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LA FORZA DELLA VERITÀ La verità vi farà liberi scaricato da www.archiatiedizioni.it

La forza della verità - LiberaConoscenza.it · 2019. 5. 4. · La testa: il pensare, il cammino di conoscenza in quanto go-dimento della verità; e il cuore aggiunge un’altra dimensione:

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  • LA FORZA DELLA VERITÀ

    La verità vi farà liberi

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    archimedixTimbro

  • Pietro Archiati

    Atti del Convegno

    LA FORZA DELLA VERITÀLa verità vi farà liberi

    Milano, ottobre 2003

    Atti del Convegno “La forza della verità”, Milano, 10-12 ottobre 2003, Teatro delle Erbe

    Trascrizione integrale del parlato a cura di Laura Giusiano

    Redazione a cura di Letizia Omodeo Salè

    Testo NON rivisto dal relatore

    Gli autori difendono la gratuità del prestito bibliotecario e sono contrari a norme o direttive che, monetizzando tale servizio, limitino l’accesso alla cultura.

    Gli autori e l’editore rinunciano a riscuotere eventuali royalties derivanti dal prestito bibliotecario di quest’opera. Quest’opera è pubblicata sotto una Licenza Creative Commons: si consente la riproduzione parziale o totale dell’opera e la sua diffusione per via telematica, pubblicazione su diversi formati, esecuzione o modifica, purché non a scopi commerciali o di lucro e a condizione che vengano indicati gli autori e che questa dicitura sia riprodotta.

    Ogni licenza relativa a un’opera deve essere identica alla licenza relativa all’opera originaria.

    In copertina: “...”Ideazione ed elaborazione grafica di ...

    Archiati Edizioni, Cumiana (To), 2009

    Copertina G. Bonicatto e F. Delizia,

    ISBN 978 - 88 - 96193 - 15 - 0

    Archiati Edizioni

    Strada Oreglia, 43/12 10040 Cumiana (To) Tel: 011.905 8608 – 335 205299

    [email protected] – www.archiati-edizioni.it

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    Indice

    Breve Introduzione 7

    La forza della verità. Verità e amore: mente e cuore sempre insieme 9

    Verità e tolleranza. Ogni uomo un punto di vi(s)ta 33

    Verità e errore. Sempre e solo chi cerca, trova 71

    Verità o potere. Una scelta del tutto personale 105

    Verità e libertà. Più vasta la mente, più libero il cuore 151

    A proposito di Pietro Archiati 181

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    Breve Introduzione

    Chi non ricorda la famosa domanda rivolta al Cristo dal pro-curatore romano Pilato: “Quid est veritas?” - che cos’è la veri-tà? E chi ricorda la risposta del Cristo? Fu la più sonora di tutte quelle che il Verbo, la Parola divenuta Uomo, dette in vita sua: il silenzio.Non si può dire in una parola o in una frase che cosa sia la

    verità, anche perché in fondo la verità non è qualcosa, ma è quel Qualcuno che ognuno di noi può diventare a mano a mano che assimila nella sua mente e nel suo cuore la ricchezza ine-sauribile che si nasconde in tutte le cose. Verità è ciò che io divento, è quel che io godo quando intuisco e amo l’essere vero delle persone che mi sono accanto. Divento vero nella misura in cui afferro e faccio mio il senso di ciò che avviene oggi nel mondo.Verità è la realtà che mi circonda quando suscita in me un’in-

    finita meraviglia, quando mi sforzo di capire il cuore di chi mi viene incontro, quando provo a vedere le cose dal suo punto di vista, e mettermi nei suoi panni per sentirmi solidale con lui. E chi di noi non vorrebbe che anche l’altro capisse il suo punto di vista e sapesse mettersi nei suoi panni?La verità dell’uomo e sull’uomo è la sua inestinguibile sete di

    conoscenza che vuole andare a fondo di ogni cosa, il suo insa-ziabile amore che cerca la sintonia vera con tutto e con tutti.

    Pietro ArchiatiNota redazionale

    Il testo, non rivisto dal relatore, è stato redatto in modo essen-ziale e fedele al parlato senza apporto di modifiche o stralci di contenuto.

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    1. La forza della veritàVerità e amore: mente e cuore sempre insieme

    Gentili ascoltatori, cari amici, sono alcuni anni che non mi faccio vedere a Milano, quindi un motivo in più per me di gioi-re del fatto di scambiare alcuni pensieri su un tema così im-portante come la ricerca della verità, in quanto non è possibile essere uomini e donne, non è possibile gioire della bellezza, della pienezza di questa natura umana che ci portiamo dentro, senza attingere quotidianamente all’inesauribilità della realtà attorno a noi.

    Pensiero fondamentale che ci accompagnerà sia nelle mie esposizioni sia nelle vostre riflessioni che aggiungerete alle mie, è che il concetto di verità è l’oggettività del reale. La verità di una persona per esempio, è ciò che questa persona è nell’uma-nità per gli esseri della Terra, ciò che questa persona opera.

    Quindi si tratterà di tirar giù il concetto di verità da un livel-lo puramente intellettuale alla realtà. O, diciamo, la verità è il godimento della mente umana nel cogliere in modo sempre più vasto il reale. Poi vedremo che la verità, in quanto realtà della vita, non soltanto è un fattore di conoscenza, ma che la realtà più bella è quella che si crea, è quella che ognuno fa sprigionare dal suo essere perché ancora non c’è. Quindi, la verità più pro-fonda di un uomo è la realtà che lui dona agli altri uomini, alla natura, alla Terra, a tutte le creature. La verità del mio essere è ciò che io immetto nel divenire umano e cosmico.

    Trattandosi di un tema così vasto e difficile ognuno di noi ha l’impressione proprio di balbettare. La consolazione di chi ha il compito qui davanti di articolare un po’ i pensieri è che non sarà il solo, e quindi godo sempre del fatto che nei dibattiti e nelle discussioni che conseguono (che in Italia sono sempre molto abbondanti) c’è la possibilità – certo non per tutti voi,

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    è la loro realtà qui e ora, se vogliamo, la somma del passato e del presente; e l’amore è la capacità di cogliere il presente in chiave di evoluzione futura. La verità riguarda il passato cristallizzato nel presente, e l’amore è la fantasia morale che inventa artisticamente vie e cammini del futuro possibile. E anche là, questa esuberanza di fiducia dà fiducia a ogni essere, perché coglie la sua realtà più profonda nel dinamismo evo-lutivo, nelle potenzialità evolutive. Quindi essere uomini vuol dire vivere in questa tensione polare tra la verità nell’amore, la conoscenza, e l’attività, perché amare significa fare qualcosa, l’amore si riferisce alla volontà.

    Quando noi vogliamo conoscere la verità, lo facciamo meglio stando quieti, stando fermi, in un atteggiamento di contempla-zione del reale per conoscere l’oggettività del reale. L’amore invece è una risposta dell’essere – risposta di godimento, come dicevo prima –, e anche desiderio di favorire, di mettersi a ser-vizio perché questa realtà incipiente di ogni essere continui a far scaturire dimensioni sempre nuove dal proprio interno.

    Meglio conosco la tua verità, e più scopro cosa ancora tu sarai capace di far sprigionare dal tuo essere. La mente conosce ciò che è già stato realizzato, e il cuore favorisce, il cuore si inna-mora di ciò che è ancora possibile, perché se non diamo fiducia in chiave di amore alle possibilità evolutive, allora viviamo sol-tanto nella paura di far sbagli.

    L’amore è la forza di godere gli sbagli perché li vede come pro-ve. Non esistono sbagli, esistono prove. Si prova in un modo, se non va si cambia. Un vero sbaglio è soltanto quando si sbaglia senza imparare, ma allora non è uno sbaglio è una svista, è un dormire nel pensiero. Come uno che sta imparando una lingua straniera e si mette in testa di cominciare a parlarla soltanto quando è perfetto e non fa nessuno sbaglio… questa lingua non la parlerà mai. Si fa più in fretta a imparare una lingua straniera

    ma chi si esprime lo fa in rappresentanza di altre persone – che qualcun altro di voi aggiunga, completi, oppure metta in questione alcune cose, perché è impossibile anche da parte mia coprire tutti gli aspetti di ciò che riguarda la verità.

    Questa sera il rapporto tra verità e amore è un po’ un tentativo di guardare una polarità fondamentale dell’essere umano che chiamiamo la testa e il cuore.

    La testa: il pensare, il cammino di conoscenza in quanto go-dimento della verità; e il cuore aggiunge un’altra dimensione: il cuore non si accontenta soltanto di conoscere la verità, l’ogget-tività del reale. L’amore aggiunge un esubero che sta nel godi-mento della bellezza del cuore. L’amore è la capacità di godere della bellezza del reale che la mente conosce, e godendo questo gaudio interiore per la bellezza – non soltanto di ogni persona, ma di tutto il reale nel quale siamo immersi –, e che la mente conosce in chiave di verità sempre di più, questo esubero del cuore che ama la realtà – la verità di ogni persona, la verità di ogni essere –, tende a fare tutto il possibile per favorire lo svi-luppo ulteriore di tutto ciò che è reale. In altre parole: la verità si riferisce a ciò che già c’è per conoscerlo nella sua dinamica intrinseca, e siccome la mente afferra che la verità più profonda del reale è il dinamismo evolutivo, che la verità più profonda su tutte le cose è di essere in evoluzione – perché noi non viviamo nell’eternità, ma in un mondo fatto di evoluzione –, siccome la mente coglie conoscitivamente che la dimensione più profonda del reale è di essere in questa tensione evolutiva, l’amore è fatto per proiettare nel futuro questa evoluzione.

    La verità è l’oggettività di ciò che già c’è, e l’amore architetta, immagina, inventa i gradini evolutivi successivi della realtà che già c’è.

    Nel rapporto tra persona e persona la verità delle due persone

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    Questo rapporto tra la mente che pensa e conosce, e il cuore che ama – e apre vie sempre nuove di sviluppo, di auto-speri-mentazione, di auto-godimento e anche di godimento nell’altro –, il rapporto dinamico di questa lemniscata dove ognuno di noi come in un’altalena passa sempre dalla mente che cerca la verità al cuore che ama il reale, questo rapporto tra la mente e il cuore, tra la verità e l’amore, evolutivamente è fatto di tre stadi, tre gradini, tre passi fondamentali che rivediamo nel cammino di ogni biografia umana.

    Il primo gradino è l’amore senza la verità, cioè l’amore spon-taneo, l’amore di natura senza che ancora sia sopravvenuto l’elemento del pensiero, l’elemento della conoscenza, l’elemen-to della coscienza, ed è quello che vediamo nella fase infantile di ogni essere umano.

