamento piu cospicuo che segnò il trapasso da una cultura all'altra, cambiamento non certo troppo pro­fondo, si produsse nel campo della fabbricazione e della decorazione delle ceramiche.

Ma con l'avvento del periodo prato-letterario il qua­dro muta. Di punto in bianco la civiltà mesopotamica si cristallizza. La struttura fondamentale, il quadro genera­le entro cui l'uomo mesopotamico vivrà, formulando i suoi piu profondi problemi e valutando per il seguito se stesso e l'universo, lampeggia improvviso all'orizzonte, chiaro e completo in ogni suo tratto essenziale.

Nel campo dell'economia compare l'irrigazione piani­ficata su 11asta scala a mezzo di canali, che da allora in poi caratterizzerà l 'agricoltura mesopotamica. Si produce un concomitante e correlativo aumento spettacoloso del­la popolazione, gli antichi villaggi si espandono diventan­do città, nuovi abitati sorgono in tutto il paese. Con la trasformazione del villaggio in città sorge la forma poli­tica della nuova civiltà : la democrazia primitiva. Nel nuovo Stato-città il potere politico poggia in ultima istan­za su un'assemblea di uomini liberi e adulti. Per lo piu gli affari della comunità vengono amministrati da un concilio di anziani, ma in tempo di crisi, ad esempio quando pende la minaccia di una guerra, l'assemblea ge­nerale conferisce poteri assoluti ad uno dei suoi membri, proclamandolo re. La monarchia è un incarico a tempo determinato, e come l 'assemblea può conferirlo, altret­tanto può revocarlo quando la crisi si sia risolta.

L'autorità politica centralizzata che questo nuovo or­dinamento politico rese possibile, fu forse, insieme ad al­tri fattori, la causa determinante della nascita di una ar­chitettura monumentale. Templi maestosi sorgono nella pianura, spesso costruiti su gigantesche montagne artifi­ciali di mattoni seccati dal sole, i famosi ziqqurat. Opere di proporzioni cosi imponenti presuppongono evidente­mente un alto grado di organizzazione e un'autorità di­rettiva della comunità.

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LA MESOPOTAMIA

Mentre nel campo economico e sociale si producono questi avvenimenti, altri si verificano in sfere piu spiri­tuali. Ed ecco l 'invenzione della scrittura; ritrovato utile, dapprima, a facilitare la contabilità sempre piu complessa determinata dall'incremento economico della città e dei templi, diventa poi il mezzo grazie al quale una lettera­tura importantissima ci è giunta. Inoltre la Mesopotamia genera una vera e propria arte degna di questo nome, tanto che le opere degli artisti primitivi possono reggere al confronto dei capolavori delle epoche seguenti .

È in questo periodo delle origini che in politica, in economia e nelle arti la MesopoLamia trova le sue forme direttive, creando gli schemi atti ad affrontare i vari aspetti dell'universo piu direttamente concernenti l'uo­mo. Non meraviglia pertanto che anche la concezione ge­nerale dell'universo si precisi e prenda forma in questo periodo. Come già s'è detto, la civiltà mesopotamica rav­visa nell'universo uno Stato. Ma questa interpretazione non si basa sullo Stato dei tempi storici, bensl su quel­lo preistorico - retto a democrazia primitiva. Abbiamo quindi ragione di concludere che l'idea di uno Stato co­smico si cristallizza assai presto, nel periodo in cui la democrazia primitiva è il prevalente tipo di Stato - quan­do anzi essa è la forma stessa della civiltà mesopotamica.

L'atteggiamento mesopotamico di fronte ai fenomeni della natura.

Giungiamo quindi alla conclusione che la concezione mesopotamica dell'universo è vecchia quanto la stessa ci­viltà mesopotamica. Dobbiamo domandarci ora in qual modo tale concezione sia riuscita ad imporsi . Certo per noi non ha senso parlare dell'universo come di uno Stato - parlare di pietre e stelle, di venti e acque in quanto cittadini e membri di assemblee legislative. Il nostro uni­verso è costituito di cose, di materia morta priva di vita e di volontà. Questo ci porta al problema di ciò che il mesopotamico ravvisava nei fenomeni che gli stavano d'attorno, nel mondo in cui viveva.

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IL COSMO COME STATO I 59

Nel primo capitolo, come il lettore ricorderà, si è affer­mato che « il mondo appare al primitivo né inanimato né vuoto, bensf pregnante di vita », che di fronte al pri­mitivo « ogni fenomeno può presentarsi non come un " oggetto " bensf come un " Tu ". In questo incontro il " Tu " svela le sue caratteristiche individuali, la sua qua­lità e la sua volontà ». Attraverso l'esperienza continua del rapporto lo-Tu può svilupparsi un quadro complessi­vo abbastanza coerente. Gli oggetti ed i fenomeni dd­l'ambiente che circonda l 'uomo vengono personificati in vario grado: essi sono in certo modo vivi, hanno volontà propria e ciascuno di essi ha una sua personalità ben de­finita. Allora si produce quella che il compianto Andrew Lang ha descritto con un'ombra di deprecazione come <( l'inestricabile confusione in cui gli uomini, gli animali, le piante, le pietre, le stelle si situano tutti su d'un li­vello unico di personalità e di esistenza animata » '

. Alcuni esempi possono dimostrare che le parole di

Lang bene colgono l'atteggiamento mesopotamico verso il mondo circostante. Il sale da cucina per noi è una so­stanza inanimata, un minerale. Per il mesopotamico è un essere fratello il cui aiuto si può invocare quando si cade vittime di magie o sortilegi. Ed ecco allora il colpito ri­volgersi al sale con queste parole:

O Sale, creatura di salustri luoghi, Enlil [j destinò agli dei, Non c'è pasto senza te a Ekur, Senza di te re, dei, padroni e principi Non fiutano incenso. Sono Tizio, figlio di Tizio Prigioniero d'un incanto Febbricitante per stregoneria. O Sale, spezza l'incanto! Sciogli la malia! Toglimi dal sortilegio! E cosi come il mio creatore Ti esalterò 5•

Ci si può accostare anche al Grano come ad un essere fratello. Offrendo farina per placare una divinità adirata, si può dire:

Ti manderò al mio dio irato, alla mia dea irata Il cui cuore trabocca di rabbia contro di me, Conciliami il mio dio irato, la mia dea irata.

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r 6o LA MESOPOT AMIA

Quindi il Sale ed il Grano non sono le sostanze inani­mate che conosciamo noi: sono vivi ed hanno una perso­nalità, una volontà proprie. Qualsiasi fenomeno del mon­do mesopotamico assume una sua personalità e volontà allorché viene accostato con spirito diverso da quello ba­nale, pratico, quotidiano: e cioè nell'ambito della magia, della religione, del pensiero speculativo. In un tal mon­do ha senso interpretare i fenomeni naturali come rap­porti sociali e parlare dell'ordinamento in cui si situa­no come di un ordinamento di volontà, ovvero di uno stato.

Dicendo che i fenomeni del mondo per il mesopota­mico sono dotati di vitalità e di personalità, abbiamo in­debitamente semplificato i fatti. Abbiamo ricamato su una distinzione potenziale che è sentita dal mesopotamico, ma non è esatto affermare che ogni fenomeno è una per­sona ; dovremmo piuttosto dire che in ogni fenomeno, dentro di esso e in certo modo dietro di esso, c'è una volontà ed una personalità, poiché il fenomeno nella sua concretezza non circoscrive e non esaurisce la volontà e la personalità che gli sono associate. Ad esempio; un blocco di selce ha una personalità ed una volontà chiara­mente riconoscibili, è scura, pesante, dura, stranamente facile a sfaldarsi sotto lo strumento dell'artigiano, pur trattandosi di uno strumento di corno e quindi meno du­ro della pietra lavorata. Orbene, la personalità caratteri­stica che è dato riscontrare in questo blocco di selce, la possiamo incontrare anche altrove, in un'altro blocco di selce, che par dire : « Eccomi di nuovo qui - scura, pe­sante, dura, disposta a !asciarmi sfogliare, sono io, la sei­ce ! » Dovunque si incontri, il suo nome è << Selce >> ed è disposta a farsi laminare senza difficoltà. E tutto ciò per­ché, avendo essa combattuto un tempo il dio Ninurta, Ninurta la puni condannandola a lasciarsi sfaldare ' .

Consideriamo un altro esempio - le canne che cresco­no nelle paludi mesopotamiche. I testi dicono chiaramen­te che di per se stesse non sono mai divine: una canna individualmente è soltanto una pianta, una cosa, e que­sto vale per tutte le canne. La singola canna però possie­de certe qualità meravigliose e sgomentevoli : ha il pote-

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IL COSMO COME STATO 1 6 1 r e misterioso d i crescere lussureggiante nelle paludi, è capace di produrre meraviglie quali la musica che si spri­giona dalla zampogna del pastore, o i segni ricchi di si­gnificato che prendono forma sotto lo stilo di canna dello scriba, diventando narrazione o poema. Questi poteri si trovano in ogni canna, ed essendo sempre gli stessi, fini­scono per riassumersi per il mesopotamico nella divina personalità della dea Nidaba. È Nidaba che fa vigoreg­giare le canne nelle paludi ; se ella non si aggira nelle vicinanze, il pastore non può cullarsi nella musica no­stalgica della zampogna di canne. A lei dà lode lo scriba quando una pagina difficile - e bella - gli fluisce dallo stilo. Cosi la dea è il potere stesso che si cela in tutte le canne e le rende ciò che sono, prestando loro le sue mi­steriose qualità. Ella fa tutt'uno con ogni canna nel sen­so che la permea come un principio animatore e indivi­dualizzante, senza tuttavia smarrire nella loro concretez­za d'oggetti la sua identità, anzi, trascendendo i limiti delle singole canne e di tutte le canne esistenti 7• Con una rozza ma efficace immagine gli artisti mesopotamici suggeriscono questo rapporto raffigurando la dea dei can­neti come una veneranda matrona fisicamente fusa con il mondo vegetale tanto che dalle sue spalle le canne ger­mogliano direttamente.

Posto di fronte a particolari fenomeni, a questo o quel blocco di selce, a questa o quella canna, il mesopotamico si sente dunque a cospetto di un io particolare e sente in esso una sorgente centrale di potenza che diventa essa stessa una personalità bene individuata. Questa sorgente di potenza permea i fenomeni individuali conferendo lo­ro i caratteri che debbono avere : « Selce », tutti i mucchi di selce; Nidaba, tutte le canne e via dicendo.

Un fatto ancor piu curioso è che ciascun io si può in­fondere in altre e diverse personalità, prestando loro, in un rapporto di parziale identità, il proprio carattere. Tro­viamo un esempio in un incantesimo mesopotamico con il quale un uomo tenta di fondersi con il cielo e la terra :

Sono il cielo, non mi puoi toccare, Sono la terra, non mi puoi stregare 1•

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LA MESOPOTAMIA

L'uomo tenta di allontanare dal suo corpo la stregoneria e la sua attenzione si fissa su di un'unica qualità del cielo e della terra, la loro inviolabilità.

Identificato che si sia con essi, questa qualità lo per­vaderà fondendosi con il suo stesso essere, sf da proteg­gerlo contro ogni possibile maledizione.

Molto simile a questo è un altro incantesimo che serve a rendere inattaccabile ogni parte del corpo grazie al­l'identificazione con gli dei ed i sacri emblemi:

Enlil è la mia testa, la mia faccia è il giorno Urash, l'incomparabile dio è il mio spirito tutelare. Il mio collo è collana della dea Ninlil Le mie braccia sono falce di luna all'occidente, Le mie dita sono tamerisco, ossa degli dei celesti; Esse allontanano l'abbraccio della malia dal mio corpo, Gli dei Lugal-edinna e Latarak sono il mio petto e le mie ginocchia Muhra i miei piedi senza requie errabondi P.

Anche qui l'identità perseguita è soltanto parziale; questi dei ed i sacri emblemi hanno la proprietà di in­fondersi nelle membra dell'uomo rendendolo inviolabile.

Come si crede che l'uomo possa raggiungere una par­ziale identificazione con i vari dei, cosf si ritiene che un dio possa identificarsi parzialmente con altri dei, parte­cipando quindi della loto natura e delle loro capacità. Cosf il volto del dio Ninurta è Shamash, il dio solare; una delle orecchie di Ninurta è il dio della sapienza, Ea - e cosi via per tutte le membra degli dei '". Queste strane affermazioni possono anche interpretarsi nel senso che il volto di Ninurta deriva la sua abbagliante radiosità dallo splendore proprio del sole, che verrebbe quindi a spartire con lui. Allo stesso modo il suo orecchio - poiché i Me­sopotamici credono che l'orecchio e non il cervello sia la sede dell'intelligenza - partecipa insieme con il dio Ea della sua suprema intelligenza.

Talvolta codeste affermazioni di parziale identificazio­ne assumono una forma lievemente diversa. Si dice ad esempio che il dio Marduk è il dio Enlil quando si tratta di governare o di consigliarsi con se stesso, ma che è Sin, il dio lunare, quando illumina la notte, ecc. " . Il significa­to è evidentemente questo: Marduk, quando governa e

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IL COSMO COME STATO

prende decisioni, partecipa della personalità, dei caratteri tipici e delle capacità proprie del divino potere esecutivo per eccellenza, il dio Enlil. Quando, d'altra parte, Mar­duk, in quanto pianeta Giove, splende nei cieli notturni, partecipa con il dio lunare dei particolari poteri caratteri­stici di quest'ultimo.

Pertanto ogni fenomeno che il mesopotamico coglie nel mondo circostante è dotato di una sua propria per­sonalità e di un suo proprio volere, di un suo io. Ma l'io che si rivela, ad esempio, in un certo blocco eli selce, non è delimitato da quel blocco, è in esso e tuttavia ad di là di esso, permea e caratterizza quel singolo blocco come un qualsiasi altro blocco di selce. Poiché un simile io può permeare diversi fenomeni particolari, cosi può anche per­meare altre individualità conferendo ad esse, in aggiun­ta alle qualità che ad esse spettano in proprio, anche il suo carattere specifico.

Comprendere la natura, i molti e vari fenomeni che circondano l'uomo, equivale pertanto a comprendere le personalità che animano questi fenomeni, conoscerne i caratteri, la direzione della volontà e anche l'ambito dei poteri: compiti questi, non dissimili da quello di capire gli altri uomini, afferrando il carattere, la volontà, la portata della loro potenza e della loro sfera d'influenza. lntuitivamente il mesopotamico applica alla natura l'e­sperienza che ha della società umana in cui vive, inter­pretandola in termini sociali. Un esempio particolarmen­te suggestivo varrà a illustrarlo: vedremo sotto i nostri occhi una realtà obiettiva assumere la forma di un fat­to sociale.

Secondo le credenze mesopotamiche uno stregato può distruggere i nemici che gli hanno lanciato l'incantesimo bruciandoli in effigie. L'io caratteristico del nemico lo fissa dall'immagine, ed egli può raggiungerlo e colpirlo nell'immagine tanto come nella persona. Perciò egli getta le immagini del nemico nel fuoco, al quale rivolge que­sto discorso:

Scottante Fuoco, figlio bellicoso del cielo Ferocissimo fra i tuoi fratelli Che decidi le cause legali come Sole e Luna -

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LA MESOPOTAMIA

Giudica tu il mio caso, largiscimi il verdetto. Brucia l'uomo e la donna che mi hanno stregato; Brucia, o Fuoco, l'uomo e la donna che mi hanno stregato; Bruciali o Fuoco, Scottali o Fuoco, Ghermiscili o Fuoco, Consumali o Fuoco, Annientali, o Fuoco ".

È chiaro che l'uomo s'accosta al fuoco perché sa che in esso si cela una forza distruttiva. Ma il fuoco è dotato di una sua autonoma volontà; brucerà le effigi e con esse i nemici, solo se lo vorrà. Nel decidersi a bruciare o me­no il fuoco si leva a giudice fra l'uomo ed i nemici del­l 'uomo: la situazione piglia l'aspetto di una lite giudizia­ria nella quale l'uomo svolge la sua difesa e prega il fuoco di rendergli giustizia. Il potere che risiede nel fuoco si è cosi calato in una forma precisa e viene interpretato in termini sociali : è diventato un giudice.

Come il fuoco diventa giudice, cosi altre forze naturali assumono una forma in situazioni analoghe. L'uragano è un guerriero, che scaglia il fulmine mortale; è udibile il rombo delle ruote del suo carro di guerra. La terra è una donna, una madre, che ogni anno dà alla luce una nuova vegetazione. I Mesopotamici in tutti questi casi si comportano come i popoli di tutti i tempi. « Gli uomini, - dice Aristotele, - immaginano che non solo l'aspetto degli dei, ma anche il loro modo di vita siano simili al loro )> ".

A voler individuare un tratto particolare di questo po­polo, si dovrebbe forse mettere in evidenza il modo con cui escogita e accentua i rapporti organici fra le forze na­turali. Mentre tutti i popoli umanizzano le forze non-uma­ne, raffigurandosele spesso secondo schemi sociali, il pen­siero speculativo mesopotamico enuclea e coordina con una precisione insolita questo implicito sistema di fun­zioni sociali e politiche, elaborandolo entro istituti pre­cisi. Questa particolarità è strettamente legata all'indole della società in cui il mesopotamico vive e dalla quale trae i suoi elementi ed i suoi giudizi.

Nell'epoca in cui l'universo si va delineando nella men­te del mesopotamico, egli vive, come si è detto, in una

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IL COSMO COME STATO

democrazia primitiva. Le grandi imprese, le decisioni im­portanti, prendono corpo in un'assemblea generale di tut­ti i cittadini, e non dipendono mai da un singolo. Torna quindi naturale, al mesopotamico che esamini la genesi degli eventi cosmici, cercar di capire come le singole for­ze cosmiche si manifestino e come, soprattutto, le sue forze particolari cooperino all'amministrazione dell'uni­verso. Nella sua concezione dell'universo, le istituzioni cosmiche assumono pertanto un'importanza capitale e la struttura dell'universo si prospetta chiaramente come la struttura di uno Stato.

La struttura dello Stato cosmico.

La comunità del cosmo mesopotamico include l'intero mondo esistente, anzi tutto ciò che è pensabile come en­tità: uomini, animali, oggetti inanimati, fenomeni natu­rali e anche concetti, quali la giustizia, la rettitudine, la forma del circolo ecc. Abbiamo già visto che tutte queste entità possono essere considerate come membri di uno Stato, in quanto hanno una volontà, un carattere ed una forza. Ma per quanto tutte le cose immaginabili parteci­pino dello Stato cosmico, non si trovano tutte sullo stes­so piano politico e la differenziazione reciproca si basa sul potere di ciascuna.

Nello Stato terrestre esistono gruppi estranei ad ogni partecipazione al governo. Né gli schiavi, né i bambini e probabilmente nemmeno le donne hanno il diritto di far­si sentire nelle assemblee, dove solo gli adulti liberi si radunano per decidere della cosa pubblica. Sono essi, per­tanto, gli unici cittadini nel senso pieno della parola. Al­trettanto vale nello Stato cosmico: solo le forze naturali la cui potenza ispira sgomento al mesopotamico, e che questi pertanto ha elevato al rango divino, sono conside­rate cittadini di pieno diritto nell'universo, dotati di di­ritti politici e capaci di esercitare un'influenza sulla cosa pubblica. L'assemblea generale dello Stato cosmico è per­tanto un'assemblea di dei.

La letteratura mesopotamica ci parla sovente di code-

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x66 LA Ml::SOPOTAMIA

sta assemblea, e piu o meno ne conosciamo il funziona­mento. È la massima autorità dell'universo; le decisioni d'importanza capitale sul corso degli eventi e sul destino di tutti gli esseri vengono prese e confermate dai membri dell'assemblea. Prima della deliberazione gli dei, favor� voli o contrari, discutono le varie proposte, talvolta assai animatamente. Il capo dell'assemblea è il dio del cielo, Anu. Al suo fianco siede Enlil, dio della tempesta. Uno di loro, per lo piu, apre il dibattito, che viene poi con­dotto dagli altri dei. Attraverso tali dibattiti (i Mesopota­mici li chiamano << il domandare l'uno all'altro ») le que­stioni vengono chiarite ed il consenso generale comincia a delinearsi. Il parere di un gruppetto esiguo costituito dagli dei principali, << i sette dei che determinano i desti­ni », ha poi un peso particolare. L'accordo viene in tal modo raggiunto, tutti gli dei assentono con un deciso << Cosi sia », e la deliberazione viene promulgata da Anu ed Enlil; essa è ormai << il verdetto, la parola dell' assem­blea degli dei, il comando di Anu ed Enlil ». Il potere esecutivo ovvero il compito di attuare le deliberazioni pare spetti ad Enlil.

I capi dello Stato cosmico.

S'è visto come gli dei che costituiscono l'assemblea di­vina sono quelle forze che i Mesopotamici riconoscono entro e dietro i varii fenomeni della natura. Quale di co­desti poteri però, ha il ruolo piu importante nell'assem­blea, sf da influenzare in modo decisivo il corso dell'uni­verso? In un certo senso si può rispondere : << Le forze del cosmo all'apparenza piu grandi e piu importanti ».

Anu, il massimo dio, è dio del cielo ed il suo nome è il nome con cui si designa usualmente il << cielo )) , La par­te predominante che occupa il cielo - anche in senso pu­ramente spaziale - nella composizione dell'universo visi­bile, e la posizione dominante di cui gode, alto levato al di sopra di tutte le cose, può ben spiegare come mai ad Anu sia riservato il rango di forza massima del cosmo.

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IL COSMO COME STATO

Enlil, il secondo dio in ordine di grandezza è il dio della tempesta. Il suo nome equivale a « Signore della Tempesta », e personifica l'essenza della tempesta. Chiun­que ha avuto esperienza della furia di una tempesta nella piatta e aperta Mesopotamia non può nutrir dubbi sulla potenza di questa forza cosmica. La tempesta, dominatri­ce di tutto lo spazio libero sotto la volta del cielo, detie­ne naturalmente il secondo rango fra i grandi componen­ti del cosmo.

Terza fra i componenti fondamentali dell'universo vi­sibile è la Terra. La Terra, cosi prossima all'uomo, di importanza cosi vitale per lui in tanti suoi aspetti, è dif­ficilmente delimitabile e configurabile entro un unico con­cetto. La troviamo come « Madre Terra », la fertile di­spensatrice di benedizioni, come « Regina degli dei », e « Signora delle montagne )>. Ma, essendo anche l'origine delle acque dispensatrici di vita ai fiumi, ai canali e ai pozzi, acque provenienti da un vasto mare interno, la terra viene altresi raffigurata come figura maschile, come En-ki, (( Signore della Terra )> e originariamente forse <( Dominator Terra )>. AI terzo ed al quarto rango nel no­vero degli dei mesopotamici troviamo due aspetti parti­colari della terra : Ninhursaga e Enki, che chiudono l'e­lenco degli elementi cosmici piu importanti, i quali eser­citano la massima influenza su tutto ciò che esiste.

a) Potenza in cielo: l'autorità. Le considerazioni di grandezza e di posizione non spiegano, da sole, il caratte­re specifico e la funzione che vengono attribuite, nell'u­niverso, a tutte queste potenze. Il mesopotamico indivi­dua il carattere e la funzione dei fenomeni mediante il confronto, l'incontro diretto con i fenomeni stessi, che (( rivelandosi a lui )>, lo impressionano profondamente.

Il cielo può, quando l'uomo si trova in uno stato par­ticolarmente ricettivo, rivelarsi attraverso un'esperienza quasi terrorizzante. Il vasto cielo che incombe da ogni lato può essere sentito come una nuda presenza, insieme soverchiante e sgomentevole, che costringe l'uomo a pro­sternarsi. Questo sentimento ispirato dal cielo è definito e può essere nominato : è il sentimento della maestà. Es-

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so racchiude l'esperienza della grandezza e anche del tre­mendo, e ne risulta all'uomo una acuta sensazione di nul­lità, di incolmabile lontananza. I Mesopotamici esprimo­no bene questo sentimento: « Deità sgomentevole come i cieli lontani, come l'ampio mare ». Ma per quanto sia un sentimento di distanza, esso non coincide tuttavia con l'assoluta separazione e non esclude la simpatia né l'ab­bandono piu pieno.

Inoltre l'esperienza della maestà è l'esperienza stessa della potenza, della potenza che confina con il tremendo, ma rimane tuttavia una potenza calma, che non impone consapevolmente la propria volontà. La potenza della maestà è cos( grande da non aver bisogno di prodigarsi : senza alcuno sforzo e con la sua stessa nuda presenza im­pone di obbedire; e le si obbedisce volontariamente, in virtu di un imperativo categorico che sorge dalle profon­dità dell'anima di chi la contempli.

La maestà e l'autorità assoluta che ispira la visione del cielo è chiamata dai Mesopotamici Anu. Anu è la perso­nalità soverchiante del cielo, il « Tu » che lo permea fa­cendosi sentire. Quando il cielo si consideri in sé e per sé - e questo può anche avvenire - decade al rango di cosa e diventa la dimora del dio.

Il « Tu �> che il mesopotamico incontra quando si tro­va a cospetto del cielo è sentito cosf possentemente da diventare per lui il centro e la fonte di ogni maestà. Quando in altre occasioni egli incontra la maestà e l'au­torità sa che si tratta della potenza celeste, di Anu. E di incentrarla altrove gli accade : l'autorità, il potere che de­termina l'accettazione e l'obbedienza automatiche è in­fatti una componente fondamentale di ogni società uma­na organizzata. Se non fosse per la cieca obbedienza ai costumi, alle leggi, a coloro che detengono l'autorità, la società si scioglie�ebbe nell'anarchia e nel caos. Pertanto il mesopotamico riconosce qualcosa di Anu e dell'essenza di Anu in coloro che detengono l'autorità - il padre di famiglia, il signore dello Stato. Come padre degli dei, Anu è il prototipo di tutti i padri, « re e signore origi­nario », e prototipo di tutti i capi. A lui appartengono le insegne che racchiudono in sé l'essenza della regalità - lo

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IL COSMO COME STATO

scettro, la corona, la fascia che cinge il capo, e il pasto­rale - e da lui hanno preso origine. Prima che un re fos­se mai stato creato fra gli uomini, queste insegne già esi­stevano, e stavano in cielo dinanzi ad Anu. Di li scesero in terra. È Anu che chiama al trono, e quando il re ordi­na e il suo ordine vient eseguito immediatamente e cie­camente, quando cioè « diventa vero », è sempre l'essen­za di Anu che si manifesta, è il comando di Anu che esce dalle labbra del re, è il potere di Anu che gli conferisce un'efficacia immediata.

Ma la società umana è per il mesopotamico soltanto una parte della piu vasta società universale. L'universo mesopotamico, che non consiste di materia morta e dove ogni pietra, albero, ogni oggetto immaginabile ha una vo­lontà ed un carattere proprio, è parimenti fondato sul­l'autorità; i suoi membri volontariamente e automatica­mente obbediscono agli ordini che li spingono ad agire secondo il loro dovere (tali ordini noi li chiamiamo leggi di natura). Cosf tutto l'universo mostra l'influenza di Anu.

Quando nella Genesi babilonese viene conferita l'au­torità assoluta al dio Marduk e tutte le cose e le forze dell'universo automaticamente si conformano alla volon­tà sua e tutto ciò che egli comanda si compie, allora il suo comando è diventato tutt'uno con l'essenza di Anu e gli dei esclamano : « La tua parola è Anu ».

Vediamo pertanto che Anu è la fonte ed il principio attivo in ogni autorità, tanto nella società umana come nella piu vasta società dell'universo. È la forza che sol­leva l'universo dal caos e dall'anarchia, facendone una struttura, un tutto organico, è la forza che garantisce l'obbedienza volontaria e necessaria agli ordini, alle leg­gi, al costume della società nonché alle leggi naturali del mondo fisico; in breve, all'ordine universale. Come un edificio è retto dalle sue fondamenta e nella sua struttura rileva le linee di esse, cosf l'universo mesopotamico è sostenuto da una volontà divina che si riflette nella sua struttura. Il comando di Anu è il fondamento del cielo e della terra.

La funzione di Ar:u su cui abbiamo indugiato viene succintamente ed icasticamente formulata dai Mesopota-

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LA MESOPOTAMIA

mtcr stessi : quando i grandi dei si rivolgono ad Anu nel Mito dell'elevc,.zione di !nanna, esclamano:

Ciò che hai ordinato si avvera! La parola del principe e signore è Ciò che hai ordinato, [ciò su cui] sei d'accordo.

O Anu! il tuo grande comando ha la precedenza, Chi potrebbe rifiutarsi?

O padre degli dei, il tuo comando, Il fondamento stesso del cielo e della terra, Chi mai lo potrebbe ignorare? ".

Come sovrano assoluto del mondo e massima autorità dell'universo, Anu è cosi descritto :

Tu che brandisci lo scettro, l'anello, il palu, Che chiami al trono,

Sovrano degli dei, la cui parola prevale Nell'assemblea dei grandi dei,

Signore della corona gloriosa, che con il tuo fascino Ispiri meraviglia,

Che cavalchi le grandi tempeste, che occupi il soglio Mirabilmente regale !

Alle parole della tua sacra bocca Gli lgigi prestano attenzione;

Timorosi dinanzi a te muovono gli Anunnaki, Come canne curvate dalla tempesta si chinano ai tuoi ordini

Tutti gli dei �>.

b) La potenza nell'uragano: la forza. Lasciando Anu, dio del cielo, per volgere la nostra attenzione verso En­lil, dio della tempesta, ci imbattiamo in una potenza di specie alquanto diversa . Come già suggerisce il suo nome (En-lil = « Signore Uragano »), egli è in un certo senso la tempesta stessa. In quanto padrone indiscusso di tutto lo spazio fra il cielo e la terra, Enlil è ovviamente la se­conda fra le massime potenze dell'universo visibile, se­condo soltanto al cielo che lo sovrasta.

Nella tempesta egli si « rivela ». La violenza, la forza che la pervadono e che gli uomini subiscono per tramite suo sono il dio stesso, Enlil. È dunque attraverso la vio­lenza e la forza della tempesta che noi possiamo com­prendere il dio e la sua funzione nell'universo.

La città di Ur aveva per lungo tempo tenuto in sogge­zione Babilonia. Poi cadde sotto la feroce invasione delle orde elamitiche che le piombarono addosso dalle monta-

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IL COSMO COME STATO

gne orientali. L'interpretazione particolare che il meso­potamico dà del suo universo prospetta assai diversamente questi avvenimenti : l 'essenza selvaggiamente distruttiva che si era manifestata in quell'aggressione era propria di Enlil: le orde nemiche non sono se non un manto, una forma esteriore sotto la quale quell'essenza si annida. In senso piu profondo e piu vero le orde barbariche sono una tempesta, la tempesta di Enlil, con la quale il dio stesso esegue un verdetto pronunciato dall'assemblea de­gli dei contro Ur e la sua gente. E come tempesta l'attac­co nemico è visto e descritto :

Enlil ha chiamato la tempesta. Le genti piangono.

I venti vivificatori ha tolto alla terra. Le genti piangono.

Ha tolto a Shumer i buoni venti. Le genti piangono.

Ha chiamato a raccolta i venti maligni. Le genti piangono.

Li ha affidati a Kingaluda, il custode delle tempeste. Ha chiamato a raccolta la tempesta che annienterà la terra.

Le genti piangono. Ha chiamato a raccolta i venti disastrosi.

Le genti piangono. Enlil - scegliendo Gibil come aiutante -Ha chiamato il grande uragano del cielo.

Le genti piangono.

L'uragano [accecante] ulula nei cieli - Le genti piangono -

La tempesta sconvolgitrice rugge sulla terra - Le genti piangono -

La tempesta, implacabile come l'alluvione, Piomba sulle navi della città divorandole. Tutti questi egli ha raccolto alla base del cielo

- Le genti piangono -Fuochi ha acceso, che annunciarono la tempesta.

Le genti piangono. Venti furibondi ha acceso sui due versanti La calura bruciante del deserto. Come la vampa di mezzogiorno questo fuoco ha bruciato ••.

La tempesta è la vera cagione della caduta della città.

La tempesta ordinata da Enlil nel suo odio, Che consuma il paese,

Copri Ur come un manto, l'avvolse come un sudario 17•

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172 LA MESOPOTAMIA

È la causa della distruzione:

Quel giorno la tempesta abbandonò la città; La città era una maceria.

O padn: Nanna, la città fu lasciata maceria. Le genti piangono.

Quel giorno la tempesta abbandonò il paese, Le genti piangono.

Non vasi votivi, ma cadaveri Costellavano gli approcci. Le mura erano squarciate, Gli alti cancelli, le strade, Erano coperti di morti. Nelle ampie vie dove si radunavano a festa le folle, Giacevano i cadaveri. Cadav�ri in tutte le strade e le vie. Nei campi aperti, già luoghi di danza, Giacevano a mucchi.

Ora il sangue della contrada ne riempie i solchi Come metallo nei calchi,

I corpi si sciolgono come grasso al sole 11•

Nelle grandi catastrofi della storia, nelle distruzioni deli­berate dall'assemblea degli dei, è sempre presente Enlil, essenza della tempesta. Egli è la forza, l'esecutore dei verdetti divini.

Enlil non si fa vivo soltanto come braccio degli dei, come esecutore di tutti i decreti punitivi dello Stato co­smico ma partecipa a ogni impiego legittimo della forza, e pertanto è lui a guidare gli dei in guerra. II grande mi­to mesopotamico della creazione Enuma elish ha uno svolgimento piuttosto turbolento, il suo eroe talvolta è questo, talaltra quel dio. È fuor di dubbio che il mito, alle origini, s'incentrava attorno a Enlil, descrivendo i pericoli che avevano minacciato gli dei assaliti dalle po­tenze del caos, quando né il comando di Enki, né quello di Anu, rafforzati dall'autorità dell'assemblea divina, ave­vano potuto fermarle; allora gli dei si erano radunati e avevano scelto il giovane Enlil a loro re e campione. En­Iil riusd infine a vincere il nemico, Ti'amat, per mezzo delle tempeste nell'impeto delle quali si esprime l'essen­za del suo essere.

Cosi nella società che costituisce l'universo mesopota-

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mico Anu rappresenta l'autorità, Enlil la forza. L'espe­rienza soggettiva del cielo, di Anu, è, come s'è visto, im­prontata al senso della maestà, dell'autorità assoluta che impone l'obbedienza con la sua nuda presenza. Colui che si trova a cospetto di essa obbedisce non per coerci­zione esterna ma in virtu di un imperativo categorico che sorge nella sua anima. Diverso il caso di Enlil, la tempesta. Anche qui ci sta di fronte il potere, ma è il potere della forza, della coazione. Le volontà avverse sono da lui in­frante e soggiogare. Nell'assemblea degli dei, corpo deli­berante dell'universo, Anu presiede e dirige i procedi­menti; la sua volontà e la sua autorità, accettate libera­mente e volontariamente, guidano l'assemblea cosi come una costituzione regge gli atti di un corpo legislativo. In verità la sua volontà è la costituzione non scritta e vi­vente dello Stato mondiale mesopotamico. Ma tutte le volte che la forza si inserisce nel quadro degli eventi, quando lo Stato cosmico impone il suo volere contro l'opposizione, allora Enlil è al centro della rappresenta­zione, esegue le sentenze emanate dall'assemblea e guida gli dei in guerra. Cosi Anu ed Enlil impersonano, su un piano cosmico, i due poteri che stanno alla base di ogni Stato, l'autorità e la forza legittima, poiché se l'autorità di per sé sola basta a tenere insieme una comunità, que­sta si trasforma in Stato solo quando esprime organi tali da conferir forza effettuale ai suoi ordini; quando i suoi rappresentanti, per citare Max Weber, « detengono con successo il monopolio della coercizione fisica legittima )), Possiamo pertanto dire che, mentre è la potenza di Anu a fare dell'universo mesopotamico una società organizza­ta, è la potenza complementare di Enlil a definirla come Stato.

Poiché Enlil è la forza, il suo carattere è bilaterale: egli è nel contempo la fiducia e la paura dell'uomo. È la forza come forza legittima, sostenitrice dello Stato, roc­cia su cui poggia anche il potere degli dei. L'uomo lo sa­luta con queste parole :

O tu che racchiudi cielo e terra, dio veloce, Saggio maestro delle genti Che sorvegli le regioni del mondo,

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174 LA MESOPOTAMIA

Principe, consigliere, la cui parola è ascoltata, La cui parola pronunciata ... gli dei non possono mutare, Le cui labbra enunciano ciò che nessun dio può rifiutare; Gran signore, sovrano degli dei in cielo, Consigliere degli dei sulla terra, principe giudizioso ".

Eppure, poiché Enlil è la forza , nelle tenebre della sua anima sono celate la violenza e la furia selvaggia. Enlil regge normalmente l'ordinamento cosmico, lo preserva dal caos; ma all'improvviso, imprevedibile, la furia sel­vaggia nascosta in lui potrà erompere. Questo aspetto di Enlil è l'anormalità, presente e terrorizzante, una disper­sione della vita e del senso della vita. L'uomo pertanto non si troverà mai a suo agio con Enlil, ma proverà un terrore segreto, che si esprime sovente negli inni che ci sono pervenuti;

Che cosa ha progettato ... ? Che cosa è nel cuore di mio padre? Che cosa è nella sacra testa di Enlil? Che cosa ha progettato contro di me nella sua sacra testa? Ha teso una rete: la rete d'un nemico. Ha posto un'esca: l'esca d'un nemico. Ha sollevato le acque e coglierà i pesci. Ha teso la sua rete, e trarrà [dal cielo] gli uccelli 211•

La stessa paura traspare da altre descrizioni di Enlil, capace di lasciar perire il suo popolo nella tempesta im­pietosa. L'ira del dio è quasi patologica, un interno tu­multo dell'anima che lo rende insensato, inaccessibile ad ogni appello:

O padre Enlil ! I suoi occhi fiammeggiano, Quanto ci vorrà - perché tornino quieti? O tu che hai celato la testa nel manto - fino a quando? O tu che hai posto la testa sulle ginocchia - fino a quando? O tu che hai chiuso il tuo cuore come una fossa di terracotta

- fino a quando? O possente che ti sei turate le orecchie con le dita

- fino a quando? O padre Enlil, essi stanno morendo in questo momento n.

c) Il potere della terra: la fertilità. La terza grande componente del cosmo visibile è la Terra ed il mesopota­mico in essa riconosce la terza grande forza naturale del­l'universo. La comprensione di questa forza e delle sue

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modalità è stata raggiunta, come nel caso del cielo e del­la tempesta, attraverso l'esperienza diretta, come interio­re volontà e direttiva. Quindi l'antico nome di questa divinità, Ki, « Terra » si mantiene a stento e viene sosti­tuito da altri nomi, corrispondenti a varie caratteristiche. La terra si rivela al mesopotamico anzitutto come « Ma­dre Terra », fonte inesauribile e misteriosa di ogni vita nuova e della fertilità in tutte le sue forme. Ogni anno essa genera erba e piante. L'arido deserto diventa verde dall'oggi al domani. I pastori conducono fuori le loro greggi, le pecore e le capre dànno alla luce agnellini e ca­pretti. Tutto prospera e s'accresce. Sui bei campi di Shu­mer « il grano, la vergine verde, solleva il capo dal sol­co )> ; ben presto una messe abbondante riempirà i granai. L 'umanità sazia sentirà una vita strabocchevole sollevarsi in un'ondata di benessere fisico.

La forza che tutto pervade - la potenza che si mani­festa nella fertilità, nella nascita, nella nuova vita - è l'essenza stessa della terra. La terra come potenza divina è Nin-tu, « la signora che procrea )>, è Nfz-zi-gal-dim-me, « colei che foggia ogni cosa in cui palpita il soffio della vita ». I bassorilievi la raffigurano come una donna che allatta un bimbo, mentre gli altri bambini le stanno na­scosti sotto le vesti facendo qua e là capolino; embrioni la circondano. Come incarnazione di tutte le forze ripro­duttive dell'universo, è « la madre degli dei » ed è altresi madre e creatrice dell'umanità. Essa è infatti, come dice un'iscrizione, « madre di tutti i figli )> . Se vuole, essa può negare ad un malvagio la capacità di crearsi una progenie e perfino fermare tutta l'attività riproduttiva del paese.

Come principio attivo della nascita e della fertilità nel rinnovamento annuo della vegetazione, nel crescere delle messi e nella moltiplicazione delle greggi, nel perpetuarsi della razza umana, essa detiene di diritto la sua posizione di potenza dominante, e siede accanto a Anu ed Enlil nell'assemblea degli dei, il corpo legislativo dell'universo. È Nin-mah, « la regina esaltata )>, la « regina degli dei )>, « regina dei re e dei signori )>, <( la signora che determina i fati » e « la signora che prende decisioni circa il cielo e la terra ».

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LA MESOPOTAMIA

d) La potenza dell'acqua: la creatività. La terra, co­sf vicina all'uomo, cosi varia e molteplice nei suoi carat­teri, non può facilmente venir concepita come un'unica entità; è troppo ricca e diversa perché un singolo con­cetto riesca ad esprimerla compiutamente. Ne abbiamo già descritto uno degli aspetti fondamentali, la fertilità del suolo, il principio che si attua nella nascita e nella procreazione; la Madre Terra. Ma dalla terra sorgono an­che le dolci acque dispensatrici di vita; le acque dei poz­zi, delle fonti, dei fiumi; e pare che nei tempi arcaici que­ste « acque che vagano nella terra >> siano state conside­rate parte integrante della sua stessa natura, uno dei suoi molteplici aspetti. Allora, però, il potere che la animava doveva essere maschile, En-ki, il « signore della terra » . Nei tempi storici soltanto il nome di Enki ed il ruolo che egli sostiene in certi miti indicano che tanto lui quanto la dolce acqua non erano se non un particolare aspetto della terra come tale. Le acque (ed il potere in esse insi­to) si sono emancipate, assumendo una loro particola­re individualità ed essenza. Nell'esperienza soggettiva del mesopotamico, la potenza dell'acqua è potenza creatrice, volontà divina volta a produrre nuova vita, nuovi esseri, nuove cose. Quindi è affine alle potenze della terra, cela­te nel fertile suolo. C'è tuttavia, una differenza - quella che corre fra l'attivo ed il passivo. La terra, Ki, Ninhur­saga, o come altrimenti viene chiamata, è immobile; la sua è una fertilità passiva. L'acqua invece, va e viene. Fluisce sul prato irrigandolo, poi si diparte a rivoli. È come animata da una volontà e da un chiaro intento. È, tipicamente, produttività attiva, pensiero cosciente, crea­tività.

Inoltre l'acqua si sceglie strade tortuose, preferisce evi­tare piuttosto che affrontare gli ostacoli, devia e tuttavia raggiunge la meta. Il contadino che la dirige per l 'irriga­zione, agevolandone il cammino di canale in canale, sa quanto essa possa essere ingannevole, come sfugga facil­mente e prenda svolte impreviste. Ecco dunque che l'idea della intelligenza superiore viene attribuita ad Enki. Que­sto aspetto del suo essere sarebbe stato ulteriormente

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IL COSMO COME STATO

sviluppato dalla contemplazione delle tenebrose, raccolte e impenetrabili acque dei pozzi e delle lagune, suscetti­bili, forse, di richiamare le qualità intellettuali piu pro­fonde, la sapienza e la conoscenza. Nel funzionamento dell'universo le potenze particolarmente soggette ad En­ki si manifestano sovente ed in luoghi diversi. Sono di­rettamente attive nei ruoli svolti dovunque dall'acqua : quando cade dal cielo in forma di pioggia, quando scen­de verso il mare nei fiumi, quando nei canali vien fatta fluire per campi e orti, dando vita alle messi e prosperità al popolo. Ma l'essenza di Enki si manifesta in tutte le forme del pensiero : sia che ispiri nuovi criteri per l'azio­ne concreta, come la saggezza nel consigliare (è Enki che dà ai reggitori la loro ampia intelligenza e « schiude le porte della comprensione ») sia che suggerisca nuove co­se, come all'abilità dell'artigiano lEnki è il dio degli arti­giani per eccellenza). Soprattutto la essenza ed i suoi po­teri si manifestano nei possenti incanti dei sacerdoti esor­cisti : è lui a dare i possenti ordini che sono alla base dei sortilegi dei sacerdoti, ordini capaci di domare le forze scatenate o di allontanare gli spiriti maligni che minac­ciano l'uomo.

La molteplicità dei poteri di Enki e il posto che occu­pano nell'universo organizzato, trovano il loro esatto cor­rispettivo nell'ufficio a lui attribuito nello Stato univer­sale. È un nun, cioè un grande nobile che eccelle per esperienza e saggezza - un consigliere non dissimile dal witan anglosassone, ma non è un re, un sovrano: detiene il suo ufficio in quanto gli è stato attribuito. La sua auto­rità gli perviene da Anu ed Enlil, dei quali è ministro. Ai nostri tempi lo si potrebbe chiamare il ministro del­l 'agricoltura dell'universo, incaricato di vigilare i fiumi, i canali e l'irrigazione, di organizzare le forze produttive del paese, appianando con i suoi saggi consigli, con. l'ar­bitrato e la conciliazione, le eventuali controversie. Ecco un inno sumerico che bene descrive lui ed i suoi compiti:

O Signore, che con i tuoi occhi di mago, anche quando sei immerso nel pensiero,

E immobile, penetri tutte le cose,

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LA MESOPOTAMIA

O Enki, dali 'infinita accortezza, alto consigliere, Degli Annunaki,

Saggissimo, che imponi obbedienza quando dispieghi la tua intelligenza

Nel conciliare e nel decidere Appianando le controversie legali; consigliere

Dall'alba al tramonto, O Enki, padrone della parola prudente, a Te

Do lode; Anu tuo padre, primitivo re e sovrano

D'un mondo in formazione, Ti diede il potere, in cielo ed in terra, di guidare e foggiare,

Sollevandoti a loro padrone, Per sgombrare le pure bocche del Tigri e dell'Eufrate,

Per dar vigore alla verzura, Raddensando le nubi, assicurando acqua in abbondanza

A tutte - le terre arate, Per far levare il capo al grano nei solchi e rendere

Abbondanti i pascoli nel deserto, Per far germogliare i virgulti nelle piantagioni e negli orti,

Dove furono piantati come una foresta, Anu, re degli dei, ti designò,

Mentre Enlil ti attribui il suo nome potente e sgomentevole Come signore di tutto il creato

Sei un giovane Enlil, Fratello minore, sei tu, di colui che è l'unico dio

In cielo ed in terra, Per fissare i destini, come fa lui, dd nord e del sud

Egli ti designò. Quando la tua giusta deliberazione ripopoli

Le città deserte, Quando, o Sabara, innumerevoli genti si siano stabilite

In lungo e in largo nel paese, Tu ti preoccupi di mantenerle,

Di far loro da padre. Esse lodano la grandezza dd loro Dio e Signore u.

Sommario: lo Stato cosmico e la sua struttura.

Enki ci fornisce un elenco particolareggiato delle enti­tà e delle potenze dell'universo mesopotamico. La lista è lunga, talune sono potenze insite nelle cose e nei feno­meni dell 'universo, altre - almeno dal nostro punto di vista - rappresentano cor1cetti astratti. Ognuna influenza in modo particolarissimo il corso dell 'universo entro una ben definita sfera d'azione. Tutte traggono la loro auto-

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IL COSMO COME STATO 179

rità da una potenza situata piu in alto nella gerarchia del­le potenze costituenti l'universo. In taluni casi, come ad esempio per Enki, è stata l'autorità suprema, Ann o En­lil, a conferire l'ufficio. Sovente, tuttavia, la gerarchia non arriva cosf in alto, poiché, come uno Stato umano comprende in sé parecchi ordinamenti sussidiari a varii livelli - famiglie, latifondi ecc. - ciascuno dotato di una sua organizzazione ma tutti integrati nell'ordinamento superiore dello Stato, cosi anche entro lo Stato cosmico sussistono varie potenze minori : famiglie divine, casati divini, proprietà divine con massari, sorveglianti, servi e altri dipendenti.

Le linee maestre della visione mesopotamica dell'uni­verso saranno ormai chiare, speriamo, e si possono sun­teggiare cosi: l'universo mesopotamico non mostra, come il nostro, una fondamentale linea spartiacque fra l'ele­mento animato e l'inanimato, fra la materia viva e morta. Esso non distingue, altresi, i diversi piani della realtà: tutto ciò che può essere sentito o sperimentato o pensato afferma senz'altro la propria esistenza come parte del co­smo. Tutto, pertanto, nell'universo mesopotamico, sia es­sere vivente o cosa inanimata o concetto astratto - ogni pietra, albero, concetto - ha un proprio carattere ed una propria volontà.

L'ordine del mondo, la regolarità e la sistematicità ri­scontrabili nell'universo potevano - in un universo com­posto esclusivamente di individui - essere concepiti in un unico modo, come un ordinamento di volontà. L'uni­verso, visto come un tutto organizzato, era una società, uno Stato.

La forma di Stato in cui il mesopotamico proietta l'u­niverso è la democrazia primitiva, forma che pare preva­lente all'origine della civiltà mesopotamica.

Nella democrazia primitiva della Mesopotamia arcai­ca - come nelle democrazie pienamente sviluppate del mondo classico, la partecipazione al governo spetta ad una parte considerevole dei membri dello Stato, ma non certo a tutti. Gli schiavi, i bambini e le donne, ad esem­pio, non avevano parte nel governo della democratica Atene, né tali gruppi potevano aver voce nell'assemblea

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popolare degli Stati-città mesopotamici. Nello Stato uni­versale c'erano parimenti parecchi membri privi di in­fluenza politica e di partecipazione al governo, e ad essi apparteneva, per fare un esempio, l'uomo. La posizione dell'uomo nello Stato universale è parallela a quella del­lo schiavo nella città-Stato umana.

Il potere politico è nelle mani di quei membri dello Stato universale che soli, in virtu del loro innato potere, potevano essere classificati fra gli dei. Soltanto essi era­no veri cittadini in senso politico. Abbiamo menzionato alcuni dei piu importanti: il cielo, la tempesta, la terra, l 'acqua . In ogni dio, inoltre, veniva visto come l'espres­sione o la manifestazione di una volontà e di un potere grazie ai quali erano ed agivano in un determinato modo. Enlil, ad esempio, è la volontà ed il potere stesso di infu­riare in una tempesta ed è altresi la volontà ed il potere stesso di distruggere una popolosa città mediante l'ag­gressione di barbare popolazioni montane : la tempesta e la distruzione sono manifestazioni di una sola e identica potenza . Comunque, il riconoscimento di questa molte­plicità di volontà non conduce all'anarchia ed al caos: ogni potenza è circoscritta entro limiti entro i quali essa assolve alle sue funzioni, e la sua volontà si integra con quella di altre potenze entro uno schema generale che fa dell'universo una struttura, un tutto organico.

L'elemento integrativo fondamentale è Anu e le altre potenze si sottomettono volontariamente alla sua autori­tà. Egli conferisce a ciascuna un compito ed una funzione nello Stato mondiale, sicché la sua volontà è la base del­l'universo e si riflette nella sua struttura.

Ma come ogni Stato, l'universo mesopotamico dev'es­sere dinamico, non statico. L'attribuzione pura e sempli­ce di compiti e funzioni non basta a formare uno Stato. Lo Stato sussiste e funziona soltanto grazie alla coopera­zione delle volontà alle quali sono affidati i diversi com­piti, solo mediante il loro integrarsi reciproco ed il loro armonico inquadramento, data una determinata situazio­ne, in questioni di interesse generale_ Per questo inqua­dramento delle volontà l'universo mesopotamico si avva­le di un'assemblea generale di tutti i cittadini nella quale

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IL COSMO COME STATO I 8 I

Anu dirige e presiede i procedimenti. Il pro ed il contro delle questioni viene dibattuto finché non cominci a de­linearsi un consenso collegiale, quindi si procede a pesare sulla bilancia con l'approvazione dei sette dei piu emi­nenti, fra i quali Anu ed Enlil. Cosi si concordano i de­stini ed i futuri eventi di particolare importanza, che ven­gono garantiti dall'unanime volontà di tutte le grandi potenze dell'universo e ricevono infine esecuzione ad ope­ra di Enlil. Cosi funziona l'universo.

Riflessi della concezione dell'universo nei miti primitivi.

La filosofia che abbiamo cosi delineata, l'appercezione della realtà come un tutto in forma di Stato, ebbe origi­ne, come s'è detto, nella civiltà mesopotamica attorno alla metà del rv millennio prima della nostra era. La con­cezione, in quanto filosofia dell'esistenza e atteggiamento fondamentale di una civiltà, ebbe in gran parte un carat­tere assiomatico: Come la scienza matematica non si oc­cupa troppo degli assiomi in quanto non sono problemi ma verità ovvie dalle quali si prende l'avvio alla ricerca, il pensiero mesopotamico del III millennio non si interes­sa molto della propria base filosofica.

Ormai non ci resta - né è questo un fatto casuale -alcun mito arcaico sumerico che prenda per tema la que­stione basilare : perché l'universo è uno Stato? Come giunse a essere tale? Troviamo invece che lo Stato mon­diale è assunto come un dato, resta lo sfondo riconosciu­to e generalmente accettato contro il quale si stagliano le varie storie e al quale esse vengono riferite, ma non costituisce mai il tema precipuo. Il tema precipuo è sem­pre qualche particolare: una questione che vetta sull'in­serimento di uno o piu aspetti individuali nel quadro d'insieme: ecco la domanda - e la risposta - del mito. Ci troviamo di fronte ai prodotti di un'epoca che ha già ri­solto i grossi problemi e può interessarsi ai particolari. Soltanto molto piu tardi, quando lo <( Stato cosmico » va perdendo evidenza, l'attenzione si sposta ai problemi fon­damentali che comporta una simile concezione del mondo.

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1 82 LA MESOPOTAMIA

Il problema posto e risolto dalla prolifica e varia let­teratura mitologica del m millennio si può approssima­tivamente sunteggiare in tre capi. Ecco in primo luogo i miti delle origini che si propongono il problema dell'ori­gine di qualche entità particolare del cosmo o di un certo gruppo di tali entità: dei, piante, uomini. La soluzione è data in termini di nascita, piu raramente in termini di creazione o di produzione artigianale.

Il secondo gruppo consiste nei miti dell' organi:z:r.azio­ne. Tali miti si propongono la questione di come un cer­to aspetto o un determinato settore del mondo esistente abbia avuto origine : come questo o quel dio sia stato in­vestito del suo compito e della sua funzione, come si sia organizzata l'agricoltura, come siano sorte certe classi di mostruosi esseri umani e come abbiano ottenuto un ran­go. I miti rispondono: « Per decreto divino ».

Vi sono, infine, i miti del valore, che in certo senso, fanno parte della categoria generale dei miti dell'organiz­zazione. Essi si pongono il problema del diritto in base al quale questa o quella cosa occupa la sua posizione par­ticolare nell'ordinamento universale. Tali miti valutano la posizione del contadino nei confronti di quella del pa­store o, assumendo un atteggiamento diverso di fronte allo stesso problema, la posizione del grano nei confronti di quella del cotone; indagano sui meriti rispettivi del­l'oro prezioso e dell'ordinario, ma piu utile, rame, ecc. I valori impliciti nell'ordine esistente vengono cosi con­fermati e ricondotti alla decisione divina. Vediamo ora, innanzitutto, i miti che vertono su qualche particolare aspetto delle origini.

a) Particolari aspetti delle origini. Non ci possiamo soffermare che su alcuni aspetti tipici delle storie delle origini e cercheremo di scegliere le storie alle quali si è già accennato tratteggiando i caratteri generali.

Il mito di Enlil e Ninlil: la luna ed i suoi fratelli. Il mito di Enlil e Ninlil risponde alla domanda: Come ha avuto origine la luna e come fu che questa splendida divinità ebbe tre fratelli, tutti e tre collegati al mondo

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IL COSMO COME STATO

degli inferi? Il mito ci riporta alle origini dei tempi, alla città di Nippur, nella Babilonia centrale. Chiama la città con i suoi vetusti nomi, Duranki e Durgishimmar, e iden­tifica il fiume che le scorre accanto, l'attracco, il porto, il pozzo ed il canale, rispettivamente con i nomi di Idsalla, Kargeshtinna, Karusar, Pula! e Nunbirdu: tutti luoghi situati nel Nippur storico e ben noti agli ascoltatori . Poi il mito identifica gli abitanti della città: sono le divinità Enlil, Ninlil e Ninshebargunnu.

SJ:, abitiamo in città, Duranki Proprio in quella città, Durgishimmar. Questo stesso fiume, l'Idsalla, era la sua corrente pura, Questo stesso approdo, il Kargeshtinna, era il suo approdo. Questo stesso porto, il Karusar, era il suo porto. Questo stesso pozzo, il Pula!, era il suo pozzo. Questo stesso canale, il Nunbirdu, era il suo scintillante canale. Per non meno di dieci iku si stendevano, se misurate, le sue culture. Ed il giovane che vi abitava era Enlil, E la giovinetta Ninlil, E la madre Ninshebargunnu 21•

Ninshebargunnu avverte la :figliola di non andare a fare il bagno da sola nel canale: occhi in agguato posso­no vederla, qualche giovane violentarla.

In quei giorni la madre che l'aveva procreata istruf la giovinetta, cosi Ninshebargunnu istruf Ninlil:

« Nella pura corrente, O donna, nella pura corrente non bagnarti! Nella pura corrente, O Ninlil, nella pura corrente, O donna,

Non ti immergere! O Ninlil, non arrampicarti sulla sponda del canale Nunbirdu, Con i suoi occhi scintillanti, il signore, con i suoi occhi scintillanti

Ti spierà; Con i suoi occhi scintillanti ti spierà, il gran monte,

Padre Enlil; Coi suoi occhi scintillanti ti spierà, il ... pastore,

il foggiatore di destini. E subito ti abbraccerà e bacerà! »

Ma Ninlil è giovane e cocciuta.

Ascoltò forse le istruzioni che le aveva date? In quella stessa corrente, pura, in quella stessa corrente, pura,

La fanciulla si bagna. Sulla sponda del canale, la sponda di Nunbirdu, si arrampica Ninlil.

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LA MESOPOT AMIA

Tutto avviene secondo i timori di Ninshebargunnu. Enlil scorge Ninlil, tenta di sedurla e quando ella rifiuta la prende con la forza. La lascia incinta di Sin, il dio lu­nare.

Ma il delitto di Enlil non è ignorato. Al suo ritorno in città, mentre attraversa la piazza - cosi dobbiamo raffi­gurarci Kiur, il grande cortile del tempio - viene arresta­to e portato dinanzi alle autorità. L'assemblea degli dei e dei sette la cui opinione ha un peso speciale, decisivo, lo condanna all'esilio perché colpevole di stupro . (Il sen­so della parola che traduciamo con « violentatore )> è qui piu generale : « uomo tabu in rapporto a cose sessuali »).

Enlil entrò in Kiur, E mentre Enlil attraversava Kiur I cinquanta grandi dei Ed i sette dei la cui parola è decisiva Fecero arrestare Enlil in Kiur: « Enlil il violentatore, deve abbandonare la città; Nunanmir, questo violentatore, deve lasciare la città �.

Secondo la pena che gli è stata imposta, Enlil abban­dona Nippur e si allontana dalla terra dei vivi entrando nel sinistro reame dell'Ade. Ma Ninlil lo segue:

Enlil [obbedendo] al verdetto che era stato pronunciato, Nunanmir [obbedendo] al verdetto che era stato pronunciato,

se ne andò. E Ninlil lo segui.

Poi Enlil, che non vuole decidersi a portarla con sé, comincia a temere che altri per la strada abusino della ragazza priva di protezione, come egli stesso ha fatto. Il primo che egli incontra è il guardiano della porta nella città. Enlil si ferma, assume le fattezze del guardiano, ne prende il posto e gli ordina di non rispondere niente a Ninlil qualora la fanciulla lo interrogasse.

Enlil si ri\·olge al guardiano: << O uomo della porta, O uomo del battente, O uomo della toppa, O uomo del battente sacro, La tua regina Ninlil sta arrivando. Se ti domanderà di me, Non dirle dove mi trovo ». Enlil si rivolgeva ancora al guardiano: « O uomo della porta, O uomo del battente,

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IL COSMO COME STATO

O uomo della toppa, O uomo del battente sacro, La tua regina Ninlil sta arrivando. La fanciulla cosi dolce, cosi bella,

Non abbraccerai, uomo, non bacerai. A Ninlil, cosi dolce, cosi bella, Enlil ha largito i suoi favori, l'ha guardata

Con occhi di fuoco ».

Quando Ninlil arriva trova dunque Enlil travestito. Non lo riconosce e lo crede il guardiano. Egli dice che il suo re Enlil gliel'ha raccomandata, ed ella a sua volta di­chiara che, poiché Enlil è re, ella è regina e porta sotto il cuore il figlio di Enlil, Sin, il dio lunare. Allora Enlil in veste di guardiano pretende - questo pare che sia il senso - di essere profondamente turbato al pensiero che ella stia portando con sé nell'Ade il brillante rampollo del suo signore, e le propone di unirsi a lui per procreare un figlio che possa appartenere all'Ade e prendere il po­sto dd figlio del re, la brillante luna.

Lascia che il prezioso rampollo del [mio] re vada in cielo; Lascia che il mio figliolo vada agli inferi.

Lascia che mio figlio vada negli inferi [invece] Del prezioso rampolio del re.

Allora abbraccia Ninlil e ancora una volta la lascia in­cinta, del dio Meslamtaea (che, sappiamo, era conside­rato fratello di Sin, la luna). Allora Enlil prosegue nel suo cammino verso l'Ade e Ninlil riprende il suo insegui­mento. Enlil si ferma altre due volte, la prima quando giunge « all'uomo del fiume dell'Ade » che è sempre im­personato da lui (e questa volta procrea Ninazu dio degli inferi) ; la seconda quando giunge al traghettatore del fiume Ade. Nelle vesti del traghettatore Enlil procrea un terzo dio infernale ma siccome il nome di codesto dio nel testo risulta danneggiato, non siamo in grado di pre­cisarlo. A questo punto la storia si conclude - assai bru­scamente per i nostri criteri - con un breve inno a Enlil e Ninlil che cosi conclude:

Enlil è signore, Enlil è re. La parola di Enlil non si può mutare; L'impetuosa parola di Enlil non si può cambiare. Lode alla madre Ninlil, Lode al padre Enlil.

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Non riteniamo che una simile storia sia molto diver­tente. Per quanto sia sempre pericoloso applicare i pro­pri criteri morali a culture e popoli cosf remoti nel tem­po e nello spazio, l'atmosfera del racconto e lo stile della narrazione sono particolarmente torbidi. Non dobbiamo tuttavia dimenticare che la storia è il frutto di una socie­tà nella quale il concetto dell'onore femminile era scono­sciuto. Lo stupro d'una donna da sposare era un'offesa al suo guardiano mentre lo stupro d'una donna marita­ta era un'offesa al marito. Entrambi i casi costituivano un'offesa alla società e alle sue leggi. Non si trattava mai, comunque, di offese alla donna stessa. Né lei né i suoi sentimenti hanno importanza. È per questa ragione che si produce un conflitto morale quando Enlil infrange le leggi della società usando violenza a Ninlil. Per ciò che la concerne dopo lo stupro, solo l'onore di Enlil è in gio­co, ed egli lo difende agendo in quel particolar modo con gli uomini che ella incontra via via. In secondo luo­go dobbiamo renderei chiaramente conto di quest'altro fatto ancor piu importante: Ninlil, le cui traversie non possono non commuoverci e che parrebbe un personag­gio centrale, non interessa affatto il narratore. Sua unica preoccupazione sono i figli che ella deve partorire - ov­vero le origini del dio lunare e dei suoi tre divini fratelli. Ninlil esiste per lui solo come madre potenziale e non come essere umano degno in sé d'interesse. Perciò la sto­ria termina in un modo che ci sembra brusco; secondo il narratore non c'era nulla di interessante da riferire dopo la nascita dell'ultimo fanciullo divino. Soltanto noi mo­derni possiamo domandarci che cosa ne sia stato, in se­guito, di Ninlil e di Enlil, e soltanto noi ameremmo sa­pere che Ninlil sia stata finalmente accettata da Enlil come moglie.

Il mito dev'essere inteso ed interpretato, pertanto, dal punto di vista dei :figli. Come mai il lucente dio lunare viene ad avere tre fratelli, tutt'e tre potenze delle basse regioni infere? Come mai Enlil, la tempesta, forza cosmi­ca che appartiene al mondo superiore, ha dei figli che appartengono agli inferi? Il mito fornisce una risposta in termini psicologici. Rintraccia la causa nel carattere stes-

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so di Enlil, dai tratti curiosamente torbidi e violenti. È questo elemento di furia e di violenza a fargli infrangere le leggi ed i tabU sociali del mondo superiore, quando prende Ninlil con la forza e concepisce Sin. La conse­guenza è l'esilio, imposto dall'assemblea degli dei, ossia dalle forze che reggono insieme quel mondo ed il suo or­dinamento.

I figli successivi di Enlil sono concepiti dopo che egli è stato escluso dal mondo della luce, mentre si avvia al­l' Ade ed è già sfiorato dalla sua ombra sinistra. Pertanto i figli appartengono all'Ade e la loro parentela infernale viene confermata dalle parole che Enlil pronuncia per in­durre Ninlil a unirsi a lui. È tale la potenza della parola di Enlil da essere vincolante, da realizzare, con il suo stesso suono, ciò che dice. Il mito pertanto finisce, giu­stamente, con un peana in onore della parola di Enlil che non si può né alterare né cambiare.

La risposta immediata che viene data alla domanda del mito ( « Come mai sono cosi diversi i figli di Enlil? >>) suona: <� Perché cos{ Enlil decretò ». Ma fornendo quella risposta il mito non è del tutto soddisfatto e indaga oltre quella soluzione immediata, narrando gli avvenimenti e le circostanze che hanno indotto Enlil a parlare cosi. Mo­stra pertanto che quegli eventi non erano affatto casuali bensi provocati da un conflitto interno insito nella natu­ra stessa di Enlil. Sullo sfondo del mito c'è la concezione dell'universo come Stato. Enlil, Ninlil, Sin, e tutti gli al­tri personaggi della storia sono forze della natura, ma poiché il creatore del mito ravvisa in esse un « Tu », ov­vero altrettanti membri di una società, il suo sforzo si concreta nel comprenderli attraverso un'analisi psicologi­ca del loro carattere e attraverso le loro rispettive reazio­ni alle leggi che reggono lo Stato universale.

Il mito di Tilmun: il mescolarsi della terra e del­l' acqua nel cosmo ed i suoi risultati. Un mito delle ori­gini di carattere diverso, ed in un certo senso assai meno ricercato, è il mito di Tilmun ".

Il mito di Enlil e Ninlil si occupava di un singolo fat­to di natura, diremmo, anomala : la diversità dei figli di

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Enlil. E ne andava a rintracciare l'origine nei conflitti in­siti nel carattere stesso di EnW. Il mito di Tilmun non affronta un problema in tale senso, ma tenta di trovare un'unità di causa ira molti e disparati fenomeni mostran­done l'origine comune nel conflitto di due nature, fem­minile e maschile. Narra la storia d'una lotta fra le due volontà, nella loro reciproca attrazione e ripulsione, della costante Madre Terra Ninhursaga e di Enki, dio delle volubili acque.

La storia inizia sull'isola di Tilmun, l'odierna Bahrein, sul golfo Persico. L'isola viene assegnata a Enki e Nin­hursaga al tempo in cui il mondo è spartito fra gli dei. Dopo che Enki, esortato da Ninhursaga ha rifornito l'iso­la di acqua fresca, la corteggia. Dopo un primo rifiuto, ella lo accetta. La loro figlia è la dea Ninsar, la vegeta­zione, nata dalle nozze della terra, Ninhursaga e dell'ac­qua, Enki. Ma, come in Mesopotamia le acque dell'annua inondazione si ritraggono e rientrano nel loro letto pri· ma che il verde germogli, cosi Enki non rimane ad abi­tare con Ninhursaga in quanto marito, ma quando nasce la dea della vegetazione l'ha già abbandonata. Come la vegetazione nella tarda primavera si addensa attorno ai fiumi, cosi Ninsar si avvicina alla sponda del fiume dove si trova Enki. Ma Enki vede nella dea della vegetazione null'altro che una giovinetta fra le tante, e la possiede, senza andare ad abitare con lei. La dea partorisce una fi­glia che rappresenta - cosf ci sembra di intuire - le fibre delle piante usate per tessere il lino. Tali fibre si otten­gono mettendo a macerare le piante nell'acqua finché le sostanze molli non si stacchino per un processo di decom­posizione e restino soltanto le fibre tenaci . Queste dun­que sono, in un certo senso, figlie della vegetazione e del­l'acqua. Poi la storia si ripete; nasce la dea della tintura (che dà colore an� stoffe) e a sua volta dà origine alla dea della stoffa e della tessitura, Uttu. Oramai però Ni­nhursaga ha compreso quanto incostante sia Enki e met­te Uttu in guardia contro di lui. Poiché è stata avvisata, Uttu insiste per essere sposata : Enki dovrà portarle doni di cocomeri, mele e uva - destinati a rappresentare la ri­tuale offerta di nozze - e soltanto allora diventerà sua.

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Enki obbedisce e quando si presenta in veste di preten­dente normale alla soglia, Uttu lo fa entrare con gioia. Il vino che egli le reca la ubriaca ed egli prende piacere da lei. Una lacuna si produce nella storia a questo punto, oscurando il corso degli avvenimenti. Otto piante hanno germogliato e Ninhursaga non ha ancora annunciato i lo­ro nomi, la loro natura e le loro qualità future. Poi sco­pre che Enki ci ha pensato per conto suo e se le è man­giate. Di fronte a questo supremo oltraggio Ninhursaga è colta da un odio cocente a maledice il dio delle acque. Di fronte alla sua terribile maledizione, che pare signi­fichi l'esilio delle acque alle regioni sotterranee dell'oscu­rità e la loro lenta morte allorché i pozzi e i fiumi di­ventano secchi nell'estate, un grande sconvolgimento si verifica fra gli deL Ma compare la volpe e promette di portare dinanzi a loro Ninhursaga. Mantiene la sua pro­messa e Ninhursaga compare, si ammansisce e infine cura Enki malato, aiutandolo a procreare otto divinità, una per ciascuna delle parti malate del suo corpo. Si è formu­lata l'ipotesi che esse rappresentino le piante che Enki ha inghiottito e che quindi si sono insediate nel suo cor­po. Il mito termina assegnando a codeste divinità parti­colari posizioni nell'ambito sociale.

Come s'è detto, il mito mira a rintracciare un'unica causa per piu fenomeni disparati, ma è un'unica causa in un senso meramente mitopoietico. Quando vediamo la vegetazione nascere dalla terra e dall'acqua, possiamo an­cora, sia pure con certe riserve, seguire il mito; verso la conclusione, però, le divinità che vengono create affinché Enki guarisca non hanno alcun rapporto intrinseco, né con la terra che le porta in seno, né con l'acqua. I loro nomi richiamano però certe parole designanti parti del corpo, le parti del corpo di Enki che vengono guarite. Ad esempio la divinità A-zi-mu-a che può essere inter­pretata come « raddrizzarsi del braccio » nacque per gua­rire il braccio di Enki. E qui troviamo la spiegazione ed il rapporto : dobbiamo rammentare che per il pensiero mitopoietico un nome è una forza interna alla persona, che la spinge ad agire in una determinata direzione; poi­ché il nome A-zi-mu-a può interpretarsi come « il rad-

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drizzarsi del braccio » per quanto questa divinità non a­vesse, per quel che ne sappiamo, nulla a che fare con le braccia, la domanda doveva porsi: « Quale braccio fu raddrizzato da codesta divinità? » Il mito prontamente fornisce una risposta: « Il braccio di Enki ». Qui il mito è appagato da un rapporto qualsiasi e non cerca una rela­zione piu profonda fra la natura delle due forze, dei due dei.

Quando però si esamini il mito in termini ad esso con­sentanei e secondo la logica mitopoietica, riusciamo ad approfondire assai la nostra comprensione delle due gran­di forze dell'universo, terra ed acqua; poiché compren­sione nell 'universo mesopotamico equivale a intuito psi­cologico. Nel mito veniamo a conoscere la profonda anti­tesi che sta alla base del fruttuoso mescolarsi di queste due forze naturali ; la seguiamo man mano nel suo cre­scere, fino alla frattura aperta che minaccia di annientare per sempre l'acqua; ed assistiamo infine alla riconcilia­zione e alla restaurazione dell'armonia universale. Venia­mo altresf a conoscere, seguendo le interazioni di queste due forze, la loro importanza come fonti di vita; è da loro che discendono la vegetazione, la tessitura e i vesti­ti; da loro, altresf, numerose e benefiche forze vitali -una schiera di divinità minori. Un settore dell'universo ci è diventato comprensibile.

Prima di abbandonare questo mito dovremmo richia­mare l'attenzione sull'interessante momento speculativo che vi è adombrato, e al quadro che fornisce del mondo ai suoi primordi. Il carattere definitivo e precisabile delle cose è un frutto di epoca tarda. All'alba dei tempi il mon­do è ancora soltanto una promessa, un germe; non è an­cora calato in una forma definitiva. Né gli animali né gli uomini avevano acquistato le loro abitudini ed i loro ca­ratteri erano un abbozzo. Erano, in potenza, ciò che do­vevano poi diventare nei secoli seguenti. Il corvo non gracchiava ancora, il leone non sbranava ancora l'uomo, il lupo non ghermiva ancora gli agnelli. La malattia e la vecchiaia non avevano ancora un'esistenza in quanto tali, non avevano ancora acquistato sintomi e caratteri, e per­tanto non potevano ancora identificarsi come <( malattia �>

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c « vecchiaia », nelle forme definite che incontreremo sol­tanto piu tardi.

I primi versi della parte introduttiva del mito sono rivolti direttamente ad Enk.i e Ninhnrsaga. Queste divi­nità sono le « persone » alle quali il testo si rivolge; poi la storia cade nel solito stile narrativo:

Quando spartivi la vergine terra [con i tuoi divini compagni] - Tu - la terra di Tilmun era una regione pura;

Quando spartivi la pura terra [coi tuoi divini compagni] - Tu - la terra di Tilmun era una regione pura.

La terra di Tilmun era pura, la terra di Tilmun era fresca, La terra di Tilmun era fresca, la terra di Tilmun era splendente. Quando a Tilmun tutti giacquero a terra in abbandono -

Poiché il luogo dove Enki giacque con la sua sposa Era un luogo puro, un luogo splendente ...

Quando a Tilmun tutti giacquero a terra in abbandono -Poiché il luogo dove Enki giacque con la sua sposa

Era un luogo puro, un luogo splendente -Il corvo

' in Tilmun non gracchiava [come fa oggi]

Il gallo [ ? ] non alzava il suo canto [come fa oggi] ; I l leone non sbranava, Il lupo non ghermiva gli agnelli, Il cane non sapeva incutere timore ai capretti, L'asinello non sapeva mangiare il grano,

Il mal d'occhi non sapeva dire « lo, il mal d'occhi ,. Il mal di capo non sapeva dire « Io, il mal di capo », Né la vecchia diceva « Io, vecchia », Né il vecchio diceva « Io, vecchio » ...

b) Particolari dell'ordinamento del mondo. Dell'altro gruppo di miti (quelli relativi piuttosto ad un determina­to aspetto dell'ordinamento del mondo che non all'origi­ne delle cose e delle forze come tali) forniremo solo due esempi. Il primo è un mito sfortunatamente giuntoci con non poche lacune, in cui si narra come venne organizzata l'economia naturale della Mesopotamia.

Enki organizza il maniera del mondo 25• L'inizio di questo mito, ora perduto, narra come Anu ed Enlil inve­stirono della sua carica Enk.i. Quando il testo diventa leggibile, Enki sta facendo un'ispezione al suo territorio,

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che include gran parte del mondo allora conosciuto, vi­sitandone le grandi circoscrizioni amministrative.

Enki si sofferma in ciascun paese, lo benedice e con la sua benedizione lo colma di prosperità e ne conferma i particolari compiti. Poi organizza le acque e tutto ciò che con le acque ha rapporto. Riempie il Tigri e l'Eufrate con acqua limpida e incarica un dio di vegliare su di essi. Li popola di pesci e li circonda di canneti, per sorveglia­re i quali nomina un altro divino custode. Poi regola il mare e crea un divino custode che lo regga. Dal mare Enki si volge ai venti apportatori di piogge e poi ai la­vori agricoli . Accudisce all'aratro, apre i solchi, fa cre­scere il grano nei campi. Poi allinea l'uno accanto all'al­tro i granai. Dai campi si volge alle città ed ai villaggi; incarica il dio dei mattoni di sorvegliarne la fabbricazio­ne, getta fondamenta, edifica mura, incarica il divino ca­pomastro Mushdama di sorvegliare i lavori. Infine orga­nizza la vita selvaggia del deserto sotto il dio Sumukan, e costruisce tane e rifugi per gli animali mansueti, met­tendoli sotto la sorveglianza del dio pastore Dumuzi o Tammuz. Enki ha istituito e dato avvio a tutte le fun­zioni importanti della vita economica mesopotamica, affi­dando a un sorvegliante divino l'incarico di curarne l'an­damento. L'ordine nella natura è visto e interpretato esattamente come se l'universo fosse un vasto e curato latifondo amministrato da un abile gerente.

