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La formazione: l’incontro e l’invio Il cammino di Pippo Morelli
l’esperienza e la “costruzione di significati”
È prezioso apprendere nel tempo a stare profondamente nelle cose, a vivere il pensare ed il sentire, e il
toccare e l’immaginare, da dentro ed in risonanza con gli incontri e la fedeltà alla realtà e alle persone. È
importante, e una grande dote umana, cogliere e sentire le attese profonde, e le profonde contraddizioni,
di realtà segnate dalla vulnerabilità, dalla pressione della forza, dalla necessità, dal disorientamento. Che si
possono fare sfruttamento, sofferenza ed anche ottundimento. È viversi in attenzione e generosità, come
offerta ed ospitalità. Vita che incontra e tesse vita, con vite che cercano vita, senso e speranza.
Il primo impegno del pensiero e della comunicazione tra loro è quello di cercare di non falsificare le
narrazioni e le riflessioni che raccolgono, di tentare percorsi di interpretazione (certo non di “spiegazione”),
attenti a guardare “verso le cose” e ad ascoltare le storie delle donne e degli uomini del lavoro, perché
sempre, come indica Maria Zambrano, “bisogna che ci lasciamo cambiare dalla scoperta dell’inesauribile
senso dell’esperienza”.1
Assumere l’esperienza umana come processo di “costruzione di significati”, dentro i limiti e la fatica di un
procedere esplorativo e in ascolto, chiede di provare a vivere un pensiero che mentre indaga
sull’esperienza sa che si espone a semplificazioni, alla contraddizione, all’ambivalenza. E che deve tornare,
quindi, di nuovo a interpretare, a confrontarsi e a ridescrivere. È importante, allora, che si sviluppino nei
percorsi organizzativi e formativi, formali e informali, esperienze che alimentino un “pensiero
partecipativo”, che “posiziona nel mondo e nel tempo, chiamando responsabilità, novità e giustizia. Scrive
Philippe Sécretan ” “Il senso è la relazione di co-nascita/conoscenza (co-naissance) attraverso la quale il
mondo diventa umano e l’essere umano familiare con il mondo”.2
Per tenere in collegamento ciò che spesso si rischia di separare, per intrecciare pensiero logico razionale e
mondo della vita e aprire vie di ordinamento dell’esperienza e costruzione della realtà, occorre stare e
chiamare a stare sul limite, nell’esperienza concreta e vissuta, e qui costruire, nel richiamo reciproco,
significati e decisioni.
Per via formativa e co-formativa, che è via pratica di esercizio di socialità, si apprende l’umano, la politica e
la nonviolenza. La riflessione e la testimonianza personale crescono e si rinforzano reciprocamente, in una
esposizione e in un dono reciproco, in alleanze tra donne e uomini, tra generazioni. Anche grazie alla
riflessione che non è introspezione, né appropriazione dell’oggetto. Annota Ricoeur: “la riflessione è
l’appropriazione del nostro sforzo per esistere e del nostro desiderio d’essere, attraverso le opere che
1 M. Zambrano, Verso un sapere dell’anima, Cortina, Milano, 1996, p 53; id, Note di un metodo, Filema, Napoli, 2003, p 111
2 P. Sécretan, Autorité, pauvoir, puissance. Principes de philosophie politique réflexive, L’Age d’Homme. Lausanne, 1969,
pp 247-248
2
testimoniano di questo sforzo e di questo desiderio”.3 Questo è lo spessore del pensare e del formare di
Pippo Morelli, che porta e offre la raffinatezza di un pensiero alto e capace di analisi attenta e fedele, di
contatto con l’umano del lavoro, un pensare dialogante e aperto, e capace di visione e di speranza
concreta, poco ideologica, partecipe e militante.
Il gusto dell’incontro con uomini e donne, l’ascolto e l’attenzione, la “fedeltà” appunto, vede in Pippo
Morelli anche la declinazione di una particolarissima pazienza. È franco, esigente e forte nella proposta, ma
è “paziente” nell’attesa e nella cura, nel riconoscimento del tempo e dei modi di ognuno. È capace di attesa
di evoluzioni e di sollecitudine, desidera cogliere il valore di ognuno, specifico. Sa vivere il sapore della
sconfitta, della non riuscita, a volte del fallimento.
Pensare in modo libero, pensare bene, è un obbiettivo, un compito impegnativo e difficile: non è naturale,
non è un dato di partenza. Pensare è attività piena di luci e di ombre, ambivalente, e occorre averne cura. Il
rischio di pensieri chiusi e solo rassicuranti, o assunti dall’esterno, obbligati ed organizzati, chiede di
vegliare su come si pensa, e ancor prima su cosa è fonte e origine del pensiero. Con una attenzione: si può
possedere una grande cultura senza aver maturato libertà e rettitudine di pensiero, come si può possedere
una cultura non vastissima ed avere libertà di pensiero. Si può (soprattutto oggi) possedere un
approfondito “sapere esperto”, specialistico e settoriale, ed essere del tutto ciechi circa le implicazioni e le
relazioni create dal suo utilizzo, circa le responsabilità che comporta.