    Il cuore, il sentimento, la parte del vissuto più profondo è già presente, ma ancora non è presente il cammino della verità, la ricerca della conoscenza oggettiva del reale, perché mancano ancora le forze pensanti. In altre parole, nel cammino evolutivo sia dell’umanità sia del singolo, in ogni vita, le forze del cuore, del vissuto, del sentimento precedono le forze del pensiero.

    Se guardiamo all’umanità intera nel suo cammino del rap-porto tra mente e cuore, basta che andiamo indietro fino al quindicesimo secolo, se guardiamo alla religione per esempio, rinveniamo una religione del cuore, veniva chiamata la fede. La fede è un rapporto tra spirito umano e spirito umano, un rapporto tra spirito umano e spirito divino – non è importante la terminologia che usiamo, l’importante è che ci capiamo –, un rapporto fondato sul cuore.

    A partire dal quindicesimo secolo è sorta la scienza natura-le, cioè per la prima volta nell’umanità – in quanto biografia dell’umanità intera – è sorto l’impulso della conoscenza, della conoscenza oggettiva. Tanto è vero che la cosiddetta fede è sta-

    quando si godono i propri sbagli, e goderli significa che non si ha paura di farli, che si ha fiducia che l’altro mi aiuterà correg-gendomi, e man mano che li faccio imparo la lingua. Se invece non espongo mai i miei sbagli alla correzione, non imparo la lingua. Quindi l’amore è questa qualità di dar fiducia al reale.

    La verità del reale va colta in chiave conoscitiva, però l’amore capisce la verità ancora più profonda del reale che è quella di essere proteso propulsivamente verso l’avvenire. Ciò che ognu-no di noi ha già realizzato e che è conoscibile come verità og-gettiva è soltanto la base, è soltanto il trampolino di lancio per ciò che ancora ha da venire, per ciò che ancora ognuno di noi è capace di realizzare.

    Capire il mondo è il godimento della verità. Trasformare il mondo è il godimento dell’amore. E l’essere umano si muove come diastole - sistole per capire

    il mondo sempre meglio, perché se non capisco la natura di ciò che esiste, non posso neanche capire in quale direzione è svi-luppabile. Quindi le due cose sono strettamente connesse fra di loro.

    Non posso progettare, non posso dar fiducia, non posso ve-dere le potenzialità – però reali! – insite in ogni essere, se non nella misura in cui conosco la natura vera di questo essere in quanto si è già manifestato.

    Si potrebbe dire che nel godimento della verità, più la mente profondamente capisce il mondo e più sarà capace di trasfor-marlo, perché ne coglie anche gli aspetti di trasformabilità. Non tutto quello che si immagina è per forza possibile, il realmen-te possibile lo si coglie soltanto nella misura in cui l’amore si fa guidare, si fa illuminare dal cammino di conoscenza – e in fondo le mie riflessioni di questi giorni saranno un ricamo su questo pensiero fondamentale.

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    della scienza, della conoscenza oggettiva, della ricerca della ve-rità, e siccome questa forza della mente, della coscienza e della conoscenza deve altrettanto svilupparsi, non può svilupparsi di primo acchito in equilibrio con la forza del cuore. Può svilup-parsi soltanto in una certa unilateralità, mettendoci l’accento in un modo unilaterale.

    Dopo che l’essere umano sente in sé sia le forze del cuore (la fede), sia le forze della conoscenza, della scienza, del pensiero, il terzo gradino evolutivo, lo stato di maggior pienezza, di go-dimento maggiore è quello di potersi muovere sovranamente, e quindi di rifare sempre di nuovo equilibri sempre nuovi tra la verità e l’amore, tra la scienza e la fede.

    La mamma che ama il bambino piccolo appena nato, suppo-niamo che sia una mamma che non ha letto dieci, quindici libri sul modo di trattare il suo bambino, prendiamo l’esempio di un amore naturale, dato dalla natura – un’immagine di questo primo gradino, immagine bellissima –, questa stessa mamma, però, prima o poi, se continua il suo cammino, dovrà porsi la domanda della conoscenza oggettiva, dovrà porsi la domanda: ma, il mio amore per il mio bambino può essere un amore sem-pre più perfetto se non c’è da parte della mia mente una ricerca di una conoscenza sempre più profonda dell’essere vero di que-sto bambino? Come faccio io ad amare il mio bambino se non so cosa fa bene all’essere umano?

    Quindi un amore vero sfocia prima o poi nella ricerca della conoscenza. Io posso amare l’altro soltanto nella misura in cui lo conosco, perché soltanto nella misura in cui io lo conosco saprò sempre meglio ciò che veramente gli fa bene, e soltanto la conoscenza oggettiva mi può dire ciò che veramente gli fa bene.

    Se io voglio amarlo disattendendo in chiave conoscitiva ciò che veramente gli fa bene, amo me stesso in fondo, godo il fat-

    ta rintuzzata, è stata messa quasi in un cantuccio – e oggi non vive nemmeno più in chiesa, vive nella sacrestia della chiesa! –, e il cammino della verità ha preso il primo posto. Così come il giovane che non è più un bambino tutto cuore, tutto sentimento, e comincia a usare la ragione – soprattutto i maschi –, e presen-ta una tendenza a una seconda unilateralità.

    La prima unilateralità è quella del sentimento, del cuore, della fede senza ancora l’altro polo della conoscenza, della scienza, del cammino del pensiero.

    Poi, si mette l’accento sull’altro polo e abbiamo la persona di 25-30 anni – soprattutto il maschio – che gode di questo elemento della scienza, della conoscenza oggettiva e quindi di questa autonomia dell’individuo pensante, e sorge una tenden-za a disdegnare la fede, le forze del cuore, il sentimento. Perché, in fondo, ci si dice che il sentimento è un fattore soggettivo, la fede è un fattore soggettivo, invece se vogliamo instaurare una comunanza umana, questa è possibile soltanto in base a un accordo conoscitivo sull’oggettivo, e quindi comunanza umana è possibile soltanto se rendiamo importante la verità oggettiva. La forza propulsiva della scienza naturale moderna addirittura ha fatto impallidire la forza della fede tradizionale.

    Tutti questi elementi sono elementi di disamina oggettiva, non sto dicendo che l’uno sia meglio e l’altro peggio. Non si tratta di questo. Il discorso è che se ci sono queste due unilateralità, probabilmente il terzo passo evolutivo è quello di fare o di cer-care sempre di nuovo una sintesi tra questi due elementi. Però, evolutivamente, c’è dapprima nella fase infantile il prevalere del sentimento, del cuore, della fede, senza ancora un’aspira-zione alla conoscenza, alla scienza oggettiva, all’accordo su ciò che è un fattore di verità vincolante per tutti.

    L’umanità è ancora in questa fase, anche se comincia a mo-strare sempre di più la sua unilateralità, c’è un innamoramento

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    verità e amore, potrebbe essere una scienza dell’amore – detto in modo aforistico.

    L’amore diventa scienza cioè conoscenza oggettiva, cioè si rende conto che non può esserci l’amore vero senza una cono-scenza sempre più profonda, sempre più oggettiva, sempre più penetrante, sempre più illuminata, e d’altra parte la conoscenza si rivolge all’amore perché si rende conto che non ci può esse-re vera conoscenza senza che si ami. Ogni essere umano è in grado di conoscere soltanto ciò che ama. Se io una cosa non la amo non sarò mai in grado di conoscerla, avrò frammenti di scienza, di sapere, su qualcosa, ma questo non è conoscere.

    Il conoscere nella sua profondità è il cogliere l’essere intimo di una cosa, l’essere intimo dell’altro, e cogliere l’essere inti-mo dell’altro è fattibile soltanto se lo si ama. Quindi, prima o poi, se l’essere umano non si ferma nel suo cammino si rende conto, capisce sempre meglio questo che io sto dicendo in un modo balbettante. Capisce sempre meglio che non esiste verità profonda, essenziale, senza l’amore, e non esiste amore vero, profondo, senza conoscenza, senza verità.

    Il godimento dell’esistenza, il godimento dell’essere uomini è proprio questo rincorrersi a vicenda, questo approfondirsi a vicenda della verità e dell’amore: più la mente diventa capace di verità e più il cuore diventa capace di amore, e più il cuore diventa capace di amore più la mente diventa capace di verità.

    Parlavo della scienza naturale, della scienza materialistica che se si rivolge soltanto alla conoscenza del mondo fisico, del mon-do esterno come fenomeno del secondo gradino; e se ora mi chiedete se conosco un fenomeno, un esempio paradigmatico del ricercarsi a vicenda tra la mente e il cuore, mi viene sponta-neo indicare un impulso sorto un secolo fa – molti di voi qui in sala di certo lo conoscono, e alcuni forse no. È questa scienza

    to che io voglio essere una persona che ama tanto, ma l’amore vero è fare ciò che è oggettivamente favorevole per la crescita dell’altro. E per fare ciò che oggettivamente favorisce la cresci-ta dell’altro lo devo conoscere, e lo devo conoscere sempre me-glio, e nessuno di noi può mai esaurire il conoscibile riguardo un’altra persona o riguardo alla natura umana.

    È nella dinamica stessa dell’amore che dà la natura, che più questo amore si approfondisce, più questo amore termina di es-sere puro auto-godimento e vuole essere veramente un servizio per la crescita dell’altro, e più si rivolgerà alla mente, si rivol-gerà al cammino di conoscenza, si rivolgerà allo sviluppo di coscienza che consente a chi vuole amare di conoscere sempre meglio l’essere che si vuole amare.

    Passando per il secondo gradino – che favorisce in un primo tempo il godimento della scienza e della conoscenza, dell’og-gettivo, a scapito del cuore –, si sfocia prima o poi nel terzo gradino dove la mente e il cuore (la verità dell’amore) si favo-riscono a vicenda, terminano di escludersi a vicenda e si favo-riscono a vicenda. Più amo e più posso cogliere la profondità reale, oggettiva di ciò che amo; e più c’è conoscenza del reale, più ho nella mia coscienza la verità oggettiva dell’essere che amo e più il mio amore si illumina e farà le cose giuste, le cose che veramente favoriscono, servono alla crescita dell’altro.