Enki e Ninmah: l'integrazione delle stranezze ". L'or­dinamento dell'universo ovvio, evidente, e insieme am­mirevole per la mente umana, tuttavia non sempre e non in ogni suo particolare si conforma all'ordine che l'uomo avrebbe potuto desiderare. Il lettore ricorderà che perfino l'ottimistico Alexander Pope, ritenne suffi­cente lode del mondo la definizione : « il migliore dei mondi possibili » , evidentemente assai lontano dell'esse­re « il mondo ideale )>. Cosf l'antico mesopotamico trova nel mondo cose che considera una disgrazia o per lo meno una stranezza , ed è perplesso all'idea che gli dei le abbiano volute cosi. Problemi di questo genere sono trattati nel mito che stiamo per esaminare. Esso offre

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una risposta adeguata all'atteggiamento sociale e psico­logico mesopotamico di fronte alle forze universali: gli Jei, nonostante la loro potenza, hanno certi aspetti uma­ni. Le loro emozioni, specie dopo ingestioni abbondanti di birra, possono soverchiare il loro giudizio, e quando ciò si avvera, corrono il pericolo di essere rovesciati dal­la loro medesima potenza, dalla stessa forza vincolante dei loro comandi.

Come tanti racconti sumerici il mito tratta di Enki, il dio delle acque dolci, e di Ninhursaga, la dea della terra. In questo mito ella viene chiamata con il suo epiteto Ninmah, « la signora glorificata >>, quindi anche noi ci atterremo a questo nome nel riferire la storia. Comincia­mo anche qui dai giorni della giovinezza del mondo:

Nei tempi passati, nei giorni in cui il cielo era diviso dalla terra, Nelle notti passate, quando il cielo era diviso dalla terra.

In quei tempi remoti gli dei stessi dovevano lavorare per vivere. Tutti gli dei dovevano impugnare la falce, e la gravina e gli altri strumenti agricoli per scavare canali e guadagnarsi cosi il pane con il sudore della fronte. Tut­to ciò era loro odioso ed il piu intelligente di essi, Enki dal vasto intelletto, giaceva immerso in profondo torpore sul suo divano senza mai levarsi. A lui si rivolsero gli dei desolati, e sua madre, Nammu, la dea delle profon­dità equoree, portò le loro lamentele dinanzi al torpido figlio. Né vi si recò invano. Enki ordinò a Nammu di pr� parare tutto per partorire <( la creta che sta sopra l' apsu » ( <( Sopra l'a p su » significa sotto la terra ma sopra le pro­fondità delle acque che si stendono sotto la terra e si identifica piu o meno con la stessa dea Nammu). Questa creta si doveva scindere da Nammu cosi come si separa un fanciullo dalla madre. La dea Ninmah, la terra, do­veva stare sopra di lei - l'acqua ovviamente si trova so­pra le acque sotterranee - aiutandola nel parto, e otto altre dee dovevano assisterla.

Cosi ebbe origine sopra l'apsu la creta e da essa fu ri­cavato l'uomo. Comunque una lacuna importante nel te­sto ci impedisce di sapere esattamente come venne creata l'umanità. Quando il testo torna ad essere leggibile, En-

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Ici sta preparando una festa per Ninmah e per sua ma­dre, presumibilmente per celebrare il parto. Tutti i gran­di dei vengono invitati e tutti elogiano altamente Enlci per la sua intelligenza; ma quando il trattenimento è già in corso Ninmah fa risuonare una nota d'amarezza:

Quando Enki e Ninmah bevono molta birra il loro cuore diventa felice,

E Ninmah grida ad Enki: « Quanto è buono e quanto è cattivo il corpo dell'uomo? Cosi come mi detta il cuore posso dargli una sorte buona o

cattiva >>.

Enki non tarda a cogliere la sfida : « Quale che sia la sorte che hai in mente, buona o cattiva, io posso contro­bilanciarla [ ? ] )) .

Cosi Ninmah prende un po' di creta sopra l'apsu e la modella in un essere umano mostruoso, con parecchie pecche: un uomo che non può trattenere l'urina, una donna incapace di portare bambini, un essere privo di organi sia maschili che femminili. In tutto sei di codesti esseri prendono forma sotto le sue dita, ma a ciascuno Enlci è disposto ad attribuire una sorte o un destino par­ticolare. Trova a ciascuno un posto nella società e fa si che possano guadagnarsi da vivere. L'essere privo di or­gani sia femminili che maschili, presumibilmente un eu­nuco, Enki destina a servire il re, la donna sterile è po­sta fra le ancelle della regina ecc. Non c'è dubbio che codesti sei mostri formllti da Ninmah corrispondano a classi sociali ben definite nella società sumerica, che dif­ferenziate per questa o quella ragione dalle creature nor­mali, costi tuivano un problema.

Ma ora la contesa si accende sul serio. Enki ha mostra­to che la sua prontezza può ben gareggiare con il peggio che Ninmah possa pensare. Adesso le propone di cam­biare ruolo, egli plasmerà i mostri ed ella escogiterà quel che se ne possa fare. Enki comincia a lavorare. Non sap­piamo nulla del suo primo sforzo, perché il testo a que­sto punto è danneggiato, ma veniamo a sapere che la seconda creatura è un essere chiamato U-mu-ul « il mio giorno è remoto )) - cioè un uomo vecchissimo la cui data di nascita è sepolta nel passato. Gli occhi di questo

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infelice sono malati, la sua vita è agli sgoccioli, fegato e cuore lo fanno soffrire, le mani gli tremano - per dire soltanto alcuni dei mali che lo tormentano. Enki presenta questa creatura a Ninmah.

Enki si rivolge a Ninmah:

Ho fissato la sorte degli uomini che tu hai plasmato, affinché potessero vivere,

Ora fissa tu una sorte per l'uomo che ho plasmato, affinché possa vivere.

Ma questo trascende le possibilità di Ninmah. S'accosta alla creatura, la interroga, ma essa è incapace di rispon­dere; le offre il tozzo di pane che sta mangiando, ma essa è troppo debole per alzare il braccio, ecc. Adirata, Nin­mah rimprovera Enki : la creatura che egli ha foggiato non è un uomo vivente. Ma Enki si limita a ricordarle che egli ha saputo sistemare tutto ciò che ella ha conce­pito nel suo pensiero trovando anche il modo di inse­gnare a quelle creature come ci si guadagna la vita.

Un'altra lacuna nel testo d impedisce di sapere i par­ticolari della loro disputa. Quando il testo integro ripren­de, la disputa ha raggiunto l'apice. Attraverso la secon­da creatura Enki ha portato nel mondo la malattia e tutte Je altre miserie che affiiggono la vecchiaia. Senza dubbio la prima creatura, la cui descrizione è andata smarrita nella lacuna del testo, era carica di un ugual peso di umane miserie. Ninmah non riesce a sistemare né l'una né l'altra. È incapace di integrarle nell'ordine universale, incapace di trovar loro un posto nella società. Tuttavia esse debbono rimanere nel mondo e questo è un male immedicabile. È probabilmente a causa di que­ste creature (il vecchio e la prima, a noi ignota), e della loro influenza sulla terra e sulla città, che Ninmah è spin­ta alla disperazione. Ed è altresf possibile che ella debba sopportare altre umiliazioni per opera di Enki. Cos! si lamenta:

La mia città è distrutta, la mia casa rovinata, I figli miei son prigionieri.

Ho dovuto abbandonare Ekur, fuggiasca [?] e tuttavia Non sfuggo alla tua mano.

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Lo maledice ( « Da ora in poi non abiterai in cielo, non abiterai in terra »), confinando cosf il dio delle acque dol­ci alle regioni tenebrose del sottosuolo. La maledizione ricorda un'altra analoga da lei gettata su Enki nel mito di Tilmun e pare destinato a spiegare il medesimo aspet­to problematico dell'universo : perché mai le benefiche acque dolci sono esiliate nelle eterne tenebre del sotto­suolo? Infatti è H che si trovano quando si scavi abba­stanza in profondo. Ora che la maledizione è stata getta­ta, Enki non può piu far nulla ; in essa agisce tutta la potenza decisiva propria del comando di uno dei grandi dei. Cosi egli risponde a Ninmah: « Un comando che esce dalla tua bocca, chi mai potrebbe mutarlo? »

Tuttavia sembra che la spaventosa sentenza venga in certa misura attenuata e che, come nel mito di Tilmun, si giunga ad una conciliazione. Ma a questo punto il te­sto del mito diventa straordinariamente frammentario e arduo, e non possiamo dirlo con certezza. Comunque, il fatto stesso che il mito continui per un bel po' mostra che la maledizione di Ninmah non è il punto d'arrivo, la conclusione del conflitto.

Il mito che abbiamo qui riesposto mira a spiegare un certo numero di aspetti problematici dell'ordinamento del mondo: gli strani gruppi anormali, gli eunuchi, iero­duli ecc. che facevano parte della società mesopotamica; i mali sgradevoli e apparentemente gratuiti che affliggono la vecchiaia ecc. Nel corso del racconto, però, il mito non si limita a spiegare, ma giudica. Taluni tratti non appar­tengono realmente all'ordinamento del mondo e non era­no inclusi negli intendimenti originari. Sono il frutto di un attimo di irresponsabile leggerezza, quando capita che gli dei siano in preda ai fumi della birra e cadano mo­mentaneamente in preda all'invidia e al desiderio di pa­voneggiarsi. Inoltre il mito analizza e valuta diversamen­te i singoli elementi : mentre i mostri creati da Ninmah sono relativamente innocui e possono ancora integrarsi nell'ordine sociale per opera del sagace Enki, quando Enki volge la sua duttile mente al male non resta speran­za alcuna.

In questa valutazione implicita degli aspetti via via

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descritti, il nostro mito forma un anello di passaggio verso il terzo vasto gruppo, che ha come tema principale la valutazione degli aspetti particolari dell'ordinamento del mondo.

c) I particolari della valutazione. Taluni miti di que­sto gruppo assumono la forma di inni di lode, ed hanno per oggetto un solo elemento dell'universo - una divi­nità, una cosa, o altro e ne spiegano le qualità attraverso l'analisi minuziosa di ogni particolare. Un mito del ge­nere è il mito della Gravina : racconta come Enlil abbia foggiato quello strumento indispensabile e ne spiega le qualità e gli usi. Altri miti di codesto gruppo, comunque, si occupano delle due entità dell'universo, mettendo l'una a confronto con l'altra in uno sforzo di compren­dere e giustificare le relative posizioni nell'ordinamento esistente. Questi miti prendono sovente forma di disputa fra i due elementi in questione, ciascuno dei quali esalta le proprie virtu finché la divergenza non venga risolta dalla decisione di qualche dio. Un passo può servire d'e­sempio : appartiene ad un mito nel quale il rame, di minor pregio benché piu utile, contesta all'argento il di­ritto di essere cortigiano al palazzo reale. Il rame solleva la questione dell'inutilità dell'argento:

Se il freddo sopraggiunge, non puoi fornire un'ascia ca pace di tagliare il legno [ ? ] ;

Se il tempo del raccolto sopraggiunge, non sai dare una falce capace di tagliare il grano.

Perché dovresti interessare l'uomo? ... 21•

In un paese come la Mesopotamia, dove le principali risorse erano la pastorizia e l'agricoltura, è naturale che da esse si traesse ogni termine di paragone e di valuta­zione. Qual è il piu importante e la piu utile? Ci restano non meno di tre miti che trattano di codesto tema. L'uno narra l'origine degli « armenti » e del « grano » risalendo ai primordi, quando erano gli dei soli a goderne; e pro­segue riportando una lunga disputa scoppiata fra gli dei per decidere chi potesse vantare la precedenza. Un altro mito narra la disputa fra due fratelli divini, Enten ed Emesh, figli di Enlil, l'uno dei quali pare rappresentare

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il contadino, l 'altro il pastore. La loro disputa è risolta da Enlil a favore del contadino. Però la trattazione piu vivace del tema è data da un mito intitolato Il corteggia­mento di !nanna.

<< Il corteggiamento di !nanna »: i meriti rispettivi del pastore e del contadino u. Il mito narra come il divino contadino Enkimdu ed il pastore divino Dumuzi abbiano chiesto la mano della dea !nanna, che qui non appare come la sposa di Anu e regina del cielo, ma sol­tanto come una giovane ragazza da marito. Il suo fra­tello e guardiano, il dio solare Utu, favorisce il pastore e tenta di influire sulla sorella :

Il fratello, il guerriero, l'eroe, Utu, dice alla sacra !nanna: « Il pastore dovrebbe sposarti, sorella mia. Perché mai, o vergine !nanna, non sei favorevole? È buono il suo burro, è buono il suo latte, Tutti i prodotti del pastore sono meravigliosi. Dumuzi ti dovrebbe sposare, !nanna ».

Ma le parole del fratello non vengono accolte. !nanna è già decisa, vuole il contadino.

Mai mi sposerà il pastore, Mai mi vestirà delle sue stoffe pelose, Mai mi toccherà la sua lana piu fine. Me, la vergine, avrà il contadino, E soltanto lui, in matrimonio -Il contadino che sa coltivare i fagioli, Il contadino che sa coltivare il grano.

La decisione dunque è favorevole al contadino ed il povero pastore si sente scoraggiato. Non soltanto è stato respinto dalla fanciulla ; ma gli è stato preferito un con­tadino e questo lo ferisce nel suo orgoglio. Cosi comin­cia a paragonarsi al contadino. Per tutto ciò che fab­brica il contadino, il pastore trova uno dei suoi prodotti di valore equivalente :

In che cosa mi è superiore il contadino? Un contadino! Un contadino!

In che cosa il contadino, En.kimdu, uomo di dighe e canali, mi sorpassa?

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S e mi desse la sua stoffa nera, io gli darei la mia lana nera in cambio;

Se mi desse la sua stoffa bianca, io gli darei la mia lana bianca in cambio.

Se mi versasse la sua birra migliore, gli verserei il mio giallo latte in cambio.

II mito continua elencando tutti i prodotti dei prati e delle fattorie: latte contro birra , caci contro fagioli, mie­le e formaggio contro pane. Inoltre il pastore ritiene che g1i rimarrebbe ancora un'eccedenza di latte e burro.

La situazione immaginata dal narratore è una tipica contesa di donativi all'orientale. Colui che regala di piu ha la palma; egli non deve nulla; mentre l 'altro resta suo debitore. Man mano che il pastore prosegue il suo soli­loquio, la sua esaltazione cresce. Osa spingere le sue pe­core fino alla sponda del fiume, nel cuore delle terre col­tivate. Qui scorge improvvisamente il contadino con !nanna e, sgomento per ciò che ha fatto, si dà alla fuga. Enkimdu ed !nanna lo rincorrono e - se la nostra inter­pretazione del testo è esatta - !nanna gli grida dietro:

Perché mai debbo correre dietro a te, o pastore, a te pastore, a te? Le tue pecore sono libere di brucare l'erba alla sponda; Le tue pecore sono libere di pascolare [?] fra le mie stoppie. Possono mangiare il grano dei campi di Uruk: I tuoi agnelli e la loro prole possono bere l'acqua nel mio canale

di Adab.

Per quanto ella preferisca come marito un contadino, non serba rancore al pastore :

Poiché tu, pastore, non puoi - [solo per diventar mio marito] farti contadino, [l'uomo che] vagheggio,

Puoi però diventare mio amico, il contadino Enkimdu, il mio amico contadino,

Ti porterò grano, ti porterò fagioli ...

Cosi la storia termina con una riconciliazione. Il con­tadino e il pastore sono stati comparati l'uno all'altro e, implicitamente, la preferenza è stata data al contadino, poiché è lui che la dea sposa, ma essa si sforza anche di dimostrare che la preferenza è questione di gusti perso­nali, un capriccio di ragazza. In realtà l'uno vale l'altro ed entrambi sono ugualmente utili e sono membri al-

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trettanto necessari alla società. I prodotti dell'uno equi­valgono a quelli dell'altro. Benché rivali, l'inimicizia non potrebbe sussistere fra di loro. Il contadino deve sapere che I nanna amò abbastanza il pastore da schiudere alle sue greggi il campo di stoppia, permettendogli di abbeverare le pecore ai canali del contadino. Il conta­dino ed il pastore devono tentare di procedere di comu­ne accordo.

Cosi possiamo concludere la nostra rassegna del piu antico materiale mitologico della Mesopotamia. La mas­sima parte di questo materiale ci è pervenuta attraverso copie della fine del terzo e dell'inizio del II millennio a. C. Ma i miti stessi sono senza dubbio piu antichi e mostrano chiaramente di essere risposte date a proble­mi particolari. Trattano svariati temi, come l'origine, il luogo ed il valore di ogni sorta di entità particolari o di gruppi di entità del cosmo. Sono però concordi nella vi­sione fondamentale del mondo : il cosmo è uno Stato, un'organizzazione di individui, ed i miti sono altresi con­cordi nell'atteggiamento che adottano verso i problemi : un atteggiamento psicologico. La chiave per intendere le forze che si incontrano nella natura viene ravvisata nella comprensione dei caratteri, esattamente come attraverso i loro caratteri si comprendono gli uomini.

Riflesso della concezione del mondo nei miti piu recenti: « Enuma Elish ».

Per quanto la concezione dell'universo come Stato sot­tenda tutte queste favole - e in quanto le sottende è il terreno dal quale esse germogliano - in essi quella con­cezione non è proposta in sé e per sé. Una vera e propria cosmogonia che tratti dei problemi fondamentali del cosmo cosi come esso appare ai Mesopotamici - che trat­ti delle sue origini e dell'origine del suo ordinamento -non appare se non nella prima metà del n millennio a. C. Poi trova una esposizione nella grandiosa composizione chiamata Enuma Elish, « Quando Sopra >> ". Enuma Elish è una storia lunga e complicata, scritta in accadico '", pro-

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babilmente l'accadico della metà circa del II millennio a. C. Fu appunto in quell'epoca che la composizione deve aver preso la forma nella quale ci è giunta. La sua figura centrale è Marduk, dio di Babilonia, il che s'accorda con il fatto che in quel tempo Babilonia era il centro politico c culturale del mondo mesopotamico. Quando, piu tar­di , nel 1 millennio a . C. l'Assiria divenne la potenza do­minante del vicino oriente, scribi assiri dovettero sosti­tuire Marduk con il loro dio Assur, apportando alcune modifiche per adattare la storia al nuovo protagonista. Questa versione piu recente ci è nota attraverso le reda­zioni del mito trovate in Assiria.

La sostituzione di Assur a Marduk come protagonista della vicenda sembra non essere stata né la prima né l'unica modifica. Prima della nostra versione, dove Mar­duk è il protagonista, ci doveva essere una versione piu antica, nella quale non già Marduk, bensi Enlil di Nip­pur aveva il ruolo centrale. Questa forma piu antica può dedursi da indizi contenuti nel mito stesso. Il piu impor­tante è il fatto che Enlil, benché sempre almeno il se­condo fra gli dei mesopotamici, sembra non avere alcuna parte nella vicenda cosi come essa ci rimane, mentre a tutti gli altri dei importanti spetta un ruolo adeguato. Inoltre Marduk svolge un ruolo che male si adatta al suo carattere. Marduk era originariamente una divinità agri­cola o forse solare, mentre il ruolo centrale nell'Enuma Etish spetta ad un dio della tempesta, quale era Enlil . Una delle principali imprese attribuite a Marduk nella vicenda - la separazione del cielo e della terra - è pro­prio l'impresa che altri testi pervenutici attribuiscono a Enlil, ed a ragione, visto che è compito del vento (posto fra la terra ed il cielo) tenerli separati come i due lati di una borsa di cuoio rigonfia. Pare pertanto che sia stato Enlil, in origine, il protagonista della vicenda e che sia stato sostituito da Marduk al tempo della piu antica versione a noi pervenuta, attorno al II millennio a. C. Non possiamo stabilire con certezza quando risalga il mito stesso: contiene materiale e riflette idee che accen­nano al m millennio a. C.

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a) Dati fondamentali delle orzgtnz. Veniamo ora al contenuto del mito. Si divide, grosso modo, in due parti : la prima dedicata agli aspetti fondamentali dell'universo, l'altra al modo in cui l 'ordine presente dell'universo fu instaurato. I due temi, comunque, non sono rigidamen­te separati. Le azioni che si svolgono nella seconda parte sono adombrate negli avvenimenti della prima parte e ad essi si intrecciano.

Il poema inizia con la descrizione dell'universo cosi come apparve alle origini :

Quando nessuno aveva ancora fatto parola di un cielo, lassu E nessuno aveva pensato che la terra laggiu potesse avere un nome, Quando soltanto il primordiale Apsu, il creatore E Mummu e Ti'amat - la genitrice di tutti -Mescolavano insieme le loro acque; Quando nessuna palude era sorta e nessun'isola poteva trovarsi Quando nessun dio era comparso, Né mai chiamato nome, e destinato alla sua sorte; Fu allora che gli dei presero forma ".

Come stadio piu antico della storia universale la de­scrizione ci presenta il caos delle acque. Il caos consiste­va di tre elementi mescolati: Apsu che rappresenta le ac­que dolci, Ti'amat che rappresenta il mare e Mummu che non ci è possibile per ora identificare con certezza ma che potrebbe rappresentare i banchi di nubi e la nebbia. Questi tre tipi di acque erano commisti in una gran mas­sa senza confini. Mancava ancora l 'idea d'un cielo sopra­stante o della terra ferma sottostante; tutto era acqua, nemmeno una palude era stata formata e ancor meno un'isola, e non c'erano ancora dei.

Poi, in mezzo a codesto caos d'acque nacquero due dei: Lahmu e Lahamu. Il testo chiaramente vorrebbe farci credere che furono concepiti da Apsu, le acque dol­ci e da Ti'arnat il mare. Pare che rappresentino la selce formatasi nelle acque. Da Lahrnu e Lahamu discende la coppia divina successiva : Anshar e Kishar, due aspetti dell'orizzonte. Il creatore del mito considerava evidente­mente l'orizzonte tanto maschile che femminile: come

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circolo (maschile) che circoscriveva il cielo e come cir­colo (femminile) che circoscriveva la terra.

Anshar e Kishar generano Anu, dio del cielo; Anu ge­nera Nudimmut. Nudimmut è un altro nome per Ea o Enki, il dio delle acque dolci, che qui però dev'essere visto nel suo aspetto piu antico, come rappresentante della stessa terra. Egli è En-ki, <( dio della terra ». Si dice che Anshar facesse Anu a sua immagine, perché il cielo somiglia all'orizzonte in quanto è anch'esso rotondo. Si dice che Anu formò Nudimmut, la terra, a sua somi­glianza, poiché anche la terra era, per i Mesopotamici, foggiata come un disco o anche come una coppa rotonda:

Apparvero Lahmu e Lahamu ed ebbero un nome; Crebbe la loro statura man mano che il tempo passava. Anshar e Kishar [allora] furono formati e li sorpassarono, Vissero molti anni, aggiungendo un anno all'altro. Anu fu loro figlio, non inferiore ai suoi padri. Anshar fece a somiglianza propria il primogenito Anu A Anu a somiglianza propria Nudimmut. Nudimmut eccelleva fra gli dei suoi padri, Con orecchie spalancate, saggio, robuslO Piu forte del padre di suo padre, Anshar Non aveva uguali fra gli dei.

Le speculazioni che qui ci si presentano e mediante le quali l 'antico mesopotamico mirava a penetrare le nasco­ste origini dell'universo, sono basate sull'osservazione del formarsi della nuova terra in Mesopotamia. La Mesopo­tamia è un paese alluvionale, creato attraverso i millenni dalla selce trasportata dai due grandi fiumi, il Tigri e l 'Eufrate, e depositata alla foce. Il processo continua tut­tora, anno per anno, e la terra lentamente s'accresce, sten­dendosi sempre piu nel Golfo Persico. È questo quadro : le acque dolci dei fiumi che incontrano le acque salse del mare e con esse si confondono, mentre banchi di nubi incombono bassi sulla superficie, che è stato proiettato indietro alle origini del tempo. Là c'era il caos delle ac­que primordiali dove Apsu, l'acqua dolce, si mescolava a Ti'amat, l'acqua salsa del mare; e laggiu la selce, rappre­sentata dai primi dei, Lahmu e Lahamu - si separava dal­l'acqua e depositandosi diventava visibile.

Lahmu e Lahamu diedero i natali a Anshar e Kishar:

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cioè la selce primitiva, nata dal sale e dalle acque dolci nell'originario caos delle acque, si depositò tutt'in giro come un anello gigantesco : l'orizzonte. Da Anshar, la parte superiore dell'anello e da Kishar, la parte inferio­re, nacque attraverso anni e anni di stratifì.cazioni Anu, il cielo e Nudimmut-Enki, la terra. Da come lo descrive l'Enuma Elish pare che Anu, il cielo, sia stato formato per primo e che abbia generato Nudimmut, la terra.

Il progredire a coppie - Lahmu-Lahamu, Anshar-Ki­shar, a questo punto si interrompe e invece della terza coppia An-ki che ci si aspetterebbe ( « cielo e terra » ), ab­biamo Anu seguito da Nudimmut. Questo tratto irregola­re fa pensare che ci troviamo di fronte ad un'alterazione della storia originaria, ad opera forse del redattore che inseri Marduk di Babilonia come protagonista del mito, e che forse volle sottolineare l'aspetto maschile della ter­ra, Ea-Enki, poiché nella teologia babilonese quest'ulti­mo figurava come padre di Marduk. All'origine, probabil­mente, Anshar-Kishar fu seguito da An-ki, « cielo e ter­ra ». La congettura trova conforto in una variante della narrazione giunta fino a noi nella grande antica lista me­sopotamica degli dei, conosciuta come la lista An-Anum. In essa troviamo una versione piu antica e intatta: dal­l'orizzonte, da Anshar e Kishar come coppia unita, nac­quero il cielo e la terra. Cielo e terra debbono essere raf­figurati come due enormi dischi formati dalla selce che continuava a depositarsi sull'orlo interno dell'anello del­l'orizzonte, che « visse molti giorni, aggiungendo un an­no all'altro ». Piu tardi questi dischi per opera del vento vennero separati l'uno dall'altro, e se ne originò la grossa borsa in cui viviamo, il cui lato inferiore è la terra, supe­riore è il cielo.

Speculando attorno all'origine del mondo il mesopota­mico prendeva l'avvio dalle cose conosciute e osservabili nella geologia del suo paese. La terra della Mesopotamia è formata dalla selce che si deposita dove l'acqua fresca incontra l'acqua salsa ; il cielo, formato apparentemente di materia solida come la terra, doveva certo essersi for­mato per stratificazioni analoghe per poi levarsi fino alla sua attuale posizione.

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b) Dati fondamentali dell'ordine del mondo. Come i fatti osservati intorno alle origini della sua terra forni­scono al mesopotamico la base per le sue osservazioni sull'origine degli aspetti basilari dell'universo, cosi, par­rebbe, una certa conoscenza delle origini dell'ordinamen­to politico del paese presiede alle sue speculazioni attor­no all'organizzazione dell'universo. L'origine dell'ordine mondiale è ravvisata in un lungo conflitto fra due prin­cipi; le forze dell'attività e le forze dell'inattività. In que­sto conflitto la prima vittoria sull'inattività è ottenuta dall'autorità sola; la seconda, decisiva, dall'autorità unita alla forza. La transizione rispecchia da un verso uno svi­luppo che muove dall'organizzazione sociale primitiva, dove solo il costume e l'autorità, senza il sostegno della forza garantiscono un'azione concertata della comunità ­entro l'organizzazione di uno Stato reale, dove il capo si vale tanto dell'autorità come della forza per attuare un'a­zione concertata. Dall'altro verso si rispecchia altresf la procedura normale dello Stato organizzato, perché anche in esso l'autorità è il mezzo che si usa in primo luogo, mentre la forza, la coercizione fisica è impiegata soltanto se l'autorità non basta a imporre la condotta desiderata.

Per tornare all'Enuma Elish : con la nascita degli dei dal caos, un nuovo principio - il movimento, l'attività -è stato introdotto nel mondo. I nuovi esseri sono in stri­dente opposizione con le forze del caos che rappresentano il riposo e l 'inattività. In maniera tipicamente mitopoie­tica questo conflitto ideale dell'attività e dell'inattività riceve forma concreta attraverso una situazione significa­tiva: gli dei si radunano a danzare :

Si riunirono i divini compagni E, senza posa muovendosi avanti e indietro, disturbarono

Ti'a.mat, Disturbarono la pancia di Ti'amat, Ballando [nella profondità] dove il cielo si spicca. Apsu non poteva mitigare il loro clamore, E Ti'amat era silenziosa . . . Ma le loro azioni destavano orrore in lei E i loro modi [le apparivano] indegni ...

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Il conflitto è aperto. La prima delle potenze del caos che si levi apertamente contro gli dei e le loro maniere nuove è Apsu.

Poi Apsu il creatore dei grandi dei, Chiamò il suo servo Mummu, e a lui parlò: « Mummu, mio servo, che dài gioia al mio cuore, Orsu, andiamo da Ti'amat ». Andarono, e seduti attorno a Ti'amat, Si consigliarono attorno agli dei. Apsu prese a parlare, Dicendo alla pura Ti'amat: « Le loro maniere mi inorridiscono, Di giorno non ho riposo e di notte non ho sonno. Abolirò, si, distruggerò le loro maniere, Affinché regni ancora la pace e si possa dormire )>.

La notizia porta la costernazione fra gli dei. Errano senza meta qua e là e poi si acquietano e seggono in un silenzio desolato. Solo uno, il saggio Ea-Enki è all'altezza della situazione.

Con la sua intelligenza suprema, sagace, ingegnosa, Ea che conosce tutte le cose, scopri il loro disegno. Formò contro di esso, sollevò La configurazione dell'universo, E accortamente predispose l'onnipotente sortilegio. Recitando lo gettò sull'acqua [- su Apsu -] Versando il torpore su di lui, facendolo profondamente

addormentare.

Le acque alle quali Ea dirige il suo incantamento, la sua « configurazione dell'universo » sono Apsu. Apsu soc­combe di fronte all 'intimazione magica e cade in un pro­fondo torpore. Allora Ea gli prende la corona e si am­manta dd suo mantello di raggi infuocati. Uccide Apsu e stabilisce sopra di lui la sua dimora. Poi rinchiude Mummu, gli passa una corda nel naso e siede tenendo in mano un capo della corda.

Il significato di tutto ciò forse non è del tutto chiaro, tuttavia lo si può intuire. I mezzi impiegati da Ea per sottomettere Apsu consistono in una malia cioè in una parola potente, in un pronunciamento autorevole. Il me­sopotamico considera l'autorità un potere insito nei co­mandi, una potenza grazie alla quale un ordine non può

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IL COSMO COME STATO 207

che venire eseguito, non può che realizzarsi. L'autorità e la potenza del comando di Ea erano abbastanza grandi da far sf che la situazione prospettata nel comando si av­verasse. La natura della situazione è accennata nelle paro­le: « la configurazione dell'universo ». Ea comandò che le cose si configurassero cosi come sono ora, e tali diven­nero. Apsu, l'acqua dolce, affondò nel sonno mortale che la trattiene immota sotto la terra. Sopra di lei prese di­mora Ea, la terra che poggia su Apsu. Ea ha in mano la corda che tiene prigioniero per il naso Mummu, ossia -se la nostra interpretazione dell'arduo passo è esatta - i banchi di nuvole che fluttuano bassi sopra la terra. Ma quale che possa essere, nei particolari, l'interpretazione, è significativo che questa prima grande vittoria degli dei sulle potenze del caos, delle forze dell'attività sulle forze dell'inattività, sia stata ottenuta grazie all'autorità e non grazie alla forza fisica. È stata ottenuta in virru dell'au­torità implicita in un comando, nella magia di un incan­to. Ed è anche significativo che tutto ciò avvenga per la potenza di un singolo dio, che agisce di sua iniziativa, e non in virtu degli sforzi concertati di tutta la comunità degli dei. Il mito si muove sul piano di un'organizzazione sociale primitiva dove i pericoli per la comunità sono af­frontati da uno o due individui potenti, non dallo sforzo combinato dell'intera comunità.

Ma ritorniamo alla storia. Nella dimora che Ea ha cosf elevata su Apsu, nasce Marduk, il vero protagonista del mito cosf come esso ci appare (ma nelle versioni piu re­mote a questo punto doveva inserirsi la nascita di Enlil). Il testo cosi lo descrive :

Superbo di statura, con sguardo di saetta, Passo virile, un condottiero nato. Ea suo padre, vedendolo, gioi E s'illuminò, mentre il suo cuore si riempiva di delizia. Gli diede inoltre, gli attribui una duplice divinità. Straordinariamente alto era, sovrastava ogni cosa. La sua misura era acuta oltre l'immaginabile, Incomprensibile, terribile a vedersi. Quattro i suoi occhi e quattro le sue orecchie; Il fuoco avvampava quando muoveva le labbra.

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208 LA MESOPOTAMIA

Ma mentre Marduk cresce fra gli dei, nuovi pericoli incombono per opera delle forze del caos, le quali mali­ziosamente rimproverano Ti'amat :

Quando uccisero Apsu tuo marito Non eri al suo fianco ma te ne stavi tranquilla.

Alia fine riescono a destarla e tosto gli dei vengono a sapere che tutte le forze del caos stanno apprestandosi alla battaglia:

lrati, complottanti, inquieti il giorno e la notte, Sono decisi alla lotta, infuriano aggirandosi come leoni. Radunati a concilio, fanno i piani per l'attacco. Madre Hubur, creatrice di tutte le forme -Aggiunge armi irresistibili, ha procreato serpenti mostruosi Con denti aguzzi e numerosi artigli; Ha riempito i loro corpi di veleno in luogo di sangue. Dragoni feroci ha ammantato di terrore, Coronati di fiamma e simili a dei, Sicché chi li guardi perisca di paura, Mentre essi, rampanti, non volgeranno indietro il petto.

A capo del suo formidabile esercito, Ti'amat ha posto il suo secondo marito Kingu, dandogli piena autorità e affidandogli le « tavolette del destino )), simbolo del su­premo potere sull'universo. Le sue forze sono in ordine di battaglia, pronte ad attaccare gli dei.

Un primo sentore di ciò che sta per accadere raggiun­ge Ea, sempre bene informato. Dapprima, con reazione tipicamente primitiva, è completamente sconvolto e gli ci vuole un certo tempo per riprendersi e dar inizio al­l'azione.

Ea seppe di questi fatti E cadde in un nero silenzio, sedendo senza parola. Poi, avendo profondamente meditato e acquietato l'interno

tumulto, Si al:zò e andò dal padre Anshar, Andò innanzi ad Anshar, il padre che l'aveva generato. Tutto ciò che Ti'amat aveva ordito gli raccontò.

Anche Anshar è profondamente turbato e si batte la coscia e si morde il labbro nell'angoscia. Non riesce ad escogitare altra soluzione se non quella di mandare Ea contro Ti'amat. Ricorda ad Ea la sua vittoria su Apsu e

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IL COSMO COME STATO 209

Mummu e pare consigliarlo di usare gli stessi mezzi di cui s'era valso allora. Ma stavolta la missione di Ea non ha successo : la parola di una potenza isolata, sia pure del rango di Ea, non può vincere Ti'amat e la sua schiera.

Allora Anshar si volge ad Anu e gli ordina di partire. Anu è armato di un'autorità ancor superiore a quella di Ea, poiché gli è detto:

Se ella non obbedisce al tuo comando, Pronuncia il nostro comando, e possa non levare piu il capo.

Se Ti'amat non può essere soggiogata dall'autorità di un singolo dio, sarà necessario ricorrere al comando di tut­ti gli dei riuniti, sorretto dalla loro autorità collettiva. �'la anche questo tentativo fallisce : Anu non riesce ad affrontare Ti'amat, ritorna da Anshar e chiede di essere esonerato dall'incarico. L'autorità sola, anche la massima di cui dispongono gli dei, non basta. Ed ecco gli dei co­stretti ad affrontare l'ora piu tremenda del pericolo. An­shar, che fino a quel momento ha diretto le operazioni, si chiude nel suo silenzio.

Anshar divenne silenzioso, lo sguardo fisso al suolo. Scosse il capo, fece cenno ad Ea. Gli Annunaki, raccolti a convegno, Con le labbra coperte, sedevano senza parola.

Poi, alzandosi in tutta la sua maestà, Anshar propone che il figlio di Ea, il giovane Marduk, <( la cui forza è possente », si faccia campione dei suoi padri, gli dei. Ea offre tale incarico a Marduk, che accetta prontamente, non senza, tuttavia, porre una condizione :

Se debbo essere il vostro campione, Vincere Ti'amat e salvarvi, Allora radunatevi e proclamate il mio supremo destino. Sedetevi in gioioso convegno a Ubshuukkinna, Lasciate che io, come voi, decida i destini con la parola

della mia bocca Sicché ciò che ho deciso non possa mutare, Ed il mio comando una volta pronunciato non [torni a me]

e non sia mutato.

Marduk è un dio giovane, dotato di forza cospicua, nella piena vigoria dell'età e guarda alla contesa futura

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2 1 0 LA MESOPOT AMIA

con piena fiducia. Ma appunto perché giovane, non ha influenza e pertanto chiede un'autorità pari a quella dei piu anziani fra i potenti membri de1la comunità. Una nuo­va fusione di poteri - mai vista prima d'allora - viene cosi a delinearsi : la sua richiesta adombra lo Stato futu­ro in cui autorità e forza si combinano nella figura del re.

L'appello viene lanciato e gli dei si radunano a Ub­shuukkinna, la corte delle assemblee in Nippur. Man ma­no che essi arrivano incontrano amici e parenti, giunti anch'essi per partecipare all'assemblea, e tutti si abbrac­ciano. Nel cortile riparato gli dei si seggono a banchetto, il vino e i liquori forti li mettono in una disposizione d'animo felice ed euforica, i timori e le preoccupazioni svaniscono, ed ecco infine l 'assemblea pronta ad occupar­si di faccende piu serie.

Sedendo al banchetto facevano schioccare la lingua, Mangiavano e bevevano. Le dolci bevande dispersero i timori. E fu con gioia, bevendo vini forti, che intonarono i canti. Divampò l'allegria, oltremisura, i loro cuori si accesero. Di Marduk, il loro campione decretarono il destino.

Il « destino �> significa la piena autorità al pari dei mas­simi dei. Anzitutto l 'assemblea dà a Marduk un seggio d'onore e poi gli conferisce nuovi poteri:

Fecero per lui un trono principesco, Ed egli sedette al cospetto dei suoi padri, come consigliere << Sei insigne fra gli dei piu anziani. Il tuo rango non è inferiore a nessuno ed il tuo comando

è quello di Anu, Marduk, sei insigne fra gli dei piu anziani; Il tuo rango non ha pari ed il tuo comando è quello di Anu. Da oggi in poi i tuoi ordini non subiranno mutamenti, Esaltare cd umiliare - sia questo il tuo potere. Ciò che tu hai detto si avvererà, la tua parola non sarà detta

invano. Fra gli dei nessuno usurperà i tuoi diritti ».

L'assemblea degli dei conferisce cosi a Marduk le pre­rogative monarchiche: l'autorità e insieme i poteri coer­citivi; il diritto di decidere nelle assemblee in tempo di pace ed il comando dell'esercito in tempo di guerra; il potere di polizia per punire i malfattori.

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IL COSMO COME STATO

Ti demmo il potere regale, potere su ogni cosa. Assumi il tuo seggio in concilio, che la tua parola prevalga Che la tua arma non ceda e possa colpire i nemici.

2 I I

Garantisci il soffio vitale ai signori che ti hanno concesso fiducia Ma se un dio abbraccia il male, spegni la sua vita.

Conferita l'autorità a Marduk gli dei vogliono since­rarsi che egli la possegga realmente, che oramai nel suo comando sia presente quella qualità magica che sola può renderlo effettivo. Lo sottopongono dunque ad una prova:

Posero un vestito nel loro mezzo E dissero a Marduk il loro primogenito: « O Signore, il tuo destino è altissimo fra gli dei. Comanda l'annientamento e l'esistenza e che entrambi s'avverino Che la parola pronunciata distrugga il vestito, Poi parla di nuovo e che esso appaia intatto ». Parlò e il vestito fu annientato dalla sua parola. Parlò di nuovo ed il vestito riapparve. Gli dei suoi padri, vedendo [la potenza della sua] parola Gioirono e s'inchinarono: « Marduk è re ».

Allora gli porgono le insegne della regalità - scettro, trono e manto regale [ ? ] - e lo armano per l'imminente conflitto. Le armi di Marduk sono quelle d'un dio della tempesta e del tuono - circostanza che ben s'intende se si ricorda che la storia era originariamente quella del dio della tempesta : Enlil. Porta l'arcobaleno, le saette del lampo ed una rete tesa dai quattro venti.

Fece un arco, lo designò sua arma, Fece scorrere la freccia con fermezza sulla corda. Afferrando la mazza con la destra, la sollevò; Poi cinse arco e turcasso al suo fianco. Ordinò al lampo di precederlo, E fece avvampare il suo corpo di fuoco. Poi ord.i una rete per catturarvi Ti'amat, Ordinò ai quattro venti di tenerla sollevata, che nessuno dei

satelliti di lei potesse sfuggire. Il vento del nord, il vento del sud, il vento dell'est, il vento

dell'ovest Doni del padre Anu, dispose agli orli della rete.

Inoltre egli plasma sette orrende tempeste, solleva la mazza che è il diluvio, monta sul suo cocchio di guerra « la tempesta irresistibile » e corre alla battaglia contro Ti'amat attorniato dal suo esercito di dei.

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2!2 LA MESOPOTAMIA

All'avvicinarsi di Marduk, Kingu e l 'esercito nemico si scoraggiano e piombano nella piu totale confusione. Solo Ti'amat resiste e sfida a battaglia il giovane dio. Marduk la sfida a sua volta e la lotta s'inizia. Allargando la sua possente rete, Marduk la avvolge nelle maglie. Quando ella spalanca le fauci per ingoiarlo egli manda i venti a tenergliele aperte. I venti le gonfiano il corpo e nella sua bocca spalancata Marduk scocca una freccia che la ucci­de, giungendo a spaccarle il cuore. Quando i seguaci di Ti 'amat vedono Marduk calpestare sotto i piedi la loro morta eroina, volgono le spalle e tentano di darsi alla fuga. Ma le maglie della rete li catturano e Marduk spez­za le loro armi prendendoli prigionieri. Anche Kingu è avvinto in ceppi e Marduk gli sottrae le <( tavolette del destino ».

Ottenuta cosi la vittoria completa, Marduk ritorna verso il corpo di Ti'amat, le spacca il cranio con la mazza e le taglia le arterie, in modo che i venti si portano via il suo sangue. Poi le taglia in due il corpo e ne solleva la metà a formare il cielo; perché le acque in esso contenute non dileguino, vi pone dei catenacci e ne affida a guardia­ni la sorveglianza. Misura attentamente il cielo cosf for­mato e, come Ea ha edificato la sua dimora nel corpo del suo nemico morto dopo la vittoria su Apsu, cosi Marduk si costruisce la dimora sulla parte del corpo di Ti'amat da cui ha tratto il cielo. Lo misura per sincerarsi che es­so formi l'esatto contrapposto alla dimora di Ea.

A questo punto possiamo concederci una pausa per do­mandarci il significato di tutto ciò. Alla radice della bat­taglia fra Marduk (o Enlil) e Ti'amat, fra il vento e l'ac­qua, sta un'antichissima interpretazione delle inondazioni primaverili. Ogni primavera le acque inondano la pianu­ra mesopotamica ed il mondo ritorna al caos .- o meglio, al caos delle acque primigenie, finché i venti combattono le acque, prosciugandole e facendo inaridire nuovamen­te la terra. Tracce di tale concetto si possono ravvisare nel particolare dei venti che si portano via il sangue di Ti'amat. Ma ormai questi antichi concetti erano diventati il veicolo di una speculazione cosmologica. Abbiamo già menzionato la credenza secondo cui il cielo e la terra so-

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IL COSMO COME STATO 2 I3

no due grandi dischi depositati dalla selce nel caos delle acque e scissi l 'uno dall'altro per opera del vento, sicché l 'universo è una specie di sacco gonfio circondato di sot­to e di sopra dalle acque. Questa speculazione ha lasciato chiare tracce nei miti sumerici e nell'elenco An-Anum; qui, nell'Enuma Elish, ne troviamo una variante: è il mare primordiale, Ti'amat, che viene annientato e ucciso dai venti. La sua metà, il mare come lo vediamo, viene lasciato dov'è, l'altra metà va a formare il cielo, e robusti catenacci impediscono all'acqua di fuggire se non di tan­to in tanto, allorché una parte se ne stacca, cadendo sotto fNma di pioggia.

Cos{ l'Enuma Elish, elaborando il materiale mitologi­co, spiega in due modi la formazione del cielo. In primo luogo il cielo nasce nella persona del dio Anu, il cui no­me significa cielo e che è il dio celeste; in secondo luogo il cielo è foggiato dal dio del vento con una metà del corpo del mare.

In un periodo, però, in cui l'interesse si è spostato da­gli aspetti visivi degli elementi dell'universo alle potenze che in essi e attraverso essi agiscono, Anu, la recondita potenza del cielo appare già sufficientemente diversa dal cielo stesso da render meno acuta l'intima contraddizione.

La portata di certi avvenimenti nell'affermarsi dell'or­dine cosmico è però altrettanto significativa quanto la di­retta identificazione dei personaggi come forze cosmiche. Sotto il peso di una crisi acuta, sotto la minaccia di una guerra, una società piu o meno primitiva si è trasformata in uno Stato.

Valutando questo risultato secondo criteri moderni e dichiaratamente soggettivi, potremmo dire che le poten­ze del movimento e dell'attività, gli dei, hanno ottenuto la loro vittoria finale e decisiva sulle potenze della quiete e dell'inerzia. Per arrivarvi hanno dovuto sforzarsi al massimo, ed hanno escogitato un metodo, una forma d'or­ganizzazione che permette loro di valersi di tutto il loro peso. Come le forze attive di una società possono aver ragione della minaccia del caos e dell'inerzia, cosf le for­ze attive dell'universo mesopotamico, attraverso lo Stato hanno vinto e sbaragliato le potenze dell'inattività e del-

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LA MESOPOTAMIA

l'inerzia. È certo, comunque, che la crisi ha imposto agli dei un'organizzazione statuale sul tipo di una democrazia primitiva. Tutti i problemi piu importanti vengono rego­lati in un'assemblea generale, dove i decreti ricevono con­ferma, i piani vengono elaborati e i giudizi emessi. A ogni dio è assegnato un rango, il piu importante viene attribuito ai cinquanta dei anziani, fra i quali seggono i sette la cui opinione è decisiva. Oltre a codesta assem­blea legislativa e giudicante, c'è adesso un potere esecu­tivo, il giovane re, che ha autorità pari a quella dei mem­bri piu influenti dell'assemblea, guida l'esercito in tempo di guerra, punisce i malfattori in tempo di pace e in ge­nere delibera, con il consenso dell'assemblea, in materia di organizzazione interna.

All'organizzazione interna, appunto, si volge Marduk dopo la vittoria. Dapprima elabora il calendario - que­stione sempre aperta per un capo mesopotamico. Sul cie­lo che ha appena foggiato pone le costellazioni che, con il loro sorgere e tramontare, regolino l'anno, i mesi, i giorni. La « posizione » del pianeta Giove viene fissata per rendere noti i « doveri » dei giorni, man mano che sorgono :

Per rendere noti i loro obblighi, Affinché nessuno agisse male o in difetto.

Mette anche attorno al cielo due fasce conosciute come « le vie » di Enlil ed Ea. Sui due versanti del cielo dove il sole spunta al mattino e dove si allontana la sera, Mar­duk costruisce porte, sprangandole con possenti catenac­ci. In mezzo al cielo fissa lo zenith e fa splendere la luna impartendole ordini :

Ordinò alla luna di comparire, le affidò la notte; Fece di lei una creatura dell'oscurità, perché misurasse il tempo E ogni mese, senza fallo, l'adornò di una corona. « Al principio del mese, quando sorgerai sulla terra, Le rue. corna lucenti misureranno sei giorni; Il settimo mese lascia apparire mezza corona. Quando sarai piena fisserai il sole,

[Ma] quando il sole comincia a sopravanzarti nel profondo cielo Scema il tuo splendore, fermane la crescita.

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IL COSMO COME STATO 215

Il testo prosegue con altri ordini piu particolareggiati. Un'ampia lacuna nasconde altre innovazioni dell'ener­

gico e giovane capo. Quando il testo si fa di nuovo leg­gibile, Marduk, probabilmente per rispondere ad una supplica che gli dei gli hanno rivolto, studia la possibili­tà di sollevarli dai loro compiti faticosi e meschini, orga­nizzandoli in due grandi gruppi:

Intreccerò arterie e creerò ossa. Creerò Lullu, « uomo >> sarà il suo nome. Formerò Lullu, l'uomo. Che egli si addossi la fatica degli dei, sicché essi respirino

liberamente. Poi disporrò il cammino degli dei; In verità essi sono ammassati come una palla,

Li renderò distinti.

Distinti vale a dire in due gruppi : seguendo un suggeri­mento di suo padre, Ea, Marduk raduna in assemblea gli dei. Ora l'assemblea funge da corte, per decidere chi sia stato responsabile dell'aggressione, chi abbia istigato Ti' amat. L'assemblea accusa Kingu, cosi Kingu viene lega­to e giustiziato e dal suo sangue viene creata l'umanità sotto la direzione di Ea.

Lo legarono, lo tennero dinanzi ad Ea. Lo condannarono, gli tagliarono le sue arterie. E dal suo sangue formarono l 'umanità. Ea allora impose all'uomo la fatica e liberò gli dei.

La grande abilità dispiegata nel formare l'uomo è oggetto d'ammirazione per il poeta:

L'opera non fu tale da poter essere compresa dall'uomo. Sulle indicazioni ingegnose di Marduk Ea creò.

Allora Marduk suddivide gli dei e li assegna ad Anu, per­ché seguano le disposizioni di Anu. Trecento ne pose a guardia del cielo e altri trecento destinò a incarichi ter­reni. Cosi furono organizzate e investite dei loro com­piti le forze divine.

Gli dei nutrono la dovuta gratitudine a Marduk per i sui sforzi . Per esprimerla, prendono in mano per l'ultima volta la piccozza, per costruirgli una città ed un tempio

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2!6 L A MESOPOT AMIA

fornito di troni sui quali ciascun dio possa sedere in tem­po d'assemblea. La prima assemblea si raduna in occasio­ne d�lla benedizione del tempio. Come di consueto gli dei si seggono prima a banchetto, e poi discutono e deci­dono questioni di pubblico interesse. Sbrigati gli affari correnti Anu si alza per confermare la posizione regale di Marduk, consacra per l'eternità la sua arma, l'arco, e il suo trono; infine chiede agli dei radunati di conferma­re la posizione di Marduk stesso, le sue funzioni nell'u­niverso, elencando i suoi cinquanta nomi, ciascuno volto a esprimere un aspetto del suo essere, ed a definire uno dei suoi compiti. Il catalogo dei nomi conclude il poe­ma : i nomi racchiudono ciò che Marduk è e ciò che egli rappresenta, la vittoria finale sul caos e l'assestamento di un universo ordinato, organizzato, lo Stato cosmico dei Mesopotamici.

Con l'Enuma Elish tocchiamo una fase della civiltà me­sopotamica in cui l'antica visione del mondo che aveva formato la cornice subconscia e intuitivamente accettata da ogni individuale speculazione, diventa essa stessa un tema di ricerca. Mentre i miti piu antichi risolvono pro­blemi concernenti l'origine, l'ordine, la valutazione dei particolari, l'Enuma Elish risolve problemi di fondo. Trat­ta dell'origine e dell'ordinamento dell'universo nella sua totalità. Si occupa, però, solo delle origini e dell'ordina­mento generale e non del loro valore. Il fondamentale problema del valore riguarda la giustizia proprio dell'or­dinamento del mondo, e questo problema viene affronta­to, ma non soltanto sotto il profilo mitologico. Le solu­zioni formeranno l'argomento del capitolo VII, che tratta della « buona vita >> . Vorremmo però trattare dei rifles­si della visione del mondo mesopotamica sul piano della vita sociale e politica. Vediamo dunque le funzioni dello Stato.

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Note al Capitolo quinto.

1 Epopea di Gilgamesh, versione antica babilonese, tavoletta di Yale IV, 7·8.

2 CT, Xl!, x,, r2. 3 REISSNER, SBH, VII, rev. 17-24. Il diluvio in questo passo vale

come metafora della sentenza divina. 4 Voce « Mythology "• E11ciclopedia Britannica, n" ed., vol. XIX,

p. I34· 5 Maqlu, tavoletta VI, I I I·I9-

• Verdetto sulla Selce in Lugal-e. 7 Cfr. Inno a Nidaba, OECT l, 36-39. 1 Maqhl, tavoletta III, 1_,!.,2. 9 Ibid., VI, 1·8. IO KAR, 102. 11 CT, XXIV, _,o, o. 47 4o6, recto 6 e 8. 12 Maqlu, tavoletta Il, X04·-'· 13 Politica, n:;z b. 14 RA, Xl, 144 recto 3·'· 15 THUREAU·DANGIN, Rit. ace., 70, recto 1·14. 16 KRAMER, AS, XII, 34 e 36, linee 173-89. 17 lbid. , p. 38, linee 203·4· 10 Ibid., pp. 38 e 40, linee 208-18. " KAR, 2,, III, 21-29 e 68 recto I·I I . 30 lbid., 371, II, r-8. 21 REISSNER, SBH, pp. 130 sgg., linee 48-:;,. 21 CT, XXXVI. tav. 31, 1-20. 2i KRAMER, « Mythology », nn. 47 e 48. 24 lbid., nn. '4 e '-'· 25 Ibid., n. '9· 16 Ibid. , n. 73. 27 CIDERA, SRT, 4 recto 17·22. D Ibid. , 3· 29 Cfr. citazioni nella traduzione dello HF.IDEL, The Bobilonian Genesis. 30 Lingua semitica parlata insieme al susnerico e che verso la fine del

m millennio soverchiò quest'ultimo diventando l'unica lingua parlata nel paese.

31 Cioè, entro Apsu, Mummu e Ti'amat.

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Capitolo sesto

LA MESOPOTAMIA:

LA FUNZIONE DELLO STATO

Il primo tema che affronteremo particolareggiatamen­te è la « funzione dello Stato », cioè la particolare fun­zione che lo Stato umano in Mesopotamia si riteneva svolgesse nell'universo . Prima di procedere sarà bene con­siderare il termine moderno di « Stato >) , onde evitare che esso ci prenda di contropiede, allorché lo applichere­mo agli antichi concetti mesopotamici. Quando parliamo di uno Stato pensiamo ad una sovranità interna ed all'in­dipendenza da ogni controllo dall'esterno. Inoltre ricolle­ghiamo lo Stato ad un determinato territorio e ne ravvi­siamo la funzione principale nella protezione dei suoi membri e nella promozione del loro benessere.

Nella mesopotamica concezione del mondo questi at­tributi non appartengono e non potrebbero appartenere ad una organizzazione umana. L'unico Stato realmente sovrano, indipendente da ogni controllo dall'esterno è lo Stato costituito dall'universo stesso e governato dall'as­semblea degli dei. Tale Stato, inoltre, è quello stesso che domina sul territorio della Mesopotamia ; in Mesopota­mia sono gli dei i proprietari della terra e dei latifondi. L'uomo, in guanto creato per comodità degli dei, ha per scopo di servirli . Nessuna istituzione umana può pertan­to avere come fine ultimo quello di promuovere il benes­sere dei suoi membri, bensi quello di favorire il benesse­re degli dei . Ma se il nostro termine <' Stato » si applica di diritto soltanto allo Stato rappresentato dall'universo mesopotamico, allora possiamo domandarci che cosa sia­no mai le unità politiche umane che troviamo in tutta la

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LA FUNZIONE DELLO STATO 219

storia della Mesopotamia e che gli storici chiamano Stati­città e nazioni. Parrebbe di poter rispondere che esse co­stituivano strutture di poteri secondarie entro il vero Stato. I cosiddetti « Stati-città » sono un'organizzazione privata ed hanno un fine essenzialmente economico, rap­presentano il maniera rustico, il fondo di qualche grande dio. Anche lo Stato nazionale è una struttura di poteri secondaria, però ha anche una funzione politica, poten­dosi considerare un'estensione degli organi esecutivi del­lo Stato mondiale, una forza di polizia.

Avendo cosi definito le entità delle quali ci stiamo oc­cupando, possiamo ora volgerei piu particolareggiatamen­te alla funzione che esse svolgono nell'universo, nello Stato cosmico.

Lo Stato-città mesopotamico.

Nel m millennio a. C. la Mesopotamia è formata da una pluralità di unità politiche minime, i cosiddetti « Sta­ti-città ». Ognuno di essi consiste di una città con il suo territorio circostante, coltivato dagli abitanti. Talvolta un singolo Stato-città comprende piu città: possono esserci due o tre città ed un certo numero di villaggi dipendenti dalla città principale e da lei governati. Di quando in quando sorgono dei conquistatori che riescono a unifica­re la maggior parte degli Stati-città entro un solo vasto Stato nazionale, ma tali Stati nazionali sono per lo piu di breve durata. Subito dopo il paese si fraziona nuovamen­te in Stati-città.

Il centro dello Stato-città è la città ed il centro della città è il tempio del dio cittadino. Questo è per lo piu il massimo proprietario terriero dello Stato e coltiva i suoi vasti possedimenti per mezzo di servi e mezzadri. Altri templi, dedicati alla sposa del dio cittadino e dei loro di­vini figlioli o a divinità altrimenti collegate al dio, sono anch'essi proprietari di vasti fondi , cosicché si è valutato che attorno alla metà del nr millennio a. C. la massima parte del suolo in uno Stato-città apparteneva ai templi. Cosi la maggioranza della popolazione guadagnava da vi-

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220 LA MESOPOTAMIA

vere lavorando in mezzadria o come serva della gleba o schiava dègli dei.

Le realtà economiche e politiche espresse nei miti me­sopotamici (secondo i quali l'uomo è stato creato per sol­levare gli dei dall'onere del lavoro e per lavorare lui sulle terre degli dei), si riassumono dunque in questa situazio­ne. Lo Stato-città mesopotamico era effettivamente un la­tifondo o meglio, come il maniera medievale a cui l'ab­biamo paragonato - aveva come base un territorio. Il latifondo, ovvero il tempio principale e le sue terre, ap­parteneva al dio della città che l'amministrava, imparten­do personalmente gli ordini piu importanti.

Per eseguire tali ordini il dio della città ha a disposi­zione una schiera di servitori divini e umani. I servitori umani lavorano nelle case e nei campi e sono organizzati in conformità. I servi divini, gli dei minori, sorvegliano i lavori. Ognuno degli dei minori ha una sua parte spe­ciale nell'amministrazione del latifondo, e infonde i suoi poteri divini nell'opera dei suoi sottoposti umani, affin­ché essa dia frutti copiosi.

Siamo ottimamente documentati soprattutto circa l'or­ganizzazione dello Stato-città di Lagash ', appartenente ad un dio chiamato Ningirsu. Questo tempio potrà quindi servire d'esempio.

·

Vi sono anzitutto i divini servi di Ningirsu, divinità minori che appartengono alla sua famiglia ed alla sua cer­chia. Sono suddivisi in due gruppi, taluni svolgono inca­richi nel maniera, nel tempio stesso, altri lavorano nelle terre circostanti.

Fra gli dei che lavorano nel maniera troviamo il figlio del proprietario, il dio Igaliòma, guardiano del sancta sanctorum, incaricato d'introdurre i visitatori che chiedo­no udienza a Ningirsu. Un altro figlio di Ningirsu, Dun­shagana, è il primo maggiordomo. Sorveglia la prepara­zione e la distribuzione del cibo e delle bevande, tiene d'occhio le fabbriche di birra e bada che i pastori conse­gnino le pecore ed i latticini per la tavola del dio. Ven­gono poi i due armaioli, che curano le armi di Ningirsu e lo seguono come porta-insegne in battaglia. Nelle sue opere piu pacifiche Ningirsu è coadiuvato da un divino

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consigliere, che discute con lui delle necessità cittadine. I suoi bisogni personali sono curati dal domestico, il dio Shakanshabar che svolge i piccoli incarichi affidatigli da Ningirsu e dal divino ciambellano Urizi, bada all'abita­zione del dio e provvede a fargli trovare il letto rifatto la notte, ecc. Nelle stalle troviamo il cocchiere Ensignum, che accudisce ai muli ed al cocchio. C'è anche Enlulim, il divino capraro che veglia sulle greggi del tempio e prov­vede abbondanti provviste di latte e burro.

Tornando ai quartieri residenziali, ecco il musicista di Ningirsu, che si occupa degl'istrumenti musicali e la cui funzione è di rallegrare la corte con le sue melodie. C'è anche un tamburino, che suona specialmente quando Nin­girsu è preoccupato o sconvolto: allora il cupo rullo del tamburo varrà a calmare il suo cuore divino e a fermargli le lacrime. Ningirsu ha sette figlie nate dalla moglie Ba­ba, che fungono da dame di corte.

Fuor del maniera, nei campi, si svolge l'opera del dio Gishbare, il fattore di Ningirsu, incaricato di far frutta­re i campi, facendo sollevare l'acqua nei canali, colmando i granai del tempio. Qui troviamo anche il divino ispet­tore delle pescherie reali che rifornisce di pesci gli sta­gni, sorveglia i canneti e manda i suoi rapporti a Ningir­su. La selvaggina del latifondo è affidata al guardacaccia divino che deve badare che gli uccelli depongano le uova tranquillamente e che la prole degli uccelli e degli ani­mali cresca senza subir molestia.

Un divino gendarme, infine, esegue le ordinanze in cit­tà montando la guardia sulle mura e facendo la ronda con la clava nella mano.

Mentre codesti divini sorveglianti benedicono le opere svolte nel fondo di Ningirsu, il vero e proprio lavoro materiale è eseguito dagli uomini. Questi operai umani, mezzadri, servi della gleba o servitori del tempio, pasto­ri, birrai, o cuochi erano organizzati in gruppi sotto la sorveglianza di sovrintendenti umani secondo una gerar­chia culminante nel piu alto servitore umano del dio, l'ensi, amministratore del fondo del dio e del suo Stato­città.

Chiamiamo l'ensi « amministratore » del fondo del dio,

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e infatti la sua posizione di fronte al dio è analoga a quel­la di un amministratore di latifondo, di un sovrintenden­te di fronte al proprietario. Il sovrintendente nominato per amministrare un fondo deve anzitutto mantenerlo in efficienza, poi deve eseguire quegli ordini specifici che il proprietario ritenga opportuno di impartirgli per ciò che concerne i cambiamenti, le innovazioni, o le modalità per affrontare situazioni impreviste. Cosf l'ensi deve man­tener l'ordine costituito nel tempio del dio e nella città, e deve consultarsi con il dio eseguendone tutti i comandi.

Alla prima parte del compito dell'ensi appartiene l'am­ministrazione del tempio e del latifondo. Egli cura le ope­re agricole, le foreste e le pescherie del tempio, le filan­de, i telai, i mulini, le fabbriche di birra , i forni, le cuci­ne ecc. facenti parte del maniera. Un corpo di scribi fa un minuzioso resoconto di tutte queste attività, e i reso­conti vengono sottoposti all'ensi per l'approvazione. Co­me egli amministra il tempio del dio della città, cosf la moglie amministra il tempio ed il latifondo della divina sposa del dio della città, ed i suoi figli i templi dei figli del dio della città.

Oltre a codesti compiti l'ensi è responsabile della leg­ge e dell'ordine nello Stato e deve provvedere affinché tutti siano giustamente trattati. Cosi di un ensi ci viene detto che « pattuf con il dio Ningirsu che non avrebbe consegnato l'orfano e la vedova al potente » '. Quindi l' ensi è la massima autorità giudiziaria. Ma altri doveri gli incombono : è comandante in capo dell'esercito citta­dino, negozia per il suo dio con gli ensi rappresentanti gli dei degli altri Stati-città, e delibera sulla guerra e sul­la pace.

A questo punto tocchiamo anche l'altro aspetto del compito dell'ensi, quello di eseguire gli ordini particolari del dio : le decisioni riguardanti la guerra e la pace ecce­dono l 'ordinaria amministrazione e possono essere prese soltanto dal dio in persona. Fra le altre questioni riser­vate al dio della città c'è la riedificazione del tempio prin­cipale.

Per accertare la volontà del suo padrone l'ensi ha pa­recchi mezzi a sua disposizione. Può ricevere l'ordine tra-

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mite qualche evento eccezionale e portentoso, un presa­gio la cui interpretazione i sacerdoti ricavano studiando lunghe liste di casi analoghi. Può però anche cercare la risposta ad un particolare quesito sacrificando al dio un animale e decifrando nel suo fegato il messaggio del dio. Se la risposta non è di una lampante evidenza, la prova si può ripetere. Un altro mezzo di comunicazione con il dio ed il piu diretto fra tutti, è quello dei sogni. L'ensi si reca di notte al tempio, sacrifica al dio, prega e si cori­ca a dormire. È probabile che il dio gli appaia in sogno e gli impartisca ordini.

Possediamo parecchi resoconti particolareggiati sul mo­do in cui tali ordini venivano trasmessi dal dio al suo amministratore umano. Un esempio è quello dell'ordine dato dal dio Ningirsu al suo amministratore Gudea, ensi di Lagash '. L'ordine riguarda la ricostruzione del tem­pio di Ningirsu, Eninnu. Quando il fiume Tigri, control­lato da Ningirsu, non si gonfia a inondare i campi Gudea comincia a sospettare qualcosa. Allora si reca immediata­mente al tempio ed ecco che fa un sogno. Scorge un uo­mo gigantesco con una corona divina ed enormi ali d'uc­cello, il cui corpo finisce in un'ondata alluvionale. A destra e sinistra giacciono dei leoni. L'uomo ordina a Gu­dea di costruire il suo tempio. La luce del giorno spunta all'orizzonte. Poi spunta fuori una donna e si mette a trac­ciare un piano dell'edificio. Nella mano ha uno stilo do­rato ed una tavoletta di creta sulla quale sono segnate le costellazioni. Ella si mette a studiarle. Poi giunge un guerriero con una tavoletta di lapislazzuli e comincia a tracciarvi sopra il piano di una casa. Ed ecco comparire a Gudea un calco per mattoni ed un canestro; uomini-uc­celli versano incessantemente acqua in una vasca mentre un asino alla destra del dio raspa la terra con gli zoccoli in segno d'impazienza.

Pur comprendendo il significato generale del sogno (che egli doveva ricostruire il tempio di Ningirsu) Gudea non aveva chiaro il significato dei particolari. Perciò decide di consultare la dea Nanshe che viveva in una cittadina del suo regno ed era abilissima nell'interpretare i sogni. Il viaggio è lungo perché egli si ferma ad ogni tempio, a

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chiedere aiuto e sostegno. Quando alla fine giunge, si re­ca direttamente dalla dea per sottoporle il problema. Noi abbiamo la risposta che ella diede prontamente (e che non sappiamo come sia stata tramandata). L'uomo con la corona e le ali è Ningirsu che ordina a Gudea di rico­struire il suo tempio Eninnu. La luce del giorno è il dio personale di Gudea, che sarebbe stato presente e attivo in tutto il mondo, portando successo alle spedizioni com­merciali che Gudea avrebbe inviato a cercare materiali edilizi per il tempio. La dea che tempesta di stelle la ta­voletta sta determinando la stella particolare sotto la qua­le sarebbe stato di buon auspicio ricostruire il tempio. Il piano che il dio va disegnando è quello del tempio. Il calco per mattoni e il canestro sono il calco ed il canestro sacri del tempio; gli uomini-uccelli che lavorano senza tregua stanno a significare che Gudea non si deve conce­der sonno finché non abbia portato a termine l'impresa e l 'asino scalpitante per l'impazienza simboleggia l'emi medesimo, impaziente di iniziare i lavori.

Ma il comando non è ancora chiaro nei particolari : che specie di tempio desidera Ningirsu? Che cosa dovrà contenere? Nanshe consiglia a Gudea di chiedere mag­giori delucidazioni al dio. Deve costruire un nuovo coc­chio di guerra per Ningirsu, addobbandolo sfarzosamen­te, e recarlo al dio al suono dei tamburi. Allora Ningirsu <� che si compiace di doni >� presterà attenzione alle pre­ghiere di Gudea dicendogli con precisione come doveva essere costruito il tempio. Gudea segue il consiglio e dopo parecchie notti passate inutilmente nel tempio, fi­nalmente vede Ningirsu, che gli spiega particolareggia­tamente che cosa il tempio dovrà contenere.

Gudea si destò dal suo sonno: si riscosse, era stato un sogno. In segno d'accettazione chinò il capo ai comandi di Ningirsu.

Ora Gudea può procedere. Chiama a raccolta il suo po­polo, riferisce l'ordine divino, arruola gli uomini per l'o­perazione edilizia, manda le spedizioni commerciali al­l'estero ecc. Oramai conosce gli ordini e sa come agire.

Abbiamo analizzato un ordine divino per la costruzio­ne di un tempio. Ma non diversamente, e sempre per

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ordine divino, nascevano tutte le altre imprese. Il dio ordinava di intraprendere una guerra, di stipulare una pace, di introdurre nuove leggi e costumi per regolare la comunità.

Il ruolo dello Stato-città risulta pertanto chiaro nel quadro di quello Stato piu vasto costituito dall'universo. Esso è un'istituzione privata la cui funzione è essenzial­mente economica. Appartiene ad un privato cittadino dello Stato cosmico, uno dei grandi dei, del quale costi­tuisce il feudo. Come feudo provvede per il dio il cibo, l'abbigliamento e l'abitazione in tale abbondanza che il dio può concedersi la vita che gli compete, la vita del nobile circondato di servi di domestici e di benessere ma­teriale. Cosi egli può concedersi una piena autoespres­sione, libera e senza intralcio.

Ora ogni grande dio è, come sappiamo, la potenza insita dentro e nascosta dietro a qualche grande forza na­turale - il cielo, la tempesta, o qualsiasi altra. Sosten­tando e coltivando un grande dio, fornendogli la base economica che gli consente la piena autoespressione, lo Stato-città coltiva una certa forza cosmica, aiutandola a funzionare liberamente. Questa è la funzione dello Stato umano entro il cosmo, a questo modo esso contribuisce a mantenere il cosmo nell'ordine.

Lo Stato nazionale mesopotamico.

Lo Stato nazionale in Mesopotamia ebbe funzione di­versa da quella dello Stato-città, essendo attivo piuttosto sul piano politico che non su quello economico. Entram­bi, lo Stato-città e lo Stato nazionale, sono strutture di poteri che alla lunga si levano al di sopra del piano me­ramente umano; ciascuna culmina in un grande dio. Ma laddove lo Stato-città è tutto inteso in funzione di un grande dio che è cittadino privato dello Stato cosmico, lo Stato nazionale s'intende in funzione di un grande dio che è un funzionario dello Stato cosmico.

Lo Stato nazionale è pertanto l 'estensione di un orga­no di governo dell'unico Stato realmente sovrano. Il cor-

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po che governa lo Stato cosmico è l'assemblea degli dei; in essa Anu presiede al dibattito mentre Enlil, come capo della polizia e delle forze armate, rappresenta i poteri esecutivi. Per quanto Enlil sia l 'elemento della forza nel governo mondiale, non ne è l'unico rappresentante: l'as­semblea può scegliere uno qualunque dei suoi membri, incaricarlo di mantenere l'ordine interno e di guidare le forze armate, proclamarlo re. Il re scelto dagli dei eser­cita le sue funzioni direttamente fra gli dei. mentre agi­sce in terra attraverso il suo rappresentante umano. Il suo rappresentante umano domina pertanto gli altri capi mesopotamici e per loro tramite i vari Stati-città. Ad esempio il periodo attorno alla metà del II millennio a. C., quando gli Stati-città di !nanna, Kish e Agade ten­nero sotto il loro dominio la Mesopotamia, fu il « perio­do del regno » di !nanna. Piu tardi, quando dominò Ur, il suo dio Nanna assurse a re degli dei.

I vincoli che legano Enlil a codeste funzioni esecutive sono però cosi robusti che la regalità spesso viene chia­mata « le funzioni di Enlil >) ed il dio che svolge tali fun­zioni si riteneva fosse sotto la guida di Enlil .

Le funzioni del re sono duplici: punire i malfattori e mantenere all'interno la legge e l'ordine, fare le guerre e proteggere la Mesopotamia dall'esterno. Basteranno due esempi a chiarire il concetto.

Quando Hammurabi, dopo trent'anni di dominio sul piccolo Stato-città di Babilonia, riesce a soggiogare tutta la Mesopotamia meridionale, sul piano delle vicende co­smiche il suo successo significa che Marduk, il dio di Ba­bilonia, è stato prescelto dall'assemblea degli dei, tramite i suoi capi, Anu ed Enlil, a fare le veci di Enlil. Analoga­mente il vicario terreno di Marduk, Hammurabi, ha rice­vuto l 'incarico di svolgere quelle funzioni in terra . Cosi racconta Hammurabi : Quando l'altissimo Anu, re degli Annunaki ed Enlil, signore del

cielo e della terra, I quali determinano i destini del paese, designarono Marduk il

primogenito Figlio di Enki, a svolgere le funzioni Enlil su tutto il popolo,

rendendolo grande fra gli lgigi, chiamarono Babilonia con il suo nome esimio, rendendola

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Grandissima nel mondo, e ne fecero Un regno duraturo per Marduk, le cui fondamenta sono salde come Quelle del cielo e della terra - Allora Anu ed Enlil mi chiamarono

a dare benessere al popolo Me, Hammurabi, il principe obbediente e timorato degli dei, che

portassi giustizia al paese Che annientassi i malvagi, che impedissi ai forti di nuocere

ai deboli Che mi alzassi come il sole sopra le genti dalle teste nere,

il! uminando la terra '.

Marduk, come possiamo vedere da questo passo, deve agire come braccio secolare di Enlil, e Hammurabi come braccio secolare di Marduk. Poiché il passo è tratto dal­l'introduzione al codice hammurabico, è naturale che vi si trovino sottolineate quelle funzioni di Enlil che appar­tengono al mantenimento dell'ordine e della legge.

Prima che le funzioni di Enlil passassero a Marduk ed a Babilonia, erano detenute dalla città di Tsin e dalla sua dea Nininsina. Possiamo citare un testo dove la dea stes­sa espone i propri compiti, mettendo in rilievo la sua funzione di condottiera delle guerre esterne :

Se il cuore del gran monte EnJil s'è fatto torbido, Se ha corrugato la fronte contro una terra straniera e decisa la

sorte di un paese ribelle Allora mio padre Enlil mi manda contro il paese ribelle verso il

quale ha corrugato la fronte, Ed io, donna ed eroina, io la possente guerriera, vi muoverò

contro '.

Prosegue descrivendo la punizione inflitta dalla sua forza alla terra straniera, e racconta come tornò a riferirne a Enlil a Nippur.

Poiché il vicario umano agisce in luogo del dio . della città anche quando il dio della città è stato eletto re ed esercita le funzioni di Enlil, in questo caso la designa­zione del vicario umano non è piu un affare privato del dio della città, ma ha bisogno di conferma da parte del­l 'assemblea degli dei. Cosf ora siamo informati che quan­do Nanna, il dio di Ur, divenne re degli dei, dovette viaggiare fino a Nippur per tentare di far attribuire a Shulgi, suo vicario, la carica. A Nippur Nanna è ricevuto

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in udienza dinanzi ad Enlil, e la sua proposta viene ac­cettata. Cosf dice Enlil :

Lascia che il mio pastore Shulgi porti il dolore ai paesi ribelli; Lascia che comandi di giustizia gli stiano sulla bocca [?] 6•

Egli menziona due aspetti eminenti della carica : il co­mando militare, in guerra e l'amministrazione della giu­stizia. Poi Nanna torna a riferire al suo protetto umano la lieta notizia dell'accettazione della sua candidatura.

Una descrizione piu completa e particolareggiata di questa conferma di un incarico è contenuta in una peti­zione del capo di Isin Ishme-Dagan. Chiede in primo luo­go che Enlil gli dia la signoria del nord e del sud e che Anu su intercessione di Enlil gli dia « tutti i pastorali » . Poi ciascuno degli altri grandi dei è pregato di aggiun­gere qualche particolare, di coadiuvare in qualche modo. Quando l'incarico ed i poteri ad esso connessi sono stati cosi enunciati, il re chiede:

Che Enki, Ninki, Enul, Ninul e gli Anunnaki, signori che decidono le sorti

E gli spiriti di Nippur ed i genii di Ekur, fra i grandi dei Parlino del destino che hanno fissato, del loro immutabile (( Cos{

sia » 7•

Vale a dire : l'assemblea degli dei confermi l'investitura con i suoi voti favorevoli.

Il fatto che l'universo mesopotamico sia concepito come uno Stato, che gli dei ai quali appartengono i vari Stati-città siano riuniti in un istituto piu alto, l'assem­blea degli dei, dal quale emanavano gli organi esecutivi destinati ad esercitare la coazione esterna nonché ad assi­curare l'esecuzione della legge e l'ordine interno - ha avuto ripercussioni assai vaste sulla storia mesopotamica e sul modo di intendere ed interpretare gli avvenimenti; ha rafforzato largamente le tendenze miranti all'unifica­zione politica del paese sanzionando perfino, in vista di quei fini, i mezzi piu violenti. Qualunque conquistatore, purché gli arridesse il successo, era riconosciuto come il vicario di Enlil. Ha fornito anche - perfino in periodi in cui l'unità nazionale attraversava una fase critica e le mol-

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LA FUNZIONE DELLO STATO 229 te città ad ogni pratico fine delle unità politiche indipen­denti, uno sfondo sul quale poteva operare il diritto in­ternazionale. Vediamo già in tempi storici che una disputa confinaria fra i due Stati-città vicini di Lagash e Umma era considerata una disputa fra i due proprietari terrieri divini Ningirsu, re di Lagash, e Shara, re di Umma. Co­me tale poteva essere portata dinanzi ad una corte e de­cisa da Enlil a Nippur. Enlil diede la sua decisione tra­mite il reggitore Mesilim re di Kish, che era allora il suo vicario umano. Mesilim misurò il territorio oggetto del­la disputa e segnò la linea di confine che Enlil aveva in­dicata '. In modo analogo altri « re » della storia meso­potamica fecero da mediatori e da giudici nelle dispute · fra gli Stati-città, agendo come rappresentanti di Enlil. Cosi Utuhegal di Uruk, dopo aver liberato e unificato Shumer, decise le dispute confinarie fra Lagash e Ur ' . Urnammu, primo re della terza dinastia di Ur, portò una controversia del genere dinanzi al giudice degli dei, il dio solare Utu, e « in conformità del giusto verdetto di Utu fece chiarire i fatti chiedendone conferma [ai testimo­ni] )) IO•

La tendenza a ravvisare un procedimento legale nello Stato degli dei e l 'esecuzione di una divina sentenza in ciò che, in termini meramente umani, è puro e semplice conflitto di forze, appare in piena luce in un'iscrizione nella quale Utuhegal narra come liberò Shumer dai suoi oppressori Guzi 11• Dopo un'introduzione nella quale de­nuncia il malgoverno dei Guzi, Utuhegal racconta come Enlil emanasse una sentenza con la quale essi venivano spodestati. Poi segue l'incarico dato da Enlil a Utuhegal che viene scortato da un delegato divino che lo autorizza ad agire in qualità di rappresentante legale. Infine ci viene narrata la sua campagna e la sua vittoria.