Pensare bene è pensare ciò che è giusto, ma questo non dipende solo, né tanto, dall’evitare di essere mossi
da viltà, furbizia o malafede. Certo, se si è mossi da questo il pensiero è distorto e avvelenato! Ma la vera
questione, ben più delicata, riguarda il mancato legame del pensiero alla realtà, ed alla realtà delle persone
del lavoro. Se non si è capaci di sentire l’altro non si pensa bene, il proprio pensare non è libero e
generativo. Come non lo è se non si sente il mondo, le sue latitudini, la natura, la vita con le sue esperienze,
se non si colgono i segni delle culture, e la portata delle condizioni, la distribuzione del potere, come
qualcosa che ci è dato, che ci è offerto: come compito e responsabilità.
Si tratta di sentire, e si tratta di “vedere”. Non è la quantità di informazioni e di conoscenze, e neppure la
capacità intellettuale a proteggerci dal rischio di non pensare bene: numerosi sono gli intellettuali e gli
scienziati che appoggiano interessi, politiche ingiuste e particolarismi ciechi. Non è neppure una onestà
personale, un puro disinteresse, la cura di un lavoro ben fatto a garantire di pensare bene: possono essere
ottusi e ciechi, di corto respiro e senza attenzione intelligente. Occorre andare ancor più a fondo, cercare,
sostenere con la formazione.
Il confronto con la vita, l’ascolto di ciò che chiama a serbarla con cura e a coltivarla, l’incontro con l’altro
che si affida, che chiede riconoscimento e promozione, o giustizia (che, come indica Lévinas, ti “elegge” e ti
“comanda”4: è questo che offre al pensare posizionamento e presenza, che lo orienta.
3 P. Ricoeur, Dell’interpretazione. Saggi su Freud, Il Saggiatore, Milano, 1969, pp 62-63
4 E. Lévinas, Totalità e infinito, Jaca Book, Milano, 1977
3
A ben guardare, molto apparato tecnologico e organizzativo, molto intervento sociale sono finalizzati a
rallentare o frenare i processi; la sfida è orientarli a vegliare e a cogliere segnali poco percettibili, a tenere
aperte o a sostenere riprese e reattività delle persone ferite o fragili, e della convivenza: a tenere aperto il
tempo.
un sindacato nuovo
Il sindacato trova ed esprime il suo senso nel farsi esperienza di azione, di ricerca, di incontro e di
associazione tra persone del lavoro che intendono aprire cammini comuni, fare nuova la convivenza.
Fare sindacato è fare nuovo sindacato, attento alle novità portate da lavoratori e lavoratrici, da persone che
entrano in pratiche nuove ed elaborano pensieri e visioni impegnative sulle condizioni del vivere e del
lavorare, sulle politiche e sull’economia. Fare sindacato è non dare torto alla realtà – e la contrattazione
attenta, competente, impegnativa è il primo radicamento per un sindacato – sapendo che questo vuol dire
anche coglierne le attese e le possibilità, le contraddizioni e gli orizzonti nuovi da ridisegnare. Fare
sindacato, partendo dalla contrattazione, è coltivare il futuro, anche nelle persone; ed è fare partecipare di
una comunità di destino, fare crescere consapevolezza e responsabilità politica. È esercizio di democrazia.
La formazione (al Centro studi Cisl di Firenze, a Milano, al sud, in Emilia, …) nasce continuamente da quel
che si coglie in gioco dell’umano, della convivenza (del pianeta e dei suoi equilibri e nelle sue regole)
nell’esperienza del lavoro in fabbrica, nella società. Nasce da lì per costruire pensiero e consapevolezza,
progetto e visione, impegno e lotta per l’affrancamento e la promozione di pratiche di libertà e convivialità.
La cura formativa è un modo di esprimere la passione per il mondo, le persone, la giustizia e la bellezza. Le
persone, ognuna risorsa feconda, da coltivare bene e continuamente. Persone adulte, quindi
nell’obbligazione (weiliana) alla promessa, alla cura del futuro comune.5
Fare sindacato e fare formazione (fare sindacato nel fare formazione, fare formazione nel fare sindacato) è
un’esperienza concretissima di incontro, di impegno, di legame tra lavoratori e lavoratrici per aprire un
produrre responsabile e attento, per crescere in competenze, saperi e cura della convivenza. Con una
chiara attenzione a quanto l’associarsi, il pensare e il lottare insieme, genera e trasforma nei lavoratori, nel
loro ruolo, nella loro presenza nella società e nella vita della democrazia. E nelle loro coscienze e
conoscenze, nella loro capacità di agire insieme, di aprire un futuro d’umanizzazione per tutti, anche gli
esclusi dal lavoro e dai diritti.
