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La scimmia e la sirena O dell’obbedienza ai tempi del reality I. Presentazione; II. Testo: La scimmia e la sirena; III. Appendice: “Lo spettacolo dell’obbedienza, tutta una storia”; Nota biobibliografica. Presentazione Si tratta di un apologo, una favola filosofica che racconta la catastrofe mentale dell’uomo contemporaneo, completamente immerso nell’universo mediatico: dalla tv a internet e ai social network, che cosa accade quando la realtà non si distingue più dal suo spettacolo? Lungi dall’essere un semplice format televisivo tra gli altri, lo “spettacolo della realtà” (reality show) definisce una nuova condizione dell’essere al mondo. I nostri modi di percepire le cose, di pensare e di agire sono radicalmente cambiati. Prendiamo le foto pubblicate su facebook o twitter: la realtà della nostra vita quotidiana si manifesta solo attraverso la sua mediatizzazione spettacolare (il logo di instagram o retrica, talvolta accompagnato dalla data, il luogo e il meteo del momento in cui la foto è stata scattata), mentre lo spettacolo non è che la presentazione della realtà stessa, per quanto banale o triviale essa sia (dei piedi allungati su una spiaggia, una torta o un piatto di spaghetti, il volto dei nostri figli). Questa ibridazione della realtà e della finzione rischia di dissolvere tutte le opposizioni sulle quali il nostro modo di pensare è fondato: il vero e il falso, il bene e il male, il giusto e l’ingiusto, il pubblico e il privato. In particolare, potremmo chiederci se, a queste condizioni, l’opposizione tra obbedire e disobbedire sia ancora operativa, e, di conseguenza, se la scelta tra queste due opzioni sia ancora possibile e abbia ancora un senso. È la domanda posta in questo testo, di cui è stato realizzato un adattamento per la performancespettacolo Nage, nage petit poisson, Dés/obéir à l’époque de la téléréalité, presentata nel Festival des Libertés, Théâtre National de Bruxelles, il 18 ottobre 2014. Un uomo attraversato e trasportato da flussi di ogni tipo, s’interroga in primo luogo su quello che succede, prima di partire alla ricerca di una via d’uscita: realtà o delirio? Una catastrofe sembra aver inghiottito il mondo. Rinchiusi in vascelli sottomarini, i sopravvissuti vagano in un deserto d’acqua, combattuti tra la nostalgia del mondo perduto e l’utopia di un’isola riemersa. Il Capitano riflette: la realtà non si distingue più dal suo spettacolo e l’oceano nel quale navighiamo è il prodotto di questa confusione. Rovistando nei suoi archivi, s’imbatte in una strana scena: l’incontro tra Allen Funt, pioniere della Reality TV, e Stanley Milgram, autore di un’esperimento scientifico sull’obbedienza. Mentre cerca di comprendere, l’immagine di una creatura ibrida comincia a ossessionare i suoi sogni: dal loro incontro nascerà forse la possibilità di un altro mondo.

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La  scimmia  e  la  sirena    O  dell’obbedienza  ai  tempi  del  reality    

 I.  Presentazione;   II.  Testo:  La  scimmia  e   la  sirena;   III.  Appendice:  “Lo  spettacolo  dell’obbedienza,  tutta  una  storia”;  Nota  biobibliografica.      

   Presentazione  Si   tratta   di   un   apologo,   una   favola   filosofica   che   racconta   la   catastrofe   mentale   dell’uomo  contemporaneo,   completamente   immerso  nell’universo  mediatico:  dalla   tv  a   internet  e  ai   social  network,   che   cosa   accade   quando   la   realtà   non   si   distingue   più   dal   suo   spettacolo?   Lungi  dall’essere   un   semplice   format   televisivo   tra   gli   altri,   lo   “spettacolo   della   realtà”   (reality   show)  definisce  una  nuova  condizione  dell’essere  al  mondo.  I  nostri  modi  di  percepire  le  cose,  di  pensare  e   di   agire   sono   radicalmente   cambiati.   Prendiamo   le   foto   pubblicate   su   facebook   o   twitter:   la  realtà  della  nostra  vita  quotidiana  si  manifesta  solo  attraverso  la  sua  mediatizzazione  spettacolare  (il  logo  di  instagram  o  retrica,  talvolta  accompagnato  dalla  data,  il  luogo  e  il  meteo  del  momento  in  cui   la   foto  è  stata  scattata),  mentre   lo  spettacolo  non  è  che   la  presentazione  della  realtà  stessa,  per  quanto  banale  o  triviale  essa  sia  (dei  piedi  allungati  su  una  spiaggia,  una  torta  o  un  piatto  di  spaghetti,   il   volto   dei   nostri   figli).   Questa   ibridazione   della   realtà   e   della   finzione   rischia   di  dissolvere  tutte  le  opposizioni  sulle  quali   il  nostro  modo  di  pensare  è  fondato:  il  vero  e  il  falso,  il  bene  e  il  male,  il  giusto  e  l’ingiusto,  il  pubblico  e  il  privato.          In   particolare,   potremmo   chiederci   se,   a   queste   condizioni,   l’opposizione   tra   obbedire   e  disobbedire  sia  ancora  operativa,  e,  di  conseguenza,  se  la  scelta  tra  queste  due  opzioni  sia  ancora  possibile  e  abbia  ancora  un  senso.  È  la  domanda  posta  in  questo  testo,  di  cui  è  stato  realizzato  un  adattamento  per  la  performance-­‐spettacolo  Nage,  nage  petit  poisson,  Dés/obéir  à  l’époque  de  la  téléréalité,  presentata  nel  Festival  des  Libertés,  Théâtre  National  de  Bruxelles,  il  18  ottobre  2014.  Un  uomo  attraversato  e  trasportato  da  flussi  di  ogni  tipo,  s’interroga  in  primo  luogo  su  quello  che  succede,  prima  di  partire  alla   ricerca  di  una  via  d’uscita:   realtà  o  delirio?  Una  catastrofe  sembra  aver   inghiottito   il  mondo.   Rinchiusi   in   vascelli   sottomarini,   i   sopravvissuti   vagano   in   un   deserto  d’acqua,  combattuti  tra  la  nostalgia  del  mondo  perduto  e  l’utopia  di  un’isola  riemersa.  Il  Capitano  riflette:   la   realtà   non   si   distingue   più   dal   suo   spettacolo   e   l’oceano   nel   quale   navighiamo   è   il  prodotto   di   questa   confusione.   Rovistando   nei   suoi   archivi,   s’imbatte   in   una   strana   scena:  l’incontro   tra  Allen  Funt,  pioniere  della  Reality  TV,   e  Stanley  Milgram,  autore  di  un’esperimento  scientifico   sull’obbedienza.   Mentre   cerca   di   comprendere,   l’immagine   di   una   creatura   ibrida  comincia   a   ossessionare   i   suoi   sogni:   dal   loro   incontro   nascerà   forse   la   possibilità   di   un   altro  mondo.  