La funzione dello Stato nazionale, come estensione de­gli organi esecutivi dello Stato cosmico, era importante ma non indispensabile . Un tempo la regalità aveva dimo­rato in cielo a cospetto di Anu e non era ancora mai di­scesa in terra ; e piu volte nella storia gli dei avevano tra­lasciato di designare un re umano. E tuttavia l'universo aveva continuato a procedere secondo il suo solito corso.

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Se non è indispensabile la monarchia nazionale, ancor meno lo sono i compiti che le spettano. Di tempo in tem­po il dio e la città che esercitano il potere regio vengono giudicati inadatti alla funzione, non foss'altro perché l'as­semblea divina desidera un cambiamento. Allora la città <� viene colpita dalle armi >> e la regalità viene trasferita ad un altro dio o città oppure lasciata vacante.

Quando tali eventi di capitale importanza si vanno de­lineando, la città regale comincia a sentire che la sua pre­sa si allenta, che la sua organizzazione diventa inefficien­te. I segni ed i presagi si fanno oscuri, gli dei non dànno alcuna risposta chiara alle domande dell'uomo, non ven­gono piu diramati ordini e si annunciano sinistri porten­ti : l'uomo attende la catastrofe con presago terrore.

Gli dei della città condannata soffrono con lui. Sappia­mo ad esempio di quali sentimenti cadesse preda Ningal, dea di Ur, nei giorni precedenti la caduta della città, men­tre si preparava l'assemblea degli dei che avrebbe deciso di togliere a lei la regalità di cui aveva fino ad allora go­duto, di far perire la città nella terribile tempesta di En­lil. La dea stessa narra di quei giorni :

Quando mi lamentavo per quel giorno di tempesta Il giorno della tempesta che mi era destinato incombeva su di me

grave di lacrime Il giorno della tempesta, a me destinato, incombeva su di me,

grave di lacrime, Su me, donna. Anche se tremavo per quel giorno di tempesta, Il giorno di tempesta che mi era destinato incombeva su di me,

grave di lacrime, II crudele giorno di tempesta, a me destinato. Non potevo fuggire la fatalità del giorno. D'improvviso piu non scorsi giorni felici nel mio regno, Non piu giorni felici nel mio regno. Benché tremassi per quella notte, La notte di pianti crudeli a me destinati, Non potevo fuggire la fatalità della notte. Pesava su di me l'orrore della distruzione della diluviante

tempesta, D'improvviso, sul mio giaciglio, la notte, Sul mio giaciglio di notte non mi furono cnncessi sogni. E d'improvviso sul mio giaciglio l'oblio, Sul mio giaciglio di notte non fu concesso l'oblio. Poiché queste lacrime amare erano destinate al mio paese

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E non poteva, anche vagando per la terra - vacca che cerca il vitello -

Guidare a ritroso il mio popolo, Perché questo amaro dolore era destinato alla mia città, Anche se io come uccello avessi steso le mie ali E come uccello fossi accorsa alla mh città, Tuttavia la mia città sarebbe stata distrutta dalle fondamenta, Tuttavia Ur sarebbe perita là dove sorgeva. Perché il giorno della tempesta aveva levato la mano, E anche se avessi gridato e urlato: << Torna indietro, giorno di tempesta, torna al deserto " Il petto della tempesta non si sarebbe piu sollevato da me 11•

Per quanto Ningal sappia che è inutile e che la decisione degli dei è irrevocabile, pure, quando la fatale sentenza viene emessa, fa il possibile per conquistarsi l'assemblea, dapprima implorando i capi Anu ed Enlil e poi, fallita questa mossa , compiendo un ultimo passo presso l'assem­blea stessa. Ma tutto è vano.

Poi, all'assemblea, che non era ancora balzata in piedi, Mentre gli Annunaki che si stavano impegnando [nella decisione], Erano ancora seduti, Trascinai i miei piedi e tesi le braccia. Versai le mie lacrime davanti ad Anu. Gemetti davanti ad Enlil: « Che la mia città non venga distrutta! )) dissi. « Che Ur non sia distrutta! )) dissi. « Che non sia trucidato il suo popolo! )) dissi. Ma Anu non prestò orecchio a quelle parole, E mai Enlil leni il mio cuore Con un « Sta bene, cosi sia )). Ecco, diedero ordine di distruggere la città, Ecco, diedero ordine di distruggere Ur, E le diedero in sorte il massacro dei suoi abitanti JJ.

Cosi Ur è travolta dai barbari. Gli dei hanno deciso -come dice un altro inno:

Di aprire il varco ad altri giorni, annientare il piano E - ribollendo le tempeste come un diluvio -Sovvertire le usanze di Shumer ••.

Citiamo questi versi perché in essi si riassume il senso della monarchia nazionale che era la garanzia delle << usan­ze di Shumer » (cioè delle usanze della Mesopotamia ci­vile), ovvero la vita ordinata e obbediente alle leggi. La

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sua funzione nel mondo era di offrire protezione contro i nemici esterni ed interni, garantendo il regno della giu­stizia e della rettitudine.

Lo Stato e la natura.

Delineando cosi lo Stato-città e lo Stato nazionale ab­biamo messo in luce la funzione generale dello Stato uma­no nell'universo mesopotamico. Lo Stato-città ha una fun­zione economica, offre al grande dio ed ai suoi satelliti una base economica che gli consente di vivere una vita p iena e di sviluppare senza interferenze la sua natura. Lo Stato nazionale ha una funzione politica, è l'estensione degli organi esecutivi dello Stato universale ed esegue sul piano umano le decisioni degli dei, assicurando la di­fesa armata dei loro feudi e mantenendo la giustizia e la rettitudine come base per i rapporti dei loro servitori, gli uomini .

Non sarebbe opportuno abbandonare il tema della fun­zione dello Stato senza richiamare l 'attenzione su un aspetto curioso ed interessante che finché si consideri lo Stato umano del punto di vista dello Stato universale ri­schia di rimanere in ombra: il rapporto dello Stato uma­no con la natura.

Abbiamo detto che lo Stato-città garantisce una base economica agli dei, sulla quale essi possono vivere una vita piena ed esprimere la loro personalità senza intralci. Questa « autoespressione » varia a seconda del dio, giac­ché ciascuno ha il suo sistema di vita, le sue osservanze caratteristiche ed il suo rituale. Ciò appare chiaramente nelle grandi feste del culto, che talvolta hanno come cen­tro un rito nuziale, talaltra un dramma guerresco, talaltra ancora un dramm3 di morte e risurrezione. Queste feste del culto sono questioni di Stato, spesso il re o il capo dello Stato-città recita la parte principale nel dramma ri­tuale. Ma perché mai si tratta di questioni di Stato?

Osserviamo nei particolari una di queste feste del cul­to. Attorno alla fine del m millennio !sin, che era allora la città dominante nella Mesopotamia del sud, celebrava

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ogni anno l e nozze della dea !nanna con il dio Dumuzi o Tammuz. Si comprende come un matrimonio sia un ti­pico mezzo di autoespressione per la giovane dea, e - dal punto di vista dello Stato universale - è logico che i suoi servitori e conservatori, debbano officiare al rito, pren­dendovi parte come spettatori od ospiti. Poiché la dea è l'incarna?.ione della fertilità della natura; e suo marito, il dio pastore Dumuzi, incarna le potenze creatrici della primavera , si comprende che l'unione annuale del dio e della dea significhi e sia il risveglio primaverile della na­tura. Nel matrimonio di codeste due divinità, la fertilità e le forze creatrici della natura diventano esse stesse ma­nifeste. Ma perché, possiamo domandarci, i servi tori uma­ni degli dei, il capo della città e - cosi sembra - una sacerdotessa, trascendono la loro condizione umana, iden­tificandosi con le divinità Dumuzi ed lnanna e consu­mando anche loro il matrimonio? Ma è proprio questo che avviene nei riti. La risposta si può dare soltanto risa­lendo all'indietro, fino ai tempi in cui prende forma la visione del mondo come Stato, nei tempi preistorici in cui gli dei non sono ancora antropomorfici dominatori di città e Stati, ma puri e semplici fenomeni naturali. Allo­ra l'atteggiamento dell'uomo non era ancora quello di un'obbedienza passiva : era volto all'azione, come in mol­ti primitivi di oggi. Uno dei dogmi della logica mitopo­ietica è la mancanza di una distinzione di similarità e identità ; « essere simile a » equivale a « essere ». Pertan­to, essendo simile ad una forza naturale, ad un dio, e svolgendone il ruolo, nel culto, l 'uomo può inserirsi nel­l'identità di quelle potenze, di quegli dei, ammantan­dosi della loro identità; e una volta operata l'identifica­zione, obbligare, grazie ai suoi atti, le potenze, ad agire secondo la sua volontà. Identificandosi con Dumuzi, il re diventa Dumuzi, come la sacerdotessa diventa senz'altro !nanna - i testi lo affermano chiaramente. Il loro matri­monio è il matrimonio delle forze creative della prima­vera. Cosi, attraverso ad un atto volontario dell'uomo, ecco realizzata una divina unione animata dalla potenza che tutto permea e vivifica e ricrea, e dalla quale dipen­de, come dice il nostro testo : << la vita di ogni terra »,

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come anche il costante seguirsi dei giorni e il rinnovarsi della luna nell'anno nuovo a.

Come in questo rito nuziale, cosf anche negli altri tipi di feste cultuali. Nel dramma della morte e della risurre­zione l'uomo diventa il dio della vegetazione, il dio del­l 'erba e delle piante inghiottite dall'afa estiva e dal gelo invernale. Identificatosi con il dio, l'uomo si lascia ritro­vare determinando cosi il ritorno del dio e la rinascita della vegetazione che spunta dappertutto al giungere del­la primavera . Questi riti comportano per lo piu proces­sioni gemebonde in cui si lamenta la perdita del dio, lo si ricerca , infine lo si ritrova e trionfalmente si ritorna in . .. sua compagma .

Lo stesso atteggiamento informa il dramma della bat­taglia. Ogni nuovo anno, quando le inondazioni minac­ciano di nuovo il caos delle acque primordiali, è necessa­rio che gli dei combattano ancora la battaglia delle origi­ni, quella che permise loro la conquista del mondo. Cosi anche qui l'uomo assume l'identità del dio: nel rito il re diventava Enlil o Marduk o Assur, e come dio combatte le potenze del caos. Fino alla fine della civiltà mesopo­tamica, pochi secoli prima della nostra era, ogni anno a Babilonia il re assume l'identità di Marduk, vince Kingu, condottiero della schiera di Ti' ama t, e brucia un agnello nel quale tale divinità è incarnata 17 •

In queste feste, feste di Stato, lo Stato umano colla­bora con il governo della natura a mantenere l'ordine nel cosmo. Nei riti l'uomo assicura la rinascita della natura in primavera, vince la battaglia cosmica contro il caos e ogni anno riconduce il mondo all'ordine.

Per quanto tali funzioni dello Stato umano siano state fino a un certo punto integrate nella concezione dell'uni­verso come Stato, per quanto le feste vengano conside­rate come atti ed espressioni di una nobiltà divina - i matrimoni degli dei, le loro battaglie, la loro morte e rinascita - ai quali gli uomini prendono parte come i servitori ai grandi avvenimenti della vita dei padroni, tuttavia il significato piu profondo, il senso riposto di co­deste feste si trova al di fuori della concezione dell'uni­verso come Stato. Non ci dovrebbe pertanto meraviglia-

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re che, inquadrate in quella concezione, esse c i appaiano un po' sfocate : rappresentano uno strato piu antico del <( pensiero speculativo ».

Secondo la concezione dell'universo come Stato, l'uo­mo è lo schiavo delle forze cosmicl:e, che serve ed alle quali obbedisce, ed i suoi unici mezzi per influenzarle sono la preghiera ed il sacrificio, cioè la persuasione e le offerte. Secondo la concezione piu antica - quella che ha ispirato le feste - l'uomo stesso poteva diventare dio, identificandosi con una delle grandi forze operanti nel cosmo circostante : e poteva sottometterle, giovandosi non soltanto di suppliche bensi anche di azione.

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Note al Capitolo sesto.

1 In larga parte attraverso il resoconto nel Cii. B. di Gudea. 1 Coni di Urukagina B e C, XII, 23-28. 3 Gudea, Cii. A. • CH, I, I·44· Suddivisione per linee diversa dall'originale. s CHIERA, SRT, 6, III, 32-27. 6 TSR, Il, 86 e BE, XXXI, 24, x, 22-23. 7 PBS, X,, 9, verso t, 16-20. 1 Entemena, Cono A. 9 YOS, IX, nn. r8-2o. 10 Stele di creta di Urnammu B. 11 Iscrizione di Uruhegal, RA, IX, III sgg e X, Sl9 sgg. 11 KRAMER, AS, XII, pp. 26 e 28, linee 88-uz. " I bi d., p. 32, linee 152-64. " BE, XXXI, 3. I-3· " Cfr. CHIERA, SRT, I, V, 14 sgg. 16 CEr. DE GENotm.LAc, TRS, I, n. 8. 17 CT, XV, tav. 44, lince 8' sgg.

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Capitolo settimo

LA MESOPOTAMIA:

LA BUONA VITA

Prima virtu, l'obbedienza.

In una civiltà che ravvisa uno Stato nell'universo pre­so nella sua totalità, l 'obbedienza sarà necessariamente la virtu essenziale. Uno Stato si basa sull'obbedienza, sull'accettazione indiscussa dell'autorità. Non meraviglia quindi che in Mesopotamia la « buona vita » corrisponda alla « vita obbediente ». L'individuo si trova al centro di concentrici e sempre piu vasti cerchi di autorità che ne irretiscono la libertà d'azione. I circoli piu vicini e piu stretti sono quelli dell'autorità familiare : padre e madre, fratello maggiore e sorella maggiore. Ci rimane un inno che descrive l'avvento di un'età dell'oro e troviamo che essa è caratterizzata come un'età dell'obbedienza:

Giorni nei quali l'uomo non è insolente verso l'altro uomo, quando il figlio riverisce il padre,

Giorni nei quali il rispetto regna sul paese, gli uomini di bassa estrazione onorano i grandi,

Quando il fratello minore ... rispetta [?] il maggiore, E il bambino piu grande istruisce il piu piccolo e questi si rimette

alle sue decisioni '. ·

Il mesopotamico riceve costantemente l'ammonimento: <( Bada alla parola di tua madre come alla parola del tuo dio », « Riverisci il fratello piu anziano », « Bada alla parola del tuo fratello piu anziano ed a quella di tuo pa­dre », <( Non irritare il cuore della tua sorella piu an­ziana ».

Ma l'obbedienza ai membri piu anziani della famiglia

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LA MESOPOTAMIA

segna appena l'inizio. Oltre la famiglia si delineano altre cerchie, altre autorità; lo Stato e la società. C'è il capo­mastro sotto il quale si lavora, c'è il sovrintendente che sorveglia i lavori agricoli, c'è il re. Tutti costoro possono e debbono esigere un'obbedienza assoluta. Il mesopota­mico guarda con disapprovazione e pietà, ma anche con paura, alla folla senza condottiero: « Soldati senza re so-• 2 no greggt senza pastore » .

Una folla priva di capo che la organizzi e la diriga è perduta e disorientata, come un gregge di pecore senza pastore. Ma è anche pericolosa, può essere una forza di­struttiva come le acque che rompono gli argini sommer­gendo campi e giardini se l 'ispettore ai canali non è pre­sente a tener le dighe in buon ordine : « Operai senza ca­pomastro sono acque senza ispettore dei canali » • .

In6ne una folla disorganizzata e senza capo è inutile e improduttiva, come un campo che non genera nulla se non viene arato : « Contadini senza fattore sono un cam­po senza aratore » 4,

Perciò un mondo ordinato è inconcepibile senza un'au­torità superiore che imponga la sua volontà. Il mesopo­tamico è convinto che le autorità abbiano sempre ragio­ne; « L'ordine che viene dal palazzo, come il comando di Anu, non può essere mutato. La parola del re è giusta, ciò che egli dice è simile al verbo di un dio, non può essere mutato » 5• Come a circoscrivere la libertà dell'in­dividuo ci sono cerchi concentrici di autorità umane nel­la famiglia, nella società, nello Stato, cosi vi sono cerchie di autorità divine che non possono essere violate. Qui troviamo altri vincoli di fedeltà piu immediati e piu re­moti. I vincoli fra l'uomo ed i grandi dei - almeno nel III millennio - sono alquanto remoti: l'uomo serve gli dei in quanto membro della comunità piuttosto che co­me individuo, lavora i loro fondi, con i suoi vicini e com­patrioti obbedisce alle loro leggi e decreti, prende parte alle loro feste annuali come spettatore. Ma come il servo ha di rado rapporti intimi con il signore del maniera, co­si l 'individuo in Mesopotamia ,guarda ai grandi dei come a forze remote alle quali soltanto in qualche grande crisi è possibile fare appello e anche allora soltanto per il tra-

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LA BUONA VITA 239

mite di intermediari. Rapporti stretti e personali - quali aveva con i membri della sua famiglia: padre, madre, fra­tello e sorella piu anziani - l'individuo può intrattenere con una sola divinità: il suo dio personale.

Il dio personale è per lo piu qualche divinità minore del pantheon, particolarmente interessato alla famiglia dell'individuo o che aveva preso in simpatia l 'individuo stesso. In certo senso, e probabilmente è questo, all'ori­gine, l'aspetto della cosa, il dio personale appare come la personificazione della fortuna e del successo dell'uomo. Il successo è interpretato come una potenza esterna che si infonde nell'opera dell'uomo e la rende produttiva. Non è l'abilità stessa dell 'uomo che porta a qualche risultato, perché l 'uomo è debole e non ha il potere di influire sul corso dell'universo in misura apprezzabile. Solo un dio arriva a tanto, perciò se le cose risultano quali l'uomo ha sperato, o perfino meglio, bisogna supporre che qualche dio si sia interessato a lui ed alle sue opere infondendo­gli successo. Per usare un'espressione babilonese equiva­lente a « successo », egli ha « acquistato un dio ». Questo aspetto originario del dio personale come una potenza che stia dietro al successo dell'uomo, ci appare chiara­mente in certi detti:

Senza un dio [personale] l'uomo non può guadagnarsi la vita, Né il giovane può muovere eroicamente il braccio in battaglia •.

e anche nel modo in cui il dio personale viene collegato alla predizione ed ai progetti:

Quando fai piani per l'avvenire, il tuo dio è tuo; Quando non fai progetti, il tuo dio non è tuo 7•

Vale a dire: solo quando fai progetti puoi riuscire, sol­tanto allora il tuo dio è accanto a te.

Poiché il dio personale è la potenza che dà successo al­l'azione dell'uomo, è ben naturale che sia esso a portare la responsabilità morale di quelle azioni. Quando Lugal­zuggisi, il capo di Umma, aveva attaccato e parzialmente distrutta la città di Lagash, gli uomini di Lagash diedero senza esitazioni la colpa alla divinità di Lugalzuggisi : (( Che l a sua dea personale, Nidaba, porti sul collo i l suo

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delitto ! » ', cioè : che le autorità divine che reggono il co­smo la possano ritenere responsabile di ciò che ella ha agevolato e favorito.

A questo dio personale quindi, prima di ogni altro, l'uomo deve riverenza e rispetto. In ogni casa c'è una cappelletta per il dio personale, dove il padrone si racco­glie in adorazione recando quotidiane offerte.

Un uomo deve fedelmente proclamare la grandezza del suo dio; Un giovane deve obbedire con pieno cuore al comando del suo

dio '.

Il compenso dell'obbedienza.

Ora, se codesta monotona trafila di obbedienze - alla famiglia, ai capi, agli dei - è l'essenza del1a buona, cioè della corretta vita nell'antica Mesopotamia, che cosa gua­dagna l'uomo, possiamo domandarci, conducendo una buona vita? È meglio formulare la risposta nei termini stessi della concezione mesopotamica del mondo, della posizione umana nello Stato cosmico. L'uomo, si ricorde­rà, è stato creato per servire gli dei. Orbene, un servo di­ligente ed obbediente può fare appello al suo padrone per riceverne protezione. Un servo diligente ed obbedien­te inoltre può aspettarsi una promozione, può sperare fa­vori e compensi dal suo padrone. Un servo negligente e disobbediente, invece, non può aspettarsi nessuna di que­ste cose. Cosi la strada dell'obbedienza, del servizio e del­l'adorazione, è anche la strada che garantisce una tutela ed altresi quella che guida al successo mondano, il mas­simo dei valori nella vita mesopotamica: la salute e la lunga vita, la posizione onorata nella comunità, ricchezze e molti figli.

Quando consideriamo l 'universo mesopotamico dal pun­to di vista di ciò che l'individuo può procacciare a se stes­so, il dio personale diventa una figura-perno. Egli costi­tuisce il nesso dell'individuo con l'universo e tutte le sue forze, è il punto di Archimede dal quale l'universo stesso può essere sollevato. Il dio personale infatti non è remoto e sgomentevole come i grandi dei, anzi è vicino e familia-

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LA BUONA VITA

re, e si prende cura dell'uomo. Gli si può parlare, lo si può pregare, si può giocare sulla sua pietà - usare, in breve, di tutti i mezzi che un bambino usa per imporre la sua volontà ai genitori. Il carattere di tale rapporto si può esemplificare in una lettera dell'uomo al suo dio : poiché i Mesopotamici scrivevano spesso delle lettere ai loro dei. Forse pensavano che non fosse sempre possibile trovare a casa il dio se lo si andava a trovare, mentre in­vece era certo che avrebbe dato un'occhiata alla corrispon­denza. Poteva anche darsi che lo scrivente, indisposto, non potesse recarsi di persona e fosse obbligato a valersi di una lettera. Nel caso della lettera che stiamo per cita­re, pare che lo scrivente non venga di persona perché tie­ne il broncio al dio. È stato ferito dalla sua disattenzione, e fa capire che tanta trascuratezza è poco saggia da parte del dio, perché non è facile trovare fedeli adoratori ed è ancor meno facile trovare chi li sostituisca. Ma se il dio vorrà soddisfare i suoi desideri, allora egli si recherà su­bito da lui a venerarlo. Infine gioca sulla pietà: conside­ri, il dio, che egli non è solo a soffrire, con lui soffrono anche i figlioletti. Cosf dice la lettera :

Al dio padre mio parla; cosi dice Apiladad, tuo servo: « Perché mi hai tanto trascurato? Chi ti dar� un uomo che prenda il mio posto? Scrivi a Marduk che ti ama, che egli spezzi il mio servaggio Allora vedrò la tua faccia e bacerò i tuoi piedi ! Pensa anche alla mia famiglia, adulti e piccini, Per loro abbi pietà di me E fa' che il tuo soccorso non mi manchi )) 10•

Il servaggio di cui parla la lettera è una malattia. La malattia, di qualsiasi genere, era vista come un demone maligno che afferrasse la vittima tenendola prigioniera. Un caso del genere sorpassa senz'altro il potere del dio personale, che può sf aiutar l'uomo nelle sue imprese, dandogli una posizione ed assicurandogli il rispetto della comunità, ma non è tanto forte da strapparlo agli artigli di un demone malvagio e senza legge. Però - e questo è il gran vantaggio dell'aver rapporti con esseri altolocati -il dio personale ha amici influenti. Si aggira nella cerchia dei grandi dei e li conosce bene, per cui adesso che il suo

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pupillo è stato afferrato da un demone malvagio potrà bene dispiegare tutta la sua influenza, quale che essa sia, per mettere in moto la laboriosa macchina della giustizia divina : <� Scrivi al dio Marduk che ti vuoi bene » dice la nostra lettera.

Noi che viviamo in uno Stato moderno riteniamo che la macchina della giustizia - corti, giudici, polizia - sia a disposizione di chiunque si ritenga colpito da un torto. Ma si tratta di un concetto assai moderno : ci basta risa­lire all'Inghilterra medievale per trovare uno Stato nel quale poteva essere ben difficile ottenere che la corte re­gale prendesse in considerazione un caso personale. Il primitivo Stato mesopotamico (che nella sua struttura rispecchia lo Stato cosmico) era modellato su una base assai piu primitiva di quella dell'Inghilterra medievale. Non vi si era ancora sviluppato un meccanismo esecutivo destinato ad attuare la sentenza del tribunale. L'esecuzio­ne era demandata alla parte vincente e pertanto un tribu­nale non poteva prendere in esame un caso qualora non avesse la certezza che l'attore fosse dotato di un certo potere o che avesse alle spalle un protettore possente ca­pace di garantire l'eseguibilità della sentenza. Pertanto il primo passo che il dio personale faceva era di trovarsi un tale protettore fra i grandi dei. Per lo piu Ea, dio delle acque dolci, era pronto ad assumersene la protezione, ma Ea era tanto augusto e remoto che il dio personale non poteva avvicinarlo direttamente e quindi si recava da Marduk, figlio di Ea, che avrebbe spinto Ea ad agire. Se Ea consentiva, mandava il suo messaggero - un sacer­dote-mago umano - ad accompagnare il dio personale al­la corte degli dei, dove il messaggero avrebbe intercesso a nome di Ea affinché il dio sole (giudice divino) accettas­se di prendere in esame quel caso particolare. L'appello era rivolto al sole nascente durante una solenne cerimo­nia al tempio. Dopo aver lodato il sole come giudice, ca­pace di dare protezione legale contro ogni sorta di spiriti maligni e di guarire gli afflitti, il sacerdote cosi prose­guiva : Dio-sole, tu hai il potere di aiutarli, Concilii le testimonianze contrastanti come se fossero una sola.

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LA BUONA VITA 243 Io sono il messaggero di Ea, Che qui mi ha mandato a soccorso del malato Ed io ti ho ripetuto il messaggio confidatomi da Ea. [Quanto all']uomo, il figlio del suo dio, giudica il suo caso,

pronuncia per lui la sentenza Caccia il male dal suo COrPo ".

Attraverso la decisione del dio solare, garantito dal pos­sente Ea, Io spirito maligno era costretto a sciogliere la sua stretta.

I casi nei quali si chiede al dio personale di usare la sua influenza per impetrare la divina giustizia, sono fra i piu caratteristici e rivelatori della sua efficacia, ma natu­ralmente gli si chiedeva di usarne anche per il benessere ed il progresso generali. Egli deve dire la parola buona per il suo protetto tutte le volte che potrà, Entemena, il capo, ad esempio, prega che il suo dio personale stia sem­pre al cospetto del gran dio Ningirsu a chiedere salute e lunga vita per Entemena 12•

Se sintetizziamo dunque ciò che dicono i testi sui com­pensi riservati a chi ha condotto una « buona vita », ci accorgiamo che la vita è una faccenda quanto mai arbi­traria. Attraverso l'obbedienza ed il servizio fedele si può conquistare il benvolere del dio personale, che potrà usa­re della sua influenza presso i grandi dei per ottenere fa­vori al suo protetto. Ma anche la giustizia è un favore e non può essere pretesa, ma ottenuta soltanto attraverso relazioni, pressioni, favoritismi. Anche la (( buona vita » piu perfetta è soltanto una promessa, non già una certez­za, di compensi tangibili.

La valutazione dei dati di fatto fondamentali: l'esigenza di un mondo giusto.

Mentre la concezione dello Stato cosmico restò relati­vamente stabile per tutto il III millennio, lo Stato umano continua sensibilmente a evolversi. Il potere centrale si rafforza, la macchina della giustizia si fa piu efficiente, la punizione segue il delitto con sempre crescente regolari-

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tà. L'idea che la giustizia in certo modo spetti di diritto all'uomo, va lentamente prendendo forma. E nel n mil­lennio - il millennio, non a caso, del famoso codice di Hammurabi - la giustizia come diritto piuttosto che co­me favore è ormai diventata un concetto generale.

L'idea però non poteva non collidere violentemente con la visione del mondo che si era andata consolidando. Allora cominciarono a farsi strada i problemi fondamen­tali : la giustificazione della morte e il problema del giu­sto che soffre. Non sorsero entrambi con pari chiarezza, ma con la stessa appassionata urgenza.

a) Rivolta contro la morte: l'epopea di Gilgamesh. La rivolta contro la morte fu forse la meno articolata e meno razionalizzata. Ci si presenta come un risentimento che cova sotto le braci, un senso di torto profondo, piu sentimento che pensiero. La morte è male - dura come qualsiasi punizione, anzi è senz'altro la suprema punizio­ne. Perché mai l'uomo deve soffrire la morte se non ha commesso alcun male? Nel vecchio mondo arbitrario la domanda non era affatto cocente, perché tanto il bene quanto il male erano affidati all'arbitrio. Ma nel nuovo mondo della giustizia intesa come diritto, essa divenne ter­ribilmente urgente. Fu trattata nell'epopea di Gilgamesh, probabilmente composta attorno all'inizio del n millen­nio, benché rielaborata da un materiale piu antico. Ma le piu antiche storie sono rifuse in un tutto, raggruppate at­torno ad un tema nuovo, quello della morte.

Nella sua giovanile esuberanza Gilgamesh, signore di Uruk nella Mesopotamia meridionale esercita il suo po­tere sul popolo con mano troppo pesante. Il popolo si appella agli dei perché creino una controparte di Gilga­mesh capace di competere con lui. E per poter vivere fi­nalmente in pace. Gli dei acconsentono e creano Enkidu che diventa il compagno e l'amico di Gilgamesh . Gli ami­ci si accingono insieme ad affrontare avventure pericolo­se. Penetrano nel « boschetto dei cedri » dell'occidente, dove trucidano il terribile mostro Uwawa che sta a guar­dia della foresta per conto di Enlil. Sulla via del ritorno la dea !nanna si innamora di Gilgamesh e quando ne ri-

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LA BUONA VITA

ceve un rifiuto, gli manda contro il pauroso « toro del cielo » ad ucciderlo. Ma anche da questa prova i due eroi escono vittoriosi ; affrontano ed uccidono il toro. Pare che non esistano limiti alla loro forza ed alla loro poten­za. Perfino i nemici piu tremendi soccombono di fronte a loro, ed essi si possono permettere di trattare nel mo­do piu arrogante la potente dea. Allora Enlil decide che Enkidu debba morire per scontare l'uccisione di Uwawa, e l 'invincibile Enkidu cade malato e muore. Fino a que­sto momento la morte non è stato un problema per Gil­gamesh, che ha accettato le idee correnti della sua civil­tà : la morte è inevitabile e non serve a nulla crucciarsi attorno ad essa. Se si deve morire, sia la morte gloriosa, in combattimento, con un nemico degno, sicché la fama sopravviva. Prima della sua campagna contro Uwawa, quando Enkidu aveva per un momento sentito vacillare il suo coraggio, Gilgamesh lo aveva severamente rimpro­verato :

Chi mai, amico mio, fu tanto esaltato Da levarsi in cielo a dimorare eternamente con Shamash? Dell'uomo i giorni sono contati, Qualunque cosa egli faccia, è nient'altro che vento. Tu già ora temi la morte. Dov'è dunque la bella forza del tuo coraggio? Lascia che io ti preceda, E potrai gridarmi dietro: « Avanza, non temere! » E se soccomberò avrò stabilito la mia fama. <� Gilgamesh cadde lottando con Uwawa il terribile ».

Continua raccontando come, in tal caso, Enkidu narrerà al figlio di Gilgamesh le prodezze paterne. La morte non atterrisce e viene in certa misura mitigata dalla fama poi­ché il nome sopravvive nelle generazioni future.

Ma a quel tempo Gilgamesh aveva ancora un'idea astratta della morte, e mai essa lo aveva toccato con tutta la sua aspra realtà. Ciò avviene alla morte di Enkidu :

« Amico mio, mio fratello minore - che con me sui poggi Cacciasti l'asino selvatico, e la pantera in pianura; Enkidu, amico mio, mio fratello minore - che con me sui poggi Cacciasti l'asino selvatico, e la pantera in pianura; Che sapevi fare con me ogni cosa, che t'inerpicavi per i dirupi, Che ghermisti e uccidesti il toro del cielo,

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LA MESOPOTAMIA

E Uwawa rovesciasti nel boschetto dei cedri. Quale mai sonno ti ha afferrato? Sei diventato scuro e non mi odi piu �­Ma gli occhi non alzava. [Gilgamesh] gli posò la mano sul cuore, era fermo. Allora coprl l'amico, come una sposa ... Ruggl la sua voce - un leone ... Una leonessa staccata a forza dai leoncini. Piu e piu volte si accostò all'amico, Strappandosi i capelli e spargendone i ciuffi, Strappandosi di dosso e calpestando i sontuosi vestiti.

La perdita che l'ha colpito è troppo forte. Con tutta l'anima respinge una simile evidenza.

Colui che con me ha diviso ogni rischio -:È stato travolto dal destino dell'uomo. Notte e giorno ho pianto su di lui . E non ho voluto che fosse sepolto - Poteva ancora levarsi l'amico alle mie [alte] grida, Di sette giorni e sette notti -Ma infine un verme è uscito dal suo naso. Poiché lui se n'è andato io non trovo conforto, Mi aggiro vagando come un cacciatore nella pianura.

L'idea della morte continua ad ossessionare Gilgamesh: egli non ha che un pensiero ed uno scopo: trovare la vita eterna. E ne va alla ricerca. Ai confini del mondo, oltre le acque della morte, vive un suo antenato che è riuscito a conquistare la vita eterna. Egli deve ottenere il segreto, andrà da lui. Si avvia tutto solo verso le montagne dove tramonta il sole, segue il passaggio tenebroso che il sole percorre durante la notte, e dispera quasi di potere un giorno rivedere la luce quando finalmente giunge alle sponde di un vasto mare. In cammino, a tutti coloro che incontra chiede notizie della strada verso Utnapishtim e della vita eterna. Tutti gli dicono che la sua ricerca è senza speranza :

Dove vanno i tuoi passi, Gilgamesh? Non troverai la vita che cerchi. Quando gli dei crearono l'uomo, Gli diedero in sorte la morte, La vita trattennero in mano. Gilga.mesh, riempiti il ventre -Sii lieto di giorno e di notte,

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LA BUONA VITA

Fa' che i giorni trabocchino di gioia, Balla e fa' musica giorno e notte. Indossa abiti nuovi, Lavati il capo e goditi il bagno. Guarda il fanciullo che ti tiene per mano, Fa' che tua moglie goda del tuo abbraccio, Solo queste cose riguardano l'uomo.

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Ma Gilgamesh non può rassegnarsi alla sorte comune. La brama della vita eterna lo consuma e lo sospinge. Sulla sponda del mare incontra il nocchiero di Utnapishtim e ottiene di farsi traghettare sulle acque della morte. Cosi finalmente trova Utnapishtim e può domandargli come si raggiunga la vita eterna, ma Utnapishtim non può dargli aiuto. Che egli stesso viva in eterno è dovuto a circostan­ze uniche, che mai potranno ripetersi. Quando nei tempi antichi gli dei avevano deliberato di distruggere l'umani­tà e avevano mandato il diluvio sotto la guida di Enlil, Utnapishtim e sua moglie furono i soli a salvarsi. Utna­pishtim era stato avvertito, aveva costruito un barcone, e in esso si era rifugiato insieme alla moglie e ad una coppia per ogni essere vivente. Piu tardi Enlil si era pen­tito di aver mandato il diluvio, come di un atto impulsi­vo, ed aveva dato a Utnapishtim la vita eterna per com­pensarlo di aver preservato la vita sulla terra. Ma si trat­ta evidentemente di circostanze che non si ripeteranno.

Tuttavia Gilgamesh può tentare di lottare contro la morte. Utnapishtim lo esorta a lottare contro il sonno, il sonno magico che non è se non una forma della morte. Gilgamesh soccombe quasi subito ed è quasi sul punto di perire quando la moglie di Utnapishtim, per pietà, lo de­sta. Ma l'impresa è fallita. Sconsolato, Gilgamesh prende la strada di Uruk, la strada del ritorno. Allora la moglie di Utnapishtim esorta il marito a congedarlo con un re­galo, e Utnapishtim gli racconta di una pianta che cresce sul fondo del mare e che ringiovanisce chi se ne cibi. Gli smorti spiriti di Gilgamesh si destano. Accompagnato dal nocchiero di Utnapishtim, Urshanabi, trova il luogo esat­to, si tuffa e torna alla superficie con in mano la pianta preziosa. Tornano veleggiando verso Uruk, raggiungono le sponde del Golfo Persico e proseguono a piedi. Ma il

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LA MESOPOTAMIA

giorno è caldo e il viaggio li stanca. Quando Gilgamesh scorge uno stagno fresco, si spoglia e spicca una corsa per fare una nuotata, lasciando la pianta sulla sponda. Un serpente la fiuta e, uscito dal suo covo, la afferra e se la porta via.

È per aver mangiato di quella pianta che i serpenti non muoiono; quando invecchiano, si squamano delle lo­ro pelli antiche e rinascono con giovanile prestanza. Ma l'umanità, frodata della pianta di Gilgamesh, non può tornare eternamente alla giovinezza; e Gilgamesh, colmo d'amarezza, contempla la conclusione ironica della sua ri­cerca.

Allora Gilgamesh sedette a piangere, Lacrime scorsero sulle sue guance.

« Per chi mai, Urshanabi, ho sforzato i miei muscoli? Per chi mai è sraro versato il sangue del mio cuore? Non portavo su di me alcuna benedizione. Ho recato servigio al serpente sotterraneo ».

L'epopea di Gilgamesh non ha un finale armonioso, le passioni che vi imperversano non trovano pace; manca la catarsi, come nella tragedia, e manca altresi ogni se­rena accettazione dell'inevitabile. È un finale beffardo, infelice e insoddisfacente. L'interno tumulto continua a ribollire. Una questione vitale è rimasta senza risposta.

b) Il giusto che soffre: « Ludlul bel nemeqi » " . La rivolta contro la generale ingiustizia del mondo è piu ar­ticolata, piu ragionata e pertanto meno robustamente espressa. Ma come già abbiamo detto, anch'essa prende origine Iaddove la « giustizia come favore » si trasforma in « giustizia come diritto » il che determinò la protesta contro la morte.

Man mano che Io Stato umano va centralizzandosi e organizzandosi piu strettamente, il suo sistema poliziesco si fa piu efficace. Ladri e banditi che erano stati una mi­naccia sempre presente, ora diminuiscono come minaccia e presenza quotidiana. Lo scemare della potenza dei la­dri e dei banditi umani pare aver influito sulla valutazio­ne dei ladri e dei banditi cosmici, gli spiriti maligni, che

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assunsero importanza minore nello Stato cosmico. Von Soden ha messo in luce il sottile mutamento intervenuto nel concetto del dio personale all'inizio circa del n mil­lennio. Prima d'allora lo si era ritenuto impotente contro i demoni che attaccavano il suo protetto e si pensava che dovesse fare appello a qualche grande dio. Ma con l'av­vento del n millennio, i demoni hanno perduto il loro potere, sicché il dio personale è del tutto capace di tute­lare contro di loro il suo protetto. Se ora i demoni rie­scono a perpetrare la loro aggressione, è perché il dio personale si è allontanato con ira, lasciando il suo pro­tetto a sbrigarsela da solo. Le offese capaci di far infuria­re il dio personale, inoltre, vennero ad includere quasi tutte le deviazioni dai principi etici e morali.

Questo mutamento, per minimo che possa sembrare, fece spostare tutta la visione del mondo. L'uomo non ammetteva piu l'essenziale arbitrarietà del mondo, ma esigeva che poggiasse su una solida assise morale. Il male e la malattia, le aggressioni dei demoni, non sono piu considerati come avvenimenti puri e semplici, incidenti; gli dei, in quanto li permettono, ne sono in definitiva i responsabili, perché solo un'infrazione può far s1 che il dio personale si allontani adirato. Cosi l'uomo ha trovato un'unità di misura per i valori etici e morali, e con essa si pone presuntuosamente a misurare gli dei e le loro azioni. Subito viene in luce una frattura: la volontà di­vina e l 'etica umana sono incommensurabili. Ed ecco profilarsi il problema pungente del giusto che soffre.

Di tale problema ci restano non poche trattazioni meso­potamiche. Ma qui tratteremo soltanto della piu cospicua, la composizione nota col nome di Ludlul bel nemeqi: « Loderò il signore della saggezza ». È un corrispettivo, invero assai inferiore, del libro di Giobbe. Il protagoni­sta sa di essere stato giusto, di aver vissuto una buona vita, ma lo assalgono dubbi sul valore della vita stessa:

Mi consacrai soltanto alla preghiera ed alia supplica, Il mio stesso pensiero era supplica, il sacrificio era per me

abiludine. I giorni di lode agli dei, erano la delizia del mio cuore E seguire [la processione della] dea era il mio guadagno e profilto.

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250 LA MESOPOTAMIA

L'adorazione del re era la mia gioia, la musica che si levava per lui, la mia fonte di piacere. Istruii la gente del mio podere perché vi si osservasse il rito degli

dei. Insegnai alla mia gente a riverire i nomi della dea. Comparai le gesta illustri del re alle [gesta] degli dei E insegnai ai soldati a riverire il palazzo. Oh potessi sapere che queste cose sono gradite ad un dio.

Infatti, nonostante la sua dirittura, i mali piu gravi l'han­no colpito : Alu-malattia copre il mio corpo come una veste, Il sonno mi avvolge come una rete, I miei occhi fissano senza vedere, Le mie orecchie sono aperte ma non odono, La debolezza ha ghermito il mio corpo.

Lamenta che La sferza mi ha stretto nel terrore, Sono stato pungolato, profonda è la fitta. Tutto il giorno un persecutore mi rincorre, E di notte non mi dà posa.

Il suo dio lo ha abbandonato :

Nessun dio mi venne in aiuto, né mi prese per mano, La mia dea non ha avuto pietà di me né mi ha soccorso.

Tutti l'hanno già dato per morto e agiscono in confor­mità: La tomba era ancora spalancata quando predarono i miei tesori Quando ancora non ero morto, già avevano cessato i loro lamenti.

Tutti i suoi nemici gioiscono:

Colui che male mi augurava lo seppe ed il suo volto s'illuminò Portarono liete notizie a colui che male mi augurava Ed il suo fegato senti piacere.

Ecco il problema, nitidamente posto: un uomo che è sta­to perfettamente giusto, può tuttavia venir trattato dalle potenze che reggono l'esistenza quasi fosse il peggiore dei peccatori. Per le sue buone azioni ha ricevuto il compenso del malvagio, è stato trattato come chi: Non ha chinato la faccia, non è stato visto prosternarsi, Né ha pronunziato preghiere e suppliche con la sua bocca.

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LA BUONA VITA 2JI

La realtà del problema è indiscutibile. I l caso del giu­sto che soffre non si sarà mai presentato forse in forma cosi netta, tuttavia nessuno potrebbe negarne la validità generale. La dirittura, la buona vita, non sono garanzia di salute e di felicità. Spesso, anzi, la vita ingiusta pare il mezzo migliore per raggiungere il successo.

C'è una risposta a tutto ciò? Il nostro testo ne forni­sce due: l'una destinata alla mente che lotta per risolve­re un problema intellettuale, l'altra destinata al cuore, i cui sentimenti sono stati risvegliati dalla visione dei torti fatti al giusto che soffre. La risposta fornita alla mente afferma che non si possono applicare agli dei i canoni di valutazione umana. L'uomo è troppo piccolo, il suo oriz­zonte troppo limitato per poter giudicare le cose divine, non ha il diritto di contrapporre i valori umani ai valori degli dei. Ciò che a noi pare lodevole, per gli dei è spregevole, Ciò che al nostro cuore sembra male, è bene al cospetto del dio. Chi penetrerà la mente degli dei nella profondità del cielo? · I pensieri di un dio sono come acqua profonda, chi potrebbe

conoscerli? Come potrebbe l'umanità rannuvolata comprendere le vie degli dei?

Il giudizio umano non può essere un vero giudizio, per­ché l 'uomo è la creatura di un istante, non può prospet­tare in profondità le cose, i suoi umori mutano da un momento all'altro, non può raggiungere la comprensione piu profonda che è propria degli dei immortali, sottratti alle leggi del tempo. Colui che ieri nacque, oggi è morto. In un istante l'uomo è gettato nella trist=a, d'un subito è

schiantato. Per un momento canterà di gioia, Ed entro un istante gemerà in lamenti. Tra l'alba e il tramonto può mutare l'umore degli uomini, Quando hanno fame il loro corpo diventa cadaverico, Quando sono satolli rivaleggiano con il loro dio. Se le cose andranno bene cianceranno di sollevarsi fino al cielo, Se il vento muterà declameranno di discese all'Ade.

Che cos'è dunque il giudizio dell'uomo, perché l'uomo possa presumere di contrapporlo a quello d'un dio?

Ma per quanto questo severo non licet soddisfi la men-

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te, dimostrando l'impertinenza della questione, il cuore resta insoddisfatto. Profondi sentimenti sono stati mossi ed è inevitabile che ci si senta oggetto di un torto amaro. AI cuore il nostro poema propone il dovere di sperare e confidare. Il giusto che soffre non resterà nella sua pena. Quando ogni speranza sembrerà perduta, allora soprav­verrà la liberazione. Nell'ora piu oscura gli dei avranno pietà dell'uomo e si volgeranno a lui circonfusi di bontà e di splendore. Ed ecco Marduk ridargli salute e dignità, purifìcarlo, e colmarlo di nuovo di felicità. Cosi il nostro poema è un'esortazione alla speranza e alla fiducia. Le strade degli dei possono parere inspiegabili all'uomo, ma ciò avviene perché all'uomo manca la comprensione piu profonda che muove gli dei. Per quanto in basso l'uomo possa piombare nella disperazione, gli dei non l'abbando­nano. Egli potrà e dovrà aver fiducia nella loro pietà e nella loro bontà.

c) La negazione di tutti i valori: un dialogo pessimi­stico 14• È un fatto notorio che una civiltà, invecchian­do, corre il pericolo di vedere i suoi valori fondamentali allentare la loro presa sugli individui che ne fanno parte: lo scetticismo, il dubbio e l 'indifferenza cominciano a mi­narne la struttura spirituale nella quale la civiltà stessa s'iscrive. Tale scetticismo verso tutti i valori, la negazio­ne assoluta di una possibilità di vivere la « buona vita », si affacciano in Mesopotamia nel 1 millennio a . C. e tro­vano espressione nel lungo dialogo fra un padrone ed il suo schiavo, noto come il Dialogo del pessimismo.

Lo schema del dialogo è semplicissimo. Il padrone an­nuncia di voler fare qualcosa e lo schiavo lo incoraggia elencandogli gli aspetti piacevoli del progetto. Ma ormai il padrone è già stanco dell'idea e dichiara che non ne fa­rà nulla. Anche questo proposito viene lodato dallo schia­vo, che elenca gli aspetti piu negativi del progetto. Cosi tutte le attività tipiche di un nobile mesopotamico ven­gono soppesate e giudicate insufficienti. Nulla ha un va­lore intrinseco, nulla vale la pena di esser esperimentato, né la ricerca di favori alla corte, né i piaceri della mensa, né le razzie contro i nomadi del deserto, né le avventure

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della vita ribelle, n é l'inizio d i un'azione penale, e via dicendo. Citeremo alcune stanze, come questa sull'amore :

« Schiavo, sii d'accordo! » « Si, mio signore, si! » « Amerò una donna! », !< Ama dunque mio signore, ama! L'uomo che ama scorda il bisogno e la miseria! » « No, schiavo, non amerò una donna! » « Non amare, mio signore, non amare! La donna è un'esca, una trappola, un trabocchetto; La donna è un'affilata spada di ferro Che taglia il collo al giovane! »

Sulla pietà :

« Schiavo, sii d'accordo! » « Si, mio signore, si! » « Subito ordina l'acqua per le mani, E portamela. Farò una libagione al mio dio! l> « Fallo, mio signore, fallo! L'uomo che desidera fare una libagione Al suo dio ha il cuore in pace; Concede prestito su prestito! » « No, schiavo, non farò una libagione al mio dio! » « Non lo fare, mio signore, non Io fare! Insegna al dio a correrti dietro come un cane Allorché te lo chiede, sia che [dica] " il mio servizio ", sia " Non hai chiesto ", o altro ancora, dietro a te ».

In altre parole: « sii spavaldo con il tuo dio », fa' che si senta alla tua mercè per i servizi, le preghiere, e molte altre cose, cosf che ti rincorra, chiedendoti di adorarlo.

La carità non ha miglior sorte della pietà:

« Schiavo sii d'accordo! l> « Si, mio signore, sf ! » « Dico, farò elemosina alla mia terra! » « Fallo, mio signore, fallo! L'uomo che fa elemosina alla sua terra Mette le sue elemosine sul palmo dello stesso Marduk ».

Cioè, è come se Marduk stesso le ricevesse, restando co­si impegnato a compensare il donatore.

« No, schiavo, non farò elemosine alla mia terra! » « Non farlo, mio signore, non lo fare! Arrampicati sulle rovine di antiche città e aggirati all'intorno, Guarda i teschi degli uomini dei tempi antichi e piu recenti. Chi di loro è il malvagio e chi il benefattore? »

Che l'uomo faccia il bene od il male è tutt'uno, nessuno se ne ricorderà nei giorni venturi, non sappiamo chi fos-

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se buono e chi malvagio fra gli antichi, giacciono dimen­ticati nelle città dimenticate.

Cosi si giunge alla conclusione che nulla esiste di ve-ramente buono, tutto è vanità.

« Schiavo, sii d'accordo con me! » « Si mio signore, si! » « Orbene, che cosa è bene? Rompermi il collo e romperti il collo, Cadere nel fiume, ecco il bene! »

Essendo tutto il mondo vanità, solo la morte sembra pia­cevole. Lo schiavo risponde stoicamente con l'antico det­to che esprime la rassegnazione :

« Chi è tanto alto da attingere il cielo Chi è tanto largo da abbracciare la terra? »-

Se vano è ricercare il bene assoluto, tanto vale rassegnar­ci e abbandonare la partita, non si può fare l'impossibile. Ma ancora una volta il padrone muta avviso :

« No, schiavo, ucciderò soltanto te perché tu mi preceda! » « E vorrebbe il mio signore vivere [anche solo] tre giorni

dopo di me? »

domanda lo schiavo. Se non c'è alcun profitto a vivere, se nulla è bene , se tutto è vanità, quale beneficio troverà il padrone nel prolungare la sua vita? Come potrebbe sopporta da altri tre giorni ancora?

Con questa negazione di tutti i valori, con la negazio­ne che la « buona vita » possa esistere, concludiamo la nostra rassegna del pensiero speculativo mesopotamico. La civiltà mesopotamica con tutti i suoi valori sta per perdere il suo mordente sull'uomo. Ha svolto il suo ciclo ed è pronta a cedere dinanzi ad un pensiero nuovo e di­verso, ad un pensiero piu robusto.

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Note al Capitolo settimo.

1 STVC, 66 e 67; TRS, 15, II� KI-RU-GU. z RA, XVII, p. 123, verso Il, r4'-r5'. 3 lbid. , 16'-17'. ' lbid., 18'-19'. 5 lbid., p. 132; K 4160, 1-3. 6 STVC, I, 1, 1;;-18. 7 RA, XVII, p. 122, m e IV, ;;-8. 1 Urukagina, tavoletta di creta. 9 STVC, I, 1, 1-4. IO YOS, 2, 141. 11 Bit Rimki, tavoletta III. n Enternena, mattone B. u LANGDON, Babilonian Wisdom, pp. 3;;-66. 14 Ibid., pp. 67-81 .

Letture consigliate.

DHORMI!, ÉDOUARD, Les Religions de Babylonie et d'Assyrie, Paris 1945. HEHN, JOHANNES, Die biblische und die babylonische Gottesidee, Leipzig

1913. HEIDI!L, ALEXANDER, The Babilonian Genesis, Chicago 1942. - The Gilgamesh Epir and the 0/d Testament Para/lels, Chicago 1946. JACOBSEN, THORKILD, Sumerian Mythology: A Review Artide, « Journal

of Near Eastern Studies », V ( 1946), 128-52. KRAMER, SAMUEL. N., Sumerian Mythology: A Study o/ Spiritual and

Literary Achievement in the Third Millenium B. C., Philadelphia 1944·

LANGDON, STEPHEN, Babylonian Wisdom . .. , London 1923. PALLIS, SVEND AUTT, The Babylonian Akilu Festival, Copenaghen 1926. VON SODEN, WOLFI\AM, Religion und Sittlichkeit nach den Amchauungen

der Babylonier, in « Zeitschrih der Deutschen Morgenliindischen Ge­sellschaft », vol. LXXXIX (193;;).

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GLI EBREI

di W illiam A. I rwin

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Capitolo ottavo

DIO

Israele compare tardi nella storia orientale. Quando le tribu ebraiche irruppero in Palestina nel XIV secolo a. C. , con l'invasione che doveva segnare l'inizio della loro vita come nazione, la gloria dell'Egitto cominciava a declina­re, la grandezza imperiale e la creatività spirituale erano ormai cose del passato; Shumer non era che un'eco di una storia quasi dimenticata, e per quanto le sue conqui­ste fossero state assorbite nel ricco tesoro culturale della Babilonia semitica, anche per lei l'epoca migliore era tra­scorsa, e non le restava che il breve periodo in cui Nebu­chadrezzar avrebbe fatto rivivere le glorie di Hammura­bi. Al tempo del primo grande rigoglio speculativo ebrai­co, l'età dei profeti, l'Assiria aveva toccato l'apice del suo sviluppo ed era sul punto di vacillare e di insabbiarsi per sempre.

Il periodo piu fecondo della storia di Israele, troppo spesso e alla leggera definito il periodo « tardo », si svol­se parallelamente alla grandezza degli Achemenidi per un verso ed alla supremazia dell'Atene periclea dall'altro, poi alle imprese di Alessandro e, infine, al predominio el­lenistico in Oriente. Non sorprende pertanto che, quale consapevole e naturale erede delle conquiste dell'Oriente e continuando a vigoreggiare in quella che comunemente è nota come l'età classica, la vita intellettuale di Israele fa da ponte fra due mondi diversi. Il suo carattere primi­tivo è evidente, ed è forse l'aspetto piu vistoso che gli studi critici degli ultimi cent'anni abbiano messo in luce. Non approderebbe a nulla indugiare su di esso, basti di­re che una larga parte dei concetti passati in rassegna nei

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capitoli precedenti trovano paralleli, quando non soprav­vivano, nella concezione ebraica del mondo. È evidente che i fondatori della nazione ebraica e i loro eredi e suc­cessori per molte generazioni sono calati nel mondo dei loro tempi ed in essi continuano a vivere.

Ma se il pensiero ebraico si fosse limitato a ciò oppure vi avesse trovato il suo lato saliente, non sarebbe il caso di studiarlo oggi. Israele era una piccola nazione, e al pa­ragone delle altre potenze del vicino Oriente, priva d'o­gni importanza; se si fosse limitata a condividere le stes­se caratteristiche dei suoi contemporanei non avrebbe maggior diritto alla nostra attenzione di Edom, Moab o Damasco . Ma tradiremmo la realtà storica, anzi ci sfuggi­rebbe del tutto il genio d'Israele, se non riconoscessimo in qual modo e misura esso si differenziò dai suoi vicini e contemporanei, grandi e piccoli. Israele supera le cul­ture dell'antico Oriente per quanto radicato e plasmato in esse, attingendo un mondo di pensieri e concezioni ge­nerali assai simile al nostro. Le differenze che lo separa­no da noi sono assai meno pronunciate di quelle che stac­cavano Israele dai popoli con i quali viveva in stretto contatto, sia nello spazio come nel tempo; in altri termi­ni, la frontiera tra il mondo antico e quello moderno non si deve tracciare nell'Egeo o nel centro del Mediterraneo, bens( nelle pagine dell'Antico Testamento. È l'Antico Te­stamento che ci rivela le conquiste di Israele nel campo del pensiero, il suo atteggiamento verso la letteratura, le sue profonde intuizioni religiose e i suoi principi d'etica individuale e sociale.

La massima conquista di Israele, tanto evidente che menzionarla può sembrare banale, è il monoteismo. Fu una conquista destinata a trasformare tutta la storia se­guente, e quanto ad essa tutt'oggi dobbiamo risulta evi­dente dopo un attimo di riflessione. Rischiando quel tan­to di pericoloso che può essere nell'uso dei superlativi ci si può domandare se una sola conquista, in qualsiasi cam­po, dal tempo in cui la cultura umana emerse nell'età della pietra, ebbe la stessa portata storica dell'opera di

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DIO

Israele, tramandataci per via indiretta dal cristianesimo e dall'islamismo e direttamente dagli stessi pensatori ebrei. D'altra parte l 'unicità di Israele nei confronti del mondo antico è stata dimostrata abbondantemente sep­pure implicitamente nei precedenti capitoli di questo li­bro. Contro il naturalismo politeistico di Babilonia e le confuse idee « consustanzialistiche » del pantheon egizio, Israele afferma : « Il Signore Dio nostro è uno »; « Tutti gli dei delle nazioni sono vanità, ma il Signore fece il mondq >) . I dogmi tradizionali hanno privato i pensatori ebraici del riconoscimento dei loro meriti, sussumendo le loro conquiste sotto la categoria della divina rivelazio­ne e sottraendole alla categoria del pensiero umano. Ma lasciando in disparte la rivelazione, il nostro compito a questo punto sarà di lumeggiare la validità del pensiero ebraico, dando lm'adeguata valutazione degli apporti spe­culativi dei pensatori di Israele.

La storia di questa conquista intellettuale è uno dei temi controversi della storia ebraica. Abramo fu un mo­noteista? Oppure il concetto s'insed con Mosè nella sto­ria? Che cos'era la fede di Samuele, di David o di Amos? Su tutto ciò gli studiosi dell'Antico Testamento sono di opinione discorde, e non è certo questo il luogo per pro­cedere ad un giudizio definitivo su questioni che hanno occupato intere monografie. Ci basterà qualche commen­to di indole generale per poi venire ad una conclusione apparentemente dogmatica. È un'idea comunemente ac­cettata che l'antico Medio Oriente tendesse ad una fede monoteistica. Inoltre è conforme a tutto ciò che sappia­mo del genio di Israele e dei suoi rapporti storici, ritene­re che i suoi pensatori, fin dall'inizio, fossero piu o meno consapevoli di tali correnti spirituali. Non è né sconcer­tante né nuovo ammettere che il monoteismo di Israele poggiasse in qualche modo su certi spunti piu antichi. D'altra parte, però, il professar Wilson mi assicura, per quanto concerne il problema tuttora irrisolto del mono­teismo attribuito ad Akhnaton, che lo si può ritenere con certezza del tutto diverso e inferiore al monoteismo di

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GLI EBREI

Israele. Anche se si sceglie la via di mezzo, ritenendo che Mosè fosse il padre del monoteismo di Israele e che ri­calcasse consapevolmente la grande eresia egizia, le diffe­renze sono tali da farci senz'altro concludere che egli in tal modo abbia portato qualcosa di nuovo nella storia dell'umanità. E va da sé che questa conclusione resti sal­da anche qualora preferissimo l'opinione prevalente fra gli studiosi e nella critica storica, che il monoteismo rap­presenti il coronamento dell'età dei profeti, sorto al tem­po in cui la potenza brutale dell'Assiria stava sottomet­tendo il mondo e minacciando di estinzione la nazione ebraica.

Comunque, se anche a restringere la validità della tesi per cui negli oracoli che aprono il Libro di Amos, si assi­sta alla nascita del monoteismo, che in quei versi piglie­rebbe forma sotto i nostri occhi, tuttavia è indubbio che il passo rivela quell'indirizzo di pensiero destinato a sfo­ciare nella grande scoperta. Le parole sono note:

Cosf dice il Signore, Per tre scelleraggini di Damasco

E per quattro io non stornerò la punizione, Perché hanno triturato Gilead

Con carri ferrati; Ma metterò fuoco alla casa di Azael

E divorerà i palazzi di Ben-Adad. (Amos, 1, 3-4).

Cosi con frasi ribadite il profeta, come brandendo la fal­ce del destino, muove da Damasco a Gaza, a Tiro, a Edom e Amman e Moab, prima di giungere infine al suo popolo. La critica è concorde nell'affermare che la lista fu allungata alquanto dopo i giorni di Amos, ma anche a valeria accorciare, il significato fondamentale del passo non viene infirmato. Due punti esigono di essere esami­nati. Si noti come i limiti del pensiero dei tempi del pro­feta siano stati ignorati o superati. Non si tratta di un piccolo dio nazionale che bada ai fatti suoi entro i con­fini o almeno entro la portata delle armi del suo popolo. Anzi la posizione di Amos, dovette apparire assurda ai suoi contemporanei, e soprattutto ai paesi stranieri cosi baldamente puniti da questo contadino, messaggero di

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DIO

una piccola divinità. Che cosa ha a vedere il Dio di Israe­le con Damasco, la potenza che per cento anni ha pre­dato e devastato la sua terra, che ha ridotto in schiavitu, spogliato e brutalmente maltrattato il suo popolo, men­tre lui, il dio, assisteva impotente? Potevano ben deri­derlo gli uomini « pratici » del tempol Ma del tutto in­differente verso una pretesa mancanza di realismo e di logica, Amos getta le sue parole di rimprovero contro tutti i vicini e tutte le terre nemiche che attorniano Israele. Ecco dunque la nostra prima osservazione: il concetto del « dio nazionale » è in Israele eliminato e ·scartato. Il Dio di Israele è un ente che detiene poteri e ha responsabilità e autorità su tutte le terre dei vicini di Israele. Dobbiamo tuttavia riconoscere che nella lista vi sono notevoli eccezioni : non si fa parola dell'Egitto, né dell'Assiria né di Urartu, quale che sembrasse ai tempi di Amos la potenza dominante. La lista riguarda soltanto i principati che circondano Israele. Ma il profeta si è inoltrato troppo oltre per potersi fermare a questo pun­to. Restando fino in fondo coerente al suo orientamento dovrà attribuire a Iahvé il dominio dell'universo; infatti in altri oracoli del suo libro, Amos introduce una nazio­ne innominata del suo tempo al giudizio divino, il che significa che la potenza del Signore si estende anche alle grandi potenze del tempo.

Ma questo fatto di per sé potrebbe anche non indica­re nulla piu delle tendenze monoteistiche di cui s'è detto. Il monoteismo stesso potrebbe essere poco piu di un di­spotismo trasferito sul piano religioso. La grande con­quista di Israele non sta tanto nella affermazione del­l'unità del mondo e di Dio, quanto nel carattere che attribui a Dio. Il pensiero di Amos non si limita ad affer­mare la supremazia del suo dio: la futura punizione divi­na dei vicini di Israele sarà inflitta per ragioni morali. Damasco e Ammon hanno commesso atrocità in tempo di guerra, Tiro e Gaza hanno venduto inumanamente in­teri popoli come schiavi . E l 'accusa prosegue in questo tono. Orbene, tutte queste azioni erano abituali nell'viii secolo a. C. Ancora una volta si presentava un'occasione di scherno: un comunissimo contadino si indigna dinan-

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GLI EBREI

zi a ciò che tutti fanno! L'indipendenza del pensiero di Amos ci pare tuttavia meno importante del suo giudizio morale. Le nazioni sono condannate per la loro deprava­zione, e qui è il punto: esse ricevono tale condanna nel nome del Dio di Israele! E la ragione della sua suprema­zia, si osservi, non sta nella sua potenza, né nella sua gloria, né in qualsiasi qualità apprezzata a quei tempi, bensi nella sua giustizia. Ecco che appare chiaro il signi­ficato della frase tanto spesso usata negli scritti critici di storia ebraica: il monoteismo di Israele è un monoteismo etico.

Chi ha ascoltato le lezioni dd compianto James H. Breasted ricorderà come, trattando del monoteismo so­lare dell'Egitto del XIV secolo a. C. egli lo intendesse co­me la conseguenza culminante di un secolo di imperiali­smo. « Il monoteismo era l'imperialismo sul piano della religione )), per adoperare una sua frase. L'adoratore egi­zio del sole che si allontanava dalla sua stretta vallata si accorse che lo stesso sole splendeva non solo sui colli della Palestina e della Siria ma anche nell'alta valle del Nilo, oltre i limiti tradizionali dell'Egitto, sicché dovette concludere che c'era un unico sole, dunque un unico dio solare. Nella mente di Amos si svolge un processo analo­go che lentamente si trasforma nella fede accettata da tutti i profeti e piu tardi dalla nazione. I principi di de­coro, onore e umana pietà che erano validi e osservati fra gli abitanti delle piccole comunità della Palestina non vengono meno allorché si valica il confine per passare in Siria ed in Filistea : gli uomini sono pur sempre umani con bisogni e perciò principi umani. Amos avrebbe rin­negato il facile detto che ha avuto fortuna ai nostri gior­ni : << ad est di Suez non valgono piu i Dieci Comanda­menti >) . Infatti in un passo famoso che ancora una volta testimonia dell'incredibile vigore speculativo di questo semplice contadino, Amos non dice solo implicitamente, ma afferma senz'altro, con parole inequivocabili, che esi­ste un comune legame umano fra razze diverse e remote.

Non siete forse per me come i figli degli Etiopi, O figli d'Israele, dice il Signore;

Non feci uscire Israele

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DIO

Dalla terra d'Egitto; Come i Filistei da Caphtor

Ed i Siri da Kir? (Amos, 9, 7).

I negri dell'Africa centrale ed i due tradizionali nemi­ci di Israele, i Filistei da un lato ed i Siri dall'altro, in quanto creature umane, erano su un livello di parità con il « popolo eletto ». Il passo può servire di commento ai giudizi espressi nei capitoli I e II del Libro di Amos, poiché almeno taluni di essi potrebbero sembrare moti­vati da spirito partigiano: Amos tuona e denuncia per­ché è il suo stesso popolo che soffre. Ma anche in quella lista di giudizi divini, ve ne sono alcuni che non si pos­sono scartare con leggerezza: e questa affermazione che Dio ha cura dei Filistei e dei Siri lo conferma. Un senso di umanità - senza distinzioni - è alla base del pensiero morale di Amos.

E questo atteggiamento, come vedremo, si estende an­che al concetto della natura di Dio : Dio condanna la crudeltà e la disumanità. È un orientamento del pensiero che con l'andar del tempo avrà sempre maggiore svilup­po, diventando uno dei caratteri salienti della visione ebraica del mondo. Nonostante i passi notevoli che ab­biamo additato, e altri non meno degni di essere citati, Amos appare, dalle cronache che ci restano, un severo moralista. È il profeta della catastrofe incombente, enun­cia i giudizi di Dio dinanzi ad un popolo disattento ed egoista. Solo in due o tre punti i suoi discorsi fanno rite­nere che in cuor suo nutra una speranza profonda nella riforma e nella salvezza del suo popolo. Ma quando giun­giamo al suo successore immediato, se non al suo piu giovane contemporaneo, tutto cambia. Per quanto Osea non sia meno preoccupato dalla rovina che l'egoismo an­tisociale sta per recare alla nazione, il suo tono è piu emotivo che giudiziale. È uomo di profondi affetti e di teneri sentimenti. È lui che ci ha lasciato quel quadro commovente di Dio come padre amorevole che conduce il suo popolo come un fanciullo ai suoi primi passi:

Insegnai a Efraim a camminare Li portai fra le mie braccia . . .

Li attirai con vincoli umani,

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Con corde d'amore ... Come potrò mai abbandonarti, o Efraim?

Come potrò !asciarti andare, o Israele? Il mio cuore si rivolta dentro di me;

Tutta la mia tenerezza è accesa, Non agirò secondo il furore della mia ira,

Non mi volgerò a distruggere Efraim, Poiché sono Dio e non un uomo.

GLI EBREI

(Osea, n, 3-4; 8-9).

E ricordiamo anche il passo famoso che chiude il Li­bro di Giona. II profeta adirato vuole che la grande città sia distrutta solo per << salvare la faccia » come veggente ; ma il Signore lo rimprovera. << E non dovrò io aver pietà di Ninive, la grande città nella quale sono piu di cento­ventimila persone incapaci di discernere tra la mano de­stra e la mano sinistra; e un cosf gran numero di giu­menti? » (Giona, 4, I I ) . E pensiamo anche alle parole:

Come un padre ha compassione dei suoi figli Cosi il Signore ha compassione di coloro che lo temono.

Perché egli sa di che cosa siamo formati Si ricorda che siamo polvere.

(Salmi, 103, 13-14).

Il corollario ed il complemento di tutto ciò è rappre­sentato dal passo ugualmente famoso: « Amerai il Signo­re Dio tuo con tutto il cuore e con tutta l'anima e con tutte le tue forze )> (Deuteronomio, 6, 5 ). Tocchiamo qui il culmine dei risultati monoteistid di Israele : l'unico Dio dell'universo è un Dio di giustizia, ma ancor piu un Dio d'amore : << le sue misericordie si stendono tu tut­te le sue opere )> (Salmi, 145 , 9 ). Il significato storico di tali affermazioni si intuisce a colpo d'occhio e la natura rivoluzionaria della scoperta di Israele risalta abbastanza evidente se ripensiamo ai capitoli dei professori Wilson e Jacobsen; nelle:: loro analisi dell'Egitto e di Babilonia essi hanno messo in rilievo che l'atteggiamento degli dei verso l'umanità poteva anche essere benevolo in massi­mo grado, ma in genere era poco piu che indifferente. Gli dei avevano le loro occupazioni, sicché solo con sfor­zi speciali li si poteva indurre a prestare attenzione a qualche noioso incidente verificatosi nel corso degli even-

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DIO

ti mondani. E questo è un problema che ha tormentato il pensiero umano attraverso i secoli. Si racconta di un personaggio religioso della passata generazione che, ri­chiesto di quale domanda avrebbe rivolto alla sfinge, la quale avrebbe dato l'esatta risposta una volta sola, disse : « Mi è amico l'universo? )> Egli diede invero prova di un'intuizione profonda, poiché l'interrogativo piu tor­mentoso - che l'uomo si sia rivolto nei secoli è sempre stato: « Qual è il mio posto in un mondo potente e ap­parentemente insensibile? ))

La massima conquista di Israele fu la concezione di un mondo nel quale si possa camminare con il passo fi­ducioso del figlio nella casa paterna.

Il monoteismo sottintende necessariamente la trascen­denza. E la trascendenza s'impone nel monoteismo di Israele. Un dio come quello d'Israele deve trovarsi assai al di sopra del misero uomo, al di sopra di questa ter­ra, al di sopra di ogni cosa terrestre e terrena. Un simbolo pregnante di questa trascendenza che cosi sovente ritor­na nell'Antico Testamento è la grande visione di Isaia; <( vidi il Signore che sedeva sopra un trono eccelso ed elevato, ed il suo strascico riempiva il tempio. Sopra di lui volavano i Serafini.. . gridandosi l'un l'altro : " Santo, Santo, Santo è il Signore, dio degli eserciti, tutta la terra è piena della sua gloria ". E i cardini della porta si scos­sero alla voce di colui che gridava, e là casa si empié di fumo )> (Isaia, 6, 1-5 ). È caratteristico che Israele conce­pisca Dio tremendo nella santità, terribile nella giustizia. Da questa parte dell'abisso che lo divide dal divino, sta l'uomo, fragile, mortale e peccatore, la cui massima giu­stizia, alla luce di quella purezza, è <( simile a un mucchio di luridi stracci ». Questo spiega perché Israele rifugga dalle apoteosi, si tratti o no di re. Per i pensatori ebraici Dio è nei cieli e l'uomo è in basso. Di qui proviene al­tres! il loro concetto del peccato. Sono due temi sui quali dobbiamo ora soffermarci alquanto.

Si è visto dunque quale sia il concetto ebraico della natura del mondo. Al centro siede in trono un Essere di indicibile grandezza e santità, che ne è ad un tempo il creatore ed il nutritore. Ma Israele non giunge mai a far-

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ne un'astrazione, un assoluto freddo e remoto. Per il pensiero ebraico Dio dev'essere una persona. Il rapporto Io-Tu nel quale il primitivo proietta il suo ambiente na­turale sussiste nella fede di Israele, anzi viene sublimato. Il mondo è inteso come un rapporto personale. Il suo centro e la sua essenza non sono la forza bruta o qualche realtà fredda e inerte, ma un Dio personale. La persona­lità è il concetto in cui si riassume la natura umana.

Ora, una persona cosi intesa non può essere che in un determinato luogo in un determinato momento. Tuttavia le nostre malcerte idee sulla percezione extrasensoria ci forniscono un termine di analogia per cogliere il pensie­ro di Israele attorno a questo tema; Dio è fornito di pro­lungamenti, per cosi dire, della sua personalità, che gli permettono di raggiungere piu luoghi nel contempo. La sua vera dimora è, almeno per il pensiero piu tardo, nei cieli, dove siede su un trono maestoso circondato dalle schiere osannanti. Ma da lui si dipartono certe forze che hanno punti in comune con il concetto piu tardo di ema­nazione. Egli attua la sua volontà mediante lo spirito o mediante la parola, e con il passar del tempo altri mezzi si aggiunsero a questi.

Tuttavia anche cosi l'esigenza religiosa dell'onnipre­senza di Dio resta inappagata. Nei tempi primitivi, pare si credesse ad una diversa localizzazione delle manifesta­zioni di Dio. Cosi Assalonne, trovandosi a Geshur, fa voto a Iahvé in Hebron (o almeno cosi pretende di aver fatto, per rafforzare il suo piano di rivolta) e a suo tem­po, s'allontana dal tabernacolo ufficiale di Gerusalemme per adempiere il voto in Hebron. Pare che lo stesso con­cetto sia sottinteso dalle parole : « dovunque lascerò im­pressa la mia memoria, verrò da te a benedirti » (Esodo, 20, 24). È difficile capire come a quel tempo tali mani­festazioni locali della divinità non partecipassero delle qualità particolari inerenti alla natura di quelle manife­stazioni, assumendo quindi una loro distinta personalità. Sembrerebbe anche di poter ravvisare una trattazione del problema nella famosa visione del primo capitolo del Li­bro di Ezechiele. In esso è descritto il gran carro sul quale cala dal nord il Dio di Israele lungo la strada se-

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DIO

guito dal suo popolo nel triste viaggio verso la cattività ; ed è proprio su quel cammino che egli viene a cercare i suoi esuli soli t ari e aflli t ti.

Fin qui parrebbe dunque che Israele abbia preferito sciogliere Dio dalla limitazione di un domicilio fisso: Egli può lasciar casa sua e accorrere dovunque lo chia­mino le necessità del momento. Tuttavia è evidente che questa spiegazione non comprende tutto il pensiero di Israele, perché mentre per i devoti anche nell'età tarda, Dio è nel suo sacro tempio, nondimeno Egli ode la pre­ghiera del suo popolo sparso in Palestina o nelle terre della diaspora. Questo avviene, evidentemente, in virili di un'estensione della sua divina personalità o dei suoi divini poteri, sicché Dio può udire vedere e agire a di­stanze inconcepibili per l'uomo. Ai fini pratici della fede religiosa i risultati equivalgono a quelli del concetto piu tardo di immanenza.

La sostanza ed i caratteri attribuiti alla Persona co­smica non sono facilmente intuibili. Probabilmente il pensiero ebraico evita di esaminare la questione. Pare certo comunque che la Persona è dotata di una forma quasi umana. Non c'è dubbio che questo è il senso del racconto della creazione laddove si afferma che l'uomo venne creato a immagine di Dio, mentre molti altri passi corroborano questa interpretazione; anche se parecchi di essi sono poetici e i loro particolari debbono ascriversi a semplice simbolismo, una parte, almeno, delle descrizio­ni non è simbolica. Ma la natura della divina sostanza è lungi dall'essere accertata. Fu un maestro d'età piu tarda a dire che « Dio è spirito »; tuttavia la credenza non è diversa da quella dell'Antico Testamento. Ma che cosa è uno spirito? Può passare da un luogo all'altro, apparire o sparire all'improvviso, esercitare poteri sovrumani, ma nessuno di tali caratteri è determinante in sé, poiché cer­te creature umane possono fare altrettanto; si pensi, ad esempio, alle storie di Elia ed Elisha. Per il pensiero popolare dei nostri giorni uno spirito è probabilmente una personalità priva di corpo materiale, ma è tutt'altro che sicuro che questo sia un concetto antico. Ricordiamo la trattazione dei corpi spirituali in san Paolo : essi sono

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composti evidentemente di una qualche sostanza extra­terrena (I Corinzi, 1 5 , 3 5-58) . Non è affatto sicuro che per gli Ebrei lo spirito fosse una materia rarefatta, come per certe correnti del pensiero greco. Troviamo molto u­sata la metafora del fuoco in rapporto alla persona ed alle apparizioni di Dio, ma sarebbe audace sostenere che per Israele Dio abbia un corpo fatto di una specie di fuoco ce­leste. E con ciò non ci resta che abbandonare il problema.