Il sindacato è luogo di ricerca e di esperienza, non può che essere profondamente radicato nei luoghi di
lavoro – ne è convinto Morelli - aprendo proprio da lì dentro spazi di parola, di confronto, di studio e di
decisone, di proposta, contrattazione. Ma per questo deve respirare e condividere con lavoratrici e
lavoratori spazi di cultura, di visione, di coltivazione d’espressività, di contatti con il mondo. Allora il
5 S. Weil, La persona e il sacro, Adelphi, Milano, 2012; id., La prima radice. Preludio ad una dichiarazione dei doveri verso l’essere
umano, SE, Milano, 1990
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sindacato, in alleanza con altre risorse e soggetti sociali, alimenta cammini di legame, prove e
sperimentazioni di vita, di lavoro nuovo: pratiche di futuro. Un sindacato è organizzazione adulta, di uomini
e donne adulti.
E gli adulti sono uomini e donne di parola, di responsabilità, di cura del futuro d’altri, di promessa, di patti
nati da confronti aperti e leali: ci vuole metodo per far crescere, per coltivare queste dimensioni, in ognuno
e collettivamente. Tra uomini e donne portatori di esperienze e percorsi diversi, da valorizzare, e da
integrare; o far muovere, o sollecitare, anche con forza e creatività. Con un insistente lavoro di incontro e
parola, in gruppi, in ricerca; e nello studio, nell’aggiornamento.
La formazione di adulti chiede responsabilità nella vita organizzativa, cura dei valori, impegno diretto,
attenzione a relazioni rispettose, discussione delle linee strategiche; e quindi senso critico, lettura
dell’attualità, attenzione ai desideri e alle speranze delle persone. Coltiva il “dovere di dissentire”,
un’esperienza di vita e di pensiero, preziosissima. Non diritto ma dovere. Come ci si può legare in cammini
difficili, tra diversi, se non coltivando e praticando un’etica collettiva solidale, un costume di sincerità e di
ricerca della verità (il coraggio della verità, scriveva Foucault)6, una condotta di vita “francescana” generosa
(la questione degli stipendi degli operatori e dei dirigenti sindacali), la rinuncia a costruire carriere contro
altri, eliminando, mettendo fuori gioco?
Pare delinearsi un sindacato scomodo e aperto, che si consolida in presenze e organizzazione, che sa
muoversi: che si sviluppa in organizzazioni diverse per tradizione, culture, anche per stili di presenza e
prospettiva, ma che sa convergere , discutere, elaborare differenze, trovare contenuti e cammini condivisi.
Scomodo anche nel chiamare i lavoratori e le lavoratrici alla solidarietà, non solo nel denunciare, scomodo
nell’indicare progetti di futuro e non immediati ritorni: come quando lancia il Fondo di solidarietà (lo 0,50)
o propone contratti di solidarietà, quando prova l’uscita dalle crisi con la creazione di cooperative di
lavoratori, o lancia la grande proposta della riduzione dell’orario di lavoro. Scomodo quando apre il
dibattito sulla democrazia interna, quando propone che la rappresentanza di chi è iscritto ed entra negli
organismi deve tenersi capace di tensione e legame con chi è nelle fabbriche, la rappresentanza di tutti i
lavoratori. E, in modo particolare, con chi non lavora, o non ha tutele. Non solo un sindacato degli occupati.
Non è facile il sindacato specie se crescono frammentazioni, cultura consumistica, bisogni differenziati e
plurali, e cala il gusto della vita comune, del rispetto delle istituzioni, se scema la sensibilità per le disequità,
le ingiustizie, le fragilità, la dignità. La penultima stagione di Pippo Morelli attraversa fatiche e transizioni
dure e difficili; per la sua acuta sensibilità certamente dolorose. Vive in un sindacato cambiato radicalmente
anche per il cambiamento del lavoro, della sua organizzazione, del capitalismo e della finanza. Un
sindacato diventato grande organizzazione di quadri (specializzati per competenze, articolati per
organizzazione) con minore rappresentanza e capacità di esprimerla, con minori o più frammentati
collegamenti con i lavoratori. L’esperienza emiliana ripropone, in un contesto nuovo e da reinterpretare e
6 M. Foucault, Il coraggio della verità. Il governo di sé e degli altri. Corso al Collège de France (1984), Feltrinelli, Milano, 2016
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conoscere nelle sue tendenze, le antiche domande: come, con chi, per chi progettare futuro? Come riaprire
il sindacato ad essere una “comunità educante” (o vederlo attivo nel promuoverla tra luoghi di lavoro e
territori) perché donne e uomini del lavoro ricerchino, conoscano, sappiano leggere della loro vita e del
mondo, possano scoprire posizionamenti, responsabilità, obblighi e senso della dignità personale?
