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SUPPLEMENTO AL NUMERO ODIERNO A CURA DI www.lanazione.it 150 ANNI di STORIA ATTRAVERSO LE PAGINE DEL NOSTRO QUOTIDIANO Sarzana

LA NAZIONE 150 anni SARZANA

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La Nazione, 150 anni di storia.

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Page 1: LA NAZIONE 150 anni SARZANA

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SUPPLEMENTO AL NUMERO ODIERNO A CURA DIwww.lanazione.it

150 ANNI di STORIAATTRAVERSO LE PAGINE

DEL NOSTRO QUOTIDIANO Sarzana

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sommario4

Così nacque in una sola notteil giornale di Bettino Ricasoli

7Cronache fra ‘800 e ‘900Sarzana su La Nazione di oltre un secolo fa

9PontremoleseLa storia infinita della ferroviache ci unisce all’Emilia

11Era il 7 settembre del 1920Il terremoto distrusse FivizzanoTerrore da Pisa alla Lunigiana

13“I fatti di Sarzana”21 luglio 1921: quando i carabinieri spararono sui fascisti

14Vizzardelli: storia e delittidi un serial killer sedicenne

17Mussolini: “Siamo in guerra”E un pazzo spara ad Angelo Lucri

18Erano cinque copie (invedute)e con Ruggeri divennero 5mila

19Giornalisti per casoo per passione

21A Natale un “Presepe senza Stella”Così Sarzana mantenne il seminario

23Fiamme fra le canne sul VialoneIl delitto rimarrà un mistero

25È il 1968 e crolla, in “diretta”il secolare ponte sul Magra

271969 - 2009Compie 40 anni l’autostrada che ci ha collegati all’Europa

28Bertolla: così vive (così muore)un vero poeta e giornalista

30La guerra di Ca’ Gaggino:un’oasi di verde salvata dai rifiuti

Supplemento al numero odiernode LA NAZIONE a cura della SPE

Direttore responsabile:Giuseppe Mascambruno

Vicedirettori:Mauro Avellini Piero Gherardeschi

Direzione redazione e amministrazione:Via Paolieri, 3, V.le Giovine Italia, 17 (FI)

Hanno collaborato:Egidio BantiNatalino BenacciEmanuela Rosi

Progetto grafico:Marco InnocentiLuca ParentiKidstudio Communications (FI)

Stampa:Grafica Editoriale Printing (BO)

Pubblicità:Società Pubblicità Editoriale spa DIREZIONE GENERALE:V.le Milanofiori Strada, 3Palazzo B10 - 20094 Assago (MI) Succursale di Firenze: V.le Giovine Italia, 17 - tel. 055-2499203

I fascicoli sono sfogliabili on line su www.lanazione.it

SARZANA150 anni di storia attraverso le pagine del nostro quotidiano.Non perdere in edicola il terzo fascicolo regionale che ripercorre, attraverso le pagine de La Nazione, la storia fino ai nostri giorni e i 17 fascicoli locali con le cronache più significative delle città.

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L’improvvisa notizia dell’armistizio di Villafranca. Le volontà, mai tradite, del fondatore de La NazionePerché il giornale non volle lasciare Firenze per trasferirsi a Roma capitale

La notizia dell’armistizio ar-rivò a Firenze nel pomerig-gio del 13 luglio e i patrioti

si riunirono in Palazzo Vecchio dove regnava la rabbia, il caos, la voglia di reagire ma anche un profondo senso di impotenza. E l’unico che dimostrò di avere le idee chiare, ben al di là della logi-ca, delle possibilità offerte dalla diplomazia, si rivelò Ricasoli che non poteva a nessun costo ac-cettare quanto stava accadendo. E infatti, lui guidava un governo toscano provvisorio con l’unico scopo di arrivare al plebiscito per l’annessione al Piemonte, e se fossero tornati i Lorena tutto sarebbe crollato. Sotto il profilo politico ma anche sotto il profilo personale. Così, dimostrandosi in quelle ore il vero artefice del Risorgimento, ancor più dello stesso Cavour che in qualche modo aveva gettato la spugna, Ricasoli spedì due ambasciatori a Torino e a Parigi per tentare di modificare le cose. Ma nello stesso tempo mandò a chiamare tre patrioti fiorentini, il Puccio-ni, il Fenzi ed il Cempini, che a suo tempo avevano proposto di stampare un quotidiano in ap-poggio alle posizioni del governo toscano, e disse loro: “È arrivato il momento, per domattina vo-glio il giornale.” E a niente valse-ro le timide proteste dei tre che, comprensibilmente, facevano notare come fossero già le nove di sera e come non sarebbe stato facile mettere insieme i testi e farli comporre in poche ore. Ma Ricasoli insisteva “O domattina o mai più.” E dette anche il nome alla testata “La Nazione”, che era tutto un programma, anzi, era il programma.

Nascere con l’Italia e accompagnarla, giorno dopo giorno, fino ad oggi.

Nessun altro giornale vanta questo primato. E infatti, se anche una testata, la Gazzetta di Parma, sicuramente è più antica di quasi 100 anni rispetto al giornale fiorentino, è anche vero che per lunghi periodi ebbe un altro nome, in altri sospese le pubblicazioni, e in ogni caso non svolse il ruolo fondamentale per l’Unità d’Italia che toccò al foglio di Bettino Ricasoli. Già, perché fu proprio lui, il “Savonarola del Risorgimento” come lo definiva Spadolini, a volere che il nostro giornale fosse in edicola, redatto e composto in una sola notte, alla notizia dell’armistizio di Villa-franca.

La storia è nota. L’11 luglio del 1859, nel pieno della seconda guerra di indipen-

denza, quando le truppe franco piemontesi avevano vinto batta-glie di rilevanza enorme, come quella di Solferino, e già si pensa-va come invadere e liberare il Ve-neto, all’improvviso francesi ed austriaci firmarono un armistizio ed i Savoia non ebbero la forza per opporsi. Lo fecero perché la Francia cominciava a temere un attacco da parte della Prussia che stava ammassando le sue truppe ai confini. Lo fecero, perché un’ Italia libera e indipendente pote-va anche andar bene alla grandi potenze europee, ma non doveva essere eccessivamente forte. E dunque, ecco che al Piemonte veniva concessa quasi per intero la Lombardia, ma il Veneto il Trentino e la Dalmazia restavano agli austriaci, mentre in Tosca-na sarebbero tornati i Lorena, e in ogni caso si ipotizzava una federazione di stati del Centro Sud sotto la guida del Papa. Alla notizia, Cavour, dopo uno scontro durissimo con Vittorio Emanuele si dimise. E l’unico a sostenere la causa dell’Italia da unire, restò in quelle ore il capo del gover-no toscano costituitosi dopo la partenza del granduca, Bettino Ricasoli appunto.

COSÌ NACQUE IN UNA SOLA NOTTEIL GIORNALE DI BETTINO RICASOLI

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Puccioni, Fenzi e Cempini presero una carrozza e si fecero portare in via

Faenza alla tipografia di Gaspare Barbera, un patriota piemontese arrivato a Firenze nei giorni in cui la città fu capitale, e qui co-minciò un lavoro frenetico a redi-gere i testi ed a comporli. Come nelle migliori tradizioni del giornalismo, redattori e tipografi lavoravano gomito a gomito. Un articolo non era ancora concluso e già la prima parte passava ai compositori. Un articolo non era del tutto composto – all’epoca non estivano le linotype ed ogni parola era composta a mano – e già si facevano le bozze per le correzioni della prima parte. Alle cinque del mattino Ricasoli si presentò alla tipografia, lesse le bozze e dette il consenso. Alle dieci, tirate pare in tremila copie, due pagine in mezzo foglio, oggi diremmo formato tabloid, erano in vendita nel centro cittadino.

Si trattava di un’edizione sen-za gerenza, senza il nome dello stampatore, senza il

prezzo, senza pubblicità. Prati-camente un numero zero. E così si andò avanti fino al 19 luglio quando, finalmente, La Nazione uscì nel suo primo numero uffi-ciale, con formato a tutto foglio, le indicazioni di legge, i prezzi per l’abbonamento e per la pubblicità. Così, dunque, nacque il nostro giornale. Che conobbe i giorni fausti dell’Italia Unita, e poi quelli pieni di problemi, non solo economici, in cui Firenze fu provvisoriamente capitale. Quindi la questione romana, la breccia di Porta Pia, e insom-ma tutte le fasi che con alterne vicende portarono alla nascita dello Stato italiano. Ma fu proprio con Roma Capitale che La Nazione dovette modifi-care il proprio tipo di impegno. Che fare? seguire il governo e il mondo politico fino a Roma, là dove si sarebbero svolte da allo-ra in poi tutte le vicende, e prese le decisioni relative all’Italia? La domanda fu posta ed era più che legittima. Nessun altro quotidia-no aveva il diritto di continuare le proprie pubblicazioni nella sede del regno e del governo italiano, più di quello che l’Italia aveva contribuito a farla nascere. Ma fu compiuta una scelta, che di certo non fu di tipo economico: restare. Restare a Firenze, accompagna-re la vita della città dove era

nata, e dedicare sempre di più le proprie attenzioni anche alla vita quotidiana, a quella che oggi diremmo la cronaca di ogni giorno. Insomma, da grande foglio risorgimentale carico di tensioni ideali, a giornale come oggi lo intendiamo. Con rubriche dedicate alla moda, allo sport, con grandi spazi dedicati alla vita musicale e teatrale. Con la disponibilità a condurre grandi battaglie nel nome e per conto di Firenze, che già allora viveva con naturalezza la sua doppia natura, ancor oggi visibile: quella di una dimensione provinciale aperta al mondo. Città universale e allo stesso tempo città dove pochi personaggi, e fra loro in costante conflitto, dominavano la scena. Rese possibile questa scelta di obiettivi un grande direttore, Celestino Bianchi. Che seppe conquistare il pubblico femmini-le, interessare anche la media e piccola borghesia mercantile, ma soprattutto richiamare intorno al foglio di Ricasoli le migliori firme italiane del momento. Che, del resto, già erano presenti su La Nazione, fin dai primissimi anni. E allora ecco il D’Azelio e il Tommaseo, ecco il Manzoni e il Settembrini, e poi il Collodi, il De Amicis, Alessandro Dumas, Capuana, il Carducci e in seguito anche il Pascoli, ed infinti altri. Grandi firme che sarebbero continuate durante il fascismo e nell’Italia repubblicana fino ad oggi. Da Malaparte a Bilenchi, a Pratolini, ad Alberto Moravia, a Saviane, a Luzi. Dopo aver ospi-tato Papini, Prezzolini, Soffici, e gran parte dei letterati delle Giubbe Rosse nel periodo che precede e che segue la grande Guerra.