Un'altra questione tuttavia si affaccia. Dio è lontano dall'umanità nella misura in cui è esaltato in una tra­scendente santità e potenza. Basterà per chiarire, un pa­ragone con il concetto antropomorfico di Dio proprio dei tempi primitivi. Dio scese nel giardino, passeggiò e parlò con la coppia peccatrice; un pomeriggio in cui si trovò ad attraversare i colli di Giudea accettò l'ospitalità di Abramo; informò Noè del diluvio incombente e, quando questi ebbe obbedito all'avvertimento divino ritirandosi nell'arca, gli chiuse la porta dietro. Una serie di episodi simili ci si affacciano alla mente. In breve, un tal Dio è tanto vicino e accessibile che nessuno può sapere in qua­le momento, per caso, lo si troverà faccia a faccia. Il si­gnificato di una tale credenza è evidente. Ma il Dio tra­scendente è remoto, e inoltre è occupato dalle sue alte imprese. Come può sperare il fragile uomo che un tal Dio si interessi ai bisogni e alle speranze di una scintilla di polvere animata? È un problema che si accompagna necessariamente al progresso verso una religione piu al­ta. Quando l'uomo esalta Dio fino a farne qualcosa di trascendente, lo allontana decisamente dalla sfera dell'in­digenza umana. A scopo orientativo, teniamo presente che la cristiana dottrina della Trinità ha la funzione ap­punto di rispondere a questo problema. Non si tratta certo della soluzione formulata dall'antico Israele. In cer­ta misura, tuttavia, Israele ricorre all'accorgimento di frapporre certi intermediari fra Dio ed il mondo. Gli an­geli che saranno altamente significativi nel pensiero po­steriore, ne sono appunto l'aspetto.

Ma, da un punto di vista storico , ha un significato as­sai maggiore l'elaborazione del concetto della divina sa­pienza, mediante la quale Dio ha creato il mondo e me-

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diante la quale mantiene rapporti con gli uomini. È un tema che richiederà una trattazione piu estesa fra qual­che pagina; per ora accontentiamoci di ricordarne l'im­portanza a questo punto del nostro discorso. È chiaro tuttavia che l'atteggiamento tipicamente ebraico verso questo problema concepisce Dio, come trascendente san­tità, su d'un trono remoto, e tuttavia vicinissimo a ogni anima devota e attento ai bisogni del popolo. Cosicché i salmisti implorano privatamente aiuto dal Signore e cele­brano la sua risposta alla preghiera. Non hanno bisogno di invocare intermediari - preti, angeli o esseri divini - il Signore è il Dio dell'amorosa bontà e della tenera mise­ricordia, il Dio che eternamente veglia sui suoi seguaci : « Il Signore è il tuo custode . . . Non permetterà che il tuo piede vacilli. . . Non temerai il terrore notturno né la saet­ta che vola di giorno )) (Salmi, r 2 r , 3 , 5, 9r , 5 ).

Per quanto tutto ciò sia un fatto rivoluzionario nella storia del pensiero umano, tuttavia nel considerarlo ci si sente impazienti di affrontare il problema di base: per mezzo di quali processi mentali giunge Israele a tali con­cezioni? Per quanto esso affondi le sue radici nel passato e pur partecipando intimamente della cultura del mondo antico del quale è l 'erede, appare ovvio che un divario co­sf profondo implica un ferreo pensiero non già di pochi individui, ma di una serie di pensatori disseminati lungo la storia della nazione. La dottrina della divina ispirazio­ne tramanda taci dal nostro passato ha impedito di giunge­re a tale lampante conclusione. Dovremo piu tardi vedere quale concetto gli stessi pensatori di Israele si fecero di questo mistero; ci accorgeremo come esso sembri effetti­vamente colmare l'abisso che divide i due aspetti appa­rentemente inconciliabili del dilemma: Israele può essere il tramite della rivelazione divina e contemporaneamente serbare la sua indipendenza intellettuale? Del resto, solo grazie all'indipendenza la mediazione può attuarsi. Per il momento, tuttavia, ci interessa la critica penetrante che Israele muove al pensiero che ha ereditato e che condi­vide con il suo mondo. Uno scetticismo creativo permea

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questo popolo profondamente religioso. Ecco il parados­so apparente : il popolo supremamente religioso fra quel­li del mondo antico, è nel contempo ineguagliabile nella profondità del suo intellettualismo critico. Ma non è un paradosso, perché una religione che non sia sottoposta alla critica degenera presto in superstizione. Solo grazie al loro umor scettico i pensatori ebraici furono capaci di attingere una concezione del mondo che tuttora informa la nostra mente.

La tendenza critica si esemplifica bene nell'atteggia­mento di Israele verso gli dei pagani ed i loro simboli. Mentre da un lato attingono largamente alla mitologia dei loro contemporanei. i pensatori ebraici arrivano però a ripudiare la realtà dei simboli con i quali essa traveste la realtà fisica del mondo. Sappiamo ben poco del proces­so, fatto senza dubbio di problemi e dibattiti protratti nel tempo, che condusse Israele a questa visione unica nel mondo antico. Abbiamo ragione di credere che la sua ba­se ultima sia una profonda certezza morale. Le religioni di Canaan, adorne di simboli divini nel culto pubblico come negli altari privati, sono caratterizzate dalla cosi detta venerazione della natura. E tutti sanno che cosa ciò implicasse. L'adorazione canaanea delle forze della vita porta alla pubblica immoralità per lo piu in riti disgusto­samente depravati.

È vero che Israele si abbandona per un certo tempo a tali pratiche e tenta cosi di garantire la fertilità dei cam­pi e delle greggi e delle mandrie; si leva frequente il la­mento : « Dimenticarono il Signore Iddio e andarono die­tro i Baal e gli Ashtoreth ». Eppure anche nei tempi an­tichi e sempre piu con il passar dei secoli, alcuni uomini se ne stanno in disparte e condannano la depravazione. È questa indignazione morale che si esprime negli avver­timenti profetici e nelle denunce, dove troviamo sintesi acri e mordenti di tutto il sistema religioso : « Sopra ogni alto colle e sotto ogni albero frondoso ti andavi prostran­do come cortigiana » (Geremia, 2, 20). Un motivo etico profondo trova alla lunga un'espressione nel dogma ora familiare, ma nel suo tempo di un radicalismo sconcer­tante: « Non ti farai alcuna scultura né rappresentazione

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di quel che è lassu nel cielo e nelle acque sottoterra: non adorerai tali cose e non presterai loro culto >> (Esodo, 20, 4-5 ). Ed il passo prosegue, si osservi, con queste parole : « perché il Signore Dio tuo è un Dio geloso ». Tutto si riduce alla solitaria unicità della teologia di Israele ed al­la consapevolezza di quell'unicità . La giustizia e la santi­tà di Dio impongono un principio preciso all'azione ed al pensiero dell'israelita, e, in cambio, rivelano la depra­vazione della religione pagana, per pomposa e antica che sia.

Tale stato d'animo trova un'espressione degna di rilie­vo in un termine che sovente ricorre in Isaia : gli dei delle nazioni sono una << nullità », cosi tentiamo di tradurre la sua parola spregiativa, che tuttavia, nella sua forma ori­ginaria doveva avere un significato piu forte. Isaia defi­nisce gli dei 'elilim, che altro non è, si è sostenuto, se non la corruzione ebraica del nome del gran dio dell'an­tico Shumer, il cui potere ed i cui attributi erano ancora venerati nella Babilonia semitica: l 'audace pensatore del piccolo Israele addita al disprezzo Enlil, come cosa inesi­stente, anzi quasi come il simbolo, l'essenza stessa dell'in­significante e dell'inesistente. Ma ciò che a tal proposito è sottinteso nella scelta del termine, viene pienamente sviluppato dal grande profeta dell'Esilio, che chiamiamo, in mancanza di informazioni precise, il Deutero-lsaia. Con uno spirito mordace degno di Luciano egli deride i gran­di dei di Babilonia. Ha assistito ad una processione sacra del Nuovo Anno, a ciò che per il babilonese, pio, ma ot­tenebrato dall'ignoranza, è un mistero profondo svoltosi sotto gli occhi stessi dello spettatore mentre Marduk e Nabu si recano in pellegrinaggio alla casa di Akitu, per stabilirvi i destini del nuovo anno. Ha assistito alla festa annua nella quale Marduk trionfa su tutti i suoi nemici, cosmici e terreni, e muore egli stesso affinché la vita ri­torni ancora una volta sulla terra. Ma questo ebreo criti­co non vi ravvisa il mistero di una antica messa, bensf una farsa solenne: non si tratta che di due carcasse di inerte materia che per poco non spezzano la schiena delle abbruttite e pietose creature condannate a portare il pe­so dei pretesi dei.

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Bel si china, Nabu si curva! I loro idoli sono issari su bestie da soma e giumenti;

Ciò eh.: riverite è gui ammucchiato, Un peso per gli stanchi. (I sai a, 46, 1 ).

Con pari sarcasmo egli mette in ridicolo la fede negli ido­li e la sua voga : si taglia un albero per ricavarne legname da bruciare, e lo si usa per riscaldare e cuocere. ma ne rimane un pezzo, che viene dato ad un artigiano che con una certa fatica lo foggia in forma piu o meno umana - allora gli uomini si prostrano e dicono : « Liberami poi­ché sei il mio dio ! >� (Isaia, 44, 9-17) . Pare che dica : un pezzo di legno è materia ben utile, può servire a riscal­dare la casa, e se ne resta un poco se ne può fare anche un dio sul quale riversare le piu profonde aspirazioni dell'anima! Ma è pur sempre legno !

Tuttavia questo pensiero potrebbe sembrare soltanto una sorta di sciovinismo sublimato. La questione crucia­le è se i pensatori di Israele sappiano applicare gli stessi rigidi criteri critici ai loro dogmi ereditari, particolar­mente a quelli che riguardano la natura e gli attributi del­lo stesso Iahvé. Si potrà comprendere in pieno la portata della conquista intellettuale di Israele solo se ci si potrà render conto che la religione ebraica riusd a liberarsi da una idolatria (per usare un termine spicciolo) del tutto simile a quella delle altre Terre dell'antico Oriente. Si sa che lahvé nella primissima fase della vita nazionale in Palestina , era stato adorato in forma fisica, come Mar­duk o Amon o altri nel loro paese. Pertanto il fatto che in un periodo lontano della storia nazionale l 'invisibilità di Iahvé sia diventato un dogma della religione ortodos­sa, dimostra l'indipendenza e la robustezza intellettuale di alcune generazioni di pensatori ebraici a noi ignoti. Uno scrittore, nel Deuteronomio, ripudiando in pieno il potere ed il realismo mistico dei simboli, afferma che an­che la presenza personale del Dio nazionale, nella grande teofania del Sinai , non rivesti alcuna forma fisica, ma fu una presenza invisibile percepita per il tramite della sen­sibilità religiosa:

E il Signore parlò a voi in mezzo al fuoco. Voi udiste la voce delle sue parole, ma non vedeste figura alcuna. E vi fece conosce-

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re il suo patto, che vi comandò di mettere in opera ... Siate dun­que solleciti di voi stessi, poiché non vedeste alcuna figura nel giorno in cui il Signore vi parlò suii'Horeb in mezzo al fuoco, per tema che ingannati non vi facciate qualche rappresentazione scol­pita o immagine di uomo o di donna ... per tema che alzando gli occhi al cielo e vedendo il sole e la luna c tutte le stelle del cielo, sedotti dall'errore, voi le adoriate e rendiate culto ad esse, che il Signore Dio vostro le ha create per servire a tutte le genti che so­no sotto il cielo (Deuteronomio, rz·r9).

Questo aspetto cosi caratteristico della religione di Israele è talmente noto che la sua importanza corre il ri­schio di risultarne offuscata. Ma per il mondo contempo­raneo fu un'eresia di prim'ordine, tale infatti da far se­gregare gli Ebrei come popolo particolare, in un senso assai diverso da quello vantato dagli stessi pensatori di Israele. Basti ricordare un aspetto di questa situazione come ci si presenta un episodio drammatico di epoca piu tarda. Quando Pompeo nel 63 a. C. assale Gerusalemme e, con orrore degli Ebrei, si apre a forza un varco verso il sancta sanctorum, per scoprire con i suoi stessi occhi il segreto piu intimo di quella religione insolita, vi trova - sappiamo bene - null'altro che una camera vuota. La perplessità del condottiero che viene dall'Occidente dis­seminato d'immagini, di fronte ad un mistero che conti­nua a sfuggirgli simboleggia bene la situazione di Israele nel mondo antico, situazione che potrebbe essere altret­tanto unica in seno al mondo moderno, se noi moderni non fossimo, per l'appunto, eredi di Israele.

Ma l 'eterodossia di Israele non si limita a ciò. L'esi­stenza stessa del Dio viene sottoposta ad un esame criti­co. Soltanto cosi, si direbbe, si può raggiungere la cer­tezza dell'ortodossia e solo dopo aver onestamente af. frontato la questione della realtà e della natura di Dio i pensatori ebraici affermano : « Gli dei delle nazioni sono vanità, ma i cieli sono opera del Signore » (Salmi, 96, 5 ). L'intera storia di quest'indagine intellettuale non ci è stata tramandata e dobbiamo perciò basarci soltanto su allusioni fortuite. Fortunatamente però ci restano sull'ar­gomento alcune trattazioni piu elaborate. Un'espressione tipica di questa disposizione scettica è data da un gruppo di pensatori che si spingono assai a sinistra nelle loro con-

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elusioni. L'ortodosso disprezza gli scettici come <( scioc­chi » e leggiamo pertanto : <( Lo sciocco ha detto in cuor suo, Non esiste Dio » (Salmi, 14, r ; 5 3 , r ) . L'esegesi cor­rente di questa audace negazione vi ravvisa solo una ne­gazione dell'attività divina nelle faccende umane, poiché, si dice, gli Ebrei non dubitarono mai dell'esistenza di Dio. Però un ragionamento del genere fa poco onore alla nostra onestà intellettuale: si potrebbe pregiudicare la questione peggio di cosi? Le parole, tanto in ebraico co­me nella nostra lingua, dicono con chiarezza inequivoca, « Dio non esiste ».

È senz'altro possibile che questi audaci eretici giunga­no a tali conclusioni per non· essere riusciti a riscontrare una partecipazione divina alle vicende storiche del mo­mento; tuttavia è certo che il loro punto d'arrivo fu una negazione della realtà di Dio. Forse anticiparono gli atei moderni, che non scorgono la necessità di un Dio, dato che il mondo procede in modo tollerabile anche senza. Del resto, possiamo vedere implicita questa idea nella critica che rivolge il pio autore del salmo a certi saggi pensatori d'Israele: quando Dio guarda in basso per ve­dere se ci sono dei saggi, trova tiranni senza Dio che <( non sanno nulla » e pertanto <( divorano il [suo] popo­lo come pane ». Tuttavia, continua lo scrittore, per quan­to costoro siano soggetti a grandi terrori, non hanno sag­gezza - non riescono a decifrare il significato della loro inquietante esperienza. Poi, quasi pensando alla inequi­vocabile evidenza della realtà di Dio, conclude con il pio voto di veder sorgere da Sion la salvezza di Dio.

Le riflessioni di un pensatore che va alla ricerca di un'evidenza sulla quale poggiare le grandiose pretese del­l'ortodossia, non si discostano molto da quest'eresia, poi­ché egli non trova altro che vuoto e desolazione. Per cogliere il sapor� raffinato di questo pungente cinismo, dobbiamo rammentare il prologo, nel quale, con falsa so­lennità, il nostro pensatore si burla delle parole stesse delle profezie :

Le parole di Agur, figlio di Jakeh, la parola profetica, l'oracolo di un semplice uomo, Le'ithiel (cioè: « Ho lottato con Dio ed ho vinto »):

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Invero sono un bruto subumano, Non ho l'intelligenza d'un uomo.

Non ho imparato la saggezza Né raggiunto la conoscenza di cose sante.

Chi è salito al cielo e ne è disceso? Chi ha stretto nel suo pugno il vento?

Chi ha legato le acque nella propria veste? Chi pose i limiti ai confini della terra?

Qual è il suo nome ed il nome di suo figlio? Perché voi lo sapete.

(Proverbi, 30, 1-4).

C'è poco da dire a proposito del passo. È evidente che lo scrittore dileggia non soltanto i profeti e la loro auda­ce pretesa di possedere una conoscenza diretta dell'invi­sibile, ma anche i preti, che pretendono di aver la cono­scenza delle cose sante, ed anche i sapienti, per la loro fiducia nell'intelligenza e nella « sapienza ». A contrasto egli vuole ribadire la propria umanità. Anzi, ancor peg­gio, egli è un bruto, poiché non conosce nulla di questa vantata cultura. Ma dove mai, egli dice, si trovano le prove empiriche di tutte le loro pretese? Chi andò mai in cielo per vedere tutto ciò con i suoi occhi? Poi, elen­cando gli attributi cosmici con i quali gli ortodossi ama­no adornare la potenza di Dio, pone l'inquietante quesi­to : « Dov'è la prova oggettiva sulla quale poggia tutto questo imponente edificio di fede (o di credulità)? �> Con mordente ironia si volge ai suoi pii contemporanei e !a­sciandoli padroni del terreno della disputa, con falsa e beffarda umiltà, presumibilmente, si limita a domandare: « Voi conoscete la risposta; vorreste dirmela? »

Anche in questo caso si è preteso che lo scrittore non metta in discussione l'esistenza di Dio. Resta comunque certo che egli nega la possibilità di una reale conoscenza di Dio. Chiede prove positive alle pretese della fede cor­rente e, come dice D. B. MacDonald, « si situa nella piu schietta tradizione razionalistica ». Forse la sua visuale è troppo materialistica e invero sembra dire con l'apostolo Tommaso che solo l'evidenza sensibile ha valore. Tutta­via, per incerti che rimangano i particolari della sua posi­zione, resta assai importante la sua esigenza di veder ispi­rato all'onestà il pensiero religioso e di sottoporlo allo

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GLI EBREI

stesso vaglio rigoroso degli altri processi validi del pen­siero.

Ai fini della nostra dimostrazione non dobbiamo nem­meno attenuare l'importanza in Israele di quella tenden­za che spesso viene definita « ateismo pratico », la ten­denza cioè a negare che Dio si occupi delle faccende umane, per reale e vero che Egli possa essere. Tutti co­noscono questo stato d'animo, dotato di una sua forza persuasiva ben precisa, contro il quale lancia le sue accu­se il profeta Malachia. Nel caso specifico l'atteggiamento popolare si esprime nella abituale inosservanza dei riti del culto. Poiché Dio non ha adempiuto alle promesse fatte ai profeti (di ristabilire lo Stato di Giudea, cosi spiega l'interpretazione) gli Ebrei di Gerusalemme sono spinti dal disappunto alla disperazione e infine alla mi­scredenza. Ma non si tratta di un fatto nuovo; i profeti dell'età anteriore all'esilio dovettero affrontare lo stesso stato d'animo cinico. A proposito dell'opera di Geremia sarà bene citare un passo breve ma di profondo interes­se. Sulle labbra del popolo viene posta questa afferrnàzio­ne: « Egli non esiste e non verrà sopra di noi alcun ma­le, e non vedremo né la spada né la fame » (Geremia, 5 , 1 2 ) . La situazione è chiara: Geremia li ha avvertiti del disastro incombente riconoscendo come causa dei guai presenti la collera divina. Ma la sua facile interpretazio­ne viene respinta. Il corso degli avvenimenti non è forse conforme alle leggi naturali? Le sciagure sono dovute al­la potenza aggressiva di Babilonia e che bisogno c'è di attribuirle a Dio? Il profeta è costretto ad escogitare una risposta . Ad analoghe cause è dovuto il disaccordo scop­piato nell'ottavo e nel settimo secolo fra gli stessi profeti canonici che denunciano l'avvenuta usurpazione dell'au­torità sul popolo da parte dei colleghi popolari, e questi ritorcono subito l'accusa. Un esempio tipico si trova nel­la disputa pubblica fra Geremia ed Anania (Geremia, 28), sul problema dell'autorità suprema e della sanzione della profezia . I cosiddetti profeti autentici ci paiono figure ricche di autorità , e le loro parole paiono sgorgate facil­mente per ispirazione divina e, quali che possano essere le nostre idee in proposito, dobbiamo comunque ricono-

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scere la serietà della meditazione con la quale si prepa­rano ad apparire in pubblico per proclamarsi capi religio­si. Gli atteggiamenti e le obiezioni che abbiamo or ora delineate garantiscono che, tanto dal punto di vista intel­lettuale come da altri, non era affatto facile fare il pro­feta del Signore.

Ma lo scettico piu famoso dell'Antico Testamento è lo scrittore, che, per mancanza di altre notizie, chiamiamo con il titolo del suo libro: non si può negare che l'Eccle­siaste ammetta l 'esistenza di un Dio. Ma a qual fine? È un Dio remoto, egoista, gelosamente intento a osservare la presunzione dell'inquietante creatura umana e tutt'al piu disposto a concedere qualche scarso favore che renda meno radicalmente intollerabile l'esistenza. Queste co­munque sono osservazioni marginali. Va sottolineato piut­tosto l'atteggiamento di dubbio schietto e libero verso l'ortodossia che si rivela in ogni capitolo del libro; alla quale l 'autore contrappone un sistema di determinismo cosmico, una sorta di universale ruota cronologica sulla quale la vita la natura e la storia si ripetono noiosamen­te, senza posa, man mano che il ciclo del tempo riporta ancora una volta alla luce le cose affondate nel passato.

È chiaro ormai che, comunque si vogliano giudicare, queste conclusioni sono frutto di un pensiero robusto ed indipendente. D'altra parte il libro mostra, senz'ombra di dubbio, la natura di quel pensiero. L'Ecclesiaste di­ce di aver fatto certi esperimenti, d'aver provata la sag­gezza e la follia, indagato l'apparente gioia del vino, di essersi dato alla ricerca del piacere. Eppure in ogni cosa, si sforza di assicurarci, il suo cuore l'ha guidato secondo saggezza. In termini moderni, è mosso non già dalla fri­volezza di un fine voluttuoso bensi da un fine seriamente filosofico. Sta facendo un esperimento scientifico su se stesso, osservando le proprie reazioni e tentando, attra­verso di esse, di scoprire il valore permanente della vita. Le altre indagini si basano sull'osservazione da lui con­dotta - dal luogo del suo tranquillo rifugio - del costante fluire degli avvenimenti. Poiché egli ha passato in am­pia rassegna la vita, può concludere : « Vanità delle vani­tà, tutto è vanità ». Questa frase che le persone irrifles-

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sive oggi adoperano con leggerezza, significa assai piu di quanto non suggerisca la consueta versione. L'Ecclesiaste dice che « il tutto », ovvero la totalità delle cose, l'uni­verso intero in tutta la sua estensione - manca di senso e di valore. Comunque si giudichi questa conclusione, ci troviamo dinanzi ad una filosofia nel pieno senso del ter­mine, pur non espressa con la complessità che oggi è in­scindibile da un'idea filosofica. Ma per il momento il no­stro interesse si concentra piu sui metodi del filosofo che sui risultati o sull'estensione della sua indagine e quanto si è detto mette abbastanza in chiaro che, nonostante una certa incertezza nell'applicazione del metodo, il suo pen­siero è affine a quello che chiamiamo empirico. Egli ra­giona sulla base di fatti accertati.

L'Ecclesiaste si considera un libro di epoca tarda, ma in realtà non abbiamo criteri sicuri per stabilirne la data. Si può tuttavia concedere che non risalga oltre il tempo in cui gli Ebrei erano in contatto con la vita dei Greci e venivano talvolta in contatto con il pensiero greco. Fino a qual punto ci è lecito dunque annoverare il libro fra gli esempi tipici di indagine ebraica? Probabilmente non re­sta che rispondere che il quesito è stato per molto tem­po posto su basi errate. Veniamo sempre piu a scoprire quanto grande sia stato il debito della Grecia verso l'O­riente; e mentre nessuna persona seria si sentirebbe di negare l'influenza contraria, cosf a lungo ribadita, tutta­via l'intrinseca grandezza e la lunga storia del pensiero orientale, nella cui tradizione si pone l'Ecclesiaste, con­siglia di considerarlo, per la sua disposizione mentale, un pensatore perfettamente ebraico, benché in certi punti stimolato dalla speculazione occidentale. Le sue conclu­sioni non sono sulla linea della tradizione ebraica orto­dossa, ma le sue caratteristiche di pensiero ed i suoi me­todi fanno intimamente parte dell'atteggiamento indaga­tore che fu proprio di Israele per molti secoli.

Tanto basti a dimostrare la modernità della disposi­zione intellettuale di Israele, anche se l'ulteriore corso della nostra ricerca ne metterà meglio in luce tale aspetto. A questo punto però torniamo alla domanda che maggior­mente si è imposta alla nostra attenzione: quali prove

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possono bastare a d u n popolo di disposizioni cosi forte­mente critiche, per sorreggerlo in quelle sue credenze re­ligiose uniche e sconcertanti che poco sopra siamo venuti tratteggiando ?

Sfortunatamente per il nostro tema, i pensatori ebraici a differenza dei greci, non hanno lasciato testimonianze dei procedimenti seguiti, essendo preoccupati piuttosto delle conclusioni. E questo vale in particolar modo per quelli che possiamo chiamare i teologi ortodossi. Che co­sa ci dicono intorno ai fondamenti della fede di Abramo, ad esempio, o della fede dell'autore del Pentatettco? Quanto ai profeti, essi erano intenti a scagliare denunce o a largire promesse con frasi energiche e persuasive piut­tosto che a guidare il loro pubblico con ragionamenti condotti linearmente fino a11a conclusione voluta. L'apo­logetica della fede di Israele non si coglie dunque in su­perficie. Scandagliando però ad una maggiore profondità, i fatti, almeno in parte, si chiariranno ai nostri occhi.

Israele, sarà bene ricordare, è una nazione orientale posta fra le grandi nazioni dell'Oriente, la cultura delle quali diede origine alla sua. Ricordiamo che nei capitoli dedicati all'Egitto ed a Babilonia si chiarirono le religio­ni di quei popoli analizzando le condizioni fisiche delle loro terre. L'assolata valle del Nilo e le pianure inondate di Shumer influirono profondamente sul formarsi delle concezioni degli antichi, per i quali l'Egitto e Babilonia costituivano senz'altro il mondo e le forze che da esse si sprigionavano la realtà in base alla quale dovevano orien­tare la loro vita. Questo metodo potrebbe rivelarsi altret­tanto fruttuoso nei confronti della religione di Israele. Il terreno scosceso dell'Arabia nord-occidentale, della quale la Siria e la Palestina possono considerarsi - come è sta­to osservato - null'altro che l'oasi piu vasta e piu ricca, e i numerosi picchi montani, i vulcani già attivi in epoca antica, il deserto dagli eloquenti silenzi, le incertezze me­teorologiche in una terra dove tutto dipende dalle piog­ge annuali : tutti questi elementi, si riflettono, fra altri, sulla religione di Israele. Non possiamo dire della sua fe­de piu antica, se non che, ereditata da quegli antenati per­venuti, per i tramiti che formarono la mente dell'uomo

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primitivo, alla posizione mentale esaminata nel primo ca­pitolo, essa venne supinamente accettata. È su tale sfon­do che dobbiamo esaminare la produzione piu tarda : an­che noi moderni, del resto, per quanto spregiudicata e obiettiva possa essere la nostra indagine sulla natura del mondo e dell'uomo, l 'abbiamo conquistata al termine di uno sviluppo che parte da tradizioni che accettavano in pieno la spiegazione « personale » del mondo. Il proble­ma, dunque, tanto per gli Ebrei quanto per noi, non è tanto di appurare come Israele sia giunto a credere nel­l 'esistenza del divino, bensi di appurare come le sue espe­rienze abbiano determinato quella fede e come il popolo abbia potuto perseverarvi anche dopo aver raggiunto un certo grado di autocoscienza intellettuale. Il fatto basi­lare, per la fede di Israele, è l'esistenza del mondo fisico. Ma a questo punto già incontriamo una delle fondamen­tali distinzioni che dividono questa nazione dai suoi vi­cini : il Dio di Israele, nato come Dio della natura, tra­scende ben presto tale condizione. Dio e la natura sono dappertutto intimamente collegati (lo credevano anche i Babilonesi e gli Egizi), mentre per Israele essi sono di­stinti e diversi. Ciò potrebbe anche essere considerato uno svilimento della natura, che non è piu divina, se­nonché, in realtà, il pensiero di Israele è piuttosto agli antipodi; mai, nell'antico Oriente, troviamo una conce­zione ed un amore della natura sublimi come in Israele. Sarà dunque meglio parlare della sublimazione di Dio e dell'esaltazione della natura come espressione della po­tenza e dell'attività divine. Il fatto è che i piu alti con­cetti dei popoli vicini vengono assimilati cosi integral­mente che le cose possono confondersi e si può conside­rare Iahvé un Dio della montagna e del terremoto, della tempesta e della fertilità, esattamente come gli altri dei. La sua voce risuona nella tempesta, scuote il mondo nei terremoti, la sua pioggia cade sulla terra assetata, egli saetta con il fulmine e veglia sulla nascita e sullo svi­luppo. Ma la distinzione essenziale viene fornita da uno scrittore ebraico, che, per quanto parli di un fatto parti­colare, usa un linguaggio che vale come simbolo di tutta la situazione :

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Ecco il Signore passò ... e davanti al Signore un vento grande e gagliardo che schiantava i monti e spezzava le pietre, ma il Signo­re non era nel vento; e dopo il vento un terremoto, ma il Signore non era nel terremòto; e dopo il terremoto un fuoco, ma il Signo­re non era nel fuoco (Re, 19, n).

Questo era solo « il sussurro della sua parola, ma il tuono della sua poténza, chi potrebbe comprenderlo? >> (Giobbe, 26, 14). Dio, per Israele, è dunque chiaramente al di sopra di quella natura, che gli serve per i suoi fini, e, benché intimamente collegato ai fenomeni naturali, tuttavia li supera e se ne distingue. Perché << dopo il fuoco » viene << una voce esile e tranquilla ».

L'intimo rapporto fra Dio e le forze ed i fenomeni del­la natura conferisce però alla natura stessa certe qualità che invano si cercherebbero prima dd romantici inglesi del XVIII secolo, i cui versi hanno una bellezza, una ele­vatezza ed una maestà tali da parli sullo stesso livello, vorremmo dire, della migliore poesia di tutti i tempi. Anche l'ebreo

. . . felt A presence that disturbs ... with the joy Of elevateci thoughts; a sense sublime Of something far more deeply interfused, Whose dwelling is the light of setting suns, · And the round ocean and the living air, And the blue sky and the heart of man 1•

Vero è che Wordsworth poté sollevarsi a tali altezze sol­tanto grazie alla tradizione ebraica nella cultura occiden­tale, alla quale egli tanto doveva. Il senso di stupore da­vanti ad una natura pervasa da una presenza si riflette in un passo che raffigura la potenza e la maestà del mare, il nemico verso il quale l'ebreo guarda con sospetto e paura, ma che qui è sublimato a espressione della poten­za di Dio :

Coloro che solcano il mare sulle navi Facendo traffici sulle grandi acque,

Vedono le opere del Signore E le sue meraviglie nel profondo.

1 « Coglieva la presenza che inquieta l Gioia d'alti pensieri e senti­mento l Sublime d'un che d'intimo e diffuso l Nella luce di soli tramo�­tanri l Nell'oceano e nella vivida aria l Nel cielo azzurro e dentro il cuore umano ,. [N. d. T.].

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Egli dà l'ordine e solleva il vento tempestoso Che gonfia i flutti.

Salgono fino in cielo, ridiscendono agli abissi, L'anima loro si consuma nell'affanno.

Vacillano e barcollano come ubriachi E la loro sapienza è allo stremo.

E gridano al Signore nella tribolazione Ed egli li toglie alle angosce.

Egli muta la tempesta in bonaccia Sicché i flutti si placano.

Ed essi si rallegrano perché tranquilli. Cosi li conduce al porto del loro desiderio.

(Salmi, 107, 23-30).

La sorprendente descrizione del Salmo 6 5 è ispirata allo stesso stato d'animo, che, se è lecito illustrare le cose maggiori con le minori, ha ispirato il bell'inno Por Those in Peril on the Sea (Per chi è in pericolo sul mare) :

Con prodigi ci esaudirai nella tua giustizia O Dio della nostra salvezza,

Tu che sei la fiducia di tutte le estremità della terra E di coloro che sono lontani sul mare:

Che dài fermezza ai monti con la tua forza, Tu cinto di potenza,

Che acqueti il muggito dei mari, E il muggito dei flutti, Ed il tumulto dei popoli.

Anche coloro che abitano all'estremità della terra Temono i tuoi segni e farai gioire i luoghi

Da cui sorge l'alba e la sera. (Salmi, 65, 5-8).

Non si potrebbe trovare un'espressione piu efficace della formidabile maestà delle montagne di quella contenuta nel semplice distico di un poeta ebraico sconosciuto :

Nella sua mano sono gli abissi della terra; Anche la sommità dei colli gli appartiene.

(Salmi, 95, 4).

Per trovare uno stato d'animo piu tranquillo e gli in­canti di un paesaggio soffuso di pace sotto un cielo d'ab­bondanza, che beve nel riposo e nella freschezza la quie ta pioggia dell'autunno, ritorniamo al Salmo 65 :

Tu'

hai visitato la terra e l'hai inumidita Colmandola di ricchezze ...

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Hai irrigato i suoi solchi, Appianando ogni zolla,

L'hai ammorbidita con le piogge E benedetto i germogli.

Tu coroni l'anno con la tua bontà E le ruote del tuo carro stillano grasso.

(Salmi, 65, 9·I I ). Ed ecco un tema analogo in prosa, una prosa però che

si solleva a pura poesia grazie al suo ritmo, al suo equi­librio e alla sua carica di nostalgico affetto :

Poiché il Signore Dio tuo ti porterà in una buona terra, una terra di ruscelli, di fontane e di polle che zampillano nelle valli e sui colli, una terra di grano, di orzo, di viti e melagrani, terra di ulivi e di miele, terra dove mangerai pane abbondante, e non vi soffrirai penuria alcuna, terra le cui pietre sono ferro e dai cui colli potrai scavare il rame (Deuteronomio, 8, 7-9).

Perfino il piu banale fra tutti i luoghi comuni, quello che a noi può servire per riempire i vuoti nella conversa­zione, era pervaso, per gli Ebrei, da un senso di sublimità. Ecco come si parla del tempo nell'Antico Testamento:

La terra in cui entri per possederla è una terra di colli e valli, e s'imbeve della pioggia del ciclo, una terra curata dal Signore Dio tuo, gli occhi del Signore Dio tuo sono sopra di essa, dall'i· nizio dell'anno alla fine dell'anno (Deuteronomio, II, ll·I2).

Si potrebbero riempire tutte le pagine di questo capi­tolo con citazioni di passi straordinari che mostrano quel sentimento della natura che fu proprio di Israele. Ma vediamo solo piu qualche esempio. La personificazione ebraica della natura e l'infusione in essa delle massime esperienze religiose si mostra in questo passo del Libro di Isaia. Il fatto stesso che l 'atteggiamento sia affine nel­la sua essenza a quel rapporto Io-Tu a noi noto dal pri­mo capitolo, mostra chiaramente la distanza che separa gli Ebrei dai loro contemporanei:

Con allegrezza uscirete E con pace sarete condotti.

I monti ed i colli Risuoneranno di canti per voi

E tutti gli alberi dei campi Batteranno le mani.

(Isaia, 55, 12).

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Il passo ci ricorda il distico giustamente famoso del di­scorso dd Signore, nel Libro di Giobbe:

Quando cantarono in coro le stelle del mattino E tutti i lìgli di Dio gridarono di gioia.

(Giobbe, 38, 7) .

Ma non possiamo abbandonare l 'argomento senza ac­cennare all'amore ebraico per la natura animata, non me­no straordinario del senso della maestà della natura ina­nimata. La massima espressione di questo sentimento è il cosiddetto Cantico dei Cantici. Chi potrebbe scordare questi versi che celebrano fastosamente il fascino eterno della dolce primavera?

Levati amor mio, mia bella, E vieni.

Ecco, l'inverno è passato Si è dileguata la pioggia.

Appaiono sulla terra i fiori Il tempo degli uccelli canori è giunto E la voce della tonorella risuona nella nostra campagna ...

O amor mio che sei nelle cavità della roccia, Negli anfratti dei luoghi scoscesi,

Fammi vedere il tuo volto Fammi udire la ma voce.

(Cantico dei Cantici, 2, IO·I4).

Un abisso sembra dividere questa idillica bellezza e la grazia possente del cavallo di guerra descritto con parole tali da far esclamare a Carlyle : « non c'è nulla di piu su­blime in nessuna letteratura » :

Tremenda è l a gloria dei suoi sbuffi. Egli scalpi ta nella valle e gode della sua forza.

Esce incontro agli armati. Disdegna ogni paura e non si sgomenta

Ne si ritrae dalla spada. Sopra di lui risuona il turcasso Con furente fierezza divora la terra.

Non lo arresterà il suono della tromba Ah ! dirìl. udendola.

Fiuta da )ungi l'odore della battaglia, Il tuonare dei capitani e le urla.

(Giobbe, 39, 20-25).

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Veniamo anche a conoscere il gusto della vita e il com­piacimento dell'ebreo di fronte alla forza fisica, tratto che abbiamo talvolta associato al carattere greco, dall'ov­vio contrario di questa breve negazione : il Signore <( non trova piacere nella forza d'un cavallo, né nelle gambe di un uomo ».

Ma veniamo ora ad alcuni temi piu importanti sebbe­ne piu prosaici dall'apologetica teologica di Israele. Tut­ta la natura è opera del Signore e prova visibile della sua realtà. della sua potenza e della sua immediata parteci­pazione alle cose del mondo. Tuttavia l'umor scettico di Israele garantisce che la questione fu costantemente rie­saminata e che il concetto mantenne la sua supremazia soltanto dopo essere stato dibattuto, anche se non pos­siamo precisare il processo come vorremmo. Abbiamo già delineato taluni di questi dibattiti.

Un contributo importante a questo filone di pensiero viene offerto dall'esperienza degli Ebrei deportati a Ba­bilonia. Allontanati da Gerusalemme, che il loro provin­cialismo faceva ritenere una delle città piu importanti del mondo, e trapiantati nella pianura babilonese, non lungi dalla grande città imperiale, gli esuli , passate le pri­me nostalgie, cominciarono a rendersi conto che le me­raviglie e le conquiste della civiltà babilonese rendeva­no misera, al paragone, la loro povera cultura rustica. Con il passar del tempo i piu aperti di mente fra loro si avvidero del fasto e della magnificenza della religione nemica, conobbero la potenza del supremo Marduk, da­vanti al quale, alla prova delle armi, la misera poten­za di Iahvé risultava un'irrisione ai bisogni del popolo. Serpeggiò forse la delusione, e fu essa a indurre molti ebrei ad abbandonare il retaggio religioso e ad assimi­larsi ai conquistatori. Erano arrivati in un mondo piu vasto.

Dall'imperiale Babilonia partivano linee di comunica­zione con l'Iran (di cui i prigionieri avevano appena sen­tito parlare) e, a occidente, attraverso l'Asia Minore, con il mondo greco. Nella città stessa, era facile incontrare ogni giorno mercanti e funzionari provenienti dalle estre­mità del mondo conosciuto. Alle menti libere ed aperte,

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Giuda e tutto ciò che rappresentava, dovette sembrare ben meschino e remoto . L'urto di questa cultura stranie­ra che stava corrodendo la vita della fede ebraica era an­cor piu forte in quanto esattamente a quel tempo l'os­servazione degli astri presso i Babilonesi stava diventando una vera e propria scienza. Dinanzi agli Ebrei sconcertati si schiudeva un mondo immenso, meraviglioso, di una re­golarità tale da mettere in ridicolo l'opinione che lahvé, dio della angusta Palestina, avesse creato non solo il sole e la luna ma anche la moltitudine delle stelle. Ed eccoci a questo punto, non di fronte alla prima integra­zione fra scienza e religione (evidente fin dai primordi del pensiero umano), ma a una delle loro prime colli­sioni, espressa in una forma che non doveva troppo va­riare fino ai giorni nostri. Le stesse considerazioni, infat­ti, non mancarono di far sentire il loro peso in occasione di recenti scoperte astronomiche. Ma come potevano es­sere affrontate nel VI secolo a. C.? Abbandonarono forse gli Ebrei la loro fede per il nuovo falso Messia, la scien­za? Certo non i migliori fra di essi. Si ritrassero forse in un isolamento intellettuale rifiutando di riconoscere le scoperte della scienza? Si limitarono a riaffermare antichi dogmi? Niente di tutto questo. La loro vitalità intellet­tuale permise loro di affrontare il problema con grande coraggio : riconobbero la validità della nuova conoscenza e le negazioni che implicava, e, accettata la realtà dei fat­ti, ricostruirono la loro fede su una base nuova e miglio­re, creando una religione migliore.

Ma fortunatamente fra questa gente perplessa viveva il grande poeta e pensatore che chiamiamo il Deutero­Isaia. Egli si rese conto che la difficoltà era intrinseca, non tanto al carattere di Ia:hvé, quanto al concetto inde­gno che di Lui aveva il popolo. Accogliendo audacemen­te le scoperte scientifiche davanti alle quali gli Ebrei di mente meno salda restavano sbigottiti, proclamò che, !ungi dal distruggere la fede nel Dio di Israele, esse era­no prove della sua grandezza e realtà. Dio infatti è il creatore ed il padrone dell'universo fisico.

Levate in alto i vostri occhi e osservate chi ha creato tutte que­ste cose, chi ne guida con ordine le schiere, chiamandole tutte per

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nome; e come per grandezza della sua potenza e della sua forza, non una rimanga indietro (Isaia, 40, 26).

Gli elementi cosmologici che già erano familiari ven­nero trattati dal Deutero-Isaia in forma fresca e robusta. Egli non si limita a prendere coscienza, con rinnovata forza persuasiva, del piu vasto mondo dei suoi tempi, bensi assume un atteggiamento addirittura affine a quello degli scienziati-filosofi moderni quando afferma che il mondo dev'essere originato da una mente originale.

Chi ha misurato le acque nel cavo della mano E pesato i cieli nella palma?

E radunato la polvere della terra in una misura E pesato sulla bilancia le montagne E le colline sulla stadera?

Chi diresse lo spirito dd Signore? ... Chi gli ha dato consiglio? ... Chi... gli ha insegnato la sapienza

E mostrato la via della comprensione? (Isaia, 12-14).

In tempi posteriori gli scrittori sapienziali riprendono frequentemente questo tema preferito che rappresenta pertanto un apporto sostanziale al pensiero ebraico, che è fra l'altro alla base della lunga dissertazione sull'intel­ligenza trascendente del divino posta sulle labbra del Si­gnore nell'ultima parte del Libro di Giobbe.

Dov'eri tu quando io gettavo le fondamenta della terra? Dimmelo se tu hai intelligenza.

Chi ne fissò le misure? - Se hai sapienza. Sopra che cosa furono appoggiate le sue basi?

E chi ne pose la pietra angolare? ... Hai tu comandato al mattino da quando cominciarono i giorni?

Hai mostrato all'aurora il suo posto? Dov'è la strada alla dimora della luce?

E dov'è il luogo delle tenebre? . . . Puoi tu legare il grappolo delle Pleiadi

O sciogliere il vincolo d'Orione? ... Conosci il tempo in cui figliano le capre selvatiche delle rocce? Hai contato i mesi della loro gravidanza?

(Isaia, 38, 4; 39, 2).

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Cosi prosegue questa lunga rassegna dei complessi rap­porti fra la creazione animata e l'inanimata. Non si tratta, in parte, che di una svalutazione della conoscenza uma­na: il mondo è troppo complesso perché la mente umana lo possa afferrare. Ma la trattazione verte soprattutto sulle meraviglie dell'intelletto infinito che non solo le ha istituite ma le ha anche disposte secondo i loro giusti rapporti .

È bene rendersi conto che il Deutero-Isaia si pone consapevolmente il problema dell'apologetica, e lo tratta esplicitamente: questo è il sostrato di tutti i suoi poemi. Egli polemizza contro le pretese dei grandi dei pagani del suo tempo, ma il quesito fondamentale rimane: « Come fa l'uomo a, sapere razionalmente che Dio esiste e che Egli è quell'essere che la tradizione ebraica preten­de che sia? » Egli ricorre alla rappresentazione di un tri­bunale cosmico dove Iahvé è insieme attore e giudice : propone le sue istanze e introduce i suoi testimoni e poi sfida i convenuti a difendersi. Ma a questo punto c'è un totale silenzio ed è Iahvé che pronuncia la sentenza, non per la contumacia degli altri ma per la raggiunta dimo­strazione della loro assoluta impotenza e inanità. La pe­rorazione di Iahvé, oltre che sul punto ora riferito, si basa sulla sua operosità nella storia e sul fatto che Egli è tuttora la forza vitale che regge le cose umane. Nono­stante alcuni elementi nuovi bisogna riconoscere che il Deutero-Isaia non fa che riesporre un argomento già an­tico fra i pensatori israeliti. Già Isaia l'aveva audacemen­te espresso centocinquant'anni prima, sostenendo che il Dio di Israele si serve degli Assiri per i suoi fini supremi. Ma non è nemmeno un tema particolare di Isaia, trovan­dosi presente in tutto l'Antico Testamento. I pensatori ebraici riconoscono che il significato dell'universo è inin­telligibile, salvo, semmai, in funzione della vita umana, che ne costituisce l'espressione piu alta ed il pensiero posteriore incorrerà in gravi errori per non aver tenuto conto di questa tesi. Per loro lo studio proprio all'uomo è lo studio dell'uomo.

Ecco il campo di indagine dei « sapienti », che furono

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DIO 291 studiosi della vita umana sotto la visuale dell'etica e della metafisica; essendo la loro ricerca secolare, condotta da generazioni e generazioni di dotti, la storia e la società si prestavano a essere studiate secondo i metodi della ri­cerca sperimentale moderna. Non si esagera dicendo che furono empirici, per quanto il metodo empirico ancora non fosse diventato autocosciente e pertanto potesse an­che scadere da un livello rigorosamente scientifico e farsi dogma tradizionale. Tuttavia la loro attività di per se stessa dimostra l'acuta attitudine intellettualistica del­l 'antico Israele ed il cammino percorso dal popolo nel­l'elaborazione di validi sistemi di pensiero. I saggi ten­tano di elaborare codici di comportamento tendenti ad attuare l 'ideale della buona vita comunemente accettato, ma vedono anche ogni cosa disporsi al giusto posto in un flusso di continua azione e di storia, capace di portare a determinati risultati secondo gli scopi divini. Dobbia­mo ora abbandonare questo tema avvincente, cosi som­mariamente accennato, per riprenderlo fra poco. Comun­que c'è un punto che vogliamo chiarire meglio : il con­cetto dell'universalità di Dio in Amos dipende in certa misura dal fatto che egli « sente )> un criterio comune­mente umano del bene e del male. A suo tempo e luo­go porteremo altre testimonianze dell'effettivo pensiero di Amos, che è una delle fonti piu ricche per appurare le credenze di Israele sull'essere e sulla natura di Dio. L'universale rispetto dell'umanità per quelle piu alte qualità morali che per l'ebreo si concentrano nel concet­to di giustizia - trova la sua migliore spiegazione razio­nale in una origine cosmica. È ciò che taluni pensatori moderni chiamano un <( processo )); ma per la mente ebraica tale processo resta un processo personale. Nell'in­cessante tendere dell'uomo dal bene al meglio, nel suo disprezzo del basso e del meschino, nell'universale omag­gio alla verità, alla nobiltà e all'altruismo, il pensiero ebraico, come il nostro, ravvisa un mistero profondo che costringe la speculazione ad avventurarsi oltre l'imme­diato ed il tangibile, nella sfera della causalità, della na­tura e dell'essenza. I pensatori ebraici arrivano a conclu-

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dere che ci si trovi dinanzi alla rivelazione della natura di Dio : Dio è giustizia e verità.

Oltre all'argomento dedotto dalle meraviglie, dalla evi­dente razionalità dell'universo e dal decorso della storia umana, passata e futura, quale egli pensa possibile pre­vedere, il Deutero-Isaia aggiunge ancora una considera­zione. Essa è presentata cosi succintamente che si può correre il pericolo di ravvisarvi piu di quanto non con­tenga. Con la sua immagine preferita della scena di tri­bunale, egli fa dire al Dio di Israele : <( Tu sei il mio testimone » (Isaia, 43 , IO, 1 2 ; 44, 8) . Il contesto può far in certo modo supporre che egli si riferisca a Israele come beneficiario della generosità e delle possenti comu­nicazioni di Dio, del quale è solo testimone. Tuttavia, se questo può essere il senso della massima parte dei passi, non può non esservi anche il concetto che Israele possa testimoniare di tutta la propria conoscenza di Dio. Qua­lunque sia l'interpretazione giusta di questi passi, è certo che questo concetto è andato acquistando forza e impor­tanza nel pensiero ebraico. Uno dei salmisti esclama: « Assaggia e vedi che il Dio è buono » e ancora:

Le decisioni del Signore sono rette E perfettamente giuste

Da desiderarsi piu dell'oro, Di molto oro fino.

E piu dolci del miele E del miele vergine.

(Salmi, 19, 9-10).

O come amo la tua legge, che è la mia meditazione di ogni giorno. (Salmi, 1 19, 97).

Non si tratta che di esempi, tratti da una quantità di affermazioni del genere, ricavabili dai Salmi e da tutta la poesia dell'Antico Testamento. L'israelita devoto sen­te e sa, per la personale esperienza che ha del suo Dio, di possedere un tesoro dei piu rari e in ciò vede una prova della realtà e della bontà della Persona che la sua fede tradizionale postula come centro e significato ultimo dell'universo fisico. È ovvio che si imponga la questione della validità di questo pensiero : è probabile che l'ebreo

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DIO 293 sia andato oltre i procedimenti dell'osservazione e del pensiero per vagliame la validità in sé e per sé? È un quesito che si potrà meglio esaminare studiando l'atteg­giamento generale di Israele verso la vita umana.

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Capitolo nono

L'UOMO

Si dice che per l'ebreo dell'antichità esistevano tre realtà, Dio, l'uomo ed il mondo. L'osservazione è meno profonda di quanto sembri a prima vista : che cos'altro esiste, infatti? Tanto piu, data la sua particolare perso­nalità, come avrebbe potuto l'ebreo prescindere anche da una sola di tali realtà? Comunque è ormai tempo di vol­gerei alla seconda di esse.

Israele era ben conscio del problema cruciale di tutto il pensiero umano: il problema dell'uomo. I pensatori ebraici meditarono su questo strano bipede che si aggira altero, rivaleggiando arrogantemente con gli dei pur sa­pendo di essere ben al di sotto della divinità, consape­vole dei suoi stretti rapporti con le bestie pur rifiutando di essere un bruto; eppure sempre, anche nei momenti di maggior superbia, ossessionato dal senso della propria insufficienza e dalla certezza che la nemesi in agguato a ogni suo passo avrà in ogni caso la meglio su di lui. Che sorte avranno dunque tutte le sue speranze e tutte le sue opere? Di per sé questi pensieri non hanno nulla di no­tevole, poiché anche i primitivi si ponevano domande circa la loro origine e natura: la singolarità del pensiero di Israele sta nell'elevatezza delle conclusioni, nell'aver trovato una soluzione al problema dell'uomo, problema che perfino ai nostri giorni taluni considerano superiore a buona parte del pensiero moderno e all'aberrazione del pensiero greco appiccicato alla cultura occidentale.

La coscienza del problema era largamente diffusa fra i pensatori ebraici, a giudicare dai frequenti accenni e dal­le trattazioni estese, quale il Salmo 90, dove, con fraseg-

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gio maestoso si prospetta l'eternità del mondo e del di­vino, al cui paragone l'uomo appare transeunte, fragile e fallibile : Prima che fossero create le montagne

O anche prima che tu formassi la terra e il mondo, Dall'eternità all'eternità tu sei, o Dio ... Mille anni ai tuoi occhi

Sono come ieri, passato appena trascorso E come una vigilia notturna.

Quanto alla sorte dell'uomo :

Tu travolgi gli uomini come una pien·a, essi sono come in sogno; Sono come l'erba che germoglia al mattino

Al mattino essa fiorisce e vigoreggia, La sera è falciata e rinsecchita ...

Hai posto dinanzi a te le nostre iniquità, I nostri peccati segreti alla luce del tuo sguardo ...

Svaniscono i nostri anni come un sospiro. (Salmi, 90, 2-9).

Non è meno degno di essere citato il Salmo 8 che pone esplicitamente la questione:

O Signore nostro Signore, come è eccelso il tuo nome su tutta la terra!

Che hai posto la tua gloria sui cieli. Quando contemplo i tuoi cieli

Opera delle tue dita La luna e le stelle

Che tu hai disposto, Che cosa è l'uomo ... ?

Nell'immensità e nella potenza dell'universo fisico, l'uo­mo è cosf evanescente e piccolo ! E tuttavia, afferma que­sto pensatore, egli occupa una posizione unica.

Uno degli elementi che indussero Israele ad affrontare il problema fu l'ovvia somiglianza che corre fra l'uomo e ]e bestie. Sapranno che nei suoi tremila proverbi Salo­mone « parlava di uccelli e di bestie e di cose striscianti )> (l Re, 4, 32-3 3 ), ma questi interessi erano antichi in Oriente, dove le favole di piante e di animali, del genere familiare al mondo moderno grazie alle Favole di Esopo,

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erano volte a scopi didattici e impiegate per indagare sulla natura dell'uomo. La notissima favola di Totham nel nono capitolo del Libro dei Giudici è l'indi

.cazione

piu chiara che ci provenga da Israele circa la diffusione di tale genere. Ma certi passi del Libro dei Proverbi, certe figure profetiche e soprattutto questa netta dichia­razione a proposito di Salomone mostrano che i pensa­tori ebraici riconoscevano la nostra affinità con gli ani­mali. Ma tutto questo dovrebbe farci ritenere che l 'uomo sia null'altro che un bruto un po' piu intelligente? Vista la libertà che si concedeva lo scettico pensiero di Israele, non sorprende che la risposta fosse affermativa, né stu­pirà che sia proprio l'Ecclesiaste ad affermarlo con fran­chezza . Ecco la sua conclusione:

Dissi in cuor mio riguardo ai figli degli uomini che, poiché Dio li ha creati e vede che hanno. la natura delle bestie, il destino dei figli degli uomini ed il destino delle bestie è uno solo: come l'uno muore muore l'altro, hanno tutti lo stesso spirito, e l'uomo non è superiore alle bestie, perché tutto è futile ... Chi sa se lo spirito dell'uomo salga verso l'alto e lo spirito della bestia scenda in basso verso la terra? (Ecclesiaste, 3, 18·21).

Qui le pretese di supremazia dell'uomo sono decisa­mente stroncate : la nostra vita, come quella degli ani­mali è prospettata in termini puramente biologici , e quando la morte ci sopraffà, non è avvenuto nient'altro che una decomposizione biologica e quindi chimica. Ma i termini stessi nei quali si esprime il pessimismo dell'Ec­clesiaste rivelano che il pensiero ebraico era, nel suo complesso, di opinione contraria : l 'autore tenta eviden­temente di criticare e stroncare un'opinione accettata.

Gli « amici », nel Libro di Giobbe, esprimono lo stes­so stato d'animo: ed è chiaro che assegnano all'uomo una posizione assai bassa. Difatti Bildad parla in questi termini dell'uomo : « l'uomo che è un verme, ed il figlio dell'uomo che è un bruco » (Giobbe, 25 , 8) . Elifaz in una dichiarazione consimile, sottolinea la fragilità e la transitorietà della vita umana:

... Loro che abitano case di fango Che hanno per fondamenta la polvere Che sono schiacciati innanzi alla tarma!

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Fra mattino, e sera sono annientati, Periscono per sempre senza che alcuno vi faccia caso.

Non è strappata dentro di loro la corda della loro tenda? Muoiono, e senza saggezza.

(Giobbe, 4, 19-21).

Ma dobbiamo evitare di trarre conclusioni simili dalla contrita confessione d'un sal.mista:

Ma sono un verme e non un uomo Sono l'obbrobrio degli uomini, e oggetto del disprezzo

del popolo. (Salmi, zz, 6).

che capovolge la tesi degli amici di Giobbe. Infatti è lo scrittore stesso che, in quanto verme, pretende di essere al di sotto del livello umano. La credenza caratteristica di Israele non trova un'opposizione piu decisa di quella del Salterio, e piu particolarmente del Salmo 8, dal quale si sono appunto tolte le due ultime righe di citazione. La Volgata cosf traduce il passo che ci interessa:

Che cosa è l'uomo, che tu ti debba ricordare di lui? O il figlio dell'uomo che tu lo debba visitare?

Lo hai fatto poco inferiore agli angeli Lo hai coronato di gloria e di onore.

(Salmi, 8, 4-6).

Ma la parola tradotta con « angeli l> è 'elohim, il termine consueto e abituale per Dio, che in nessun testo significa angeli. Non ci sono ragioni che possano giustificare i tra­duttori della versione inglese di re Giacomo: essi tradus­sero <( angels », fondandosi su presupposizioni dogmati­che che rendevano loro impossibile sollevarsi all'audacia del concetto ebraico. Il passo dice con la massima chia­rezza possibile, << lo hai fatto di poco inferiore a Dio ».

Pochi aspetti denunciano l'unicità del pensiero ebraico con piu chiarezza di questo concetto del carattere fonda­mentale della vita umana. Fino a oggi la mnestosità della concezione per cui l'uomo, per sua natura è « di poco in­feriore a Dio » è stata sottovalutata. Il concetto viene formulato da un popolo che ha avuto modo, non meno della nostra generazione, di conoscFre gli abissi di depra-

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vazione ai quali può giungere il cuore umano. E che d'al­tra parte nutre una fede senza pari in un Dio trascen­dente. Eppure il paradosso sussiste, l'uomo « è solo un fiorellino » e tuttavia <( coronato di gloria e d'onore ». Non è fatto cenno alla contaminazione della carne, all'es­senziale malvagità della materia, al male del mondo ed a tutte le sue conseguenze, idee che abbiamo erratamente attribuite all'Oriente e che a loro volta hanno causato una stortura del nostro pensiero religioso per due mil­lenni; esse sono idee greche e non ebraiche, derivano da Platone e non da Mosè. È vero che gli Ebrei avallereb­bero le parole del nostro inno: <( Fragili figli della pol­vere e deboli quanto fragili », ma in quella debolezza non c'è traccia di peccato originale. Anzi, l'uomo è di eccelse origini ed il suo destino, di conseguenza . è un destino altrettanto eccelso. Echeggiando le parole della Genesi, il nostro salmista continua: <( Tu gli desti potere sull'opera delle tue mani; hai posto tutte le cose sotto i suoi piedi » (Salmi, 8, 6).

È nei racconti della creazione che troviamo l'afferma­zione fondamentale e quasi integrale della soluzione che gli Ebrei fornivano del problema dell'uomo: Dio lo ha fatto a sua immagine. In un'altro racconto, l'uomo viene foggiato da mani divine con la polvere della terra; poi Dio gli soffia nelle narici il respiro della vita, ed ecco l'uomo diventato un essere vivente. La natura terrestre e la natura divina dell'uomo sono entrambe presenti. Ma il punto piu rilevante è che la nozione dell'antitesi è no­stra e non ebraica : per Israele si tratta di un tutto in­scindibile. A poco a poco Dio crea anche il mondo, e dichiarando via via che ogni cosa è buona. Il mondo, come l'uomo, proviene direttamente dalle mani del crea­tore, in vaganti nuvole di gloria. Lo stesso indirizzo in­forma tutto il pensiero ebraico : per terribili che possano sembrare i mali incombenti, per fosche che siano le te­nebre, tuttavia Israele nutre la convinzione fondamen­tale che il mondo è tutto pervaso dalla sua divina ori­gine e ispirato al suo alto fine.

Un problema rimane insoluto : la natura ultima della materia. La nostra teologia ha postulato il dogma del-

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la creatio ex nihilo, ma certo non se ne trova traccia nel­l'Antico Testamento. Anzi, è sorta la questione se il passo della Genesi ( 1 , 1 ) non voglia piuttosto intendere il contrario. La frase è di una costruzione insolita per l'ebraico e si è sostenuta decisamente la tesi che la tra­duzione esatta debba suonare cosi : « Quando Dio co­minciò a creare i cieli e la terra, quando la terra era una distesa deserta, e le tenebre coprivano l'abisso e lo spi­rito di Dio incombeva sulle acque, allor Dio disse " Sia la luce! " ». Vale a dire: la materia non fu creata, ma era preesistente. Il mondo ha una duplice origine : una massa informe e caotica di materia da un lato e Dio e le sue opere dall'altro. Sfortunatamente gli altri accenni circa l'origine del mondo che troviamo nell'Antico Te­stamento non ci aiutano a risolvere il problema e dob­biamo !asciarlo insoluto. Ma tutto ciò non deve restrin­gere le ribadite affermazioni che abbiamo fin qui fatto a questo proposito: anche se Israele concepisse la mate­ria come eterna e preesistente, non per questo la disprez­za, tanto piu che è stata ritenuta degna di servire quale mezzo e oggetto dell'opera creativa di Dio, e tanto piu che alla fine l'opera completa fu detta <( ottima ».

Ma il pensiero ebraico va ancora oltre. Vale la pena di ribadire che l'uomo, creatura di carne, non è però se­gnato da alcun marchio di impurità o indegnità. Dalla peccaminosità dell'uomo ci occuperemo fra poco, poiché essa è un fatto ben reale per Israele, ma non deriva dalla natura carnale. Dio ha creato l'uomo e nei giorni della piu che celestiale beatitudine primordiale ha avuto rap­porti con il nostro progenitore, un essere della nostra natura. Ma Dio ha anche ingiunto alla prima coppia: (( Siate fecondi e moltiplicatevi e riempite la terra e ab­biate dominio », ed il comando è rimasto alla base della vita ebraica. Per tenebrosi che appaiano il presente ed il futuro, il devoto israelita non può cercare una libera­zione per la sua razza astenendosi dal procrear figli. Ge­remia, è vero, adottò questa soluzione, ma si pose con ciò stesso al di fuori del suo popolo. Dio ha comandato: <( Siate fecondi e moltiplicatevi » e a parte qualche pra­tica rituale di digiuni e altre restrizioni, e se si eccet-

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tuano gli Esseni, la cui apparizione è cosi tarda che pos­sono anche non essere considerati tipicamente ebraici, non vi è traccia di ascetismo in Israele. Il celibato ed una particolare �< immacolata concezione » sono idee en­trate nella nostra tradizione religiosa da fonti estranee all'Antico Testamento. Per Israele ogni concezione è immacolata, essendo istituita da Dio, e date le semplici idee scientifiche del tempo, doveva sembrare un dono diretto della divinità. Conoscevano, si, il processo bio­logico, ma era pur sempre Dio che elargiva oppure, se­condo i casi, impediva la concezione. I fanciulli erano una benedizione del Signore ed un segno della sua gra­zia. Tuttavia ogni lettore della Bibbia correrà col pen­siero alla con trita confessione del Salmo 5 r :

Poiché fui creato nell'iniquità E mia madre mi concepf nel peccato.

È un passo che ha generato parecchie storture nel­l 'interpretazione delle idee bibliche. Ma anche se accet­tiamo il passo in un senso ed un contesto tutti partico­lari, non possiamo fare a meno di osservare che esso non ha paralleli nell'Antico Testamento. Dobbiamo perciò considerarlo un'iperbole poetica. Ma proprio per questo i commentatori, saggiamente, vi ravvisano un significato nazionale: come il poeta in Isaia (43, 27) parla di un peccato originale nazionale ( « Il tuo primo padre pec­cò » ), cosi in questo passo lo scrittore devoto pensa a sé in quanto erede della tendenza a disubbidire, propria del suo popolo. A ragione si è detto « La madre qui è Israele » .

I fondamenti di tutti questi altissimi concetti dell'uo­mo e del mondo non sono tali da consentirci un'analisi conclusiva. Ci troviamo infatti piuttosto dinanzi ad uno stato d'animo che a una ragionata presa di posizione. I pensatori di Israele, infatti , furono profondamente con­sapevoli dell'aspetto piu tenebroso della natura umana. Avevano avuto occasione di apprendere con dolore quan­ta perversità li circondasse, tanto nella natura come nei popoli vicini, tuttavia conservarono la fiducia nell'essen­ziale nobiltà dell'uomo in un mondo essenzialmente buo-

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L'UOMO JOI no. Si ribadisce spesso che l'atteggiamento dei Greci è libero, e che essi guardavano in faccia gli dei stabilendo con essi un rapporto affine a quello che corre fra uomini di pari rango. Che cosa avrebbe portato i Greci ad assu­mere un simile atteggiamento? Forse il fatto che an­ch'essi erano un popolo mediterraneo, allietato dalla lu­ce del sole? Forse perché anch'essi, come gli Ebrei, era­no un popolo di montagna che viveva una vita sociale atomistica in vallate isolate? Eccoci dunque a cercare nell'ambiente, piuttosto che nell'eredità della razza o nei ragionamenti del pensiero, la fonte di tutte quelle idee attorno a Dio ed all'uomo. Comunque si decida, è chiaro che la posizione di Israele è superiore a quella della Gre­cia e che il suo Dio si levò ben oltre l'umana debolezza degli dei greci. Ma l'ambiente non spiega tutto, perché Israele non rappresenta un caso unico nell'Oriente. I Siri e i Moabiti sono anche loro montanari del mondo mediterraneo, e non è il caso di indugiarci sul minor pre­gio delle loro conquiste religiose. Siamo portati a rite­nere che il concetto dell'uomo presso gli Ebrei non possa spiegarsi sulla base dell'isolamento, ma solo se lo si in­quadra nel complesso del loro pensiero. Gli Ebrei rico­noscono la superiorità dell'uomo sui bruti - perfino il temperato pessimismo dell'Ecclesiaste non arriva al pun­to di negarla - e riconoscendo nell'uomo l'esistenza di una strana essenza sottratta alla mera realtà biologica (essenza che per loro, come vedremo fra poco, era nien­temeno che un dono divino), erano portati a concludere che la natura dell'uomo si situasse fra l'uomo ed il bruto in una posizione soltanto « di poco inferiore a Dio ».

Tuttavia, nonostante questa sua eccelsa origine e na­tura, per il pensiero ebraico, l'uomo è un essere pecca­minoso. In questi estremi paradossali cogliamo le pro­fondità del concetto ebraico dell'uomo. Mai c'è stato un senso cosi forte della depravazione dell'uomo come in questo popolo, e noi abbiamo conservato un atteggia­mento consimile soltanto in virtu dell'eredità ebraica che ci sta alle spalle. La peccaminosità del peccato, se ci si concede di chiarire il pensiero con un'espressione al­quanto barocca, è il corrispettivo della trascendenza di

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Dio. Ci troviamo di fronte ad un altro, significativo pa­radosso. Tutto il pensiero di Israele riconduce in defini­tiva alla grande confessione: « Il Signore nostro Dio, il Signore è uno » . Il concetto del peccato è molto antico in Oriente e nella vita stessa dell'umanità, giacché risale senza dubbio a un'epoca anteriore alle prime culture orientali. Ma un abisso si apre fra queste affermazioni ed il pensiero di Israele. Nello stadio elementare della evoluzione religiosa il peccato è un atto che dispiace alla divinità e se questa ha soltanto una statura umana sia pure ingrandita, dominata da umani capricci, allora il peccato può anche non avere rilevanza morale o averne assai poca. Si può dire tutt'al piu che l'Oriente si è no­tevolmente avvicinato al concetto trascendentale del pec­cato. Ma per Israele il peccato è una offesa alla santità e alla giustizia soprannaturale che trascendono le nostre piu alte conquiste e perfino la nostra comprensione. È vero che la santità è una Persona, né per Israele è con­cepibile altrimenti, ma tale eccelsa natura pervade tutto il pensiero ebraico trasformando l'affronto personale in male morale. Resta vivo il rapporto personale perfino nelle esperienze piu profonde dell'esperienza individuale del peccato; il grande penitente confessa:

Contro di te, contro te soltanto, ho peccato, E fatto ciò che è male ai tuoi occhi.

(Salmi, 51, 4).

Ed un altro salmista, rappresentando la umana fallibilità dice,

Tu hai posto le nostre iniquità dinanzi a te, I nostri segreti peccati al tuo cospetto

(Salmi, 90, 8)

contro la pura luce di quella presenza « Tutta la nostra giustizia è un mucchio di stracci sporchi )>.

In questo paradosso si esprime il concetto dell'uomo per Israele. Egli è fatto a immagine di Dio, ma ad un li­vello un poco piu basso. È degno di stare accanto a Dio, eppure tanto distante da Lui che le massime conquiste umane, perfino le sue aspirazioni migliori, sono accette solo per grazia divina. Il paradosso merita di essere riba-

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dito: in esso, senza dubbio, sta la fonte del migliore e del piu alto pensiero di Israele e del suo incessante tra­vaglio morale. Ma dobbiamo delimitare il concetto per­ché l'esaltazione della trascendenza di Dio ha portato a deviazioni nel corso della storia teologica, perfino ai no­stri giorni. Dio è sf esaltato da Israele, ma non separato dall'uomo. Dio e l'uomo sono di uguale natura, e anche se le debolezze umane sono tali da far degenerare la so­miglianza in caricatura, purtuttavia l'uomo resta sempre un'immagine di Dio. Dio è nei cieli, Dio è ben diverso dall'uomo, ma è contrario allo spirito dell'Antico Testa­mento introdurre nel discorso l'avverbio che trova tanto favore nella speculazione teologica recente, quando essa afferma che Dio è <( assolutamente » diverso. I pensatori di Israele avrebbero respinto con indignazione l'idea. È vero che esistevano eccezioni, quali quelle rappresentate dall'Ecclesiaste e dagli « amici » del Libro di Giobbe. Ma il cinismo dell'Ecclesiaste è una caricatura grottesca, e gli « amici » vengono giustamente censurati dal grande autore del dialogo, per la fragilità della loro logica.

La teologia corrente mira a spiegare ogni peccato co­me espressione dell'orgoglio umano, spiegazione che po­trà forse valere per il pensiero piu tardo, ma per l'Antico Testamento soltanto qualora venga interpretato intel­lettualisticamente. In questo caso si può anche sostenere che l'uomo, essendo debole, può coscientemente violare i comandi di un Dio soltanto per una distorsione menta­le, gonfiando esageratamente la propria importanza. Ma i pensatori ebraici non sono certo di tale avviso : conosco­no e biasimano l'orgoglio umano, senonché per loro il peccato è essenzialmente una rivolta, volontaria e delibe­rata oppure inconscia , per colpa della quale si « dimenti­ca » Dio, lasciandosi abbagliare da altri interessi.

Tale essendo la natura dell'uomo, che cosa pensa Israe­le del suo destino? Abbiamo già esposto la nostra solu­zione. L'Ecclesiaste non ammette se non la disperazione. L'uomo muore come il bruto - e tutto finisce H. Anche in vita egli è incapace di fare alcunché. Dunque la miglior

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soluzione al problema dell'esistenza è « Vivi nel miglior modo possibile, e non farti troppe preoccupazioni ». Ma ovviamente una tale concezione non poteva soddisfare la grande corrente dei pensatori ebraici che possiamo chia­mare, pur riconoscendo l'inesattezza del termine, « orto­dossi ». Questi col tempo accettarono la credenza che già aveva imperato in Egitto, e che era indubbiamente ben conosciuta in Israele, secondo la quale la morte non è la fine ma l'inizio, una porta che si apre verso una vita piu vasta. Questo avvenne cosi tardi al periodo al quale risa­le la redazione dell'Antico Testamento, che se ne può di­re assai poco. Una delle poche trattazioni del tema parla brevemente della « vita eterna )> (Daniele, 12 , 2 ) , un al­tro passo esorta: « Destatevi e cantate, non rimarrete nel­la polvere )) (Isaia, 26, 19) . Non possiamo spingerei piu in là senza correre il pericolo di immettere nel testo idee posteriori. Perché Israele abbia cosi a lungo respinto la credenza che pure le era nota da tanto tempo è un pro­blema affascinante. Si può tuttavia congetturare che ciò dipenda dalla vicinanza dei culti pagani contro i quali Israele nei primordi era stata costretta a lottare.

Per Israele, per quasi tutto il periodo dell'Antico Te­stamento, il destino dell'uomo è pertanto un fatto meta­mente mondano. Il suo bene personale è da cercare in questa vita e le sue opere, quali che siano, sussistono so­lo in rapporto a questo mondo. L'ebreo però sopravvive alla morte attraverso la famiglia, ecco perché la prole è tenuta in maggior considerazione di quanto non avvenga per lo piu in altre comunità nazionali. Anche la tribu e la nazione sono veicoli attraverso i quali si trasmette ai tempi futuri il valore dell'uomo e come tali erano tenute alla massima fedeltà: l'idea non ci appare strana, per quanto ne appaia strana la formulazione, perché è lo stes­so motivo che ha spinto schiere di uomini ai nostri tem­pi a immolarsi sui campi di battaglia per l'ideale della sopravvivenza della libertà umana, cioè affinché la nostra civiltà, con tutte le sue possibilità e con la prospettiva di una cultura piu alta nel futuro continuasse a vivere. Ma, a parte tali speranze, l 'israelita cerca il valore ed il signi­ficato della vita non oltre i limiti della vita stessa.

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La sanità del pensiero ebraico mette alla base del con­cetto della buona vita un'abbondanza di cose materiali . Gli ebrei non sono santi macerati dai digiuni o asceti mal lavati : accettano con entusiasmo le buone cose della vita. L'accentuazione dei valori intangibili da parte dei profeti c degli altri pensatori religiosi non deve oscurare il fatto che per generale consenso una certa agiatezza è indispen­sabile per vivere in modo soddisfacente. È questa la spe­ranza e la promessa della terra alla quale la nazione era giunta in base ad una divina promessa : « una buona ter­ra, una terra di frumento e di vigne e fichi e melograni, una terra di ulivi e miele, una terra dove mangerai il tuo pane senza scarsità e godrai abbondanza di tutte le cose, terra le cui pietre sono ferro e dai cui monti scaverai il rame » (Deuteronomio, 8, 7-8). La povertà e l'afflizione si potevano sopportare grazie alla fede nelle realtà invi­sibili , ma non erano certo desiderabili, cosi come, d'altro lato, il desiderio di una grande ricchezza era raramente incoraggiato. Lo storico entusiasta del regno di Salomo­ne sembra misurare la felicità del re sulla sua ricchezza e cosi la prosperità di Giobbe è presentata come uno de­gli aspetti della sua fortuna, per quanto abbiano potuto, in questo caso, giocare le esigenze della rappresentazione letteraria. Altrove riscontriamo piuttosto l'ideale della moderazione. Uno scrittore depreca tanto la ricchezza co­me la povertà (Proverbi, 30, 7-9 ) e l'autore del Deutero­nomio prima citato ha un atteggiamento piu complesso di quanto non appaia di primo acchito, poiché aggiunge « Quando avrai mangiato e sarai sazio, allora bada di non dimenticare il Signore Dio tuo » (Deuteronomio, 6, I I-1 2 ; cfr. 8, I I sgg.). Questo ideale del giusto mezzo in tutta la vita si esprime nell'Ecclesiaste, e possiamo im­maginarci una certa compiaciuta sufficienza da parte del­l'autore che scrive:

Non essere troppo giusto, né diventare troppo saggio; perché ti dovresti annientare? Non essere troppo malvagio né troppo sciocco; perché dovresti morire anzi tempo? È bene che tu ti at­tenga a questo ma non lasci andar quello (Ecclesiaste, 7, x6-x8).

Ma può darsi che le idee piu antiche si siano cristalliz­zate sotto l'influenza del pensiero greco.

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Si è visto che per l'ebreo la vita è piena e totale solo quando sia diventato marito di una buona madre e padre di parecchi figli, anzi di moltissimi figli, poiché un poeta cosi esprime l'ideale comune :

I figli sono un'eredità del Signore. Come saette nelle mani del forte

Tali sono i figli avuti in giovcnru. Beato l'uomo che ne ha pieno il turcasso.

(Salmi, I27, 3-5).

Non restano dubbi sulla natura della buona moglie : è sensata, industriosa, operosa, brava amministratrice, che si alza presto, il rn·attino, per lasciare che il marito con­tinui a dormire (Proverbi, 3 1 , ro-3 1 ). E, s'intende, de­v'essere una buona madre nel senso nostro.

Ultimo elemento della felicità è una vita lunga. Tutto ciò si esprime meglio che altrove nel primo discorso di Elifaz nel Libro di Giobbe :

In sei tribolazioni egli ti libererà E alla settima nessun male ti toccherà ...

Nella fame e nella desolazione tu riderai; Né temerai le bestie della terra

E saprai che la tua tenda sarà in pace, E visiterai il tuo gregge e troverai che nessun capo manca •..

Saprai che grande sarà il tuo seme La tua discendenza sarà come l'erba del campo

A tarda età giungerai al sepolcro Come si stringe a suo tempo una bica di grano.

(5, I9·26).

Ma evidentemente la buona vita comprende anche ri­gidi criteri morali. Ce ne vengono forniti parecchi elen­chi piu o meno parziali. Quelli del Salmo I 5 e quello del Libro di Giobbe ( 3 I ) sono celebri, l'ultimo è stato am­piamente lodato. Ci basterà a questo punto una breve ci­tazione:

Beato chi non segue Il consiglio dell'empio,

Chi non si ferma sulla strada dei peccatori, Né siede sul seggio dei beffardi,

Ma suo diletto è la legge del Signore.

(Salmi, I, I-2).