Morelli riapre un impegno e una stagione formativa nuova, e un Osservatorio sul lavoro. Riprende
responsabilità al Centro Studi di Firenze, invita Paulo Freire a riflettere su promozione ed emancipazione
sociale come dimensioni necessarie dell’educazione. Di nuovo, ancora, “bandiera spostata”, a cercare e
segnalare linee d’orizzonte, punti di passaggio, limitari verso cui avventurarsi. Come passatori che lì
accompagnano, e poi lasciano andare avanti altri, con l’energia , il tempo, la capacità d’inizio. Di nuovo a
preparare consegne impegnative. Lo stile dell’uomo era questo, la sua cifra originale la libertà e la
dedizione.
la contrattazione e la crescita di un sapere diffuso
Formare dei contrattualisti è formare competenze per la lettura delle condizioni di lavoro (e delle loro
contraddizioni, delle realtà ingiuste), delle possibilità da aprire e del futuro da coltivare. Ma era anche
formare identità, e credibilità, per l’ascolto e l’incontro dei lavoratori, per la discussione, il dialogo, il
confronto con loro. Formare capacità di rappresentanza per unirli, farli attenti e responsabili.
L’esperienza del lavoro e delle organizzazioni del lavoro grazie al sindacato può nella prospettiva di Morelli
diventare luogo di consapevolezza, di cittadinanza, di un rapporto non passivo e di soggezione (o di
estraneità) con il potere, con le istituzioni. Una esperienza aperta al futuro, di revisione degli stili di vita e
di consumo, di un nuovo rapporto con il i beni e con l’ambiente, con i popoli e le realtà lontane del sud del
mondo.
Sono le persone degli operai e delle operaie, dei lavoratori, al centro della attenzione, sono loro che
abitano la fabbrica ed il territorio, sono loro che vanno incontrati con proposte formative, con liberazione di
tempo, con coinvolgimenti in progetti e decisioni. Dai loro cammini nasce il senso ed il ruolo del sindacato:
per loro va declinato come esperienza di autonomia , di unità tra diversi per cultura e tradizione.
Il tema della formazione è serio e delicato. Da un lato c’è la sfida al far crescere sindacalisti istruiti e capaci
ai quali non basta il pragmatismo, e neppure un tecnicismo specialistico, come non basta una sensibilità
generica nel cogliere le attese dei lavoratori. La testimonianza personale di onestà e lealtà è, certo,
necessaria. Nella quale cresca sapere diffuso, una capacità di intrecciare e scambiare saperi particolari ed
esperienziali diversi, appresi e coltivati sui luoghi di lavoro e nella società. Un sapere diffuso capace di
leggere e far presa sull’organizzazione del lavoro e le sue logiche, e per aprirle e trasformarle. E capace di
far esprimere i lavoratori dentro e fuori le fabbriche.
La contrattazione articolata può rappresentare un fulcro per un sindacato nuovo, una esperienza di crescita
per il sindacato di una identità definita, dentro le pratiche concrete e nei vissuti sui luoghi di lavoro. Per
6
questo i sindacalisti devono sapere delle teorie del conflitto sociale, avere capacità di misurazione della
produttività, proporre calcoli del rischio e delle responsabilità, possedere capacità comunicative e di
gestione delle assemblee. In una esperienza vissuta insieme, di ricerca, di uso di saperi esperti, di
protagonismo attivo, di immaginazione e relazione , di organizzazione.
Mentre tutto questo prende forma si apre il senso, si nutre la vita, la si condivide su itinerari di solidarietà e
giustizia. E si stabilizzano alleanze e si aprono confronti forti con la società civile, la società politica, i mondi
della cultura attorno ai temi della democrazia politica, dell’economia mista e civile dei diritti.
Per un sindacato capace di ospitare ed alimentare queste dinamiche servono dirigenti nuovi, ben formati,
capaci di autonomia, capaci di alimentare le differenze interne, in un luogo di sperimentazione della libertà
e della ricerca, nel quale gli iscritti sono chiamati a prendere parte alla vita ed alle decisioni, ad essere
responsabili. per scrivere nella dinamica tra base e vertice, tra dentro e fuori, sempre nuove pagine del
progetto di un sindacato libero.
Morelli incarna, e anticipa testimoniandola, questa nuova dimensione del dirigente: nella sua finezza e nella
gentilezza umana, nella forza e nella franchezza di convinzioni ed opinioni, nell’ampiezza di visione e
nell’etica personale, nella sua continua attenzione e frequentazione delle fabbriche e dei lavoratori.