    Se la mamma col suo bambino è l’immagine del primo gra-dino, di un amore naturale, bellissimo, però ancora senza l’ag-giunta della dimensione della conoscenza, della ricerca della verità; se la scienza naturale moderna è un’immagine dell’al-tra unilateralità che ha disdegnato in modo vistoso le cose del cuore, le ha messe sotto accusa, le ha tacciate di pura sogget-tività – mentre l’amore è capace di profonda oggettività –, se la scienza che si mette contro la fede rappresenta l’immagine del secondo gradino, così il terzo gradino di questo rapporto di

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    ta sempre più pieno di gratitudine e più profondo. Anche per il parlare, quando noi parliamo vorremmo dire la

    verità, si tratta sempre di frammenti del reale, dell’oggettivo, si tratta sempre di verità o di parzialità o di menzogna, ecce-tera, allora in questa chiave Steiner dice – ma possiamo anche mettere da parte Steiner e guardare all’evoluzione umana, ai documenti che abbiamo, e ce ne sono di documenti:

    C’era una prima fase nel rapporto con la parola, e si trattava • del parlare bello: che quando si parla ci sia un’esperienza artistica del bello; Poi viene una seconda fase che cerca un rapporto anche • con la verità: è il parlare giusto, il parlare che dice la verità oggettiva;E c’è una terza fase nel rapporto • tra verità e amore nella nostra parola: è il parlare moralmente buono

    Nella lingua italiana per esempio, che vive ancora della lin-gua latina, c’è ancora, grazie soprattutto alle sue vocali, una bellezza in base alla sua sonorità. Ormai questo elemento pre-ponderante del bello nel parlare diventa sempre più anacroni-stico, però, siccome la lingua non la inventiamo oggi ma viene da un lungo passato, c’è soprattutto nella lingua italiana questo elemento del bello, del godimento del bello.

    Se prendiamo la lingua tedesca così consonantica, ostica, for-te, rude, fa a calci e pugni il voler fare l’esperienza di un parlare bello. La lingua tedesca rappresenta un secondo stadio della parola, del rapporto anche con la verità che è il parlare giusto, il parlare che dice la verità oggettiva.

    Nell’antico oriente fino alla Grecia gli esseri umani erano ancora, se vogliamo, in una fase maggiormente infantile, perché l’umanità è tutta in evoluzione. Tra l’altro, fase infantile non

    dello spirito che nella mia vita, da venticinque anni ormai, gio-ca un ruolo importantissimo, un certo Rudolf Steiner, pietra in un certo senso dapprima scartata, come deve avvenire a tutte le grandi pietre che portano impulsi evolutivi grandi. L’umanità all’inizio deve far fatica e quindi ci deve essere un certo rifiu-to iniziale, perché se venisse recepito subito, addirittura dalla massa, sarebbe un impulso piccolo. I grandi impulsi invece, quelli che varcano i secoli e quindi abbracciano vari secoli, è giocoforza che all’inizio si faccia fatica a recepirli – soprattutto i poteri stabiliti –, però con tutta onestà intellettuale volevo dir-vi che in questa scienza dello spirito di Rudolf Steiner io vedo proprio questo fecondarsi a vicenda della mente e del cuore: la mente si apre su orizzonti sempre più vasti e il cuore ama sem-pre di più una realtà che più amabile non ce n’è.

    Questo Rudolf Steiner, tra le tante cose che dice, esprime tre gradini nel modo di parlare e, in questi tre stadi evolutivi del linguaggio, sono di nuovo tre stadi evolutivi del rapporto tra verità e amore. A me piacciono veramente molto queste chiavi di lettura dell’evoluzione in cui ci troviamo, perché più noi com-prendiamo le leggi evolutive della realtà, e anche del cammino degli esseri umani, meglio comprendiamo la verità dell’evolu-zione umana in cui siamo inseriti, e più ce ne innamoriamo. Perché questa realtà è stata pensata in un modo così ricco, così bello, così profondo, che più noi riscopriamo la verità e più sen-tiamo amore. E quello che a me convince, ma in assoluto, del-la scienza dello spirito è proprio questo: chiavi sempre nuove sulla verità del reale, soprattutto un reale in evoluzione che ti porta – per forza, non puoi far altro! – a goderne sempre di più, ad amare sempre di più. E quindi è una specie di scienza sinte-tica che abbraccia sia il visibile sia l’invisibile, dove la mente, il cammino della verità, è senza fine, sconfinato; e l’amore diven-

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    che sia vero, che sia giusto, che sia oggettivo. Ed è bello, se vo-gliamo, perché è vero, è bello perché è oggettivo; è bello perché mi consente di cogliere il reale nella sua oggettività sempre più profondamente; è bello perché non m’imbambola, non fa addor-mentare il mio processo pensante, ma questo verbo che mi vie-ne incontro nella sua oggettività è fatto apposta per stimolare, per evocare in me la mia presa di posizione pensante. Parlare giusto, oggettivo, vero, non più bello.

    Quindi partiamo da un godimento artistico del bello nel risuo-nare del verbo; poi una seconda fase, un elemento di scienza: il verbo, la parola che esprime l’oggettività del reale; e quindi una terza fase – dopo il parlare bello, dopo il parlare giusto, vero, scientifico, oggettivo, reale –, che è il parlare moralmente buono, il parlare dove l’elemento scientifico del contenuto non è più la cosa più importante.

    Adesso voi mi chiederete: ma ci può essere una cosa ancora più importante che non l’oggettività scientifica del contenuto di ciò che si dice? C’è una cosa ancora più importante! È il parlare buono, il parlare in chiave di etica, non soltanto di scienza.

    Quindi, nel primo parlare: l’arte, l’esperienza artistica è al centro; nel secondo parlare è al centro la scienza, la conoscenza oggettiva; nel terzo parlare, il parlare morale, il parlare etico, il parlare buono non chiede soltanto se il contenuto di ciò che si dice sia giusto, sia vero. Non basta più. Questa terza forma di rapporto tra verità e amore nella nostra parola si chiede, se una persona dice una cosa in un certo contesto, come questa parola opera.

    Un conto è guardare al contenuto oggettivo che può essere verissimo, può essere insindacabile, può essere oggettivo, e un altro conto è guardare a ciò che questo parlare comporta nell’umanità, a come opera. Questo rendersi responsabili di ciò che il nostro parlare – che presuppone ancora di più l’oggettivi-

    significa più bella o più brutta, semplicemente è fase infantile: un bambino non è una cosa peggiore che non un adulto, però nell’insieme l’umanità è chiamata a evolversi sempre ulteriormente.

    Più andiamo indietro e meno c’era, in questa fase infantile, la capacità del pensiero, come dicevo prima. Non essendoci anco-ra la capacità del pensiero, che è nata appena appena in Grecia negli ultimi secoli prima di Cristo, c’era nel risuonare delle pa-role non la ricerca della verità rigorosa, oggettiva, per cui uno si diceva: no, non mi importa se tu sei bravo e eloquente, mi importa che tu sia oggettivo, che non cerchi di imbambolarmi con la tua retorica, che mi porti incontro qualcosa di scienti-ficamente oggettivo, un elemento di conoscenza che io posso gestire tanto quanto te. No. Non essendo ancora sorte queste forze del pensiero, di ricerca della verità gestita dall’individuo, soprattutto il parlare liturgico cultico era un risuonare del Ver-bo, della parola in cui l’animo umano, il cuore, godeva della sua bellezza.

    Arriva la seconda fase, la mente si risveglia – così come nella fase della pubertà la mente si risveglia –, gli esseri umani co-minciano a pensare in proprio e cominciano a ricercare la veri-tà. Cominciando a ricercare la verità, cominciando ad apprez-zare sempre di più il pensiero gestito dall’individuo, il parlare bello recede, diventa sempre più anacronistico – e oggi è più che mai anacronistico – e noi ci aspettiamo dal parlare che sia oggettivo, che esprima l’oggettività del reale. Che poi colui che parla, anche nelle nostre conversazioni più comuni, ci metta la sua personalità e il suo carattere, questo va bene, ma in sordina il contenuto di ciò che dice deve attenersi all’oggettività del rea-le, se non vuole offendere la dignità pensante di chi ascolta.

    La scienza moderna è sorta parallela all’impulso dell’umanità di un parlare, di un verbo, di un’articolazione del significato

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    stato seguire certi giornali soprattutto di lingua inglese o ame-ricana, per esempio l’International Herald Tribune, che forse qualcuno di voi legge. Fino a qualche anno fa c’era un occhio ai contenuti, e quindi se il giornale aveva una certa linea, l’altra campana aveva poca possibilità di farsi sentire, di avere voce in capitolo. Adesso il contenuto astratto è diventato così insigni-ficante che capita sempre più spesso che sullo stesso giornale nello stesso giorno ci sia un articolo che dice delle cose, e un altro articolo che dice il contrario. Perché questo?

    Perché l’assillo della redazione non è più il contenuto, ma sono gli effetti che si vogliono conseguire nell’umanità. E se l’effetto che si vuole conseguire nell’umanità è di creare l’im-pressione che non esista una verità oggettiva, che ognuno ha solo le sue opinioni, basta stampare in una pagina tutta una bella dimostrazione e anche il suo opposto, in modo che il let-tore dica che una verità oggettiva non esiste e che ognuno può fare ciò che vuole.

    Se si tratta, per esempio, di esprimere un parere sulla natura del potere, uno la pensa così e l’altro la pensa colà; essendo le opinioni così diverse, il potere fa quello che vuole e allora con-viene al giornale pubblicare sia una verità e sia la verità oppo-sta, tanto il giornale sa che la stessa verità in un certo contesto opera in un certo modo, e la stessa verità in un altro contesto opera in tutt’altro modo.

    Questo guardare non soltanto alla verità in quanto elucubra-zione mentale, in quanto astrazione, in quanto contenuto puro e semplice, ma questo assillo di amore alla realtà che fa ca-lare delle verità in quanto enunciati astratti e si chiede cosa la verità stampata sul quel giornale, detta da quella persona, da quel presidente ecc. opera nell’umanità, questo passaggio da un rapporto con contenuti di verità puramente contenutisti-co, astratto, con l’intento di farlo calare nella realtà per vedere

    tà e quindi la verità del contenuto – comporta, aggiunge l’assil-lo morale, aggiunge l’occhio non soltanto al contenuto astratto, al contenuto universale, uguale in tutti i modi di ciò che si dice, a come si dice, ma guarda a come opera.

    E a questo punto del rapporto con la verità, la cosa più impor-tante non è più se una cosa è vera, la cosa più importante è se una verità viene detta al posto giusto, al momento giusto, nella situazione giusta. Perché, riguardo al secondo gradino, il con-tenuto è giusto, è oggettivo, non è una menzogna è una verità, ma detta al posto sbagliato, detta nella situazione sbagliata può avere delle conseguenze così negative, così deleterie che uno si chiede: a che serve che sia oggettivamente una verità?

    Quindi non basta più il rapporto con la verità tale per cui le cose che ci diciamo siano vere, l’amore aggiunge un altro impe-gno che è di natura morale, e si chiede: quando, dove, come e con chi ho il diritto, perché allora è veramente fecondo, di dire o non dire certe verità e quindi si pone la domanda non soltanto del contenuto di verità, ma del parlare o del tacere.

    Si pone il quesito che non tutte le verità si possono avere in tutti i contesti. Questo guardare al contesto karmico di verità che oggettivamente possono essere vere, ma che a seconda del contesto karmico possono avere un effetto positivo o negativo, è un terzo gradino di rapporto tra la verità e l’amore proprio in riferimento alla parola che ci scambiamo gli uni con gli altri.