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Un'esposizione adeguata dell'etica ebraica ci porterebbe assai lontano. Possiamo dire in breve che l'uomo buono è industrioso, onesto, generoso e benevolo. Non è neces­sario elencare le virtu negative. Ma dovremmo ricordare a proposito delle sue buone qualità che « l'uomo miseri­cordioso è misericordioso verso la bestia ». L'ideale non è limitato né nella concezione né nell'applicazione: in questo rispetto verso le ottuse bestie che servono l'uomo con tanta fedeltà e diligenza, risuona una nota non domi­nante, tuttavia significativa, su cui sovente insiste la let­teratura d'Israele. Ma è ovvio che questo sguardo d'insie­me - e ci spiace che la materia risulti cosi compressa -non basta nemmeno a indicare approssimativamente i ca­ratteri salienti dell'etica ebraica. L'uomo buono si inseri­sce come membro nella buona società perché nel pensie­ro di Israele la società, non meno dell'individuo, ha un suo carattere e si attira pertanto la sua punizione o la sua ricompensa. Il benessere e la felicità di una persona sono dunque connesse alla posizione del gruppo di cui fa par­te. Il suo merito o demerito sono strettamente legati al carattere generale del gruppo, dal momento che con la sua attività egli è in grado di influire sul gruppo stesso. Però è la società che determina la sorte dell'individuo e anche una personalità di primo piano non sfugge alla con­danna che colpisce la società, allo stesso modo con cui partecipa del generale benessere. Vedremo fra poco co­me l'individuo sia lentamente emerso fino a conquistare una indipendenza relativa. Tuttavia fino alla fine il pen­siero etico di Israele rimase altamente sociale.

Molto meno sappiamo dell'attenzione concessa da Israe­le all 'educazione della mente. Tuttavia sarebbe un errore credere che il problema gli fosse indifferente : la cultura era tenuta in gran conto. Pensiamo a Salomone, la cui grandezza era in gran parte dovuta alla « grandezza di cuore come la sabbia sulla riva del mare » elargitagli dal Signore. I profeti e gli altri capi religiosi sono cosi assor­ti nella loro campagna di riforma da concedere solo uno scarso interesse alla cultura, che tuttavia ha tanta parte nella loro vita e nella loro opera. Nella letteratura sapien­ziale però il fascino dell'erudizione e di una viva intelli-

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genza è · affermato in termini decisi ed espliciti. Le linee maestre della cultura intellettuale ebraica sono già state parzialmente esaminate, non ci resterà ora che comple­tarne l'esame. Possiamo compendiare l'aspetto mondano della buona vita con una frase forse pericolosamente con­cisa : l'ideale per Israele è un gentiluomo colto, nel senso migliore che diamo a questa espressione : un uomo agia­to, che conduce una normale esistenza familiare, osser­vando un'impeccabile rettitudine; gentile verso i cono­scenti, è capace di soddisfare i proprii interessi intellet­tuali.

Tuttavia si traviserebbe il pensiero ebraico troncando a questo punto la trattazione. La buona vita è infatti in primo luogo una vita religiosa e tutto quanto si è detto va situato in questo quadro piu ampio. Ancora una volta dobbiamo citare un testo famoso : l'ideale è che l'uomo « agisca secondo giustizia, ami la misericordia, e segua umilmente il suo Signore » (Michea, 6, 8) . È l'orienta­mento religioso a dare significato e duratura felicità alla vita. Il timore del Signore è l'inizio della saggezza - dei piu alti valori della vita. L'ebreo devoto, nella sua fede in Dio trova la risposta definitiva all'enigma della vita : la persuasione di avere individualmente un valore al co­spetto di Dio, per cui da Dio può aspettarsi una guida ed un aiuto. Questa fede implica una ricca esperienza di rap­porti mistici con il divino, una fiducia nei piani e nei pro­positi di Dio circa la nazione e l'universo, attraverso i quali l'individuo partecipa a cose poste ben oltre la sua transitorietà, acquistandosi cosf un significato nell'eter­no processo cosmico. Certo non dobbiamo cercare una tal fede in tutti gli antichi Ebrei dei quali ci sia dato di conoscere il pensiero : il contadino ignorante che abitava i colli di Israele non poteva certo modellare la sua conce­zione del mondo in tali termini. Ma a noi interessano so­prattutto i vertici piu alti raggiunti da Israele e fra poco esamineremo altri aspetti di questa visuale cosmica.

Tale è dunque la buona vita : e la sua negazione, nel pensiero o nelle azioni è peccato. A sua volta la salvezza consiste, a parte le ragioni nazionali, nel raggiungimento di questo ideale di vita. Nel pensiero ebraico scarseggia

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quell'elemento m1st1co che il pensiero cristiano collega all'esperienza della salvezza. L'immediatezza e semplicità del pensiero di Israele fanno si che, per la massima par­te del periodo dell'Antico Testamento, la conversione e la salvezza siano atti di volontà. Se un uomo pecca, la mi­glior cosa per lui è riformare la sua condotta. « Cessa di fare il male, impara a fare il bene » aveva predicato Isaia ( r , r 6-1 7). « Allontanatevi dalle strade del male, perché volete morire? » è una formulazione piu tarda della stes­sa idea (Ezechiele, 3 3 , I I ) . Era evidentemente una solu­zione troppo facile e semplicistica. Ma i pensa tori di Israe­le ben conoscevano la forza determinante dell'abitudine inveterata, inevitabile come le macchie del leopardo o la pelle dell'Etiope (Geremia, r 3 , 23). Le cattive azioni di Israele non permettono che il paese ritorni al Signore ( Osea, 5 , 4); « ogni immaginazione dei pensieri del cuo­re » è in certi casi « soltanto un continuo male » (Gene­si, 6, 5). Il peccato dei Giudei è scritto con una penna di ferro sulle tavolette del loro cuore (Geremia, 1 7, r ). An­che le circostanze e l'ereditarietà esercitano un potere coercitivo sulla condotta umana. Quando Israele penetra nella terra promessa, i rapporti con i Canaanei alimenta­no la tentazione di partecipare ai culti pagani : qualora mangiassero e si saziassero gli Ebrei potrebbero scordare il Signore loro Dio (Deuteronomio, 6, I I- !2).

Cosi nel corso dei secoli i pensatori di Israele furono portati ad una comprensione piu profonda dei problemi del comportamento umano, e giunsero a rendersi conto che esso scaturisce da1le sorgenti remote della personali­tà e non da circostanze fortuite. L'uomo generoso com­pie atti generosi, mentre il villano compie villanie (Isaia, 3 2 , 6-8). Dipende dal <( cuore » umano, per usar l'espres­sione dell'Antico Testamento. Paolo fornisce la versione classica del problema, nel settimo capitolo dell'Epistola ai Romani: trapela il senso dell'inanità della lotta con se stessi nel grido disperato: <( O uomo sciagurato che so­no, chi mi scioglierà da questo corpo di morte? » Ma l'e­sclamazione di Paolo, per quanto radicata nella sua per­sonale esperienza, non suona affatto nuova. Sotto questo aspetto come per molti altri versi, è lui l'erede diretto

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dell'ascendenza ebraica. I pensatori del periodo postesi­lico si volgono con calda speranza al giorno in cui il Si­gnore muti i cuori degli uomini e li renda capaci di ope­rare secondo giustizia.

E verserò su di voi un'acqua pura e sarete purificati da tutte le vostre sozzure e dai vostri idoli. E vi darò un nuovo cuore, e met­terò dentro di voi un nuovo spirito, toglierò dal vostro corpo il vostro cuore di pietra e vi darò un cuore di carne. E metterò il mio spirito dentro di voi e farò si che camminiate entro i miei precetti. E osserverete le mie ordinanze e le obbedirete (Ezechiele, 36. 2j·27).

In questi tempi si afferma l'ideale della legge scritta nel cuore, dettato da una profonda comprensione della umana capacità di rigenerazione.

Imprimerò la mia legge nelle loro viscere e la scriverò sul lo­ro cuore. Ed io sarò il loro Dio ed essi saranno il mio popolo. E l'uomo non farà piu da maestro al suo vicino, ed il fratello al fra­tello dicendo: Conosci il Signore, perché dal piu piccolo al piu grande tutti mi conosceranno perché io perdonerò la loro iniquità e non avrò piu memoria del loro peccato (Geremia, 31, 33-34).

Ecco un'espressione notevole della dottrina israelitica riguardante la grazia divina. Nel pensiero anteriore Dio è altamente emotivo e le offese alla sua dignità possono essere irreparabili, per cui il suo perdono era oggetto di congetture. È ben conosciuta la minaccia di far cadere i peccati dei padri sui figli della terza e della quarta gene­razione - per quanto si debba veramente ammettere che questa minaccia era rivolta ai « recalcitranti », ovvero, in linguaggio biblico, a « coloro che mi odiano » . Anche i profeti parlano di peccati che non saranno perdonati fin­ché vivano i loro autori (Isaia, 23 , 14) , oppure conside­rano problematico il perdono o il pentimento divino : « Può darsi che il Signore, Dio degli eserciti, avrà miseri­cordia per i superstiti parenti di Giuseppe » (Amos, 5 , I 5 ). Ma con il maturare del pensiero di Israele viene in primo piano l'illimitata grazia di Dio. « Come un padre ha pietà dei suoi figli, cosi il Signore ha pietà di coloro che lo amano, poiché conosce la nostra natura e sa che siamo polvere » (Salmi, 103 , 1 3- 14). Inoltre Dio non so­lo è pronto a perdonare il penitente, ma è egli stesso la

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potenza vitale capace di infondere forza alla penitenza umana; proprio nel senso che verrà dato alle parole nei tempi posteriori, egli salva il suo popolo dai peccati.

Entro queste linee diverse e varie è dato dunque di fis­sare il concetto della divina salvezza in Israele. A parte le molteplici determinazioni particolari, essa consiste es­senzialmente nel vivere nella grazia di Dio. Ed è un'e­sperienza dalle possibilità smisurate.

Le storie dei patriarchi ci tramandano il ricordo a noi ben familiare di individui particolarmente favoriti, che camminarono con Dio e vennero elevati ad un rapporto intimo con Lui. Abramo è tutt'ora noto con l'epiteto « amico di Dio ». Anche Mosè parlava con Dio come con un amico. Ma è da notare che tali esperienze erano confi­nate al passato leggendario. Quando si passa alla chiara luce della storia, d troviamo dinanzi ad un'esperienza ben diversa. Lo spirito di Dio può anche « piombare » su qual­che individuo degno ed eletto, disponendolo ad alti ser­vigi. Cosi sono investiti del potere i campioni della na­zione nel Libro dei Giudici. Un'esperienza analoga è ac­cennata nelle storie dei profeti del decimo e del nono secolo. Essi sono « uomini di Dio », un appellativo che tanto per la sua accezione in ebraico quanto per gli epi­sodi che vengono narrati di loro, è indice di un rango ec­cezionale.

Vale la pena di notare, comunque, che perfino queste fonti non sono prive di abbellimenti leggendari. Ci avvi­ciniamo al vero concetto che Israele nutriva di una « pas­seggiata con Dio » nelle vite dei profeti-scrittori. Biso­gna osservare che l'esperienza profetica è essenzialmente un rapporto personale con il divino. Nella quiete della sua vita interiore il profeta ode le parole del Signore, vi­ve col senso di un'elezione divina e di una divina investi­tura nonché di un rapporto intimo dal quale riceve guida, aiuto nonché direttive durante i giorni della sua missio­ne. Non è il caso di indugiare troppo adducendo esempi. Pensiamo all'esperienza di Amos che viene « tolto » al suo lavoro di contadino e mandato a profetare dinanzi a Israele; a Micha, ripieno dello spirito del Signore; al Si­gnore che parla a Isaia <( con mano forte » (Isaia, 8 , u ).

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Ma la vita di Geremia è particolarmente ricca : evidente­mente la narrazione della sua chiamata all'alto ufficio, co­m'è resa nel primo capitolo del suo libro, si deve proiet­tare nella luce del destarsi di un adolescente pensoso ad una concreta esperienza religiosa personale ed ai compiti della vita. E i passi famosi del libro che espongono i dub­bi e le lotte sostenute negli anni dell'attività profetica corrispondono alle esperienze religiose dei nostri tempi.

In breve, il pensiero ebraico, nelle sue massime mani­festazioni, capisce - potremmo dire - che l'individuo è in grado di udire nel profondo della coscienza la voce di Dio e può, attraverso i tramiti inesplorati dell'esperienza mistica, raggiungere con Dio una silenziosa comunione. Questa è anche l'opinione dei salmisti; ci basti trasceglie­re da una serie di passi rilevanti la confessione dell'au­tore del Salmo 73· Egli è perplesso e turbato dinanzi al­l'apparente ingiustizia con cui Dio governa il mondo : gli arroganti vivono nell'abbondanza, mentre i giusti sono afflitti tutto il giorno e castigati ad ogni risveglio. Queste considerazioni lo addolorano troppo profondamente.« Al­lora entrai nel santuario di Dio e considerai la loro sorte ultima » (v. 17). lvi gli giunge la risposta soddisfacente, non per il tramite di una voce, né per mezzo di una teo­fania celeste, bensi nella tranquilla meditazione delle real­tà della religione e della vita.

Col passar del tempo e sotto la pressione della crisi sociale e nazionale (e una crisi promuove sempre le atte­se apocalittiche) si ritorna a concetti simili a quelli espres­si nelle storie dei patriarchi. Non a caso la letteratura pseudoepigrafica viene attribuita agli eroi di quei tempi remoti, poiché cerca di far rivivere una concezione ormai abbandonata e soprannaturale dei rapporti fra Dio e l'uo­mo. Ancora una volta troviamo individui favoriti che stanno in un rapporto speciale, quasi sovrumano con Dio; a loro giungono messi angelici direttamente dal trono ce leste ed a loro trapelano visioni del mondo celeste e bar­lumi di progetti divini. Piu delle concezioni dei grandi profeti - che furono ereditate dalle idealità religiose dei tempi posteriori , questo atteggiamento del pensiero ha continuato, fino ai nostri giorni, a esercitare un richiamo

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particolare su quelle menti che, per ignoranza della sto­ria delle idee, o per qualsiasi altra ragione, vengono ten­tate dalle fantasticherie cabbalistiche.

Resta da esaminare l'atteggiamento di Israele verso il problema del male. Come mai esistono la sofferenza ed il peccato in un mondo creato da un Dio buono e onni­sciente? Ci è familiare la risposta ebraica all'interrogati­vo, fornita dalla storia della caduta dell'uomo. Dio pose la prima coppia nel giardino sacro, conferendole grandi privilegi, ma anche mettendola in guardia: « Non man­gerete dell'albero che sorge in mezzo al giardino, né lo toccherete affinché non moriate » (Genesi, 3 , 3) . Essi fe­cero esattamente ciò che era proibito. Vennero sedotti da un maligno serpente, è vero. Tuttavia era in loro po­tere rifiutare: le parole del serpente non erano state che un invito. Viene cosf affermata la libertà umana, integra e pura. Da essa provengono tutti i nostri mali, cosi af­ferma il testo. Ma ne deriva anche qualcos'altro, perché l'albero misterioso era l'albero della conoscenza dd bene e del male.

Sarebbe ozioso voler esaurire la profondità di tale con­cetto, ma evidentemente si tratta della versione ebraica del mito diffusissimo del furto delle prerogative divine da parte dell'uomo. Viene spontanea alla mente la ver­sione greca della storia: Prometeo ruba il fuoco agli dei dandolo all'uomo. Viene perciò incatenato vivo ad una roccia nel Caucaso dove un'aquila gli rode senza tregua il fegato. L'idea non nacque certo fra i Greci; era di ori­gine orientale. L'amicizia di Ea per l'uomo ed il concetto (che andò elaborandosi nel tempo) di Osiride, patrono della civiltà, che soffre per opera di Seth, rappresentano altrettante variazioni dello stesso problema. L'Oriente ed in particolare i pensa tori di Israele specularono sulla qua­lità misteriosa che separa l'uomo dal resto del creato. Egli possiede il fuoco degli dei (o meglio, nella versione ebraica, si è assicurata la conoscenza del bene e del male) e perciò soffre e pecca. Ma senza di essa sarebbe men che uomo.

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Essere umani significa essere liberi; noi possiamo af­fermare la nostra volontà ed i nostri propositi, anche con­tro l'intero creato, !imitandoci a dire : « Cosf decido ». Quale arroganza mostruosa : nella sua spregevole limita­tezza l'uomo pretende di orientarsi in un universo vasto e misterioso! Ma chi se non Dio stesso può avere una conoscenza sufficiente a guidare le sue azioni? I pensa­tori ebraici affermano che l'uomo debole e finito è ap­punto fatto a immagine di Dio. È una persona libera ep­pure è colpito da tutti gli errori, le iniquità ed i dolori che derivano da quella sintesi di finitezza e libertà.

Il grande pensatore che scrisse il dialogo di Giobbe an­dò però ancora oltre. L'esegesi del libro è ancora irretita da mille difficoltà; non si è raggiunto alcun consenso ge­nerale sul suo significato essenziale, ed anche la figura dell'intermediario fra Dio e Giobbe rimane di significato incerto. Comunque sembra che l'autore adombri l'audace idea che Dio stesso soffra. Il dolore e l'angoscia sono nella natura piu profonda delle cose, vivere è soffrire, e piu intensamente si partecipa alle cose piu alte della vita, tanto piu si è votati al dolore.

Tuttavia solo poche intelligenze scelte poterono pene­trare fino a tal punto. Quanto agli altri, era già notevole che riuscissero a capire come una gran parte del dolore sceso a oscurare la storia dell'umanità fosse opera del­l'uomo. Certi individui, per consapevole peccato o per sciocchezza, attirarono le sofferenze, presto o tardi, su sé e sugli altri. Il peccato di Adamo fu ereditato da tutti i suoi discendenti, quello di Davide portò la peste sul po­polo (II Samuele, 24, 1 5 ). La profonda verità della sof­ferenza come espiazione di colpe altrui, cosi bene raffi­gurata nei canti del servo di Dio (Isaia, 50, 4-9 ; 5 3 , 2-9) . era intimamente intrecciata al pensiero religioso di Israe­le. Inoltre alla sofferenza veniva riconosciuta una funzio­ne disciplinare : era mandata non solo per punire, ma per guidare. L'autore del primo discorso di Elihu svela una profonda comprensione quando dice al sofferente:

Lo riprende anche per mezzo del dolore sul suo letto E fa marcire rutte le sue ossa ...

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Se con lui sarà un interprete ... Che mostri all'uomo ciò che per lui è bene,

Allora Dio è misericordioso verso di lui. (Giobbe, 33, 19-24).

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Eppure è caratteristico che tutto ciò sia inquadrato in un sistema cosmico che dipende esclusivamente dalle coscien­ti decisioni di un Dio personale. Quando la nazione pec­ca, Dio manda la sconfitta e altri disastri. È questo l'in­segnamento chiaramente enunciato nel Libro dei Giudi­ci e tale è anche l'avvertimento dei profeti. Dio destina bene o male secondo il comportamento umano, ma il rea­lismo della mente ebraica non può appagarsi in modo tanto semplicistico. Ben presto ci si rende conto che la vita è troppo complessa per ammettere una formula del genere. L'abbondante letteratura che tratta del problema è nota a tutti i lettori dell'Antico Testamento; specie ta­luni salmi ricercano una spiegazione piu profonda, capa­cc di accordarsi con l'esperienza. Taluni di questi tenta­tivi interessano assai poco : sono poco piu di una riaffer­mazione del dogma che la punizione colpisce il malvagio in questa vita e ammettono tutt'al piu che i mulini degli dei macinano lentamente. L'autore del Salmo 73, già ci­tato, dice con accento di persuasione:

Certo li poni in luoghi sdrucciolevoli ... Come si sono trasformati in desolazione d'un tratto!

Piu interessante è il tentativo di spiegare le tribolazioni dei giusti. Il poeta prosegue:

Tuttavia sono sempre con te; Mi tieni la destra.

Tu mi guiderai col tuo consiglio E poi mi riceverai con onore.

La trattazione classica del problema, come tutti sanno, è nel dialogo del Libro di Giobbe. L'autore rappresenta Giobbe che, in preda a disperazione e a risentimento, scorge il barlume di una spiegazione del problema della sofferenza come componente necessaria della realtà e quin­di giunge alla fede ed alla speranza. Ecco come le parole del cap. 23 esprimono il concetto:

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Egli conosce la via che prendo; Quando mi avrà provato, ne uscirò come oro puro.

Israele non ha sviluppato una formulazione logica capace di spiegare integralmente la sofferenza umana. Ma data la fede in una realtà morale del1'universo, e il riconosci­mento dei valori invisibili e trascendenti nella vita, non stupisce che al culmine del loro pensiero questi pensatori additino una soluzione conforme a quei valori, anche se non sono in grado di formularla con esattezza. In termini piu semplici, la risposta di Israele sta nella sua fede re­ligiosa.

Eppure l'idea della libertà umana non è cosi semplice come parrebbe da quanto si è detto finora. Ricordiamo l'esperienza del faraone nell'Esodo, che voleva liberare gli schiavi ebrei, ma al quale nel momento della decisio­ne, il Signore indurisce il cuore. Perché non sussistano dubbi sulle divine interferenze, si mettono sulle labbra del Signore queste parole a Sua giustificazione : « E a que­sto fine ti ho fermato, per dimostrare in te la mia poten­za, e perché il mio nome sia celebrato in tutta la terra » (Esodo, 9 , r6 ) . Il re non è libero, le sue decisioni sono determinate da Dio nell'interesse dei piani divini. Uno degli autori del Libro dei Proverbi racchiude in un'affer­mazione generale questa speculazione :

Il cuore del re è nella mano del Signore, Ed Egli lo dirige dove vuole come un corso d'acqua.

(Proverbi, 2r, r ).

Si tratta di una dottrina deterministica piuttosto estrema. È famoso anche l'oracolo di Geremia nella casa del va­saio per la sua soluzione analoga del problema.

Il Signore è il grande vasaio, che foggia le nazioni se­condo i suoi desideri (Geremia, cap. r 8 ). Cosi va anche tenuto conto della visione di Michea; egli afferma di aver visto uno spirito mendace partirsi dalla presenza del Signore, ed ora, egli insiste, quello spirito sta ingannan­do i profeti ufficiali di re Acab per indurii a farlo morire (l Re, cap. 22 ) . Anche la filosofia dell'Ecclesiaste torna in mente a questo proposito: la ruota cosmica del desti-

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no grazie a l cui movimento tutti gli avvenimenti ritor­nano a loro tempo, è una evidente teoria deterministica. Tuttavia bisogna fare qualche riserva per questi come per gli altri passi che si possano citare. Certo l'Eccle­siaste si crede libero di scegliere allorché inizia i suoi esperimenti sul valore della vita. Si è sostenuto invero che tutta l'opera ribadisce la libertà umana. Comunque sia, non c'è dubbio che per lui l'uomo è posto fuori del processo cosmico ed è pertanto libero di osservarlo con occhio critico , con piena libertà intellettuale. Si rende conto del potere determinante delle circostanze, ma in certo modo per lui l'uomo è libero di scegliere la sua strada anche se incapace di raggiungere i suoi fini. È no­tevole anche, per ciò che concerne le storie del faraone c di Acab, che la libertà del faraone in circostanze nor­mali è sottintesa. Perché mai il Signore si prende la pe­na di mandare uno spirito mendace quando può sem­plicemente decretare che Acab deve recarsi a Ramoth Gilead? E l'intervento nelle decisioni del Faraone è evidentemente un atto divino, anormale. Forse si può chiarire cosi: gli Ebrei, con il loro notevole realismo, considerano cosa ovvia ed assiomatica la libertà umana, tuttavia non s'illudono di aver in tal modo esaurito il problema, poiché interpretano la storia come mossa da un intento divino, e la storia a sua volta non è che la vita umana proiettata su scala piu vasta. Perciò se Dio plasma i destini degli uomini, dovrà talvolta interferire con il pensiero e la volontà individuali. Per un determi­nato caso la spiegazione è già pronta: i profeti professio­nali sottomettono la loro mente all'impulso divino, quin­di, tramite loro, Dio può intervenire nelle faccende uma­ne. Altrimenti il problema di come Dio possa dirigere la storia umana resta irrisolto. L'importante comunque è che, pur credendo fermamente alla libertà umana, Israe­le comprese che si trattava di un problema complesso e controverso.

Bisogna però tener presente che, in questo campo, un problema piu ampio si impone all'attenzione del pensiero ebraico : perché la mente si orienta in una determinata direzione in determinate circostanze? Questa è la chiave

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di volta di tutto il problema psicologico, che siamo abi­tuati a considerare come un contributo del genio elleni­co : i pensatori di Israele, in virtu del loro abito mentale, rivolgono l'occhio su di sé, onde indagare sulla propria mente.

Avvicinandosi direttamente alla realtà, com'è loro abi­tudine, non mettono mai seriamente in dubbio la validità dei processi mentali o la capacità della mente di giunge­re alla verità. Sono però ben consci del fenomeno del­l'inganno, tanto dell'inganno ordinario (quando un indi­viduo malvagio presenta come verità ciò che è in effetti falso) quanto dell'inganno piu insidioso, cui si è fatto cenno dianzi e che era attribuito all'interferenza di uno spirito nemico. Si tratta in quest'ultimo caso di un'espe­rienza soggettiva, e varrà la pena di notare che essi si de­dicano a esperimenti che sono comuni anche a noi : il nostro pensiero e talvolta anche i nostri sensi possono giocarci i tiri piu raffinati, tanto che talvolta siamo certi di aver udito o visto cose che nella realtà non hanno ri­scontro. Noi diamo una soluzione psicologica del feno­meno, gli Ebrei lo spiegano con l'intervento di spiriti po­sti al di fuori di noi. L'osservazione è la stessa, varia la spiegazione che se ne fornisce. Gli Ebrei sono dunque disposti ad ammettere, in questo senso, che i processi della conoscenza umana hanno talvolta un carattere dub­bio. Ma per lo piu ci si può fidare dell'evidenza sensibile e dei concetti che i processi mentali deducono dall'espe­rienza. La conoscenza è basata sull'esperienza sensibile, ma anche qui Israele evita le semplificazioni. I profeti parlano spesso di una conoscenza di Dio - l'espressione ritorna spesso, specialmente in Osea - ma si lasciano alle spalle la semplicistica illusione di poterlo cogliere con la vista e l'udito. Tuttavia i sensi e insieme ad essi quei processi mentali che trasformano l'esperienza in cono­scenza, forniscono all'ebreo - nei loro limiti - una com­prensione indubbiamente valida della realtà. Poiché ci sono settori della verità che esorbitano per una ragione o per l'altra dai comuni processi conoscitivi.

Il sistema psicologico ebraico è noto. Ed è male, per­ché è stato interpretato erroneamente. La tripartizione

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in corpo, anima e spmto, evidente nel Nuovo Testa­mento, sembra risalire all'Antico dato che si riscontra, per tacer d'altri luoghi, nelle storie della creazione. Sen­z'ombra di dubbio, inoltre, l'ebraico possedeva parole distinte corrispondenti alle tre distinte entità. Tuttavia nell'Antico Testamento esistono riferimenti a parti del corpo o organi ai quali si attribuisce una funzione parti­colare, e in taluni casi una semindipendenza tanto nella sfera della coscienza come dell'azione. È un'idea che si riflette nel Nuovo Testamento, perché è sottintesa nel famoso dibattito paolina fra le membra del corpo circa la loro relativa importanza (l Corinzi, 1 2 , 1 2-26). Ma il concetto della personalità non è affatto cosi caotico come apparirebbe a prima vista. Senza dubbio tutte le membra sono subordinate a11a coscienza centrale, quale che essa sia. Tuttavia la distinta funzione dei singoli organi ri­chiama una certa misura d'attenzione. È notevole che del cervello non si faccia mai parola: in tempi in cui le teste venivano sfracellate con una certa frequenza, gli Ebrei dovevano ben essere abituati a vedere la strana materia gelatinosa che riempie la testa; eppure, è strano, non at­tribuirono ad essa alcuna funzione e non la consideraro­no nemmeno degna di ricevere un nome, forse perché ha l'aspetto di una sostanza del tutto passiva. Come ha os­servato giocosamente un commentatore moderno, gli Ebrei non possedevano cervello. Invece è sovente men­zionato il cuore, che talvolta è chiaramente l'organo che chiamiamo con quel nome, ma spesso designa vagamente soltanto la parte interna del corpo . Ad esso era attribuita la funzione del cervello. Ma anche il fegato, le reni, gl'in­testini erano centri importanti della coscienza e della vo­lontà. Si credeva che le emozioni dipendessero da tali organi e per quanto in ciò vi sia una misura di verità, tuttavia il contrasto fra la bocca e le reni (Geremia, 12 , 2 ) che trova altrove un parallelo nel contrasto fra la boc­ca ed il cuore (Isaia, 29, 1 3 ; Ezechiele, 33 , 3 1 ), ci rivela la vaghezza del concetto. Si ricordi il passo famoso: « Anche le reni mi istruiscono nella stagione notturna » (Salmo, 7, 9 ).

È chiaro che non esisteva una distinzione precisa delle

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varie funzioni dell'organismo, e mentre la distinzione fra le manifestazioni emotive, razionali e volitive della co­scienza è in certa misura riconosciuta, non solo non esi­ste un'analisi precisa delle funzioni, ma nemmeno se ne sente il bisogno. La superiorità raggiunta da Israele nella comprensione della personalità spiega la manchevolezza. È evidente infatti che di fronte ad uno studio piu appro­fondito la tripartizione della personalità è anch'essa piu apparente che reale. È vero che la parola ebraica tradotta con « anima » designa gli appetiti e talvolta la vita fisica, mentre quella tradotta con « spirito » significa qualcosa che si avvicina alla nostra « personalità » , ma tale distin­zione non è stabile se pure è stata mai consapevolmente impiegata. Al massimo tali termini non designano enti diversi ma diversi aspetti della personalità, e anche come tali, in tempi posteriori, vengono trattati come sinonimi. Cosicché l'uomo ha due e non tre aspetti : il corpo, l'or­ganismo nel suo essere e nelle sue funzioni fisiche, e l'a­nima-spirito che comprende tutto il rimanente, ovvero tutto ciò che si solleva al livello della coscienza , dato che l 'ebreo fornisce tutt'altra spiegazione di ciò che noi chiamiamo il subcosciente. Ma fra i due aspetti non c'è né separazione né antitesi, ed essi fanno piuttosto parte di un tutto unico. La personalità umana è unica e indivi­sibile. Si è detto a ragione che per l'ebreo l 'uomo non è uno spirito incarnato, idea greca, bensf un corpo anima­to. Israele non ammette alcun dualismo di mente e corpo che lasci sussistere una sorta di antitesi e rivalità fra i due enti : l'uomo è un singolo organismo e una sola per­sonalità. Come s'è visto, questi pensatori antichi erano ben consapevoli del conflitto che ha luogo costantemente nella coscienza umana, dove i nostri impulsi piu nobili lottano costantemente contro la parte egoistica e bestiale della nostra natura. In tempi posteriori le locuzioni bi­bliche yetser tobh e yetser ra' , la buona volontà e la cat­tiva volontà, vengono spesso usate nelle dispute sui con­tradittori istinti dell'uomo. Ma i pensatori ebraici si rifiutano di risolvere il problema, postulando un'origi­ne divina della prima ed un'origine materiale o diabolica dell'altra. L'uomo è uno e la sua condotta, nobile o bassa

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che fosse, dev'essere da lui determinata in conformità alle esigenze della sua natura totale.

Per importante che sia la conquista raggiunta da Israe­le con la teoria dell'unità della personalità umana, biso­gna però riconoscere che gli interessi psicologici non por­tano affatto a studiare le reazioni dell'organismo. Non si sa nulla del sistema nervoso; i complessi rapporti fra l'a­nima ed il corpo sono appena appena notati. Bisogna ri­conoscere che il genio di Israele non è un genio scientifi­co. Per orientarci sulla scienza dell'antico Medio Oriente, noi dobbiamo studiare l'Egitto e Babilonia, da cui Israele trasse i suoi concetti modificandoli, è vero, profonda­mente, nei loro aspetti religiosi, ma lasciando pressoché invariato il loro contenuto scientifico. Ma le conquiste degli Ebrei nel loro ambito particolare sono cosf notevo­li, che il piu ardente giudeofilo può ben ammettere l 'esi­stenza di questi settori dove Israele si accontentò di ri­sultati presi di seconda mano.

Tuttavia c'è un aspetto della conoscenza psicologica degli Ebrei che non ha bisogno di scusanti : la loro com­prensione dei motivi che affiorano nel comportamento umano. È tipico del generale atteggiamento dell'Antico Testamento che l'inaudita malvagità dei tempi dd dilu­vio venga imputata « all'intera fantasia dei pensieri del cuore » del popolo. Le narrazioni devono tanta parte del­Ia loro modernità al loro interesse psicologico, che, seb­bene inferiore a quello della narrativa moderna, tuttavia ne costituisce un degno precedente. Gli eroi della storia ebraica non ci si stagliano dinanzi come figure dipinte di una immaginaria perfezione poiché i loro biografi svelano con implacabile candore le loro debolezze e i loro egoismi, talvolta riferendo un episodio, per lo piu invece dando un resoconto analitico di ciò che il protagonista « pensò in cuor suo )>. Gli autori riescono a ritrarre la natura piu intima degli uomini e delle donne che si muovono sotto i nostri occhi.

La capacità di mettere al centro del racconto il prota­gonista e l'abilità nel tratteggiare e sviluppare i caratteri è uno degli aspetti dell'arte narrativa ebraica. Bisogna porre su un livello altissimo la storia di Giuseppe, che

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per spirito di vendetta, almeno cosi pare, agisce crudel­mente verso i suoi fratelli, ma la cui magnanimità si sve­la solo nello svolgersi della trama. Poi il suo carattere si va via via svelando, in quella sua lunga ricerca del vec­chio padre, e ancor piu nell'episodio in cui egli si fa ri­conoscere dai fratelli: ecco le prime parole « Sono Giu­seppe. È ancora vivo mio padre? » Gli autori biblici ci narrano anche la storia di Abramo, « il principe di Dio )>, che in un momento critico si spaventa a tal segno che si lascia proteggere dalla moglie mediante una bugia - o è soltanto una mezza bugia? E Mosè, il mite ed il pietoso per eccellenza, perde la pazienza e perciò gli viene vie­tato l'ingresso nella terra promessa. Re Saul, lo spirito libero che sdegna di piegarsi dinanzi a qualsiasi prete­profeta, per riverito che sia, decade sotto i nostri occhi a causa d'un collasso mentale. L'energico Davide, eroe d'Israele, sui cui trascorsi è bene sorvolare; l'altero Salo­mone, Roboamo, che sogna di diventare despota, Elia, il Gileadita indomabile, l'imperioso Gezabele, pronto fino all'ultimo alla sfida; il precipitoso Iehu, la cui criminosa impulsività va placandosi via via fino alla mediocrità. Per quanto sia una schiera di individualità sconcertanti, le narrazioni sono altrettanto notevoli per l'acume di chi le scrisse.

Con la struttura psichica che abbiamo delineato ecco dunque l'uomo, secondo il pensiero ebraico, affrontare le gioie e i compiti della vita e porsi di fronte ai suoi problemi. La conoscenza è un'esperienza diretta o, al massimo, il risultato dell'esperienza, che porta l'indivi­duo a contatto diretto con la realtà oggettiva. Il duali­smo epistemologico è sconosciuto, l'uomo conosce la realtà per rapporto diretto. Tuttavia i limiti della cono­scenza , e quindi la limitatezza della facoltà conoscitiva dell'uomo sono pienamente riconosciuti. In buona parte ciò è dovuto soltanto all'imperfezione della scienza del tempo : l'uomo è circondato da un vasto mondo misterio­so e gli mancano metodo e mezzi per indagarlo. I proble­mi del cielo soprastante ed i molteplici fenomeni del mondo sottostante non si possono risolvere, a meno che la mente non si lanci nella speculazione che già ha gene-

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rato le multiformi fantasie cosf abilmente passate in ras­segna dai professori Wilson e J acobsen.

Ma Israele si stanca presto delle regioni indefinite del­la pura immaginazione. Si è già detto che nell'Ecclesiaste si profila un atteggiamento veramente scientifico, anche se si vale di metodi alquanto grezzi. Il contatto di Israe­le con l'astronomia babilonese è stato pure menzionato prima; quindi le ricerche dell'Ecclesiaste non vanno in alcun modo considerate come un'avventura pionieristica nel campo scientifico. Si avvicinano però ad esser tali, quando applicano un metodo empirico, per quanto im­perfetto, ai problemi della psicologia e della filosofia. L'Ecclesiaste non giunse a risultati strepitosi, e riusciro­no certamente tutt'altro che piacevoli per l'autore, giac­ché non fecero che rafforzare il suo convincimento che (( tutto è vanità ». Peggio si trovò, tuttavia, quando tentò di affrontare il problema generale dell'uomo e del mon­do, e va ascritto al suo onore di pensatore non preten­dere di aver raggiunto dei risultati, egli, anzi, riconobbe di essere confinato in un angusto ghetto intellettuale dal quale non c'era scampo. Egli era all'oscuro della natura delle cose, Io sapeva e tuttavia non aveva modo di rime­diare. Il suo fallimento era cosi completo che cominciò a credere di trovarsi dinanzi ad un ostacolo personale: era Dio stesso che, geloso delle sue prerogative, contra­stava il libero corso dell'indagine umana. È uno stato d'animo assai prossimo a quello della storia della torre di Babele, salvo che l'Ecclesiaste non è inibito dalla pietà e dalla devozione che ispirano l'altra storia. Ha deciso di spingersi nel campo del divino: soltanto le preoccupa­zioni per la sua sicurezza lo trattengono. Vuole soprat­tutto conoscere e comprendere, e va a suo onore che il suo pessimismo sia dovuto in buona parte a difficoltà di ordine intellettuale. Egli fornisce del suo scacco una spie­gazione che non possiamo certo accettare in pieno e sen­za riserve - ma, ad attenuare il nostro disdegno; dob­biamo ricordare che egli, come quasi tutti i pensatori, accettò senza criticarla gran parte dell'eredità intellettua­le del suo tempo. Ben Sira esprime un atteggiamento caratteristico : « Non cercare le cose che sono troppo ar-

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due per te . . . ma pensa a ciò che ti è comandato . . . perché vi sono in mostra piu cose di quante l'uomo possa capi­re » (Ecclesiastico, 3 , 2 1 -23). « Il cielo ed il cielo dei cieli appartengono a Dio >> afferma un altro autore, <( ma la terra è stata data ai figli degli uomini » (Salmi, 1 1 5 , 16) . È empio e blasfemo spingere lo sguardo nei segreti del divino e tale opinione è rafforzata dalla convinzione che la conoscenza è potenza : esistono verità riserbate a Dio, terreni riservati a Lui, che ne trae miracoli sovru­mani. Guai all'uomo che se ne appropri, commettendo un furto cosmico. Da questo atteggiamento nasce l'av­versione di Israele contro i maghi di qualsiasi genere, prevenzione che pare ricordare la tragedia primordiale, quando i nostri progenitori colsero peccaminosamente il frutto dell'albero della conoscenza.

Dio ha rivelato all'uomo quanto è bene che egli cono­sca della natura ultima delle cose, afferma l'ortodossia; perfino la conoscenza delle cose pratiche, che per noi è affine alla scoperta scientifica, è, almeno per il devoto, materia di rivelazione divina. Uno scrittore, s'è visto, narra che perfino la coltivazione e la cura delle messi so­no state insegnate da Dio (Isaia, 28, 23-29). Le origini di questi atteggiamenti risalgono evidentemente al mito primitivo dell'educazione alla civiltà ad opera degli dei e porta alla teoria fondamentale dei sapienti, di cui si parlerà piu distesamente in seguito. Tuttavia non dob­biamo confondere con questa osservazione subordinata il problema che ci sta innanzi, poiché a questo punto ci interessa capire il concetto che aveva Israele del processo conoscitivo. Che esso sia basato per lo piu sui sensi e su una normale attività intellettuale è già stato sottolineato, ma bisogna mettere in rilievo che una conoscenza posta di là delle facoltà umane deve provenire, secondo il dog­ma accettato, da un diretto intervento divino. I tramiti di tale intervento sono evidentemente il prete ed il pro­feta. · Nel clero si andò rafforzando una tradizione di pre­cetti religiosi ai quali erano attribuite origine e autorità divine. Ma se risaliamo indietro, al tempo in cui tali di­rettive si formano, ecco che ci troviamo dinanzi al sacer-

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dote come servitore e ministro del dio. Egli serve il dio come i servi ed i satelliti servivano i nobili ed il fatto che il suo signore sia una presenza visibile tutt'al piu in immagine non muta il quadro generale. Come i cop­pieri e gli altri valletti del mondo antico, il rapporto strettissimo con il signore gli dà l'opportunità di appren­derne il carattere e la volontà, ma è evidente che il val­letto ha il vantaggio di poter udire la voce del padrone. Il sacerdote, invece, non potendo fruire di una rivelazio­ne diretta della volontà del dio, segue qualche antico det­tame piu o meno corrispondente al nostro vecchio ada­gio : le azioni parlano piu chiaro delle parole. Il sacer­dote impara a conoscere la volontà del dio dalle sue azioni. Storie come quella di Uzza che cade in terra al­lorché tocca l 'arca o la tragedia dei figli di Aronne quan­do offrono uno « strano fuoco » indicano il formarsi di una tradizione sacerdotale. In breve: il sacerdote ottiene la rivelazione con l'uso sagace dell'intelligenza.

Il metodo è bene illustrato dai procedimenti degli au­guri babilonesi, che si organizzarono per riferire gli av­venimenti straordinari ad agenzie sacerdotali centrali, sic­ché se una volpe saltava in un vigneto, il fatto veniva solennemente registrato come dato al quale riferire gli avvenimenti importanti, e in seguito come dato in base al quale predirli. Se vogliamo ammettere la teoria dei sacerdoti, che <( gli avvenimenti futuri proiettano in avan­ti la loro ombra » mediante indizi e portenti, allora ap­pare chiaro che l'augure è lo scienziato dell'antichità, colui che raccoglie attentamente i suoi dati, ne scopre il significato mediante l'osservazione ed infine conclude che fenomeni simili hanno risultati simili. Si tenga conto, inoltre, dell'attività del mago, il sacerdote illegittimo, che è in qualche modo un antenato dello scienziato moderno.

La rivelazione per tramite dei sapienti segue, per loro ammissione, la stessa linea. Sono in primo luogo studiosi della vita umana, che compiono le loro osservazioni va­lendosi delle normali facoltà umane e traggono le con­clusioni basandosi sui processi mentali ordinari. Ma il profeta in quanto distinto dal sacerdote come dal sapien­te, riceve la rivelazione nel profondo della sua coscienza

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per tramiti che gli appaiono genuinamente sovrannatura­li. Egli non condanna il normale uso della ragione, anzi spesso critica la mancanza di osservazione e di ragiona­mento; è vero che le visioni profetiche vengono espresse in termini che suggeriscono un uso sublimato dei sensi, ed il profeta entra in contatto diretto con il mondo in­visibile della realtà spirituale, acquistando conoscenza, udendo e vedendo ciò che è indiscernibile con i sensi or­dinari. Tuttavia otterremmo una caricatura del profeta se pretendessimo di vederlo cadere in estasi prima di ogni responso. Le fonti che possediamo sull'attività dei grandi profeti ci fanno ritenere che tali esperienze fossero raris­sime, che per taluni non si producessero mai. Tuttavia i profeti sono evidentemente sinceri quando asseriscono che il loro messaggio proviene dal Signore. È ovvio, quindi, che essi credano in una forma di conoscenza di­versa dall'esperienza sensibile, ma operante attraverso quei tramiti della coscienza che, con una certa indetermi­natezza, possiamo chiamare pensiero e sentimento, assai vicini a ciò che noi chiamiamo intuizione. Si è già messa in rilievo l'importanza di questo elemento nell'apologe­tica di Israele. Ma divenne tratto fondamentale della religione ebraica anche quel senso di personale rapporto e di comunione con il divino, che si sviluppava dall'espe­rienza profetica. Non dimentichiamo che questa cono­scenza sovrasensibile era accettata come una esperienza valida della realtà.

Proprio questo problema epistemologico è uno dei te­mi della disputa di Giobbe con i suoi amici. Sotto il pun­golo della sofferenza immeritata e dei miserevoli consigli degli amici, Giobbe si scaglia in una denuncia blasfema delle vie del Signore, chiamandolo a render conto secon­do gli umani criteri di giustizia. Ma disperando della giu­stizia, egli si_ domanda: « Come può l'uomo essere giusto con Dio? » E una posizione tipica degli « amici » ma an­che dell'ortodossia di tutti i tempi, quella di Zophar che replica :

Scoprirai tu forse le cose piu segrete di Dio E intenderai completamente l'Onnipotente?

(Giobbe, II, 7).

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Questo è anche il tema delle pie riflessioni che appaiono nei discorsi di Iahvé. La forza della divina creazione e il dominio dell'universo fisico schiacciano l'indagatore Giobbe, che sottomette ad un severo giudizio le proprie domande;

Io ho parlato di ciò che non capivo, Cose per me troppo meravigliose che non conoscevo ...

Per cui mi detesto E mi pento nella polvere delle ceneri.

(Giobbe, 42, 3-6).

Eppure lo spirito audace che scrisse le impareggiabili parole del dialogo presenta un Giobbe ben diverso. Giob­be pensa come un naturalista : chiede di potersi incontra­re con Dio, per potergli parlare, armato della sola intelli­genza umana, come un amico con un amico. Teme la potenza di Dio, spera di trovare un intermediario che presieda all'alto dibattimento, dispera di poter avere un colloquio del genere prima della morte; comunque desi­dera l'incontro e ha fiducia che Dio sia un essere uma­namente razionale.

Lotterebbe egli con me nella grandezza del suo potere? No, mi darebbe ascolto.

Là i giusti potranno ragionare con lui, Cosi sarei liberato per sempre dal mio giudice.

(Giobbe, 23, 6-7).

Ma per gli amici questa è un'irriverenza inaudita. Per loro la natura di Dio è

Piu alta del cielo, che cosa puoi fare? Piu profonda dello She'ol, che cosa ne puoi sapere?

(Giobbe, n, 8-9).

Tuttavia pretendono di avere una conoscenza di Dio - e cosi solida che si permettono di dare consigli a Giobbe onde ricuperare il favore divino - e la fonte è evidente. Come molti, da quei giorni a oggi, essi credono che si­tuando nel passato remoto l'acquisto della conoscenza, non solo ne aumentano l'autorevolezza ma colmano an­che l 'abisso che li separa dall 'invisibile. Per loro esiste una conoscenza valida di Dio trasmessa dalla remota an-

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tichità. Basta accettarla, essi dicono, e Lo si conoscerà. Eppure si vantano di essere studiosi indipendenti, che hanno esaminato e verificato i dogmi ora proposti a Giobbe (Giobbe, 5 , 27). Ma al pari dei rappresentanti dei moderni sistemi teologici costituiti sull'autorità, essi esercitano la loro critica entro i confini del sistema pre­tendendo che la loro indagine confermi la fiducia nei san­ti nel passato. Ma Giobbe non ne vuole sapere, la sua credulità è stata infranta da avvenimenti aspri e irrefu­tabili , sicché ora è lanciato sui vasti mari di una verità da scoprire mediante il solo aiuto delle sue umane facol­tà. Elifaz lo rimprovera : « Come è duro il tuo cuore e come sono superbi i tuoi occhi ! » (Giobbe, 15 , I J-I3). Egli contrappone il suo spirito a Dio nel processo di una libera ricerca, ed Elifaz lo accusa di negare la possibilità di una conoscenza di Dio, mentre è proprio lui che si trova in quella posizione: quando afferma l'incapacità della mente umana di conoscere Dio non è altro che un barthiano. Fino ai nostri giorni questo tipo di pensatore rimarrà ancorato a questa accettazione dell'ortodossia pur nella negazione della intelligenza come guida, restan­do quindi esposto ai pericoli della credulità. Come i de­voti di talune religioni dogmatiche del nostro tempo egli accetta con eccessiva credulità il soprannaturale; perfino un'assurda storia di fantasmi sulla cui banalità il primo venuto avrebbe potuto aprirgli gli occhi, diventa per lui una verità, che la mente umana da sola non sarebbe stata in grado di afferrare. Il perno della disputa pare incen­trarsi sulla cosiddetta <( volontà di credere », dalla quale, per un facilis descensus in Averno si passa alla supersti­zione. Giobbe, benché uomo di fede, chiede che la sua fede sia suffragata in mode plausibile.

È evidente che Giobbe - o meglio, il grande pensatore ignoto che compose il dialogo - ha una mentalità moder­na. Egli esige che il pensiero proceda dai fatti per arri­vare ad una solida conclusione : solo cosi si può raggiun­gere la conoscenza. È la formulazione di tale principio e la sua applicazione alla speculazione filosofica che costi­tuisce il tratto spesso ignorato ma tuttavia sorprendente di questo poema. Giobbe, abbiamo visto, ripudia il ba-

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gaglio di concetti tradizionali che gli amici gli propinano generosamente. Perché? Perché essi non pensano in mo­do onesto e retto. Al discorso di Zophar che solleva la questione della conoscenza di Dio, Giobbe replica:

Ascolta ora il mio ragionamento E presta orecchio all'argomento delle mie labbra.

Vuoi parlare ingiustamente di Dio E parlare disonestamente per lui?

Vorrai mostrargli parzialità? Vorrai discutere per conto suo?

Dovrà forse scrutarvi Se voi l'ingannate come si inganna un uomo?

Certamente vi biasimerà Se vi mostrerete parziali in segreto.

« Io segreto », vale a dire nel segreto delle loro coscien­ze, sotto il manto ed il riserbo della pietà, essi si ingan­nano con argomenti spurii che applicano ai problemi re­ligiosi categorie inferiori di pensiero. Abbiamo qui, in breve, il programma del moderno atteggiamento critico e del movimento moderno del pensiero religioso.

Ma non bisogna credere che l'argomento venga eos{ facilmente esaurito. Si hanno prove di un riconoscimento diffuso dell'esigenza di criteri rigorosi nel pensiero reli­gioso, e devo al professar Meek dell'Università di Toron­to un esempio tratto da uno dei testi piu ortodossi, il Deuteronomio. Nella versione comune il passo suona co­si : « Badate che il vostro cuore non sia sedotto e che non vi allontaniate per servire altri dei » (Deuteronomio, r r , I 6 ). Il professar Meek ha tradotto invece: « . . . che la vostra mente diventi tanto aperta da farvi allontana­re . . . » È un approfondimento notevole, perché sebbene il verbo non sia quello che per lo piu traduce « aprire », è tuttavia strettamente connesso ed ha in definitiva lo stesso significato. Il passo, cosi come lo ha reso il pro­fessar Meek è un avvertimento contro l'eccessiva apertu­ra mentale, contro una tolleranza facile e andante che non arriva a distinguere le cose che paiono uguali, ma sono in realtà del tutto dissimili. La religione e l'etica, sembra dirci l 'autore, esigono abitudini mentali attente e precise. In questo atteggiamento cosi sommariamente

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tratteggiato si coglie una parte notevole del progresso re­ligioso di Israele.

Ma il verbo forma anche la radice di una delle parole che comunemente designano lo << stolto ». Il personaggio famoso ma sfortunato dell'Antico Testamento, che i sa­pienti correggevano e dai cui errori essi mettevano in guardia i giovani, è in realtà soltanto un sempliciotto il cui peggior difetto è l 'incapacità di pensare rigorosamen­te. Tali principi sono anche suggeriti dall'antitesi propo­sta dai saggi stessi: << Lo stolto crede a tutto, ma il saggio dà al pensiero il suo corso » (Proverbi, 14, 15 ). Il sag­gio pensa alla strada che percorre, ai fatti osservabili della vita e di tutto ciò che se ne può inferire in vista dei fini e dei mezzi. Abbiamo potuto renderei conto che il primo passo da fare, nel quadro di un metodo rigoroso, secondo i pensatori di Israele è la raccolta dei fatti rile­vanti. Essi non ci hanno tramandato trattati sul metodo dell'analisi esatta, sulla classificazione e valutazione dei fatti né sulle deduzioni corrette che da essi si possano trarre, ma è evidente che erano al corrente di tali proce­dimenti anche se questa loro conoscenza implicita non si è perfezionata in una struttura definita e cosciente.

Cosi dunque Israele tratta il problema della conoscen­za, tanto nell'ambito secolare come in quello religioso. Si tratta di un fatto in gran parte nuovo nella storia del pensiero umano che in seguito ha per lo piu avuto una notevole importanza. Ma, tornando al tema centrale, ri­mane un aspetto del pensiero ebraico che possiamo con­siderare poco meno che sconcertante e la cui risonanza ha suscitato un'attenzione insufficiente perfino da parte degli specialisti di studi biblici.

L'Oriente si è occupato per molto tempo della ricerca della << Saggezza », che, di natura utilitaria in principio, viene ben presto a includere tutta la cultura intellettuale del tempo. Il sapiente è l 'uomo colto, oltre che l'uomo sagace. I sapienti ebrei sono al corrente dell'opera dei loro colleghi; fin dai primordi della storia palestinese di Israele si hanno accenni all'importanza dei << sapienti »,

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probabile eredità della' grande civiltà canaanea. Nell'esal­

tazione della sapienza di Salomone un passo rivelatore paragona il re ai famosi saggi del mondo non ebraico:

La sapienza di Salomone superava la sapienza di tutti i figli del­l'Oriente e tutta la sapienza dell'Egitto. Egli era infatti piu saggio di tutti gli uomini, piu sapiente di Ethan l'Ezraita, ed Heman e Calco! e Darda, i figli di Mahol, e la sua fama era diffusa in tutte le terre d'attorno ( I Re, 4, 30·31 ).

Eppure il movimento sapienziale di Israele ha avuto una storia simile nelle <� terre d'attorno )>. Dapprima pre­dominano i fini pratici , poi le circostanze portano a pren­dere in considerazione temi e valori piu vasti. Ma gl'inte­ressi culturali continuano a essere al tempo di Salomone e dopo, prevalentemente di indole utilitaria ; e l'esilio, la piu profonda delle esperienze del popolo ebraico, che, toccando e trasformando tutti gli aspetti della vita ebrai­ca, costringe ad approfondire il concetto della sapien­za. Un passo lirico che risale a questo periodo è molto rivelatore :

Felice l'uomo che trova la sapienza E l'uomo che raggiunge la comprensione!

Poiché questi acquisti sono migliori dell'acquisto dell'argento E i suoi frutti sono migliori dell'oro fino.

Piu preziosa dei rubini E le cose desiderabili non le sono paragonabili.

(Proverbi, 3, IJ·I,5).

In questo passo è notevole il ripudio di quelle cose pre­ziose che i primi saggi avevano accettato come fini del­l'esistenza : oro, argento, rubini, cose desiderabili, che dai giorni del saggio egizio Ptahhotep erano stati apprez­zate come il segno ed il senso dei valori della vita. Ma il pensatore ebraico autore del passo, o meglio, tutta la tarda scuola dei saggi ebraici - afferma audacemente che c'è qualcosa d'altro nella vita, che trascende di gran lun­ga tali cose o per cui esse si possono godere in misura assai maggiore. È dunque evidente che l'autore, rigettan­do il bene visibile, esalta i beni invisibili, piu sottili, la bontà e la bellezza e l'elevatezza intellettuale che ci redi­me dalla nostra eredità di bruti. Ma poiché vale pur sem-

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pre l'aforisma che il timor di Dio è il principio della sapienza, sicuramente l'autore pensa che la fede e la vita religiosa facciano parte, o che addirittura siano la parte piu importante e veneranda di questo umano tesoro. Sa­remmo in errore se sostenessimo che l'idea si affaccia per la prima volta nel pensiero umano attraverso il poeta ebreo, ma è certo che questa formulazione costituisce un fatto di capitale importanza.

Comunque, il nostro tema giunge ora ad una svolta importante. Tutti gli studiosi dell'Antico Testamento co­noscono le parole :

Il Signore mi possiede all'inizio delle sue vie Prima delle sue opere antiche.

Dall'eternità fui stabilita, dall'inizio Prima che esistesse la terra.

Quando non c'erano abissi fui concepita Quando non c'erano fontane colme d'acqua.

Cos! l'autore prosegue, poeticamente elencando le mera­viglie del creato, per concludere cosi:

Quando stabili il cielo io c'era ... Quando pose le fondamenta della terra

lo ero con lui come un architetto Ed ero la sua giornaliera delizia Sempre godendo davanti a lui,

Godendo della sua terra abitabile E la mia gioia era con i figli degli uomini.

(Proverbi, 8, 22-3r ).

È la sapienza che parla : la sapienza che si è visto, è la meta suprema delle aspirazioni umane. Ma è la stessa sa­pienza che, a questo punto, dichiara di essere preesisten­te, associata a Dio nella creazione, sicché senza di essa « non fu creato nulla di ciò che fu creato ».

Si è intensamente dibattuto il problema se l 'autore so­stenga l'esistenza di una persona determinata associata a Dio prima del principio del mondo e se una simile eresia sia ammissibile in un ebreo devoto. Ma non è ovvio che in questo passo poetico l'autore si vale di immagini per esprimere un'idea che egli spera gli altri siano tanto in­telligenti da afferrare? Questa personi6cazione misterio-

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se e preesistente è soltanto un aspetto del carattere di Dio, di quel carattere particolare in virtu del quale ap­punto, Dio fece il mondo. Egli prese, per cos{ dire, l'at­tributo e lo trasformò in una cosa esistente, e piu preci­samente in un uomo. Ecco perché l'autore ha usato la stessa parola - è strano - per designare la qualità umana e questa realtà superna, preesistente : egli afferma che sono la stessa cosa, umana in quanto anzitutto divina e quindi qualità di Dio e di tutta la creazione. Tutte le nostre opere piu alte e tutte le nostre aspirazioni e spe­ranze piu eccelse, tutto ciò che la mente e l'anima del­l'uomo hanno raggiunto o sognato corrisponde alla natu­ra piu intima delle cose. La realtà ultima dell'universo fisico è la sapienza di Dio.

Ora è evidente che qui ci troviamo dinanzi ad un pa­rallelo delle idee universali che ebbero una cosi gran par­te nella speculazione platonica nonché nel concetto stoico dell'onnipresente ragione divina. Ma che cosa si deve concludere da questa affinità? Abbiamo già sottolineato che il passo biblico è di epoca tarda, e per quanto non si possa datare se non con un'approssimazione di due se­coli, non d sono fondate ragioni per negare che sia ante­riore a Platone, e non si può nemmeno escludere che sia addirittura contemporanea di Zenone. Ancora una volta, dunque, d troviamo di fronte al problema di un possi­bile influsso greco sulle piu notevoli conquiste intellet­tuali di Israele. Ma la soluzione è ancor piu facile che non per il dilemma posto poco fa. Se si deve ammettere un prestito culturale, e si tratta di una mera ipotesi, esso fu dell'Oriente all'Occidente e non viceversa. Questo concetto infatti è profondamente radicato nel pensiero dell'antico Medio Oriente (dove la sapienza e la parola divina sono state per secoli oggetto di speculazione), che la notevole ripresa del tema nel Libro dei Proverbi è fuor d'ogni dubbio propria di Israele. I pensatori ebraici hanno a questo punto, come in tanti altri, sublimato e trasceso la loro eredità orientale, facendola propria e tra­sformandola nell'atto stesso di appropriarsene. Ma certo non c'era bisogno che un greco, neanche Platone, inse­gnasse loro la divina sapienza.

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Non abbiamo però ancora esaurito il concetto. Ritor­niamo al grande poema dei Proverbi :

Forse che la sapienza non grida E la comprensione non alza la sua voce?

Sulle cime lungo la strada Ed ai crocicchi essa sta,

Presso le porte all'ingresso della città Sulle soglie delle porte grida:

« Chiamo voi o uomini E la mia voce è per i figli degli uomini.

Imparate o semplici la prudenza E voi stolti siate di cuore comprensivo ...

Accogliete le mie istruzioni e non il denaro, E la conoscenza invece dei rubini,

E tutte le cose desiderabili non si possono paragonare ad essa •·

(8, I-I I ).

La sapienza ci è apparsa prima come un'umana conqui­sta, poi come un'essenza cosmica immanente al mondo e alla vita umana. Qui scopriamo il nesso fra i due aspetti. Secondo la metafora poetica essa vive fra i traffici, do­vunque l'uomo si trovi, e a tutti indistintamente essa si accosta.

Istruitevi, scegliete le cose piu belle della vita : la sod­disfazione ultima non si trova nelle cose materiali ma soltanto in quel mondo inesplorato, vagamente conosciu­to come la realtà spirituale della vita. Questa essenza diffusa e immanente alla vita e al mondo, si è sempre manifestata nell'esistenza umana, sia individuale che col­lettiva, conducendo, persuadendo, inducendo gli uomini a cose piu alte e migliori . Attraverso la divina sapienza immanente all'uomo si è attuata la storia del nostro tra­vagliato progresso dall'eredità animale, si sono ottenute le nostre graduali conquiste civili, si sono raggiunti cul­mini via via piu alti nel pensiero e nella pratica.

Ecco dunque la natura ultima dell'uomo: creato a im­magine di Dio ma un po' piu basso di Dio, è pervaso, mosso e plasmato dalla sapienza di Dio. L'uomo sarà per natura vicino al bruto, ma la sua parentela con Dio e la sua partecipazione alla sapienza di Dio sono assai piu si­gnificative. Il concetto che ritorna nelle parole citate da un pensatore di età piu tarda : <( In Lui viviamo e ci

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muoviamo ed abbiamo l'essere nostro ». Le teorie d i cer­te scuole teologiche moderne sulla condizione smarrita dell'uomo separato da Dio sarebbero parse assurde e inammissibili ai pensatori ebraici. Sempre, fin dai pri­mordi, essere umano significa possedere la divina sa­pienza, e la diversità degli uomini, la distinzione del saggio e dello stolto, del giusto e del peccatore, è data dalla misura in cui l'individuo ascolta e obbedisce gli appelli della sapienza.

Dobbiamo ora sottolineare la grande superiorità del pensiero ebraico su quello parallelo di Platone. La repub­blica di Platone è una repubblica per filosofi: solo costo­ro possono fruire dell'eredità dei piu alti tesori della razza, mentre per il pensatore ebraico l'appello della sa­pienza si rivolge a tutti gli uomini dovunque si trovino e quali essi siano. In particolar modo l'appello è diretto ai semplici e agli stolti, ai quali Platone riserva soltanto una posizione subordinata.

Eppure il concetto è anche piu complesso. È ovvio che troviamo qui un ponte fra l'umano ed il divino, Dio e l'uomo si sono messi in contatto per questo tramite. È grazie alla guida della divina sapienza che abbiamo rag­giunto tutte le nostre conquiste e lasciato alle spalle le nostre origini selvagge, progredendo sempre piu nella vita civile. È da notare che tutto ciò non si attua in virru di una voce tonante o di una sgomentevole teofania, ma nella coscienza dell'individuo, dove la parte piu alta del­Ia nostra natura, tutta illuminata dalla divina sapienza celata nell'umana interiorità conduce una secolare lotta contro la nostra animalità ereditaria, ispirandosi all'anti­ca esortazione: « Accogliete la mia istruzione e non il denaro, la sapienza invece dell'oro fino ». Tutta la storia viene quindi condensata dal pensatore ebraico in una formula.

A questo punto si inserisce nel nostro quadro la rive­lazione divina : essa si è introdotta lentamente, inavver­titamente, ma con passo sicuro. L'uomo è di poco piu in basso di Dio ed il divino in noi ha lentamente sopraf­fatto la bestialità.

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Capitolo decimo

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La concezione che ebbero i sapienti, di una misteriosa tendenza verso cose piu alte, diffusa nel mondo e imma­nente all'uomo, chiamata Sapienza di Dio, ebbe vaste ri­percussioni nella storia del pensiero. Essa fu ripresa dagli autori dell'Ecclesiastico e della Sapienza di Salomone. Il primo identifica la divina sapienza con la Torah, e non dobbiamo ravvisare in ciò un eccesso di legalismo, bensf l'indice di una sua alta valutazione della sapienza stessa, nella quale si concentra la parte migliore della vita uma­na e che è rivelata da Dio; orbene, essendo la Torah ap­punto la rivelazione di Dio, la sapienza deve con essa coincidere.

L'autore della Sapienza di Salomone dà al concetto una sfumatura diversa, non meno importante ai nostri fini, benché, limitandosi egli a incorporare una certa ter­minologia stoica nel suo discorso e aggiungendo quindi assai poco al pensiero dei Proverbi, si sia tentati di non tenerne conto. L'autore, e forse con lui tutto il pensiero ebraico di quel tempo, riconosce l'intimo rapporto che lega la speculazione antichissima dell'Oriente a quella della Grecia : entrambe hanno espresso in termini diversi ma in definitiva convergenti la certezza che la vita uma­na sia pervasa da un'entità piu che umana, la quale trova la sua origine prima e la sua natura nell'essere dell'uni­verso.

Il prologo al Vangelo di Giovanni si limita a ricapito­lare la trattazione della sapienza contenuta nel Libro dei Proverbi. È vero che questo non mette in primo piano i poteri vivificanti della sapienza, ma l'accenno qua e là

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non manca, e è in certi passi esplicito (4, 13 , 22; 7 , 2 ; 8, 3 5 ). Cosi pure il Libro dei Proverbi non usa il sim­bolismo della luce, ma questo particolare diventa ben trascurabile se si pensa che l'autore rappresenta la sa­pienza essenzialmente come illuminazione dell'uomo. Lo scrittore cristiano supera con la dottrina dell'incarna­zione i Proverbi, ma a ciò, perviene solo in quanto si basa sui princip1 contenuti nei Proverbi stessi. Non è il caso di cercare le origini del prologo evangelico nella speculazione greca, poiché esse si trovano già tutte nel­l 'eredità ebraica dell'autore, e poco importa se il suo pensiero abbia ricevuto impulso da idee greche. Ma il cristianesimo deve molto di piu al grande @osofo ebreo del Libro dei Prot,erbi: il suo pt:nsiero è penetrato al centro stesso della teologia cristiana. Quando Paolo par­la di Cristo come della potenza e sapienza di Dio (l Co­rinzi, r , 24), quando ce lo presenta come il tramite della creazione (Colossesi, I , r6) , quando elenca la sapienza, la comprensione e la conoscenza come doni divini elargiti ai credenti, e quando formula la sua dottrina del Cristo preesistente che si è svuotato per vivere fra gli uomini (Filippesi, 2 , 6-8 ), è chiaro che sta trasponendo il pensie­ro dei Proverbi nel concetto della persona di Cristo. Ed è per suo tramite che tale pensiero permeerà il cristia­nesimo.

L'Ecclesiastico ci presenta un aspetto nuovo del pen­siero ebraico, basta riflettere un istante per convincersi che lo stato d'animo della Sapienza di Salomone e dei Proverbi, porta alle stesse conseguenze. L'essenza che ha permeato la vita umana e che dappertutto propone a tut­ti gli uomini un principio di vita piu alta e piu alti ideali è evidentemente lo stesso concetto che ha avuto larga pane nella vita sociale e politica del mondo occidentale con il nome di legge naturale, e che viene comunemente attribuito alla speculazione greca . Senza dubbio venne trat tato ed elaborato dai Greci tuttavia basta formularne una definizione per rendersi conto che fu ben conosciuto presso gli Ebrei. La legge naturale è stata definita come

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« una forza suprema che unisce e controlla l'universo. Gli uomini posseggono certe qualità comuni che emer­gono inevitabilmente nella vita politica e sociale e vengo­no riconosciuti nel costume e nella legge . . . Questa legge naturale rappresenta la parte eterna della legge umana in genere e precede ed è superiore alla legge positiva, che ne costituisce soltanto un'appendice ». Si osserverà che l 'idea si proietta in due direzioni. Comprende gli elementi universali delle leggi di tutti i popoli, ovvero del « dirit­to positivo ». Ma è soprattutto la legge invisibile e non scritta, il senso universale del giusto che vive nei pensie­ri e negli ideali umani ma si esprime anche nell'atteggia­mento critico verso la legge positiva cosi come nell'atto giusto che trascende lo stretto diritto. È dunque eviden­te che l'identificazione operata dall'Ecclesiastico fra la divina sapienza e la Torah si risolve nell'assorbimento del diritto positivo nel diritto naturale : la legge sociale e religiosa di Israele si identifica con i principi univer­sali, universalmente riconosciuti dovunque l'uomo rispet­ti i dettami della sapienza. Ma i Proverbi, I-9, l'Ecclesia­stico e la Sapienza di Salomone sono testi tardivi ; perfino il primo rientra certamente nel periodo che si può vaga­mente designare come postesilico.

Bisogna tener presente quanto si è poc'anzi sottolinea­to, che la speculazione dei Proverbi è radicata profonda­mente nell 'Oriente ed è totalmente ebraica . Per quanto gli altri due testi nascano in un periodo in cui l 'ellenismo esercita un'influenza vastissima sulla vita ebraica, cosa evidente nella Sapienza di Salomone, tuttavia rientrano anch'essi nel filone del pensiero ebraico ed appartengono al genio ebraico. Il concetto, qui espresso, del diritto na­turale è una conquista intellettuale di Israele; i rapporti con il concetto greco non sono certo di subordinazione. Non ci mancano, del resto, le prove per affermare che Israele riconobbe e trattò il tema in tempi nei quali sa­rebbe assurdo pensare ad un'influsso dell'Occidente.

Al pari dell'uomo primitivo, Israele fu colpito, fin dai tempi piu antichi, dalla regolarità della natura; il con­cetto personale del mondo e dei suoi fenomeni che era allora prevalente parrebbe in contrasto con quella regola-

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rità, in quanto introduce inevitabilmente nel mondo, un elemento volitivo e capriccioso. Ma i fatti constatati non si possono negare nemmeno in ossequio alla fede religio­sa : quale ne sia la ragione, la natura possiede una sua re­golarità. Per il pensiero ebraico ortodosso questo è un segno della grazia di Dio che cosi intende ordinare il mondo a beneficio dell'uomo. La promessa della grazia divina garantisce che:

Finché duri la terra, Il tempo della semina e del raccolto, il freddo ed il caldo,

L'estate e l'inverno, il giorno e la notte, Non verranno mai meno. (Genesi, 8, 22).

Lo stessÒ pensiero, lo stato del testo, cosi come ci è per­venuto, possa ispirare qualche riserva, è espresso in Giob­be, ro, 22. Uno scrittore ignoto, parlando della tetra ter­ra dei morti ne indica il carattere piu tenificante nell'as­senza di ordine.

Invertendo il processo se ne ricava il significato: la regolarità e la sistematicità del mondo conosciuto per­mettono di fare piani e di concepire propositi nella vita umana, che altrimenti sarebbe ridotta ad un gioco capric­cioso. In breve, la vita sulla terra è resa possibile solo dal fatto che la terra è un cosmo ordinato. È abbastanza simile l'idea formulata da Geremia nella sua esortazione ai contemporanei :

Temiamo ora il Signore Che ci manda la pioggia

La prima e l'ultima, nella sua giusta stagione; Che per noi conserva:

I giorni del raccolto. (Geremia, '' 24). Anche gli animali obbediscono ad una legge immanen­

te nella loro natura : Il bue conosce il suo proprietario

E l'asino la greppia del suo padrone. (Isaia, I, 3).

La cicogna nei cieli Sa quando il suo tempo è giunto

La tortora e la rondine e la gru Osservano il tempo della loro venuta.

(Geremia, 8, 7 ).

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Tuttavia dobbiamo andar cauti nell'interpretare questi passi : gli ultimi due sono infatti dei rimproveri rivolti ai contemporanei, accusati di non rispettare alcun principio immanente. E l'esortazione di Geremia, che vede come opera divina il ciclo delle stagioni, viene subito dopo l'af­fermazione che i contemporanei appaiono del tutto indif­ferenti alla cosa. Da ciò che sappiamo del concetto ebrai­co della fertilità infatti, possiamo dedurre che la fede in Iahvé come creatore e guardiano di greggi e campi viene introdotta solo grazie alla lotta sostenuta da una serie di profeti. Fin dal giorno dell'entrata nella terra promessa, il popolo ha accettato quasi senza riserve la teologia ca­naanea che attribuisce a Baal l'abbondanza dei doni natu­rali. L'impostazione teologica del Libro dei Giudici vor­rebbe suggerirei che l'opposizione dei profeti a tale de­viazione risale allo stesso periodo - e la tesi può anche essere plausibile -. Senonché il primo episodio del tutto sicuro, è quello di Elia - che si svolge durante la siccità e la contesa finale sul monte Carmelo (I Re, I7· I8 ). È evidente che il tema di questa narrazione è il potere del Signore di trattenere le piogge per poi concederle di nuo­vo quando il popolo pentito riconosca la futilità della fe­de in Baal. Un secolo dopo, comunque, come ci attestano le dichiarazioni di Osea, e ancor dopo, come d attesta Geremia, la fede in Baal come fonte della fertilità è ancora cosi diffusa da costituire in pratica la religione po­polare di Israele. Questa situazione può servire a lumeg­giare il nostro problema. Il ciclo annuo di riti che cele­brano la morte e poi la risurrezione del dio sono, per uni­versale riconoscimento, di natura magica. Questa fase del pensiero israelitico è lontanissima dal concetto di una re­golarità ordinata della natura quale si esprime in passi come quelli prima citati. Per la credenza popolare i riti magici sono essenziali per la pretesa risurrezione del dio, cioè per il ciclo regolare delle stagioni. Lungi dal credere ad un ordine prefissato nella natura, il popolo concepisce la regolarità e la sicurezza soltanto dell'ambito di un mondo magico, del quale possiede, almeno in parte, la chiave. In questo senso il popolo stesso è il custode della natura e dei suoi mutamenti. Senza la sua cooperazione

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né la magia né alcun'altra forza possono far tornare la stagione della crescita e della riproduzione.

La conclusione alla quale siamo giunti sembra allonta­narci ancor piu da un qualsiasi concetto di ordine nella natura. Eppure basta riflettere un poco perché tale im­pressione svanisca. I frutti del rigoglio e della fertilità possono nascere solo in quanto gli uomini decidano vo­lontariamente di svolgere i riti magici necessari . Bisogna però tener ben presente che il mondo delle potenze ma­giche è saldo e tetragono. Che l'uomo le invochi o meno, le reazioni di quelle potenze ai riti restano le stesse . In questo fatto, cosf com'era interpretato, c'erano quella costanza e quella sicurezza che mancano in cosf notevole misura agli dei capricciosi. Inoltre questa forza viene con­cepita impersonalmente, per quanto si delinei una ten­denza sempre piu forte a identificarla con un dio - in Israele con Iahvé, naturalmente. È una forza piu gran­de degli dei, perché Thot in Egitto ed Ea in Babilo­nia si distinguono per il loro poderoso sapere. La rispo­sta di Ea alle frequenti interrogazioni di Marduk è nota a tutti gli studiosi dell'antico Oriente: « Ciò che io so, sai anche tu, figlio mio. V attene » - seguono poi istru­zioni particolareggiate per i riti magici. Questi dei sanno invocare e infondere energia all'immenso mondo delle forze che non appartiene né a loro né agli altri dei, ma può venire da loro utilizzato in vista di determinati fini.

Il prevalere di tali concezioni in Israele è evidente, poi, nel diffondersi dei riti della fertilità. Essi non resta­rono confinati agli strati popolari, anzi invasero un vasto settore del pensiero ebraico, lasciando notevoli tracce per­fino su quella che possiamo chiamare la religione orto­dossa. Tant'è vero che i profeti sono dei maghi e questo risalta nell'episodio di Elia che risuscita il figlio della ve­dova (l Re, q, 2 1 ) e di Elisha (l Re, 4, 3 1-35) nell'epi­sodio analogo. Sono procedimenti chiaramente magici, e in tal senso si deve interpretare il famoso simbolo di Ge­remia, che, alla presenza dei dignitari della città convo­cati ad assistere alla cerimonia, solennemente infrange un vaso, dichiarando che in tal modo il Signore avrebbe infranto Gerusalemme (Geremia, 19, ro-r r ). È difficile

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concepire un atto che risulti, agli occhi del pubblico, di natura piu schiettamente magica : Geremia non è un ora­tore che innocentemente esponga le cose che crede si deb­bano avverare, bensi opera mediante forze occulte e, di sua stessa volontà, grazie al rito della rottura, pro­voca la prevista distruzione della città. È difficile sta­bilire fino a qual punto Geremia fosse impegnato nella magia, e piu di un argomento sembra, anzi, negarlo. Se non desiderava un poco posare da mago, bisogna però ri­conoscere che scelse assai male i suoi simboli.