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La  scimmia  e  la  sirena  O  dell’obbedienza  ai  tempi  del  reality  

 I  

Delirio  Alla  ricerca  di  una  via  d’uscita  

   

   C’è  nessuno?  Ehi!  Laggiù!  C’è  qualcuno?    Beh,  dovrò  abituarmi  a  questo  silenzio.    Però  sento  questa  voce:  “C’è  nessuno?  C’è  qualcuno?”.    Vorrà  dire  comunque  qualcosa.    Non  c’è  nessuno  per  rispondermi,  forse,  in  effetti,  non  ne  sono  del  tutto  sicuro…  Tuttavia  sento  la  mia  voce,  e  questo  vuol  dire,  sì!,  vuol  dire  che  “io”  ci  sono!    (Fa  strani  gargarismi,  come  gli  esercizi  vocali  degli  attori  ma  grotteschi,  e  che  a  volte  somigliano  ai  versi  degli  animali.)    Ah,  bella  sensazione!  Sì,  proprio  così,  è  importante  sapere  di  esserci,  non  è  vero?    Sì,  hai  ragione:  è  molto  importante,  ascolta,  te  lo  dico  in  tutta  franchezza,  è  essenziale!  Sì,  sì,  hai  ragione:  perché  qui  tutto  è  diventato  vago,  sfocato,  avanziamo,  certo,  ma  mi  chiedo  se  non  stiamo  andando  alla  deriva.  Bisogna  assolutamente  mantenere  la  rotta.        Non  ci  sono  più  punti  di  riferimento,  i  sensi  sono  offuscati  e  ciò  che  somiglia  a  una  via  d’uscita  non  è  che  ingannevole  apparenza:  per  esempio,  poco  fa,  ho  visto  uno  scoglio,  ma  dopo  mi  sono  reso  conto  che  era  l’ombra  di  una  nube  che  galleggiava  sulla  superficie  dell’acqua.    È  così,  non  si  può  più  credere  a  nulla!  Devi  seguire  la  tua  voce  e  basta.  È  essenziale.    Sì,   ma   vedi,   all’improvviso   ho   un   dubbio,   scusa,   torno   un   po’   indietro:   “C’è   nessuno?   C’è  qualcuno?”.    Molto  bene,  hai  sentito  la  tua  voce;  ma  dopo,  che  cos’è  successo?  Ho  riflettuto  un  attimo  e  ho  detto:  beh,  visto  che  sento  la  mia  voce,  vuol  dire  che  ci  sono!  Una  bella  scoperta,  eri  contento…  Sì,  sono  molto  felice  di  esserci…    (Ripete  gli  strani  gargarismi)    Ecco.  Ecco,  infatti.    Somiglia  forse  a  una  voce  “umana”?    Sono  di  certo  rumori  molto  strani.  Sì,   in  realtà,  ho  un  dubbio,  devo  riflettere.  Sai,   la  cosa  mi  preoccupa  un  po’,  mi  capita  spesso  di  chiedermi  se  sono  sveglio  o  se  sto  dormendo.  Forse  sto  sognando:   parlo,   ordino   alla  mia   ugola   di   fare   degli   esercizi   di   vocalizzazione,   sento   questi  versi  grotteschi  uscire  dalla  mia  bocca,  e  mi  chiedo  se,  in  effetti,  non  stia  disteso  sul  mio  letto  con  gli  occhi  chiusi.  Me  lo  chiedo,  quindi  sono  cosciente.  Ebbene  no!  I  sogni  sono  formidabili  fabbriche  d’illusioni.    Dici  bene,  è  tutto  un  film!      

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Sì,  e  le  cose  sembrano  spesso  più  concrete,  più  intense  della  realtà  stessa.  Chi  mi  assicura  che  non  stia  sognando,  nel  momento  stesso  in  cui  mi  pongo  queste  domande?    Nessuno,  solo  tu  puoi  risolvere  l’enigma.  Cerca  quindi  di  svegliarti!    Sì,  ma   appunto,   a   volte   decidi   di   svegliarti,   e   non   fai   che   sprofondare  nel   sogno.   È   come   se  cercassi  di  aprire  delle  porte  nell’acqua:  pensi  di  uscire,  di  venir  fuori  da  qualche  parte,  e,  in  realtà,   nuoti,   lasciandoti   trascinare   dalla   corrente   sempre   più   lontano,   sempre   più   in  profondità.        È  un  problema:  che  fare?    Beh,   rifletto,   continuo   a   pormi   domande,   e   se   anche   fossi   addormentato,   continuando   a  riflettere,  a  pensare,  prima  o  poi  dovrò  svegliarmi.  Perché  “io  penso”,  questo  è  certo.  Ma,  vedi,  subito  non  posso  fare  a  meno  di  chiedermi  chi  è  questo  “io”  che  dice  di  pensare.    Bella  domanda:  quando  si  sogna,  l’“io”  che  pensa,  è  lo  stesso  “io”  che  pensa  quando  si  è  svegli?  In   un   certo   senso   sì,  ma   c’è   comunque   una   non   trascurabile   differenza:   cambia   il  modo   di  esserci.    Esattamente!   Parlo,   sento   la   mia   voce,   la   seguo,   seguendola   i   miei   pensieri   si   dispiegano,  quindi  ci  sono,  sto  qui,  adesso,  ma  in  verità  non  so  “in  che  modo”  sono  presente.    Sì,  e  cambia  tutto.  Ascolta,  non  voglio  farti  preoccupare  ancora  di  più,  ma  bisogna  considerare  la  possibilità  che  ci  sia  un  demone  che  t’inganna,  o  che  tu  sia  impazzito.        Infatti,   sento   che   c’è   qualcosa   di   strano.   Il   mio   corpo…   non   lo   percepisco   più   nello   stesso  modo.  Non   lo   sento   come   se   fosse   fatto,   che   ne   so,   di   fuoco   o   di   vetro.  No,   non   si   tratta   di  questo.  Hai  sentito  la  mia  voce?  Questi  rumori  mostruosi  che  a  volte  escono  dalla  mia  bocca?  È  una  voce  animalesca!  E  anche  i  miei  silenzi  sono  mostruosi,  i  silenzi  assurdi  di  una  specie  di  bestia…      Resta  calmo.    Non  hai  nulla  da  perdere,  e  nel  deliro  potrebbe  esserci  una  via  d’uscita:  chi  può  dirlo?  E  poi,  mi  ricordo   di   un   racconto   di   Kafka,   sai,   la   scimmia   del   racconto   Una   relazione   accademica.  Catturata  nella  Costa  d’Oro,  rinchiusa  nella  stiva  del  piroscafo  che  la  conduce  in  Europa,  non  cerca  la  libertà,  illusione  che  si  rifiuta  di  condividere  con  gli  uomini,  e  si  trattiene  dal  tentare  la  fuga,  giudicandolo  un  gesto  inutile,  disperato.  No,  cerca  “una  semplice  via  d’uscita…”.            “…a  destra,   a   sinistra,   in  qualsiasi   direzione   (…).  Andare  avanti,   andare  avanti!   Solo  non   star  fermo  con  le  braccia  alzate,  addossato  alla  parete  di  una  cassa…”    E   che   cos’è   questa   via   d’uscita?   Semplice,   smetterà   “di   essere   una   scimmia”.   Non   è   attirato  dall’idea  di  imitare  gli  uomini;  lo  fa  solo  perché  cerca  una  via  d’uscita.  Tra  il  giardino  zoologico  e  il  teatro  di  varietà,  non  ha  dubbi:  sceglie  il  varietà!        “E  imparai,  signori  miei.  Ah,  s’impara  quando  la  necessità  incalza;  s’impara  quando  si  cerca  uno  scampo,  s’impara  disperatamente.  Si  sorveglia  se  stessi  con  la  sferza;  alla  minima  resistenza  ci  si  lacera  le  carni.  La  mia  natura  di  scimmia  smaniava  dimenandosi,  usciva  da  me,  tanto  che  il  mio  primo   maestro   divenne   quasi   una   scimmia   egli   stesso;   dovette   rinunziare   ben   presto  all’insegnamento  e  fu  ricoverato  in  una  casa  di  salute.  Fortunatamente  ne  uscì  dopo  poco.”1      Ah!  Ah!  Ah!  Non  male,  non  male!  Bene,  proviamo  allora.    