    Due persone dicono la stessa cosa, e non è affatto la stessa cosa perché gli effetti che conseguono nell’umanità sono del tutto diversi. La stessa verità, la stessa frase dalla bocca di una persona causa certe cose nell’umanità, la stessa frase dalla boc-ca di un’altra persona in un altro contesto causa effetti opposti. E allora, a questo punto qui, a che serve che qualcosa sia ogget-tivamente vero nel suo contenuto astratto?

    Negli ultimi tempi una cosa che mi ha interessato molto è

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    soltanto questo, riassumo l’umano nella capacità di pensare e di volere. Se è una verità che essere uomini significa saper pensare e volere, allora un bambino piccolo non è un uomo, perché non sa né pensare né volere! E allora come la mettiamo con questa verità? È una verità che non serve a nulla, perché si mette lì in assoluto, perché lo stesso essere che a due anni ancora non sa pensare e non sa volere in proprio, venti, trent’anni dopo, sa ben pensare e volere in proprio. Quindi l’unica verità che c’è è di una realtà in continua evoluzione, ed essere veraci vuol dire mantenersi altrettanto vivaci e altrettanto in evoluzione come la realtà. Camminare con la realtà in evoluzione significa restare in connessione con la verità.

    Affermazioni di verità assolute, cosa sono? Sono pigrizie mentali, perché manca ancora questa capacità di tuffarsi nel reale, di lasciar perdere queste affermazioni così astratte che sono così stratosferiche che non servono, non aiutano a capire il reale. Fare sempre di meno affermazioni assolute, e diventare sempre più aderenti alla realtà, allora io parlo sull’essere umano in modo del tutto diverso.

    Dico tutt’altre verità quando parlo dell’essere umano di cin-que anni, e dirò tutt’altre verità – che non si contraddicono, sono solo diverse – quando parlo, quando articolo conoscitiva-mente e quindi veracemente la realtà di un ventenne. Non posso dire le stesse cose se voglio essere vero, se voglio essere verace, descrivendo la realtà di un bambino di cinque anni e se voglio descrivere veracemente, veramente, oggettivamente, la realtà di una persona che ha venti anni.

    Questa capacità di camminare col reale è ciò che noi chiamia-mo amore. L’amore è sempre per strada perché la realtà è per strada. L’amore è la forza, la capacità di intrufolarsi, di imme-desimarsi, di tuffarsi in ogni realtà per seguirne l’evoluzione dal di dentro, senza farne grosse teorie. Le grosse teorie sono

    come certi enunciati operano nella realtà degli esseri umani, è un passaggio da una pura e semplice verità astratta a un amore reale che si cura dei destini reali dell’uomo. Perché nessuno di noi può amare veramente l’umanità, i suoi simili, e amare anche se stesso senza occuparsi di come certe verità – che in teoria possono anche essere bellissime –, veramente agiscono, operano in un contesto in un certo senso, e in un altro contesto magari in senso opposto.

    Pilato chiede al Cristo: “Cos’è la verità?”1 Pilato aggiunge: “...Non sai che io ho il potere di tenerti in vita o di metterti a morte?” Ed è una domanda a cui il Cristo non dà una rispo-sta verbale, diretta. Il Cristo risponde tacendo. Perché questa domanda – cos’è la verità – in fondo è una domanda teorica, perché la domanda sulla verità non è una domanda che riguarda il contenuto teorico di una verità, la domanda vera è: che cosa una verità enunciata opera, che cosa comporta, che conseguen-ze, che effetti mette in moto nell’umanità?

    Se è vero che la verità è l’amore della nostra mente per il reale e quindi la verità è impegno conoscitivo della nostra mente, e se è vero che la realtà che noi vogliamo conoscere con la nostra mente è in evoluzione, allora anche la verità del reale è inesau-ribile e sempre in evoluzione.

    Se la realtà dell’umano che noi vogliamo conoscere in verità è veramente in evoluzione, non ci possono essere verità assolute, non ci possono essere verità che valgono sempre.

    Prendiamo una verità sull’uomo: voi pensate che sia vero, che sia oggettivo e non falso, e non un errore dire: “l’uomo è quell’essere che sa pensare e volere”? Come realtà astratta certo che la possiamo accettare – non dico che l’essere umano faccia

    1 Cfr. Vangelo di Giovanni 18, 38-39

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    quanto bellissimo sia questo sistema – perché se uno lo studia, per la mente è veramente qualcosa di accattivante –, però mi stacca dalla realtà. Vado in brodo di giuggiole in questo bel-lissimo sistema, chiuso, ferreo, argomentativamente perfetto, però non ha nulla a che fare con la realtà. Un giorno fu chiesto a Hegel: signor Hegel, e se la realtà fosse diversa dal suo siste-ma? E lui rispose: tanto peggio per la realtà! Chiarissimo il discorso, detto tutto!

    Il grande passo avanti rispetto a Hegel io lo vedo nella scienza dello spirito di Rudolf Steiner che si proibisce in chiave cono-scitiva di voler diventare sistematica. La scienza dello spirito è proprio la proibizione sistematica assoluta di ogni sistema, per-ché il sistema chiude. Invece questa scienza dello spirito è un amore tale al reale che vi si tuffa. In ogni conferenza di Steiner ci si tuffa nel reale.

    Se noi prendiamo soltanto un panorama, un paesaggio, ma voi pensate che sia esauribile? Lo si può vedere, considerare da infiniti punti di vista! La ricerca della verità diventa più umana quando l’amore alla realtà fa calare una verità astratta – che vuol dominare la realtà – nel reale, e usa la mente, la conoscen-za, la coscienza per tuffarsi nel reale.

    La mente definisce il reale, lo mette in riga, lo vuol domi-nare. Il cuore descrive aspetti sempre nuovi. La scienza dello spirito di Steiner non definisce nulla: descrive, descrive, de-scrive. E così come la mente gode nel definire, il cuore gode della descrizione, questo sguardo che gioisce dell’inesauribilità del reale: ogni essere umano è inesauribile, ogni fenomeno è inesauribile, addirittura poi tutta l’evoluzione: un’inesauribilità di inesauribilità!

    Se la verità è la capacità di prendere sul serio il passato nella sua oggettività (che va studiata secondo le sue leggi oggettive),

    il nostro desiderio di potere. Nelle grosse teorie noi vorrem-mo esercitare il nostro potere sul reale, vogliamo controllare il reale, la scienza moderna fa teorie sulla realtà perché la vuole controllare.

    L’amore non ha bisogno di controllare il reale perché lo ama, allora lascia via queste teorie che vogliono dominare il reale, acchiapparlo, farlo proprio in modo da poterlo gestire.

    La teoria vuol gestire il reale, invece l’amore è capace di infi-nite trasformazioni.

    La mente tende a decretare sul reale, il cuore, l’amore si me-tamorfosa con la realtà. La mente vorrebbe dettar legge al reale, vorrebbe dettare le sue leggi al reale come voleva Immanuel Kant2, invece l’amore si fa dettare dal reale le leggi evolutive. Questo però, non significa che io stia avocando una specie di irrazionalismo, è un modo più profondo di cogliere il reale, di rendersi conto quando cominciamo a fare astrazioni, terminare di fare astrazioni – quando astraiamo ci stacchiamo dalla realtà –, per restare sempre aderenti al reale. E se restiamo aderenti alla realtà non avremo mai un “sistema compiuto”.

    Il grande pensatore Hegel3 è stato l’ultimo che ha compiuto questo sforzo energumeno, sovraumano, di instaurare “un si-stema” di verità in base al quale la mente umana soggioga la realtà. E l’umanità che cosa ha fatto dopo Hegel? L’ha lasciato lì, manco era morto è sorta la destra hegeliana, la sinistra hege-liana per cui gli esseri umani si sono detti: ma, sarà pure un bel sistema, ma a che ci serve un sistema, quando la realtà è tutt’al-tro che sistematica! Sarà un bel sistema, ma questa umanità così complessa, così infinita, che scappa da tutte le parti...

    Allora come reazione a questo Hegel, ci si rende conto che per

    2 Immanuel Kant, Königsberg 1724 - 18043 Georg Wilhelm Friedrich Hegel, Stoccarda 1770 - Berlino 1831

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    dà ciò che è calcolabile, alla sicurezza che dà ciò che è legge di natura nei confronti della quale mi posso fidare – perché il sole, per esempio, non si farà venire in mente domani di tramontare o di sorgere mezz’ora prima –, la conoscenza della verità ogget-tiva del mondo si è innamorata talmente delle leggi oggettive, perché sono affidabili, perché sono oggettive, che nell’umanità di oggi c’è un’enorme paura di ciò che non è soggiogabile dal-la mente umana. E in fatto di legge oggettiva, di legge ferrea, l’umanità di oggi vive della paura della libertà.

    Soltanto il cuore, soltanto l’amore apre e dà fiducia alla li-bertà, non la mente scientifica. La mente scientifica è fatta per innamorarsi di ciò che è calcolabile, di ciò che è affidabile, delle leggi che non si scardinano. Di queste leggi abbiamo bisogno, perché se non avessimo questo sostrato di affidabilità la liber-tà non potrebbe realizzarsi. Però, cari convenuti, è un mondo non bello, un mondo in cui c’è soltanto questa dimensione del sostrato di natura delle leggi conoscibili in chiave di verità og-gettiva. Questo mondo del determinismo di natura anche in noi – nell’uomo, nella sua corporeità – si fa da suolo, da terreno fecondo il cui senso è di far sorgere l’elemento della libertà, l’elemento creativo, l’elemento in cui nessun essere umano è calcolabile o programmabile, perché ogni essere umano è chia-mato a essere del tutto diverso dagli altri.

    Le leggi di natura – e anche le leggi valide per tutti che sono l’elemento di base oggettiva – sono come il suolo sul quale cre-scono fiori e piante tutte diverse. L’umanità di oggi con la sua scienza naturale che vuol dominare le leggi deterministiche che reggono il dato di natura è come un suolo sul quale ancora non sorgono fiori e piante, dove c’è soltanto il suolo. E si tratta di fare questo passo avanti che ci dice che questo elemento univer-salizzabile, generalizzabile delle leggi di natura, del determi-nistico, anche l’elemento delle nostre leggi sociali che devono

    così l’amore si proietta verso il futuro e favorisce lo sviluppo, favorisce il sorgere di ciò che ancora non c’è.

    In ogni persona ci sono due cose fondamentali che il cuore, l’amore, afferra meglio che non la mente: una sono i talenti, le potenzialità evolutive, le capacità... perché, le capacità, i talenti di una persona si possono studiare scientificamente? Se ne può fare una scienza oggettiva? Sì e no, perché un talento, una capa-cità, è una realtà in fieri, quindi il modo migliore di rapportarsi al talento dell’altro – o l’altro di rapportarsi a un talento mio –, è l’atteggiamento dell’amore che dà fiducia.