E che diremo poi dei vari atti di profetismo simboli­co? Un esame attento ci persuade che non si trattò di innocenti esemplificazioni come comunemente si crede. La rappresentazione drammatica di Ezechiele della città catturata (4, I-5 ; 24, I-I I ) e le sue molte narrazioni con­simili, per quanto considerate dalla plebaglia come mero intrattenimento, avevano, per il profeta, come per molti antichi esegeti della sua opera (ad esempio, 4, 4-6) qual­che virru positiva in vista della realizzazione di certi fini da lui prefissati. Il prevalere di una simile credenza nella plebe è attestato dalla supplica dell'ufficiale che va a chia­mare Michea per ordine di re Acab. Dice che i profeti di corte hanno promesso un esito felice alla campagna pro­gettata contro Ramoth Gilead e prosegue : « Che la tua parola, ti supplico, sia come la parola di uno di loro, e che tu possa parlar bene » (I Re, 22, I J ). Egli non pen­sa che Michea possa ingannare il re con piacevoli rassi­curazioni destinate a restare senza seguito, anzi, chiede chiaramente che il profeta pronunci la parola possente capace di garantire il successo. Per lui Michea non è un semplice indovino, ma, come profeta, ha in suo potere le forze poderose che circondano la vita dell'uomo e può, con una sola parola, indirizzarle nella direzione voluta. Isaia si presenta appunto in questo ruolo di mago quan­do sfida re Ahaz a chiedere un segno alto come il cielo o profondo come lo She'ol (Isaia, 7, I I ) . I termini dell'of­ferta attestano chiaramente che anche se il re avesse chie­sto una ripetizione del famoso miracolo famoso di Gio­suè ad Ajalon (Giosuè, Io, I 2-14), Isaia si credeva inve­stito del potere di attuarlo. Questa è anche l'opinione

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dell'autore piu tardo che narra come il profeta trattò Eze­chia malato : l 'ombra del quadrante solare arretra (Isaia, 38, 8 ). In tutti questi casi il rapporto intimo fra il pro­feta ed il Signore risulta evidente dal racconto, e indub­biamente risponde alla teoria ortodossa cosi come essa venne consolidandosi nel tempo, e che interpretò questi avvenimenti come opere del Signore compiute per trami­te del suo rappresentante. Tuttavia questa spiegazione non si estende a tutti gli episodi. Le storie dei profeti del secolo IX e prima rivelano una concezione della loro fun­zione che soltanto nel pensiero piu tardo sarà ridotta a quella di nunzio del Signore. Nel linguaggio del tempo il profeta era un « uomo di Dio », e la locuzione ebraica è assai piu ricca della sua traduzione, armonizzandosi con l'idea - viva in questi racconti - per cui il profeta in ba­se ad un suo autonomo diritto può compiere miracoli; giacché egli ha in suo potere le forze sovrumane.

È evidente lo stretto rapporto che unisce questo pen­siero alla fede nel potere della benedizione e della male­dizione. Tali formule possenti venivano ancora una volta pronunciate nel nome del Signore, tuttavia un'autorità piu remota si profila in parecchi passi. Indubbiamente non è determinante il fatto che spesso non si invochi l'azione divina, perché può anche essere sottintesa. Tut­tavia, per restare nella linea che ci siamo proposta, tale invocazione potrebbe essere secondaria e rappresentare soltanto un costume piu tardo. Resta però il fatto che benedizioni come quelle dei patriarchi, che evidentemen­te si « sono avverate » nel corso della storia di Israele, lasciano al lettore l'impressione di trovarsi di fronte a magia pura e semplice. Il vecchio dignitario pronuncia formule che avrebbero operato per virtu propria, nei se­coli, determinando il destino delle varie tribu. Se questo è vero, la questione diventa di grande importanza per la nostra ricerca, perché, oltre a mostrare la potenza ed il prevalere della magia nel mondo, dimostra che essa do­mina anche, in misura imprecisabile, sul destino umano, c quindi coincide quasi con il concetto di fato, benché il suo dominio sulla vita dell'uomo possa apparire meno determinante.

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Il giuramento è intimamente connesso alla benedizio­ne ed alla maledizione sia nel carattere come nella san­zione. Anch'esso può operare in tempi futuri. Fra i mol­ti esempi ricordiamo le atroci conseguenze dell'infrazione da parte di re Saul del giuramento fatto da Giosuè ai Gi­beoniti (II Samuele, cap. 2 r ), e la convinzione nazionale che il possesso della Palestina sia dovuto a] giuramento fatto ai patriarchi secoli prima. Ma questo giuramento viene pronunciato dal Signore! Ecco una situazione sor­prendente. Giuramenti e accordi fra uomini venivano per lo piu prestati in nome del Signore - almeno questo di­venne l'uso; Lo si invocava affinché vegliasse sulla paro­la pronunciata garantendone l'adempimento fedele. Par­rebbe, alla superfice, un riconoscimento di Iahvé come fonte di giustizia e nel contempo come entità immanente al senso stesso della giustizia. Tuttavia, anche cosf inte­so, l'atto non è certo di natura religiosa. Né si trattava, in casi del genere, di supplicare né di implorare l'autorità divina, né di servire la volontà divina. L'uomo parla e Dio è obbligato ad adempiere. È un atto magico, quali che siano le pie parole che l'ammantano. Ma quando Dio stesso giura, non si vede come si possa sfuggire al problema: il devoto autore dell 'Epistola agli Ebrei argo­menta che « non potendo giurare in nome di qualcuno piu grande, giura in proprio nome », ma è un'esegesi sto­rica piuttosto gracile; sembra piu convincente la tesi che il giuramento divino non sia altro che la trasposizione di una consuetudine umana. Nemmeno questa ipotesi, tut­tavia, ci persuade; perché gli autori biblici non possono essere tanto sciocchi. Non ci resta che concludere che per Israele il giuramento di Dio è piu vincolante della sua promessa, per la stessa ragione che sta alla base delle pro­messe umane: perché esiste una forza che garantisce l'a­dempimento. Certo tale forza non è di natura personale, perché ciò implicherebbe una gerarchia di dei, nella qua­le Iahvé avrebbe una posizione di sottordine. È una for­za. E Iahvé deve sottostarle!

Per sconcertante che possa essere una tale conclusio­ne, ci è pure riferito un episodio che, a dire poco, sug­gerisce l'esistenza di una fede in un mondo di poteri so-

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pradivini. Quando gli eserciti alleati di Giuda ed Israele ebbero devastato la terra di Moab, chiuso il re nella sua capitale e iniziato l'assedio, il re disperato « prese il figlio piu anziano che avrebbe dovuto succedergli nel regno e lo offrf in olocausto sulle mura; ed una grande ira colpi Israele, e partitisi da lui tornarono alla loro terra » (I I Re, 3 , 27). Si è per lo piu d'accordo nel ritenere oscuro il significato dell'episodio. Eliminando però via via le eventuali e diverse ipotesi, possiamo infine prospettare una plausibile interpretazione.

In primo luogo il racconto non può voler dire che « c'era una grande ira in Israele », e che gli Israe1iti sa­rebbero partiti per l'indignazione provata dinanzi a quel­l 'azione. La preposizione ebraica del testo non si accor­derebbe con un significato simile. Inoltre è inconcepibile che dovessero tornarsene a casa per effetto di una « gran­de ira », che li avrebbe, se mai, resi ancor piu aggressivi. L'ira che colpisce il popolo di Israele costringendolo a tornarsene a casa non può sprigionarsi dal dio moabita, che è stato distrutto e sgominato : egli ha fatto quanto ha potuto per difendere il suo popolo, ma i guerrieri ebrei hanno continuato vittoriosamente la campagna. Inoltre gli Ebrei operano in nome di Iahvé, il quale ben potreb­be debellare la collera di Chemosh. È da escludere d'al­tra parte che sia l'ira di Iahvé a rimandare a casa il suo popolo : perché mai l'atto di un re pagano dovrebbe spin­gerlo contro il suo popolo? Bisogna ammettere che l'ira abbia origine diversa, tanto possente da far sf che i de­voti di Iahvé rinuncino alla vittoria che hanno già quasi in pugno per tornarsene alle loro case pur avendo agito, evidentemente, con l'approvazione del loro dio (vv. 9-20).

Il sacrificio dell'erede al trono è un possente rito ma­gico contro il quale Io stesso Iahvé resta impotente. Que­sta conclusione è meno eretica di quanto appaia rispetto alle concezioni « critiche » prevalenti. Ciò che siamo ve­nuti tratteggiando è né piu né meno ciò che va sotto il nome di tabu. C'è una tendenza a trarre nell'orbita di Iahvé anche l'effetto del tabu: l'herem su Gerico è pro­nunciato in suo nome e viene da lui garantito (Giosuè, 6, 17 ; 7, r r -12) , la temerarietà di Uzza è punita dallo

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stesso lahvé (Il Samuele, 6, 6-7), il peccato di Nadab e Abihu viene da lui punito con il fuoco (Levitico, IO, r-2) . Eppure secondo l'opinione piu ortodossa degli stu­diosi, il sacro è una forza impersonale che agisce automa­ticamente e indipendentemente dalla volontà divina. Tale concezione fu tramandata nella legislazione sacerdotale, depositaria di idee e di consuetudini occulte, e ciò è be­ne illustrato dal rito del vitello di branco al quale viene spezzata la cervice in una valle selvaggia attraversata da un ruscello perenne, rito che in ogni particolare si rivela di natura magica (Deuteronomio, 2 r , 1-9). Ma, com'è noto, la magia continua a trovare espressione anche nel Salterio.

In breve: ci sono buone prove della fede di Israele nell'esistenza di una potenza suprema, posta al di sopra degli uomini e degli dei, che in certa misura, per mezzo di riti e di formule che chiamiamo magici può essere in potere di entrambi. Benché non sia di natura etica, que­sta forza ha certe qualità che potrebbero farlo pensare. Il suo carattere fondamentale è la costanza: di contro al­l 'incertezza delle divinità capricciose essa rimane sempre uguale a se. stessa, e coloro che ne sanno far uso possono essere certi della sua efficacia. Uno dei suoi tratti è quasi una qualità morale : essa custodisce intatti gli accordi so­lenni, e quindi le si può applicare l 'attributo della veri­tà, benché probabilmente non si tratti che di una mani­festazione della costanza che già abbiamo menzionata.

Ecco dunque il concetto piu semplice del diritto natu­rale in Israele : una forza operante sopra uomini e dei, capace di assicurare la verità e la fedeltà ai patti. Tale forza tuttavia non ha forza coattiva e probabilmente non ne viene infirmata la divina libertà. Questa forza potreb­be anche essere ignorata e si potrebbe agire al di fuori di essa, ma come avviene nell'ordine morale dell'universo o nell'ambito della legge nella società umana, le conse­guenze di una sfida sono presto sentite e per la loro na­tura spiacevole inducono al conformismo. Questa creden­za è lontana dalla fede ortodossa e si avvicina piuttosto

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a forme religiose arcaiche. Bisogna tuttavia osservare che al giuramento divino, ad esempio, è dato ampio rilievo nd Libro del Deuteronomio, di epoca relativamente tar­da e di notevole complessità. Troviamo inoltre manife­stazioni di questa credenza nei profeti e nella letteratura ritualistica di varia epoca fino alla fine dell'Antico Testa­mento. È chiaro pertanto che tutta la concezione del mondo di Israele è scissa da un certo dualismo : accanto alla fede sempre piu ferma nel dominio universale di Iah­vé, esiste la credenza in un regno magico che non si sot­tomette al suo potere. Cosa per nulla sorprendente se pensiamo che la situazione perdura tuttora in folti strati di persone piu o meno devote, e che perfino certe dira­mazioni della Chiesa si attengono a credenze ed a prati­che di natura essenzialmente magica, con ciò stesso ne­gando la supremazia di Dio. Pur riscontrando quindi una contraddizione nel pensiero di Israele, dobbiamo qui !i­mitarci a constatare l 'espressione del concetto di un ordi­ne morale nel mondo senza voler stabilire in quale misu­ra esso domini il piu alto pensiero ebraico. Ma certo questa consapevolezza sempre piu viva dell'esistenza di un governo morale fa intimamente parte della fede nel­l'universalità del dominio di lahvé come dio della giu­stizia.

Quale fosse per Israele il concetto originario del go­verno è difficile stabilire. Il piu antico dominio degli an­ziani della comunità e la libertà democratica ereditata dalla società nomade sottintendono un rispetto dei costu­mi ereditari e un piu o meno rozzo senso della giustizia. Certo le tradizioni che si affermano nell'Antico Testa­mento come storia arcaica della nazione rivelano un con­cetto della legge come posta di là e al di sopra del capric­cio individuale. Ma dobbiamo porci il problema della validità di tale interpretazione. Essa appare certamente plausibile ; d'altra parte gli strati piu antichi dd Libro dei Giudici, che sono le piu antiche fonti storiche per la conoscenza della società ebraica, ci suggeriscono conside­razioni inquietanti. Uno scrittore piu tardo tratteggia co-

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si il periodo : « Non c'era re in Israele, ognuno faceva ciò che ai suoi occhi era giusto » (Giudici, 2 1 , 2 5 ; cfr. r8 , r ; 1 9 , I ) , spiegazione che, nel contesto, equivale all'anar­chia sociale. Certo il comportamento dei Daniti a Laish ed il loro trattamento di Micha e tutto l'episodio della concubina del Levita ed il suo seguito (Giudici, 1 8-2 1 ) sono l'eloquente rappresentazione di una vita sottratta a ogni freno morale. Il principio di ogni azione è il desi­derio, ed il mezzo per attuarlo è la forza fisica e, in se­guito, politica . La vita dei forti è vita felice, poiché con­siste nel soddisfacimento dei desideri. La favola popolare di Sansone, quale ne fosse la morale originaria, esprime l'ideale del tempo : Sansone è come l 'autore avrebbe vo­luto essere, capace di picchiare e abbattere i nemici, di beffarsi delle punizioni e degli intrighi, di prendersi ciò che desidera e di accoppiarsi con prostitute a suo piaci­mento. Ecco una vera vita da uomo! È questa la « legge naturale » del tempo dei Giudici: la legge della giungla.

Forse queste eroi non sanno valutare criticamente le cose e operare con consapevolezza etica le loro scelte. Certo però il pensiero di Israele su questo problema risa­le molto indietro, ad un periodo arcaico, perché anche queste storie, specie quelle di Sansone e di Abimelech, contengono un giudizio sul comportamento dei protago­nisti. Ma solo in epoca piu tarda i pensatori contrappon­gono questa specie di « legge naturale » ai principi di equità e la condannano. Possiamo affermare che al tempo dei Giudici prevale l'opinione che la forza sia l'unica nor­ma socialmente valida, nei soli limiti dei poteri magici del giuramento (Giudici, 2 1 , 1 -7) e di certi costumi af­fermati, come la vendetta del sangue, e forse anche di alcuni riti tribali o familiari. Potremmo anche non acce­dere in tutto e per tutto a quest'opinione dato che la no­stra conoscenza degli inizi della religione ebraica ci co­stringe a ipotizzare, anche in quel periodo turbolento, l 'esistenza di ideali piu alti. Dobbiamo però anche am­mettere che essi dovevano ridursi ad una concezione eso­terica, in pratica socialmente impotente.

Non possiamo nemm�no rintracciare le cause e l'anda­mento dell'evoluzione pubblica della legge, ma possiamo

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accennare a pochi fatti di rilievo. Israele ereditò la legge dei Cananei, e la vita delle sue comunità relativamente colte, dovette esercitare un'influenza moderatrice sulla violenza primitiva. Anche la monarchia, nonostante le di­cerie di certi scrittori biblici, impose evidentemente una legge nazionale che tutti dovettero riconoscere. Ciò è sot­tinteso nel passo or ora citato sul periodo dei Giudici, ed è pure questa l 'impressione che ricaviamo da certi passi riguardanti l'amministrazione della giustizia da parte di Davide. È anche significativo che in questo periodo si delinei con energia il senso del potere restrittivo di con­suetudini e norme sociali : « Non si fa cosi in Israele �> (Il Samuele, 1 3, 12) .

Ma dobbiamo riconoscere che i l primato del diritto po­sitivo è fortemente radicato nella concezione israelitica della monarchia. Poiché la monarchia è storicamente una proiezione del dominio dei Giudici, è inevitabile che la condotta dei re si modelli sull'idea della supremazia. Co­si suona il compendio delle prerogative regali attribuito a Samuele allorché il popolo propone di adottare la for­ma monarchica ; egli avverte che <c il re . . . prenderà i vo­stri figlioli e li designerà come suoi cocchieri e cavalieri, ed essi correranno davanti ai suoi carri . . . Prenderà le vo­stre figlie per profumiere, cuoche e fornaie. Prenderà i vostri campi e le vostre vigne e i vostri uliveti, i migliori fra di essi, dandoli ai suoi servi » (I Samuele, 8, I I -!2) . Il passo è concordemente ritenuto di epoca tarda, ma ser­ve tuttavia a delineare il carattere della monarchia ebrai­ca, quale realmente si rivelerà. L'idea orientale del mo­narca assoluto che <c non può sbagliare » si afferma alla corte di Davide, se già non si è imposta alla corte di Saul; domina incontrastata durante il regno di Salomone e pro­voca la follia di Roboamo a Shechem (1 Re, 1 2 , 14). E per quanto sub1sca uno scacco con la rivolta delle tribu del nord, anche quei devoti della libertà si trovano presto sottoposti ad una classe dominante ancor piu irresponsa­bile di quella di Gerusalemme. Basti citare l'episodio di Naboth (I Re, cap. 2 1 ) e ricordare l 'oppressione contro la quale protestano i profeti del secolo VIII per renderei conto che tanto la parte settentrionale come la meridio-

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naie di Israele accettarono ufficialmente la teoria dell'ir­responsabilità del potere in quanto fonte ultima della leg­ge. Dell'aspetto politico di questa situazione e della lotta per un governo responsabile tratteremo in un altro capi­tolo. Per ora ci preme stabilire in quale misura le classi dominanti nei due regni furono sottomesse al diritto po­sitivo.

Due episodi del periodo regio sono altamente signifi­cativi per il pensiero dell'epoca : gli episodi di Betsabea e di Naboth, intimamente connessi l 'uno all'altro per la suprema indifferenza che entrambi mostrano verso i di­ritti umani e per la spavalda affermazione del caratte­re assoluto dell'autorità regale. Ma sono anche importan­ti come tappe progressive dell'affermarsi nella coscienza ebraica di una legge piu alta, perché in entrambi i casi un profeta interviene a rimproverare il re in nome di Dio. In termini piu semplici, il profeta rigetta la pretesa del re di essere la massima autorità, proclamando invece la supremazia della volontà del Signore, di una legge che vincola tanto il monarca come il piu umile dei suoi sud­diti. Ecco lo sfondo dell'opera di Amos, la cui impor­tanza per il pensiero di Israele è già stata indicata. Sap­piamo che il suo altissimo concetto della natura e del­l'autorità di Dio aveva le sue radici senza dubbio nella consapevolezza dei diritti comuni a tutti gli uomini, va­lidi oltre gli stessi limiti politici e religiosi del tempo. Questo principio è per lui impersonato dal Dio di Israe­le. Ma in un passo, almeno, di notevole rilievo, egli po­stula l 'esistenza di un Bene in sé e per sé. Dice infatti : « Forse che i cavalli corrono sulle rocce, o forse che si ara il mare, perché voi possiate mutare la giustizia in bile ed il frutto della giustizia in assenzio. voi che vi compia­cete di una cosa senza valore e dite : " Non abbiamo ac­quistato potenza grazie alla nostra forza? " » (6 , 12-1 3 ). Una certa linea di condotta, egli dice in sostanza, viene seguita nelle cose comuni, ma i contemporanei oltraggia­no il senso comune dell'umanità con le loro aberrazioni religiose e morali. Il senso comune, egli sostiene, dovreb­be ispirare all 'uomo la rettitudine sia nella sua condotta privata come nel suo atteggiamento religioso.

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D i solito il pensiero di Israele h a una coloritura cosf fortemente personale, cosi intimamente intrecciato alla credenza in una Persona universale onnipresente e prin­cipio motore di ogni cosa, ma prima di dedurre tutte le conseguenze di tale atteggiamento dobbiamo constatare in Amos un concetto di legge naturale piu umanistico in­sieme ad una profonda fede nell'azione divina. Amos svi­scera anche il problema della teodicea, che ovviamente implica un criterio valido al di fuori di Dio e in certo senso al di là di Dio - un criterio cui sia commisurabile tanto la condotta divina come l'umana. È appena il caso di menzionare che l'Antico Testamento, specie nella sua parte piu tarda, mostra un profondo interesse per il pro­blema della giustizia del governo divino del mondo, te­ma centrale della strana teologia dell'Ecclesiaste, dove Dio, giudicato in base ai criteri umani di giustizia, è tro­vato in difetto. Dio ha conservato i suoi privilegi egoisti­camente e par mosso solo dal suo piacere, mentre l'uo­mo, nel suo continuo cercare e lottare, è sviato a ogni passo dalla Sua forza cosmica e gode di concessioni mini­me, appena sufficienti a tenerlo occupato. Nei suoi rap­porti con Dio l'uomo dovrebbe soprattutto stare attento ai passi falsi e misurare le parole, perché una parola in­cauta può procurare fastidi inauditi. Non è detto dove l'Ecclesiaste trovi la base di questa teoria etica nel qua­dro di una simile filosofia, ma uno studio attento ce lo può svelare. Il suo pensiero, fedele alla tradizione del movimento sapienziale, è esclusivamente umanistico, ra­dicato in certe convinzioni sulla natura della buona vita e sulla preferibilità di una determinata condotta. Egli vuole scoprire se l'uomo possa attingere il bene, e, aven­do concluso che il bene è tutto ciò che può procacciare soddisfazione duratura, si dedica a ogni genere di espe­rienze, senza darsi alcun pensiero degli scrupoli tradizio­nali . Eppure attraverso questa esperienza, dominata - a quel che sembra - da un egocentrismo basso quanto quel­lo da lui attribuito al suo Dio, egli inconsciamente rende omaggio ai comuni ideali sociali di giustizia e di umanità. È preoccupato della sfacciata ingiustizia del suo tempo, per quanto poi accantoni il problema, ritenendo che non

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ci sia modo di rimediarvi : la somma delle miserie umane resta infatti sempre costante.

Osserva le egoistiche gerarchie dei funzionari, ciascu­na intenta a sfruttare gl'inferiori, e soprattutto i poveri contadini. Muove aspre rampogne al costume dei monar­chi assoluti, dinanzi ai quali i sudditi possono soltanto curvarsi e spiare astutamente ogni possibilità di trarne vantaggio. Contrappone loro il giovane povero ma sag­gio, destinato a rimaner confinato al suo basso rango fi­no alla fine dei suoi giorni, e tuttavia migliore del poten­te e rapace monarca, la cui morte non verrà pianta da nessuno. L'unico cui vada l'ammirazione dell'Ecclesiaste è il sapiente che libera la sua città con la saggezza dopo che la potenza militare è fallita. La sua profonda sensi­bilità sociale alimenta il suo pessimismo appunto perché dispera di poter migliorare le circostanze. Egli giunge a questo punto al problema centrale di una teoria del dirit­to naturale : l'esistenza di criteri morali contrastanti fra di loro. I capi egoisti che egli censura agiscono pur sem­pre in base ad impulsi universalmente umani, ma l'Ec­clesiaste non li vuole con ciò giustificare e non ammette che si ritorni ai tempi dei Giudici. Infatti , di contro a si­mili norme, esiste anche una istintiva tendenza verso co­se piu alte, un senso di giustizia non meno profondamen­te radicato nella natura umana. Questo concetto è alla base di tutto il sistema speculativo dell'Ecclesiaste: la norma che egli venera è il comune sentimento della giu­stizia, per vaghi che ne siano i contorni. Ad essa lo stesso Dio deve sottomettersi.

Nel Libro di Giobbe il tema è trattato in modo parti­colarmente interessante, in quanto l'antitesi della poten­za e della giustizia è proiettata nel comportamento dello stesso Dio. Esso ritorna variamente in tutto il libro. I discorsi di Iahvé sottolineano eloquentemente la potenza irresponsabile di Dio : il suo potere è tale e la comples­sità del suo operare cosi remota dall'umana comprensio­ne che l'uomo non può discuterne. Lo spirito indagatore può soltanto, alla fine, confessare la propria temerarietà :

... Ho parlato di ciò che non comprendevo, Di cose troppo mirabili per me, che non sapevo ...

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Perciò aborro da me stesso, E mi pento nella polvere e nella cenere.

(Giobbe, 42, 3, 6).

I discorsi di Elihu non si discostano molto da questa po­sizione: Dio « non rende conto delle sue cose » ( 3 3 , 1 3 ). Eppure codesti scrittori non ignorano il problema, pro­curano di dimostrare che Dio non vuole il male (34, 10 sgg. ) e sono scandalizzati da Giobbe che sembra porre al di sopra della giustizia di Dio la propria ( 3 5 , 2) . L'indi­pendenza morale di Giobbe offende la pietà tradizionale dei suoi amici : egli rifiuta di prosternarsi contrito dinan­zi alla trascendenza e invece domanda con insistenza : « Perché mai Dio dovrebbe far questo? )) Per lui non è sufficiente che la potenza assoluta segga in trono al cen­tro dell'universo: anche essa deve rispondere ai comuni criteri di equità, non meno dell'infimo uomo. Su tale ba­se Giobbe cerca un incontro con il suo grande avversario per discutere con lui :

Ecco, ho preparato la mia causa So di essere giusto. (Giobbe, 13, x8).

Si avvicina ancor piu al punto in questione nella sua que­rula invettiva contro la potenza cosmica, che, egli sostie­ne, dovrebbe essere almeno giusta quanto l'uomo:

È bene ai tuoi occhi che tu opprima E che tu disprezzi l'opera delle tue mani?

Hai tu occhi di carne, O vedi tu come vede l'uomo?

Sono i tuoi giorni come i giorni dell'uomo, O i tuoi anni come gli anni dell'uomo,

Che tu indaghi sulla mia iniquità E ricerchi il mio peccato

Per quanto tu sappia che non sono malvagio? Ma non c'è nessuno che possa liberare dalle tue mani.

(Giobbe, xo, 3-7).

Tale è la costante protesta di Giobbe: non ha fatto al­cun male e tuttavia è bersagliato dalle afilizioni. Non stu­pisce che il suo spirito audace protesti senza ritegno con­tro l'irresponsabilità divina, prima di piegarsi, alla fine,

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sui suoi propri eccessi, e capire di non aver vissuto un'e­sistenza tutta ispirata a misericordia :

Mi hai concesso la vita e la bontà E il tuo favore custodi il mio spirito.

(Giobbe, xo-12).

Eppure, toccando il fondo della tetraggine, egli supera lo stesso Ecclesiaste nel denunciare l'immoralità di Dio:

Quanto a essere potente, è potente; Quanto a essere giusto, chi Io può chiamare a giudizio?

lo sono retto, non mi preoccupo di me stesso; Disprezzo la mia stessa vita.

Non importa ! Perciò dico Che giusti e malvagi egli distrugge ugualmente.

(Giobbe, 9; 19, 21-22) .

Ma la grande differenza fra Giobbe e l'Ecclesiaste sta in ciò, che il primo si aggrappa alla sua fede e perviene ad una ragionata conclusione sostenendo che i principi di giustizia che egli onora come uomo valgono anche per Dio.

Eppure è ovvio che, per quanto il temperamento filo­sofico dei sapienti si senta attratto da tali opinioni, la massima parte del pensiero filosofico ebraico, a giudicare dalla letteratura, pone nella natura e nella volontà di Dio la fonte dell'eticità. Il nesso fra le due concezioni appa­rentemente contraddittorie ci è rivelata dal grande pen­satore cui ci siamo già frequentemente richiamati - l'au­tore dell'ottavo capitolo del Libro dei Proverbi. Il suo concetto della sapienza come potenza vivificatrice che spinge l'uomo verso cose sempre migliori, racchiude, co­me già si è visto, l'altro concetto, che l'uomo attraverso la sapienza raggiunge l'intuizione piu autentica dell'es­senza di Dio. Il filosofo ebraico avrebbe cordialmente as­sentito alla risposta che Socrate diede a una delle sue ce­lebri interrogazioni. La giustizia non è tale perché Dio la vuole: Dio la vuole perché è giusto, in quanto la sua natura è giusta.

È dunque sulla linea dello svolgimento di un concetto dell'universalità del dominio di Iahvé e dell'allargamento del pensiero etico nella religione ebraica che dobbiamo

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riscontrare l'evoluzione verso u n criterio universale del giusto. Il trionfo di questo concetto, evidente nelle con­danne dell'ingiustizia pronunciate dai profeti d'Israele, appare soprattutto nel disgusto che ispirò loro l'irrespon­sabilità degli imperi aggressori. Isaia addita al disprezzo la boria assira :

L'ho fatto con la forza delle mie mani, E con la mia sapienza, perché sono sapiente.

Ed ho spostato i confini dei popoli Ed ho spogliato i loro tesori ;

E da potente ho rovesciato coloro che stavano in trono. La mia mano ha trovato, come una nidiata,

La ricchezza dei popoli; E come si raccolgono le uova nascoste

Cosi ho raccolto tutta la terra.

Ma: Forse che la scure si gloria contro chi fende,

O insuperbisce la sega contro colui che la usa? Perciò il Signore manderà

La macilenza sui suoi pingui [guerrieri] . (Isaia, Io, I3·I6).

Non meno efficace è la breve osservazione di Abacuc quando, parlando della violenta aggressione del nemico caldeo, fa risuonare la sua piu veemente nota di biasimo perché

Da esso provenivano i suoi criteri di giustizia e dignità ... Reprobo che trova la sua potenza nel suo dio.

(Abacuc, I, 7-n).

Da codeste riflessioni il concetto ebraico di diritto na­turale attinge la sua forma caratteristica. La nozione di una forza direttiva universale forse impersonale, ma co­munque indipendente dal potere del Signore, è d'impor­tanza secondaria, e se l'abbiamo sottolineato è solo per a ttrarre l'attenzione su una fase autentica nel complesso del pensiero ebraico, e per mostrare la portata delle sue maggiori conquiste : infatti è diventato cosf assiomatico per la nostra mente che Israele subordini il mondo alla volontà ed all'attività di Dio, che siamo portati a scarta­re tutte le altre possibilità. Non è, in fondo, un errore

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grave, poiché l 'aspetto dominante del pensiero di Israele è il personalismo. Ed è soprattutto nella concezione di una legge universale valida e operante nella vita degli uo­mini che i pensatori ebraici postulano la realtà personale e l'attività del loro Dio. Il prevalere di questa fede fra i profeti è evidente, ma essa corrisponde anche alla conce­zione dei sapienti. La « sapienza di Dio » sulla quale tan­to insistono non è un'entità staccata, impersonale, ma è emanata da Dio, è Dio stesso che opera fra gli uomini.

Questo è il contributo piu notevole dei pensatori di Israele al dibattito sul diritto naturale. Per loro non si tratta di una forza irresponsabile che ciecamente, benché benignamente, influisca sugli impulsi dell'uomo, ma è Dio nella sua santità e giustizia che rivela all'uomo peccatore la sua volontà e l'alto destino e la felicità riserbati all'uo­mo che ad essa si conforma. Ne deriva tutto ciò che è caratteristico dell'etica ebraica : l'ardore freddo della sua ineluttabilità ed anche il suo carattere trascendente che · situa la giustizia lontano dalla portata dell'uomo, come un ideale, tuttavia, al quale si deve tendere e aspirare. La passione morale dei profeti è nota : essi si preoccupa­no del benessere umano, è vero, ma la passione inelutta­bile del loro appello non può nascere da considerazioni esclusivamente umane. La forza travolgente che si impos­sessa di loro « con forza di mano » è la santità di un Dio personale vicinissimo che giudica l'ingiustizia dell'uomo. E questo è per Israele il diritto naturale ! È qualcosa di piu di « una potenza suprema, unificatrice, dominante che si manifesta nell'universo », è Dio che dice, dall'alto della sua supremazia e nella sua santità : <( Questa è la via, percorretela ! » :

Il ruolo che tale concetto ebbe nel foggiare il diritto! positivo, come anche nel determinare la critica delle leg-·r gi, appare chiaramente. Tuttavia resta il fatto che fino a tempi relativamente recenti la speculazione etica e le san-' zioni etiche non si appellano al diritto codificato. La fon-, te ultima della giustizia è in leggi non scritte, o, in parole' piu semplici, negli istinti e negli impulsi che sollevano i cuori degli uomini. Indubbiamente i re e altri uomini di interessi pratici possono giustificarsi richiamando il dirit-:

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to scritto, ma per chi medita l'argomento la legge ultima dei cuori è in una norma universale. L'opera dei profeti ci mostra che la storia giuridica di Israele ha ricevuto l 'impronta di questa legge. Inoltre ne furono promosse, come da una cattiva coscienza, le varie riforme del perio­do monarchico, anche se queste ebbero un carattere pre­valentemente culturale. Il Libro del Deuteronomio di per se stesso testimonia eloquentemente l'importanza del mo­vimento, perché, nonostante pretenda di essere una « se­conda legge », in realtà è una revisione dell'antica legi­slazione sociale che Israele ha, in gran parte derivato dai Canaanei. Possiamo quindi concludere con sufficiente certezza che un atteggiamento di indipendenza critica nei confronti del diritto codificato fosse abbastanza diffuso fra gli uomini di pensiero. Ma per importante che ciò possa essere ai nostri fini, dobbiamo ora prendere in con­siderazione un altro punto : il diritto naturale esiste solo se ha carattere universale. Per giungere al nodo della que­stione dobbiamo domandarci fino a qual punto i pensa­tori di Israele applichino i loro criteri ai diritti stranieri e se essi ritengano presente, in altri popoli, un fermento simile a quello che anima il pensiero di Israele.

L'indagine è ostacolata da un'evidente difficoltà: gli scrittori ebraici si interessano soprattutto ai principi mo­rali ed alla vita etica di Israele prestando scarsa attenzio­ne alla vita ed al pensiero degli stranieri. Tuttavia i pri­mi undici capitoli della Genesi ci offrono del materiale utile alla ricerca. I personaggi del racconto possono ben essere considerati antenati remoti, ma non sono certa­mente lsraeliti e nella narrazione si stagliano certi fatti rilevanti. Gli autori non dubitano affatto che Dio sia co­nosciuto dai popoli non-ebraici attraverso una rivelazio­ne simile, se non identica, a quella che piu tardi ebbe Israele. La sua volontà è la loro legge ultima ed è volta a mantenere in vita quegli stessi criteri morali che piu tardi si attuarono nella società ebraica. Caino non avreb­be dovuto uccidere Abele, la sfacciata « violenza » del­l 'epoca del diluvio grida vendetta al cielo, la vita e il comportamento di Noè costituisce un costante rimprove­ro ai suoi contemporanei, i costruttori della torre di Ba-

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bele peccano di arroganza ecc. Inoltre la ripartizione dei popoli della terra è fatta collimare con i fini divini; seb­bene non determinata su basi etiche essa esprime tutta­via l'impulso che per gli autori è l'autorità suprema del­la vita umana.

Si perviene a risultati identici esaminando i resoconti dei rapporti di Israele con le potenze straniere. Gli Egizi non avrebbero dovuto opprimere gli Ebrei, i lavori for­zati degli schiavi gridavano vendetta al cielo e determi­narono la divina punizione in forma di piaghe e di altre sciagure, riferite nell'Esodo. Si denunciano le tirannidi illegali degli Assiri e dei Caldei : questi popoli violano tutti i principi di umanità e si fanno vanto delle loro tra­sgressioni. Quanto ai popoli -minori vicini alla Palestina, tutte le minacce del primo e del secondo capitolo del Li­bro di Amos nascono come reazione contro un agire di­sumano : quei popoli hanno commesso delle atrocità con­tro dei vicini indifesi, hanno scordato « il patto fraterno » riducendo in schiaviru popoli interi, dando libero e im­placabile corso ai loro odi. D'altro lati i significati sottin­tesi dei Canti di schiavitu e dei passi che riferiscono il grande afflusso di popoli gentili verso Gerusalemme per compiervi atti di adorazione, mostrano che non era mi­sconosciuta l'idea di un vincolo umano comune fra tutti i popoli, capace di accomunare gli stranieri agli Ebrei nei grandi ideali ed impulsi morali. Bisogna riconoscere che negli scrittori ebraici non ci restano affermazioni circa la base universale dell'etica e siamo pertanto fin qui giusti­ficati nella conclusione che il problema non sia stato in­teso in tutta la sua portata. È chiaro tuttavia che i pen­satori ebraici diano per sottinteso, seppure senza averne una coscienza critica, la validità universale dei criteri eti­ci basilari che essi stessi venerano. Possiamo citare anco­ra una volta le parole di Paolo come espressione del pen­siero tradizionale del suo popolo : (( Poiché l'ira di Dio viene rivelata dal cielo contro ogni ingiustizia degli uo­mini. . . ciò che è conosciuto di Dio è manifesto in loro, perché Dio lo manifestò loro >> .

Eppure il problema del diritto naturale svela ancora un altro aspetto, perché in Palestina, durante la secolare

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occupazione di Israele, due gruppi di uomini offrirono agli Ebrei l'occasione di applicare i loro ideali : gli im­migrati stranieri e gli schiavi. La condizione subordinata di entrambi è nota a qualsiasi lettore dell'Antico Testa­mento. Il pensiero piu progressista difese gli immigrati dal capriccio della plebe bigotta e sospettosa. Gli autori del Deuteronomio mostrano una sollecitudine per « colo­ro che soggiornano », che costituisce uno dei tratti piu notevoli dell'opera. Anche i profeti esortano a rispettare ed a nutrire sentimenti fraterni verso la plebe non-cit­tadina. Ma è il testo sacerdotale a compiere il passo fina­le, legiferando sull'uguaglianza di diritti e di doveri dei gerim : « Avrete una sola legge per colui che è nato nella terra e per lo straniero che dimora fra di voi » (Esodo, 12 , 49). La disposizione acquista un notevole significato se si pensa che risale ad un periodo tardo e gode di un'al­ta autorità nel giudaismo postesilico.

Non possiamo affrontare con altrettanta facilità il pro­blema dello schiavo; per il pensatore moderno la consue­tudine diffusa e legalizzata della schiavitu è una macchia che offusca le conquiste sociali dell'antica Israele, tanto piu che nessuna protesta si leva mai contro l'istituzione in se stessa ; né mai si chiede libertà per tutti gli uomini. Geremia ad esempio si indigna perché gli schiavi appena liberati vengono illegalmente ripresi, ma non pronuncia una sola parola d'accusa contro i suoi contemporanei che li hanno privati della libertà (Geremia, 34, 8-22) . Eppu­re i fatti non sono cosi accusatori come pa'rrebbe. La schiavitu nei tempi arcaici ha tratti umani: lo schiavo straniero, che è per lo piu un prigioniero di guerra, deve la vita all'istituto della schiavitu, senza la quale sarebbe stato trucidato al momento della disfatta del suo popolo. La schiavi tU di Ebrei ha cause economiche : si accetta la schiavitt1 quando non si è piu in grado di guadagnarsi da vivere. Tale condizione garantisce almeno un minimo di' sussistenza e in questa luce può apparire, come la vendetta di sangue, una misura sociale progressiva rispet­to al suo tempo.

Il carattere morale della schiavi tu nell'Antico Testa­mento dipende pertanto in larga misura dall'indole del

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padrone, e abbiamo la prova che la condizione degli schiavi era assai migliore di quanto il termine possa sug­gerire. Le distinzioni sociali sono attenuate nei rapporti semplici e immediati della vita rurale. Padrone e schia­vo, associati come sono in ogni lavoro e in ogni inizia­tiva agricola, sono legati da un certo cameratismo. Un episodio rivelatore, spesso citato negli studi sulla schia­vitu ebraica, è quello di Saul che si consulta con il suo schiavo quando tutt'e due sono mandati a cercare gli asini smarriti : lo schiavo e non Saul ha il denaro per pagare « l'uomo di Dio ». Esistono d'al tra parte padroni brutali che arrivano a percuotere gli schiavi fino a farli morire.

Ma la coscienza di Israele non rimase inerte di fronte a un simile stato di fatto. A protezione dello schiavo fu promulgato un insieme di leggi le cui disposizioni furono ribadite e ampliate nella grande riforma legisla­tiva di cui ci parla il Deuteronomio. Ma la motivazione di tali misure costituisce un'indicazione ancor piu pre­ziosa dell'atteggiamento assunto in merito dalla coscien­za ebraica : << Ricorderai di essere stato schiavo nella ter­ra d'Egitto e che il Signore Dio tuo te ne trasse », « Os­serva il giorno del sabato . . . affinché il tuo schiavo e la tua schiava riposino come te ». Va sottolineato che code­sta disposizione riguarda non solo gli Ebrei ma tutti gli schiavi.

La sua ragion d'essere esprime il senso di una fonda­mentale unità umana; un rispetto, in breve, verso i con­fratelli come persone. Oltre a questi limiti il pensiero ebraico non si spinge. Bisogna però riconoscere che nel limite raggiunto c'è già una promessa di ulteriori pro­gressi. Pur ammettendo senz'altro che Israele non arrivi a rinunciare alla schiaviru, tre punti sono da tener pre­senti : la schiavitu ebraica è relativamente umana, rego­lata e controllata da una legislazione sempre piu ampia. Inoltre si riconobbero allo schiavo certi diritti inaliena­bili, in quanto uomo. Possiamo, senza esitazioni, inclu­dere quest'aspetto del pensiero di Israele nel quadro ge­nerale del suo concetto del diritto naturale.

Coll'andar del tempo i testi letterari che conosciamo col nome di Penlateuco assumono la loro forma definiti-

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va, ed entro il IV secolo a. C. furono « canonizzati », cioè riconosciuti di origine e di autorità divine. Le cir­costanze che ne determinarono la composizione portaro­no all'inclusione di certi codici sociali e molte prescri­zioni rituali - frutto di una storia e di una pratica anti­chissime. Quei testi vanno lentamente circondandosi di un alone di santità: per il pensiero devoto sono tutti quanti ipsissima verba della volontà rivelata di Dio e come tali investiti di un'autorità suprema sugli uomini. Confluiscono cosi in una le due correnti della legge ebrai­ca e si compone l'antitesi che ha contrassegnato questo aspetto del pensiero. Vivendo sotto il dominio straniero, sottoposti per di piu ai capricci dei loro stessi capi, gli Ebrei non furono mai indifferenti al problema del diritto positivo; ma il pensiero ortodosso aveva assorbito e sublimato il diritto positivo nella legge naturale del Pentateuco.

Tuttavia il concetto della legge non scritta e della sua autorità continua a vivere, trovando espressione nella tradizione orale codificata poi nella Mishnah. La critica potrà anche accogliere con un sorriso d'indulgenza la pre­tesa che Mosè ricevesse la Mishnah sul Sinai insieme alla Torah, ma, a saper decifrare il linguaggio figurato, appare ovvio che con ciò ci si limita ad affermare la pre­senza diffusa di un diritto naturale: l'impulso religioso e la rivelazione associati al nome di Mosè sono troppo grandi per potersi concretare in una forma scritta - nem­meno la Torah li può racchiudere, poggiando anch'essa sull'impronta divina stampata nel cuore dell'uomo. Perfi­no l'Antico Testamento, in passi che appartengono al­l'epoca in cui la Torah possiede, già, per il pensiero ehraico, un crisma di santità, afferma la supremazia della legge non scritta ed esprime la speranza di un futuro nel quale Israele sia liberato e purificato dalla sua incli­nazione al peccato, per diventare una nazione pia. Il pas­so seguente merita un'attenta considerazione:

Ecco che vengono i giorni, dice il Signore, quando farò con la casa di Israele e con la casa di Giuda una nuova alleanza, non co· me quella che strinsi coi loro padri. . . ma questa sarà l'alleanza che farò con la casa di Israele dopo quei giorni, dice il Signore: impri-

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merò la legge nelle loro viscere e la scriverò nei loro cuori, ed io sarò il loro Dio ed essi saranno il mio popolo. E l'uomo non farà piu da maestro al suo vicino, né il fratello al fratello dicendo: Co­nosci il Signore; perché tutti mi conosceranno dal piu grande al piu piccolo (Geremia, 31 , 31·34).

La legge scritta nel cuore, non una legge esterna, do­vrà reggere la vita degli uomini. Sarà un dominio gen­tile: non la costrizione, non la coartazione della liber­tà, ma il suo compimento. Gli uomini agiranno secondo giustizia per vivo desiderio, riconosceranno la bellezza della bontà, saranno vinti dal suo fascino. Qui culmina il pensiero di Israele sul tema del diritto naturale : verrà il giorno glorioso in cui gl'impulsi ferini dell'uomo si atrofizzeranno, in cui la giustizia trionferà nel profondo della natura umana e la società proseguirà il suo cammi­no felice in uno stato di « anarchia », << senza legge » per­ché ciascuno farà ciò che è giusto e nobile per amore, obbedendo alla legge non scritta impressa nei cuori .

Rimane tuttavia ancora un problema irrisolto : quando la Torah fu canonizzata e la legge di Dio divenne cosi il diritto vigente del paese, avrebbe dovuto cessare anche ogni conflitto fra la coscienza e l 'autorità. Questo non si verifica invece mai nella vita di Israele. Anche nel periodo in cui Israele è sottomesso ai supremi sacerdoti, gli Ebrei rimangono sottoposti ad un dominio straniero e anche a voler concedere per ipotesi - ipotesi , tuttavia, per nulla plausibile - che tutti i funzionari della teocra­zia fossero uomini di mente eccelsa, nel popolo il pro­blema dell'atteggiamento da adottare a cospetto di una legge iniqua resta sempre vivo. Questo vale a maggior ragione per i periodi anteriori. La soluzione devota la troviamo, nelle parole degli apostoli, posti di fronte a un analogo dilemma : si << deve obbedienza a Dio piutto­sto che all'uomo ».

Ma la questione non è tanto semplice. Paolo ne rag­giunge il nocciolo con affermazione che parebbe antiteti­ca : << I poteri debbono essere conferiti da Dio ». Le pa­role di Gesu a proposito del pagamento di un tributo sono suscettibili di una interpretazione simile : << Date a Cesare quel che è di Cesare ». Entrambi i detti implicano

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il riconoscimento della necessità e dell'indispensabilità della funzione dello Stato. Senza una società ordinata non sussistono nemmeno i presupposti di una vita civile. Perfino un cattivo governo offre un certo grado di sicu­rezza ed una procedura fissa. Dovremmo dunque indebo­lire i pilastri che reggono la società disobbedendo aper­tamente alle leggi che consideriamo inique? O non ab­bracceremo il partito opposto, offendendo la coscienza e appoggiando un governo iniquo nell'interesse della sicu­rezza e della stabilità? C'è una via di mezzo, e quali ne sono i limiti?

Le rivolte suscitate dai profeti, specie quella delle tribu del nord ai tempi di Roboamo e di Iehu un secolo dopo, sono ispirate senz'altro alla prima alternativa : il ro­vesciamento di un capo iniquo è in armonia con la divina volontà. Senonché il pensiero successivo ripudia questa politica e tenta di attuare le riforme nell'ambito dell'or­dinamento sociale esistente. La rivolta dei roaccabei, per quanto incontri le nostre simpatie, gode di scarso favore agli occhi del contemporaneo autore del Libro di Daniele che la giudica « di scarso giovamento ». Questo commen­to può indicarci la soluzione accolta dal pensiero ebraico posteriore : lo scrittore, ripudiando le prodezze di Giuda e dei suoi fuorilegge, cerca piuttosto una liberazione di­vina, in armonia con tutto il movimento apocalittico e con la maggior parte del pensiero politico successivo, quale si esprime nell'Antico Testamento. Il Signore desta l 'animo di Ciro affinché liberi il suo popolo, mostra la sua misericordia volgendo i cuori dei re di Persia ai bi­sogni degli Ebrei di Giudea. D'altra parte Daniele ed i suoi compagni alla corte di Babilonia <� si proposero in cuor loro di non incorrere in impurità » : i tre che rifiu­tarono di venerare la grande effige vennero scagliati nel­la fornace. Daniele stesso continua ad osservare le sue devozioni quotidiane a dispetto della proibizione regale, e la liberazione e il successo giungono sempre per tramiti soprannaturali.

La conclusione è abbastanza ovvia. Il pensiero ebraico è propenso ad accettare onestamente l'autorità dello Sta­to, e quale che sia il governo vigente, a conformarsi alla

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legge - ma solo nei limiti della coscienza ebraica. Quan­do la legge e la religione si scontrano, l'ebreo deve ob­bedire al suo dovere religioso a qualsiasi prezzo, facen­dosi forte semmai della certezza che anche da un punto di vista pratico questa è la miglior soluzione. Eppure il conformismo all'autorità statuale non porta all 'indif­ferenza verso i principi di giustizia. Ma il mutamento di governo, in tale epoca, si può attuare soltanto mediante la violenza, e pertanto si preferisce affidarlo alla volontà di Dio, che eleva e abbatte i re secondo i suoi fini eterni. I giorni dell'iniquità vanno sopportati grazie alla certezza che sono opera della divina volontà, l 'oppressione, infine, è un fatto transitorio, essendo prossimo il regno dei santi.

Sorge a questo punto un tratto fondamentale della let­teratura e del pensiero di Israele: la particolare conce­zione della storia . Basta riflettere un istante per con­vincersi che il tema dominante l'Antico Testamento è la storia narrata da una determinata visuale e con uno sco­po preciso, ma tuttavia una grande storia. Perfino opere cosi manifestamente profetiche come le Apocalissi si possono considerare di natura storica, poiché si occupano di cose mondane. Il tema dello storico ebraico è l 'evolu­zione di Israele, ma essa viene inserita nel quadro gene­rale della storia universale. Sia pur limitatamente gli scrittori ebrei precorrono una storia universale e i primi dieci capitoli della Genesi tentano addirittura di spiegare l'evoluzione dell'intera umanità primitiva, culminando in una rassegna della popolazione di tutto il mondo cono­sciuto ai tempi dell'autore. In seguito la storia si restrin­ge alle vicende di Israele, ma sia per le esigenze della narrazione stessa, sia per gl'interessi del narratore, il lettore viene ragguagliato anche sulle vicende del mon­do posto oltre i confini della Palestina. In buona par­te lo sfondo immediato è la storia egizia, e la vicinan­za e l 'importanza dell'Egitto si fanno sentire in tutta la narrazione successiva. I vicini minori di Israele en­trano nella trama del racconto e ben presto l'Assiria di­venta il tema dominante. Seguono poi i regni di Babi-

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lonia, di Persia e di Macedonia. Il metodo storico mo­derno è stato riassunto in tre punti da uno studio recen­te sulla <� scienza storica » : lo storico deve <� accertare i fatti, spiegarli, e conferire ad essi un significato situan­doli entro uno schema generale ». Il terzo punto trova una copiosa illustrazione negli storici ebrei. Il loro tema è costituito dal mondo di Israele. E con ciò, vale la pena di osservare, creano qualcosa di nuovo: finora la storia è stata appena accennata nella forma di certi miti. Nono­stante la fama di Erodoto e degli storici greci successivi, bisogna arrivare fino a Nicola Damasceno per trovare un degno parallelo della storiografia ebraica, ed anche la sua Storia universale ci è troppo poco nota per paterne sta­bilire i punti di vantaggio, seppure questi esistono. Non bisogna inoltre dimenticare che Nicola Damasceno era un orientale: ci si può domandare se l'interesse piu re­cente per la storia universale non sia un'eredità ed una conseguenza dell'Antico Testamento: l'importanza attin­ta dall'Antico Testamento nel pensiero occidentale gra­zie al cristianesimo toglie ogni coloritura paradossale alla tesi.

I limiti della storiografia ebraica, valutata secondo i canoni moderni, sono evidenti. Manca in essa il senso delle forze economiche e sociali, le sue prospettive sono spesso fallaci: episodi pittoreschi e di natura personale vengono narrati distesamente mentre avvenimenti di im­portanza capitale vengono trattati di scorcio seppure non omessi del tutto. Ma chiunque abbia un certo senso dello sviluppo storico non indugerà su codeste manchevolezze. Concediamo piuttosto senza riserve la nostra lode a que­sti uomini che, iniziando qualcosa di nuovo nella cultura, raggiungono risultati cosi eccelsi.

Essi peccano indubbiamente nell'esame delle fonti, specie per la mancanza di una valutazione critica. Talu­ni narrano la storia dei loro tempi, riferendo avveni­menti conosciuti in gran parte per esperienza diretta; al­tri si valgono di fonti scritte, che sovente citano; in altri casi la narrazione si basa su tradizioni orali la cui natura e la cui fonte sono per noi oggetto di congetture. Per grandioso che sia il risultato (oramai anche la parte che

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si basa sulla tradizione è considerato con maggior rispet­to di un tempo) questi storiografi non esaminano critica­mente le loro fonti onde poter escludere quelle improba­bili o sfornite di prove. Forse dipende dal loro metodo o, come in altre manifestazioni del pensiero di Israele, forse dall'abitudine di non dare maggior rilievo ai risul­tati dell'indagine che alle questioni di metodo. Eppure la narrazione acritica di avvenimenti miracolosi o perfino leggendari nelle storie di Elia e di Elisha ad esempio, ac­canto a racconti manifestamente degni di fede, come l'e­pisodio della vigna di Naboth o la battaglia di Ramoth Gilead, mostra piuttosto un'incapacità di distinguere fra l'uno e l'altro. D'altra parte dobbiamo riconoscere il sin­cero naturalismo che caratterizza le storie contempora­nee, come le memorie di Neemia o la descrizione del re­gno di David. Immuni come sono da elementi miracoli­stici o mitici esse stanno a sé nel quadro della narrativa orientale. Evidentemente in esse gli autori si attengono strettamente a ciò che conoscono per vero. Riscontriamo pressoché sempre lo stesso metodo nella storia di corte del Libro dei Re. La storiografia ebraica attinge in questi tratti le sue massime vette.

Se per un momento rivolgiamo l'attenzione dalla scien­za all'arte dello storico, dobbiamo situare codesti autori fra i piu grandi, sebbene con qualche riserva quanto a equilibrio ed a capacità di prospettare le cose nelle giuste proporzioni, come già si è notato. Tutti rivelano una abi­lità narrativa, che è tipica del genio letterario ebraico. La storiografia ebraica è caratterizzata da una capacità istintiva di afferrare i tratti essenziali della storia dell'u­manità, da un'acutezza psicologica, da un senso dramma­tico e da un'intuizione della vita individuale che infonde in storie aride e talvolta sciatte una viva animazione nar­rativa. Sono appunto tali pregi che creano una storiogra­:fia ideale.

Ma a noi interessa l'opera dello storico in quanto espressione del suo pensiero, e la storiografia ebraica ci può fornire, in questo senso, indicazioni importanti. Israele ravvisa un senso nella storia e vede quindi tutta la vita sub specie aeternitatis. Non interessa soltanto il

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momento singolo, ma la vita intera è concepita come un gran flusso del quale il presente è solo il momento per­cepito, mentre il corso generale si stende dal lontano passato fino all'eternità del futuro. In una simile pro­spettiva l 'individuo e la nazione vengono insieme umilia­ti ed esaltati. Non a caso la storia nasce fra i popoli piu religiosi.

Dire che per Israele la storia è una realtà, una realtà diffusa e quindi importantissima sembra un truismo, ep­pure possiamo difenderci dall'accusa chiamando in causa certe moderne correnti di pensiero. Israele non conosce un piano iperstorico dove sia possibile cogliere l'auten­tica realtà dei fenomeni, piano sotto il quale brulichino soltanto la finzione e l'inganno. Esiste s{ un regno di real­tà soprannaturali che talvolta in modo portentoso (ma per lo piu in modo piu normale) irrompono nel corso degli avvenimenti umani costantemente riplasmandoli, ma l'ir­ruzione stessa del sovrannaturale, ripetendosi finisce col rientrare nella vita dell'uomo, o meglio, nella storia di Dio e dell'uomo, che è appunto, per il pensiero ebraico, la storia tout court. Tutto ciò che si svolge sulla terra, anche gli avvenimenti che una pietà acritica attribuisce all'intervento divino o alle macchinazioni dei malvagi -rientra nel flusso dell'esperienza umana ed ha rilevanza in quanto si situa in ultima analisi, nel processo attra­verso cui si plasma il destino umano e si attuano fini di Dio. Il naturalismo della mente ebraica non è mai tanto evidente come nel suo atteggiamento realistico nei con­fronti della storia.

La storia, per il pensiero ebraico, ha un significato e perciò racchiude un insegnamento valido per la vita quo­tidiana. I sapienti ne traggono le loro dottrine, i pensa­tori religiosi di questa o quella scuola narrano il passato della nazione in guanto esso influisce sul suo futuro. Al­cuni dei difetti metodologici si spiegano in guanto l'in­teresse centrale non sta nell'esposizione dei fatti, ma nella loro spiegazione, e questo atteggiamento ci porta a concludere che la storiografia ebraica è in primo luogo una filosofia della storia.

A questa stregua viene solitamente valutato il Libro

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dei Giudici; il « quadro deuteronomico >> nel quale ven­gono situate le varie storie degli antichi eroi, ribadisce continuamente che le difficoltà politiche di Israele in quei tempi torbidi prendono origine dall'infedeltà religio­sa della nazione. Ma la filosofia della storia ebraica non si esaurisce in questa tesi. La storia dell'uomo primitivo, le vicissitudini dei patriarchi, la parentesi egizia, la conqui­sta e infine gli ultimi anni del periodo dell'Antico Testa­mento - quando i grandi imperi vengono rapidamente passati in simbolica rassegna nel Libro di Daniele e gli avvenimenti si susseguono rapidamente per poi culmina­re nel regno dei santi - è evidente che tutto è riferito in quanto possiede un significato, che gli autori mostrano di aver compreso e a volte non mancano di divulgare.

Abbiamo insistito piu volte, in questa esposizione, sul­l'originalità, sull'unicità delle conquiste di Israele. Se l 'esposizione è stata talvolta noiosa dobbiamo farne colpa soprattutto agli Ebrei e al loro forte senso di indipen­denza. Infatti l 'osservazione, ancora una volta, è inecce­pibile: con la filosofia della storia di Israele, la cultura umana si arricchisce di un'idea destinata ad avere conse­guenze assai vaste, fino ai giorni nostri. Si è trattato di una conquista nuova, anche se il professar Jacobsen mi ha fatto presente che i prodromi si possono riscontrare nel pensiero babilonese: la filosofia della storia concepita e sviluppata dagli Ebrei è ignorata nei secoli delle grandi civiltà precedenti , e per molto tempo rimane un contri­buto isolato di Israele: il tentativo di Erodoto non ebbe una portata molto maggiore di quello dei Babilonesi né i suoi successori in Grecia ed a Roma assursero ad un'al­tezza comparabile. Ma attraverso Eusebio questo retag­gio dell'Antico Testamento resta acquisito definitivamen­te al mondo occidentale fino ai nostri giorni.

I filosofi ebraici della storia mirano a scoprire i prin­cipi che determinano il corso degli avvenimenti per po­tersene servire come guida nel mondo in cui vivono. L'a­nalogia con gli studi sapienziali ci mostra quanto sia pericoloso spezzare la vita intellettuale ebraica in com­partimenti stagni: per il pensiero di Israele la vita è una e indivisibile.

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I principi che muovono la storia si possono suddivi­dere cosi: da un lato la volontà ed i fini di Dio - dall'al­tro l'uomo con i suoi fini e la sua autonomia. I due aspet­ti sono per lo piu in conflitto e non si trovano mai in perfetta armonia. La storia si spiega come il flusso e ri­flusso di codeste forze. Osservando da un punto di vista umano tale rivalità, la tesi non sembra però molto fe­conda, poiché tutti riconoscono che l'uomo nel suo ten­dere verso le cose ambite, nei limiti concessi dalle circo­stanze, ha determinato il corso degli avvenimenti. Ma gli studiosi ebrei sviluppano ulteriormente l'analisi. Le in­tenzioni dell'uomo sono un caos dove s'aggrovigliano l'ambizione, il risentimento, la volontà di dominio, i bi­sogni economici e le esigenze di sicurezza insieme alla magnanimità, all'idealismo etico, alla preoccupazione di difendere i deboli e gl'inferiori, e infine a tutta la gam­ma di desideri e di azioni che si riassume nel termine di « giustizia �>. Da questo intreccio di propositi nascono le incertezze che minano l'opera dell'individuo, della nazio­ne, della società e la storia della civiltà nel suo comples­so. Ma il fine di Dio è uno solo. Inoltre Dio è giusto e supremo : ecco la grande certezza dei pensatori ebraici. La storia non è un cozzo insensato di umane passioni, un gioco di forze cieche; Dio domina ogni cosa, e dirige gli eventi in vista di uno scopo remoto. Attraverso lo strano intreccio di umana libertà e sovranità divina affermata dai pensatori ebraici, Dio plasma le vite umane secondo la sua volontà. La storia è un progresso: i pensatori ebraici non avrebbero esitato a rispondere alla domanda che tanti dibattiti suscita oggigiorno: « È reale il pro­gresso della storia umana? » Per loro la risposta era chiara, ovvia. Il corso sarà anfrattuoso, ed il fiume potrà anche deviare dal suo corso, formando ingorghi e corren­ti contrarie, impaludandosi e ristagnando, tuttavia la cor­rente deve proseguire verso la sua foce predeterminata. L'umana perversità può forse ritardare l'attuazione del piano divino, ma non impedirla. Da quando il mondo esiste, Dio lavora al suo fine supremo, che sarà certa­mente attuato. Nonostante ogni ritardo, si deve fiducia-

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samente aspettare : la visione al tempo dovuto si pale­serà, frattanto il giusto deve vivere nella sua fede.

Il fine eterno si attua per mezzo di uomini prescelti da Dio, o meglio, per il tramite di uomini , che, come Isaia, hanno udito il richiamo divino : « Chi manderò e chi andrà per noi? », ed hanno risposto : « Eccomi, man­da me ». Per merito loro nasce la nazione eletta. Ma an­che nel corso della sua storia continua il processo della selezione divina e del divino ripudio in caso di indegnità. La supremazia di Dio è tale che egli può perfino valersi delle astuzie dei malvagi per attuare i suoi fini. L'Assiria e tutta la sua pompa imperiale non è che uno strumento nelle sue mani. E le altre tracotanti potenze, quale che sia il loro nome, che una dopo l'altra s'imbaldanziscono della loro forza, sono tollerate soltanto perché alla lunga cedano alla potenza di Dio. La storia si avvia ad un epi­logo glorioso.

Uno dei tratti sconcertanti del pensiero ebraico è che una nazione bersagliata da sofferenze inaudite, talvolta sul punto di perire ad opera di conquistatori e oppressori crudeli, sia tuttavia altamente ottimista e non disperi mai. Geremia che compra un fondo e nasconde accura­tamente l'atto di vendita al culmine dell'invasione babi­lonese di Giuda, è un simbolo del suo popolo, che nei giorni di sciagura tempra i suoi sogni piu accesi, aggrap­pandosi ostinatamente alla certezza che di là del tempo della prova, si stende l 'epoca in cui Gerusalemme diven­terà la città della giustizia, la città fedele, e Sion otterrà la sua giusta redenzione.

Per quanto il loro tempo fosse alla mercè delle piu aspre avversità quasi che lo governasse una gran bestia, pure, guardando con intelligenza, qualcuno poteva scor­gere la futura uccisione della bestia e la sua offerta in olocausto; ecco allora che la sovranità. il potere e la grandezza avrebbero appartenuto al popolo dei santi del­l' Altissimo « il suo regno è un regno eterno e tutte le potenze lo serviranno e gli obbediranno ».

Non si può negare che questo sognato futuro sia colo­rito di nazionalismo. Il regno dei santi è un regno di santi ebrei. E la gloriosa conclusione di tutta la storia,

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per troppi sognatori degli antidù ghetti, consiste nel do­minio degli Ebrei sul mondo, concepito in termini tipi­camente, inequivocabilmente imperialistici:

E le porte della città saranno sempre aperte Non rimarranno chiuse né notte né giorno

Affinché gli uomini possano introdurre le ricchezze delle nazioni... Perché la nazione o il regno che non vorranno servire periranno,

Quelle nazioni saranno annientate. (Isaia, 6o, n-12).

Dobbiamo tener presente due fatti: l'Antico Testamen­to, per la pluralità dei suoi autori - e, in termini piu espliciti, per l'origine spuria di parecdù passi - rappre­senta in sezione l'intero spirito di Israele, ai suoi diversi livelli. Ma è notevole non già che taluni fra gli autori si conformino agli ideali del loro mondo, ma che molti rie­scano a trascenderli. Vedremo fra poco a quali altezze si spingano le loro speranze universalistiche. Quale che sia l'idea del futuro e del culmine del processo storico contenuta in certi passi, dobbiamo vederli nel loro com­plesso, illuminati e sublimati dagli ideali di uomini di larghe vedute, che rappresentano le vette del pensiero dell'antico Israele. Le visioni della fine della storia con­tenute nell'Antico Testamento, spoglie della loro veste immaginosa, interpretate nella cornice piu schiettamente ebraica vogliono semplicemente dire che la vita umana è un progresso verso il meglio : alla fine trionferà la giu­stizia, che sarà la legge di tutta l'umanità.

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Capitolo undicesimo

LA NAZIONE, LA SOCIETA,

LA VITA POLITICA

Gli Israeliti si consideravano una nazione accentrata attorno ad un'idea nella quale il senso di una comune di­scendenza e il patto stretto con il loro Dio venivano a fondersi. Sono due elementi meno semplici di quanto possa sembrare. Secondo la tradizione Dio chiamò Abra­mo, lo trasse da Ur in Caldea, e lo condusse in Palestina dove gli promise una progenie numerosa destinata a di­ventare una nazione potente, e ad impossessarsi della terra dove ora lui viveva da straniero. La promessa venne ribadita in varie occasioni, in particolare sul Sinai, ed il suo carattere di patto implicante reciproche respon­sabilità si fece evidente. In breve Israele doveva diven­tare il popolo di Iahvé e Iahvé doveva diventare il suo Dio. La fedeltà esigeva il ripudio di tutti gli altri dei ed il culto esclusivo di Lui sia nel rituale come nella devozione nazionale e sociale. D'altra parte Egli , come Dio degli Ebrei, era responsabile della promessa di dar loro una patria, di fare di Israele un grande popolo, di conferirgli la ricchezza materiale, il benessere fisico e la serenità spirituale.

Le difficoltà nascono quando si tenta di rintracciare queste idee nella storia primitiva del paese. Ancora una volta restiamo stupiti, davanti alle antiche fonti del Li­bro dei Giudici, di non trovarvi questi due princip1 che si suppongono basilari nella vita sociale di Israele. Esi­steva indubbiamente qualche vincolo tra i clan e le tribu, vincolo che doveva in qualche modo riallacciarsi a quelle idee, pur restando ben lontano sia dall'una che dall'al-

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tra. Il senso di un interesse comune di Israele, in vista del quale i vari gruppi si uniscono di fronte ai pericoli, prende origine dalla convinzione di un'essenziale unità che a quel tempo ed in quella regione deve presupporre una comune discendenza, della quale però non si fa cen­no, nemmeno vagamente. Forse l'omissione è casuale, il che la priverebbe di interesse, eppure il fatto che le piu antiche fonti nel Libro di Samuele trascurino di accen­narvi, ed il fatto che ci si debba spingere fino alle storie profetiche ed agli scritti dei profeti · per trovare delle prove di una credenza nella comune origine dà adito al sospetto che le cose non stessero come gli scrittori piu tardi vorrebbero farci credere. Inoltre, mentre i nomi « Israele )> e « Giacobbe » designano la nazione e si parla della discendenza da Giacobbe, Abramo, tranne che nel Pentateuco, e fino a tempi piuttosto tardi, è menzionato cosi: raramente che si resta sconcertati. Poiché le vecchie narrazioni incorporate nel Pentateuco, comunemente de­signate come J ed E dalla critica ortodossa, esistevano già prima dell'epoca dei profeti, è ben strano che questi scrittori trascurino il fatto prodigioso della chiamata e della promessa fatta ad Abramo. I riferimenti alla sto­ria della nazione non risalgono a prima della schiaviru in Egitto e all'Esodo; talvolta toccano la storia di Giacob­be, ma ciò che precede rimane nell'ombra. È difficile ca­pire la ragione di ciò. Una soluzione possibile potrebbe essere che le storie ] e E riguardanti Abramo rappresen­tano una tradizione del tempo dell'Esilio non troppo nota, che solo grazie al crescente prestigio del Proto-Pen­tateuco viene comunemente accettata, mentre la storia di Giacobbe è nota fin dai tempi piu antichi.

Comunque sia, è evidente che la discendenza da Gia­cobbe poteva essere altrettanto soddisfacente come base della coesione nazionale quanto la teoria abramica. An­che a voler accettare tale ipotesi, le complicazioni persi­stono: gli scrittori ebraici, infatti, riconoscono apertamen­te che la teoria è insostenibile e affermano recisamente che la nazione non ha un'origine comune. Una moltitu­dine mista usd con gli Ebrei dall'Egitto, amalgaman­dosi con loro. Durante la conquista, un gran numero di

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Canaanei sfuggirono allo stermmto, anzi, non furono neanche sottomessi. Tuttavia i Canaanei convissero con le varie tribU fino ai giorni in cui visse lo storico (Giu­dici, I , 2 1 sgg . ) . Salomone ridusse, è vero, in schiaviru gli ultimi dei Canaanei, ma nel frattempo si deduce dal­le leggi che la loro convivenza accanto agli Ebrei die­de luogo sovente a matrimoni misti. Questa mescolanza di sangue non costituisce però una sfida alla coscienza pubblica. Anzi, è scusata e legalizzata. La storia di Ruth la moabita è il simbolo dei rapporti liberi ai quali l 'an­tico autore non muove alcuna critica. Il divieto di am­mettere gli Ammoniti e i Moabiti nell'assemblea del Si­gnore fino alla decima generazione (Deuteronomio, 23 , 3 ) mostra che dopo tale lungo periodo di prova essi di­ventavano accettabili, e che altri venivano introdotti con libertà anche maggiore, come afferma il seguito del passo a proposito di Egizi e Edomiti (v. 8 ) . Perfino il Levitico, che è di epoca piuttosto avanzata, ammette non soltanto a consumare la Pasqua ma anche allo status del nativo lo straniero dimorante nel paese, che abbia accettato la circoncisione. Si apre cosf la via al proselitismo, del qua­le è nota la diffusione nei primi secoli dell'era cristiana.

Sono ovvie le conseguenze : gli Israeliti riconoscono, come gli storici moderni, di essere una nazione etnica­mente composita ; la discendenza diretta da Abramo o Giacobbe è una piacevole finzione con un nocciolo di ve­rità, ma non rappresenta la prova dell'appartenenza alla comunità. Lo straniero che si sottopone alla circoncisio­ne e che promette di essere leale alla fede di Israele di­venta un buon israelita, e, per usare l'espressione famosa di uno scrittore piu tardo, entra nel gregge di Abramo. Paolo espone anche a questo proposito la concezione del suo popolo quando distingue fra Israele secondo la carne ed Israele secondo lo spirito. In ultima analisi l'apparte­nenza alla nazione di Israele è una questione d'ordine spirituale, di lealismo. Una frase del canto di Debora esprime l'essenza della nazionalità israelitica: Israele è il « popolo di Iahvé ».

Il problema del patto è analogo. Nella letteratura piu tarda dell'Antico Testamento diventa cosi popolare che

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perfino gli autori della scuola critica avallano la finzione secondo cui Israele avrebbe formato fin dagl'inizi il suo pensiero sulla base di un patto con Iahvé, idea di cui non v'è traccia nelle fonti piu antiche. Il canto di Debora parla tutt'al piu, nel passaggio citato or ora, del « popolo di Iahvé )> (Giudici, 5, n ). La parola brith, « patto », è presente, è vero, in una fonte indiscutibilmente arcaica, nel Libro dei Giudici; ma nel nome del dio di She­chem, Baal Berith (Giudici, 8, 33 ; 9, 4). E questa te­stimonianza non può essere invocata per provare l'esi­stenza d'un patto religioso di Israele, poiché potrebbe semplicemente voler dire che quel dio è patrono e custo­de degli accordi. Piu importante è il fatto che la parola ricorra in rapporto all'arca sacra, alla sua cattura da par­te dei Filistei (I Samuele, 4, 3-5 ) ed al suo trasferimento a Gerusalemme sotto il regno di Davide (II Samuele, 6, 1 2 ). Ma scarseggiano le prove a favore dell'idea teologi­ca che per lo piu vi è connessa. La prima menzione parti­colare del patto di Israele con lahvé ricorre nel Libro di Osea, e due degli accenni sono evidentemente genuini (Osea, 6, 7 ; 8, r ) . L'idea non ricorre in Isaia e Michea ma viene spesso accennata da Geremia; in seguito, com'è noto, diventa uno dei temi del Deuteronomio. Quando si pensi che Osea visse poco piu tardi della data attri­buita ai testi J ed E, la situazione si chiarisce. La nozione di un patto fra Dio e Israele venne introdotta appunto dalle <( storie profetiche », fu avallata da Osea, adottata da Geremia e nel Deuteronomio diventa un elemento es­senziale della teologia ebraica.

Ma si potrebbe obiettare che non basta cercare le men­zioni specifiche, visto che il concetto del patto è impli­cito in gran parte del pensiero anteriore : nella chiamata a raccolta delle tribu di Israele in nome di Iahvé al tem­po dei Giudici, nella consapevolezza di essere il <( popo­lo di Iahvé )>, e cosi via. Non si può non assentire al­l'obiezione; certo gli autori di J ed E ed i loro successori non si creano l'idea basandosi sulla sola immaginazione. Il concetto risale a un periodo antichissimo, ma deve poggiare anche su un'assise del tutto diversa da quella comunemente accettata. Se si accetta codesta interpreta-

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zione, ne deriva che la pretesa unicità di Israele resta infirmata, poiché si tratterebbe di un aspetto normale del pensiero religioso orientale. Il rapporto di lahvé con le sparse tribu al tempo dei Giudici è soltanto quello di un dio nazionale, per quel che ne sappiamo noi. Non c'è ra­gione di supporre, in quest'epoca , che l 'atteggiamento di Israele verso il suo Dio sia diverso da quello di Moab o Amman o Edom o di qualsiasi altra nazione verso Che­mosh, Milcom o altra divinità. L'idea di un dio nazionale implica il concetto di un patto fra il dio ed il suo popolo. L'originalità di Israele consiste nel cristallizzare questo atteggiamento nella forma e nel conferirgli valore religio­so con la dottrina del patto divino. Questa a sua volta diventa un possente incentivo morale. Comunque il pat­to è un motivo secondario nell'evoluzione etico-religiosa di Israele.

Su tale linea di sviluppo che trasforma l'idea del dio nazionale pagano nella dottrina etica del patto, si intro­duce il concetto della divina elezione di Israele, destinato a diventare l'aspetto essenziale dell'autocoscienza nazio­nale. Dobbiamo considerarlo sottinteso fin nelle forme piu semplici di fede in un dio nazionale; poi, come la stessa idea del patto, viene tanto esaltato da diventare qualcosa di nuovo. La dottrina viene affermata nella for­ma piu semplice e forse originaria nella divina chiamata di Abramo (Genesi, cap; u); ma la sua formulazione piu alta è nel Libro del Deuteronomio dove viene presentata come un atto della grazia divina. Mosso dal suo amore per Israele, Dio lo sceglie quando è ancora poco nume­roso e costituisce la piu piccola nazione del mondo - pri­va di meriti, senza alcun diritto verso Dio. Per sua libera volontà Dio profonde su di esso il suo amore, eleggendo­lo suo popolo (Deuteronomio, 7, 6-8 ). Dobbiamo ricono­scere che in tutto ciò, non meno che nel concetto di pat­to, si cela un contenuto profondamente etico di cui i capi religiosi si valgono per vivificare la religione dell'indivi­duo e della nazione, esaltando lo sconcertante fatto che Israele è un tesoro particolare di Dio.

È questa la natura e l 'essenza del sentimento di unici­tà di Israele; il suo Dio l'ha scelta fra tutte le nazioni del

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mondo entrando in un rapporto intimo con esso, del qua­le nessun altro popolo fruisce. L'Antico Testamento è tutto pervaso dal senso di questa particolarità. Non si può non restar colpiti vedendola chiaramente espressa in un testo relativamente antico come uno degli oracoli di Balaam : « Ecco il popolo che dimora solitario e non è annoverato fra le nazioni >> (Numeri, 23 , 9 ). Troviamo qui espresso quel senso di diversità che ha dato origine e provocato fin dall'inizio l'antisemitismo che dura a tut­t'oggi, continuando a fare degli Ebrei l 'oggetto dei so­spetti e delle persecuzioni degli ignoranti e dei bigotti. Ma tutte le nazioni si ritengono in certa misura uniche. Una fra le piu notevoli espressioni di codesto sentimento si è avuta nei tragici avvenimenti dei nostri tempi. Certe esagerazioni servono a mettere in luce una consimile pre­sunzione anche nel nostro pensiero. La fede che Israele ha in se stessa non è che una manifestazione di questo universale atteggiamento : anche Israele crede di avere un carattere unico ed un destino glorioso, si aggrappa al­la speranza di diventare la guida del mondo, se non di conseguirne il dominio politico o militare.

Eppure la dottrina del « popolo particolare » è un trat­to distintivo di Israele e non un tratto che lo accomuni agli altri popoli e la ragione sta in ciò, che il sentimento di diversità degli Ebrei è basato sull'unicità del dio di Israele. Un poeta bene ha espresso tale concezione, di­cendo delle nazioni gentili che erano nemiche: « Non è la loro roccia come la nostra roccia e gli stessi nostri ne­mici ne sono giudici » (Deuteronomio, 32 , 3 1 ). Intuizio­ne profonda. Dica ciò che vuole l'ipercritica sull'arrogan­za che si cela nel dogma dell'elezione divina e del popolo particolare, non si può negare che a questo punto ci si trovi su un terreno solido. Il Dio di Israele è ben diverso dalle divinità di tutte le altre nazioni, ed Israele è - né la storia può negarlo - il popolo di Dio. Israele si sente isolato dalla consapevolezza di codesta sua superiorità e dell'unicità della sua fede e della sua adorazione di Dio. Non può quindi non « uscire di tra le nazioni », se non a patto di tradire il suo retaggio spirituale, di farsi apo­stata di se stessa.

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Comunque, nonostante le interpretazioni offerte dal pensiero liberale, antico e moderno, la dottrina dell'ele­zione divina diventa una delle cause piu cospicue dell'ar­roganza nazionalistica. E come avrebbe potuto essere di­versamente, visto che gli Ebrei sono come noi soggetti all'umana fallibilità? Eppure taluni pensatori ravvisano il senso piu profondo di quel rapporto particolare in una particolare responsabilità. Un autore del Libro di Amos fa dare da Dio questo avvertimento a Israele:

Solo voi ho conosciuto Fm tutti i clan della terra;

Perciò vi punirò Per tutte le vostre iniquità.

(Amos, 3, 2).