Pensa a una funzione dirigente diffusa, a una schiera ampia di dirigenti, capaci di confrontarsi e riflettere
insieme, di tenere vivo e coltivato l’incontro con i lavoratori, dirigenti portatori di deleghe non infinite,
disposti ai cambiamenti, alle responsabilità, a lasciare spazio ad altri. Con il gusto di un confronto durante e
dopo il quale ognuno si è riposizionato, ha acquisito nuova consapevolezza, maturato riconoscimenti e
vissuto nuove convergenze, anche parziali, oltre che vissuto nuove distinzioni, di certo altri
approfondimenti. Contro un modello carismatico di dirigente che crea soggezioni, omologazioni; per una
funzione di servizio e un esercizio di potere che “fa potere”, distribuisce potere e coinvolgimento in
responsabilità.
Solo una tale esperienza nell’organizzazione sindacale può aprire e sostenere processi che maturino uomini
e donne, che disegnino storie ed esperienze pratiche nella costruzione di una società nuova e giusta. Una
rivoluzione culturale non è guidata dell’alto o da “avanguardie” intellettuali: si conduce in un processo di
pensieri e di stili di vita, e di lotte collettive e di esperienze sociali.
Morelli partecipa allo sviluppo di progetti di un sindacato nuovo, allo sviluppo di proposte politiche in anni
di dure tensioni sociali, in anni di delicati passaggi per la democrazia. Le esperienze delle scuole popolari, la
collaborazione tra sindacato e mondo universitario, il coinvolgimento degli studenti nell’esperienza delle
150 ore e nella ricerca a supporto della contrattazione sono solo alcuni dei percorsi coltivati.
Esperienze organizzative, tensione all’unificazione del mondo del lavoro, lavoro culturale e politico se
questo da forte autonomia, si intrecciano al lavoro sociale, esterno al sindacato. Capire, servire, dare inizio,
far crescere, indagare e discutere, lasciare ruoli e posizioni compongono uno stile unico, originale,
espressione di libertà, e di collocazione sull’orizzonte. Come una “bandiera spostata”: a segnare confini e
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passaggi nuovi, più avanzati, promettenti, a segnare nuovi confini, sentieri, passaggi. Questa la passione: il
suo lasciare spazio ad altri non è segnato dal peso della rinuncia, non va ad intaccare per nulla le relazioni,
le amicizie fraterne.
L’amico padre Beppe Stoppiglia sostiene che Morelli è stato un intellettuale e un dirigente sindacale
profetico. Sì, ma nel senso ben evidenziato nelle pagine di questo libro: come persona preoccupata e
affaccendata a sostenere un sindacato, ed esperienze sociali oltre che contrattazioni, nelle quali si
esprimesse il profilo e l’energia profetica della società, delle donne e degli uomini del lavoro. In luoghi ed
incontri di inizio, generativi, in pratiche d’anticipo e non solo innovative.
la parola e il potere
É interessante l’idea e la pratica dello scambio di parola in cui Morelli crede e che pensa valere sia nei
momenti più propriamente formativi che negli scambi e nel dibattito negli organismi della elaborazione e
della decisione, propri della democrazia interna dell’organizzazione.
Nei luoghi di parola, di ricerca e di orientamento, di confronto e discussione, occorre vivere la franchezza di
quello che anni dopo Raimón Panikkar avrebbe chiamato “dialogo dialogale”: non orientato al convergere,
all’uniformare, tanto meno al vincere sulle ragioni dell’altro; piuttosto teso a fare vivere nella agorà della
parola spostamenti di visione e posizionamento, processi di approfondimento e scoperta di legami tra
pensieri e aspetti diversi, ampliamento delle prospettive.7 Sempre un po’ incompiuti, ma nella
consapevolezza del valore delle differenze, con ridisegni di proposte, di strategie e di posizionamenti
organizzativi e personali.
Una pluralità dinamica e responsabile di storie, culture, competenze, sensibilità, è per Morelli necessaria,
da rispettare, spinge al rigore e alla domanda nell’incontro che si vive nello spazio di parola. Questo non è
un palcoscenico per rappresentare sé, i “propri”, ma luogo di pensiero e di impegno fedele a tanti, di
rappresentanza e dedizione. La parola e l’incontro nel sindacato sono questo: gusto e preziosità della
differenza; generosità e libertà di una militanza e di un servizio offerti ad altri, da condividere con loro.
Certo, nella consapevolezza che il rapporto tra persone ed organizzazione è complesso, da rileggere, da,
ridisegnare e “pulire” continuamente dalle ambivalenze e dalle contraddizioni in qualche modo inevitabili. Il
sindacato è fatto da uomini e donne non innocenti, non trasparenti del tutto: ma può darsi modi, relazioni
interne, può far formazione e ricerca, tenere una continua relazione con i lavoratori e le lavoratrici per
poter sostenere e ridurre i suoi limiti. Che sono anche rischi di incrostazione, di autoreferenzialità, di
chiusura culturale. La tensione tra formazione (e cultura) e fabbrica (l’ incontro con gli operai reali e le loro
culture)è da alimentare, da tenere dentro la maturazione di una democrazia da promuovere come pratica
diffusa di crescita e di responsabilità. Per camminare verso un futuro fuori da miti e dalle sirene d’un
7 R. Panikkar, La nuova innocenza, Servitium, Fontanella, (Bergamo), 1991; F. C. Manara, “La philosophia pacis e l’impegno per la
pace”, in E. Baccarini, C. G. Torrero, P. Trianni, Raimon Panikkar filosofo e teologo del dialogo, Aracne, Roma, 2013
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capitalismo selettivo ed onnivoro, di una cultura della riduzione a merce e del consumismo, di una libertà
irresponsabile.