Queste le scelte che permi-sero a La Nazione, pur do-vendo affrontare momenti

di crisi e di difficoltà, di battere ogni volta le testate concorren-ti. Se esisteva una difficoltà di vendita o addirittura di imma-gine, sempre riuscì a trovare gli uomini e le energie per risolle-varsi. Liberale infatti, fu sempre il quotidiano fiorentino, ma di un liberalismo illuminato che sa-peva aprirsi ogni volta ai temi di interesse sociale, e per farlo non esitava ad ospitare anche firme lontane dalle proprie posizioni. Così, quando si trattò di presen-tare ai fiorentini, e commentare, la nascita delle scuole serali, fu chiesto un articolo a un giovane e

rivoluzionario poeta, il Carducci. E fu tra i primi giornali, La Nazio-ne di Firenze, a porre sul tappeto il dramma del lavoro minorile, e a pubblicare le relazioni di Sidney Sonnino sulla condizio-ne dei bambini, quelli del Nord Italia che a sette anni lavoravano anche 13 ore al giorno nell’indu-stria della seta e quelli di Sicilia, costretti a starsene chini, senza luce né acqua, nelle solfatare di Sicilia. Ancora di più colpisce, per il giornale del Risorgimento, la moderazione con la quale fu seguita la questione romana e fu data notizia della breccia di Porta Pia. E infatti, mentre la retorica anticlericale si scatenava, creando con i suoi estremismi solo un effetto boomerang, La Nazione fu capace di analisi e di intuizioni che a distanza di 90 anni, con il Concilio Vaticano II, perfino il mondo cattolico avrebbe fatto proprie. Scriveva infatti il no-stro giornale: “Il potere temporale ha trattenuto il cattolicesimo fermo sull’idea imperiale pagana.” Del resto non era il Ricasoli religiosissimo?

E dunque, è in omaggio ad una visione laica delle differenze fra Stato e

Chiesa, una visione totalmente deducibile dai vangeli che si combatté quella battaglia, che non significava affatto compia-cersi di un assoluto anticlericali-smo ideologico, o ancor di più di una qualsiasi forma di ateismo conclamato. E ancora, quando si trattò di decidere se trasferirsi a Roma capitale, seguendo le sorti del governo e del re, la spiegazio-ne data ai lettori fu questa. “Noi non vogliamo che Roma attiri a sé tutta la forza intellettuale. Noi vogliamo che Napoli, Firenze, Bologna, Venezia, Milano, Torino, serbino la loro influenza legitti-ma, portino il peso nella bilancia delle sorti politiche nazionali. Ogni regione ha elementi origi-nali da custodire e nello stesso tempo è sentinella dell’Unità inattaccabile.” Una prosa intel-ligente, modernissima, attuale ancor oggi, 140 anni dopo.

Un atteggiamento che La Nazione conservò anche in epoche ben diverse. Così,

durante il fascismo, pur costretta come tutte le testate a pubblicare

le veline del minculpop, non per questo La Nazione si allineò mai totalmente al regime. Tanto da opporsi, allorché il Regime voleva imporre come direttori uomini di assoluta fede a Mussolini. E ospitare firme, come quella di Montale, il personaggio che per il suo antifascismo era pur stato “licenziato” dal Vieusseux. Uno stile, un modo di essere, che la premierà quando, pur con mille problemi tornerà alle pubblica-zioni nel 1947. E ancora, quando nel ’68 la realtà italiana dette segni di grande malessere e tutto il nostro modo di essere società fu posto in forse, La Nazione non esitò ad assumere giovani della più varia estrazione politica ed ideologica, anche con provenien-ze ben diverse da quelle liberali, perché contribuissero ad aiutare la direzione a interpretare quan-to stava accadendo. Erano i giorni del direttore Mattei ed ancor più del condirettore Marcello Taddei. La Nazione si poneva una volta di più il problema di come adeguar-si ai tempi. E se ciò le costò dei rischi, e dure minacce per alcuni dei suoi cronisti - quelli più espo-sti nei giorni del terrorismo - ciò non modificò la sua linea.

Alessandro Dumas (nella foto in alto) fu inviato speciale de La Nazione al seguito dell’impresa dei Mille.

Tre poeti tra le tante firme illustri de La Nazione: Alessandro Manzoni (nel ton-do), Giosuè Carducci e Giovanni Pascoli.

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Cronache fra ‘800 e ‘900

Sarzana su La Nazionedi oltre un secolo fa

SARZANA, 17 ore 21.- Stasera, alle 18,30, proveniente da Salso-maggiore, è qui giunta in automobile S. M. la Regina Margherita, accompagnata da S. A. il Duca di Genova, dalle sue dame marchesa Villamarina e contessa Oldofredi e dal conte Guiscioli.Per un guasto riportato nell’automobile sulla strada Parma – Sar-zana, a circa 10 km. di distanza dalla città, S. M. dovette fermarsi qui. Scese all’Hotel Italia, dove ricevette il sindaco avv. Lucri ac-compagnato dagli assessori Mosconi, Almajer e Neri; il Presidente del Tribunale cav. Nazzaro ed il Procuratore del Re cav. Tamburi; ed una rappresentanza delle Dame di Carità.A mons. Carli, nostro vescovo, inviò uno splendido anello; mon-signor Vescovo, accompagnato da mons. Raganti, si recò subito a ringraziare la Regina. Tutta la popolazione accorse ad acclamare S. M. che, assieme al Duca di Genova, si presentò più volte a ringra-ziare. La musica cittadina, durante il pranzo eseguì uno scelto programma; gli uffici pubblici e moltissime case furono imbandie-rate ed illuminate. S. M. si dichiarò più volte commossa e grata per la imponente e spontanea dimostrazione. S. M. la Regina pernotta all’Hotel Italia col suo seguito.

SARZANA, 7 ore 18,30 (P.) – I soci della “Società Dantesca”, le Autorità ed altri invitati, circa in 60, stamani furono ospiti nella magnifica Villa Caniparola, del marchese Alfonso Malaspina. Il ricevimento fu oltre ogni dire splendido. Si passò poi a visitare il Palazzo, la Biblioteca e l’Archivio, che contiene documenti notevolissimi. La colazione fu sontuosa. Il senatore prof. Del Lungo si alzò, interrompendo il con-vitto, per dar lettura del telegramma del Sovrano, che fu applaudito entusiasticamente. Eccovi il testo:“Racconigi, 7 ore 10,20. Con solenne adunanza ieri la Società Dante-sca Italiana, il locale patriottico Comitato hanno reso nuovo omaggio alla memoria del nostro maggiore Poeta. Ho ben gradito il saluto rivoltomi da lei e da coteste elette persone e lo ricambio a tutti, ag-giungendo cordiali ringraziamenti… Vittorio Emanuele”.Allo champagne brindarono felicemente il marchese Malaspina, il prof. Pio Rajna, il comm. Sforza, presidente del Comitato, il senatore D’Ancona, Filippo Crispolti, salutando il vescovo Carli, che rispose improvvisando affettuosamente. Chiuse il sen. Prof. Del Lungo. I convenuti, recatisi poi a Castelnuovo, inaugurarono la lapide comme-morativa, murata sopra i ruderi del castello dei vescovi di Luni, e par-larono ancora il Sindaco prof. Ferrari, il senatore prof. D’Ancona, tutti applauditissimi; quindi vi fu solenne ricevimento in casa del Sindaco.

Giovedì 19 maggio 1904UNA TAPPA IMPREVISTAPER LA REGINA MARGHERITA

Lunedì 8 ottobre 1906LE FESTE DI SARZANAPER IL SECENTENARIO DI DANTE

Sabato 20 gennaio 1894Di Ortonovo i capi della rivolta di Carrara

Leggiamo nell’Opinione: il ministro dei lavori pubblici invece di accordare la concessione della linea, ne ha solo affidato l’appalto e l’armamento, riserbando a sé l’esercizio… L’appalto abbraccia tutta la linea dal confine francese a Massa, dell’estensione di 275 chilometri… Gli appaltatori si obbligano compiere tutta la strada nel periodo di sei anni, ma il tratto da Voltri a Savona debb’essere terminato tra due anni, quello da Massa alla Spezia in 18 mesi, e da Massa sino a Sarzana soltanto in un anno.

Continuano gli arresti. Ad Ortonovo sono stati arrestati tre individui ritenuti capi dei fatti d’Avenza e dell’assassinio conseguente di un bri-gadiere dei carabinieri.

È morto a Genova, nella casa di un suo nipote, monsignor Giacinto Ros-si, vescovo di Sarzana, settantenne. Era un prelato dotto e simpatico per i suoi noti sentimenti liberali. Come è noto, intervenne più volte al varo delle nostre navi da guerra, per la benedizione.

Mercoledì 10 ottobre 1860Al via il progetto per la ferrovia del Litorale

Martedì 31 gennaio 1899Morte di un vescovo …simpatico e liberale

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di Natalino Benacci

Un secolo dopo il binario tri-ste e solitario della vecchia canzone punta al raddop-

pio. La storia dell’importante linea ferroviaria che collega Val di Magra e Lunigiana all’Emilia corre parallela alle cronache de La Na-zione con i suoi 150 anni di storia. La ferrovia Parma-La Spezia, lunga 120 chilometri, fu completata nel 1894 e fu un avvenimento storico, una grande rivoluzione per i territori emiliani, toscani e liguri. Già nel 1861 il Governo di Torino si impegna ad occuparsi della Parma-La Spezia e due anni dopo il comitato promotore presenta due progetti, Petrioli e Luciano.

Ma la terza guerra d’indi-pendenza e i conseguenti disagi sul piano economi-

co impediscono il “varoE. Diversi sono i progetti, ma non offrono quegli elementi necessari

Pontremolese

La storia infinita della ferroviache ci unisce all’EmiliaNell’Ottocento la grande battaglia che portò all’inaugurazione della strada ferrataDa 28 anni l’attesa del raddoppio dei binari

per poter programmare il costo effettivo dell’intera opera, perciò il Ministero decide di far redigere dall’ingegner Emanuele Artom uno speciale studio del tronco di linea fra Pontremoli e Borgotaro e della galleria del Borgallo. La proposta di legge per il tunnel ferroviario viene al Parlamento dal Ministro della Guerra (la linea aveva scopi soprattutto militari) nella seduta del 4 giugno 1873, ma non ottiene l’approvazione e viene rinviata in attesa del nuovo dettagliato progetto. In realtà le motivazioni del rinvio vanno ricercate nelle numerose pressioni esercitate da parlamentari che propongono ferrovie diverse e che tentano di smantellare l’importan-za strategica del porto di La Spezia.

La ferrovia Parma-La Spezia, 120

chilometri di binari, fu completata nel

1894. Si era comin-ciato a parlarne con

l’Unità d’Italia: il 1861.

Un corridoio che dovrà unire Berlino a Palermo. In questo grande progetto si inserisce il raddop-pio della ferrovia Pontremolese.

Se ne parla dal 1981 e ancora oggi, fra polemiche e mancanza di fondi, siamo lontani dalla realizzazione.