Il significato dell'elezione di Israele, cosi com'è concepi­ta dalle menti piu alte si rivela nella chiamata di Isaia. Durante la sua grande esperienza iniziale di profeta, egli ode la voce del Signore, non come chiamata diretta a lui personalmente, ma come appello alla generalità : « Chi manderò e chi andrà per noi? » E Isaia viene chiamato in quanto risponde « Eccomi, manda me ». L'opera di Dio attende di essere compiuta; chi è disposto e capace di intraprenderla? Ecco il punto essenziale nella chiama­ta di Isaia - come anche nella chiamata di Israele. Dio non elegge per concedere privilegi né per ispirare un'ar­rogante sep&razione, bensf per far servire : l'opera del Si­gnore è da compiere ! L'elevatezza dei Canti di servitu del Deutero-lsaia è troppo nota perché ne sia necessaria un'esposizione particolareggiata. Il destino imposto da Dio ad Israele è di essere « una luce per i Gentili ». Lo stesso pensiero è robustamente ribadito nella storia del recalcitrante profeta Giona e molti altri passi confortano questa visione dell'alta elezione e della responsabilità di Israele, che nella conoscenza di Dio possiede un tal teso­ro di serena esaltazione che solo a repentaglio della sua anima può tenerlo per sé. La grandezza della sua espe­rienza impone ad Israele di spartirla con tutti.

La posizione delle nazioni straniere nel pensiero di Israele corrisponde alla dottrina del popolo particolare.

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Gli odi feroci, le imprecazioni e gli eccidi efferati ricor­dati in parecchie pagine dell'Antico Testamento non han­no bisogno di essere ribaditi, ma piuttosto di essere com­presi nel quadro del mondo brutale di cui Israele è parte. Anche il Salterio, che echeggia le esperienze e le aspira­zioni piu profonde di Israele, reca parecchi passi di in­tensità minore ma di umore affine alla terribile maledi­zione:

O figlia di Babilonia che sei per essere distrutta ... Beato chi ghermisce e scaglia i tuoi piccoli contro la rupe.

(Salmi, 137, 8, 9).

Eppure ci sono momenti piu elevati perfino nei giorni della conquista, quando Giosuè risparmia i Gibeoniti. I re stabiliscono volentieri rapporti amichevoli con le na­zioni vicine. Tuttavia lo strano effetto che spesso ha la religione, di creare divisioni e animosità, è già manifesto al tempo di Elia, quando i profeti denunciano e minac­ciano Acab per la sua indulgenza verso Ben Adad scon­fitto. Ma a noi interessano gli atteggiamenti del nucleo religioso del popolo dopo che è stato compenetrato dalle dottrine del patto, dell 'elezione divina e del popolo par­ticolare.

Il separatismo cagionato dalla religione anche nei mi­gliori pensatori al tempo del regno è evidente ad esem­pio in Isaia, che teme la contaminazione della religione di Iahvé per effetto degli stretti rapporti con le nazioni straniere. Tutti gli studiosi dell'Antico Testamento san­no con quanta insistenza venga ripetuto questo avverti­mento dalla scuola deuteronomica. Ma anche a quel tem­po c'è una tendenza piu liberale, come nella dichiarazio­ne di Amos, che Filistei e Siri sono uguali al cospetto di Dio (Amos, 9, 7).

Entrambi gli atteggiamenti trovano espressione ancor piu decisa in tempi posteriori. La separazione di Giuda è uno dei capisaldi politici di Neemia ed Ezra per diventa­re poi uno dei temi del pensiero dei secoli seguenti. Ma una comprensione piena della situazione nella sua inte­gralità induce ad attenuare la condanna che la mente mo­derna sarebbe propensa a lanciare su di loro. Certo Nee-

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mia ed Ezra e forse anche i capi del movimento rituali­stico, sono mossi da una paura altrettanto giustificata di quella che si era diffusa al tempo dei profeti. Il pagane­simo della colonia ebraica di Elefantina, indice forse del­la religione della maggioranza degli Ebrei palestinesi du­rante il v secolo a. C. - e non possiamo presumere che i vicini Samaritani si trovassero su un livello piu alto -giustifica l'opera dei riformatori ebrei. È a condizioni del genere che essi reagiscono, né si vede come avrebbero potuto fare altrimenti. Una cordiale apertura avrebbe por­tato alla contaminazione ed alla dissipazione della religio­ne ebraica, i pericoli che essi appunto temevano. Inoltre il giudaismo durante tutti i secoli precristiani, anche quan­do lo Stato si fu rafforzato in Palestina, visse a contatto immediato di un paganesimo baldanzoso. Esso costituisce un problema persistente e reale, solo che si leggano at­tentamente le restrizioni elencate nel trattato Aboda Za­ra. Tuttavia è sintomatico dell'atteggiamento della reli­gione ebraica ai tempi in cui la sua esistenza non è mi­nacciata, che il Levitico sia sotto certi aspetti il testo piu liberale del Pentateuco. E abbiamo già detto come vi si contempli l'ammissione di residenti stranieri leali al giu­daismo.

Si è già accennato all'universalismo del Deutero-lsaia. Per quanto il poeta sia un sognatore, e prospetti certi ideali che gli uomini pratici potrebbero tentar di rag­giungere solo nei limiti concessi dai tempi e dalle circo­stanze, la verità della sua visione e la grandezza della sua opera non vengono sminuite dall'inattuabilità dei suoi sogni rispetto ai tempi in cui vennero formulati. Erano il seme del futuro che poi effettivamente produsse una messe copiosa. Ma certo mentre il poeta era ancora in vita il giorno della fioritura era lontano. Però le sue af­fermazioni dànno inizio a, come ha rilevato il presidente Morgenstern del Hebrew Union College, quell'univer­salismo nel pensiero ebraico, del quale restano numerose attestazioni anche negli ultimi capitoli del Libro di Isaia e nei profeti minori. Restiamo sconcertati dal livello rag­giunto da questi pensatori : essi paiono aver abbandona­to tutte le pretese di un privilegio ebraico, per lasciar

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sussistere solo l'idea d i un fedele lealismo al Dio di Israe­le. Essi ritengono che in ogni nazione esistano dei servi­tori del Signore e che il Suo nome sia onorato in tutto il mondo. Lo straniero che aderisca al Signore per servirlo ed amare il suo nome può recarsi al tempio di Gerusa­lemme con tutti i diritti di un ebreo nativo per adorare in letizia, nella casa che sarebbe stata chiamata la casa di preghiera di tutti i popoli. Questo movimento sembra es­sersi affermato soprattutto nei secoli v e VI. Poi pare che il successo della riforma di Ezra determini un cambia­mento nel pensiero ebraico, pur lasciandone intatto l'es­senziale: gli ideali di codesto periodo di espansione con­tinuano infatti a moderare l'angusto ritualismo e partico­larismo e a schiudere la prospettiva di una visione piu ampia non appena il momento predestinato fosse giunto.

La trattazione di questo tema resterebbe incompleta se non si accennasse all 'opera sapienziale. I sapienti so­no tipicamente universalisti nelle loro vedute. Essi sono d'altronde gli studiosi del mondo antico e l 'animo dello studioso evade sempre dal nazionalismo. Abbiamo già de­lineato il teismo del movimento sapienziale ebraico. Cosf gli eruditi del Rinascimento non scorgono nulla di con­traddittorio nel fatto di essere nello stesso tempo umani­sti. La loro opera di reinterpretazione dei dogmi dell'or­todossia, mitigandone la rigidezza, si riassume nei nomi dell'Ecclesiastico, della Sapienza di Salomone, di Filone.

Ma accanto a questi problemi altri aspetti della vita sociale impongono all'attenzione problemi altrettanto ur­genti. La nazione nel suo aspetto interno, come società, subisce mutamenti profondi che generano nuovi proble­mi per il pensiero ebraico.

Non sappiamo nulla del retroscena culturale e delle origini etniche delle tribu partecipanti al movimento a noi meglio noto come conquista della Palestina da parte di Giosuè. Eppure l 'influsso del deserto arabico dovette concorrere in larga misura a formarne il carattere, se è lecito giudicare dalle notizie che ci restano della loro vi­ta sociale nel periodo immediatamente successivo. Certo

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l'influsso del nomadismo continuò ad esercitarsi forte­mente nella vita di Israele, rafforzato sempre piu dal co­stante afflusso di beduini nel paese, i quali vivevano esat­tamente come Abramo qualche secolo prima. Il processo è durato fino ai nostri giorni; le nere tende dei nomadi piantate in luoghi opportuni fino alle balze del Carmelo all'entrata della pianura di Acca, sono, per chi sappia capirne il significato, una delle visioni rivelatrici della Palestina moderna.

La vita nel deserto, solitaria, dispersa e precaria e per­tanto malsicura ha prodotto nei secoli forme sociali ca­ratteristiche. La vita si accentra nella tribu e nel clan, al di fuori di essi non c'è che l'estinzione. Sopravvivere si­gnifica avere una forza sociale. Di qui i tratti peculiari della vita nomade - la solidarietà di gruppo, il patto del sangue, la vendetta di sangue, l'ospitalità. Che tali tratti persistano nella vita israelitica in Palestina è provato da molti episodi e allusioni, fra cui, ad esempio, le conse­guenze nazionali dell'infrazione commessa da Achan e l'eccidio di tutta la sua famiglia (Giosuè, cap. 7) ; l'impic­cagione dei sette discendenti di re Saul al fine di liberare la terra dalla siccità cagionata dai peccati del re stesso (II Samuele, 2 1 , r-n); i numerosi casi di contese san­guinose (ad esempio, II Samuele, 25, 33; I Re, 2 1 , 19). Nonostante il persistere di codesti atteggiamenti, specie fra taluni gruppi, le modificate condizioni di vita in Pale­stina cominciarono presto ad esercitare la loro influenza moderatrice. La solidarietà di gruppo sociale non è tipica della vita contadina, anzi il coltivatore del suolo è per natura un ostinato individualista. Inoltre la vita agrico­la, accentrata nei villaggi rustici o, in tempi di pericolo, nelle città murate, porta ad una convivenza comuninale piuttosto che comunitaria tendendo anzi perfino a diven­tare un'organizzazione cittadina. Ma le vecchie istituzio­ni patriarcali non sono del tutto inadatte alla proprietà fondiaria, e nei secoli primitivi l'idea della proprietà fami­liare si afferma cosi fortemente da inserirsi nelle leggi e fornire lo sfondo del pittoresco episodio del furto di Ge­zabele ai danni della proprietà ancestrale di Naboth. La rivoluzione che ben presto scoppia nella società ebraica

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- e si tratta realmente di una rivoluzione - viene scate­nata da re Davide. Quando egli cattura il caposaldo jebu­sita di Gerusalemme facendone la capitale del suo regno mette in moto forze a lui stesso sconosciute, e benché de­stinato a cadere vittima di talune di esse, non può pre­sagirne la portata per lo sviluppo della società israelitica. È l'urbanesimo che affiora nella vita ebraica. Veramente il termine suona lievemente enfatico, poiché la vita pale­stinese rimane sostanzialmente agricola. Eppure il cam­biamento che comincia a profilarsi con Davide, benché limitato dapprima a Gerusalemme e ad altre città e resi­denze regali, con il passar del tempo trasforma la società ebraica, lasciando sussistere solo le vestigia delle antiche istituzioni. Il cambiamento comincia a verificarsi a cor­te: il re si circonda di una cerchia di partigiani e di mili­tari, e poi di un harem considerevole e sempre crescente che, a sua volta, attrae altri parassiti - o, per dirla piu rispettosamente, cortigiani - mantenuti grazie al favore del re ed alla propria astuzia. Ma la corte ed il campo mi­litare non sono isolati dalla città. Davide ed i suoi uomi­ni sono duri fuorilegge che conoscono le distese selvagge del Negeb assai meglio delle raffinatezze cittadine, ma una volta che ha loro arriso il successo si trovano ad es­sere la « classe dominante » in una città dove le istitu­zioni e le abitudini risalgono a età piu antiche dell'avven­to di Israele. Il lusso e i piaceri della vita cittadina ben presto ammolliscono la durezza del re e, è lecito conclu­dere, anche dei suoi seguaci. Ma la città ha anche la sua aristocrazia e le sue classi disposte in ordine decrescente. A parte la vecchia camarilla militare dei Gebusiti, certa­mente sterminata o assorbita dagli Ebrei conquistatori, si tratta di un'organizzazione non rigida basata sul commer­cio, sull'industria e probabilmente sulla religione.

Sotto Salomone l'influsso della corte e della città s'ac­cresce, e la fama che lascia di sé questo periodo è dovuta in larga misura allo sviluppo della vita urbana. Un im­menso programma edilizio pone le basi di una massiccia casta di funzionari e di servitori del tempio e del palazzo. Le imprese commerciali del re non sono meno sintoma­tiche dei cambiamenti che si vanno producendo: si tratta

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di monopoli regi, ma sono il sintomo di ciò che si sareb­be verificato nei secoli seguenti. Le imprese minerarie e le fonderie del re a Edom sono altresi atte a trasformare profondamente la situazione e la struttura del regno, tra­sformazione che possiamo vagamente cogliere attraverso l'entusiastica esposizione delle ricchezze dell'epoca fatta dallo scrittore biblico. Si verificano inoltre certi muta­menti politici che dovremo esaminare piu particolareggia­tamente fra poco - per ora ci interessa il fenomeno della riduzione in servitu di tribu ebree. Leggiamo come il re impiegasse soltanto Canaanei ma da certi passi risulta chiaramente che i suoi stessi sudditi Ebrei non furono affatto risparmiati.

Ne derivò, com'è noto, la rivolta capeggiata da Ro­boamo. Le tribu del nord chiedevano di essere reintegra­te nei loro vecchi diritti e quando il re rifiutò, crearono uno Stato che dapprima parve soddisfare la loro esigen­za di affrancamento dal dominio della città e dalla tiran­nia della corte ; mezzo secolo dopo, però, la situazione era degenerata in misura tale da farsi grave come in Giudea. Le stesse forze di sviluppo commerciale ed industriale, le tendenze connaturate alla vita cittadina, operano in en­trambi gli Stati : nella Samaria come a Gerusalemme. Nel nord come nel sud, l'antica struttura sociale si sfalda e la vita lentamente si adegua alla nuova situazione. L'api­ce viene toccato nell'viii secolo in seguito alla guerra dei cent'anni con la Siria e la susseguente pace sotto il regno di Geroboamo Il. I caratteri sociali del tempo sono noti a ogni studioso delle profezie di Amos, Osea, Isaia e Mi­chea. Da un lato un gruppo di cortigiani egoisti e indo­lenti, di ricchi oziosi che vivono fra i bagordi; dall'altro c'è il ceto contadino ed i lavoratori piu poveri la cui schia­vi tu non consiste soltanto in un reddito inferiore al mi­nimo vitale ma giunge perfino a prendere veste giuridica. Fra questi strati sociali vive un ceto di commercianti avi­di che si frodano e truffano a vicenda quando non trovino altre vittime alla loro cupidigia. Non stupisce che gli uo­mini pensosi guardino con nostalgia agli antichi e sempli­ci giorni della rozza equità e delle istituzioni patriarcali, che Israele si è ormai lasciati alle spalle.

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Il fatalismo dell'Oriente e la disperazione sociale che echeggeranno nell'Ecclesiaste in un'epoca posteriore non impediscono che si faccia ogni sforzo per attuare una ri­forma. Naturalmente anche allora sorge qualcuno a pro­porre come soluzione di girare indietro le lancette del­l'orologio. I bei giorni andati erano quelli della società rustica e anche nomade; si elimini dunque la città e le sue storture ! Il movimento rechabita, pur non animato di spiriti riformistici, significa per i rechabiti stessi la li­berazione dai mali del presente· grazie ad un troppo facile ripudio della civiltà. « Rimani beduino ! >> ordina Jonadab ben Rechab ai suoi figli, ed essi, fedeli all'autorità pa­triarcale, si conformano per secoli ai suoi dettami. Sor­prende invece che questo atteggiamento trovi dei patro­cinatori fra i profeti, come Elia; Osea propugna l'ideale di un tempo in cui Israele torni ad abitare sotto le tende, mentre un altro scrittore di cui ci restano le parole nel settimo capitolo del Libro di Isaia crede di trovare la so­luzione dei problemi del tempo riducendo la terra allo stato selvatico e costringendo di nuovo gli abitanti alla caccia. Ma la civiltà non si può deviare deliberatamente, né si possono eludere i suoi mali. I pensatori di Israele non sono tutti dei Gandhi : alcuni credono nell'azione politica immediata, ma è notevole che dopo i giorni di Roboamo, questo metodo venga seguito soltanto una vol­ta, e anche allora, l'azione di Iehu, per quanto istigata dai profeti, viene apertamente condannata in seguito.

Due altre soluzioni vengono proposte da gruppi diver­si. È caratteristico di Israele che i piu liberali non levino le braccia per la disperazione né accettino la situazione con pia rassegnazione, anzi, la affrontino come un'eve­nienza sociale che impone di agire. Né mancano i prece­denti : Urukagina nel Shumer tentò di attuare una ri­forma mediante una nuova legislazione parecchi secoli pri­ma, e seicento anni dopo di lui Hammurabi di Babilonia fece altrettanto. Le meditazioni del veggente egizio Ipu­wer testimoniano dello stesso fermento sociale, anche se alla fine la sua profezia svapora in vagheggiamenti astrat­ti; ma l'autore del Contadino eloquente è di indole ben piu robusta. Il contributo dei profeti ebraici alla riforma

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sociale è però tale da riunirli in una classe a sé stante. La strenua serietà, l'intensità delle convinzioni, l'intuito pe­netrante e la elevatezza etica che li caratterizzano, fanno di essi il coronamento delle culture dell'antico Oriente conferendo loro, ancora oggi, una posizione importante fra i grandi uomini di tutti i tempi. La soluzione data dai profeti al problema sociale è semplice e tuttavia incisiv3: il miglioramento della società deve essere prodotto me­diante la riforma delle persone : raddrizzate i disonesti e gli egoisti e ne risulterà una società ideale; Gerusalemme sarà redenta secondo giustizia e diverrà una città fedele.

Non a caso i profeti rinviano la soluzione del proble­ma sociale ad una riforma del carattere individuale : so­no, infatti, degli individualisti nati. Uno dei suoi massi­mi contributi Israele lo porta appunto in questo settore. I profeti, pur tentando di contrastare i risultati del lento allontanamento di Israele dalla struttura sociale nomade, finiscono essi stessi col contribuire al moto della storia, rendendo impossibile un ritorno all'antico pensiero. L'in­dividuo è emerso dal livellamento del gruppo fin da quando il popolo ha preso stabile dimora in Palestina, ma ecco il profetismo offrirgli un impulso nuovo. Il tratto essenziale del profetismo è il rapporto personale che stabilisce con Dio; il profeta riceve dei messaggi e trae quindi le sue persuasioni non da leggi o da tradizio­ni, ma dall'esperienza personale, in quanto ode il Signo­re. Si erge perciò dinanzi al re, al sacerdote ed al popolo, sulla base di una sua convinzione ( assolutamente sfornita di prove) di possedere, come persona, certe verità agli al­tri sconosciute. Lancia le sue denunce e fornisce le sue direttive in netto contrasto con le convenzioni accettate. L'esperienza profetica non meno delle parole del profeta, forma in tempi posteriori la base della religione, assor­bendo, con il passar del tempo, tutte le altre manifesta­zioni di devozione. La coloritura personale che ha fatto a tutt'oggi dei Salmi il grande classico della religione in­teriore, non fa che estendere a ogni credente l'esperienza profetica della realtà di Dio nella vita individuale.

Ecco dunque il significato della riforma attraverso la rigenerazione personale invocata dai profeti. Il suo vero

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valore possiamo coglierlo meglio in rapporto ad una spe­ranza espressa in tempi posteriori; la dottrina della leg­ge scritta nel cuore (Geremia, 3 1 , 33 ) non è infatti altro se non la speranza che questa esperienza, dapprima pro­pria dei profeti , diventi con il passar del tempo patrimo­nio comune a tutte le anime devote.

La debolezza del profetico programma di riforme è nel non essere sorretto dalla forza delle armi : appellarsi al pensiero e alla coscienza degli ascoltatori, benché in ulti­ma analisi sia l'unico mezzo per riformare il pensiero o l'azione e benché destinato a trovare una giustificazione nei secoli posteriori, al tempo dei profeti è perfettamente inutile. È pressoché impossibile d'altronde giudicare esat­tamente un contemporaneo che si stacchi dagli usi comu­nemente accettati. I profeti non ebbero molto successo e la massima parte dei compatrioti li considera una fonte di fastidio. Le riforme non vennero attuate, se non a di­stanza di secoli, e anche allora in modo imperfetto. Ma il legislatore appartiene ad un tipo umano del tutto diver­so, che mira a tradurre in pratica la sua visione politica, e vi riesce. Tuttavia le riforme di Asa, Joas ed Ezechie­le non raggiungono alcun risultato socialmente importan­te : i loro obiettivi sono cultuali e non etici, un fatto di per sé illuminante, in quanto dimostra che l 'etica sociale non ha presa alcuna sui condottieri. Lo stesso però non vale per i riformatori, ai quali dobbiamo uno dei grandi testi della letteratura di Israele, il Libro del Deuterono­mio. Si tratta, come dice il nome, di una ricapitolazione - meglio, una revisione - dell'antica legislazione sociale di Israele. È rilevante ai fini della nostra dimostrazione osservare che la data comunemente assegnata al nucleo centrale del libro è il tardo secolo VIII o l'inizio del vu. L'opera doveva pertanto proporsi di migliorare le condi­zioni di cui abbiamo discorso prima.

Questi legislatori sono pienamente consapevoli del pro­blema sociale. La loro revisione delle antiche leggi a fa­vore dei poveri e delle classi colpite da incapacità giuri­dica è uno dei caratteri piu interessanti dell'opera. Il commento del Decalogo (Deuteronomio, 5, 6-2 x ), benché non faccia parte veramente del testo originale è appunto

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ispirato in tale senso. A contrasto con la legge del sa­bato, che esige di essere osservata perché Dio si riposò il settimo giorno, santificandolo, la legge deuteronomica la giustifica con il ricorso della schiavitu in Egitto e con la considerazione per il servo e la serva, che debbono gode­re del riposo del sabato come il padrone. Nel codice vero e proprio la vecchia prescrizione agricola di un anno sab­batico per il maggese è trasformata in anno sabbatico de­stinato alla cancellazione dei debiti , o, forse, al rinvio della loro esazione. La decima del terzo anno dev'essere depositata in una città dove il levita, lo straniero, l'orfa­no e la vedova possano andare a fruirne liberamente. Nel­le feste municipali dedicate alle stagioni religiose ed al pagamento delle decime, queste classi indigenti, insieme agli schiavi dei due sessi, debbono prendere parte ai ban­chetti, evidentemente allestiti grazie ai mezzi dei loro vi­cini piu fortunati. È notevole anche la nuova regolamen­tazione della schiaviru. Per la prima volta si permette la manomissione della schiava ebrea dopo sei anni di servi­zio. È ancor piu sorprendente che agli schiavi liberati debba essere dato un peculio: evidente sforzo di mitiga­re la situazione per cui lo schiavo, dopo sei anni di servi­zio, ritorna alla società povero come prima e pertanto in pericolo di perdere nuovamente la sua libertà. È signifi­cativo che tale generosità sia indenne da ogni ombra di grettezza : infatti : « ricorderai che fosti schiavo in terra d'Egitto, e che il Signore Dio tuo ti riscattò ».

Non ci è possibile stabilire fino a qual punto queste disposizioni siano state efficaci nel mitigare la sofferenza in quei tempi. Tutt'al piu potevano avere l'utilità di certi nostri espedienti moderni, come le cucine per i poveri e le distribuzioni di pane in tempo di crisi. La malattia era però troppo profonda per poter essere curata da un trat­tamento superficiale. La povertà ha origini e cause che si dovrebbero poter isolare ed eventualmente estirpare. Che i pensa tori di venticinque secoli fa riconoscano questa ve­rità è sbalorditivo. Oltre ai palliativi or ora menzionati, il Deuteronomio lancia un assalto frontale alla povertà, addentrandosi nel vivo della questione. La soluzione of­ferta potrebbe sembrare un salto pietistico nel sopranna-

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turale: (( Non vi saranno poveri con te . . . solo che tu dia ascolto attento alla voce del Signore Dio tuo osservando tutto il comandamento che ti do oggi » (Deuteronomio, r 5 , 4-5 ) , ma il passo deve essere esaminato piu attenta­mente, nel contesto infatti « tutto il comandamento » in­clude un vasto programma, ed equivale ad una piena giu­stizia sociale. Pochi sarebbero disposti oggi a negare che, mettendo tutti in pratica diligentemente un tale coman­do, in una terra ricca, la povertà svanirebbe per lasciare il posto ad una relativa abbondanza. Il nodo della que­stione è come rendere operante un tale principio. L'auto­re suggerisce un modo - sia pure inadèguato - insistendo con l'esortazione di prendersi cura di chi è privato della piena capacità giuridica. Ma le condizioni storiche dei secoli VIII e VII a. C. non erano tali da suggerirgli la ne­cessità di inserire tali esortazioni nel quadro di un pro­gramma sociale completo.

Ormai è estinta la solidarietà antica dei giorni della conquista, limitandosi a sopravvivere qua e là in alcune idee. Non stupirà quindi che il concetto della responsa­bilità individuale in campo religioso venga formulato definitivamente anzitutto, in breve, da Geremia e poi, un po' piu ampiamente, da Ezechiele. Parrebbe che Eze­chiele, qui come in gran parte dei suoi insegnamenti pro­fetici, sia in debito verso il piu anziano Geremia, limi­tandosi, come contributo originale, a esprimere il suo pensiero in forma accessibile ai piu. Le circostanze che determinano la proclamazione della dottrina in questo periodo si possono congetturare se non identificare con certezza. Il motivo essenziale di entrambi i profeti sem­bra essere la disintegrazione della nazione, cosa che in­dubbiamente dà maggior spicco all'individuo. Inoltre, in modo piu specifico, gli avvertimenti ed i rimproveri mos­si da generazioni di profeti per secoli e secoli, spesso volti a stimolare certi comportamenti individuali e co­munque in ultima analisi sempre diretti a provocare una certa condotta, fanno pensare che la dirittura dell'indi­viduo non dipenda dalla sua appartenenza alla nazione, bensf dalla sua particolare reazione al messaggio del pro­feta. Un gruppo di seguaci ed amici dei profeti, loro di-

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scepoli, per usare la parola di Isaia (Isaia, 8, 6 1 ), suc­cessori della vecchia organizzazione protomonastica dei « figli dei profeti », aveva dato forma vivente a quel con­cetto, nella specie di una « chiesa » entro lo Stato. In essa si scorge in embrione quella società imperniata sul­l 'autonomia individuale, che gli insegnamenti di Geremia ed Ezechiele additano come speranza di sopravvivenza di là della imminente rovina della nazione. Il pensiero è forse anche fomentato dalla coscienza del fatto che non tutti sono ugualmente responsabili della catastrofe, e quindi non tutti debbono subirne ugualmente le conse­guenze. Ma una parte essenziale ha anche il carattere dei due profeti : Geremia è uomo profondamente sensibile, spinto alla lotta dal senso di un affronto personale ; Eze­chiele invece è mosso da un senso di responsabilità verso le persone della cui salvezza è - per via del suo ufficio -responsabile.

Benché abbia dei precedenti, la formulazione della dot­trina dell'individualismo religioso da parte di Ezechiele è abbastanza nuova da provocare quegli eccessi che gene­ralmente si accompagnano alle novità. Certi commenta­tori del suo libro giungono a stereotipare un procedi­mento meccanico grazie al quale il premio o la punizione colpiscono l'individuo automaticamente per effetto della sua condotta (Euchiele, 18 , 5-3 2 ; 3 3 , 1 2-2o). Non sono affatto considerate le condizioni determinanti dell'eredi­tà, dell'abitudine e della circostanza, che già altri pensa­tori avevano esaminato : il giudizio è insensibile alle sfu­mature : chi agisce in un determinato modo è malvagio e morirà !

Comunque sia, il concetto del primato dell'individuo nella religione ebbe un'applicazione assai piu sensata di quanto parrebbero indicare questi passi. Tutto il proble­ma dell'antitesi e dell'interazione della società e dell'in­dividuo, problema ridiventato di attualità politica inter­nazionale in tempi recenti e che continuerà a preoccuparci per parecchio tempo ancora, viene trattato con molto equilibrio nel corso della storia ebraica. Il concetto tra­dizionale della supremazia della società sopravvive anco­ra in misura minima, è vero, ma tale da garantire contro

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l 'atomismo che ha afflitto la nostra società. L'ebraismo continuò a identificarsi con una comunità, la cui vita ed i cui convincimenti si esprimono nelle istituzioni sociali, nelle quali però l'individuo non viene mai sommerso. La schiera di brillanti personalità che in ogni settore della vita adornano la storia ebraica fino ai nostri giorni, è testimonianza sufficiente della vitalità dell'individualismo in seno all'ebraismo. Eppure quei personaggi illustri nacquero e crebbero nella comunità ebraica, ne furono l'espressione ed il culmine, mentre essa a sua volta ispirò loro una fedeltà concreta, una devozione vivificatrice, un fine trascendente.

Lo sviluppo della vita politica d'Israele va di pari pas­so con il pensiero sociale. In parecchi casi gli stessi testi o episodi che hanno rilevanza in un settore l 'hanno anche nell'altro.

Le poche notizie che abbiamo sulle tribu degli inva­sori Habiru ostacolano le nostre ricerche. Le lettere di Amarna parlano di certi capi invasori, ma resta scono­sciuto in qual modo venissero promossi alla carica e di che natura fosse la carica stessa. Si potrebbe ricostruire tutto ciò mediante l'analogia con il sistema beduino, ma data la scarsa documentazione è meglio lasciar cadere il problema, ritornando alle prime fonti sulla vita di Israe­le subito dopo l'insediamento in Palestina. Esse ci rive­lano un'organizzazione a clan e comunità poste sotto l'autorità degli anziani ai quali era affidato non solo il potere esecutivo ma anche quello giudiziario. Era una democrazia primitiva priva di autocoscienza critica, per­ché, a quel che pare, tutti i membri anziani venivano promossi al governo non appena raggiunta una certa età. Pare che le decisioni degli anziani venissero concordate attraverso discussioni libere. Il modo di operare di una simile casta dominante è rappresentato nella storia delle negoziazioni di Boaz per l'acquisto della proprietà di Noemi (Ruth, 4, 1-1 2 ). La narrazione risale probabilmen­te ad epoca piu tarda, ma i consigli degli anziani conti­nuarono a esistere nelle comunità minori per tutta l'epo-

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ca dell'Antico Testamento. C'è quindi ragione di credere che l'autore riferisca di costumi che gli erano familiari.

Ma il peso degli avvenimenti costrinse i gruppi minori di clan e tribu a riunirsi in una sia pure approssimativa unità nazionale. È questo il tema della storia dei vari « giudici » che successivamente emergono, e del loro governo. Le modalità della loro elezione erano tipiche della democrazia primitiva. Il requisito fondamentale era la capacità di assumere la guida del popolo e di ri­solvere le crisi, tale capacità si basava, come nel caso di Jefte, su una reputazione già affermata, o si manifestava con una spontanea reazione alle circostanze, che sollevan­do il contadino dal suo ruolo mediocre, gli dava l'occa­sione di mostrare una forza e una prontezza di decisione tali da stupire lui stesso ancor prima dei suoi compagni. Probabilmente la prestanza fisica costituiva talvolta il re­quisito essenziale . Comunque il « giudice » otteneva il consenso e la leale adesione dei clan, che accettavano il suo comando e muovevano contro il nemico ai suoi ordini.

II successo conferiva inevitabilmente un prestigio du­raturo, sicché essi « giudicavano Israele » per un periodo variabile di dieci, venti o quarant'anni. Ma solo in due casi questo sistema fu sul punto di trasformarsi in un diritto ereditario. Tale offerta fu fatta a Gedeone ma egli rifiutò . Si noti: fu offerta: l'iniziativa era partita dal po­polo. È interessante anche osservare in quali termini si sia espresso il rifiuto. Gedeone risponde: <( Io non vi go­vernerò, né vi governerà mio figlio. Il Signore vi gover­nerà >>. A voler sorvolare sulla controversa questione della genuinità del passo, possiamo riconoscere in esso l 'espressione di una democrazia primitiva. Il vincolo uni­ficatore nonché il principio che dominava le tribu era la fedeltà al loro Dio, non già al monarca, al sacerdote, a una qualsiasi organizzazione; tutti rispondono all'appello quando Dio parla per tramite di un uomo da Lui pre­scelto per salvare il popolo. Gedeone, riconoscendo che i vincoli spirituali sono piu saldi dell'irreggimentazione politica, voleva lasciare le cose cosi come stavano. Ma suo figlio Abimelech non sente il freno di simili conside-

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razioni, è un tipico principiante egoista, del genere che nei secoli ha causato i mutamenti storici - ed i guai - e la sua vicenda si modella sul tipo che si è rinnovato sem­pre fino ai nostri giorni. Dapprima con argomenti spe­ciosi racimola un seguito nella città di Shechem e poi allarga e rafforza il suo potere con la violenza - finché alla lunga la violenza ha la meglio su di lui . Ma la sua avventura è un sintomo della situazione storica che si va profilando, sicché non stupisce veder sorgere ben presto un'altro capo scelto dal popolo che, dopo aver risolto felicemente la crisi che l'aveva chiamato al potere, viene acclamato re, forse per effetto degl'intrighi dei suoi ami­ci. È però anche possibile che sia stato scelto spontanea­mente dalle tribu consociate, convinte, come suggerisce la narrazione parecchio piu tarda dell'episodio, che le esigenze di quei tempi turbolenti impongono di avere un re come le altre nazioni. Comunque sia, Saul è « l 'ultimo dei giudici ed il primo dei re ». Ben presto egli si persua­de che il diritto ereditario spetti alla sua famiglia, ben­ché, al momento della sua elezione, non se ne fosse fatta parola. Suo figlio riusd, in effetti, a succedergli.

Saul mantenne un tenor di vita assai semplice nella sua rustica capitale; piuttosto signorotto di campagna che re di una nazione. Talvolta è arbitrario e violento, ma non piu di certi padri di famiglia, e non mostra mai di voler accrescere le prerogative del suo ufficio usurpan­do i diritti tradizionali del popolo. È vero che rifiuta di sottoporsi al vecchio « creatore di re » Samuele, e gliene spetta il merito. Sono però di natura un po' piu dubbia i suoi tentativi di stabilire una supremazia del trono sul ceto sacerdotale; i suoi rimproveri a Gionata per l'ami­cizia con Davide mostrano inoltre la sua preoccupazione di assicurare la successione alla famiglia. Ma nel com­plesso il suo atteggiamento si inquadra in quelli che po­tremmo chiamare, con una certa esagerazione, i diritti co­stituzionali della monarchia. Alla luce dei fatti che segui­rono, sulla scorta di qualche antico scrittore (I Samuele, 8 , 1 0- 18 ) possiamo ravvisare in lui, per la natura stessa del suo ufficio, una grave minaccia per le istituzioni poli­tiche di Israele, qualcosa come una rivoluzione virtuale.

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Ma su questo punto Saul era personalmente innocente. Davide cominciò bene il suo regno. Anche lui era un

capo popolare, e grazie ad una combinazione di elementi personali e di circostanze nazionali, assurse ad un'impor­tanza tale da meritarsi l 'offerta del trono, offerta che ac­cettò. Dopo la sconfitta del Monte Gilboa gli Israeliti dominavano incontrastati l 'intera Palestina occidentale e pertanto conducevano la vita che loro meglio piaceva. Un fuorilegge duro e devoto al suo popolo, come Davide si era mostrato, era l 'uomo adatto e la scelta popolare fu saggia, come presto venne dimostrato dagli avvenimenti. Il suo travolgente successo contro la potenza filistea, la sua conquista della famosa fortezza di Gerusalemme di­ventata capitale della nazione e l 'imposizione della pro­pria autorità e influenza fino a essere il monarca piu po­tente fra l'Eufrate e l'Egitto, trasformò non solo la posi­zione culturale degli Ebrei ma anche la lcro impostazio­ne politica.

Tuttavia Davide non si allontanò dalle sue origini - e chi mai se ne allontana? - Una certa rusticità, un ricordo della sua aspra vito gli rimase addosso anche quando di­venne il grande monarca in una antica capitale. Era stato contadino, e fino alla fine della sua vita comprese il suo popolo e trovò un freno nella consapevolezza che il po­polo ama la libertà e che lui stesso dipendeva dal popolo. Le forze sinistre che avevano influito sul trono di Geru­salemme si colgono meglio nella prospettiva dell'intera monarchia unificata, che, durò peraltro solo per lo spa­zio di tre regni.

Un aspetto infausto - intelligibile solo alla luce della storia susseguente - si rivelò allorquando Davide abban­donò il comando dell'esercito schierato in campo, restan­dosene a Gerusalemme mentre Ioab guidava la campa­gna. È questo, fra l 'altro, lo sfondo su cui campeggia l'abominevole episodio di Betsabea . La decadenza della dinastia ottomana cominciò alla medesima svolta della sua storia. Ma fu ancor piu perniciosa l'influenza dell'harem - focolaio di sedizioni e di torbidi e fonte della corru­zione personale del re in ogni corte orientale - istitui­to da Davide e consolidato e ingrandito da Salomone.

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Fu un intrigo dell'harem a portare sul trono Salomone. Il figlio di Salomone, che infine fece crollare il regno, se­gnava già la seconda generazione nel processo di deca­denza morale che l'isti tuzione monarchica aveva promos­so alla corte di Gerusalemme.

Ma altre influenze , assai meno deprecabili, stavano esercitandosi sul re. Il successo mette alla prova la tem­pra di un uomo, e Davide ebbe successi tali da oltrepas­sare i suoi sogni piu accesi . Si ricordò mai dei suoi sem­plici giorni di pastore a Betlemme e si domandò mai che cosa avrebbe pensato il suo vecchio padre se avesse po­tuto contemplare la ricchezza del suo regale figliolo? L'a­gio, il lusso e l'abbondanza che ai tempi di Salomone raggiunsero un fasto favoloso, il rispetto pubblico che si mutava in adulazione, l'ampia opportunità di concedersi ogni capriccio, cosa che cosf facilmente degenera in dis­sipazione, e la sua posizione di re furono altrettanti fat­tori che contribuirono ad allontanarlo dal modesto tenor di vita dei capi della nazione a lui anche di poco ante­riori. Il concetto mistico della monarchia che si era espresso in varie forme nell'Oriente, dal regno divino dell'Egitto al possente monarca, caro agli dei, quale era concepito in Mesopotamia, e ancora il rapporto fra il re ed il dio morente nel quale il re in certo modo rappre­sentava la vita e l'essere del suo popolo : tutti questi ele­menti si fecero sentire in certa misura allorché Israele sollevò alla dignità regia uno dei suoi figli. Ci restano numerosi accenni al re lontano e superiore al suo popolo, all'aspetto religioso della regalità : Geremia riferisce tali lamentazioni pubbliche per la morte di un re, da poter essere messe in rapporto con il rito del dio della fertilità (Geremia, 2 2 , r 8 ). La storia apparentemente innocente di Abishag, che doveva riscaldare il vecchio Davide, ri­corda certe pratiche diffuse con le quali si metteva alla prova la virilità estenuata del vecchio re, in quanto sim­bolo delle forze vitali della nazione. La scuola ermeneu­tica piu affermata ravvisa, nei lamenti che costellano i devoti poemetti dei Salmi, la testimonianza delle prove cui il re doveva sottoporsi. Certo il re era misticamente considerato un uomo al di sopra della normalità in quan-

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to unto dal Signore. Il contatto dell'olio santo ne faceva un altro uomo (I Samuele, ro, 6) sicché egli veniva a trovarsi in un rapporto intimo, quasi filiale con Dio (Sal­mi, 2 , 7 ) e certamente di stretta affinità (Salmi, no).

Non fu certo quindi per ambizione personale - che pure aveva la sua parte., né per un orgoglio esagerato prodotto da un'adulazione cui non erano assuefatti, che codesti re sistematicamente e progressivamente avocaro­no a se stessi il potere assoluto. La trasformazione av­venne quasi loro malgrado, tanto era connaturata alla monarchia orientale.

L'ascesa al trono di Salomone costituisce un sintomo di tutto ciò. I primi re erano stati prescelti dal popolo, poiché anche nei confronti dell'usurpatore Assalonne la finzione venne mantenuta (II Samuele, 1 6, r 8 ). Ma Salo­mone venne elevato al trono dal padre su istigazione del­l'harem. Il vecchio re aveva deviato dai principi comu­nemente accettati al momento della sua accessione al trono nei quaranta anni del suo regno, a tal segno che o scordò o volle scordare i diritti dei suoi sudditi. La suc­cessione era diventata una prerogativa della famiglia reale. Tuttavia un sovrano che non fosse stato accecato da un sentimento esagerato dei suoi diritti regali avrebbe scorto certi indizi di pericolo. Quando Davide tornò dal suo breve esilio al tempo della sedizione di Assalonne, si levò un grido minaccioso destinato ancora a riecheggiare durante una crisi nella storia di Israele: « Noi non abbia­mo alcuna parte con Davide né alcuna parte con il figlio di Isai. Torna o Israele, alle tue tende ! » (II Samuele, 20, 1 ). La monarchia, quali che fossero le opinioni della cerchia gerosolimitana, era un alto ideale per gli uomini liberi di Israele, e Davide lo sapeva. Egli intu! la gravità della crisi e la sua pronta azione soffocò la mossa dei se­paratisti, dilazionandola per lo spazio di una generazione. Roboamo ereditò un problema che egli era meno adatto di suo nonno ad affrontare. Pur riconoscendo che egli si comportò da folle, non si può tuttavia evitare una certa simpatia nei suoi confronti . Egli h1 vittima delle circo­stanze. Come poteva lui, nipotino dell'harem e delle sue nefaste influenze, considerare le esigenze dei contadini se

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non come violazioni dei suoi sacri diritti? Il dogma del diritto divino dei re si era rafforzato durante il regno di Salomone, come appare dalla sua irresponsabile condotta degli affari di Stato, dalle corvé imposte agli uomini li­beri di Israele, dalla sua corte stravagante, mantenuta a spese della nazione, dalla sua suddivisione amministrati­va del paese, fatta a dispregio dei confini tradizionali del­le tribu, e da tutto il complesso della sua vita autonoma in una corte che sfidava la realtà dell'economia fonda­mentalmente agricola di Israele. Egli vi trascorreva i suoi giorni fastosamente, fra feste, processioni regali, dilet­tantismi culturali nella cornice di un'architettura meravi­gliosa, dovuta al lavoro dei contadini di Israele, circon­dato da stuoli di donne.

Dobbiamo a Roboamo una chiara enunciazione del problema. Egli si era consultato con i consiglieri piu an­ziani (ancora dotati di un certo senso delle realtà politi­che, se pure incapaci di ricordare gli avvenimenti fonda­mentali del regno di Davide), ma aveva poi abbracciato l'opinione dei giovani amici cortigiani, degli allegri com­pagni cresciuti, come lui, nell'atmosfera malata e artifi­ciosa della corte infestata dall'harem, e che indubbiamen­te sognavano il giorno in cui, con la sua incoronazione, avrebbero dominato a modo loro. La gente del nord che viveva dei proventi della terra, lontana dalle blandizie di Gerusalemme aveva proclamato: « Alleggerisci adesso il duro servizio impostaci da tuo padre, ed il pesante giogo che ha gravato su di noi; allora ti serviremo ». Roboa­mo rispose : << Mio padre vi ha castigati con sferze, io vi castigherò con scorpioni ». Ecco il nocciolo della questio­ne: aveva dei diritti il popolo? O li aveva soltanto il re? La rivolta delle tribu del nord era un'affermazione della libertà sovrana del popolo minuto. Il re invece difese ri­solutamente il diritto divino del re di governare i suoi sudditi come meglio gli piacesse. Egli era al di sopra della legge essendo egli stesso la legge, ed essi non ave: vano che i diritti concessi dalla legge. Oggigiorno tah pretese si associano al ricordo storico dei re Stuart d'In­ghilterra, ma Giacomo I nella sua New Law .for �re

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Monarchie (Nuova legge per la monarchia), ed l suoi d1-

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scendenti, nei loro atti ufficiali, erano ispirati dall'Antico Testamen to. Se ne rendesse conto o meno, Giacomo I era l'erede spirituale di Roboamo. Se avesse tuttavia ap­profondito lo studio dell'Antico Testamento, avrebbe potuto trame spunti piu adatti per i suoi eredi, destinato uno di questi a perdere la testa a causa dei principi pa­terni ed un altro, come Roboamo, a perdere il regno.

Giuda, per il suo lealismo verso la Casa di Davide, si trovò allora a difendere il dispotismo. E sebbene con certe riserve dobbiamo interpretare in questa direttiva la storia di Giuda, poiché il carattere differenziale fra la sua vita politica e quella di Israele è dato dalla stabilità della dinastia. Eppure il caso è meno semplice: le deposizioni di re nel nord furono raramente il risultato di agitazioni semidemocratiche, e la rivolta di Iehu, ispirata dai pro­feti, rappresenta un'eccezione assai controversa. Al con­trario, spesso l'ascesa di una nuova dinastia è il frutto de11'ambizione personale e per lo piu avviene per effetto di un atto di violenza. L'ondata di libertà che sconfigge Roboamo e pone sul trono in suo luogo Geroboamo, si placa ben presto ed il nord, ancor piu di Giuda, diventa preda di capi irresponsabili e senza principi. Salvo che nel caso, d'altronde dubbio, del rovesciamento de11a casa di Acab ad opera di Iehu. non si trova in Giuda alcun indizio di sviluppo costituzionale. Del resto anche alla superficie della storia di Giuda ci si offre ben poco; la successione dei figli ai padri, interrotta solo dalla paren­tesi dell 'usurpazione di Atalia, è riferita in termini neu­tri: « regnò in suo luogo ». Le notizie scarseggiano, e non sappiamo quale fesse il corrispettivo giudaico di « Il re è morto, viva il re ». Solo in tre casi, nei quali il re muore di morte violenta, ci vien detto che il popolo pren­de il figlio e lo mette in trono (II Re, 1 4, 2 1 ; 2 1 , 24 ; 22, 30). Quale rapporto questo possa avere con l'ascesa normale è del tutto oscuro e aperto a ogni congettura. Ma un punto è evidente : il convincimento che l'autorità ultima nell'elezione del monarca spetti al popolo non vie­ne mai meno. Tutt'al piu il diritto del popolo r imane so­speso, anche se è probabile che sia s tato esercitato in con­creto o almeno simbolicamente ogni volta. Il significato

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di questo fatto va sottolineato : dopo quasi quattrocento anni di regno, il popolo di Giudea rifiuta ancora di essere ridotto al ruolo di pedina nel gioco della politica di po­tenza; esso sa di avere dei diritti tali da poter essere con­trapposti alla volontà dei re, ed è disposto a difenderli. Ne possiamo dedurre che vi è qui implicito un atteggia­mento perfettamente democratico. Se il popolo è l 'arbi­tro nella scelta di chi lo deve governare, allora in ultima analisi, l'autorità poggia, non già sul re, bensi sul popo­lo, per sottomesso che questo potesse essere alla corte.

Vari agitatori, e specialmente i profeti, tenevano de­sta una gelosa coscienza delle prerogative popolari. Il rim­provero mosso da Nathan a Davide, o da Elia ad Acab, è una sfida risoluta alla presunzione del diritto divino ed un'affermazione perentoria del principio in base al quale il re è passibile di essere giudicato alla stregua degli stes­si criteri e della stessa legge di natura che valgono per i suoi piu umili sudditi.

Ci troviamo di fronte al principio basilare che ispira l'atteggiamento dei profeti e degli altri pensa tori progres­sisti verso la monarchia; il re governa non per diritto di­vino, ma per un dovere impostogli da Dio. È soltanto il servo del Signore, designato a guidare il gregge. Suo com­pito è governare in base alle regole comunemente accet­tate dell'equità. L'opposizione di Samuele alla monarchia, come quella di Gedeone, basate sul principio che essa costituisce una negazione del governo del popolo da par­te di Dio, è forse soltanto una finzione di tempi posterio­ri , però risponde bene al tema sottinteso del pensiero politico ebraico quale si mantiene nel corso della storia nazionale. La teocrazia dei tempi posteriori, e per meglio dire, la ierocrazia, non è se non un perpetuarsi della teo­ria di Israele come « popolo di Iahvé » che dev'essere da Lui governato tramite l'uomo da Lui eletto, l'uomo che con tale incarico accetta la pesante responsabilità di assi­curare il benessere all'intero popolo.

Il senso della responsabilità, dei doveri altamente eti­ci del capo, è bene espresso nell'addio di Samuele. Il vec­chio sacerdote-profeta e politico alla fine della sua vita, di fronte alle tribu convocate, dà il seguente resoconto

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dei doveri compiuti : « Sono vecchio e canuto . . . ho cam­minato davanti a voi dalla mia giovinezza a questo gior­no. Eccomi : siate testimoni davanti al Signore e davanti al suo Unto, se io ho preso a qualcuno il bue o l'asino o se ho mai frodato o se ho mai oppresso o se ho mai ac­cettato un dono da qualcuno per chiudere gli occhi ; e lo restituirò ». Ma il popolo testimoniò che « Tu non ci hai frodato, né ci hai oppresso, né hai preso alcunché dalla mano di alcuno » (I Samuele, I 2 , 2-5 ). Il pensiero piu al­to di Israele riconosce il principio, gravido di conseguenze lontanissime e tali da ispirare la vita politica del popolo attraverso la sua storia, per cui l 'autorità, ed in partico­lare il governo, non devono essere considerati opportuni­tà da sfruttare, ma piuttosto la vocazione ad un servizio. Il capo deve valersi della sua carica non per vantaggio o profitto personale, ma a beneficio dei governati. È que­sta la tradizione migliore cui possa ispirarsi il pubblico servizio anche ai nostri giorni ed il suo carattere radicale risalta evidente per poco che si consideri quale rivoluzio­ne produrrebbe anche nei nostri paesi moderni se venis­se pienamente accettata da tutti coloro che hanno parte nel governo delle città e degli Stati. Che essa continuasse a resistere in Israele, anche se solo come speranza e idea­le di tutti gli esclusi dal ceto dominante, è attestato dalla condanna pronunciata da Geremia contro Ioakim verso la fine del periodo monarchico : « Non ha forse agito tuo padre . . . secondo giustizia e buon diritto? egli giudicò la causa del povero e del bisognoso . . . Ma i tuoi occhi e il tuo cuore sono presi dall'avarizia e dallo spargimento di sangue innocente e dalla violenza » (Geremia, 22, 1 5-17) . Anche Ezechiele esprime un'opinione non dissimile sulla classe dominante del suo tempo : (< Guai ai pastori di Israele che badano a se stessi! Non dovrebbero i pastori badare alle loro pecore? » (Ezechiele, 34, 2) . La diffusio­ne di questo indirizzo di pensiero è dimostrata dai lun­ghi commenti che una serie di scrittori ha dedicato a que­sto oracolo.

È sulla scia di questo tema che arriviamo al nocciolo dell'unicità della concezione del governo in Israele, a confronto con quella delle altre nazioni d'Oriente. Sareb-

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be inesatto affermare che tali ideali fossero ignorati in altri paesi, poiché erano stati espressi in Egitto nei testi letterari e in Babilonia nelle leggi. Ma il tratto sorpren­dente del pensiero di Israele è la sua diffusione e persi­stenza nella nazione, come pure il fatto che esso venga espresso nel diritto e per breve tempo, nelle istituzioni politiche.

Sullo sfondo delle lotte e delle proteste or ora passate in rassegna, attorno al VII secolo a. C. il gruppo progres­sista in Giudea, formula la sua teoria del buongoverno in un testo che ci è pervenuto in parte o completamente nel Libro del Deuteronomio. La legislazione sociale in es­so contenuta dev'essere tenuta a mente man mano che si studia la regolamentazione della carica regia - secondo la quale il re doveva essere scelto dal popolo in seno al popolo e determinati controlli dovevano limitare la sua libertà d'azione. Il testo prosegue dicendo :

Dopo che si sarà assiso sul trono del suo regno scriverà per sé una copia di questa legge, prendendone copia da un libro che sarà presso i sacerdoti, i !eviti, e lo avrà con sé e li leggerà per tutti i giorni della sua vita, affinché impari a temere il Signore Dio suo, osservando tutte le parole della Sua legge e queste disposizioni per applicarle, affinché il suo cuore non si levi [in superbia] sui suoi fratelli e non devii dal comandamento a destra o a sinistra (Deuteronomio, 17, r8-2o).

Nella sua cornice storica e nel suo contesto, questa di­chiarazione può ben considerarsi la Magna Carta di Israe­le. Il re non deve esaltarsi innalzandosi sopra i suoi sud­diti, deve sforzarsi di obbedire a tutte le parole del codice deuteronomico con tutte le conseguenze sociali che ne derivano. Inoltre, il libro dev'essere tenuto a portata di mano come una specie di costituzione del regno che gui­di e limiti il governo del re. Si tratta di quella stessa di­fesa dell'uomo comune contro l 'arroganza della monar­chia che echeggerà diciotto secoli dopo nel famoso docu­mento inglese.

Il codice deuteronomico diventa legge con la riforma di re Giosia nel 6zr a. C., e pare che nei dodici anni di re­gno che gli restavano egli ne accettasse lealmente le diret­tive e le limitazioni. Dopo quattro secoli di lotta il gruppo

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liberale ha trionfato, la sua concezione dei diritti umani e le sue limitazioni al malgoverno regale si sono consoli­date nella costituzione nazionale . Se ci possiamo permet­tere ancora una volta di vestire di forme moderne la sto­ria al fine di ricavarne il significato essenziale, possiamo affermare che la grande conquista del popolo ebraico, unica nel mondo antico, è l'istituzione del potere monar­chico limitato.

Ma a Giosia succede il dispotico Ioachin, al quale a sua volta succede Zedechia, creatura troppo debole per potere esercitare un'influenza politica. Poi la fine soprav­viene cosi improvvisa che princip1 politici affermati con la riforma rimangono senza seguito. Tuttavia, nel giudi­carne la portata storica, dobbiamo ricordare che dopo Giovanni, che promulgò suo malgrado la Magna Carta, venne Enrico III i cui arbitri e la cui decisione di annul­lare le concessioni. reincarnavano inconsciamente l'azione di Ioachin. Fu u�a lotta lunga e spesso l'esito sarebbe rimasto incerto, non fosse stato per il carattere tenace e indipendente del popolo inglese, che alla fine riusd a con­solidare i diritti costituzionali. Le ambizioni degli Stuart e l'astuzia di Giorgio III mostrano come fosse recente il culmine di ciò che era cominciato in modo cosi notevole a Runnymede, in quel giorno di giugno dell'anno 1 2 1 5 . Finché l'edificio del governo non venne distrutto d a una bomba nazista, i membri della Camera dei Comuni ingle­se erano fieri di mostrare la scalfittura prodotta sulla por­ta della sala dall'anello del messaggero del re che veniva a convocarli per il discorso della corona: egli non poteva entrare; si trattava di un terreno riservato all'uomo co­mune d'Inghilterra, e a lui non rimaneva che starsene al­la porta e umilmente porgere il suo invito.

Ma a Giuda fu negata la sopravvivenza nazionale e la maturazione costituzionale del principio cosi audacemen­te ribadito dalla legislazione del regno di Giosia. Il segui­to di questa vicenda politica va cercato nei consigli locali degli anziani e nelle assemblee popolari che spesso qual­che autore biblico, preso da un eccessivo entusiasmo, ha esagerato al punto di farne « la congregazione di tutto Israele ». Si tratta del governo locale dell'antico Israele,

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come chiaramente si deduce da frequenti cenni. Uno sto­rico recente ha sostenuto che l'autorità della corte era in larga misura limitata alla capitale ed a poche città impor­tanti e che le comunità minori per tutto il periodo dei re praticamente continuarono a sentire i doveri di lealtà verso le loro assemblee ed i loro anziani, non accettando l'interferenza dell'autorità centrale se non per occasionali richieste di aiuti militari o per il pagamento di certe im­poste. Le nostre fonti non d consentono di giudicare del­la fondatezza della teoria, ma è certo che l'autorità locale è un elemento vivo nella vita di Israele e che l'assemblea popolare è un non trascurabile mezzo di espressione del­la volontà generale.

In questa istituzione, dunque, viva attraverso le vicis­situdini della storia nazionale fin dai giorni del primo in­sediamento in Palestina, viene coltivato quello spirito di indipendenza che contrassegna la vita di Israele in tutti i tempi e che può facilmente divampare nell'azione vio­lenta se le antichissime libertà vengono violate. Ecco cosf giustificata la teoria per cui nell'antico Israele esiste una democrazia politica genuina seppure amorfa. In queste assemblee locali si esprime la vita municipale ebraica do­po la caduta della monarchia tanto in Palestina come in seno alle schiere che vanno in esilio. La storia dello svi­luppo politico ebraico successivo non va riscontrata sol­tanto nella gerarchia dell'ebraismo palestinese restaurato e nella tracotanza della casa di Hasmon, ma nella soprav­vivenza dell'assemblea popolare dominata dagli anziani la quale, pur adattata alle esigenze locali e modificata in conseguenza, resta sempre uniforme attraverso i secoli della dispersione fino ai nostri tempi. L'educazione all'au­togoverno locale, in tutte le istituzioni sviluppatesi fra le valli ed i colli dell'antica Palestina, fornisce agli Ebrei sradicati un'organizzazione sociale capace di reggere al contraccolpo dell'esilio, aiutando la comunità ad adattar­si ed a lottare nell'ambiente straniero. Gli Ebrei hanno sempre preso sul serio la loro vita politica grazie all'im­missione dell'individuo nell'amministrazione della cosa pubblica, nel corso di un'esperienza secolare, cristallizza­tasi in forma stabile nell'Antico Testamento; essa costi-

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tuisce la piu notevole teoria del buongoverno formatasi nel mondo antico. Al tempo stesso l'ideale che si erge a sfida delle disperanti lacune dell'orgogliosa democrazia moderna.

Ma il re non rappresenta l'unica minaccia alla libertà. Il crollo dell'impero egizio e gli avvenimenti che contri­buirono alla conquista di Babilonia da parte di Ciro, ol­tre ad una quantità di fatti intervenuti da quei giorni ai nostri, mostrano che una religione organizzata, per strano che possa sembrare, può essere di ostacolo al progresso sociale e politico, non meno della politica reazionaria svolta dagli interessi costituiti, politici o economici che siano. La chiesa minaccia implicitamente la libertà non meno della corte.

Fin dai primi tempi della storia della società umana si può riscontrare un intimo legame fra la chiesa e lo Stato. Il primitivo, sentendo vivamente la subordinazione del­l'uomo alla volontà degli dei e credendo alla loro inter­ferenza negli affari del mondo, conferisce una posizione cospicua nel governo della comunità al consigliere spiri­tuale che, in teoria, dovrebbe essere in grado di conosce­re esattamente i desideri degli dei. La storia dell'antico Oriente mostra come quel particolare prestigio si trasfe­risca sul piano dell'azione politica. I re tengono a dispo­sizione un corpo di consiglieri spirituali, oppure rispetta­no le opinioni della gerarchia ecclesiastica a tal punto da fare del gran sacerdote, virtualmente, un importante mi­nistro di Stato. In Israele il ruolo dei profeti come consi­glieri regali traspare evidente da molti episodi già men­zionati ; notevole sono la presenza di quattrocento profeti alla corte di Acab ed i rapporti fra Samuele e re Saul. Ma tutto ciò porta alla logica conseguenza di una subor­dinazione dei capi politici, che finiscono col diventare satelliti dd clero. È certamente questo l'ideale caldeggia­to da un gruppo cospicuo in Israele � per il quale un tale asservimento rappresenta il segno della devozione reli­giosa, l'obbedienza alla volontà di Dio. È questa l'idea che si trova espressa nel Libro dei Re ed è in buona par-

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te l'opinione dell'autore delle Cronache; è pienamente echeggiata nel capitolo aggiunto alle profezie di Ezechie­le nelle quali la funzione del « principe » si riduce ad una preminenza nell'esecuzione del rituale, sotto la guida del clero. Nei tempi piu remoti dell'Antico Testamento l'i­deale trova espressione concreta in istituzioni politiche : il dominio dell'alto clero rappresenta il trionfo della pre­tesa della chiesa di primeggiare sullo Stato. E la teoria fu portata ad estremi sconosciuti in certe sue manifesta­zioni moderne, poiché non si limitava a confinare i capi secolari ad un settore subordinato ai principi della reli­gione organizzata, ma la gerarchia ecclesiastica avocava addirittura a sé entrambe le funzioni. La chiesa aveva fagocitato lo Stato.

Le proteste che si elevarono, se pure ve ne furono, han­no trovata scarsa eco nella letteratura, che venne trasmes­sa, giova ricordare, ad opera del clero o di partigiani del clero. Alcuni dei Salmi sono stranamente antiritualistici per esser compresi in una collezione che costituisce <( il libro degli inni del secondo tempio ». Un passo del Sal­mo 5 I è celebre:

Poiché non ti compiaci di sacrilici, altrimenti te li offrirei Non trai piacere dagli olocausti.

Sacrifici graditi a Dio sono uno spirito contrito Un cuore umiliato e contrito, questo, o Dio, non disprezzerai.

(vv., 16-17).

lo molti salmi il tempio appare una casa di preghiera do­ve gli adoratori si recano senza bisogno di una propizia­zione sacerdotale. Eppure tali espressioni non cancellano il fatto che il Salterio è fedele in linea di massima al ri­tuale ed alla gerarchia. Talvolta arriva a glorificare all'e­stremo il sistema ecclesiastico, come nd Salmo I I 9 . Ma nell'esposizione della riforma di Ezra esiste un passo la cui traduzione offre adito a dubbi e che parrebbe menzio­nare il nome di due oppositori delle riforme (Ezra, w, 15 ) . Ma l'attività di Ezra è talmente presa nel giro della politica di potenza che non si dovrebbero trarre conclu­sioni troppo spinte dal fatto che venisse contrastata. Co­si la deduzione che per lo piu si trae dai libri di Ruth e

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di Giona non si può citare come manifestazione di un'op­posizione alla gerarchia ecclesiastica. Qualche tempo pri­ma il profeta conosciuto col nome di Malachia aveva vi­vacemente protestato contro il comportamento dei sacer­doti in nome di un alto ideale del loro dovere :

Ed ora, sacerdoti, questo comandamento è per voi. Se voi non vorrete ascoltare e non vorrete prendervi a cuore di dar gloria al mio nome, dice il Signore degli eserciti, vi manderò la maledizio­ne e maledirò le vostre benedizioni ; e le ho già maledette . . . Il mio patto fu con lui [Levi] di vita e di pace ... La legge della ve­rità fu sulla sua bocca e l'iniquità non fu trovata sulle sue labbra : camminò con me nella pace e nell'equità e ritrasse molti dall'ini­quità. Perché le labbra del sacerdote debbono custodire la scienza e dalla sua bocca si deve cercare la legge, perché egli è il messag­gero del Signore degli eserciti (z, 1-7 ) .

Ma tutti codesti passi non ci dànno ciò che cercavamo. Al tempo dei vari regni il clero deteneva un potere s� colare nell'adempimento delle sue funzioni giudiziarie. La legislazione del Libro del Deuteronomio fa dei sacer­doti una suprema corte d'appello, ed è possibile, sebbene non certo, che un giudice secolare venga loro associato. Giudici e funzionari devono essere preposti a ogni loca­lità, ma se sorge una questione troppo ardua per il tuo giudizio . . . allora ti leverai e andrai al luogo che il Signore Dio tuo avrà prescelto e verrai dai sacerdoti, i Leviti, e al giudice che vi sarà in quel tem­po ... ed essi ti indicheranno la sentenza ... non devierai dalla sen­tenza che essi ti avranno indicata, non torcerai né a destra né a sinistra. E l'uomo che si leverà in superbia non ascoltando il sa­cerdote che sta come ministro dinanzi al Signore Dio tuo, o il giu­dice, quell'uomo morirà e toglierai il male da Israele. Ed il popolo udrà e avrà timore e non agirà piu con superbia (17, 8-13).

La legislazione mostra i denti : la pena capitale colpisce la disubbidienza ai sacerdoti. Un provvedimento che a se­coli di distanza sarebbe piaciuto a Torquemada.

Però le cose non vanno poi cosi male come potrebbe sembrare. Anzi, l 'audace sfida di Saul al sacerdote-profe­ta Samuele testimonia il contrario, e Zadok e Abiatar ed i loro figli sembrano essere del tutto sottomessi a Davide e Salomone. L'episodio di Jeoiada, capo della rivolta, che spodesta Atalia e il suo governo, assumendo il governo

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per un certo numero di anni in qualità di reggente, non significa che la gerarchia ecclesiastica si sia impadronita del potere temporale (II Re, I I , 4-12 , r6) . Si tratta di un movimento popolare capeggiato dal grande sacerdote soltanto in virtu della sua potente personalità. La supre­mazia regia pare sia rimasta indiscussa fino alla fine, per­fino il ligio Giosia dà ordini al supremo sacerdote e ne ottiene obbedienza (II Re, 22, 3-7 , 1 2 ). I profeti avallano lo stato di fatto, salvo poche dichiarazioni, fra le quali quelle di Osea, che forse dipendono da condizioni tem­poranee piuttosto che da una concezione della monarchia come istituzione. I profeti considerano i re come supre­mi funzionari nell'ambito della loro sfera. Essi si limita­no a chiedere che i re governino conformemente alla vo­lontà di Dio, ma non mostrano mai di ritenere che la gerarchia ecclesiastica abbia un'autorità secolare capace di rivaleggiare con la monarchia. Anzi, le loro aspre de­nunce del clero veniale e la loro deprecazione delle ceri­monie rituali fanno pensare che, dovendo scegliere fra re e sacerdoti, avrebbero fatto volentieri a meno di questi ultimi. Anche la legislazione deuteronomica, che abbia­mo visto poco fa colpevole di un certo clericalismo, ac­cetta la monarchia come istituzione valida. Il re deve ob­bedire alla legge di Dio, deve accettare come costituzione dello Stato una copia della legge deuteronomica che « è presso i sacerdoti )). Ma al di qua di questi limiti egli go­verna senza subire l'interferenza della gerarchia ecclesia­stica.

Fin qui ci sorreggono i documenti. Certamente il pen­siero di Israele non attinge a questo punto una chiarezza paragonabile a quella raggiunta a proposito dei diritti che il popolo gode nei confronti dei suoi capi secolari. Dopo la protesta e l'azione popolare che libera il governo dalla soggezione a Samuele, il clero non rappresenta piu, fin­ché dura la monarchia, una minaccia al potere secolare. Quindi la questione dei rapporti fra Stato e chiesa non diventa mai un problema suscettibile di stimolare il pen­siero, che i capi intellettuali di Israele applicano ad altri settori. Un episodio storico, la caduta della monarchia e dello Stato, e poi gli sciagurati avvenimenti seguenti, qua-

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li che fossero in particolare, indebolirono il prestigio e la potenza del governatore ebreo sotto Dario I e di con­seguenza elevarono il clero al governo de facto della co­munità palestinese. La teocrazia fu una conseguenza na­turale di tali fatti, e la situazione anticipa gli avvenimenti che piu tardi portano al dominio secolare della chiesa cri­stiana sulla città di Roma. La teocrazia ebraica fu tutta­via un'aberrazione rispetto allo spirito e alla tradizione nazionali. Israele era stato governato da capi secolari eletti, secondo il dogma ortodosso, dal Signore stesso e designati a <{ condurre il gregge di Israele ». Il piu alto pensiero ebraico non ha dubbi sul primato dei principi e sui limiti religiosi rispetto al capo secolare, ma fino alla caduta del governatorato di Zerubbabel l 'esercizio dell'autorità dello Stato da parte del clero non viene nem­meno presa in considerazione. Si può dire che Israele abbia riconosciuto la supremazia della chiesa invisibile, custode de11e massime conquiste sociali della nazione e del piu alto idealismo. Ma la chiesa visibile era troppo umanamente fallace perché le potesse essere confidato un cosi arduo incarico.

La nostra conclusione è evidente. Se si vuole riassu­mere in una sola frase, è la supremazia del pensiero di Israele nell'antico Oriente.

Ma il tratto piu sorprendente di tale supremazia è che essa viene raggiunta nonostante l'inferiorità materiale e militare del popolo ebraico. In questo campo esso è so­verchiato dall'Egitto e da Babilonia. L'Assiria, poi, lo schiacciò a suo talento. Ma Israele è sopravvissuto nella fede, nel pensiero, nell'azione dei secoli successivi, la­sciando un retaggio che diventa sempre piu ricco, men­tre i suoi superbi contemporanei sono svaniti fino a di­ventare oggetto di studio solo per l'archeologo e lo sto­rico. Negli ultimi anni ci è piu volte capitato di cogliere la grandezza letteraria di Israele, che appartiene e per la sua poesia e per la sua prosa, al mondo moderno. Ma l'i­dea che Israele occupi un posto fra i popoli intellettual­mente creativi della storia è assai meno familiare alle no-

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stre menti. Israele però era posto assai piu in alto dei suoi contemporanei orientali anche nelle loro manifesta­zioni maggiori, che al massimo attingono il livello su cui i pensatori ebraici vivevano e si muovevano con la disin­voltura di chi calchi il suo suolo nativo.

Ma un tratto notevole è l'evidente influsso di queste altre culture su Israele, influsso del quale Israele è ben cosciente. Sono passati i giorni in cui l'unicità dell ' Anti­co Testamento veniva difesa con la negazione di ogni in­fluenza straniera nell'opera di Israele. La sua gloria sta anzi proprio nel contrario. Non è un popolo isolato e chiuso in se stesso, ma al contrario si pone sul crocevia del mondo antico, sensibile a tutto ciò che di meglio il mondo antico sa esprimere. Gli Ebrei attingono libera­mente da tutti, la loro grandezza sta nell'aver riconosciu­to il valore dovunque si trovasse, appropriandosene co­me cosa propria. Ma, appropriandosene lo trasformano: il marchio del loro genio è impresso su tutto ciò che han­no assimilato, sicché il risultato definitivo è chiaramente ebraico e la diversità dall'originale straniero è piu impor­tante della somiglianza.

Ma valuteremmo solo in parte la statura di Israele se omettessimo di guardare anche ai secoli seguenti. Abbia­mo avuto occasione di osservare piu e piu volte nel corso di questa trattazione che il mondo moderno è in debito verso questi antichi pensatori. Le loro convinzioni fon­damentali circa la natura ultima del mondo, la loro con­cezione della natura e della posizione dell'uomo, i loro ideali sociali ed i loro principi politici sono venuti a for­mare una cosi cospicua parte della comune eredità di og­gi - per una derivazione diretta e facilmente dimostra­bile - che pur riconoscendo il debito nostro verso gli alti contributi della Grecia e di Roma, possiamo domandarci se un'altra nazione abbia cosi radicalmente influito sul corso della vita dell'uomo o abbia saputo apportare un uguale impulso al pensiero ed all'azione dei nostri giorni.

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Letture consigliate.

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CONCLUSIONE

di H. e H. A. Frank/ort

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Capitolo dodicesimo

L'EMANCIPAZIONE DEL PENSIERO

DAL MITO

Quando nel Salmo I9 leggiamo che « i cieli narrano la gloria di Dio; i firmamenti mostrano l'opera delle Sue mani », udiamo una voce che disprezza le credenze degli Egizi e dei Babilonesi. I cieli che per il salmista sono te­stimoni della grandezza di Dio, per i Mesopotamici sono la maestà divina personificata dal massimo principe, Anu. Per gli Egizi i cieli significano il mistero della divina ma­dre attraverso la quale l'uomo viene rigenerato. In Egit­to ed in Mesopotamia il divino è immanente: gli dei vi­vono nella natura. Gli Egizi ravvisano nel sole tutto ciò che all'uomo è dato di conoscere intorno al Creatore, i Mesopotamici vedono nel sole il dio Shamash, custode della giustizia; per il salmista, invece, il sole è il devoto servo di Dio che « è come uno sposo che esce dalla sua camera e si compiace, come un uomo robusto, di fare una corsa ». Il Dio dei salmisti e dei profeti non si trova nella natura, che, anzi, Egli trascende, trascendendo al­tres! il pensiero mitopoietico. Pare che gli Ebrei, non me­no dei Greci, abbiano abbandonato la speculazione che aveva fino ad allora prevalso.

La fonte degli atti, dei pensieri e dei sentimenti del­l'uomo primitivo è la convinzione che il divino sia imma­nente nella natura e che la natura sia intimamente con­nessa alla società. Il dottor Wilson si valse, trattando de­gli Egizi, del termine di monofisismo. Il dottor jacobsen avverti di non poter esporre il pensiero mesopotamico in

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CONCLUSIONE

tutta la sua ampiezza, ma nei miti e nelle credenze da lui riferiti questo aspetto si presenta costantemente. Nel nostro primo capitolo trovammo nel presupposto di una correlazione essenziale fra l'uomo e la natura una base valida per comprendere il pensiero mitopoietico, la cui logica e la cui particolare struttura abbiamo visto deriva­re dalla coscienza sempre presente del rapporto vivo fra l'uomo ed il mondo fenomenico. L'uomo primitivo, nei momenti piu significativi della sua vita, si trovava dinan­zi non già una natura inanimata e impersonale - non un « oggetto >>, bensl un « Tu >>. Si è anche visto che un tal rapporto investe non solo l'intelletto ma tutto l'essere dell'uomo, il sentimento e la volontà non meno del pen­siero. Pertanto l'uomo primitivo, qualora fosse stato in grado d'afferrarlo, avrebbe ripudiato il distacco implicito nell'atteggiamento puramente intellettuale di fronte alla natura, in quanto gli sarebbe parso inadeguato all'espe­rienza che egli ne aveva.

Finché i popoli dell'antico Medio Oriente conservaro­no la loro integrità culturale - dalla metà del IV alla metà del I millennio a. C. - essi furono consapevoli del vincolo che li stringeva alla natura, e quella consapevolezza rima­se viva nonostante l'urbanesimo. La fioritura della civiltà in Egitto ed in Mesopotamia portò come conseguenza l'e­sigenza di una divisione del lavoro e di una diversifica­zione delle condizioni di vita, che può essere soddisfatta soltanto quando gli abitanti si raggruppino in agglome­rati sufficienti a liberarli dalle preoccupazioni piu imme­diate. Le città antiche erano piccole se considerate con il nostro criterio, ed i loro abitanti non erano tagliati fuori dalla vita della campagna, anzi la maggior parte di essi traeva i mezzi di sussistenza dai campi circostanti; tutti adoravano degli dei che impersonavano le forze della na­tura e tutti partecipavano ai riti che segnavano le grandi date dell'annata rurale. Nella grande metropoli babilo­nese l 'avvenimento principale dell'anno era la Festa del Nuovo Anno che celebrava il rinnovarsi della forza gene­rativa della natura. In tutte le città mesopotamiche gli affari qubtidiani venivano interrotti piu volte ogni mese, allorquando la luna raggiungeva il culmine di una delle

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sue fasi o altri eventi naturali imponevano alla comunità di agire in modo appropriato. Anche in Egitto le preoccu­pazioni rurali si esprimevano nelle feste di Tebe, di Men­fi e di altre città dove le cerimonie segnavano la piena del Nilo, la fine dell'inondazione, la fine del raccolto. La vita urbana pertanto non disturbava affatto l'inserirsi del­l'uomo nella natura.

Quando si accentua la concezione fondamentale del pensiero dell'antico Medio Oriente, come finora si è fat­to, inevitabilmente se ne oscura la ricchezza e la molte­plicità. Nell'ambito del pensiero mitopoietico sono pos­sibili visuali e atteggiamenti assai vari e infatti il para­gone dei miti speculativi egizi e mesopotamici mette in luce non pochi contrasti e variazioni. Vero è che gli stes­si fenomeni naturali venivano sovente personificati in questi due paesi e che le stesse immagini venivano usate per descriverli; il sentimento che investe queste imma­gini e il significato che ad esse viene attribuito sono tut­tavia dissimili. Ad esempio, in entrambi i paesi si ritene­va che il mondo fosse emerso dalle acque del caos. In Egitto l 'oceano primordiale era maschile - il dio Niin, cioè, veniva concepito come un principio di fertilità e quindi come un fattore permanente dell'universo creato, riconoscibile nell'acqua sotterranea e nella piena annua del Nilo. In Mesopotamia la potenza fertilizzante dell'ac­qua è invece impersonata dal dio Enki o Ea, che non ha alcun rapporto con Ti'amat, l'oceano primordiale, fem­minile : Ti'amat è madre degli dei e di un tal numero di mostri che la sua feracità illimitata rischia di mettere a repentaglio l'esistenza stessa dell'universo. Ella viene uc­cisa in battaglia da Marduk, che ha creato il mondo dal suo corpo. L'acqua è dunque tanto per gli Egizi come per i Babilonesi la fonte e la radice della vita. Questa concezione, tuttavia, viene espress:1 in modo assai diver­so dai due popoli .

Troviamo un contrasto analogo a proposito della ter­ra. La Mesopotamia adorava una benefica Grande Madre la cui fertilità si rivela nei prodotti della terra e che acquista un significato religioso ancor piu vasto grazie ad una quantità di associazioni: la terra è infatti la con-

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CONCLUSIONE

troparte (e quindi la sposa) del cielo, Anu, e anche delle acque, Enki e perfino di Enlil, il regale dio della tempe­sta. In Egitto invece la terra era maschile - Geb, o Ptah od Osiride: la dea-madre onnipresente non è collegata alla terra, essendo la sua immagine rappresentata al mo­do antico e primitivo da una vacca. Oppure proiettata sul cielo, che ogni giorno all'alba ed al tramonto come Nut procrea il sole e le stelle mentre i morti entrano nel suo corpo per poter rinascere immortali. Ma il problema, del­la morte e dell'al di là cosi importante per il pensiero egizio, non viene sentito con la stessa intensità in Me­sopotamia, dove anzi la morte è concepita come una di­struzione totale della personalità, e dove i desideri pre­dominanti dell'uomo sono volti ad una vita degna e ad un affrancamento dalla malattia, ad una buona reputazio­ne ed a successori capaci di sopravvivere al padre; il cielo non è una dea china sui suoi figli, bensf il piu inavvici­nabile degli dei.