La formazione è un modo di incontrare sé e gli altri, in un luogo deve tessere competenze e capacità di
interpretazione della realtà e del tempo al fine di decidere, di orientare azioni, scelte e organizzazione.
Promuove le persone e la giustizia, relazioni generative e reciproche responsabilità; è uscita dalla
soggezione, dallo sfruttamento, ed esperienza di arricchimento delle possibilità.
Il sindacato la costruisce in spazi e tempi collocati tra i luoghi di lavoro e i luoghi sociali. Quindi tra dentro e
fuori il sindacato stesso. Su una soglia: qui prende forma una comunità di ricerca, di pensiero, che apre al
possibile In questo senso è “luogo di potere” perché fa esercitare possibilità di autonomia e di
progettazione ai lavoratori, dà parola, chiede impegno e visione, diffonde coinvolgimento nelle decisioni.
È un luogo un po’ “perturbante”, certo, ma vivo e aperto. Non è un luogo dove costruire omologazioni o
contrapoteri, invece è una soglia di dialoghi, di incontri, di approfondimenti, di conflitti, di generatività. Poi,
certo, c’è la necessità delle traduzioni, delle mediazioni, delle pratiche dell’organizzazione, della
contrattazione, dell’incontro nelle fabbriche, delle politiche. La formazione è luogo necessario, anche
quando faticoso, perché le esperienze del lavoro e della vita, della convivenza, incontrate nelle loro
contraddizioni e durezze, nei loro conflitti, mostrino, si aprano a cammini possibili di dignità, senso, equità e
giustizia. In luoghi della formazione vanno costruiti anche forti competenze particolari, specie sulla
contrattazione, la organizzazione e gestione d'impresa, l’economia, l’uso delle tecniche, che devono
sempre vedere senso e direzioni d’impiego guidate da criteri di valore e da visioni di futuro.
Le 150 ore sono un passaggio di visione, di senso, anche di ruolo del sindacato. In parte segnano anche un
passaggio nella coscienza collettiva dei lavoratori, delle lavoratrici, una vera e propria “frattura
instauratrice”, di quelle che liberano energie, rompono paesaggi e visioni, “obbligano” al ridisegno,
decostruiscono e ricostruiscono.
Nella rinegoziazione della risorsa tempo i lavoratori scambiano salario con un processo di emancipazione
personale e collettiva. Certamente c’era la necessità di superare il basso livello di scolarizzazione di
tantissimi lavoratori dipendenti (in dieci anni un milione e mezzo di loro ottiene la licenza di scuola media)
ma nei corsi delle 150 ore si riesce a realizzare anche una ampia condivisione di conoscenze tecniche e
professionali, scientifiche e culturali, coltivate nel e sul lavoro Condivisione che è anche revisione e
consapevolezza, collocazione in quadri culturali, in nuove interpretazioni del mondo, della convivenza, del
rapporto con le risorse, con il sud del mondo.
Nelle 150 ore si studia da adulti, si ricerca e ci si confronta portando storie familiari, di migrazioni, di
partecipazione sociale e civile: questo, e la stessa esperienza del lavoro, viene riletto nelle prospettive della
crescita umana, delle direzioni di sviluppo. Aprono una grande stagione di pratica di metodologie
innovative, di valorizzazione dei vissuti, dei saperi, in comunità di pensiero, di partecipazione. Sullo sfondo,
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e in dialogo, fanno spesso i cammini e la proposta di Paulo Freire, l’esperienza di Barbiana, l’elaborazione
della pedagogia attiva europea.
Sono una soglia i corsi delle 150 ore per i lavoratori, soglia dell’incontro tra scuola e lavoro, tra università e
luoghi dell’esperienza civile e sindacale, nei quartieri dove già si sperimentano le Scuole popolari e nei
paesi, tra giovani, insegnanti, intellettuali e uomini e donne delle fabbriche. Soglia sulla quale ci si scopre,
ci si conosce, si condivide la vita. E si riflette su una scuola, che aveva lasciato tanti fuori ed escludeva
molti, che restava lontana e selettiva. E sulla democrazia, e i temi della vita sociale, personale, i temi
dell’ambiente, dei diritti e sulla storia, e la questione femminile… Temi che chiedevano studio, ricerca,
confronto, riferimenti culturali, sfondi scientifici, parole nuove.