                                                                                                               1  trad.  di  Anita  Rho  (raccolta  di  racconti  intitolata  Il  messaggero  dell’imperatore,  Adelphi  2003).    

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Per   prima   cosa,   è   vero,   ci   sono   delle   analogie:   non   sono   rinchiuso   in   una   gabbia,  ma   sono  comunque   imprigionato   in   questa   bolla   tecnologica   sballottata   da   correnti   di   ogni   genere;  sono   solo,   sì,   questo  mi   rende   triste,   talvolta  mi   arrabbio,   maledico   la  mia   sorte,   al   tempo  stesso  però  devo  confessare  che  mi  dà  un  immenso  piacere  essere  attraversato,  trascinato  da  questi  flussi  oceanici.    Sbatte  e  gira   tutto;   tutto  galleggia,   scorre,  preme  e  gira:   tuttavia,  ho   imparato  a   riconoscere  alcuni  flussi  che  possono  aiutarmi  nel  mio  viaggio.  Almeno  lo  spero.  In  ogni  caso,  sapere  che  da   qualche   parte   ci   siano   degli   archivisti   che   custodiscono   le   tracce   del   passato,   e   degli  utopisti   che   tracciano   le   vie   del   futuro,   mi   dà   un   certo   sollievo.   Anche   se   a   volte   tutto   si  mescola,   come   in   un   frullatore,   e   non   riesco   più   a   distinguere   tra   la   nostalgia   del   mondo  perduto  e  la  speranza  di  una  terra  promessa.  Alla  fine,  mi  viene  solo  un  tremendo  mal  di  testa.    Ma  forse  hai  ragione,  delirare  è  l’unico  modo  di  venirne  fuori.  Sì,  Andare  avanti,  andare  avanti!,  come  dice  la  scimmia.  Allora,  potrei  cominciare  con  il  descrivere  tutto  quello  che  vedo  intorno  a  me,  senza  dubbio,  a  un  certo  punto  lo  farò,  ma  non  sono  sicuro  che  sia  sufficiente.  Cercherò  piuttosto  di  “raccontare”  le  mie  visioni.    Sì,  proprio  così,  Capitano,  racconta!  Da  dove  pensi  di  cominciare?    Vediamo…  Dopo  il  diluvio…  “io”.    

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II  Catastrofe  

Dire  di  sì,  dire  di  no      Accidenti!  Ho  sbattuto   la   testa…  Con  questi  black  out,   è  diventata  una   fastidiosa  abitudine.   Inizierò  ad  andarmene  in  giro  con  un  casco.    Ah!  Ah!  Sei  spiritoso,  Capitano.    Maledizione!  Che  cosa  succede  oggi?  Si  muove  tutto,  meglio  sedersi  un  attimo.      Ecco.  Così  va  meglio.    Lo   so,   lo   so:   le   tempeste   solari,   l’aumento   della   temperatura,   lo   scioglimento   delle   calotte  polari,  bla,  bla,  bla…  Sono  anni,  ma  che  dico,  sono  secoli  che  non  sento  parlare  d’altro.  Sono  stufo  di  sentire  la  gente  lamentarsi  e  piangere  sulla  propria  sorte.        Siete  sopravvissuti?  Ebbene,  adesso  datevi  da  fare!    E  poi,   sì,  non  rinuncio  a  un  po’  di  confort:   chi  può  rimproverarmelo?  Senza  accendere   l’aria  condizionata,  con  queste  temperature,  rischi  di  finire  bollito  come  un  pesce.  Un  pesce  sì…      E  poi,  mi  direte:  ma  è  meschino,  è  egoista.  Ebbene,  non  m’importa,  io  non  posso  vivere  senza  computer.   In   fondo,   che   cosa   mi   resta?   E   poi,   ditemi,   come   potrei   navigare   senza   essere  connesso?    Francamente,   tutti   questi   tagli   di   corrente   sono   un’enorme   seccatura.   È   come   se   dovessi  scegliere  di  continuo  tra  una  cosa  e  l’altra:  come  se  sapessi  che,  ogni  volta  che  accendo  l’aria  condizionata,  la  connessione  finirà  per  interrompersi.        È  orribile!  No,  questo  genere  di  ricatti  non  li  accetto.  Aspetta,  come  le  chiamavano  una  volta?  Ah  sì,  “antinomie”.    Ma,   appunto,   non   lamentiamoci.   Sono   già   stupito   che   riusciamo   a   galleggiare.   Dovremmo  essere  affondati  da  un  pezzo,   invece,  nonostante  tutto,  respiriamo  ancora.  Perché  io  respiro,  questo  è  certo.  Ma  il  problema  è  sempre  lo  stesso:  sapere  “come”  respiro…    Ho  divagato  ancora,  dov’eravamo  rimasti?    Ah  sì,  ecco,  il  diluvio,  la  bolla  alla  deriva  nell’oceano,  la  via  d’uscita…  Sai,   ho   riflettuto   su   questa   storia   della   scimmia   che   diventa   uomo.   Aspetta,   sono   andato   a  cercare  il  passaggio:    “Per   quel   che   mi   riguarda,   dice   la   scimmia,   non   ho   mai   preteso   la   libertà,   (…)   gli   uomini   si  ingannano  troppo  sovente  a  proposito  della  libertà.  (…)  Spesso  nei  teatri  di  varietà  sono  stato  a  guardare,  prima  del  mio  numero,  qualche  coppia  di  artisti  che  si  esibiva  sui  trapezi  lassù  sotto  il  soffitto.  Essi  volteggiavano,  si  dondolavano,  saltavano,  si   libravano  uno  nelle  braccia  dell’altro,  l’uno  reggeva  l’altro  per  i  capelli,  con  i  denti.  ‘Anche  questa  è  libertà  per  gli  uomini  –  pensavo  io  –  movimento   dominato   dal   proprio   volere’.   Oh   irrisione   della   sacra   natura!   Nessun   edificio  reggerebbe  alle  risate  del  mondo  scimmiesco  davanti  a  questo  spettacolo.”    Ecco  una  classica  antinomia:  l’uomo  immagina  di  erigere  sulla  sua  volontà  il  sublime  edificio  della   cultura,  ma  basta   lo   sguardo  di  una   scimmia  per   rivelare   che  alle   fondamenta  non   c’è  nessuna  libertà,  giacché  il  mondo  è  interamente  regolato  dalle  leggi  della  natura.    Ho  l’impressione  che  ti  prenda  un  po’  in  giro  questa  scimmietta  bislacca.        Sì,  non  mi  piace  che  mi  prendano  in  giro.  Stamattina,  mentre  riflettevo,  sai,  rifletto  sempre,  mi  sono  trovato  di  fronte  a  uno  specchio,  e  ho  visto  la  sua  orrenda  smorfia  incollarsi  sul  mio  viso  