Verso la fine del 1874 l’ingegner Artom porta a termine il progetto di

tutta la linea Parma-La Spezia. Qualche mese dopo si costituisce a Parma un consorzio interpro-vinciale (Parma-Massa Carrara-La Spezia) presieduto dall’onorevole Torreggiani per promuovere una domanda di concessione della linea. Il progetto Artom permette di stabilire i costi: 36 milioni di lire non compresi gli interessi dei capi-tali impegnati durante la costru-zione e il materiale mobile.

Con la legge 29 luglio 1879, che autorizza la spesa di 1260 milioni di lire per la

costruzione di oltre 6000 km. di ferrovie, si sblocca anche la linea Parma-La Spezia che viene inserita al terzo posto di una lista di sette ferrovie di prima catego-ria da costruirsi a totale carico dello stato. Vengono inaugurati nel 1883 la Parma-Fornovo; nel 1888 Vezzano-Pontremoli; nel 1889 Fornovo-Berceto; nel 1893 Berceto-Borgotaro; nel 1894

Borgotaro-Pontremoli. Viene realizzata completamente

in 15 anni di lavoro e con il sacrificio di molte vite

umane. Da ricordare i 13 morti della galleria del Bor-gallo il 7 aprile 1893 per un improvviso scoppio di gas.

Da 28 anni La Nazione segue le infinite tappe della nascita della nuova Ferrovia Pontre-

molese, un progetto di raddoppio fondamentale per il Corridoio in-termodale europeo 1 Tirreno-Bren-nero che collega Berlino a Palermo. Raddoppio e potenziamento della linea Parma-La Spezia sono stati avviati nel 1981 e “viaggiano” con il passo di lumaca degli stanziamenti, che non bastano mai, mentre le scadenze slittano tra problemi di risorse, priorità politiche e burocra-zia. Lo stop al piano finanziario dei 48 milioni di euro per la proget-tazione preliminare dei tratti non ancora raddoppiati imposto dalla Corte dei Conti lo scorso autunno, ha messo in pausa la progettazione. Ora dal Comitato Interministeriale per la Programmazione Economica sono arrivati i soldi per finanziare il primo lotto delle opere mancanti (230 milioni, su un costo comples-sivo di 2,3 miliardi di euro), ma il progetto esecutivo non c’è.

Il Ministro per le Infrastrutture Altero Matteoli si è impegna-to a fornire i chiarimenti alla

magistratura contabile per cancel-lare il blocco dei fondi. Secondo il progetto preliminare i lotti ancora da avviare sono quattro: sul tratto Parma-Fornovo, nel centro di For-novo (un doppio tunnel bypasserà la città), poi la galleria di valico di 20 chilometri Ghiare di Bercelo-Pontremoli ed infine il segmento Pontremoli-Chiesaccia. Nel bilancio delle opere concluse invece il rad-doppio del tratto La Spezia-Santo Stefano-Chiesaccia con il raccordo “Garfagnana” per la Aulla-Lucca inaugurato a febbraio 2008 e la tratta Berceto-Solignano, mentre sono in corso i lavori sul segmento Solignano-Osteriazza (Fornovo) il cui completamento è previsto nel 2010. Ad essere realisti l’opera dovrebbe concludersi attorno al 2025-2030 tenendo conto che tempi di progettazione e di realiz-zazione della sola galleria di valico richiederanno almeno dieci anni per un costo complessivo intorno ai 360 milioni di euro.

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Fu una delle primissime volte nelle quali La Nazione uscì in edizione straordinaria. Un terremoto di forti dimensio-ni colpì l’area tirrenica, ma soprattutto la Garfagnana e la Lunigiana. Le scosse con-tinuarono per giorni e per fortuna – a ridurre il numero delle vittime – la sera prece-dente ce n’era stata un’altra, quasi un avvertimento, che aveva spinto molte famiglie a dormire all’aperto. Il paese più colpito fu Fivizzano, pratica-mente raso al suolo, che ebbe 30 morti e 300 feriti.

La sera del 6 settembre una prima scossa, un avvertimento. Ma nessuno

avrebbe immaginato il dram-ma che attendeva la Lunigiana la mattina successiva. Quella seconda, micidiale scossa, arrivò alle 7,50 del 7 settembre 1920 e mise in ginocchio la dorsale ap-penninica che divide Lunigiana,

Era il 7 settembre del 1920

Il terremoto distrusse FivizzanoTerrore da Pisa alla LunigianaAncora oggi la nostra gente ricorda la tragedia che costò decine di morti,un migliaio di feriti, e il crollo di migliaia di abitazioni

Garfagnana ed Emilia. Raggiun-se i 10 gradi della scala Mercalli (6,5 gradi della Scala Richter) e ancora oggi, 89 anni dopo, non è uscita dai ricordi dei lunigianesi. La paura e il lavoro salvarono moltissimi di loro: qualcuno era già al lavoro nei campi, gli altri avevano dormito all’aper-to, messi in allerta dalla prima forte scossa della sera prece-dente. Così i morti furono molti meno di quanti avrebbe potuto provocarne il terremoto, ma i danni per il patrimonio storico, architettonico e artistico furono enormi.

Fivizzano (il capoluogo e Sassalbo) e Casola in Lunigiana (il capoluogo,

Vigneta e Regnano) furono i borghi più colpiti. In quei paesi il conto dei morti fu molto alto, i danni alle case immensi, il volto dei borghi fu stravolto. Scrissero i giornali dell’epoca: “Fivizzano non esiste più. Contro Fivizzano, località bella e ridente, la bru-tale forza della natura scagliò colpi furibondi. Non rimase più alcuna casa abitabile e quelle pochissime che restarono in pie-di, al di sopra di spessi cumuli

di macerie, grazie ad un vero e proprio miracolo, riportarono lacerazioni e squarci talmente profondi che alla scossa succes-siva, nonostante leggerissima in quanto a intensità, rovinarono al suolo definitivamente. Tutta la popolazione rimase all’adiaccio, accampata in tende di fortuna...”

A Fivizzano il terremoto provocò 30 morti e 300 feriti ed il quasi totale

crollo dei fabbricati del cen-tro storico. E dalle cronache dell’epoca si scopre che i soccor-si non furono tempestivi ed “i poveri superstiti non hanno nè tende, nè viveri.”

La ricostruzione di Fiviz-zano durò 10 anni. Nella ricostruzione molto spesso

gli interventi non tennero conto dell’architettura di palazzi e chiese. Ancora oggi si lamenta l’inutile demolizione della chie-sa di S. Giovanni fatta costruire dagli avi di Papa Nicolò V; di cui era crollata solo una parte del tetto, di un palazzo in Piazza Medicea, del Teatro degli Im-perfetti, demolizioni che hanno stravolto l’assetto della città.

Ma molti furono i morti in tutta la Lunigiana. I paesi di Sassalbo,

Regnano, Vignetta, Luscignano e Montecurto furono trasformati in mucchi di rovine. Gravemente colpiti anche Comano, Campo-raghena, Ceserano e Torsana. A Villafranca, Merizzo e Fornoli gli edifici furono in parte distrutti o resi inabitabili. Morti anche a Virgoletta. Terrore e panico a Pontremoli, dove caddero molti comignoli e l’edificio più colpito fu la Chiesa della Misericordia dove sprofondò parte del soffit-to e danneggiò l’organo.

Danni si registrarono anche a Casacorvi, nelle varie cappelle del Cimi-

tero e a Valdantena. Un morto a Filattiera; danni alla chiesa e alla canonica di Rocca Sigillina nonché a Mochignano e Pieve di Bagnone.

La scossa che arrivò alle 7,50 sulla parte

nord della dorsale appenninica ebbe un’intensità di 10 gradi della scala

Mercalli, e 6,5 gradi della scala Richter.

Nella foto: i primi soccorritori a Reusa una frazione di Casola in Lunigiana guardano con totale stupore le rovine provocate dal sisma.

La popolazione fu accolta per mesi in tende militari.

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Lo scontro tra i fascisti di Amerigo Dumini e i cara-binieri del capitano Guido

Jurgens, passato alla storia come “I fatti di Sarzana”, avvenne come è noto nel piazzale della stazione di Sarzana la mattina del 21 luglio 1921. Ma gli antefatti - con scontri e vittime quotidiane di estrema destra e di estrema sinistra un po’ in tutta Italia - vanno ricer-cati nei giorni precedenti, e di questo ci danno testimonianza le cronache dei giornali, compresa La Nazione. Il nostro giornale, all’epoca, non aveva ancora una sua cronaca di Sarzana - dove operava come corrispondente sal-tuario un professionista del luogo, l’avvocato Leopoldo Ferrarini - e non era, al contrario di oggi, il più diffuso nel litorale alto toscano tra la Versilia e la Spezia, ma i suoi redattori compresero che stavano maturando eventi gravidi di conseguenze. Lo dimostra il titolo di prima pagina dell’edizione di martedì 19. Titolava dunque La Nazione: ‘’Tragica domenica nel sarzanese - sette morti, oltre venti feriti e numerosi arresti in seguito alla spedizione punitiva dei fasci-sti di Carrara’’.

È in quella domenica che vanno ricercate le radici di quanto avvenne in segui-

to, e quelle radici stanno in una

“I fatti di Sarzana”

21 luglio 1921: quando i carabinieri spararono sui fascistiLe premesse e le conseguenze di un episodio che il regime definì un “eccidio”I titoli e i commenti de La Nazione di allora

“spedizione punitiva dei fascisti di Carrara”. Quei fascisti che erano capeggiati dal ”ras” locale Renato Ricci, in seguito esponente di spicco del regime, irriducibile sostenitore di Mussolini (fu uno di coloro che il 25 luglio 1943 vo-tarono contro l’ordine del giorno Grandi al Gran Consiglio).

Ricci, rientrato dall’impre-sa di Fiume, guidava sin dalla primavera le imprese

squadristiche delle camicie nere in tutta la Lunigiana, da Pontre-moli a Sarzana, per quella che egli chiamava “operazione di risana-mento” contro le forze politiche di sinistra che dal 1920 ammini-stravano Sarzana con il sindaco Pietro Arnaldo Terzi. Il 15 luglio, a Tendola di Fosdinovo, era stato ucciso un anziano liberale di sim-patie fasciste, Pietro Procuranti, di Fivizzano. I funerali si svolsero la domenica mattina, presenti un gran numero di camicie nere al comando di Ricci. Al ritorno, lun-go la strada della Cisa, essi com-pirono numerose violenze, con tre morti a Monzone (dove era previsto un comizio degli anar-chici), due a Santo Stefano Magra (tra cui un vecchio esponente del partito popolare di Sturzo) ed altri due nei pressi di Sarzana: un comunista ed uno degli stessi fascisti. Si arriva così al numero

di sette morti riferito dal giornale. Proseguendo verso Carrara, gli uomini di Ricci fecero per entrare a Sarzana, ma i carabinieri della locale tenenza, al comando del tenente Nicodemi mossero loro incontro in buon numero e li dispersero. Ricci venne arrestato e rinchiuso a Sarzana nel carcere della Cittadella.