Misurarsi con i problemi, prendere parola, pensare bene per poi scegliere e prendere responsabilità, per
diventare classe dirigente trasformativa.
Si vede bene, ricostruendo l’impegno di Pippo Morelli e di altri per aprire, ed alimentare ciò che generava la
“frattura” delle 150 ore, come questo aprire al sapere e alla conoscenza, al pensiero e al dialogo aperto,
può aver fatto da barriera alle semplificazioni ideologiche, violente e distruttive. Quanto indirettamente e
profondamente questa diffusa esperienza di pedagogia sociale e di emancipazione di molte e di molti, con
tutti i suoi limiti e le sue incompiutezze, continuò a far fronte alle derive e alla fascinazione del terrorismo.
Certamente chi ipotizzava e sperava di aprire una stagione del “sindacato dei Consigli” non vide negli anni
consolidarsi questa prospettiva: ma ciò che cambiò e restò nel tempo in tantissime e tantissimi, in biografie
e storie sociali, in storie di fabbriche e territori è stato qualcosa di profondo. E di nuovo. Per diverse
generazioni il sindacato restò nella rappresentazione e nella esperienza di molti una comunità di
formazione e di partecipazione politica alla vita democratica. Un luogo e un’esperienza adulta, di
formazione tra adulti.
Certamente teso, con la sua operatività, con la contrattazione, con le lotte, a perseguire diritti, a tutelarli, a
promuoverli, ma attento anche a diffondere, a far crescere responsabilità verso il futuro, tra le generazioni,
verso quanti non erano ancora rappresentati.
Come sottolinea Bruno Manghi sempre nell’impegno, intenso in Morelli, a creare sviluppo e democrazia
anche fuori dall’impresa: per questo il lavoro e i lavoratori sono fondamentali.
il cammino e la penombra
Il cammino di Pippo Morelli muove allo stupore, per tanti e diversi motivi. Ha il tratto della coltivazione
continua dello studio, del confronto, della ricerca propri di un intellettuale esigente e raffinato. Il quale,
però, intende offrire e condividere continuamente tutta questa ricchezza e questa forza di pensiero con
tanti, con quanti si trovano deprivati, senza ripari e tutele, nella fatica a esprimere sé, a vivere pienamente,
a partecipare pienamente alla vita democratica.
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Questa condivisione la pratica nel sindacato, con gli strumenti e nei luoghi della formazione e della politica,
dell’organizzazione: qui esprime una generosa, debordante si potrebbe dire, offerta di sé, delle sue
capacità e delle sue energie. Come fosse spinto da un senso di responsabilità che ha la densità del debito,
della dedizione. Appunto: dell’obbligazione, come diceva Simone Weil, alla condivisione e ridiffusione delle
ricchezze e dei doni ricevuti, fuori dal senso di merito, dal gusto del primeggiare, del farsi seguire,
dell’essere riconosciuto.
Ma lo stupore è anche per il gusto e la cura per le persone, e per l’incontro con ognuno, con ogni persona,
preziosa, con ogni lavoratore, lavoratrice nell’originalità delle sue interpretazioni, storie, speranze. Una
curiosità verso ognuno e ognuna che si faceva cura e ascolto, e subito domanda esigente, proposta,
confronto: sempre rispettoso, molto gentile. Un amore per la vita così bene manifestato nelle amicizie
fraterne coltivate.
Certamente l’attenzione alle persone gli permette di mantenere nel tempo anche una qualità di relazioni
nel confronto e nel dibattito politico: di essere molto franco e trasparente (parresìaco si potrebbe dire)
senza scadere nell’attacco personale, nella denigrazione. Pronto a tessere relazioni e mettersi in gioco con
altri per progetti in cui credeva, anche di frontiera; pronto a modificare, integrare, lasciar maturare, a
cercare di convincere e non ridurre tutto a prova di forza. Pronto a restare di lato, a lavorare anche
nell’ombra, a fare spazio ad altri senza cercare per sé.
Grande è il suo gusto e la sua cura della differenza, la ricerca della libertà e dell’autonomia,
l’apprezzamento del pluralismo: per lui fondamentali nelle esperienze e nei cammini unitari delle e tra le
Confederazioni, nell’esperienza dei metalmeccanici.
Un terzo elemento di stupore riguarda la sua “parabola” di dirigente coltivatore. Partito da un radicamento
forte nelle esperienze di base, locali, legate alle fabbriche, anche nei periodi di responsabilità negli
organismi apicali ha sempre tenuto relazioni ed esercitato funzioni in modo da accompagnare esperienze di
base (nella contrattazione, nella formazione e nella ricerca), di dare parola ed espressione ai pensieri, alle
preoccupazioni, alle tensioni, alle speranze maturate tra gli iscritti, e anche al di là degli iscritti tra i
lavoratori e le lavoratrici, nelle loro famiglie. Dai territori a Roma (e al Centro Studi di Firenze); da Roma ai
territori, poi quelli della CISL dell’Emilia Romagna, una CISL minoritaria e difficile. Da coltivare: nella
formazione e ricerca; nelle forme partecipative alle decisioni.