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come   un   fazzoletto   bagnato.   Ti   rendi   conto?   Brrr,   brrr…   Sinceramente,  mi   ha   fatto   venire   i  brividi.  O  forse  voleva  solo  avvisarti.  Ti  diceva:  “Attento,  mio  caro!  Io  sono  un  animale  che  è  diventato  uomo,  ma  porrebbe  succedere  il  contrario:  che  tu  sia  un  uomo  che  sta  diventando  animale!”.    La  trovo  terribilmente  saggia  questa  scimmia,  è  sospetto.    Ma,  ascolta,  qual  è  la  vera  domanda,  concentrati.  Ho  capito  a  cosa  alludi:  è  forse  la  paura  di  non  essere  libero  che  mi  fa  sentire  così  vicino  agli  animali?  Un  animale   tra  gli  animali?   In   loro,   tutto  sembra  determinato,  prescritto  dalle   loro  dotazioni   biologiche.   In   più,   c’è   questa   storia   dell’addomesticamento,   del   dressage.   Non   lo  sopporto.   È   vergognoso,   tanto   per   gli   animali   quanto   per   gli  uomini.   Prendi   qualsiasi   cane  mediamente   domestico,   avrai   la   caricatura   dello   schiavo   buono,   lo   schiavo   felice,   così  sottomesso  alla  voce  del  padrone  da  non  riuscire  più  a  distinguerla  dai  suoi   latrati.  Puah!  Al  tempo  stesso,  chi  può  assicurarci  che  tutti  questi  animali  domestici  –  cani,  cavalli,  pappagalli  –  non  facciano  come  la  scimmia?  Che  non  imitino  gli  uomini  per  trovare  una  via  d’uscita?  E  poi,  vedo   che   gli   animali   possono   eventualmente   dimostrarsi  molto  meno   docili   degli   uomini,   i  quali  pretendono  di  essere  liberi  in  sommo  grado.  Nonostante  tutto,  in  loro  rimane  un  fondo  di  estraneità,  qualcosa  d’irriducibile.  La  commovente  ferocia  della  bestia…            D’accordo,  mettiamo   che   le   lancette   dell’orologio   abbiano   cominciato   a   correre   all’indietro:  dall’Homo   sapiens   all’Homo   habilis,   dall’Australopithecus   all’Ardipithecus   e   poi   alle   scimmie  antropomorfe,  tra  cui  la  nostra  scimmia  sapiente,  probabilmente,  senza  dubbio…  Ma,  vedi,  al  più   arriviamo   alla   grande   famiglia   dei   Primati,   alla   quale   appartengono   i   Tarsi,   i   Lemuri,   le  Scimmie  e   l’Uomo.  Giunto  ai  mammiferi,  sono  costretto  a   fermarmi.  Bene,  posso  fare  ancora  uno  sforzo,  e  retrocedere  fino  agli  anfibi  Tetrapodi,   i  primi  animali  a  quattro  zampe.  Ma  qui,  davvero,  basta…  Sono  esausto,  capisci?  Non  posso.    Sì,  riposati,  prendi  fiato.    Magari!   È   proprio   questo   il   problema.   Ho   accettato   di   viaggiare   a   ritroso   nel   tempo,   di  percorrere   controcorrente,   come   un   salmone   folle,   i   flutti   dell’evoluzione   –   d’altronde,   in  qualche  modo  sono  obbligato  a   farlo  –  ma  è  qui  che   l’orologio  si  rifiuta  di  andare  avanti.  La  respirazione  polmonare,  il  fiato  che  gonfia  la  mia  cassa  tracica,  no!  Non  posso  continuare.  Non  puoi  costringermi  a  strapparmi  l’anima  dal  petto…    Il   problema   non   è   essere   costretti.   Tu   respiri,   è   certo.   Si   tratta   di   sapere   “in   che   modo”:  ricordi?    È  vero.    In  più,  vedi,  se  non  si  accetta  la  propria  condizione,  non  si  va  da  nessuna  parte.  Bisogna  sapere  che  tipo  di  animale  sei  diventato,  affinché  l’animale  trovi  la  via  d’uscita  adatta.      Giochiamo  a  carte  scoperte:  sono  forse  diventato  un  pesce?    Ecco  la  vera  domanda!  Ci  sono  tutti  gli  indizi:  non  cammino,  nuoto;  non  afferro  le  cose,  sono  ghermito  da  flussi  che  mi  trascinano  ovunque;  non  entro  qui,  non  esco  da  lì,  sono  sempre  all’interno  e  avanzo.    Effettivamente  somiglia  a  una  vita  acquatica.    Ma,  vedi,  è  dura  per  un  uomo,  perché  mi  sento  comunque  un  uomo,  accettare  di  aver  perso  le  gambe,  di   essere   continuamente   immersi  nell’acqua,  di   assorbire   l’ossigeno  grazie   a  orribili  branchie.  Mi  si  lascino  almeno  le  vertebre!  Sì,  pesciolino.  Nuota  pesciolino,  nuota.      M’interrogo   sempre,   avanzo.   Poco   fa,  mi   sono   ritrovato   in   un   bel   prato.   Brillava   tutto   e  mi  sono  sfregato  tra  i  suoi  ciuffi.  Uff,  erano  anemoni  di  mare,  prude  ancora.  Ma  insomma,  aspetta,  ti  racconto  la  storia,  è  sorprendente.  

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In  un  primo  tempo,  mi  sono  imbattuto  in  un  tizio  che  voleva  convincermi  che  io  non  sono  di  quelli  che  dicono  sempre  di  “sì”.    “Vuoi  lavorare  domenica?”  “Sì,  padrone!”  “Vuoi  obbedire  agli  ordini?”  “Sì,  capo!”  “Vuoi  venire  a  fare  shopping?”  “Sì,  certo,  arrivo!”  Ebbene  no,  io  dico  “no”.    Ero   tutto  contento  di  non  essere  come  gli   altri.  Anche  se  dopo   il   tizio  voleva  che  comprassi  un’automobile…  Non  me  ne  frega  niente  di  avere  un’auto,  immagina,  nelle  mie  condizioni…      Allora,   cambio   canale,   faccio   un   po’   zapping   a   destra   e   a   sinistra,   cominciavo   a   grattarmi  dappertutto,   ma   insomma,   continuo   comunque   ad   avanzare.   E   all’improvviso   capito   su  un’altra  pubblicità.    C’era   un   altro   tizio,   o   forse   era   lo   stesso   che   aveva   cambiato   posizione,   non   saprei,   in   ogni  caso,   comincia   a   parlarmi,   mi   dice,   ascolta,   ti   hanno   sempre   detto   che   nella   vita   bisogna  imparare  a  dire  “no”  –  beh  sì,  infatti,  lo  avevo  appena  imparato  –  ebbene  no,  è  sbagliato!  Davvero?,  dico,  e  perché  sarebbe  sbagliato?    Allora,  mi  spiega  che  la  cosa  più  difficile  è  dire  di  “sì!”.    Davvero?,  e…  E  non  mi  lascia  il  tempo  di  finire  la  domanda,  vedi,  era  tutto  eccitato,  si  è  messo  a  dire  che  bisogna   imparare  a  dire  di   sì  ai   compagni  che   ti  annoiano  raccontandoti   le   solite  storie,  a  tua  madre  che  ti  chiama  sempre  per  chiederti  se  hai  mangiato,  a  tuo  padre…  In  effetti,  non  ho   capito  bene  a   che   cosa  dovessi   imparare  a  dire  di   sì,  ma  ho   comunque   capito   che  è  bene  dire  di  sì,  e  che  è  questo  il  vero  “coraggio”…  Pazzesco,  no?    Sì,  davvero  prodigioso:  stento  a  crederci.          Ah   sì,   dimenticavo:   anche   il   secondo   tizio   voleva   vendermi   qualcosa,   fammi   ricordare,   che  cos’era?  Ecco,  sì,  una  birra.  Beh,  in  teoria  mi  sta  bene,  anche  se  preferisco  il  vino,  ma  vedi,  non  so  nemmeno  se  posso…  i  pesci  “bevono”?  Devo  informarmi…    In  ogni  caso,  credimi,  è  stato  uno  shock.  Subito  mi  sono  chiesto:  che  valore  può  avere  il  fatto  di  dire   di   sì   o   di   no,   quando   si   è   nella   mia   situazione?   Ogni   opposizione   scompare,   tutto   si  confonde:  il  sì  e  il  no,  il  vero  e  il  falso,  il  bene  e  il  male,  il  giusto  e  l’ingiusto,  tutto  si  somiglia,  tutto  si  equivale…  Difficile  continuare  a  pensare  e  ad  agire  in  simili  condizioni.  Vado  a  destra  e  a  sinistra,  come  la  scimmia,  ma  sono  sempre  immerso  in  quest’oceano  mediatico.  Vado  avanti,  nuoto,  mi  piace  nuotare,  intendiamoci,  mi  dà  l’impressione  di  essere  libero,  seguo  unicamente  il  mio  desiderio,  ma  non  vedo  vie  d’uscita.      Non  hai  pensato  che  potresti  essere  tu  ad  alimentare  l’oceano  in  cui  nuoti?  È  forse  necessario  diffidare  di  questa  libertà,  e  del  piacere  che  se  ne  trae?    Forse,   proverò,   anche   se   non   capisco   bene   in   che   modo…   È   sufficiente   nuotare   perché   si  producano   le   onde?  È  una   storia   complicata…  Ma  aspetta,   vedo  una   lucina,   con  un   colpo  di  pinna   provo   a   raggiungere   le   profondità.   Sì,   laggiù,   forse   è   la   fonte   di   questa   grande  confusione.    