Si arriva così alla nuova spedizione punitiva del 21 luglio, questa capeggiata da

Dumini alla guida di diverse cen-tinaia di fascisti di tutta la Versilia e dell’area Massese. Lo scopo dichiarato è quello di liberare dal carcere Renato Ricci. I fascisti arrivano in treno a Sarzana poco prima delle cinque del mattino, ma trovano il capitano Jurgens con i suoi carabinieri (e alcuni sol-dati di fanteria di stanza in città) che li blocca all’ingresso del viale (oggi viale XXI Luglio) che portava verso le carceri. I carabinieri, come è noto, sparano e mettono in fuga i fascisti, che si sbandano anche per la campagna, dove alcuni saranno a loro volta uccisi da uomini di estrema sinistra. È il 21 luglio, e l’eco di questa vicenda si sparge rapidamente. Il giorno dopo La Nazione titola, sempre con grande evidenza in prima pagina come gli altri giornali. ‘’I particolari dell’orrendo eccidio di

Sarzana - numerosissimi fascisti uccisi e feriti - barbarie comu-nista - i feriti torturati - treni assaliti - il terrore rosso ‘’. Qui, come si vede, il giornale tende a sottovalutare non solo la gravità della spedizione punitiva fascista, ma anche il fatto che a sparare - per difendere l’ordine pubblico - siano stati i carabinieri. Viene usata la parola “eccidio”, e proprio questa (“L’eccidio di Sarzana”) sarà l’espressione usata dal regi-me per tutto il ventennio Oltre a ciò, il giornale (ma un po’ tutti i giornali, segno di un clima che in pochi giorni già era cambiato) mette l’accento sulla “barbarie comunista” e sul “terrore rosso”... Per molti storici è il segno che anche nel mondo imprenditoriale ed editoriale non si voleva calcare la mano contro i fascisti

Del resto, il 23 luglio 1921 (sabato) il titolo principale del giornale sposta aperta-

mente l’attenzione sulle conse-guenze politiche generali dei fatti di Sarzana: “Altre ripercussioni dei fatti di Sarzana alla Camera”. Non c’è ancora un aperto soste-gno al fascismo, e men che meno alle sue violenze, ma la ricerca di una via d’uscita rispetto alla grave crisi italiana e, nel contempo, il tentativo di evitare che le violen-ze delle camicie nere finissero per portare nuove simpatie al fronte opposto delle sinistre massima-liste.

Come è noto, l’ammini-strazione democratica di Sarzana pagò lo scotto della

vicenda del 21 luglio venendo sciolta d’autorità nel giro di un anno (prima ancora della marcia su Roma), mentre il sindaco Terzi, costretto a trasferirsi a Sestri Levante, sarà poi deportato a Mauthausen, dove morirà alla fine del 1944. Anche il capitano Jurgens fu presto trasferito dal comando della compagnia dei carabinieri di Spezia.

I fascisti locali erano capeggiati

da Renato Ricci, un fedelissimo di

Mussolini. Ricci rimase a fianco del Duce anche il 25

luglio 1943, quando fu votato l’ordine del giorno Grandi

per le dimissioni del capo del governo.

Una spedizione punitiva guidata da Dumini con centina-ia di fascisti arrivati da tutta la Versilia e da Massa voleva liberare dal carcere Renato Ricci.

Un capitano dei Carabinieri si op-pose sparando alle camicie nere.

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Oggi cercando su Google notizie di Giorgio William Vizzardelli si apre una se-

rie di siti tutti dedicati ai serial killer e alla storia del crimine. Allora, fra il gennaio 1937 e il dicembre 1938, i suoi delitti gettarono nel panico Sarzana.

Giorgio William, il killer di Sarzana, era nato nel 1922 a Francavilla al Mare,

figlio del direttore del Registro Guido Vizzardelli. Una passione per la distillazione dei liquori e le armi da fuoco, Al Capone come mito. Uccise per la prima volta, quando aveva solo 14 anni, don Umberto Bernardelli, rettore del collegio Casa delle Missioni dove frequentava la scuola di avviamento con tre colpi di pistola in pieno petto. E durante la fuga, spara anche due colpi mortali contro Frate Andrea Bruno, il guardiano del collegio, che lo aveva riconosciuto.

Due delitti che disorienta-no la polizia e le indagini non riescono ad ingra-

nare. Viene subito arrestato un giovane, ma gli inquirenti sono costretti subito a liberarlo: ha un alibi di ferro. Da Mussolini ri-ceve le scuse ed un risarcimento di 25 mila lire per l’errore. I delitti dei frati sono ancora im-punti quando la paura riesplode a Sarzana più di un anno dopo.

È il 20 agosto 1938 ed a Ghiaia di Falcinello, alle porte di Sarzana, ven-

gono ritrovati in un torrente i cadaveri del barbiere ventenne Livio Delfini e del tassista Bruno Veneziani, di 35 anni, uccisi con due diverse pistole. una calibro 9 e una calibro 7,65. Mussolini convoca il capo della polizia che si occupa del caso e lo incita a compiere indagini serrate. E il 29 dicembre dello stesso anno viene trovato morto Giuseppe Bernardini, di 75 anni, custode dell’Ufficio del Registro. È stato ucciso a colpi di accetta e dalla cassaforte dell’ufficio, aperta senza segni di effrazioni, manca-

Guido Vizzardelli commise i suoi cinque delitti quando aveva tra i quattordici e i sedici anni.Era figlio del diretto-re dell’ufficio del registro.

Si tratta di uno dei primissimi casi di serial killer in età adolescenziale.

Nella foto: il collegio Casa delle

Missioni dove il giovane Vizzardelli uccise il rettore Don

Umberto Bernar-delli con tre colpi di

pistola al petto.

no 12.949 lire e 35 centesimi.

È quest’ultimo delitto a tradire Giorgio William Vizzardelli portando gli

inquirenti al direttore dell’Uf-ficio e quindi al figlio sedicen-ne che la sera del delitto era rientrato molto tardi. Nelle sue tasche gli investigatori troveranno la chiave della cassaforte ricoperta di sangue rappreso e questo lo convince-rà a confessare tutti e cinque i delitti commessi.

Nella sua confessione, Vizzardelli spiega con incredibile freddezza di

aver ucciso il custode del Re-gistro perché voleva scappare in America e aveva bisogno di soldi. Il barbiere aveva sco-perto l’omicidio dei due frati, perciò lo ricattava, il tassista era un testimone involonta-rio come Don Andrea. “Don Andrea non lo avrei ucciso se non mi avesse riconosciuto” dichiara pacatamente Giorgio. Don Umberto Bernardelli lo aveva invece schiaffeggiato

per aver bruciato delle carte geografiche e doveva pagare per questo. Vizzardelli scampa alla pena di morte solo perché non ancora maggiorenne. Il processo si apre il 19 settembre 1940 e il 23 settembre si chiude con la condanna all’ergastolo. Giorgio diventa così il più giovane erga-stolano d’Italia.

Negli anni ‘60 è stata chie-sta per lui la grazia, con-cessa poi dal Presidente

Saragat, che afferma: “Vizzardel-li è socialmente recuperabile”. Esce così di prigione il 29 luglio 1968, dopo avere scontato 28 anni tra carcere e manicomio, ma il 12 agosto del 1973 viene trovato morto nella sua abita-zione: si è tagliato la gola e un braccio con un coltello da cucina e si è lasciato morire dissangua-to. Pare che la sera prima abbia assistito ad un programma sui serial killer.

Vizzardelli: storia e delittidi un serial killer sedicenneCinque vittime e una condanna all’ergastolo fra il 1938 e il 1939Poi, una volta libero, il suicidio: si tagliò la gola nel 1973

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Mussolini: “Siamo in guerra”E un pazzo spara ad Angelo Lucri

Martedì 11 giugno 1940 la prima pagina della Nazione, come quella

di tutti i quotidiani italiani, era interamente occupata dal grande titolo, dai servizi e dai commenti relativi al discorso con cui, la sera prima, Benito Mussolini, dal balcone romano di Palazzo Venezia, aveva annunciato la di-scesa in guerra dell’Italia, con la celebre frase “La dichiarazione di guerra è già stata consegnata agli ambasciatori di Gran Bretagna e di Francia”.

Venne quindi necessaria-mente confinata nelle pagine interne - anche

per la ritrosia della censura di regime a dare enfasi alla cronaca nera - la notizia di un singolare fatto di sangue avvenuto a Sar-zana, proprio in concomitanza con l’annuncio del Duce. Anche a Sarzana, come in tutta Italia, i responsabili del partito fascista avevano convocato i cittadini nella piazza principale della città per ascoltare, via radio, il discorso di Mussolini. Così, nel tardo pomeriggio di quello che era stato, comunque, un gior-no di lavoro come tanti altri, la piazza Vittorio Emanuele si era lentamente riempita di una folla incuriosita ma anche preoccupa-ta degli eventi che, ormai si sape-va, il Capo del Governo avrebbe preannunciato.

Mussolini iniziò a parlare alle 18 in punto, e il suo discorso, di circa sette-

cento parole, durò meno di un quarto d’ora. Dopo gli applausi e le grida di consenso che venne-ro anche dalla folla sarzanese, più o meno convinta, la piazza cominciò lentamente a svuotarsi, e le persone presenti a defluire verso le proprie abitazioni. Fu a quel punto che dalla parte alta della piazza Vittorio Emanuele, a fianco dei portici che conducono

verso il Torrione San Francesco, si udì netto il rumo-re di due colpi di rivoltella, subito accompagnati dal-le grida delle per-sone più vicine. Un uomo, colpito dai proiettili, giaceva a terra privo di vita, mentre il suo assas-sino, con in mano l’arma fumante, fu udito distintamen-te pronunciare le parole di un antico proverbio dialettale: ‘N po’ per un ‘n brazu alla ma’, “Un po’ per uno in braccio alla mamma”. La vittima non era una persona qualunque: a 74 anni di età, infatti, il dottor Angelo Lucri era uno dei sarzanesi non solo più conosciuti ma anche stimati ed amati dalla popolazione tutta.

Allievo dei due grandi chirurghi Agostino Paci e

Giuseppe Tusini, Lucri era stato per diversi decenni, a partire dal trasferimento a Pisa del Tusini nel 1920, il primo chirurgo e direttore dell’ospedale di Sarzana, contribuendo a farlo am-modernare, specie nelle apparec-chiature, e a dargli una fama che il nosocomio di San Bartolomeo si sarebbe portata dietro nel tempo. Anche Lucri, come tanti sarzanesi, aveva ascoltato in piazza il comizio di Mussolini, e quando venne ucciso stava rien-trando nella sua casa, lì vicino. L’assassino, subito bloccato dalla folla e consegnato ai carabinieri, risultò infermo di mente. Era sta-

to in precedenza un paziente di Lucri e, forse, come talora accade, aveva maturato una forma insana di risentimento nei confronti del medico che lo aveva curato.