Infine resta lo stupore della stagione ultima, del silenzio, della inazione, dell’essere e dell’essersi tratto in
disparte. Nella penombra, densa, degli affetti e della intimità. Come se lasciando la scena della parola e
dell’azione, fosse tornato seme, fosse seminato. Nella impossibilità di celebrarle o di congedare, per lungo
tempo, operazioni che nella organizzazione non di rado permettono la rimozione.
Seme, nascosto, silenzioso, in una lunga macerazione, mentre i terreni e i climi si modificano
profondamente. Una macerazione che può aiutare una sorta di raffinamento, di setacciatura, di distinzione
tra il legato al tempo e al contesto, ed il generativo, il profetico, il lascito e la consegna. Questo è legato,
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spesso, da un lato agli stili e ai modi, da un altro agli elementi di visione e di respiro tra generazioni diverse.
Alle esperienze di anticipo, di “frattura instauratrice” come direbbe Michel de Certeau, un sociologo
francese acutissimo e un gesuita di frontiera dei tempi della giovinezza e della maturità di Pippo Morelli.8
Abbondante il lascito dopo la macerazione, preziosa e impegnativa la consegna. Specie nella stagione in cui
pare che certi stili esistenziali vengano abbandonati, o “superati” (il rigore, la sobrietà frugale, il rispetto,
…), in cui il gioco dei diritti (e delle tutele e delle rivendicazioni) si fa per parti e comparti senza la cura che
non manchi mai la presenza di alcuna generazione. Nella stagione in cui le “fratture” generative del nuovo
vengono subito suturate e fatte cicatrizzare presto. Perché speranze, orizzonti, ed esodi responsabili e pur
sofferti verso una promessa abitabile non segnino troppo interiorità e relazioni, sforzi condivisi e politiche.
Tutto questo entra nella penombra dell’ultima stagione: piena della tenerezza, della densità quotidiana,
della cura ricevuta e scambiata. Un’eclisse per alcuni Forse una messa in semina, il seme seminato,
“scomparso”, perde e si apre, ne resta l’energia di una nuova germinazione. Il “purificato” e il nuovo; il
lasciato come del tempo passato pur vissuto intensamente, e l’aperto, l’indicato, il “promesso”, l’anticipato.
Quello che ancora attende di essere ripreso e colto di nuovo.
Resta la “bandiera spostata”, come se vivendo nella penombra una lunga ultima stagione, avesse fatto
spazio, e chiesto di camminare, di pensare: con libertà, con stile generoso e rigoroso. Di cercare il nuovo,
l’inedito perché sia giusto e umano. Nel silenzio, come chiedendo di abitare parole, lasciandole e
chiamandole dopo averle tanto lavorate scambiate, raffinando pensieri e ascolti. Scostato e in penombra
con la dolcezza meritata dopo tanti anni di verità di vita, e di incontri molto diretti e franchi: sempre
mirabilmente vissuti insieme alla gentilezza e alla sincerità delle amicizie, al rispetto delle differenze.
“Persona ponte”, come lo han definito tanti, e come lui pensava dovesse essere un sindacalista, e un
educatore: nella stagione della penombra svela un tratto che a volte non si coglie dell’essere ponte cioè il
non possedere l’altra sponda, il non averla definita. Una persona ponte al più la indica, indica stili di
cammino e di esplorazione attenta, passione stupita per la vita e l’incontro. L’altra sponda è di chi va oltre,
verso altri cammini e orizzonti.
Nella penombra Morelli si ritrae, come serbando: senza potere, con meno forza, senza rendita di posizione;
dopo avere tanto lavorato per pulire il futuro d’altri, per mettere in semina. Occorre avere coltivato
spiritualità e speranza, e una certa nudità spirituale. Allora si sente il canto della speranza nelle terre
provate da povertà e ingiustizia, negli occhi e nelle parole di giovani sindacalisti e di donne e uomini
comunitari e coraggiosi (che Pippo vive come un “chiaro del bosco”) in Brasile. Chissà se negli anni in
penombra Pippo avrà coltivato ancora l’inquietudine di Pasolini (ha vinto la merce?); di certo lo ha
accompagnato nei giorni il respiro di libertà costruite come tessute da legami, generosità e attenzioni.
8 M. de Certeau, la debolezza del credere, Città Aperta, Troina (Enna), 2006
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Passa una vita ad amare le persone, le persone del lavoro, cercando di “scorgere la ghianda” in loro grazie
alla formazione, per riconsegnarle e inviarle a loro stesse e ai loro cammini comuni, fatti alberi robusti e
generosi. Poi Morelli torna “ghianda”.