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III  Obbedire  

La  realtà  e  il  suo  spettacolo      Trovato!  Non  è  stato   facile:  ho  dovuto  spingermi  molto   lontano,  ho  smosso   i   fondali  marini,  setacciando  archivi  ammuffiti.  Ma  ne  valeva  la  pena.  È  una  scena  molto  particolare.  Ascolta…  All’improvviso,  ho  visto  una  moltitudine  di  scimmie.  Che  novità,  dirai.  Ma,   in  effetti,  non  era  l’orda   primitiva,   non   credo   in   ogni   caso.   Le   scimmie   entravano   e   uscivano   da   un   vecchio  edificio:  “Yale  University”  c’era  scritto  sulla  facciata.    Senz’altro  uno  stadio  successivo  dell’evoluzione…    Sì,   e   allora   mi   sono   detto:   “perché   no?”,   e   mi   sono   avvicinato   pian   pianino.   All’inizio,   ho  pensato:  “uhm,  di  certo  non  mi  lasceranno  passare”.  Ebbene,  alla  reception  mi  hanno  salutato  gentilmente   e   sono   entrato   senza   problemi.   Ho   dedotto   che   avevo   forse   conservato   le  mie  sembianze  scimmiesche  e  questo  mi  ha  dato  comunque  un  po’  di  sollievo.    Quindi,  ero  seduto  e  aspettavo  pazientemente  il  mio  turno.  Avrei  voluto  interrogare  quelli  che  uscivano,   i   loro  volti   erano   tesi,  madidi  di   sudore,  ma  no,   era   vietato.   Finalmente  mi  hanno  fatto  entrare,  e  un  tizio  con  un  camice  bianco  mi  ha  invitato  a  sedermi  su  una  sedia.  Poi  mi  ha  spiegato:  “Caro   Signore   –   ha   esordito   –   grazie   di   essere   qui.   Ci   aiuterà   a   realizzare   un   importante  esperimento,  volto  a  studiare  l’efficacia  della  punizione  sulla  capacità  di  memorizzare.  Vede  il  Signore  che  è  dall’altra  parte  del  vetro?”  “Beh  sì,   lo  vedo”,   infatti,  non  potevo  fare  a  meno  di  guardare  quel  grosso  topo  bianco  con  la  cravatta  e  un  paio  di  cuffie  sulle  orecchie.  Mi  salutò  sorridendo,  poi  si  eclissò  dietro  la  tendina  caduta  dall’altra  parte  del  vetro.    “Allora,   si   tratta   di   questo:   lei   leggerà   un   elenco   di   parole,   e   lui   dovrà   ripeterle   nell’ordine  giusto.  Ogni  volta  che  sbaglierà,  lei  gli  somministrerà  una  scossa  elettrica…”  Davvero!  Strano  sistema  per  imparare,  no?      Sì,  è  quello  che  mi  dicevo,  ma  la  presenza  della  scimmia  in  camice  bianco,  in  qualche  modo,  mi  rassicurava:  “sarà  sicuramente  per  la  buona  causa”,  pensavo.      E  così  abbiamo  cominciato.  All’inizio,  le  cose  procedevano  abbastanza  bene,  l’altro  rispondeva  correttamente,  ma  poi,  poveretto,  beh,  per  essere  sinceri,  era  abbastanza  scarso  in  memoria,  fatto  sta  che  ha  cominciato  a  sbagliare.  Uff,  e  io…  io  ero  obbligato  ad  aumentare  le  scariche!    Obbligato?    Sì…  cioè  no…  In  effetti,  non  ne  ho  idea!  Vedi,  la  situazione  era  molto  strana.  E  poi  il  mio  allievo,  sì,  perché  io  ero  l’insegnante,  quando  sono  arrivate  le  scosse  di  una  certa  intensità,  diciamo,  a  partire  da  75  volt,  ha  iniziato  prima  a  gemere,  poi  a  lamentarsi,  a  urlare.  Alla  fine  supplicava,  voleva  farla  finita.  Onestamente,  il  suo  atteggiamento  non  mi  aiutava.  Ero  preso  in  una  morsa,  perché   a   fianco   l’orangotango   in   camice   bianco,   lo   scienziato,   mi   assillava,   invitandomi   a  proseguire,  ad  andare  fino  in  fondo.        “Continui,  per  favore”  “Sì,  ma  mi  sembra  che  ora  stia  soffrendo”    “L’esperimento  esige  che  lei  continui”  “D’accordo,  capisco,  ma  vuole  smettere:  non  dovremmo  rispettare  la  sua  volontà?”  “È  assolutamente  indispensabile  che  lei  continui”  “E  se  mi  rifiutassi?”  “Non  ha  scelta,  deve  continuare!”  Una  cosa  assurda!  Mi  ricordo  di  quella  voce  fredda,  distante,  e  delle  insistenti  ingiunzioni  che  mi  perforavano  il  cervello  come  aghi.    