La notizia della dichiarazione di guerra, forse, lo aveva ulteriormente sconvol-

to, spingendolo ad un gesto di vendetta del tutto assurdo, tanto più accompagnato da quel

IL delitto di Angelo Lucri rimane ancora

oggi privo di movente.

Unica ipotesi il fatto che l’assassino, a

suo tempo curato dal dottor Lucri,

covasse un rancore per l’operato del

medico.

Prima di sparare l’assassino pronunciò la frase : ‘N po’ per un ‘n braciu a la ma’La vittima era un noto e stimatissimo medico

proverbio in dialetto, gesto di vendetta che costò la vita ad una illustre personalità di Sarzana. Il giorno dopo i giornali andarono a ruba, La Nazione compresa, nelle edicole sarzanesi. Non è dato sapere se più per la volontà di leggere nel dettaglio le notizie sulla guerra ormai dichiarata oppure per saperne di più sulle tragica fine di un medico cui tutti volevano bene...

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Tutte le mattine dal finestrino del vagone postale del treno

proveniente da Pisa lanciavano sul marciapiede un pacchetto destinato al giornalaio della stazione di Sarzana: cinque co-pie de La Nazione, il giornale di Firenze. La sera quel pacchetto riprendeva la strada del ritorno e poi del macero. Non ne vende-va una copia e il giornalaio era un po’ seccato per quel lavoro fatto a vuoto: anche se era il suo mestiere non riusciva a capire chi avesse avuto la brillante idea di diffondere in Liguria un giornale toscano. Poi un giorno, di buon’ora, si presentò all’edi-cola un giovanotto sarzanese sui trent’anni che il giornalaio conosceva di vista, e quei cinque giornali se li comprò tutti. La storia andò avanti per giorni e giorni, poi quelle copie diven-tarono dieci, venti, cinquanta, cento e le compravano tutti, non più solo quel signore che di nome faceva Ovidio, di cognome Ruggeri e di professione l’infor-matore de La Nazione da Sarza-na e Val di Magra. Era il 1958. La Nazione all’epoca era un quotidiano in forte espansione, per merito di un grande diretto-

re come Enrico Mattei e delle sue

polemiche politiche aveva var-cato gli autorevoli confini della Toscana per affermarsi come un importante giornale nazionale, pur continuando a radicarsi sul territorio con le cronache locali. L’espansione aveva già portato a sfondare i confini regionali con l’apertura di una pagina di cronaca della Spezia e di un uffi-cio di corrispondenza, sbarcare anche a Sarzana, seconda città della provincia, all’inizio era una conseguenza logica. Alla fine si rivelò vincente.

Ovidio Ruggeri riempiva mezza pagina di Cronaca di Sarzana e della val

di Magra, sulla testata c’era scritto così, e lo faceva alla sua maniera, quasi pionieristica. Su una bicicletta nera, pesante e sgangherata, (non prenderà mai la patente) Ruggeri girava in lungo e in largo la “sua” zona per farsi raccontare tutto quello che era successo o stava succe-dendo. E non gli sfuggiva nulla. Dentro quella mezza pagina ci finiva la cronaca nera di tutta la vallata, cronaca viva che in poco tempo attirò sempre più

lettori. Ma c’era anche il gossip, come si direbbe oggi. Ruggeri era un cronista dal grande fiuto, aveva capito che il suo compito era trasferire al lettore la sua grande curiosità innata. L’im-mediatezza diventò un altro dei suoi segreti, con la televisione ancora all’inizio e la radio nazio-nale che non si occupava certo delle notizie locali, c’era solo un modo per essere informati: la Nazione di Sarzana.

L’invenzione della locandi-na per strillare le noti-zie vicino all’edicola fu

un’altra idea vincente. Ruggeri allo scrivere preferiva parlare, riferire alla redazione centrale di Firenze. Il telefono diventò la sua arma micidiale anche se lui il telefono in casa non ce l’aveva. Usava il “posto pubblico” alle Poste dove due volte il giorno, alle sedici e alle venti, lo aspet-tava la “Fissa”, una telefonata proveniente dall’ufficio dima-foni di Firenze dove un disco registrava tutto quello che Rug-geri dettava. Poi un redattore riascoltava e trasformava le sue notizie in articoli per la pagina di Sarzana. Quando succedeva qualcosa dopo l’ultima “Fissa” della giornata, Ruggeri si butta-va sul primo telefono pubblico per chiedere alla centralinista la famosa “telefonata in partenza da Firenze”, a carico del rice-vente. Poi arrivarono i gettoni e qualche tempo dopo La Nazio-ne installò il telefono a casa di Ruggeri. Il passo successivo, visto il successo di vendite, fu il passaggio dalla mezza pagina alla pagina intera e l’apertura di un ufficio. Era il 1960. Allora il giornale di Firenze scoprì di essere diventato un punto di riferimento per la città tanto che ci fu una gara per ospitare

Come La Nazione si impose a Sarzana fino a diventare il primo giornale per vendite e prestigioL’arrivo della pagina della Lunigiana e del giovane Enzo Bucchioni

Erano cinque copie (invedute)e con Ruggeri divennero 5mila

gli uffici della Nazione. Il conte Picedi Benettini volle la reda-zione nel suo storico palazzo di via Mazzini e quella fino al 1989 fu la casa del giornale. Già, il giornale. La Nazione era talmente familiare, con-siderata un qualcosa di casa o di famiglia, che non veniva neppure chiamata per nome, ma era semplicemente “il giornale”, l’unico riconosciuto, apprezzato e letto nella zona. Alla richiesta “mi dia il giorna-le”, qualsiasi giornalaio sapeva benissimo di dover vendere La Nazione.

Il fascino del mestiere di giornalista attirò molti giovani studenti e professio-

nisti attorno a Ovidio Ruggeri, alcuni continuarono poi il me-stiere altrove, altri collabora-rono a far crescere la qualità e la quantità della cronaca locale e sono ancora oggi in redazio-ne come Giovanni Bertocchi. La redazione fu dotata gra-

Nel tondo in alto: Ovidio

Ruggeri, primo corrispondente da

Sarzana con un giovane Gustavo

Masseglia.

Nel tondo in basso: Ovidio Ruggeri con

gli alunni di una scuola elementare.

Fra gli altri compiti del corrispondente

era anche quello di spiegare ai

giovani l’incredibile mestiere del

gionalista.

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dualmente dei primi congegni moderni per trasmettere le notizie a Firenze, dai teleco-pier alle teletrasmissioni con telescrivente per finire al fax prima dell’avvento dei moderni computer.

Quelle famose cinque copie diventarono cin-quemila in pochi anni, fu

un successo clamoroso. Tanto clamoroso che nel 1977 il diret-tore Sensini decise di allargare l’esperimento riuscito in val di Magra alla vallata confinante: la Lunigiana. Dal primo ottobre di quell’anno le pagine di cronaca diventarono due, una dedicata a Sarzana-val di Magra e un’altra alla Lunigiana. Ad affiancare Ruggeri venne inviato Enzo Buc-chioni, un giovane giornalista della redazione della Spezia che si era già distinto per capacità e voglia di fare. Oggi, dopo una brillante carriera, è vicedirettore del Quotidiano Nazionale, ma questa è un’altra storia.

La redazione di Sarzana ebbe nuovo impulso, le pa-gine diventarono quattro,

le copie arrivarono a toccare le ottomila vendute. Bucchioni divenne presto il caposervizio, furono assunti altri giovani giornalisti come Franco Antola, anche lui destinato a un’im-portante carriera nel gruppo editoriale, capo della redazione di Siena, i part-time Gianni Bertocchi e Carlo Galazzo, ed Emanuela Rosi, attuale respon-sabile della redazione.

Nel 1989, per ospitare l’in-gresso delle tecnologie e la figura di un operatore

tipografico come Roberto Vale-rio, già giornalista collaboratore, al fine di rendere la redazione completamente autonoma nella fattura del giornale La Nazione si è trasferita nei locali di via Picedi 17, inaugurando la prima di una serie di modernissime redazioni locali.

di Emanuela Rosi

Giornalisti si poteva, e forse si può ancora, diventare per caso. Ma un vero giornalista lo è per passione, una pas-sione alimentata da una curiosità inesauribile, dall’osti-nazione di voler sempre arrivare al “cuore” delle notizie dopo averle liberate dagli orpelli, dalla convinzione che questa professione sia una specie di missione: informare per aiutare a costruire, migliorare, crescere. È quella che non ti fa guardare l’orologio, ti fa superare l’impossibili-tà di dare programmazione e orari alla tua vita privata. La passione non si insegna ma si può trasmettere. E la fortuna di un giovane giornalista è trovarsi al fianco di “vecchi” giornalisti veri. Quello era Ovidio Ruggeri che, superata la difficoltà di fidarsi allora (22 anni fa) di una giornalista donna in erba, riuscì a rendermi partecipe della sua passione, alimentata ogni giorno malgrado l’impresa di adeguarsi ad un mondo dell’informazione in evoluzione rapidissima, sia nei mezzi tecnici che nei con-tenuti. Mi insegnò il valore di una notizia, la caparbietà di inseguirla fino in fondo e non lasciarsene sfuggire una, l’orgoglio di difendere le scelte editoriali, di rappresenta-re La Nazione, il senso della responsabilità. Una lezione professionale che Enzo Bucchioni, allora caposervizio, ampliò e integrò con l’umiltà di mettersi sempre in di-scussione, di scrivere con la stessa serietà l’annuncio di poche righe per una nuova laurea come un’inchiesta giornalistica o uno “scoop”; l’umanità che, sola, ti con-sente di raccontare tragedie personali con la consape-volezza di entrare in vite vere che meritano rispetto as-soluto, di dover dare un senso a quel racconto; l’ideale di avere in mano uno strumento capace di dare voce a chi di solito non viene ascoltato, di rendere evidenti piccoli e grandi problemi con la speranza di aiutare a risolverli. Poi Franco Antola aggiunse le sue qualità: la serietà, la competenza, il rigore.Mi auguro che le lezioni di quanti mi hanno preceduto lavorando perché La Nazione fosse la voce autorevole dei cittadini di Sarzana, della Val di Magra e della Luni-giana, e di quanti mi affiancano oggi nel lavoro quotidia-no siano servite davvero. Spero che quegli stessi cittadini ci aiutino a migliorarla sempre, a farla diventare sempre più la loro voce. La redazione è sempre stata e sarà sem-pre aperta a tutti.

GIORNALISTI PER CASOO PER PASSIONE

La redazione di Sarzana fu inaugurata nel 1960 e la cronaca locale occupava lo spazio di una pagina.

Nel 1977 nacquero le cronache della Lunigiana.

Nel 1989 La Nazione si trasferì dal Palazzo di via Mazzini in via Picedi al numero 17 dove si trova ancora oggi (nella foto l’attuale redazione).

Nella foto grande: la redazione di Sarzana e della

Lunigiana quando ormai la Nazione si

era imposta come primo giornale

della zona.Da sinistra Enzo

Bucchioni, Franco Antola, Carlo

Galazzo e Ovidio Ruggeri.