    L’altra realtà di cui si occupa il cuore e l’amore – più che la mente – è la libertà. Cosa vogliamo noi conoscere scientifica-mente che cosa combina la libertà umana… Se potessimo cono-scere oggettivamente, scientificamente, cosa combina la libertà umana, non sarebbe libera. Le leggi deterministiche della natu-ra si possono conoscere oggettivamente perché non c’è libertà, perché sono deterministiche, quindi il cammino della verità si riferisce maggiormente all’elemento deterministico della natu-ra. Invece nell’ambito dell’elemento libero della volontà umana, la scienza oggettiva delle leggi oggettive non serve a nulla. Ci vuole l’amore, quindi l’amore proietta l’essere umano verso il futuro nella sua realtà dinamica, nella sua verità di dinamismo evolutivo, e volge l’occhio in particolare verso tutti i talenti, tut-te le facoltà, le capacità intrinseche, assopite, dormienti nell’es-sere umano, in modo da tirarle fuori.

    Aristotele e Tommaso D’Aquino parlavano di potenzialità che vanno attualizzate, e in secondo piano – proprio perché essere uomini significa far sprigionare, realizzare sempre di più le nostre potenzialità evolutive –, l’amore è la capacità di dar fiducia alla libertà.

    La scienza moderna si è talmente abituata alla sicurezza che

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    che nel settore che più mi è congeniale per vedere di avvicinare le due tesi. E sono convinto, se mi consente un piccolo appunto, che ci sia spazio per questo e mi spiego come: lei ha fatto solo una citazione che le contesto in parte, quando ha citato la rigi-dità delle regole scientifiche. Questa è una visione vecchia di trent’anni fa. Oggi le più moderne teorie scientifiche rinnegano o perlomeno negano in una piccola trascurabile parte le leggi di Keplero che valgono fin tanto che non arriva un corpo estraneo che dimostra che non erano così esatte. Oggi si parla di sistemi complessi i quali sono dotati di proprietà tra i quali l’autorga-nizzazione, cioè la capacità di adattarsi all’ambiente e quindi alle evoluzioni più o meno libere delle singole componenti. Se come singola componente della natura noi mettiamo l’uomo, questa definizione scientifica lascia spazio alla libertà, cosa che la visione deterministica che lei ha citato non lasciava, ma la stessa mancanza di libertà c’era nei catechismi di trent’anni fa, cosa che lei invece ha superato con questa definizione. Ecco che allora mi è piaciuta molto la sua posizione finale che io adesso approfondirò a casa, e mi son permesso di suggerirle questa visione sull’altro versante perché io vedo la verità come un asintoto della realtà cui, vuoi tramite la fede, vuoi tramite la scienza, è auspicabile e ipotizzabile che ci si avvicini sempre più.

    Archiati. Grazie per il contributo che è godibile. (Il relatore offre a questo punto una lunga risposta che non viene riportata perché acusticamente non udibile, così come la restante parte dell’ampio dibattito. NdR)

    avere un valore per tutti, questo elemento ha senso soltanto se si fa da sostrato, da conditio sine qua non. Certo, una condizione necessaria, però una condizione per ciò che è la realtà vera, il senso vero della vita, e su questo suolo di natura che ci abbrac-cia tutti sorga in ogni essere umano un fiore, una pianticella del tutto diversa da ogni altra.

    A che ci serve un mondo di leggi naturali e umane generaliz-zabili, se non siamo capaci di godere della varietà infinita degli Io che si individualizzano sempre di più? La mente, la ricerca della verità si innamora delle leggi oggettive; il cuore si inna-mora dell’Io unico di ognuno, di questo Io che non è program-mabile, che non va secondo leggi universalizzabili, questo Io di ognuno che mi porta incontro sorprese ogni giorno, questa realtà che non è conoscibile se non amandola e che non può sorgere se non per il fatto che noi l’amiamo.

    Facciamo una pausa poi, coloro che hanno ancora tempo e voglia, sono curioso di sapere che cosa hanno da aggiungere ancora ai miei pensieri. Grazie

    Intervento. Innanzitutto volevo ringraziarla perché questa sera tornerò a casa con due conoscenze nuove che non avevo, una visione religiosa della verità e della conoscenza che lei ha sintetizzato in due frasi: si conosce bene solamente ciò che si ama. E quell’altra un poco più sofisticata dove introduce il con-cetto di un rapporto dinamico fra amore e realtà, entrambi in continua evoluzione, che solo se si tengono dietro l’un l’altro possono assicurare questa corrispondenza. Questo fatto è mol-to importante per me, perché io mi considero uomo di scienza e pur avendo radici assolutamente cattoliche ho sempre lavorato su due piani diversi, e ho sempre creduto che Dio non potesse essere così bastardo da mettere in condizione l’uomo di dover rinnegare una parte di se stesso, e quindi ho sempre fatto ricer-

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    2. Verità e tolleranzaOgni uomo un punto di vi(s)ta

    Buongiorno a tutti! Riprendo un pensiero di ieri sera per poi affrontare il tema importantissimo della tolleranza. Il tema di questa mattina è verità e tolleranza, il tema di tutto il convegno è la verità e ci chiediamo cosa abbia a che fare la verità con la tolleranza.

    Un pensiero fondamentale di ieri sera – discusso in un modo molto interessante nel dibattito che a me è piaciuto molto di più che non la mia conferenza – era che la verità sull’uomo è il modo umano di cogliere il reale. La verità sulle altre creature la capiamo nella misura in cui comprendiamo la realtà sull’uomo, perché uomini siamo e non possiamo travalicare l’antropomor-fismo, ed è chiaro che tutto quello che diciamo, tutto quello che facciamo è un prodotto dell’uomo. Importante è che ci rendia-mo conto che l’assioma fondamentale, che non si può ulterior-mente fondare se non si vuole un regressum ad infinitum, è che uomini siamo, e partiamo dall’autoesperienza umana, questo è il punto di partenza: l’autoesperienza di essere uomini.

    Ieri lo dicevo forse nel modo di uno che si arrabatta e che lotta un po’ anche con il linguaggio. Infatti, un conto sono i pensie-ri che uno ha per la testa e che possono avere anche un certo livello di chiarezza, e un conto è lottare con il linguaggio per portarlo a un livello tale da poter esprimere il più chiaramente possibile quei pensieri. Ma sono due livelli diversi.

    Anche questa è una verità molto importante sull’uomo: un conto è il livello del pensiero, e un conto il venire alle prese con un linguaggio. Il pensiero, se vogliamo, viene gestito in un modo individuale anche se come contenuti è universale, però venendo alle prese con la lingua ci rendiamo conto che il lin-guaggio è una questione di intesa fra esseri umani.

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    Il pensare è il modo oggettivo umano di cogliere l’oggettività del reale. Ciò che si presenta come percezione esterna, risulta elemento di pensiero. La realtà, dove è più reale, dove è più og-gettiva? Là, fuori di me quando la vedo, o quando la penso? Il reale è reale a metà quando è fuori di me, quando non l’ho pen-sato. Il reale diventa del tutto reale quando a ogni percezione, che è una mezza realtà, aggiungo il concetto. E soltanto quando ho percezione più concetto ho la realtà.

    La verità sull’essere umano è che è colui che integra quella mezza realtà – quella sembianza di realtà che è la percezione –, col suo pensiero. L’essere umano è un essere che ha un modo tutto suo di creare il reale, e la conoscenza è un modo specifico umano di creazione del reale.

    L’altro pensiero fondamentale di ieri – come proposta, i miei pensieri per voi sono percezioni per provocarvi a prendere po-sizione in chiave di pensiero, e questo poi risulta nel dibattito che può diventare ancora più interessante che non il monologo del relatore che esprime dapprima i suoi pensieri –, era che la realtà o la verità sull’uomo è duplice, e cioè che l’uomo nel-la vita singola e l’uomo nell’evoluzione totale dell’umanità ha come due fasi.

    Una fase di conduzione dal di fuori: è la fase infantile, la fase di non autonomia di pensiero e di volontà. E poi nella vita e nell’evoluzione dell’umanità c’è una grande svolta e la verità fondamentale sull’essere umano è che l’essere umano si esperi-sce come chiamato, sente in sé la chiamata, il desiderio, l’ane-lito, l’intenzionalità a diventare sempre più autonomo nel suo pensiero e nel suo volere, e cioè a trasformare quella conduzio-ne dal di fuori – che è la conduzione del pedagogo, del genitore, della legge di Mosè – in una conduzione dal di dentro.

    Si parte, e bisogna partire, da una conduzione dal di fuori, però nell’autopercezione, nell’autoesperienza umana – è chia-

    Il linguaggio di un popolo non è una faccenda privata di una persona, e per farsi capire bisogna rispettare le leggi specifiche di quel certo linguaggio. Quando parlo in tedesco o in inglese ci sono tutt’altre leggi di espressione, di autoespressione che non nella lingua italiana.

    La verità è il modo umano di cogliere il reale, quindi la verità è il riflesso nella conoscenza umana della realtà, e quindi in un certo senso già abbiamo una polarità fondamentale che è ciò che noi chiamiamo la realtà, e il nostro modo di cogliere conoscitivamente nel pensiero la realtà, e questo la chiamiamo la verità, quindi la verità è la resa umana del reale in chiave conoscitiva.

    A questo punto c’è sempre qualcuno che si presenta e dice: ma se la verità è una resa, un modo umano di riflettere specu-larmente la realtà, allora è qualcosa di soggettivo. E già ieri ho accennato che ogni soggetto umano è un elemento oggettivo del cosmo, del mondo.

    In altre parole, soggettivo e oggettivo sono due categorie spa-ziali: ciò che è soggettivo significa che è dentro di me, e ciò che è oggettivo è fuori di me, ma dentro e fuori sono due categorie astratte, che non c’entrano nulla con la realtà. Dentro, dove? Nello stomaco? Nella mia cassa toracica? I miei pensieri, i miei sentimenti sono soggettivi perché sono dentro di me. Dentro è una metafora spaziale, che significa dentro? Oppure i miei pensieri sono dentro il mio cervello… Ma è grottesca l’immagi-ne! Dobbiamo renderci conto che sono tutte metafore, e che se questo ci serve per dire che c’è un livello oggettivo che è quello fuori di me, e un livello soggettivo quindi non oggettivamente vero che è quello dentro di me, e giungiamo a questo dogma così feroce che proibisce all’uomo di cogliere oggettivamente, nell’oggettività del suo pensare la realtà oggettiva, allora chiu-diamo baracca e burattini e andiamo a divertirci insieme…

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    un po’ alla volta, e l’affermazione fondamentale del cristiane-simo è che nel mezzo della storia dell’evoluzione umana – ed è il mezzo proprio perché questo evento, questo fatto storico-spirituale-mistico spacca in due in assoluto l’evoluzione umana – sta la decisione di tutti gli esseri divini di ritirarsi un po’ alla volta e di smettere una conduzione onnipotente di genitori, di educatori, una conduzione dal di fuori. Perché tutta la prima metà dell’evoluzione, che era una conduzione dal di fuori, ha senso solo se tale conduzione si ritira, e un po’ alla volta ogni essere umano acquisisce sempre di più responsabilità della pro-pria libertà in chiave di pensiero, nel senso che deve farsi i suoi pensieri sugli eventi del mondo, sul fatto umano, e in chiave di volontà nel senso che ognuno deve prendere sempre più respon-sabilità delle proprie azioni.