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Pensa:  per  l’allievo,  “nessuna  risposta”  equivaleva  a  “risposta  sbagliata”.  E  per  me  voleva  dire  somministrare   un’altra   scarica,   e   avevamo   già   superato   il   livello   delle   “scosse   pericolose”!,  indicata  sulla  macchina  sotto  le  cifre  e  le  leve.  Insomma,  per  farla  breve,  sono  andato  fino  in  fondo.  Ho  fatto  partire  le  ultime  scosse,  tre  volte  450  v:  non  diceva  più  nulla,  per  me  poteva  essere  svenuto  o  semplicemente…  morto.    Che  situazione  di  merda!      Tutto  questo  è  molto  interessante,  Capitano.  Aiuta  a  penetrare  nel  segreto  della  libertà  e  delle  sue  illusioni,  tutti  i  paradossi  cristallizzati  nello  sguardo  beffardo  della  scimmia…  Sì,  ma  aspetta,  la  parte  più  interessante  deve  ancora  arrivare.  Ero  sconvolto  e  sudato  come  gli  altri  che  mi  avevano  preceduto:  adesso  capivo.  Non  riuscivo  ad  alzarmi,  ero  accasciato  sulla  sedia.  Allora,  lo  scienziato  si  avvicina  e  mi  poggia  una  mano  sulla  spalla.  “Signore,  non  si  preoccupi”,  mi  dice  con  una  voce  all’improvviso  amichevole.  “Come  sarebbe!  Sono  un  mostro”,  protesto,  mettendomi  a  singhiozzare.              “Per  niente,  caro  amico,  lei  è  una  persona  assolutamente  normale.  Non  c’è  nulla  di  sadico  nel  suo  comportamento.  È  la  situazione  in  cui  è  stato  immerso,  a  essere  eccezionale”  E  qui,  con  mia  grande  sorpresa,  l’allievo  entra  nella  stanza  come  se  nulla  fosse,  sorridente  e  in  piena   forma,   rivelando  che  è  un  attore,   anche   lo   scienziato   lo   è,   e   che   tutto  –   l’esperimento  sull’apprendimento,  la  macchina,  le  scosse  elettriche,  le  grida  di  dolore  –  ebbene,  era  solo  una  finzione!    Osservo   la  mia   immagine   riflessa   nel   vetro,   e  mi   rendo   conto   che   il   grosso   topo   bianco,   la  cavia,  ero  io!  In  effetti,  lo  scopo  era  solo  quello  di  testare  la  mia  obbedienza.    Che  scherzo  macabro,  di  cattivo  gusto.    Altro  che!  E  come  se  non  bastasse,  ciliegina  sulla  torta,   l’orangotango  mi  dice  di  guardare  in  direzione  della  telecamera  nascosta  nel  muro  di  fronte.  “Sorrida,  è  su  Candid  Camera!”,  dice,  e  la  stanza  si  riempie  di  sinceri  applausi.    Immaginavo   milioni   di   scimmie,   sedute   dinanzi   alla   tv,   che   ridevano   guardando   la   mia  performance,  degna  di  un  boia  che  esegue  una  condanna  alla  sedia  elettrica.      E  allora?    Allora,  non  mi  sentivo  colpevole,  no,  da  questo  punto  di  vista  ero  tranquillo:  “non  è  colpa  tua”,  mi  dicevo,  “hai  reagito  come  gli  altri;  pur  essendo  libero  e  consapevole,  i  tuoi  comportamenti  erano   dettati   da   questa   particolare   situazione;   e   poi   non   c’era   nulla   di   vero,   era   solo   un  teatrino”.    Ma,  appunto,  nonostante  uscissi  assolto  da  questa  storia,  ero  molto  confuso.  Non  sapevo  più  se  avessi  partecipato  a  un  esperimento   scientifico,  mirante  a   comprendere   la   realtà  di   certi  meccanismi  psicologici,   o   se   fossi   stato  protagonista  di  uno   spettacolo,   fatto  per  divertire   il  pubblico.    Mi   ricordo   adesso   delle   due   pubblicità   che  mi   avevano   scioccato   poco   fa:   cancellando   ogni  differenza  tra  il  sì  e  il  no,  mi  hanno  fatto  sprofondare  in  un  mare  torbido  nel  quale  tutto  era  possibile.  Ero  al   tempo  stesso   libero  e  senza  scampo.  E,   in  effetti,   la  cosa  sconvolgente  nella  scena   che   ho   appena   vissuto,   è   l’impossibilità   di   decidere:   si   tratta   di   un   esperimento  scientifico   oppure   di   una   trasmissione   televisiva?   E   com’è   possibile   stabilire   una   qualsiasi  differenza,  quando  la  realtà  non  si  distingue  più  dal  suo  spettacolo?    Mica  facile!    Sì,  complicato,  improbabile,  forse  persino  impossibile.  Mi  ritrovo  quindi  immerso  nello  stesso  mare  da  cui  sono  partito.  Ma  questo  viaggio  nelle  profondità  mi  ha  comunque  insegnato  una  cosa:  l’oceano  nel  quale  nuotiamo  è  un  temibile  ibrido  di  realtà  e  finzione.  In  realtà,  quello  che  ho  vissuto  non  era  altro  che  la  mia  genealogia.        Ho  visto  sorgere  il  diluvio  che  mi  ha  partorito.    

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 IV  

Mutazioni  Fuggire  verso  il  possibile    

     Mi  ha  trovato.  Non  so  come  sia  successo,  ma  è  successo.    Credo   che   tutto   sia   cominciato   con   degli   strani   flash.   Sì,   mi   ricordo,   era   molto   tempo   fa.  All’inizio,  era  solo  un’ombra   fluttuante  nel  campo  visivo.  Ho  pensato  che  dipendesse  da  me,  che   soffrissi   di   un   disturbo   alla   vista.   Allora,   ho   cambiato   occhiali,   ma   no,   niente,   non   era  questo.  La  medusa  riappariva  sempre,  quando  meno  me  l’aspettavo:  si  presentava  durante  il  giorno,   come   una   macchia   scura,   e   quando   faceva   scuro,   aveva   l’aspetto   di   una   lucente  sbavatura.  Non  ero  proprio  preoccupato,  no,  non  era  questo.  È  che   in  quel  periodo  lavoravo  molto.  Concatenavo  i  miei  desideri  nel  tentativo  di  trovare  una  via  d’uscita.  Ero  connesso  con  le   reti   utopistiche,   e   sulla   mia   tavola   si   accumulavano   montagne   di   progetti:   macchine  complesse,  deliranti,  e  per  prima  cosa  bisognava  riuscire  a  decifrarle.  Spesso  non  sapevo  come  prenderle,   se  bisognasse   leggerle  da  destra   a   sinistra   o  da   sinistra   a  destra,   quali   fossero   il  sopra   e   il   sotto,   soprattutto   da   dove   il   loro   funzionamento   cominciasse   e   dove   finisse.   E  quest’ombra  che  attraversava   il  mio  sguardo,  m’impediva  di   concentrarmi.  Al   tempo  stesso,  stranamente,  sembrava  annunciare  qualcosa  che  veniva  dal   futuro,  come  l’eco   lontana  di  un  altro   mondo.   Talvolta   mi   chiedevo   se   fosse   il   granello   che   rischiava   di   far   inceppare   le  macchine,   o   se   fosse   invece   la   risposta   che   il   futuro   m’inviava   come   un   messaggio   nella  bottiglia.      Comunque   sia,   la   solitaria   medusa   era   sempre   lì.   Mi   sono   detto:   “forse   la   stanchezza,   è  necessario   che   ti   riposi,   che   dorma   di   più”.   Quello   che   ho   fatto.  Ho   capovolto   il   giorno   e   la  notte,  e  mi  sono  abbandonato  a  un  sonno  lungo  e  profondo.  E  ho  iniziato  a  sognare.    A  volte  ero  in  compagnia  di  un’anziana  coppia,  sapevo  che  erano  mio  padre  e  mia  madre,  ma,  in   effetti,  mi   accompagnavano   in   un  mondo   finito   da   un   pezzo,   quello   di   cui   avevano   forse  sentito  parlare  dai  loro  padri  e  dalle  loro  madri.  Tutto  era  semplice:  andavamo  al  mercato,  poi  in  un  bar,  dove  ordinavo  un  gelato,  per  strada  incontravamo  delle  persone,  ci  si  salutava,  ci  si  fermava  a  chiacchierare.  L’aria  era  tiepida,  ero  calmo  e  felice.    In   altri   casi   invece,   sì,   ero   sempre   felice,   ma   non   riuscivo   a   star   fermo;   ero   eccitatissimo,  fremevo   come   nel   giorno   del   mio   compleanno.   Il   mio   corpo   grondava,   mentre   avanzavo   a  grandi   passi   su   una   spiaggia,   e   sapevo   che   questa   spiaggia   era   appena   emersa   dalle   acque  insieme  con  me.  Camminavo  su  tappeti  di  alghe  che  si  trasformavano  in  campi  verdi  e  fioriti;  fluttuavo  nell’acqua  che  all’improvviso  non  era  più  acqua,  ma  una  brezza   fresca,   inebriante.  Avevo  trovato  la  mia  isola  e  correvo,  il  cuore  colmo  d’emozione,  verso  il  sole  dell’avvenire.          Erano  sogni  ricorrenti…  Maledizione!  Finiva  sempre  nello  stesso  modo:  con  il  diluvio.    Incubi,  quindi…    Sì,  nel  primo  caso,  le  onde  irrompevano  nel  paesino,  inghiottendo  il  mondo  pacifico  della  mia  infanzia.  Mio  padre  era  di  colpo  uno  squalo,  mia  madre  aveva  le  ignobili  fattezze  di  una  cernia  gigante.  Atroce!      Nel   secondo   caso,   era   anche   peggio:   percorrevo   la  mia   bella   isola   quando,   arrivato   su   una  collina,  mi  accorgevo  che  l’oceano  l’aveva  completamente  inghiottita  dall’altro  lato  e,  con  essa,  il  mio  sogno  di  una  vita  terrestre.      