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A Natale un “Presepe senza Stella”Così Sarzana mantenne il seminarioLa protesta “garbata” ma efficace contro il vescovo di La Spezia nel 1964E a Giovanni Bertolla “prudevano le dita”

Giovanni Bertolla, presidente dell’Azione

Cattolica e nostro collaboratore

raccontò la vicenda nel giornale satirico

“Strinà”.

La sera di Natale 1963, come sempre, il vescovo della Spezia celebrò a Sarzana la

messa pontificale, nella cattedrale (allora si chiamava ancora così) di Santa Maria Assunta. Monsignor Giuseppe Stella – secondo vesco-vo della Spezia dopo che monsi-gnor Giovanni Costantini, veneto come lui, vi aveva trasferito la sede diocesana nel 1929 – non era un presule particolarmente amato, ma nemmeno inviso ai sarzanesi, e la chiesa, quella sera, era piena di gente. Molti anche i sacerdoti, i canonici e i seminari-sti che affollavano il presbiterio.

Ma la predica del vescovo fu, per i presenti e più in generale per tutti i

sarzanesi, una vera doccia fredda. Monsignor Stella partì infatti, com’era naturale, dal commen-tare l’evento salvifico del Natale, ma poi se ne discostò per dare all’uditorio un annuncio del tutto inatteso: il trasferimento del Seminario vescovile diocesano dalla sede antica di via Mascar-di a Sarzana (risalente alla fine del Cinquecento: uno dei primi seminari dopo la fine del Concilio di Trento, che ne aveva disposto l’istituzione) alla Spezia, in una sede tutta nuova che sarebbe sta-ta edificata ai Colli, in posizione soleggiata e panoramica.

Una doccia fredda, abbiamo detto. Che qualcosa fosse nell’aria, i più addentro

alle cose della diocesi, preti in particolare, lo avevano capito da tempo. A Spezia si parlava di una sottoscrizione per il seminario in occasione del ventennale della presenza in città del vescovo (gennaio successivo), ma nessu-no si immaginava che il vescovo avrebbe dato l’annuncio a Sarza-na proprio in occasione del suo Pontificale di Natale, e la cosa non fu preso affatto bene. Del resto, già il trasferimento della diocesi, nel 1929, fece registrare violente reazioni, a Sarzana, dove anche gli anticlericali riscoprirono il proprio campanilismo per difen-dere la presenza di un vescovo. Allora ci fu persino chi minacciò di passare armi e bagagli alla…

concorrenza, ovvero alla fede della religione protestante, e per rabbonire il clero locale in subbu-glio monsignor Costantini dovette nominare vicario generale un sarzanese tutto d’un pezzo (mon-signor Luigi Accorsi), cancelliere vescovile un altro sarzanese (monsignor Ferruccio Casabian-ca), ed insignire infine del titolo di protonotaro apostolico, che comportava nelle cerimonie l’uso della mitra e dei guanti proprio come un vescovo, l’arcidiacono del capitolo monsignor Luigi Riccobaldi.

Trentacinque anni dopo, l’annuncio che anche il Seminario sarebbe andato a

Spezia sembrò quindi la ripropo-sizione di una ferita mai del tutto sopita. Un nuovo e forse definitivo “oltraggio”. Il giorno dopo, 26 dicembre, i giornali non uscirono, ma il 27, che era venerdì, le crona-che locali ripresero la notizia con grande evidenza (La Nazione le dedicò l’apertura della sua pagina locale, pur senza particolari commenti), facendola divenire oggetto dei più svariati commenti in tutti gli ambienti cittadini.

Monsignor Dino Faccini, che era il parroco della cattedrale, pur amareg-

giato, chiese a tutti i cattolici – in particolare a quelli che si mostra-vano più “focosi”, come il sindaco di un tempo Bernardo Tamburi – un atteggiamento di basso profilo, che però non voleva dire rinuncia, anzi…

Così, nei giorni successi-vi, non ci furono se non caute lettere di protesta sul

giornale (al contrario di quan-to probabilmente avverrebbe oggi), ma il fuoco, come si dice, covava sotto la cenere. Lo stesso Faccini, nei mesi seguenti, andò più volte a Roma, investendo della questione, a quanto risulta, importanti ambienti del Vaticano. E non senza risultato, se un anno e mezzo dopo, a metà settembre 1965, proprio da Roma venne un annuncio sorprendente: il papa Paolo VI aveva nominato monsignor Luigi Maverna (pre-

sule destinato in seguito ad una prestigiosa carriera ecclesiastica) vescovo ausiliare della Spezia con l’incarico specifico di rettore del Seminario e con residenza a Sar-zana (così nel bollettino ufficiale della Santa Sede). Qualcuno, oggi, potrebbe dire che monsignor Stella, con quella nomina, veniva di fatto “commissariato”, e proprio per la gestione del Seminario. Non solo, ma Sarzana tornava ad avere un vescovo residente, sia pure “ausiliare”.

Maverna, a fine 1966, andò poi vescovo a Chiavari, ma il Seminario, come è

noto, a Sarzana c’è ancora, e di costruirne uno nuovo alla Spezia oggi davvero nessuno parla più. I giornali, come detto, riferirono la notizia dell’omelia di Stella in modo asciutto, senza troppe polemiche. Ma a qualcuno, battendo sui tasti della “lettera 22”, cioè della macchina da scrivere del tempo, certo prudevano le dita. Questo qualcuno era Giovanni Bertolla, cat-tolico “doc”, presidente dell’Azione cattolica della cat-tedrale e collabo-ratore

della Nazione. E alla fine Bertolla non resistette, approfittando di uno dei giornali umoristici che, al tempo, venivano pubblicati a Sar-zana in occasione delle feste. Così, l’edizione 1964 dello “Strinà” (“Lo strinato”) aprì con un editoriale scritto da lui, che aveva questo titolo, quanto mai significativo: “Presepe senza… Stella”…

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Fiamme fra le canne sul VialoneIl delitto rimarrà un mistero

Nel luglio 1968, mentre le cronache nazionali dei giornali continuavano

a parlare della contestazione giovanile dilagante da un capo all’altro dell’Atlantico, della dif-ficoltà di dare un governo all’Ita-lia dopo le elezioni di primavera e della guerra in Vietnam, quelle sarzanesi - La Nazione com-presa - furono per molti giorni dominate dalle notizie relative ad un delitto rimasto senza un colpevole: l’assassinio del dottor Cesare De Ponti (ma qualche giornale scriveva Deponti).

Era già estate quando la notte del 23 luglio, il comando dei carabinieri

dell’allora tenenza di Sarza-na venne allertato perché dal vialone di Marinella, in una stradina sterrata in mezzo alle canne, non lontana da Bradio-

la, si vedevano divampare alte fiamme, fiamme che non lascia-vano presagire nulla di buono. Mancando allora a Sarzana una caserma dei vigili del fuoco (mo-tivo questo di ripetuti articoli di protesta sulla cronaca locale de La Nazione firmati da Ovidio Ruggeri e dai suoi collabora-tori), vennero fatti intervenire quelli di Carrara e della Spezia.

In effetti, le fiamme aveva-no avvolto quella che era ormai la carcassa di un’auto

di grossa cilindrata, nel cui interno i pompieri trovarono il cadavere ormai carbonizzato di un uomo di mezza età, che risultò essere quello di un noto dentista e radiologo lodigiano, probabilmente in vacanza sul litorale sarzanese, appunto il dottor Cesare De Ponti, di 56 anni.

L’assassinio del dottor Cesare De Ponti nel luglio del 1968 La vittima era un professionista lombardo forse in vacanza dalle nostre parti

Il delitto del Vialone rimane un mistero nella cronaca nera della Val di Magra.Nonostante accu-rate indagini non è mai trapelato il pur minimo indizio dell’assassino.

I carabinieri, titolari dell’in-dagine, accertarono quasi subito trattarsi di un delitto,

e non di un suicidio o meno ancora di un incidente, del resto assai improbabile in quel luogo e a quell’ora di notte. L’autopsia, effettuata all’obitorio dell’ospedale di Sarzana, ac-certò che il poveretto – che era completamente vestito al posto di guida (e l’auto era la sua) -, era stato stordito con un corpo contundente, probabilmente un bastone, e poi colpito con un pugnale, verosmilmente dalla stessa persona che poi aveva dato fuoco alla vettura.

Non si trovarono trac-ce di alcun genere, ed anche il movente rimase

sempre sconosciuto. De Ponti, nel Milanese, era una persona abbastanza nota, tanto che per

Il Vialone, che unisce Sarzana a Marinella (nella

foto) era stato inaugurato cinque

anni prima del delitto.

In anni recentiè stato più volte

teatro di episodi di violenza.

alcuni giorni vennero a Sarzana a seguire il caso anche alcuni inviati di quotidiani lombardi. Ma, pur scavando nella sua vita, né giornalisti né inquirenti trovarono indizi anche labili che consentissero di portare sulle tracce dell’assassino o degli assassini, e il caso rimase irrisolto.

Va detto che, negli anni seguenti, le strade ster-rate che corrono nella

campagna tra Sarzana e Mari-nella sono state spesso teatro di episodi di cronaca, magari legate a vicende di prostituzio-ne, femminile o maschile. Ma, in quel tempo (il vialone era stato inaugurato solo cinque anni pri-ma), nulla del genere si era mai verificato, e la tragica fine del De Ponti suscitò in tutta la Val di Magra notevole impressione.

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Nel tondo in alto: l’onorevole

Giuseppe Niccolai che rivolse

per primo una interpellanza

parlamentare sulle cause del crollo. A suo giudizio i

motivi andavano ricercati negli incontrollati

prelievi di sabbia dal letto del fiume.

È il 1968 e crolla, in “diretta”il secolare ponte sul MagraIl corrispondente Ruggeri riuscì a dare la notizia, per telefono, mentre osservava il crollo dei piloni. L’opera fu ricostruita nel 1972

Brun Caprini provenienti da Spezia e da Lerici (il cui capolinea era proprio nella piazza, davanti al Comune): la pioggia insistente gonfiava fuor di misura le acque del fiume Magra, divenute vorticose come non mai, e transitando sul ponte stradale di Romito, via di comunicazione fondamentale tra il Sarzanese ed il resto della provincia, si sentiva un rumore sordo, con l’acqua che batteva sempre più forte contro i piloni in muratura, e non sembrava promettere nulla di buono.

Così, Ruggeri non si sor-prese più di tanto quando, poco dopo le 20, venne

avvertito che tecnici e canto-nieri dell’ANAS avevano poco prima deciso, per precauzione, di chiudere al traffico il ponte. A Battifollo le auto dirette a Spe-zia o a Lerici venivano fermate e rimandate indietro: gli unici percorsi alternativi restavano i lunghi giri da Fiumaretta (ponte della Colombiera, molto recente e quindi ancora solido) oppure da Albiano Magra, Ceparana e il

Giovedì 31 ottobre 1968 su Sarzana e la Val di Magra aveva piovuto ininterrot-

tamente per l’intera giornata, e già cominciava il tradizionale “rosario” della segnalazione dei danni. Sulla strada tra l’Aurelia e il centro storico di Arcola, ad esempio, incombeva pericolante il muro di cinta del cimitero e il sindaco aveva disposto la chiu-sura della strada stessa, renden-do così il capoluogo comunale raggiungibile solo provenendo da Baccano. Ma il peggio doveva ancora venire.