    Detto in senso religioso: tutti gli esseri divini – in prima per-sona il Padreterno che paternamente conduceva una umanità bambina – hanno compiuto la svolta dell’evoluzione ritirandosi e facendo posto a un altro elemento divino, che noi, nella fase incipiente della coscienza, chiamiamo Cristo. Nella fase inci-piente della coscienza, del prendere coscienza di questo feno-meno, noi lo personalizziamo, quindi parliamo di un Cristo, parliamo del Figlio di Dio come se fosse una persona umana, ma è un impulso cosmico: la divinità finisce di gestire l’umano e immette forze di conoscenza individuale, forze di volontà e di libertà individuale, e dove la divinità decide di non condurre più onnipotentemente l’essere umano dal di fuori, ma decide di far spazio alla libertà umana, di godere il rischio e gli abissi della libertà umana, questa divinità non agisce più con l’impul-so dell’onnipotenza ma con l’impulso dell’amore.

    Da quando la divinità ha deciso di compiere questa svolta, il Padre onnipotente si è ritirato e ha fatto spazio ad altri esseri divini, o un’altra manifestazione della divinità che è di figlio-

    rissima per ogni essere umano che si conosce nella sua verità –, c’è l’aspirazione a trasformare ogni conduzione pedagogica iniziale dal di fuori in una conduzione dal di dentro.

    Il senso di ogni pedagogia è di rendersi superflua, e il maestro migliore è colui che si rende al più presto superfluo, perché al-lora ha fatto il compito giusto di portare il suo allievo al punto di potersi gestire autonomamente.

    L’essenza del cristianesimo è proprio questa affermazione fondamentale sull’umano che la conduzione divina, o di natura se volete, è duplice, non semplice: c’è una conduzione paterna, di un Dio paterno, di un Dio genitore, di un Dio pedagogo dal di fuori, però questo Dio o questa natura – o chiunque abbia architettato la natura umana – ha fatto in modo tale che questa conduzione divina paterna o di determinismo di natura che de-termina l’uomo dal di fuori, col passare del tempo si ritrae per far posto alla libertà umana.

    Se questa svolta evolutiva da una conduzione dal di fuori a una conduzione dal di dentro è l’essenza della natura umana – e lo è, è la verità fondamentale sull’uomo –, significa che anche la conduzione divina, se ha fatto la natura umana così, deve avere una prima fase di onnipotenza paterna, del genitore che deve gestire il bambino umano perché non è ancora capace di gestir-si da solo, però questa gestione paterna onnipotente, di legge di natura dal di fuori, è destinata a ritirarsi, a farsi da sostrato, da fondamento per l’emergenza della libertà individuale.

    L’essenza del cristianesimo è l’affermazione fondamentale che il cristianesimo bambino finora ha capito ben poco – ma anche questo fa parte dell’evoluzione – che lo stesso cristia-nesimo, la stessa comprensione umana di questa svolta insita nella natura umana, parte incipientemente e conoscitivamente si acquista soltanto un po’ alla volta: l’essenza del cristianesimo comincia a venir recepita nella coscienza umana soltanto ora,

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    – e devono essere possibili se dobbiamo essere liberi – abissi ultimi della libertà umana, deve avere una forza morale, una grandezza morale infinita. E non interviene, si proibisce di in-tervenire anche là dove l’essere umano si distrugge nella sua libertà. Nella libertà deve essere compresa la possibilità di au-todistruzione, perché se volessimo togliere all’essere umano la possibilità di autodistruzione dovremmo togliergli la libertà.

    Queste riflessioni in chiave di ciò che è il tema di questi gior-ni – qual è la verità sull’uomo, qual è la vera natura dell’uomo: l’uomo è un essere in evoluzione e questa evoluzione è duplice. Una prima fase infantile di conduzione dal di fuori, la svolta tra la storia prima di Cristo, e la storia dopo Cristo – il cosiddetto Vecchio Testamento e il Nuovo Testamento. Il senso dell’evo-luzione è questa transizione, questa svolta dalla conduzione dal di fuori alla conduzione a partire dalla propria libertà. Ovvia-mente, se uno chiedesse quando è avvenuta questa svolta, la svolta, cari amici, deve avere due aspetti fondamentali:

    un aspetto fondamentale è oggettivo, storico, valido per • tutti; e l’altro aspetto fondamentale è individuale, nella libertà • di ognuno.

    E allora qui la domanda è: Quando e come io compio dentro di me la svolta evolutiva che mi fa passare da una gestione dal di fuori – dove io aspetto dal padre spirituale, o dalla Chiesa, o dallo Stato, o dal capo della mia ditta che mi dica cosa devo fare –, quando avviene in me questa svolta evolutiva per cui io prendo in mano, io, individualmente i destini della mia evolu-zione col mio pensiero, con la mia volontà?

    Il livello oggettivo, storico, umano della svolta evolutiva sta nel fatto che a un certo momento dell’evoluzione – e l’afferma-

    lanza di questo Padre, e che non gestisce l’essere umano dal di fuori ma lo ama nella sua libertà e lo lascia ai destini della sua libertà.

    La parabola del “Figliol prodigo” racconta in un modo così sconvolgente che questo padre al figlio più giovane – quindi a una umanità non vecchia del paradiso perduto, ma all’umanità più giovane, più recente, più moderna (il figlio più giovane rap-presenta l’umanità più avanzata nell’evoluzione) – dice: figlio mio, ecco qua la tua parte. Vuoi andare da casa? Ma è proprio questo il senso dell’evoluzione: l’affrancamento da ogni condu-zione dal di fuori e l’acquisizione della capacità di orientarsi nel mondo con la forza del proprio pensiero e di assumere respon-sabilità nei confronti delle conseguenze su tutta l’umanità e su tutta la Terra delle proprie azioni.

    Questa è la verità sull’uomo: l’uomo è stato creato così che va gestito dal di fuori finché è bambino, sia nella vita singola sia nell’evoluzione dell’umanità, ma poi è nella sua natura di aspi-rare alla libertà, all’autonomia individuale interiore. E questa autonomia individuale, interiore la si può far sorgere soltanto amandola di sicuro, non gestendola di nuovo dal di fuori.

    L’affermazione fondamentale del cristianesimo è che noi da duemila anni viviamo in una gestione divina dell’evento umano che non mette più in primo piano l’onnipotenza divina, perché l’umanità nel suo insieme non è più bambina, e sempre di più si ritira, volutamente, per amore alla libertà dell’essere umano.

    Si ritira sempre di più questa gestione divina dal di fuori per far posto alla libertà umana. E amare l’essere umano significa avere la forza morale di accogliere anche gli abissi della libertà. Colui che ha paura degli abissi della libertà umana non può amare l’uomo perché farà di tutto per proteggere e quindi per decurtare questa libertà. E Colui che divinamente ha concesso tutta la fiducia alla libertà umana accettandone anche i possibili

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    sendo la verità sull’uomo non mai assoluta – perché ogni uomo è in evoluzione –, ed essendo la verità sull’uomo duplice – nel senso che dovunque c’è l’elemento infantile ci vuole una condu-zione dal di fuori, e dovunque c’è l’adulto ogni conduzione dal di fuori è nociva, è immorale –, sorge il quesito: cosa significa tolleranza?

    Tolleranza significa tollerare la fase bambina dell’essere uma-no amandola con la gestione dal di fuori, e tollerare soprattut-to la fase adulta dell’essere umano, e la fase adulta dell’essere umano la si tollera soltanto rifiutandosi di gestirla. L’autonomia dell’individuo adulto la si può tollerare soltanto non gestendola dal di fuori, perché altrimenti non è autonomia. Nella misura in cui si tenta di gestirla dal di fuori se ne lede l’autonomia.

    C’è un elemento di interazione, di transazione tra esseri uma-ni che è per natura non lesivo della libertà, e quindi che tollera l’autonomia di ogni essere umano? E c’è un elemento che per natura è lesivo della libertà? Sì c’è! Ed è in fondo molto sempli-ce, basta dirlo e ogni essere umano che capisce se stesso dice: sì è vero!

    L’elemento che è intollerante per natura, perché non tollera e mortifica la libertà, l’autonomia dell’individuo, è l’elemento di intervenzione sulla sua volontà e cioè ogni volta che si dice a un adulto cosa deve fare – devi, devi, devi –, questo dire all’adulto cosa deve fare è l’essenza dell’intolleranza perché non tollera la sua aspirazione a che egli stesso decida, liberamente, cosa vuole fare.

    L’altro elemento che è per natura non soltanto non lesivo, ma addirittura favorevole all’autonomia interiore, è l’elemento in cui la convivenza umana, l’interazione fra gli esseri umani si riferisce al pensiero, alla conoscenza. Quando l’altro mi offre spunti conoscitivi, cioè esprime pensieri suoi e tralascia di dir-mi cosa devo fare, io sono confrontato col suo pensiero. E di

    zione del cristianesimo è che questo è avvenuto duemila anni fa – sono state immesse nell’umanità tutte le condizioni della libertà. Quindi il concetto oggettivo di svolta evolutiva è che duemila anni fa le condizioni necessarie per la libertà sono por-tate a compimento.

    In altre parole, da duemila anni a questa parte non manca più nessuna condizione necessaria a nessun essere umano per ge-stire la sua libertà. Che l’individuo singolo capisca queste cose, che se ne avvalga, che veramente usi e coltivi la sua libertà questo è un fatto individuale, e questo risvolto individuale ci deve essere, altrimenti non avremmo la libertà.

    Quindi la svolta comporta due livelli fondamentali: uno og-gettivo, storico che è quello di immettere tutte le forze nell’uma-nità; e l’altro che è il concetto dell’essere Cristo, dell’essere cri-stico in quanto svolta interiore individuale e libera.

    I concetti sull’essere cristico e sull’evento storico vanno ri-spolverati, vanno reinterpretati in chiave adulta. È giocoforza che lo stesso cristianesimo, in quanto fattore di coscienza reli-giosa umana, cominciasse con una interpretazione un po’ in-fantile del fenomeno di svolta. Ora ci troviamo a voler interpre-tare questo fenomeno con una svolta interiore, con strumenti conoscitivi connaturali al fenomeno stesso. Quindi, se la svolta è offrire a tutti gli esseri umani gli strumenti necessari per la li-bertà, l’essere umano capisce e realizza individualmente dentro di sé e liberamente la svolta ogni volta, ogni giorno, e in ogni incontro in cui si comporta da individuo libero, creatore, che gestisce la conoscenza non per induzione o per suggestione dal di fuori, ma la gestisce in proprio, e quindi assume la responsa-bilità delle proprie azioni.