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Ma,  vedi,  quando  tutto  sembrava  perduto,  al  colmo  dell’angoscia,  mentre  sentivo  spuntare  di  nuovo  le  orribili  branchie,  la  macchia  che  avevo  cercato  di  scacciare  dalla  mia  vita  cosciente,  era  sempre  lì,  a  volte  scura,  a  volte  luminosa.    Allora,   decisi   che  mi   sarei   concentrato   su   di   essa:   “tanto   vale   provare”,  mi   dicevo,   “non   ho  nulla  da  perdere”.    Sì,   la  medusa   è   ritornata   e   io   non   le   toglievo   gli   occhi   di   dosso.  Ma   aveva   già   cominciato   a  trasformarsi.  In  un  primo  tempo,  aveva  preso  le  sembianze  di  un  grosso  serpente  marino,  una  specie  di  murena  che  danzava  nell’oscurità  come  una  saetta.  Mi   faceva  un  po’  paura,  ma  mi  dicevo:  “forse  vuole  attirare  la  tua  attenzione,  dirti  qualcosa,  mostrarti  un  passaggio”.  Poi,  si  è  trasformata   ancora,   a   poco   a   poco   il   suo   corpo   ha   preso   forma:   si   era   completamente  ricoperto  di  squame  argentate,  ma  percepivo  comunque  una  silhouette  –  dei  fianchi,  un  busto,  forse   una   testa.   Con   i   riflessi   del   sole,   era   bello.   Ero   pieno   di   meraviglia   e   avevo   voglia   di  ritrovarla  subito.          Più  la  guardavo,  più  si  tormentava.  Il  suo  corpo  fremeva,  si  torceva  in  modo  orrendo.  E  poi  ho  notato  che  era  spuntato  qualcosa  dal  tronco,  sotto  i  fianchi,  due  monconi  di  carne  biancastra,  che  si  allungavano  di  giorno  in  giorno.  Pietà!  Sembrava  soffrire  enormemente,  allora,  ho  avuto  il  desiderio  di  parlarle:  “Perché  non  piangi?  Potrebbe  alleviare  il  tuo  dolore”,  le  dico.    “Vorrei   tanto,  ma   le   sirene   non   hanno   lacrime   e  per   questo   soffrono  molto   di   più”,   rispose  teneramente.    “Ma  perché  lo  fai  allora?  Perché  non  smetti  di  torturarti?”  “Non  posso  fare  altro.  Lo  faccio  per  amore.”    Alla   fine,   ho   capito   che   l’avevo   sempre   sognata.   Adesso   ha   le   gambe,   ma   ha   conservato  comunque   la   sua   superba   coda   di   pesce   e   le   sue   eleganti   pinne   argentate.   E   anch’io   ho  intrapreso  la  mia  strana  mutazione,  non  mi  fa  paura,  poiché  avanziamo  insieme.      Che   dire   ancora?   Alla   fine,   non   so   se   sono   stato   io   a   cercarla,   se   è   stata   lei   a   incastrarsi  accidentalmente  in  una  delle  mie  macchine,  o  se  ha  seguito  le  correnti  del  delirio  per  fare  in  modo  che  un  giorno  la  incontrassi.  So  solo  che  ci  amiamo,  e  forse  è  questa  la  via  d’uscita  che  può  condurre  a  un’altra   forma  di  vita.  Viviamo  sempre   in  un  oceano  nel  quale   la   realtà  e   lo  spettacolo  si  confondono  alla  radice,  come  le  eliche  intrecciate  del  DNA.  Noi  stessi  siamo  ibridi  incerti,  creature  proteiformi,  lo  sappiamo  fin  troppo  bene.  Non  rinunciamo  a  farci  trascinare  dalla  molteplicità  dei  flussi,  coltivando  la  nostalgia  dell’ordine,  delle  frontiere,  dei  regni  e  delle  gerarchie;  ma  non  surfiamo  nemmeno  sulle  onde  di  quest’oceano  senza  confini,  confondendo  allegramente  libertà  e  godimento.    No,  siamo  gli  ibridi  che  corrono  il  rischio  di  tagliare  i  flussi,  per  veder  zampillare  le  domande;  siamo  gli  amanti  che  cercano  le  intensità  elettriche,  gli  shock  del  pensiero,  da  togliere  il  fiato…    Vi   chiedo   scusa,   ma   adesso   devo   prepararmi.   Mi   aspetta.   Ho   già   tirato   fuori   il   mio   abito  migliore,  spero  che  le  piaccia.  Ho  dovuto  tagliare  i  pantaloni,  sapete,  conservo  ancora  le  mie  gambe   scimmiesche   e   sono   costretto   ad   andare   a   piedi   nudi.  Ma   a   lei   piacciono   i  miei   peli  almeno  quanto  a  me  piacciono  le  sue  squame,  e  i  nostri  corpi  non  smettono  di  mescolarsi  e  di  trasformarsi.  È  stupefacente!  Ah,  non  ho  ancora  detto  come  si  chiama.  Il  suo  nome  è…  