A Sarzana, il corrisponden-te della Nazione, l’instan-cabile Ovidio Ruggeri,

aveva “chiuso” come di consueto la pagina di cronaca poco prima dell’ora di cena, ma, telefonando le ultime “brevi di nera” a Firen-ze, si era premurato di avvertire il capo della redazione “Provin-ce” che qualcosa poteva ancora cambiare nell’impaginazione. Tornando dal pronto soccorso e passando, come di consueto, per piazza Matteotti, Ruggeri aveva ascoltato infatti il racconto allarmato di alcuni autisti della

Buonviaggio. Nessuno poteva

immaginarselo, ma quei lunghi giri sarebbero stati gli unici collegamenti stradali con l’altra sponda del fiume per circa due mesi, sin quasi a fine anno.

A quel punto, saltando la cena (come ai cronisti di un tempo capitava spesso

di fare), Ruggeri era tornato in redazione, attaccandosi al tele-fono, e spedendo il fotografo del giornale, che era il “mitico” Ca-stagna, a cercare di fotografare nella notte qualcosa del ponte e dei suoi dintorni. Così, la notizia del crollo arrivò in redazione a Sarzana quasi in tempo reale, e Ruggeri non ebbe neppure il tempo di meravigliarsi trop-po di un evento così inatteso. L’intera pagina fu rifatta in un battibaleno, con l’apertura tutta incentrata sul crollo del ponte poco più che centenario Le precauzioni assunte dai tecnici dell’ANAS avevano impedito danni alle persone, ma il crollo di quel manufatto fu un evento straordinario, e per settimane

sarzanesi e romitesi, tra gli altri, andarono sul posto ad “ammirarne”, si fa per dire, le rovine accumulatesi sul fon-do del fiume. L’11 novembre successivo la vicenda approdò in parlamento, con una interro-gazione presentata al ministro dei lavori pubblici dal deputato del MSI on. Giuseppe Niccolai. Niccolai, anticipando polemiche che sarebbero durate anni, e che durano ancora, chiedeva se fosse vero che il crollo era stato causato “dagli incontrollati prelevamenti dal letto del fiume Magra di rena e ghiaia, da parte delle ditte che costruiscono la E 1 (cioè l’autostrada tirrenica).

Solo a fine dicembre colle-gamenti stradali poterono essere ripresi grazie all’in-

stallazione, da parte dei soldati del genio pontieri di Piacenza, di un cosiddetto “Ponte Bailey”, in ferro, collocato al fianco di quello caduto. Solo a metà 1972, invece, sarebbe stato inaugura-to il nuovo ponte stradale vero e proprio, cioè quello attuale, dopo lunghissime discussioni nei competenti consigli co-munali di Sarzana e di Arcola tra coloro che lo volevano più spostato a valle, cioè più vicino a Romito, o più invece spostato a monte, verso il ponte nuovo della ferrovia, come poi in effetti avvenne.

Ma quel 31 ottobre 1968 sarebbe stato comun-que ricordato a lungo,

in Val di Magra. Allora, dai paesi anglosassoni, non era ancora stato importato l’uso di festeg-giare, con Halloween, la notte detta “delle streghe”. Ci fosse stato, quell’uso, la tradizione, in quella notte di tregenda, sareb-be parsa davvero più veritiera…

La notizia del crollo del Ponte arrivò in redazione a Firenze appena in tempo perché fosse possibi-le rifare totalmente la pagina. Fortunatamente il crollo non coinvolse le persone.

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di Natalino Benacci

L’Autocisa compie 40 anni. Arrampicato in mezzo all’Appennino questo

nastro d’asfalto nasce come un itinerario moderno copiato dalla storia delle comunicazioni nell’antichità. Là dove passaro-no eserciti, imperatori, papi e pellegrini è stato creato un “lun-go ponte” in grado di collegare il centro Italia con l’Europa.

Ben pochi itinerari possono vantare le vocazioni stori-che della Cisa come via di

valico tra la Padania e il Tirreno. Il primo tratto Fornovo-Selva del Bocchetto fu inaugurato il 2 ago-sto del 1969. Poi gradualmente nel giro di cinque anni l’arteria appenninica fu completata. L’idea promotrice, nata nei pri-mi mesi del 1947, puntava solo a realizzare un’autostrada di valico da Fornovo a Pontremoli,

simile alla Genova-Serravalle Scrivia. Tuttavia la proposta lanciata dalle forze economiche parmensi e portata avanti dai maggiori enti pubblici delle tre province di Parma, Massa Carra-ra e La Spezia, assieme ai comu-ni e alle Camere di Commercio e agli istituiti bancari lombardi ed emiliani, ebbe successo e fu costituito un comitato promo-tore che curò una raccolta di fondi per realizzare uno studio completo sulle prospettive tecniche ed economiche affidato all’ingegner Aimone Jelmoni di Milano.

Per sensibilizzare il governo sulla necessità di realiz-zare l’opera fu organiz-

zato nell’ottobre del 1951 a Salsomaggiore un convegno . Al termine fu approvato un ordine del giorno in cui si affermava che, essendo insufficienti le con-dizioni della viabilità sui valichi

1969 - 2009

Compie 40 anni l’autostrada che ci ha collegati all’Europa

La Cisa come collegamento tra

la Val Padana e il Tirreno ha

una vocazione antichissima. Da

qui passarono eserciti, papi ed

imperatori.

appennini, si riteneva urgente diporre di un migliore colle-gamento fra il nord e il centro Italia attraverso la realizzazion-re di un progetto di valico della Cisa. Alla legge Aldisio seguì la Romita (21 maggio 1955 n.463) che impegnava lo Stato a varare con il sistema delle concessioni un programma di costruzioni autostradali.

Il Comitato promotore si era sciolto e al suo posto era nata una società per azioni deno-

minata “Autocamionale della Cisa per la direttissima Milano-Roma-Mezzogiorno s.p.a.”. Un obiettivo che fu poi ridimensio-nato dai programmi dell’Iri che costruì l’ “Autostrada del Sole”.

Il progetto di massima dell’Au-tocisa fu approvato dall’Anas e il 22 settembre del 1958 il

ministro Togni e l’allora presi-dente dell’Autocamionale Marco Visentini firmarono l’atto di concessione che prevedeva un contributo statale del 32,90%, che valeva 14 miliardi. Nel gen-naio del 1962 vennero affidati i lavori alle imprese, ma già sin dal primo anno ci si rese conto che le previsioni economiche sarebbero state superate. L’ese-cuzione delle opere incontrò infatti notevoli difficoltà nel trat-to Fornovo-Roccaprebalza dove movimenti franosi resero inutile la costruzione di gallerie e ma-nufatti. I lavori furono addirit-tura sospesi: per continuare era necessario sottoscrivere con lo Stato una nuova convenzione. Fu un convegno nazionale organiz-zato a Roma il 20 maggio 1965 a sbloccare la strada per la firma di una nuova convenzione che arrivò il 21 marzo 1968 per tutti i 101 chilometri dell’autostrada: costo complessivo presunto 93,5 miliardi. Da quel momento i lavori ripresero a grande ritmo.

I tempi di apertura al traffi-co dei singoli tratti furono i seguenti: Fornovo Sel-

va del Bocchetto (11,4 km) 2.8.1969; Autosole-Fornovo (22,5 km) 21.11.1971; Fornovo-Ghiare (8,3 km) 21.11.1971; Pontremoli-Autostrada Ligure Toscana (25,2 km) 14.5.1972; Tugo-Montelungo (10 km) 24.6.1972; Roccaprebalza-Tugo (3,4 km) 25.5.1973; Ghiare-Roc-caprebalza (5,8 km) 27.7.1974; Montelungo-Pontremoli (14.4 km) 24.5.1975.

L’apertura al traffico dell’intera autostrada avvenne il 24 maggio

1975. La lunghezza complessiva dell’arteria dal raccordo con l’Autosole sino a S.Stefano Ma-gra è di 101 km, con 18 gallerie della lunghezza complessiva di 7,5 km, 96 ponti e viadotti (19 km).Le gallerie maggiori sono quelle del valico lunga 2.040 metri e del Cucchero (1.130 metri), il viadotto più alto è quello di Rio Verde (146 m.) che precede il ponte di Roccaprebal-za (100 m.).

Per la costruzione dell’au-tostrada occorsero: 2 milioni e mezzo di giornate

lavorative, 13 milioni e 400 mila metri cubi di scavi all’aperto, 1 milione e mezzo di metri cubi di scavi in galleria, 2 milioni e 300 mila metri cubi di calcestruzzi. Gli accessi intermedi all’arteria dalla viabilità ordinaria sono sei: Parma Ovest, Fornovo, Ghiare, Berceto, Pontremoli, Aulla. Le aree di servizio sono 8 (Medesa-no, Tugo, Montaio, San Bene-detto) sui due sensi di marcia. Migliaia di operai e di tecnici hanno lavorato alla realizzazione di quest’opera per anni metten-do spesso a rischio la propria vita. In tragici incidenti di lavoro sono morti dodici operai.

Nel 1969 l’inaugurazione del primo tratto tra Fornovo e Selva del BocchettoMa se ne parlava già nel 1951

L’apertura al traffico dell’intera auto-strada avvenne nel maggio del 1975.

L’arteria ha una lunghezza di 101 chilometri con 18 gallerie e 96 fra ponti e viadotti (nella foto).

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Lo scrittore che seppe interpretare l’anima di Sarzana ci lasciò nel 1994, a 62 anniUna ricca produzione lirica e tanti articoli esemplari

Bertolla: così vive (così muore)un vero poeta e giornalista

di Egidio Banti

29 gennaio 1994, ore 7 del mattino. Nell’alba fredda del primo dei giorni della

merla, un uomo esce di casa, barcolla, e si accascia privo di vita su una delle banchine del viale della Pace, a Sarzana. Il suo nome è Giovanni Bertolla. Non ha ancora 62 anni. Con lui lascia questo mondo uno dei maggiori poeti che Sarzana abbia avuto nel Novecento. Il più grande, forse, insieme a Corrado Martinetti. In realtà , però, egli fu molto di più che un poeta, fu un “personaggio” di Sarzana nel senso più ampio e più completo del termine, davvero singolare nella ricchezza prorompente della sua umanità.