    Detto questo entriamo adesso nella disamina del fenomeno tol-leranza. L’affermazione fondamentale sulla tolleranza è che es-

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    a una conduzione dall’interno – che è insita alla dignità umana nella fase di autonomia interiore.

    Il senso positivo del pedagogo che vuol protrarre anacronisti-camente la conduzione dal di fuori, è quello della controforza evolutiva necessaria che va vinta. Nella fase infantile il peda-gogo è una forza positiva. Il pedagogo che non si ritira, e che vuol continuare a gestire l’essere umano dal di fuori diventa la controforza necessaria. E soggiacere alla controforza è il male umano, perché allora si omette proprio il bene umano supremo che è la libertà, che è l’autonomia, che è la responsabilità indi-viduale per ciò che si pensa e per ciò che si fa.

    C’è nel cosmo, nel mondo, un essere degno di assoluta tolle-ranza e questo essere degno di assoluta tolleranza è l’uomo, e ogni uomo. Ogni essere umano va tollerato in assoluto! Prima di tutto perché ha il diritto di essere così com’è, e in secondo luogo perché nessuno di noi è diverso da ciò che è. Ma quello lì è cattivo! Ma quello lì abusa della sua libertà! E chi di noi è del tutto buono? Chi di noi non abusa mai della sua libertà?

    Supponiamo che la divinità tolleri nel senso migliore della parola, lasci esistere, lasci in pace ogni essere umano nel suo cammino, e supponiamo che noi vogliamo imitare la divinità in questa magnanimità di fronte al cammino di ognuno.

    A questo punto sorge lo scoglio più importante, soprattutto per la conoscenza, perché di sicuro molte menti presenti qui in sala adesso staranno ponendo la domanda di tutte le domande: ma, allora, tu ci stai dicendo che bisogna tollerare tutto? Ma come è possibile una convivenza umana dove si tollera tutto? Vogliamo convincere un Bush che deve tollerare anche i ter-roristi? A questo punto, cari amici, è importante notare come, siccome la conoscenza, il pensiero si trova qui di fronte a una sfida che è tra le più micidiali che ci siano, c’è la tentazione di

    fronte al suo pensiero io non posso mai sentirmi manipolato se veramente ho la capacità – che però spetta a me sviluppare! – di prendere posizione col mio pensiero. Un individuo umano che gode del cammino di autonomia e di affrancamento sempre maggiore del pensiero, gode di ogni spunto, di ogni incentivo, di ogni aiuto che gli viene dal di fuori per diventare sempre più autonomo nel pensiero.

    Leggendo per esempio Rudolf Steiner, motivo per cui da 25 anni sempre di più me ne innamoro, è che lì è quasi impossibi-le, a meno che non si voglia stravolgere il fenomeno, è assolu-tamente impossibile diventare dipendenti da Steiner perché in ogni conferenza ti dà di quelle sberle che o ti svegli e pensi col tuo cervello, oppure lo lasci stare. Questa forza liberante che ti propone cammini conoscitivi che poi devi gestire tu, devi farli tuoi, devi masticarli tu o altrimenti non servono a nulla, proprio questo è l’elemento cristico, liberante, umano, di questa scienza dello spirito.

    Anacronistico, perché è un ritornare al registro evolutivo an-teriore alla svolta, è ogni volta che si dice agli esseri umani che cosa devono fare. Allora lì o c’è un papà, o c’è una mamma, o un pedagogo, un maestro o una maestra, che si mette in testa di essere adulto soltanto lui, e che gli esseri umani sono bambini e siccome non sanno quello che devono fare perché non capisco-no nulla in chiave di pensiero e in chiave di volontà non sanno ciò che son chiamati a fare, hanno bisogno – e avranno bisogno per tutta l’eternità, anche se hanno 80 o 90 anni – del papà Stato o della mamma Chiesa che dica loro cosa devono fare.

    Questa è una matrice culturale che non ha capito nulla del fe-nomeno umano che è strutturato con una svolta evolutiva. Svol-ta evolutiva che poi ci viene squadernata nella biografia di ogni essere umano che è quella di trapassare, proprio di capovolgere ogni conduzione dall’esterno – necessaria nella fase infantile –,

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    Se noi imparassimo l’arte di fare, di sperimentare cose senza ledere la libertà altrui, non ci sarebbe mai motivo di intolle-ranza, potremmo lasciar fare agli esseri umani tutto quello che vogliono. Il problema è che gli esseri umani conoscono troppo poco la sperimentazione in campi in cui non si lede la libertà altrui – perché sono campi di natura maggiormente spirituale o animica –, e in questa fase di materialismo quasi tutti gli es-seri umani vanno a cercare la libertà là dove la propria libertà lede quella altrui. Ci costringiamo, per salvaguardare più che possiamo la libertà, a intervenire continuamente e quindi a non tollerare questo, quest’altro e quest’altro.

    Mi sembra chiaro che se ad una persona salta in testa di pren-dere una pistola e sparare, mi sembra chiaro che non abbiamo il diritto di tollerare una cosa del genere. Ma non è che non tolleriamo lui, non abbiamo il diritto di tollerare il fatto che lui lede, uccide la libertà di tante altre persone, il fatto che lui non tolleri altre persone.

    Non va tollerato tutto ciò che diminuisce l’umano, proprio perché l’umano va tollerato in assoluto. Allora è essenziale che di volta in volta – dove noi interveniamo, e anche nei rapporti quotidiani – io porti a coscienza il motivo per cui non tollero il comportamento dell’altro, devo giustificarlo davanti alla mia coscienza: devo chiarirmi che se non riesco a evidenziare un elemento di intolleranza nell’altro – il fatto che lui non tollera o decurta la mia libertà –, non ho il diritto di non tollerarlo, qualsiasi cosa egli faccia. Ho il diritto di non tollerare soltanto quando posso dimostrare che tu stai ledendo la libertà altrui, ed è questo che non va tollerato. Questa interpretazione cono-scitiva della natura umana sminuzzata, proprio il portarla nel concreto e quindi esaminare i fenomeni, questo è il cammi-no della conoscenza e della libertà. Proprio a questo serve uno strumentario di pensiero del calibro della scienza dello spirito

    scappar via da questo compito così arduo del pensiero, e avan-zare subito delle emozioni. E se noi cominciassimo adesso la discussione, vedreste cosa salterebbe fuori! Allora dico: piano! Proprio in questo punto qui continuiamo in chiave di pensiero, in chiave di conoscenza.

    Allora il primo passo da fare è di dire: se è vero che ogni essere umano ha il diritto assoluto di venire tollerato nel suo essere – perché questo suo essere è ciò che lui è, e se noi non tolleriamo l’essere umano, allora siamo tutti non tollerabili e dovremmo far sparire tutta l’umanità –, c’è però una cosa che assolutamente non va tollerata, ed è l’intolleranza.

    Questo è il passo conoscitivo fondamentale che va fatto in chiave di pensiero, perché se io scavalco questa comprensione così netta, non riuscirò mai a trovare il bandolo della matassa complessa della tolleranza, che pone anche le basi della convi-venza umana.

    In altre parole, non soltanto abbiamo il diritto di non tollerare, ma abbiamo il dovere di non tollerare ogni volta che un essere umano non tollera e quindi decurta la libertà di un altro. Ma allora interveniamo e non tolleriamo il suo operato non perché ci sia qualcosa nell’essere umano che non va tollerato, ma per-ché vogliamo impedirgli il fatto che lui impedisca a un altro di essere se stesso. Quindi, l’unica cosa che non soltanto abbiamo il diritto di non tollerare, ma che abbiamo il dovere assoluto di non tollerare è ogni forma di intolleranza, perché ogni forma di intolleranza lede la libertà degli altri: io non intervengo a fermarti perché non ti tollero – non è questo il motivo –, non posso tollerare che tu non tolleri gli altri e che tu leda la libertà altrui. Se tu, nella tua espressione di te stesso, se tu nella tua evoluzione, qualsiasi cosa tu faccia non ledi la libertà altrui, vai tollerato in assoluto, non c’è nessun motivo di intervenire nel tuo agire.

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    alla larga se posso, perché anche ciò che io non tollero ha diritto all’esistenza.

    E qui naturalmente si prospetta l’altro risvolto che vedremo questa sera: verità o potere. Il potere è l’elemento di lesione della libertà, e allora lì vedremo il limite della tolleranza. Il limite della tolleranza è il potere che è lesivo per natura della libertà, perché non ogni esercizio di potere è per natura lesivo della libertà. Bisogna capirsi anche sul significato che diamo alle parole.

    Se ci sono delle condizioni necessarie per tutti per funzionare da esseri liberi – e sono le leggi del sociale – non va tollerato tutto ciò che infrange le condizioni che sono per tutti necessa-rie per vivere come individui liberi. E le leggi sociali sono ac-cordi, ci mettiamo d’accordo su ciò che tolleriamo e su ciò che non tolleriamo. E il criterio per accordarci su ciò che vogliamo tollerare e dove invece vogliamo intervenire con la mano destra della nostra polizia, ecc., il criterio per accordarci insieme – per cui questo lo tolleriamo e questo non lo tolleriamo –, il criterio è la libertà dell’essere umano, la dignità dell’essere umano. Ciò che per natura leda la libertà degli altri, per legge decretiamo, insieme, d’accordo, che non lo tolleriamo. Ciò che invece non lede per natura la libertà degli altri, faremo di tutto per poterlo tollerare. Una società fatta di individui intrisi di amore per l’es-sere umano tollera il più possibile.

    Qual è l’essere umano più tollerante? L’essere umano più tollerante è quell’essere umano la cui libertà non è lesibile. E quand’è che la mia libertà non è più lesibile? La mia libertà di-venta non più lesibile quando mi sta bene tutto. Quando mi sta bene tutto, non mi sento più leso nella mia libertà.

    Il fenomeno primigenio, il fenomeno archetipico dell’umano – il cristianesimo dice – è avvenuto, si è avverato 2000 anni fa. E qual è l’essenza di questo fenomeno? L’essenza di questo

    di Rudolf Steiner.

    Due persone fanno un accordo, un contratto fra di loro. La domanda è: dove arriva la tolleranza, e cosa non si può più tollerare? Faccio un esempio concreto: uno dei due contraenti, chiamiamolo la persona B, è il tipo che dà più peso alla com-prensione reciproca, alla remissività e di fronte alle scadenze – in ogni contratto ci sono delle scadenze, dei termini da rispet-tare – dice: … Ma sì dai, sono passate soltanto due settimane dalla scadenza! Ma io sono fatto così, perché non mi tolleri? L’altro, la persona A, è un tipo che dà più peso alla correttezza, al rigore, alla giustizia, al rispetto delle scadenze. Son due tipi diversi, cari amici! Hanno tutti e due diritto all’esistenza, no? Sono due strutture mentali diverse. A Roma dicono: che famo? Quello fa slittare di un mese, due mesi, non si presenta neanche, e che fa l’altro?