Le differenze che abbiamo elencato non si riducono soltanto ad una insignificante varietà di immagini, ma tradiscono un reciso contrasto fra le concezioni egizie e mesopotamiche intorno alla natura dell'universo nel qua­le l'uomo vive. In tutti i testi mesopotamici si colgono accenni ad un'ansia che pare esprimere la paura assillan­te di un disastro che potenze incontrollabili e turbolente minacciano alla società umana. Invece in Egitto gli dei sono potenti senza essere violenti, la natura si presenta come l'ordine costituito dove i mutamenti sono superfi­ciali ed insignificanti oppure come uno svolgimento nel­l 'ordine del tempo di ciò che è stato predisposto fin dal­l'inizio. Inoltre la monarchia egizia garantisce la stabilità sociale, dato che, come è stato spiegato dal dottor Wil­son, uno degli dei occupa il trono. Il faraone è divino, figlio e immagine del Creatore, ed assicura il costante e armonico integrarsi della natura e della società. In Me­sopotamia l 'assemblea designa un semplice mortale a governare gli uomini, e il favore divino può essergli revo­cato in qualsiasi momento. L'uomo è alla mercè di deci­sioni che non può né influenzare né afferrare. Perciò il re ed i suoi consiglieri spiano in terra ed in cielo l'ap-

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parizione di portenti capaci di rivelare un nuovo indiriz­zo della grazia divina, in modo che la catastrofe possa essere prevista e possibilmente stornata. In Egitto né l'astrologia né la profezia si sviluppano mai in grado con­siderevole.

Il contrasto fra l'atteggiamento dei due paesi si rivela nei miti della creazione. In Egitto la creazione è conside­rata una splendida iniziativa di un Creatore onnipotente che dispone di elementi sottomessi : la società costituisce la parte immutevole dell'ordinamento duraturo da lui creato. In Mesopotamia il Creatore è stato eletto da un'assemblea divina, inerme di fronte alla minaccia delle potenze del caos. Il campione, Marduk, aveva fatto se­guire alla vittoria sui suoi nemici la creazione dell'uni­verso, che avvenne quasi per effetto di una decisione accidentale, e l'uomo fu designato servo degli dei. Nella sfera umana non c'era alcun ordine permanente. Gli dei si radunavano in assemblea ogni primo dell'anno per <( stabilire i destini » dell'umanità a loro talento.

Le differenze fra le concezioni del mondo degli Egizi e dei Mesopotamici sono di vasta portata, eppure i due popoli sono concordi in certi presupposti fondamentali; l ' individuo fa parte della società, la società è inserita nel­la natura, la natura non è, infine, se non una manifesta­zione del divino. Questa dottrina fu accettata universal­mente da tutti i popoli dell'antichità con la sola ecce­zione degli Ebrei.

Gli Ebrei si presentano in epoca tarda sulla scena della storia, insediandosi in un paese sottoposto all'in­flusso combinato dalle due superiori culture vicine. Ci si aspetterebbe di vedere i nuovi arrivati assimilare il pen­siero straniero, che era circondato da un cosi vasto pre­stigio. Uno stuolo di immigrati venuti dai deserti e dalle montagne aveva fatto cosi nel passato, e molti Ebrei iso­lati si erano conformati infatti al costume dei Gentili. Ma il pensiero ebraico rifugge dall'assimilazione, anzi, resiste con particolare tenacia e spavalderia alla sapienza dei vi­cini di Israele. Forse si può riscontrare il riflesso di ere-

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CONCLUSIONE

denze mesopotamiche ed egizie in parecchi episodi . del­l'Antico Testamento, ma l'impressione prevalente che ci lascia il testo è non già quella di una sua dipendenza da tali influssi, ma piuttosto di una decisa originalità.

Il dogma fondamentale del pensiero ebraico è la tra­scendenza assoluta di Dio: Iahvé non coincide con la natura. La terra, il sole, il cielo non sono divini, perfino i piu poderosi fenomeni della natura sono meri riflessi della grandezza di Dio. Non è nemmeno possibile nomi­nare Dio :

E Mosè disse a Dio « Ecco, quando verrò ai figli di Israele e dirò loro " Il Dio dei vostri padri, mi ha mandato a voi " , ed essi mi diranno: " Qual è il suo nome? " Che cosa dirò loro? �)

E Dio disse a Mosè: « IO SONO COLUI CHE SONO �> : e disse: « Questo dirai ai figli di Israele, IO SONO mi ha mandato a voi Il) (Esodo, 3, 13-17).

Il Dio deg1i Ebrei è un puro essere, senza attributi e ineffabile . Egli è santo, vale a dire, è sui generis. Questo non significa che egli sia un tabu o che sia una potenza, bensf che tutti i valori sono in ultima analisi attributi di Dio. Ne deriva che tutti i fenomeni concreti vengono svalutati. Il dottor Invin ha rilevato che nel pensiero ebraico l'uomo e la natura non sono necessariamente corrotti, ma che entrambi sono senza valore al cospetto di Dio. Come Elifaz disse a Giacobbe:

Può un mortale essere giusto al cospetto di Dio O un uomo essere puro al cospetto del suo Creatore? Egli non si fida nemmeno dci suoi servi E perfino i suoi angeli fa cadere in errore. Quanto piu coloro che dimorano in case d'argilla Il cui fondamento è la polvere . . .

(Giobbe, 4, 17 - 19 a).

Un senso analogo hanno le parole del Deutero-Isaia ( 64, 6 a ) : « Siamo tutti come una cosa sudicia . e tutta la no­stra giustizia è come un panno sporco ». Perfino la giu­stizia dell'uomo, la sua piu alta virtu, viene svalutata al confronto con l 'assoluto.

Nell'ambito della cultura materiale una tale conce­zione di Dio porta all'iconoclastia ed è necessario un cer­to sforzo dell'immaginazione per comprendere la sconcer-

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L'EMANCIPAZIONE DEL PENSIERO DAL MITO 419 tante audacia del disprezzo mostrato verso le immagini del tempo nell'ambiente storico particolare degli Ebrei. Il fervore religioso ispira non solo versi e riti, ma cerca dovunque espressione plastica e pittorica. Gli Ebrei ne­gano ogni importanza alla « immagine scolpita » : l'infi­nito non può trovare forma adeguata, l'illimitato non può venire offeso da una rappresentazione concreta, per grandi che siano l'abilità e la devozione dell'artefice. An­che la realtà finita diventa un nulla dinanzi al valore as­soluto di Dio.

L'abisso che separa la concezione ebraica da quella corrente del vicino Oriente si può illustrare attraverso la diversa trattazione di uno stesso tema, l'instabilità dell'ordine sociale. Numerosissimi testi egizi trattano del periodo del dissesto sociale che seguf la grande epoca dei costruttori delle piramidi; in essi la infrazione dell'ordine costituito è considerata con orrore. Neferrohu disse:

Ti mostro la terra nel lamento e nella sventura. L'uomo dal braccio debole [ora] ha un braccio [robusto] ... Ti mostro come l'infimo è diventato supremo ... Il povero acquisterà ricchezze 1•

Il piu celebre dei saggi, Ipuwer, è ancor piu esplicito e condanna come una sciagurata parodia dell'ordine il fat­to che oro e lapislazzuli cingono il collo delle schiave. Nobildonne ram­minano per il paese e padrone di case dicono: Avessimo da man­giare ... Coloro che possedevano letti ora giacciono in terra. Colui che dormiva nella sporcizia ora si sprimaccia il cuscino.

Ne scaturisce una generale infelicità : « Grandi e piccoli diranno: Vorrei essere morto » '.

Nell'Antico Testamento incontriamo lo stesso tema -il rovesciamento delle condizioni sociali acquisite. Quan­do Anna dopo anni di sterilità pregò per avere un figlio ed ebbe Samuele, lodò Dio cosi:

Nessuno è santo come il Signore: non c'è alcuno al di fuori di te, né c'è roccia pari al nostro Dio . . . L'arco dei forti è spezzato, i deboli sono stati cinti di forza. I satolli di un tempo si sono allo­gati per aver pane, e coloro che avevano fame ora sono sazi .. . Il Signore fa il povero e fa il ricco, abbassa ed esalta. Solleva il po­vero dalla polvere e innalza il mendicante dal letamaio, per parli

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420 CONCLUSIONE

fra i principi e per far loro occupare il trono di gloria: i cardini del mondo sono del Signore e su di essi Egli ha posto il mondo (I Samuele, 2, 2-8).

Gli ultimi versi affermano esplicitamente che Dio ha creato l'ordine esistente, ma è tipico che a questo ordine non venga attribuito alcun carattere sacro, alcun valo­re in grazia della sua divina origine. Il sacro ed il valore assoluto rimangono proprietà di Dio soltanto ed i capo­volgimenti delle fortune che si osservano nella vita so­ciale sono soltanto segni dell'onnipotenza di Dio. Non riscontriamo presso alcun altro popolo una tale fanatica svalutazione dei fenomeni della natura e delle conquiste dell'uomo ( l'arte, la virtu, l'ordine sociale), posti di fronte all'unicità del divino. Si è detto a ragione che il monoteismo degli Ebrei è in funzione della loro conce­zione di Dio come essere incondizionato 3• Solo un Dio che trascenda ogni fenomeno, che non sia condizionato da nessuna modalità di manifestazione - solo un Dio assoluto può costituire la radice unica di tutti gli enti.

Questo concetto di Dio esigeva un tal grado di astra­zione che gli Ebrei, attingendolo, abbandonarono la sfera del pensiero mitopoietico. Ancor piu ci si convince di ciò quando si osservi che l'Antico Testamento è ben po­vero di elementi mitologici del tipo da noi incontrato in Egitto ed in Mesopotamia. Quest'ultima affermazione va tuttavia accolta con certe riserve : i procedimenti del pensiero mitopoietico si rilevano in molte parti dell'An­tico Testamento. Cosi i magnifici versi del Libro dei Pro­verbi, citati nel capitolo nono raffigurano la Sapienza di Dio, impersonata e sostanzializzata alla stregua del con­cetto di ma' at presso gli Egizi. Anche la grande conce­zione di un Dio unico e trascendente non rimase del tut­to incontaminata dal mito, poiché non era frutto di una speculazione condotta con distacco, ma di un'esperienza dinamica e appassionata. Il pensiero ebraico dunque non superò completamente il pensiero mitopoietico e anzi creò un nuovo mito - il mito della Volontà di Dio.

Per quanto il grande « Tu » di fronte al quale si tro­vavano gli Ebrei trascendesse la natura, esso stava in un rapporto particolare con il popolo. Quando questo venne

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liberato dalla schiavitu e andò errabondo in <( una terra desertica . . . un luogo d'orrore e di vasta solitudine . . . il Si­gnore solo lo guidò e non vi fu con lui alcun dio stra­niero » (Deuteronomio, 32, ro-12 ). E Dio aveva detto:

Ma tu, Israele, sei mio servo, Giacobbe che io ho prescelto, il seme di Abramo il mio amico. Ti ho tratto dai confini della terra, chiamandoti fra gli uomini piu grandi, e dicendoti: Tu sei il mio servo e ti ho scelto, non ti ho rigettato (Isaia, 41, 8-9).

Cos{ si sentiva che la volontà di Dio era concentrata su un particolare e determinato gruppo di esseri umani, che si era manifestata ad un momento decisivo nella sto­ria di quel gruppo, incessantemente e ostinatamente esor­tando, premiando, castigando il popolo eletto. Sul Sinai Dio aveva detto : <( Sarete per me un regno di sacerdoti e una nazione santa » (Esodo, 1 9 , 6) .

Questo mito ebraico di un popolo eletto, cui è stata fatta una divina promessa e cui è stato imposto un ter­ribile onere morale prelude al piu tardo mito del regno di Dio, della <( terra promessa » piu remota e spirituale. Nel mito del popolo eletto l'ineffabile maestà di Dio e la miseria dell'uomo sono coordinate in una situazione drammatica che deve svelarsi via via col tempo e che sta muovendosi verso un futuro dove le parallele lontane ma coordinate dell'esistenza umana e divina si incontre­ranno.

Non i fenomeni cosmici, ma la storia stessa diventa cosi pregnante di un significato, e la storia diventa rive­lazione della volontà dinamica di Dio. L'essere umano non è un mero servo degli dei e nemmeno si trova, come in Egitto, in una situazione precostituita entro un uni­verso statico e indiscutibile. L'uomo, secondo il pensiero ebraico, è l'interprete e il servo di Dio; a lui spetta l'ono­re di attuare la volontà di Dio. È quindi condannato a infiniti sforzi, tutti destinati al fallimento a cagione della sua incapacità. Nell'Antico Testamento vediamo l'uomo dotato di una nuova libertà e di una nuova responsabi­lità. Troviamo anche un'assoluta mancanza di eudaimo­nia, di armonia - sia nella sfera della ragione come nella sfera della percezione.

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Questo potrà spiegare la singolare vivacità di certi per­sonaggi dell'Antico Testamento. Non incontriamo mai nella letteratura egiziana o babilonese la grande solitudi­ne delle figure bibliche, sorprendentemente reali nel loro miscuglio di bruttura e bellezza, di orgoglio e di contri­zione, di successo e di fallimento. Ecco la figura tragica di Saul, quella problematica di Davide e innumerevoli al­tre. Troviamo uomini solitari, chiusi in un terribile iso­lamento, dinanzi ad un Dio trascendente: Abramo che avanza verso il luogo del sacrificio con il suo figliolo, Giacobbe che lotta, Mosè, i profeti. In Egitto ed in Me­sopotamia l'uomo è dominato ma anche sostentato dal grande ritmo della natura : se nei momenti piu oscuri si sente irretito e stretto nelle maglie di decisioni inelutta· bili, egli è pur sempre inserito dolcemente nella natura, portato sull'onda perenne delle stagioni. La profondità e l'intimità del rapporto dell'uomo con la natura si espri­me nell'antico simbolo della dea madre, che il pensiero ebraico ignora completamente. Esso riconosce soltanto il Padre severo, di cui si è detto: « Fece da guida a lui [al popolo, a Giacobbe] istruendolo, e lo tenne come la pu­pilla del suo occhio » (Deuteronomio, 32 , IO b).

II vincolo fra lahvé ed il popolo eletto si stringe defi­nitivamente al tempo dell'Esodo, gli Ebrei considerano i quaranta anni passati nel deserto decisivi per la storia del loro sviluppo ed anche noi possiamo penetrare l'ori­ginalità e la coerenza della loro speculazione se la met­tiamo in rapporto con l'avventura nel deserto.

Il lettore ricorderà come nei capitoli precedenti siano stati descritti accuratamente i paesaggi dell'Egitto e della Mesopotamia. Ciò facendo, gli autori non hanno voluto indulgere ad un ingenuo naturalismo, non hanno preteso di dedurre i fenomeni culturali da cause fisiografiche, ma hanno inteso indicare la possibilità di un rapporto fra il paese e la cultura - indicazione tanto piu accettabile se si pensa che il mondo circostante stava di fronte all'uomo primitivo come un « Tu >>. Ci potremmo domandare al­lora quale ambiente naturale abbia determinato per l 'ebreo l'esperienza del mondo circostante. Orbene, gli Ebrei, quali che fossero i loro precedenti storici e genea-

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logici, erano dei nomadi riuniti in tribU. In quanto no­madi del Medio Oriente vissero non già in steppe scon­finate, ma al confine fra il deserto e la terra coltivata, fra le terre piu feraci e quelle - immediatamente vicine -che sono la negazione assoluta della vita. Sapevano per­ciò quali vantaggi e svantaggi avessero ad aspettarsi nel­l'una o nell'altra parte.

Gli Ebrei agognavano a insediarsi definitivamente nel­le pianure fertili , ma sognavano terre traboccanti di latte e miele, non già terre dai raccolti sovrabbondanti, come quelle immaginate dagli Egizi per la vita ultraterrena. Pare che il deserto come esperienza metafisica campeggi nella vita degli Ebrei colorando di sé ogni pensiero. For­se il conflitto di codeste due tendenze - frB il desiderio ed il disprezzo per ciò che si desidera - spiega i paradossi delle antiche credenze ebraiche.

Gli Stati organizzati dell'antico Medio Oriente erano agricoli, ed i valori di una comunità agricola sono all'op­posto di quelli di una tribu nomade, tanto piu una tribu nomade del deserto. La venerazione del contadino per l'autorità impersonale, la sua disposizione a sottometter­si, e il dominio imposto dallo Stato organizzato, equi­valgono per il nomade ad una mancanza intollerabile di libertà personale. Le preoccupazioni che assillano il con­tadino, la cui esistenza dipende dal buon esito delle cul­ture, non sono altro, per il nomade, che una forma di schiaviru. Inoltre per il nomade il deserto è pulito, men­tre sordido è il terreno su cui si svolge la vita, e sul quale ogni cosa è destinata a corrompersi.

D'altra parte, la libertà nomade si acquista a un certo prezzo, perché chiunque ripudii le complessità e la mu­tua dipendenza di una società agricola non acquista solo la libertà, ma perde ogni legame con il mondo fenome­nico. In realtà egli conquista la sua libertà sacrificando una <( forma significativa ». Dovunque si riscontri un sen­timento di reverenza verso i fenomeni della vita e della germinazione, incontriamo anche l'interesse per l'imma­nenza del divino e per le forme in cui si manifesta. Ma nella aspra solitudine del deserto dove nulla muta e nulla si muove - salvo l'uomo per la sua libera volontà - dove

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CONCLUSIONE

i tratti del paesaggio si limitano a indicazioni e cippi che non hanno alcun significato in se stessi - l'immagine di Dio può trascendere del tutto i fenomeni concreti. L'uo­mo che sta a cospetto di Dio non lo potrà contemplare, ma ne udrà la voce e il comando, come avvenne a Mosè, ai profeti, a Maometto.

Paragonando le terre degli Ebrei, degli Egizi e dei Mesopotamici l'una con l'altra ci occupammo non già del rapporto fra la psicologia di gruppo e l'ambiente, bensf delle profonde differenze che dividono le varie esperienze religiose delle origini. L'esperienza particolare or ora tratteggiata ci sembra caratteristica di tutte le fi­gure piu significative dell'Antico Testamento e questo va ribadito non già perché esse diventino piu comprensibili nella loro individualità , bensi perché ci riesca piu agevo­le isolare ciò che colorisce e integra il loro pensiero. Esse non rappresentano una teoria speculativa, ma offrono un insegnamento rivoluzionario e dinamico. La dottrina di un unico Dio incondizionato e trascendente conduce a rinnegare certi valori venerati, ne proclama altri e nuo­vi, postulando un significato metafisica della storia e delle azioni umane. Con un coraggio morale sconfinato, gli Ebrei venerarono un Dio assoluto accettando come conseguenza della loro fede il sacrificio di un'esistenza armoniosa. Trascendendo i miti della divinità immanente propri del Medio Oriente, essi crearono, come s'è visto, il nuovo mito della volontà di Dio. Furono i Greci, con il loro particolare coraggio intellettuale, a scoprire una for­ma di speculazione dalla quale il mito viene decisamente allontanato.

Nel VI secolo a. C. i Greci, nelle loro grandi città co­stiere dell'Asia Minore, erano in contatto con i centri piu importanti del mondo civile : Egitto, Fenicia, Lidia, Per­sia e Babilonia. Questo contatto ha indubbiamente la sua parte nello sviluppo meteorico della cultura greca, ma è altresi impossibile stabilire di quanto la Grecia sia debi­trice al Medio Oriente. Come sempre quando un contat­to culturale è veramente fruttuoso, le derivazioni pure e

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semplici sono rare : i Greci trasformano ciò che assor­bono dagli altri popoli.

Nelle religioni misteriche greche troviamo i noti temi orientali; Demetra è la dea-madre addolorata che cerca il suo figliolo, Dioniso muore di morte violenta ma poi ri­sorge. In alcuni riti i partecipi sentono per esperienza di­retta un rapporto con il divino nella natura: sono punti di somiglianza con l 'antico Medio Oriente. Ma sarebbe difficile trovare un precedente della salvezza individuale promessa agli iniziati. Si potrebbe istituire un parallelo con il culto di Osiride, ma per ciò che ne sappiamo, l'egi­zio non subiva un'iniziazione né condivideva la sorte del dio durante la sua vita terrena. È certo comunque che i misteri greci hanno parecchi aspetti assolutamente privi di precedenti, aspetti che si pn!;sono ricondurre ad un'at­tenuazione della distanza fra gli uomini e gli dei. L'ini­ziato dei misteri orfici, ad esempio, non solo spera di es­sere liberato dalla « ruota delle nascite » ma emerge di­vinizzato dalla sua unione con la dea madre, « regina dei morti ». Nei miti orfici vi sono certe meditazioni at­torno alla natura dell'uomo che sono tipicamente greche: i Titani, divoratori di Dioniso-Zagreo vengono a loro volta colpiti dalla folgore di Zeus, che dalle loro ceneri crea gli uomini. L'uomo, in quanto partecipa della so­stanza dei Titani, è malvagio ed effimero, ma i Titani avevano assimilato il corpo di un dio, perciò nell'uomo è racchiusa una scintilla divina ed immortale. Codesto dualismo e il riconoscimento dell'esistenza di una parte immortale nell'uomo sono sconosciuti nell'antico Medio Oriente, tranne che in Persia.

L'uomo è ravvicinato agli dei non soltanto nelle reli­gioni misteriche, anzi, la letteratura greca cita parecchie donne che furono amanti degli dei e partorirono loro dei figli. Si è inoltre posto in rilievo che il peccatore tipico in Grecia è l'uomo che ha tentato di violentare una dea •. Inoltre gli dei olimpici, per quanto si manifestino nella natura, non sono i creatori dell'universo e non possono disporre dell'uomo come di una loro creatura con lo stes­so indiscutibile diritto di proprietà che spetta agli dei del Medio Oriente. I Greci, anzi, ritengono di avere

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CONCLUSIONE

un'origine comune con gli dei e quindi soffrono tanto piu per le loro minorazioni. La sesta Ode nemea di Pin­daro, ad esempio, comincia cosi:

Di una razza, di una sola, sono gli uomini e gli dei. Il nostro respiro ci viene dal grembo di una comune madre; ma la nostra forza è divisa e ci tiene distanti; qui il nulla, lassu la forza di bronzo, un seggio incrollabile, eterno permane nel cielo.

Lo spirito di questa poesia è ben diverso da quello del­l'antico Medio Oriente anche se la Grecia in questo pe­riodo già condivide con l'Oriente parecchie credenze : la madre comune cui Pindaro accenna è Gea, la terra e la terra come Ninhursaga è spesso considerata la Grande Madre in Mesopotamia ; Omero conosce le acque primi­genie: « Oceano da cui discendono gli dei » 5• Ma ancor piu importante di tali riecheggiamenti è la somiglianza fra l'interpretazione della natura dei greci e degli orien­tali : entrambi raggiungono una visione ordinata del­l'universo mettendo in un rapporto genealogico i suoi vari elementi. In Grecia questo procedimento ha un'e­spressione monumentale nella T eogonia di Esiodo, scrit­ta probabilmente attorno al 700 a. C. Esiodo comincia dal Caos e dichiara progenitori degli uomini e degli dei il Cielo e la Terra. Introduce poi varie personificazioni che ricordano il ma' at degli Egizi o la « Sapienza di Dio )) del Libro dei Proverbi. « . . . Poi [Zeus] sposò la sfolgo­rante Temi che generò le Ore, Eunomia [Buongoverno] e Dike [Giustizia] e la fiorente Eirene [Pace] che cura­no le opere dei mortali )> ( Il , 901-3 ) •.

Ci si presentano spesso associazioni e « partecipazio­ni )> tipiche del pensiero mitopoietico. Ecco un esempio particolarmente chiaro : « E la Notte partorf l'orribile Sciagura ed il nero Destino e la Morte ed il Sonno par­tod, e la schiera dei sogni; tutti partori la scura Notte, benché a nessuno accoppiata )) (II , 2 I I sgg). Il processo naturale della procreazione fornisce quindi a Esiodo lo schema che gli consente di connettere fra loro i fenome­ni, combinandoli in un sistema intelligibile. L'Epopea della creazione babilonese e l'elenco di An-Anum si val­gono dello stesso accorgimento, già sfruttato in Egitto,

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dove si fa concepire da Atum Shii e Tefniit (Aria e Umi­dità) i quali a loro volta procreano Geb e Niit (Terra e Cido). Ma su un punto Esiodo non ha alcun precedente orientale : quando tratta gli dei e l 'universo come argo­menti accessibili al singolo, con una libertà sconosciuta al Medio Oriente, tranne che agli Ebrei, presso i quali, ad esempio, Amos è un pastore. In Egitto ed in Mesopo­tamia i temi religiosi erano trattati dai membri della ge­rarchia ecclesiastica. Esiodo invece è un contadino beota chiamato dalle Muse « allorché pascolava il suo gregge sotto il sacro monte Elicona ». Egli dice : « [Le Muse] soffiarono in me una voce divina affinché io celebrassi le cose che furono e le cose che saranno. Mi ordinarono di cantare la razza dei beoti che vivono in eterno » ( Il, 29 sgg. ). Un laico greco, quando scopriva la sua vocazione, diventava un cantore e si sceglieva per tema gli dei e la natura, pur valendosi delle forme tradizionali della poe­sia epica.

La stessa libertà e indifferenza quanto alla divisione ddle funzioni e alla gerarchia è caratteristica dei filosofi ionici vissuti un secolo o piu dopo Esiodo. Talete pare fosse un ingegnere ed uno statista, Anassimandro un car­tografo. Cicerone poté affermare : « Quasi tutti coloro che i Greci chiamarono i sette saggi, furono impegnati nella vita pubblica » (De Re publica, l, 7). Questi uomi­ni, a differenza dei sacerdoti del Medio Oriente, non era­no incaricati dalle loro comunità di occuparsi delle cose spirituali, ma anzi erano mossi esclusivamente dal loro desiderio di comprendere la natura e, per quanto non fossero dei veggenti professionali, non esitarono a divul­gare i risul tati delle loro indagini. La loro curiosità era viva perché non ostacolata da un dogma. I filosofi ionici, come Esiodo, si occupano del problema delle origini, ma per loro esso assume tutt'altro carattere. L'origine, l'ar­ché che costituisce il tema delle loro ricerche non è con­cepita in forma mitica. Essi non rintracciano una divinità ancestrale o un progenitore, anzi, non cercano neanche un'« origine )> nel senso di una condizione iniziale cui sia­no seguiti altri stati, bensf un fondamento immanente e permanente dell'esistenza. Arché significa <( origine )>, non

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CONCLUSIONE

come « princtpto » ma come « princtpto sostanziale » o « prima causa ».

Il mutamento di visuale è sconcertante. Esso trasferi­sce il problema dell'uomo nella natura dall'ambito della fede e dell'intuizione poetica alla sfera intellettuale. Di­venta cosi possibile una valutazione critica di ogni teoria e quindi un'indagine coerente sulla natura della realtà. Un mito cosmogonico invece non si può sottoporre a di­scussione, perché descrive una serie di eventi sacri che si possono accettare o rifiutare, e non c'è una cosmogonia che possa inserirsi in un processo di progressivo svilup­po intellettuale. Come si disse nel primo capitolo, il mito esige di essere riconosciuto dal fedde, non si cura di giu­stificarsi di fronte al critico . Un principio sostanziale - o causa prima - dev'essere comprensibile; anche se viene colto con una folgorazione intuitiva, esso non pone il di­lemma dell'accettazione o del rifiuto, anzi si presta all'a­nalisi, alla modifica, alla correzione. È, in breve, sottopo­sto al giudizio intellettuale.

Tuttavia le dottrine dei primi filosofi greci non sono rivestite del linguaggio della riflessione distaccata e si­stematica. I loro detti paiono oracoli ispirati, e non stu­pisce, poiché questi uomini procedono in base ad un presupposto del tutto sfornito di prove, con un'audacia incredibile : sostengono che l'universo sia un tutto intel­ligibile, in altri termini presuppongono che un ordina­mento unico sottenda il caos delle nostre percezioni e che, inoltre, noi si sia in grado di comprenderlo.

Il coraggio speculativo degli !onici è stato spesso tra­scurato. I loro insegnamenti ebbero il destino di venir travisati dagli studiosi moderni, o, per meglio dire, ot­tocenteschi. Talete proclama che l'acqua è la causa pri­ma, Anassimene pretende che causa prima sia l'aria, Anassimandro parla dell'« illimitato » ed Eraclito del fuoco, infine scaturisce da codeste speculazioni la teoria atomica di Democrito : in tutti questi svolgimenti gli stu­diosi di un'età positivistica furono portati a ravvisare caratteri che erano propri del loro tempo e considera­rono questi primi filosofi come i primi scienziati. Si tratta di una visuale tendenziosa che insidiosamente compro-

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mette la grandezza dei filosofi ionid; l'interpretazione materialistica dei loro insegnamenti li fa partire da un presupposto che invece sarebbe stato il loro punto d'ar­rivo, ossia la distinzione dell'oggettivo e del soggettivo. Solo sulla base di questa distinzione si rende possibile un pensiero scientifico.

Gli !onici si trovano su una curiosa linea spartiacque. Presentano la possibilità di trovare una coerenza intel­ligibile nel mondo fenomenico, ma restano avvinti da un'intimità ancora non superata con la natura. Pertanto rimane ancora incerto il significato esatto dei detti ionici che ci sono stati conservati. Talete, ad esempio, affer­ma che l'acqua è l'arché; il principio o la causa prima di tutte le cose, ma aggiunge: « Tutte le cose sono piene di dei. Il magnete è vivo perché ha il potere di muovere il ferro » 7• Anassimene afferma : <( Cosi come la nostra anima, essendo d'aria, ci tiene uniti, cosi l'aria ed il re­spiro cingono tutta la terra ».

È evidente che Anassimene non considera l'aria una sostanza meramente fisica benché la consideri, fra l'altro, una sostanza le cui proprietà mutano quando venga con­densata o rarefatta. Ma nel contempo l'aria è misterio­samente connessa al mantenimento della vita stessa, è un principio di vitalità. Anassimene ravvisa nell'aria qualcosa di cosi variabile da permettere di interpretare tutti i fenomeni come sue manifestazioni. Talete aveva preferito l'acqua, ma anche lui non considera questa cau­sa prima come un liquido neutro e incolore. Dobbiamo ricordare che i semi, i bulbi, le uova degli insetti giaccio­no inanimati nella ricca terra dei paesi del Mediterraneo orientale finché non sopraggiungano le piogge - basti poi ricordare il ruolo preponderante delle sostanze liquide nei processi della concezione e della nascita nel regno animale. Forse la concezione orientale antica dell'acqua come principio di fertilità è ancora valida per Talete. È anche possibile che egli accolga la concezione orientale di un oceano primordiale dal quale tutta la vita è scaturi­ta. Omero, si è visto, chiamava l'Oceano origine degli dei e degli uomini. Il discepolo di Talete Anassimandro esplicitamente afferma : <( Le creature viventi provengo-

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430 CONCLUSIONE

no dall'umidità ». Parecchi altri significati simbolici pos­siamo attribuire alla teoria di Talete, poiché, dopo tutto, il mare sprigiona una sua malia ancora oggi e pertanto si è congetturato (Joel) che Talete ravvisasse nel mare il simbolo del mutamento, come tanti poeti dopo di lui.

Affermare che l'acqua sia la causa prima delle cose sul­la base di una o di tutte codeste analogie, significa ragio­nare secondo il pensiero mitopoietico, ma si osservi che Talete parla di acqua, non di un dio dell'acqua; Anassi­mene parla dell'aria, non di un dio delle tempeste, ed in ciò consiste la straordinaria novità dell'atteggiamento. Anche se « tutte le cose sono piene di dei », questi uomi­ni tentano tuttavia di afferrare la coerenza delle cose stesse. Quando Anassimene spiega che l'aria è la causa prima « cosi come la nostra anima, essendo d'aria ci tie­ne insieme )>, continua precisando in qual modo l'aria possa fungere da principio sostanziale : « Essa [ l'aria] è diversa nelle diverse sostanze in virru della rarefazione o condensazione ». In termini ancor piu precisi :

Rarefacendosi [l'aria] diventa fuoco, condensandosi diventa vento, e poi nube, e piu ancora, acqua, terra, pietre e le altre sostanze di questo genere.

Non esistono precedenti di argomentazioni del genere, che mostrano una duplice originalità : in primo luogo la filosofia greca arcaica, nella parola del Cornford « ignora con audacia sorprendente le inibizioni della rappresenta­zione religiosa )) • ed in secondo luogo essa è di una serra­ta coerenza, per cui, una volta accolta una teoria, la se­gue fino alle conclusioni ultime senza badare ai fatti os­servabili o al criterio di probabilità. Questo dimostra che è riconosciuta oramai l'autonomia del pensiero e denota la posizione intermedia della filosofia greca arcaica, che si diversifica dal pensiero mitopoietico per l':J�senza di personificazioni, di divinità , mentre l'indifferenza verso i dati dell'esperienza, sacrificati al bisogno di coerenza, la distingue dal pensiero posteriore. Le sue ipotesi non so­no dedotte da osservazioni sistematiche ma consistono piuttosto in congetture ispirate o in divinazioni che mi­rano a raggiungere una visuale dalla quale i fenomeni

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L'EMANCIPAZIONE DEL PENSIERO DAL MITO 43 1

svelino la loro logica nascosta. Gli !onici, i Pitagorici ed i primi Eleati sono fermamente persuasi di poter attinge­re una tale visuale e tentano di raggiungerla, non con il metodo degli scienziati ma alla maniera dei conquistatori.

Anassimandro, un discepolo di Talete, compie un ul­t�riore progresso, rendendosi conto che il principio so­stanziale di tutti i fenomeni determina ti non può essere -esso stesso determinato. Il fondamento del1'esistenza de­ve essere diverso da ciò che appare nell'attualità, deve essere t!tera physis - di altra natura - pur contenendo in sé tutti gli opposti e tutte le qualità specifiche. Anassi­mandro chiama àpeiron l'are bé, cioè l'illimitato, l'infinito. Teofrasto riferisce che Anassimandro « afferma che la causa materiale ed il primo elemento delle cose è l'infini­to . . . Dice che non è l'acqua, né alcuno degli altri cosid­detti elementi, bensi una sostanza diversa, che è infinita, e dalla quale sorgono tutti i cieli e i mondi in essi com­presi » •. Si noti che Anassim�ndro soggiac_� aiJa _tendenza materializzatrice del pensiero mitopoietico chiamando l'àpeiron una sostanza - o, come in quest'altro passo, un corpo : <( Egli non attribuisce l'origine delle cose ad un modificarsi della materia, ma dice che, entro il sub­strato, che è un corpo infinito, gli opposti, sono separati ».

Gli opposti che Anassimandro riscontra nella realtà sono i soliti : caldo e freddo, umido e secco. Quando so­stiene che questi opposti sono <( separati » dall'Infinito, non si riferisce, come ci si potrebbe immaginare, ad un processo meccanicistico. Ecco come esprime il concetto: « Da esso (l 'àpeiron) è il nascimento degli esseri, in esso la loro distruzione, secondo la Necessità; scontano infat­ti la loro ingiustizia, l'uno nei riguardi dell'altro, secondo l'ordine del tempo >> . In inverno il freddo commette un'ingiustizia verso il caldo ecc. Ritroviamo ancora una volta la meravigliosa fusione dell'energia immaginativa, emotiva e intellettuale che caratterizzava la Grecia del VI e del v secolo. Anche il piu astratto dei concetti, l'infini­to, è descritto da Anassimandro come <( eterno e senza età » - athànatos kai aghéros - con gli epiteti che Omero usa per indicare gli dei. Eppure Anassimandro, come Ta­lete ed Anassimene fornisce una descrizione puramente

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43 2 CONCLUSIONE

secolare dell'universo. Ci sono pervenute estese notizie sulla sua cosmografia e vogliamo citare i seguenti passi: « la terra è libera, trattenuta da nulla. Sta ferma dov'è per la sua equidistanza da ogni altra cosa ». I corpi cele­sti sono <� ruote di fuoco » : « e ci sono degli sfiatatoi, dei varchi a forma di tubo dove si mostrano i corpi celesti » . Il tuono e la folgore sono scoppi dei venti - teoria che Aristofane avrebbe parodiata nelle Nuvole - e, quanto agli esseri viventi, egli anticipa la filogenesi : « Gli esseri viventi sorsero dall'umido allorché il sole lo fece evapo­rare. L'uomo all'inizio fu come un animale e precisamen­te, un pesce ». Anassimandro presenta un'ibrida commi­stione del pensiero empirico e mitopoietico. Ma l'idea che il fondamento di tutte le cose determinate non possa essere determinato, che né l'acqua, né l'aria né alcun al­tro elemento possa essere l'arché, bensf soltanto l'Infini­to nd quale gli opposti sono separati, denota una capaci­tà d'astrazione sconosciuta prima d'allora.

Con Eraclito d'Efeso la fùoso:fia trova il suo locus stan­di. « La Sapienza è una cosa sola : riconoscere il pensiero che governa il tutto attraverso le cose singole )> '". Per la prima volta l'attenzione si affisa non sulla cosa conosciu­ta ma sulla conoscenza stessa. Il pensiero, gnòme (che si può anche tradurre come « giudizio » , « comprensione ») determina i fenomeni cosi come indirizza il pensatore. Il problema della conoscenza della natura si sposta su un diverso piano, mentre nell'antico Medio Oriente era ri­masto nella sfera del mito. La scuola milesia lo sposta sul piano intellettuale in quanto sostiene che l'universo è un Tutto intelligibile. Il molteplice si deve ricavare da un principio fondamentale o causa prima, ma questa a sua volta si deve ricercare tra i fenomeni. Il problema di come si possa conoscere ciò che è esterno a noi non è an­cora affrontato. Eraclito sostiene che l 'universo è intel­ligibile perché dominato dal « pensiero » o dal <( giudi­zio )> e che lo stesso principio presiede tanto all'esistenza come alla conoscenza. Egli si rende conto che il suo con­cetto di sapienza sorpassa le piu alte concezioni del pen­siero mitopoietico greco : « il saggio è uno solo. Egli vuo­le e non vuole essere chiamato col nome di Zeus » " .

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Eraclito chiama Logos tale sapienza, termine cosf ricco di riferimenti che non si sa se tradurlo o meno. Forse la versione piu accettabile è << Ragione ». << È saggio ascolta­re non me, ma il Logos, ammettendo che tutte le cose si riducono ad una » ". Le cose distinte l'una dall'altra, le qualità opposte fra loro, non hanno un'esistenza durevo­le, essendo stadi transitori in un flusso continuo. Nessu­na concezione statica dell'universo è valida, l'essere è un divenire. Il cosmo è la dinamica dell'esistenza. Gli oppo­sti che Anassimandro vede « separarsi » dall'Infinito so­no per Eraclito unificati da una tensione che rovescia un opposto nell'altro. <( Gli uomini non sanno come ciò che è in sé contrario con sé si accordi. È un'armonia di oppo­ste tensioni, come dell'arco e della lira » n.

Ma se l 'universo muta incessantemente secondo le ten­sioni fra gli opposti, non ha senso ricercarne le origini sul piano mitologico. Non c'è né principio né fine, ma so­lo un continuo esistere. Secondo l'espressione mirabile di Eraclito: <( Questo mondo [ kosmos] che è uguale per tutti, non è stato fatto da alcuno degli uomini o degli dei, ma è sempre stato è ora e sempre sarà un fuoco eter­no, con ritmo di accensione e ritmo di spegnimento » ". Il fuoco è il simbolo di un universo fluido fra tensioni di opposti. « La quantità del fuoco in una fiamma che di­vampa costante sembra restare la stessa, la fiamma sem­bra essere una " cosa ", eppure la sua sostanza è in conti­nua trasformazione. Trapassa continuamente in fumo, ed è rinnovata sempre da altra materia dal combustibile che la nutre » ".

Eraclito dimostra che soltanto il processo totale ha ca­rattere durevole ed è pertanto significativo : « La via al­l 'insu e la via all'ingiu sono una sola e la medesima » 16

, e « si riposa mutando » 11, o, piu metaforicamente « il fuoco è il bisogno e l 'abbondanza » " o << non ci si può immer­gere due volte nello stesso fiume, perché le acque corren­ti scorrono sempre nuove » 1'.

Non esiste una fase, un momento in questo perenne mutare che abbia maggior importanza di un altro, tutte le opposizioni sono transitorie : « Il Fuoco vive la morte dell'aria e l'aria vive la morte del fuoco; l'acqua vive la

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morte della terra e la terra quella dell'acqua » 20• Questo frammento può anche sembrare sconcertante, poiché il « fuoco >> vi compare come uno degli « elementi >> al pari della terra dell'aria e dell'acqua e pertanto parrebbe di tornare sul piano di Talete e di Anassimandro. Ma Era­clito menziona l'acqua come uno dei quattro elementi tradizionali, al fine di sottolineare il carattere effimero della loro distinzione. In un altro frammento l'emergere ed il riassorbirsi di tutte le cose determinate nell'unica permanenza del flusso mutevole e cangiante è cosi espres­so : « Tutte le cose sono uno scambio per il fuoco ed il fuoco è uno scambio per tutte le cose, cosi come le merci per l'oro e l'oro per le merci » " : è evidente il significato simbolico del fuoco.

Negli scritti di Eraclito, piu sovente di quanto sia mai avvenuto, le immagini non pesano con la loro corposità ma si accontentano di contribuire alla chiarezza ed alla precisione. Anche per Talete e per Anassimene l'acqua e l'aria non sono semplici elementi costitutivi del mondo materiale, ma hanno anche un senso simbolico se non al­tro come tramiti del flusso della vita. Per Eraclito invece il fuoco è nient'altro che il simbolo della realtà fluida ed egli fa coincidere la sapienza con « la conoscenza del pen­siero mediante il quale tutte le cose sono dirette attra­verso tutte le cose » .

Eraclito esprime nel modo piu profondo e sagace i l po­stuiato degli !onici, che l'universo sia un tutto intelligi­bile : esso è intelligibile perché il pensiero dirige tutte le cose. È un tutto in quanto è un perenne fluire e mutare. Eppure in codesta forma la dottrina è contraddittoria; il puro cangiare e fluire non può essere intelligibile, poiché esso porta al caos e non al cosmo. Eraclito risolve la dif­ficoltà riconoscendo nel flusso dei mutamenti un ritmo intrinseco. Il mondo, si ricorderà, è « un fuoco eterno, con ritmi d'accensione e di spegnimento >>. La transizio­ne continua di tutte le cose nei loro opposti è dominata da codesto ritmo, è, come si è visto, <( un'armonia di ten­sioni opposte, come quella dell'arco e della lira >> . Ecco perché Eraclito ripudia la dottrina di Anassimandro, se­condo la quale gli opposti debbono fare ammenda l'uno

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all'altro per le ingiustizie commesse. Per lui era nell'ordi­ne delle cose che gli opposti trapassassero continuamente l'uno nell'altro :

Dobbiamo sapere che la guerra è comune a tutto e che la lotta è giustizia e che tutte le cose nascono e muoiono [?] attraverso la lotta lZ.

La guerra è la madre e la regina di tutte le cose, e alcuni ha fatto dei e altri uomini, alcuni liberi e altri schiavi 23•

Omero aveva tono quando diceva: « Possa la lotta sparire &a uomini e dei ». Non capiva che stava invocando la distruzione dd­l'universo, perché, se la sua preghiera fosse ascoltata, tutte le cose perirebbero 14•

Eraclito non intende uguagliare l'esistenza ad un cieco conflitto di forze opposte, ma ravvisa nella guerra la di­namica dell'esistenza che conduce necessariamente al­l'« armonia occulta [che] è migliore dell'armonia mani­festa » ". L'armonia è l'essenza dell'esistenza ed è valida allo stesso titolo delle leggi di natura: « Il sole non var­cherà i suoi confini; se lo farà, le Erinni, satelliti della giustizia, lo scoveranno » 26• Il riferimento al sole mostra forse che la regolarità dei movimenti dei corpi celesti sug­gerisce a Eraclito che tutti i mutamenti siano soggetti ad una « armonia occulta ». Se l'ipotesi è esatta, egli si pone in rapporto tanto con il pensiero mitopoietico come con il platonismo.

La filosofia di Eraclito offre paralleli e contrasti con quella del suo contemporaneo piu anziano, Pitagora. An­che secondo Pitagora un ritmo occulto domina tutti i fe­nomeni, ma, mentre Eraclito si accontentava di affermar­ne l'esistenza, i Pitagorici sono ansiosi di determinarlo quantitativamente. Essi credono che la conoscenza delle essenze sia conoscenza dei numeri e tentano di scoprire le proporzioni immanenti al mondo. Il punto di partenza della loro impresa è una scoperta di Pitagora, il quale, misurando la lunghezza delle corde della lira fra i punti in cui risuonano le quattro note principali della scala gre­ca, vi scopre la proporzione : 6 : 8 : 12 . Codesta propor­zione armonica contiene l'ottava ( 1 2 : 6), la quinta ( 1 2 : 8) , e la quarta (8 : 6 ). Se tentiamo di considerare con animo ingenuo tale scoperta, dobbiamo ammettere che è

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CONCLUSIONE

sbalorditiva. Essa mette in rapporto le armonie musicali che appartengono tanto al mondo dello spirito come al mondo della percezione sensibile con le astrazioni preci­se dei rapporti numerici. Parve lecito ai Pitagorici aspet­tarsi di scoprire altri rapporti del genere, e, secondo l'a­bitudine greca di seguire un pensiero fino alle conseguen­ze ultime, sostennero che certe proporzioni numeriche possono spiegare ogni aspetto della realtà. Eraclito osser­va con disprezzo che « l'apprendimento di molte cose non dà la saggezza, altrimenti l'avrebbe data a Esiodo e Pitagora » ".

I Pitagorici sono inoltre ben lungi dal condividere le opinioni di Eraclito. Mentre questi ha orgogliosamente affermato « Ho indagato personalmente » ", i Pitagorici avallano buona parte della cultura tradizionale. Mentre Eraclito afferma che l'essere è un divenire, i Pitagorici accettano la realtà degli opposti e condividono la prefe­renza comune per gli aspetti chiari, statici e unificati del­l'esistenza assegnando al male l'oscuro, il mutevole e il molteplice. Il loro dualismo, la loro credenza nella tra­smigrazione delle anime e ]a loro speranza di attingere una liberazione dalla « ruota delle nascite » li avvicinano all'orfismo. Gli insegnamenti di Pitagora appartengono prevalentemente alla sfera del pensiero mitopoietico e questo si spiega in base al suo orientamento generale. Pi­tagora infatti non si interessa della conoscenza di per se stessa e non condivide la curiosità distaccata degli !onici. Egli insegna un modo di vivere : la società pitagorica è una fraternità religiosa che mira a santificare i suoi mem­bri, ed anche in ciò somiglia alle società orfiche; ma il suo dio è Apollo, non Dioniso ; il suo metodo è intellet­tuale e non mistico . Per i Pitagorici la conoscenza è una parte dell'arte di vivere e la vita è ricerca della salvezza . Nel primo capitolo abbiamo osservato che l'uomo, finché si impegna con tutto il suo essere, non può giungere ad un distacco intellettuale. Pertanto il pensiero pitagorico è calato nel mito. Ma è un membro della società pitago­rica che, dopo la sua apostasia, svincola definitivamente il pensiero dal mito : Parmenide, il fondatore della scuola eleatica.

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Parmenide interpreta il postulato ionico, per cui il mondo forma un tutto intelligibile, ma come disse Bur­net : « Mostrò una volta per tutte che se si prende sul serio l 'Uno si deve negare ogni altra cosa » ". Parmenide riconosce che non solo le dottrine delle origini, ma anche ogni teoria del mutamento mette in pericolo il concetto dell'essere. L'essere assoluto non può concepirsi come qualcosa che nasca dal non essere.

Come potrebbe l'essere avere un poi? Come sarebbe nato? Poiché, se è nato, non è, né potrebbe essere in seguito. Cosi il divenire è estinto, la morte è ignota 30•

La conclusione di Parmenide è di indole puramente logica e pertanto possiamo dire che fu lui ad affermare definitivamente l'autonomia del pensiero. Abbiamo visto che Eraclito era andato molto oltre su questa strada af­fermando la adeguazione della verità e dell'esistenza: « La sapienza consiste in una sola cosa, nel conoscere il pensiero dal quale tutte le cose sono dirette ».

Parmenide, riaffermando la tesi, elimina da essa l'ulti­mo vestigio della corposità del mito e dell'immaginosità sopravvissuta nel « dirigere » del detto eracliteo come anche nel simbolo del fuoco. Parmenide dice: « La cosa che può essere pensata è quella grazie alla quale il pen­siero esiste, è la stessa ; poiché non si può trovare un pensiero senza qualcosa in riferimento a cui venga pro­nunciato » 31• Ma siccome Parmenide prende in considera­zione l'estinguersi ed il morire, prende una posizione del tutto nuova. I Milesii avevano tentato di porre in rela­zione l'essere (come fondamento statico dell'esistenza) ed il divenire (osservato nei fenomeni concreti) . Eraclito aveva scorto nell'essere un perpetuo divenire ed aveva posto i due concetti in rapporto con la sua « armonia oc­culta ». Ora Parmenide afferma che essi si escludono a vicenda e che solo l'essere è reale.

Io ti dirò e tu sta attento, quali sono le uniche vie di ricerca per il pensiero che si possono concepire: l'una che è e non può non essere, è la via della persuasione n, che segue la verità; l'al­tra che non è e che deve non essere e questo ti dico che è del tutto inconoscibile, non puoi infatti conoscere il non essere né parlarne; infatti è la stessa cosa che può essere pensata e che può essere 33•

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Ancora:

CONCLUSIONE

Resta solo da discorrere della via che è; vi sono molti indizi che l'essere è ingenerato e indistruttibile, poiché è completo, im­mobile e senza fine. Non era e mai sarà ma nel presente è tutto ed uguale a se stesso, uno e compatto.

Quale origine vorresti infatti trovargli? Come e di dove avreb­be potuto accrescersi? ... Non ti lascerò dire né pensare che ori­ginò dal non essere, poiché non è dicibile né pcnsabile dò che non è 34•

Qui, in ciò che Parmenide chiama « il cuore incrollabi­le della rotonda verità �> ci si presenta un assoluto filosofi­co che ci ricorda l'assoluto religioso dell'Antico Testamen­to. Dalla visuale strettamente idealistica di Parmenide, l'autonomia del pensiero è ribadita e ogni sovrastruttura mitica è eliminata. Tuttavia Parmenide è ancora legato ai suoi predecessori per un aspetto particolare: quando egli nega la realtà del movimento, del mutamento e della di­versità, egli perviene ad una conclusione che, come quel­la dei suoi predecessori, diverge stranamente dai dati del­l'esperienza. Egli se ne rende ben conto e fa appello alla ragione, sfidando la testimonianza dei sensi : « Ma tu astieni il tuo pensiero da que�ta indagine, né permettere all'abitudine di indurti, per la sua vasta esperienza, a guardare su questa strada con occhio errabondo o con orecchio o lingua risonanti, ma giudica secondo ragione n la controversa prova che ti ho fornita >> ".

Lo stesso atteggiamento viene implicitamente o espli­citamente adottato da tutti i pensatori greci dei secoli VI e v a. C. Né il loro presupposto fondamentale - che il mondo sia un tutto intelligibile - né la spiegazione che forniscono - che il mondo si svolga per opposizioni di contrari - né alcun'altra delle loro tesi può essere prova­ta con la logica o con l'esperimento o con l'osservazione. Essi propongono, con convinzione, certe teorie che sca­turiscono dall'intuito e vengono elaborate mediante il ra­gionamento deduttivo. Ogni sistema è basato su un pre­supposto ritenuto vero e messo a fondamento di una struttura costruita all'infuori di ogni riferimento a dati empirici. La coerenza è valutata piu della probabilità e basta questo a dimostrare che in tutta la filosofia greca

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arcaica la ragione è considerata arbitro supremo anche se prima di Eraclito e Parmenide il Logos non è mai men­zionato. È codesto appello alla ragione, tacito o espresso, non meno che l'indipendenza dalle « inibizioni della re­ligione » a porre la filosofia greca arcaica in netto contra­sto con il pensiero dell'antico Medio Oriente.

Come già abbiamo detto, le cosmologie del pensiero mitopoietico sono essenzialmente rivelazioni ottenute al cospetto di un « Tu » cosmico, ed una rivelazione non può essere discussa, poiché trascende la ragione. Ma nei sistemi dei Greci la mente umana si trova a suo agio: essa può ri trattare ciò che ha creato oppure modificarlo o svilupparlo. Questo vale anche per i filosofi milesii, per quanto essi non abbiano ancora eliminato le sovrastrut­ture mitiche. Ciò vale evidentemente per la dottrina di Eraclito, che impone la sovranità del pensiero e ripudia le dottrine di Pitagora e di Anassimandro, affermando l'assolutezza del divenire. Vale altres! per l'insegnamento di Parmenide, che confuta Eraclito proclamando un es­sere assoluto.

Rimane un quesito. Se il pensiero mitopoietico prende forma nel quadro di un rapporto indissolubile fra l 'uomo e la natura, che cosa diventa quel rapporto dopo l'eman­cipazione del pensiero? Potremmo rispondere con una citazione che controbilanci quella con cui il capitolo si apre. Nel Salmo 19 la natura appare redimita di divinità al cospetto di un Dio assoluto : « i cieli dichiarano la glo­ria di Dio ed il firmamento mostra l'opera delle sue ma­ni ». E leggiamo nel Timeo platonico (47 c) :

. . . se non avessimo mai visto le stelle, i l sole, il cielo, nessuna delle parole da noi pronunciate sull'universo sarebbero state prof­feritc. Ma ora la vista del giorno e della notte, ed i mesi e le rivoluzioni degli anni, hanno creato il numero e ci hanno dato una concezione del tempo nonché la facoltà di indagare sulla na­tura dell'universo e da questa fonte ci è venuta la filosofia che è il massimo dono che mai fu o sarìì. concesso dagli dei all'uomo mortale.

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Note al Capitolo dodicesimo.

1 ERMAN, Literatur der Aegypter, versione inglese di Blackman, p. II,. • lbid., pp. 94 sgg. 3 JOHANNES HEHN, Die biblische und die bab)·lonische Gottesidee,

p. 284. 4 P. M. CORNFORD, From Religion to Philosophy, London 1912, I I9·

120. 5 Iliade, XIV, 201, 241. 6 Citazioni prese da A. w. MAIR, Hesiod, the Poems and Fragments,

Oarendon Press, Oxford 1908. ' Citato in ]. DURNET, Early Greek Philosophy, 4• ed., London 19.30. 1 Cr1mbridge Ancient History, IV, '32. ' BURNET, op. cit., p, ,l. ID BURNET, framm. 19. 11 Ibid. , &amm. 65. L'affermazione appare ancor piu densa di signifi-

cato se pensiamo che Eraclito era contemporaneo di Eschilo. 12 I bi d., framm. I. Burnet traduce « la mia parola �-u lbid., framm. 4'· 14 lbid. , framm. 20. 15 Op. cit. , p. 145. 16 BURNET, framm. 69. 17 Ibid., framm. 8.3. 11 lbid. , framm. 24. 19 I bid., fra m m. 41-42. 20 lbid. , framm. 2,. 21 l bi d. , framm. 22. n I bid. , framm. 62. z.• l bi d., framm. 44· 24 Ibid., framm. 43-15 Ibid., framm. 47. " lbid., framm. 29. 27 lbid. , &amm. 16. 28 I bid. , framm. 8o. " Op. cit., p. 179. 30 I bid., p. x n , linee I9·Z2. 31 lbid., p. 176, linee 34-36. n BURNET (ibid., p. 17.3 ) , traduce « fede �-33 lbid., p. 173; &amm. 4 e ,_ 34 lbid. , p. 174; framm. 8, linee 1-9. 35 BUitNET (ibid., p. 173, nota), sostiene che logos vada tradotto come

dibattito "· 36 Ibid., linee 33-36.

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L'EMANCIPAZIONE DEL PENSIERO DAL MITO 441

Letture consigliate.

BURNET, JOHN, Early Greek Philosopby, London 1930.

CASSIRER, ERNST, Die Philosopbie der Griechen von den Anfiingen bis Plalon, in MAX DESSOIR, Handbuch der Philosophie, Berlin 192,, I, 7•140.

CORNFORD, F. M., From Religion to Philosophy, London 15112. JOEL, KARL, Geschichle der antiken Philosophie, vol. I, Tiibingen 15121. MYRES, J. L., The Background of Greek Science, in « University of Ca-

lifornia Chronicle », vol. XIV, n. 4·

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Indice dei nomi

Abacuc, 355. Abele, 3:;7. Abiatar, 4o6. Abido, 38, 41. Abihu, 346. Abimelech, 348, 392. Abishag, 39:;. Abramo, 270, 281, 3II, 32.2, 372-74,

376, 382, 42.1, 422. Acab, 3I6, 3I7, 342, 379. 399. Acco, 382. Achan, 382. Achemenidi, 259. Adab, 199. Adamo, 314. Adapa, 28, 29. Ade, rR4, 18:;, 187. Africa, :;1, :;2, 94, 26:;. Africani, 32, 49· Agade, 226. Agur, 276. Ahaz, 342. Aialon, 342. Akhnatòn, z61. Akitu, 273. Amarna, 140, 391. Amaunet = Celata, 23, 70. America, ,. Amman, 262, 263, 376. Ammoniti, 374· Arnon = Nascosto, 23, ;;r. 84, 86,

87, 93, 94, 99, IOj, III , 141, 142, 274·

Amon-Rè, 611, 93, III . Amos, 26r-6;;, 291, 3II , 350, "I,

379, 384. Amun = Amon = Nascosto, 70. Anania, 278. An-Anum, 204, 213, 426. Anassimandro, 427-34, 439. Anassimene, 428-31 , 434· Anatolia, 102. An-ki, 204.

Anna, 419. Annunaki, vedi Anunnaki. Anophis, 91 . Anshar, 202-4, 208, 209. Anu, r66, r68-7o, 172, 173, 175,

177-81, I9I, 198, 203, 204, 209-2II, 213, 21:;, 216, 226, 227, 229, 23 1, 413, 416.

Anunnaki, 170, 178, 209, 22.6, 228, 231.

Apiladad, 241. Apofide, 40. Apollo, 436. Apsu. 202, 203, 20:;-8, 212. Arabi, 49. Arabia, 281. Archimede, 240. Aria. vedi Shu. Aristofane, 432. Aristotele, 164. Aronne, 32:;. Asa, 387. Ashtoreth. 272. Asia, 94, Ì38. Asia Minore. 287, 424. Asiatici, 49, :;o, n;;. Assalonne, 268, 396. Assarhaddon, 2:;. Assiri, :;o, 138, 290, 3:;8. Assiria, 2,, 201, 259, 262-64, 370,

408. Assur, 201, 234. Aralia, 398, 406. Atene, 179, 259. Atum = Creatore, 23, 34, 70, 72,

73, n-n. 87. Arum Shii, 427. Azael, 262. A-zi-mu-a, 189.

Baal, 272, 340. Baal Berith, 3n­Baba, 221.

Page 444: La filosofia prima dei Greci. Concezioni del mondo in Mesopotamia, nell’antico Egitto e presso gli Ebrei

444

Babele, 323. Babilonesi, 19-21, 23, 25, 27, 35,

282, 288, 368, 413, 415. Babilonia, 20, 22, 23, 31, 40, 41,

J00 170, 183, 201, 204, 226, 227, 234, 259, 26r, 266 , 273, 278, 281, 287, 321, 363, 364, 38J, 401, 404, 408, 424.

Bahrein, 11edi Tilmun. Balaam, 37ì· Bastet, 85, 108. Bel, 274. Belgio, 48. Ben-Adad, 262, 379· Ben Sira, 323. Betlemme, 395· Betsahea, 3jO, 394. Bildad, 296. Bou, 391. Breasted, James H., 75, II9, 130,

136, 145, 264. Buio, vedi Kiik. Burnet, Jobn, 437.

Caino, 357· Cairo, 119. Calco!, 33 I . Caldea, 372. Caldei, 358. Campi Elisi o Campo dei giunchi

o Campo delle offerte votive, 66. Canaan, 272. Canaanei, 309, 349, 357. 374, 384. Caos, 426. Capbtor, 265. Carlyle, Thomas, 286. Carmelo, monte, 340, 382. Cassirer, Ernst, 38. Caucaso, 313. Celata, vedi Amaunet. Cesare, Caio Giulio, 362. C�emosb, 345, 376. Cicerone, Marco Tu Ilio, 427. Cielo, vedi Niit. Ciro, 363, 404. Cornford, F. M., 430. Creatore, vedi Atum.

Damasco, 260, 262, 263. Daniele, 363. Daniti, 348. Darda, 331. Dario I, 408. Dar, 66. David o Davide, 261, 314, 322, 349,

366, 375. 383, 393·99, 406, 42:Z. Debora, 374, 375·

INDICE DEI NOMI

Demetra, 425. Democrito, 428. Destino, 426. Dcung Adok, u. Diabi, 102. Dike. 426. Diodoro, 97, 103, 104, 146. Dioniso, 425. Dioniso-Zagreo, 425. Djed, 41. Due Terre, 95, 96, 98, ro6, 108. Dumuzi o Tammu:z, 192, 198, 233. Dunsbagana, 220. Duranki, 183. Durgishimmar, 183.

Ea, 203, :zo6-9, ::u:z, 214, 215, 242, 243o 313o 34I, 41J.

Ebrei, 42, 47, 147, 270, 275, :Z]6, :z8o, 282, 285, 287, 288, 298, 301, 305, 308, 309, 3 17·19, 321, 337. 358·60, 362, 363, 368, 372·74. 377. 378, 380, 383, 384, 394. 403, 409, 413, 417•20, 422·24, 427.

Edom, 260, 262, 376, 384. Edomiti, 374. Efraim, 265, 266. Egeo, 260. Egitto, 22, 23, 30, 32-34, 36, 40,

41, 47·.n, 57·59. 6r, 62, 67·69, 71 , 75, 76, So, 82, 84, 85, 91· 99, IOI, 103, 104, 108, I lO, I I70 I I9•21, 123, 126, 127, 130, 131, 133, 136-38, 145·47, 1J3·,, 259, 263-66, 281 , 304, 321, 331, 360, 364. 373. 388, 394, 395. 401 , 408, 414·17, 420·22, 424, 426, 427.

Egizi o Egiziani, 22, 26, 27, 32-35, 37, 42, 49, ;;o, 52·54, 56, ;;8, 6o, 66, 67. 69, 84, 86, 87, 89·92, IOI , 102, 104, 10.5, 109, 120, 123, 125, 126, 131, 134, 136, 138, 145· 147. 282, ,,s, 374. 413, 415, 4 l7, 420, 423, 424, 426.

Eirene, 426. Ekur, 1.59, 19.5, 228. Eleati, 43· Eldamina, 94, 95, 380. Elia, 269, 322, 340, 341, 366, 379,

385, 399· Elicona, 427. Elifaz, 2!16, 3o6, 328, 418. Elibu, 314, 3H· Eliopoli, 36, 67, 69-71, 75· Elisha, 269, 341, 366. Emesh, 197. Eninnu, 223, 224.

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INDICE DEI NOMI

Enki, 29, 167, 172, 176-79, 188-92, 194-96, 203, 204, 2o6, 226, 228, 415, 416.

Enkidu, 244. 245-Enkimdu, 198, 199-Enlil, r62, 163, 166, 167, 170-75,

177-88, 191, 197, 198, 201, 2II, 214, 226-31, 234 , 244, 245, 247, 416.

Enlulim, 2:n. Enrico III, re d'Inghilterra, 402. Ensignum, 221. Entemena, 243. Enten, 197. Enul, 228. Eraclito d'Efeso, 428, 432-37, 439· Erinni, 434· Ermontide, 37· Ermopili, 69, 70. Erodoto, 41, 104, 146, 365, 368. Esiodo, 420, 427. Esopo, 295. Esseni, 300. Ethan, 331. Etiopi, 264, 309. Eufrate, 54, 1,, 178, 192, 203, 394· Europa, 47, 4!1, 137. Eusebio, 368. Ezechia, 343· Ezechiele, 342, 387, 389, 390, 400,

405. Ezra, 379-81, 405.

Fenicia, 127, 424. Filistei, 265, 3U, 379· Filistea, 264.

Gandhi, 38:;. Gaza, 262, 263. Gea, 426. Geb, vedi Terra. Gebusiti, 383. Gedeone, 392, 399· Geremia, 278, 299, 312, 3 16, 339-

34 2, 359, 370, 375, 389, 390. 395, 400.

Gerico, 345-Geroboamo II, 384, 398. Gerusalemme, 99, 268, 275, 278,

287, 341 , 349, 358, 370, 375, 38I, 383. 384, 386, 394. 395, 3 97·

Gcshur, 268. Gesu Cristo, 362. Gezabele, 322, 382. Giacobbe, 373, 374, 418, 421 , 422. Giacomo l, re d'Inghilterra, 297,

)98.

Giappone, 99. Giava, 48. Gibeoniti, 344, 379· Gibil, 171. Gilboa, monte, 394· Gilcad, 262. Gilgamesh, 28-30, 244-48.

44.5

Giobbe, 249, 297, 305, 314, ,r,, 326·29, 353, 3.54·

Giona, 378, 406. Giocata, 393. Giordano, 148. Giorgio III, re d'Inghilterra, 402. Giosia, 401, 402, 407. Giosuè, 342, 344, 379, 381. Giovanni I, re d'Inghilterra, 402. Giovanni, santo, 336. Gishbare, 221. Giuda, 288, 345, 361, 363, 370,

379. 398, 402. Giudea, 270, 278, 363, 384, 399,

401. Giudei, 309. Giuseppe, 310, 321, 322. Gizeh, n9. Grande Creatore, 22. Grande Circuito o Gran Verde, ve­

di Niin. Grande Madre, vedi anche Ti'amat,

22, 2), 32, 426. Greci, 22, 25, 26, :;o, 147, 280,

301, )13, 337, 413, 424, 425, 427, 439-

Grocia, 22, 28o, 301, 336, 368, 409, 424·26, 431.

Gudea, 27, 30, 223, 224. Guzi, 229.

Habiru, 391. Hammurabi, 226, 227, 244, 2.59,

385. Hardedef, 130, 146. Hasmon, 403. Hatshepsiit, 93, 94-Hauhet = Sconfinata, 23, 70. Hebron, 268. Heman, n r. Herakhte, 87. Horeb, 275-Hii, 76, ro6. Hubur, 208. Hiih = Illimitabile, 23, 70. Hyksos, 137, 138.

Iahvé, 263, 268, 274, 282, 287, 288, 290, 327, 340, 344·47. 352, 372, 374-76, 379. 399. 418, 4:Z2.

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Idsalla, 183. lehu, 322, 363, 38,. lgaliòma, 220. lgigì, 226. Illìmitabìle, vedi Hiih. Imdugud, 19. Imhotep, 130, 146. !nanna, 198-200, 226, 233, 244-Infinìto, 431 . Inghilterra, 242, 402. Ioab, 394-Ioachim, 400. Ioachin, 402. Ionici, 428. 429, 431, 434, 436. lpuwer, 38,, 419. Iran, 287. Iraq, 49· Irwin, William A., 418. Isai, 396. Isaia, 267, 273, 290, 309, 3II, 342,

355, 375. 378, 379. 384, 390. Ishme-Dagan, 228. Iside, 32, 73, 87, 91, 96. Isin, 118, 131. Israele, 1'9-76, 278, 28o-R3. 28,,

287, 288, 290-96, 298-304, 307· 3 II, 313, 317, 318, 320-24 , 326, 330, 331, 333, 338, 340, 341 , 343·5 1 , 355-62, 364, 365, 367, 368, 371·79. 381-87, 391·94. 396, 397, 399, 400, 402, 403, 406-9, 417, 418, 421 .

Israeliti, 3'7, 371, 374, 394-Ittiti, ,o, 138.

Jacobsen, Thorkild, 266, 368, 413. Jakeh, 276. Jeftc, 392. Jeoiada, 406. }oas, 387. Joel, Karl, 430. }onadab ben Rechab, 38,. Jotham, 296. }u-ok, 22.

Kargeshtinna, 183. Karusar, 183. Kauket = Oscurità, 23, 70. Khenemet, 94· Khepri, 87. Khooum-Re, 67, 73, 85, 108. Khufu-onekh, 119. Ki, vedi Terra. Kingaluda, 171. Kingu, 208, 111, li,, 234. Kir, 265. Kish, 226, 229.

INDICE DEI NOMI

Kishar, 202-4. Kiur, 184. Kola, 22. Kuk = Buio, 13, 70, 71.

lagash, 2l0, 223, 229, 239· Lahamu, 102-4. Lahmu, 202-4. Laìsh, 348. Lamashru, 31 . Lang, Andrew, 1'9· Laplace, Pierre-Sìmon, l i . Latarak, 162. Le 'ithiel, 276. Levi, 406. Levi ti, 348, 4o6. Libi, 49. ,o, 99. 138. Libia, 27. Lidia, 424. Luciano di Samosata, 27.3. Lugal-edinna, 162. Lugalzuggisi, 239· Lullu, 21'.

Ma'at, 1o6. MacDonald, Duncan Black, 277. Macedonia, 365. Madre Terra, vedi Ninhursaga. Mahol, 331. Malachìa, 278, 406. Maometto, 424· Maori, 22, 33· Maratona, 26. Marduk, 20, 23, 162, 163, 169,

201, 204, 207·12, 214·16, 226, 227, 234. 241, 242, 252, 253. 273, 274. l�7. 415, 417.

Materia, vedi Naunet. Mediterraneo, ,x, ,2, 94, 102, 429. Meek, professore, 329. Meger, 56. Menfi, 37, 75, 415. Mc:ru, 105. Mesilim, 229. Meslamtaea, 185. Mesopotamia, 47, 120, 123, 153,

155, 1,8, 167, 179, r88, 191-200, 203, 204, 218, 219, 22,, 226, 231, 232, 237. 238, 240, 244, 252, 39,, 413•17, 420, 422, 427.

Mesopotamici, 162, 164, x66, 168, 200, 203, 216, 241, 413, 417, 424.

Micha, 311, 348. Michea, J16, 342, 37,, 384. Mìlcom, 376. Milesii, 437·

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INDICE DEI NOMI

�oab, z6o, 262, 345, 376. �oabiti, 301, 374· Montu-Re, 67. Morgenstem, Julian, 380. Morte, 426. �osè, 148, 261, 262, 298, 3II, 322,

361, 418, 422, 424· Muhra, 162. Mummu, 202, 206, 207, 209. Muse, 427. Mushdama, 192.

�aboth, 349, 3J0, 366, 382. Nabu, 273 , 274· Nadab, 346. Nammu, 193. �anna, 172, 226·28. Nanshe, 223, 224. Nascosto, vedi Amon. Nathan, 399· Naunct = Materia primigenia, 23,

]O. Nebuchadiezzar, 2:;9. Necessità, 431. Neemia, 366, 379· Neferrohu, 419. Negeb, 383. Negri, 50. Ncmaatre, 107. Nephtis, ?J. Newton, Isaac, 29. Nicola Damasceno, 365. Nidaba, 161, 239. Nilo, 22, 30, 38, 41, 48, 5()-:;6, 6o,

62, 68, 69, 8o, 87, 90, 91, 94, 95, 102, 103, ro8, uo, 127, 137, 154, I)5, 264, 2B1, 415.

�inazu, I8J. Ningal, 230, 231 . Ningirsu, 220-24, 229, 243· Ninhursaga = Madre Terra, 167,

1]6, 188, 189, 193, 426. Nininsina, 227. Ninive, 266. Ninki, 228. Ninlil, 162, 182-87. Nin-mah, rn, 192-96. Ninsar, r88. �inshebargunnu, 183, 184. Nin-tu, 17). Ninul, 228. Ninuna, r6o, r62. Nippur, 183, r84, 201, 210, 227-29. i'jiz

,zig;�ldimme, 171.

Noe, 270, 357. Noemi, 391. Notte, 426.

�ubia, 27, 127. �ubiani, :;o. �udimmut, 203, 204.

447

�ùn = Oceano = Okeanos, 23, 38, 62, 68, ]O, ]10 7), 76, 415, 4;�6.

�unanmir, 184. Nunbirdu, 183. Nuova lnghil terra, 56. Nuova Zclanda, 33· Nùt = Cielo, 22, 23, 32-34, 64, 73,

416, 426, 427.

Oannes, 27. Oceano o Okeanos, vedi Niin. Ogdvad, 23. Omero, 4 26, 429, 431. Ore, 426. Orione, 289. Oro, 32, 31, 56, 6J, 8J, 87, 94-96. Oscurità, vedi Kauket. Osea, 318, 340, 3n, 384, 385, 407. Osiride, 23, 27, 32, 41, 6,, 73, 87,

91, 94, 96, 123, 134, 313.

Palestina, 27, 49, :;o, 259, 264, 269, 281, 344. 3)8, 364, 372, 380-82, 386, 403.

Paolo, santo, 269, 309, 337, ,8, 362, 374·

Papremide, 41. Parmcnide, 436-39. Persia, 363, 36:;, 424, 42J. Persiani, 26, :;o. Persico, golfo, 188, 203, 247. Philae, 36. Pindaro, 426. Pitagora, 43), 436, 439· Pitagorici, 431, 435, 436. Platone, 298, 333, 335· Plciadi, 289. Pompeo, Gneo, 275. Pope, Alexander, 192. Potente, vedi Sekhmet. Prometeo, 313. Pt.ah, 75-78, 87, 122, 144, 416. Ptahhotep, :331 . Pula!, 183. Punt, 6r.

Ramoth Gilead, 317, 342, 366. Ramses Il, 10:;. Re = Dio·Sole, 33, 40, 42, n, 67,

]O, ]5, 8:;, 87, 88, 92-96, 98, 108, 122, 137.

Re-Atum, 67, 70, 75· Re-Harakhte, 67, 88. Re-Oro, 67.

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Roboamo, 322, 349, 363, 384, 38', 396-98.

Roma, 368, 408, 409. Runnymede, 402. Rutb, 374, 40,.

Sabara, 178. Sakhebu, 93· Salomone, 99, :1.95, 296, 305, 307,

322, 331, 349. 374. 383, 394·97, 406.

Samaria, 384. Sarnaritani, 380. Samuele, 261, 349, 393, 399, 404,

4o6, 407, 419. Sansone, 348. Saqqara, n8. Saul, 3:1.2, 344, 349, 360, 382, 393,

404, 406, 422. Sciagura, 4:1.6. Sconfinata, vedi Hauhet. Sehetepibre, 94. Sekhmet = Potente, 85, 88, 91, 92,

xo8. Seth, 73, 87, 9x, 9:;, 313. Seti l, 38. Shakanshabar, 221. Shamash, 245, 413. Shara, 229. Shechem, 349, 3?:;, 393· Shilluk, 22. Shu = Aria, vedi anche Umidità,

23, 33· 34. 64, 70, 72, 73. 77, 87, 93-

Shulgi, 227, 228. Shumer, 171, I?:;, 229, 231, 2,9,

27}, 281, 38,. Sia, 76, 85, xo6. Siduri, 28. Signore Uragano, vedi Enlil. Sin, 162, 184, 18,, 187. Sinai, 26, 61, 274, 361, 372, 42I. Sion, 276, 370. Siri, z6:;, 301, 379-Siria, ,o, ,I, 56, 61, 102, 264,

281 , 384. Smith, Edwin, no. Sobek-Re, 67. Socrate, 3.54· Sole, 23, 40. Sonno, 426. Stati Uniti, 47· Suez, 264, Sumukan, I92.

Talete, 427·31, 434. Tammuz, vedi Dumuzi.

INDICE DEI NOMI

Ta-netier, vedi Terra di Dio. Tebe, 37, 68, 415. Tefniit, 23, 34, 72, 73, n. 427. Temi, 426. Tennyson, Alfred, 69. Teofrasto, 43 I . Terra = Geb = Ki , 22, 23, 73, Il-',

4I6, 427-Terra di Dio = Egitto, 6o-62. Thot, 6,, 79, 98, 341. Thutmose l, 93. Ti'amat = Grande Madre, 23, 172,

202, zo:;, 206, 208, 209, 2II·IJ, 215, 234, 41,.

Tigri, 30, 155, I78, 192, 203, 223. Tilmun, 187, 188, 191, 196. Tiro, 262, 263. Tiumi, 42,. Tommaso, santo, 277. Toro Celeste, 19. Torquemada, Tomlls, 4o6. Tsin, 227. Tutankhamon, 103.

Uhshuukkinna, 209, 210. Umidità = Aria, vedi anche Tefnut,

23, 34· 427. Umma, 229, 239. U-mu-ul, 194. Ur, 170, 171, 226, 227, 229-31, 372. Urartu, 263. Urizi, 221. Urnammu, 229. Urshanabi, 247, 248. Uruk, 199, 229, 244, 247· Urukagina, 385. Utnapishtim, 246, 247· Uttu, I88, 189. Uru, 198, 229. U ruhegal, 229. Uwawa, 244-46. Uzza, 32,, 34.5-

Von Soden, Wolfram, 249.

Weber, Ma.x, 173. Wensinck, Arent ]an, 39, 40. Wilson, John A., 261, 266, 323,

413, 416. Wordsworth, William, 283.

Zadok, 406. Zcdechia, 402. Zenon�. 333· Zerubbabcl, 408. Zeus, 425, 426, 432. Zophar, 326, 329.