Tanto che - quindici anni dopo - ancora i sarzanesi la sentono viva, come si è

visto all’inizio di giugno nell’in-contro “Nostalgia di un amico” promosso proprio per ricordarlo al “Loggiato” di Gemmi. Giovanni apparteneva alla famiglia mode-

sta ma operosa di un barbiere di via

Mazzini, Oreste Bertolla, che,

tra non pochi sacrifici, volle farlo studia-re sino alla laurea in giurispru-denza. Per sbarcare il lunario e mantenersi

agli studi, il giovane, la

sera, staccava biglietti al cine-

ma Italia e scri-veva articoli per le

cronache locali. Ecco. Articoli. Il giornalismo

è stato infatti, con la poesia, l’altra grande passione nella vita travagliata di Giovanni Bertolla, benché, per motivi “burocratici”, egli non sia mai riuscito ad iscri-versi all’Ordine dei giornalisti.

A Sarzana, negli anni Cin-quanta, erano molti i giovani universitari che si

misuravano nelle collaborazioni giornalistiche, molto diverse dai tempi di oggi, senza telefonini né fax, né computer né videocamere. Si scriveva battendo sui tasti della gloriosa “Lettera 22” della Olivetti, con nastri che presto si consuma-vano, diventando bianchi, tanto che, mancando il ricambio, si doveva ricorrere al... trucco della carta carbone, affinché qualco-sa restasse impresso sui fogli, rigorosamente di carta velina (che costava meno). Le redazioni sarzanesi erano proliferate, nella stagione della rinascita democra-tica del dopoguerra. La Nazione - con la quale (anche se non solo con quel giornale) Giovanni col-laborò a lungo, aveva dato avvio attorno alla metà degli anni ‘50 alla pagina quotidiana di “Cronaca di Sarzana”, con una prima sede in via Mazzini, a fianco del palazzo Massa Neri. Solo in seguito si spo-

stò dall’altra parte della strada (e della piazza della cattedrale).

Quando Ovidio Ruggeri, il popolare “Marangon”, che ne era il redattore, dovette

partire per il servizio militare (era il 1956), l’onere di reggere la cronaca passò per parecchi mesi proprio al “non giornalista” Giovanni Bertolla. Del resto, di quell’epoca di giornalismo locale che potremmo definire “bohe-mien”, Giovanni fu a lungo uno degli eroi eponimi, con la sigla tradizionale e conosciutissima con cui licenziava i suoi pezzi migliori: “Bigio”.

Scriveva di tutto, e su tutto, dai resoconti allora corposi dei consigli comunali (con-

sigliere comunale egli lo fu anche per un solo mandato, dal 1956 al 1960, nelle file della DC) alle partite di calcio, che lo vedevano tifoso acerrimo e critico impieto-so appuntarsi le azioni principali di gioco sugli spalti di un “Miro Luperi” privo di tribuna stampa; dalle brevi di nera, conquistate quasi come uno scalpo guerriero sottratto alla concorrenza nei locali del pronto soccorso, alle ce-rimonie cittadine, civili o religiose che fossero.

Considerò sempre un grande onore - una volta che la Sarzanese di Orrico approdò

alla serie D - l’essere investito del ruolo di corrispondente unico della mitica “Gazzetta dello Sport”. Anche se (come in un film triste di Chaplin) tutto si riduce-va, la domenica sera, nell’invio te-lefonico di un pezzo di... strimin-zite quindici righe, che Giovanni scriveva di getto, a fine partita, spesso ancora appollaiato sui gradini dello stadio, proprio come una delle sue poesie “dell’istan-te”. La telefonata alla Gazzetta, poco dopo, era una specie di rito solenne, celebrato quasi sempre all’interno della redazione della Nazione, che lo “ospitava” per la

bisogna: “Signorina, mi passi per favore gli stenografi della Gaz-zetta dello sport in partenza da Milano. Corrispondente Giovanni Bertolla”!

Nel 1972 una grave malattia, seguita al dolore per la morte della madre Nella

e ad un periodo di forti turba-menti, sembrò mettere fine a tutto ciò. Ma si riprese e, com’era nel suo carattere, rilanciò alla grande. Non solo riprendendo le collaborazioni quotidiane ai giornali locali, ma dando vita - con spericolate acrobazie per chiudere i conti - ad una rivista mensile, “Lunigiana”, che voleva “esportare” in tutto il territorio della nostra “regione mancata” - dal passo della Cisa al mare alto versiliese - la ricchezza storica ed umana che egli avvertiva come propria di Sarzana. La “ripresa” registra - anche come reazione alla malattia - l’impennata della produ-zione poetica, con i numerosi libri che vengono pubblicati (sempre collegati ad iniziative benefiche), le critiche favorevoli che sono numerose, la simpatia della città che gli si stringe attorno.

La fatica del vivere, però, si fa sentire, e negli anni Novan-ta appare sempre più in

difficoltà, benché le sue attività di sempre, e soprattutto la poesia e il giornalismo, non vengano meno. Come ricordava Franco Antola nel necrologio sulla “Cronaca di Sarzana”, “lui , con quel suo innato senso del pudore, cercava di esi-bire solo l’aspetto più allegro del suo carattere. Ma i suoi disturbi si accentuavano e spesso spariva dalla circolazione, per riapparire solo a crisi superata. “Sono stato poco bene”, diceva. E tornava ad essere per tutti “Bigio”, spirito libe-ro e poeta scanzonato”. Nella notte prima di quell’alba maledetta, ancora, sulla vecchia macchina da scrivere, aveva scritto versi ai quali affidava la sua umanità e, quella notte, il suo testamento.

Nel tondo: Giovanni Bertolla. Il nostro

collaboratore, assieme a Corrado

Martinetti, seppe interpretare nelle

sue liriche l’anima di Sarzana.

Bertolla, che spesso si firmava con lo pseudonimo di Bigio.Pur collaboran-do con molti quotidiani e riviste, non riuscì mai ad iscriversi all’Ordine dei giornalisti.

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La guerra di Ca’ Gaggino:un’oasi di verde salvata dai rifiuti

La protesta contro la discarica si è espressa per anni attraverso presidi e battaglie legali.

Oggi, dopo dieci anni di lotte, di Ca’ Gaggino come discarica non se ne parla più.

Nella foto: una delle innumerevoli mani-festazioni contro la

discarica.

Nel tondo: all’in-terno del “presidio

antidiscarica” si legge La Nazione, il quotidiano che fu a fianco della

protesta popolare.

Un Presepe di lattine, il Gabibbo e due torrette di osservazioneLa Nazione al fianco dei cittadini

di Emanuela Rosi

Dodici anni dopo Ca’ Gag-gino è ancora una delle tante piccole valli verdis-

sime che si nascondono tra le colline della Lunigiana. Forse solo il nome di una delle infine “case sparse” per la maggior parte degli stessi lunigianesi. Ma Ca’ Gaggino è stata per un anno e mezzo il simbolo della lotta con-tro le discariche, contro lo sfrut-tamento del territorio in nome dei rifiuti, contro la prepotenza della politica, contro le decisioni prese a tavolino a dispetto dei cittadini. Doveva essere una discarica Ca’ Gaggino, per tutti i rifiuti di Massa Carrara.

Lo aveva deciso la Provincia, con il benestare dell’assem-blea dei sindaci lunigianesi,

forte di un progetto allora definito “all’avanguardia”. Loro, gli abitanti di Quercia, Bondola, Bigliolo, Vaccareccia, e tante altre piccole frazioni, hanno detto no, sono saliti sulle barricate il 9 gen-naio del 1996, ne sono scesi solo a giugno dell’anno dopo, quando la stessa Provincia si è rassegnata a fare marcia indietro. Ha sospeso gli espropri e cercato alternative lasciandosi aperta la possibilità di tornare sui propri passi, una scappatoia. Non lo ha mai fatto, in realtà. Ca’ Gaggino è ancora l’“oa-si verde” che gli abitanti hanno salvato dai rifiuti.

Nessuno il 9 gennaio cre-deva che la lotta contro la discarica di Cà Gaggino

potesse durare tanto. Quel giorno dovevano cominciare i sondaggi

e le rilevazioni della provincia: li hanno fermati con i trattori, rubati per un giorno al lavoro dei campi. Contro quella scelta non erano stati altrettanto efficaci, fino a quel momento, né i ricorsi giudiziari né l’ironia: il presepe fatto di lattine e bottiglie vuote,

carta e plastica, nel centro del paese, le calze della befa-

na per i bambini fatte di sacchetti per i

rifiuti, la calza da Guinness

ecologica appesa al campanile di Quercia. Poi sono arrivate le magliette “I love Ca’

Gaggino”, di-ventate divisa

di una lotta d’amore e di va-

lori. Cinque giorni dopo venne il Gabibbo

e la rivolta di Quercia arrivò alla ribalta nazionale. Ma ancora si credeva fosse un fuoco di paglia: presto la protesta sarebbe scemata, gli abitanti si sarebbero rassegnati (come sem-pre), i progetti “sovracomunali” sarebbero andati avanti in nome di ragioni superiori.

Ma lì a Ca’Gaggino gli abitanti della verde Lu-nigiana hanno cancellato

tutta la teoria, spazzato via i pregiudizi, demolito ogni convin-zione sull’incapacità dei cittadini di solidarizzare per un obiettivo comune con più forza dei politici. La resistenza degli abitanti di Ca’ Gaggino è durata un anno e mezzo, coltivata dentro due baracche trasformate in “torret-te” di osservazione con stufette a legno per combattere il freddo,

campane al posto delle trombe per suonare l’adunata dell’eser-cito anti-rifiuti. Erano riusciti a trovare il tempo, tra il lavoro e la famiglia, per organizzare turni di guardia senza vuoti, veglie infinite, lunghe notti insonni con le antenne sempre in funzione nel timore di inaspettati blitz per espropri forzati e partite a carte ad ammazzare il tempo e la tensione. Hanno portato sacchi di rifiuti in municipio, bloccato le strade, si sono scontrati con le forze dell’ordine, hanno resistito ai tecnici e politici.

Ai cittadini si sono uniti gli studenti, i ragazzi, hanno dato la loro solidarietà

i commercianti, i lavoratori e i pensionati, al loro fianco ci sono state le associazioni ambientali-ste ed i giornalisti, tra cui Monica Gabrielli e Gloria Penso, corri-spondenti de La Nazione.

Nella baracca di Vaccarec-cia l’“esercito” antirifiuti ha festeggiato il Natale,

poi il Capodanno e il primo compleanno del comitato il 10 gennaio del 1997, ha continuato a combattere con trattori e carte bollate, dividendosi fra barri-cate e aule giudiziarie. Un anno dopo i paesi in lotta erano venti, i vigilantes anti-rifiuti migliaia, divisi tra la capanna-caserma di Vaccareccia e quella di Olivola, presidi invalicabili sulle uniche due strade che avrebbero potuto far passare i camion carichi di spazzatura a Ca’Gaggino.

A giugno la guerra di po-sizione era vinta. Di Ca’ Gaggino dieci anni dopo

non si parla più. Di discariche nella verde Lunigiana sì. E il “caso” spazzatura è tutt’altro che chiuso.

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