    Il mistero della tolleranza è che siccome ognuno di noi è quel-lo che è, il destino o il karma – chiamatelo come volete – è fatto così che ogni essere umano è come una calamita che attira il tollerabile, cioè il con-possibile con la sua natura, e restringe il non tollerabile. Cioè, ognuno di noi ha delle cose che tollera e delle cose che non è capace di tollerare... E va bene così? Certo che va bene così, una soluzione migliore non esiste! Quello lì che ha la struttura del remissivo è forse un farabutto? No, è fat-to diverso. Va forse tollerato meno che non l’altro?

    In altre parole, nella vita concreta sta a me – sta ad ognuno – vedere che cosa son disposto, o fino a che punto son disposto a tollerare, quali cose posso tollerare rispettando la mia libertà e quali cose non voglio tollerare perché ho l’impressione, magari ben fondata, che poi io non mi senta più libero. Ma difendere la mia libertà sta a me, e se c’è qualcosa che non posso tollerare perché è lesivo della mia libertà cerco di stargli

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    ti consente qui di fumare! Questa argomentazione è un’argo-mentazione pulita perché si riferisce all’accordo necessario su ciò che una società umana tollera o non tollera.

    Ogni società deve avere il diritto di decidere, e lo deve fare, che cosa tollera e che cosa non tollera, perché una società che non decide, che non ha nessuna legge che prescrive ciò che si tollera e ciò che non si tollera non è una società, è una giungla.

    La giungla non ha legge che dice questo si tollera e questo non si tollera: caro leone, la legge dice che questo animale lo puoi mangiare, e la legge dice che questo animale lo devi la-sciar stare. Nella giungla non c’è la legge. Adesso, con l’emer-genza della libertà, se non c’è un cammino di coscienza, di conoscenza (quindi anche un cammino di pensiero) che faccia pulizia nei vari livelli, avremo sempre più tipini che si mettono in testa che tolleranza significa che tutto va tollerato, e che uno è intollerante ogni volta che non permette una cosa. Ma questo è bambinaggio intellettuale! Però la soluzione non è di dire: allora torniamo ai tempi della dittatura dove il dittatore dice ciò che va tollerato e ciò che non va tollerato. Vediamo che c’è un cammino enorme di pensiero, di coscientizzazione da fare. Io sto soltanto indicando gli elementi fondamentali.

    A questo punto un altro passo avanti per capire sempre meglio, per raccapezzarci in questa matassa complessa della tolleranza, è la distinzione fondamentale che va fatta tra: l’uomo nel suo essere, e le sue azioni.

    Dobbiamo distinguere tra un giudizio che noi facciamo sull’uomo, e un giudizio che facciamo sulle azioni che egli compie. Distinguiamo tra un giudizio sull’uomo – che poi vie-ne chiamato giudizio morale –, e un giudizio sulle sue azioni – che è un giudizio conoscitivo, perché un giudizio sull’azione è un giudizio oggettivo che dice l’oggettività dell’azione, ma

    fenomeno è la tolleranza assoluta, perché a questo fenomeno che viene chiamato il Cristo gli stava bene tutto, quindi poteva tollerare tutto. Poteva addirittura tollerare che lo mettessero a morte, e gli stava bene anche quello. Quindi, tollerante al mas-simo è colui che non ha nulla da perdere.

    “...Però dovrei intervenire perché l’altro sta facendo male a se stesso!” Piano, piano! Sono i genitori che intervengono quando il bambino sta facendo male a se stesso, l’adulto vuol decidere in prima persona cosa gli fa bene o cosa gli fa male. La Chiesa, secondo me, diventa sempre più anacronistica per-ché vuol continuare a decidere per gli esseri umani, anziché lasciare che siano loro a decidere ciò che fa loro bene e ciò che fa loro male.

    Uno sta pensando di darsi alla droga, supponiamo. Arriva qualcuno che gli dice: guarda che ti fa male… E l’altro dice: lo dici te! La libertà non è gestibile dal di fuori, va tollerata. Possiamo veramente dimostrare che dandosi alla droga lede di-rettamente la libertà altrui? Indirettamente, non direttamente – indirettamente lediamo tutti la libertà altrui, ci mancherebbe altro! –, e allora va lasciato al suo destino.

    Oppure uno sta fumando in uno scompartimento dove c’è tanto di “non fumare” e uno gli dice: Non possiamo tollerare che tu fumi, stai facendo male agli altri! Non dice stai facendo male a te stesso, dice: stai facendo male agli altri, quindi non va tollerato; e se lui dice: il problema è loro che sono intolle-ranti, non è mai stato provato che fumare faccia male! Allora, come la mettiamo? Ci salviamo soltanto se non argomentiamo dicendo ti fa male, ma argomentiamo dicendo guarda che c’è una legge. È il nostro accordo sociale che dice che in questo posto non ti è consentito fumare, e se tu lo fai io mi rivolgo alla legge. Ma allora non argomento con un ricatto morale che dice: fai male agli altri, ma gli dico guarda che c’è una legge che non

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    Cristo l’ha rintuzzato, gli ha detto: tu mi chiami buono? Come fai a saperlo? Come fai a sapere se io sono buono o no? Il Cristo l’ha respinto, e gli voleva dire: guarda che di buono, buono, buono ce n’è uno solo: il Padre dei Cieli ..., ed è tutto buono perché non si è mai fatto vedere. Il Figlio suo che si è fatto vedere, per qualcuno era buono, per altri era così un farabutto che l’hanno sbattuto fuori, quindi ci sarà stato qualcuno che lo riteneva non buono. Uno che mi sbatte per aria la sacralità del sabato per i giudei, lo chiami buono tu? L’hanno fatto fuori!

    Se vogliamo districare questa matassa della tolleranza dob-biamo distinguere tra giudizio morale sulla persona, e giudizio conoscitivo sulle azioni della persona. Tra l’altro questa distin-zione risale in un modo micidiale già agli scritti di Agostino – si vede già proprio questo inizio di presa di coscienza di fronte ai misteri della tolleranza, della libertà umana –, questa distin-zione necessaria tra un giudizio morale sull’essere dell’altro, e un giudizio conoscitivo sulle azioni nella loro oggettività, soprattutto nell’oggettività delle conseguenze che comportano nell’umanità.

    Pensavo a un esempio di tolleranza tra cristianesimo e isla-mismo, la tolleranza tra razza e razza, tra popolo e popolo, tra religione e religione. Adesso in Germania e Francia c’è la discussione: nelle scuole è permesso il velo musulmano o non è permesso? Sono lotte conoscitive sul mistero della tolleranza. Che cosa è tollerabile? Anni fa c’è stata una discussione fe-roce sul crocifisso nelle aule di scuola, con la Baviera che difendeva questo rimasuglio di cristianesimo incipiente. E adesso, quest’altro mezzo simbolo religioso del velo portato dalle donne.

    Un fatto di fronte al quale io ho preso posizione nell’ultimo anno e mezzo – riassumo un esempio che possiamo anche eser-citare nella discussione, dove diventa importante la domanda

    soprattutto ne esprime l’operare oggettivo nell’umanità. Ora, quando io dico: questa azione ha questa natura, si trat-

    ta di questa azione e questa azione comporta questi effetti nell’umanità, questo non ha nulla a che fare con un giudizio morale, sulla moralità dell’attore di questa azione. Quindi, ogni giudizio conoscitivo sulle azioni degli esseri umani e sui loro effetti, è benvenuto. Più ne abbiamo di giudizi conoscitivi, e meglio è. Invece, già accennavamo ieri sera, ogni giudizio mo-rale sull’essere umano è impossibile, perché nessuno di noi co-nosce l’interiorità di un essere umano.

    Il Vangelo, il fenomeno della svolta dove ci poniamo di fronte alla sacralità della libertà di ognuno, dice: non giudicate, ma si riferisce al giudizio morale sull’essere dell’altro.

    La scorsa settimana avevo un convegno a Berna e portavo questo esempio: supponiamo che l’evoluzione morale vada da 0 a 100: 0 è proprio lo 0% di moralità, è il caso di un farabutto, ma a 0% non c’è nessuno; 100% è la perfezione della moralità, e nessuno di noi è al 100%. Siamo tutti per strada tra il 20 e l’80. Supponiamo che una persona sia evoluta moralmente a un punto tale che si trova a 70 di moralità, e un’altra si trova a 40. Chi è migliore? Non lo sappiamo! Perché se questa persona che è a 70 – quindi si comporta bene, è buona, ecc… – è un pol-trone (perché se non poltrisse potrebbe facilmente essere a 75), essendo un poltrone moralmente, non è moralmente più evoluto di chi sta a 40 perché ce l’ha messa tutta perché se poltrisse, sarebbe a 30. Quindi è a 40 perché ce l’ha messa tutta (tutta la capacità di moralità che lui ha), e quell’altro è a 70 perché poltrisce. Allora chi è migliore agli occhi di Dio, se volete dire così? Noi non lo possiamo mai sapere!

    Una volta sola è stato detto al Cristo: “Maestro buono”...4 Il

    4 Cfr. Vangelo di Marco 10, 17-18

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    ca rovinare l’umanità perché la conseguenza onesta sarebbe di negare a ogni individuo la sua libertà umana. Questa è stata la mia presa di posizione! Ci sono stati fior di antroposofi che han-no detto: “Archiati è troppo rigido, dogmatico, intollerante”.

    Io non tollero la rovina dell’umanità, e se fossi anche il solo, sento ancora di più il dovere di farlo! Però se vogliamo anda-re avanti nel cammino dell’umanità, dobbiamo renderci conto, portare a coscienza questi fenomeni macrocosmici, enormi, che succedono nei nostri tempi. Perché poi le persone volevano ricattarmi dicendo: “lui non tollera le convinzioni degli altri”, ma non si tratta di questo. Non si tratta affatto di questo. Io dico: guardiamo alle conseguenze, guardiamo cosa salta fuori nell’umanità se questo equiparare prende piede tra sempre più persone. E se la presidenza della società antroposofica stam-pa questa affermazione e la rende operante in tutto il mondo, contribuisce alla cancellazione nell’umanità dell’amore per la libertà individuale. Se propugna questo pensiero che dice: spi-rito del cristianesimo e spirito dell’islamismo è la stessa cosa… Povera umanità!

    Un altro esempio – il primo era quello della tolleranza tra cristia-nesimo e islamismo, tra la convinzione che l’essenza dell’umano è l’emergere de