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Lo  spettacolo  dell’obbedienza:  tutta  una  storia      In  Svezia,  il  canale  SVT2  ha  recentemente  proposto  un  nuovo  reality  show  intitolato  Diktatorn  (“Il  Dittatore”).  Trasmesso  dalla  fine  di  ottobre  2014,  il  programma,  suddiviso  in  quattro  episodi,  filma  quattro   ragazze   e   quattro   ragazzi   chiusi   in   un   ospedale   dismesso   e   costretti   a   obbedire   a   un  dittatore  virtuale.  “Rispettare   il   coprifuoco,   il   lavoro  è   la  vita,  non  esitare  a  denunciare  gli  altri”:  questi   i   principi   di   base   che   dovrebbero   insegnare   ai   partecipanti   (e   al   pubblico)   a   detestare   la  dittatura  e,  di  conseguenza,  ad  apprezzare  meglio  la  democrazia.  Ogni  giorno,  i  candidati  devono  eseguire  compiti  ripetitivi  e  avvilenti  (per  esempio  suddividere  delle  graffette  in  base  al  colore  per  cinque  ore),  nella  speranza  di  guadagnare  un  bel  gruzzolo  (11.000  euro).  Lo  spettacolo  ostenta  una  finalità   educativa   ma,   se   accettiamo   di   guardarlo   da   questo   punto   di   vista,   appare   subito   un  paradosso:  il  vincitore  non  sarà  il  ribelle,  ma  chi  si  sarà  sottomesso  alle  regole.      Questo  programma  sembra  riprendere,   in  chiave  televisiva,   l’esperimento  condotto  nel  1967  dal  professore  di  storia  Ron  Jones,  con  un  gruppo  di  studenti  della  Cubberley  High  School  a  Palo  Alto  (California):   non   riuscendo   a   spiegare   loro   come   fosse   stato   possibile   che   i   cittadini   tedeschi,  durante   la   seconda   guerra   mondiale,   avessero   permesso   lo   stermino   degli   ebrei   da   parte   del  regime   nazista,   decise   di   creare   una   situazione   di   dittatura   simulata   e   fondò   con   i   ragazzi   un  movimento   chiamato   “The   Third   Wave”.   Si   tratta   di   un   esperimento   abbastanza   conosciuto,  ripreso  in  forma  di  romanzo,  di  spettacolo  teatrale  e,  più  recentemente,  di  film  (L’onda,  2008),  a  dimostrazione  del  grande  capitale  mediatico  che  questo  tipo  di  esperimenti  di  “psicologia  sociale”  possiede.    Uno  dei  più  celebri  è  senza  dubbio  l’esperimento  sull’obbedienza  all’autorità  legittima,  realizzato  alla   Yale  University   da   Stanley  Milgram  all’inizio   degli   anni   ’60.  Noto   anche   come   “esperimento  Eichmann”   (dal  nome  del   funzionario  nazista   incaricato  della   logistica  della  deportazione  e  dello  sterminio  degli  ebrei,  che  nel  1961  fu  processato  e  condannato  a  morte  a  Gerusalemme),  inaugura  la   tendenza   a   utilizzare   la   storia   del   totalitarismo   come  una   sorta   di   specchio   per   interrogare   il  presente:  le  stesse  derive  mostruose  dell’obbedienza  potrebbero  verificarsi  anche  in  un  contesto  liberale   e   democratico?   A   questo   proposito,   vale   la   pena   ricordare   l’esperimento   condotto   nel  1971  presso  l’Università  di  Stanford  da  Philip  Zimbardo,  il  cui  obiettivo  è  cercare  di  comprendere  come  persone   comuni,   calate   in   particolari   situazioni,   possano  diventare  degli   spietati   carnefici.  Anche   quest’esperimento   ha   ispirato   vari   film,   ed   è   stato   recentemente   ripreso,   dallo   stesso  Zimbardo,  in  un  libro  sollecitato  dalle  immagini  scioccanti  provenienti  dalla  prigione  di  Abu  Ghraib,  in  Iraq  (The  Lucifer  Effect  :  How  Good  People  Turn  Evil,  2007).              Arriviamo  così  a  quello  che  costituisce  probabilmente  il  precedente  più  diretto  della  trasmissione  svedese:   il   documentario   Le   jeu   de   la  mort,   trasmesso   per   la   prima   volta   il   17  marzo   2010   da  France  2.  Coadiuvato  da  un’équipe  di  scienziati,  Christophe  Nick,  ha  inteso  trasporre  nell’universo  televisivo   l’esperimento   di   Milgram,   allo   scopo   di   misurare   il   potere   che   la   tv   esercita   sulle  persone.   Il   problema   è   che,   come   nel   caso   di  Diktatorn,   non   si   riesce   più   a   distinguere   ciò   che  appartiene   all’esperimento   scientifico   (e   al   valore   pedagogico   che   gli   si   attribuisce),   e   ciò   che  appartiene   invece   allo   spettacolo   (con   la   sua   logica   specifica   di   captazione   dell’interesse   del  pubblico   mirante   ad   aumentare   l’audience).   Tocchiamo   qui,   probabilmente,   una   questione  cruciale.  Il  problema,  infatti,  non  è  tanto  di  denunciare  l’imbroglio,  in  nome  di  un  ideale  di  purezza  morale  o  professionale,   quanto  piuttosto  di  mostrare   la   potenza  di   un   ibrido:   sempre  più,   oggi,  non  solo  grazie  alla  tv,  ma  anche  ai  social  network  (quindi,  in  definitiva,  a  ciascuno  di  noi),  la  realtà  non  si  distingue  più  dal  suo  spettacolo.  Quest’indistinzione  comporta,  evidentemente,  una  serie  di  cambiamenti  –  al  tempo  stesso  ampi,  diffusi  e  profondi  –  nel  nostro  modo  di  pensare,  di  agire  e  di  vivere.  

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Si  dice  spesso  che,  con  questo  tipo  di  reality,  si  superano  i  limiti,  ci  si  spinge  “troppo  lontano”;  ma  quello  che  sarebbe  importante  cogliere,  è  che  queste  trasmissioni  riposano  su  un  dispositivo  attivo  da  molto  tempo:  sono  un  po’  come  la  coscienza  filosofica  secondo  Hegel,  vale  a  dire  la  nottola  di  Minerva  che  prende  il  volo  solo  al  crepuscolo,  quando  la  storia  ha  già  fatto  il  suo  corso.  Abbiamo  cercato  di  abbozzare  una  genealogia  del  “reality  show”  –   in  quanto  perfetta   fusione  della   realtà  (quella,  per  esempio,  che  la  scienza  intende  documentare)  e  della  finzione  (della  mediatizzazione  o  della  messa  in  spettacolo  della  realtà)  –  in  un  saggio  pubblicato  nel  2013  (Come  pesci  nell’acqua.  Prospettive  genealogiche  sulla  mediatizzazione  del  quotidiano,  éd.  fr.  “Multitudes”,  n.  51;  trad.  it.  “aut  aut”,  359/2013).  In  quest’articolo,  ci  è  parso  di  scorgere  la  nascita  del  “reality  show”  in  una  scena   svoltasi,   negli   Stati   Uniti,   dopo   la   fine   della   seconda   guerra   mondiale,   e   avente   come  protagonisti,  da  un  lato,  Allen  Funt,  uno  dei  pionieri  della  Reality  TV,   inventore  in  particolare  del  programma  Candid  Camera,  e,  dall’altro,  Milgram  e  Zimbardo,  entrambi  esponenti  della  psicologia  sociale.  Questi  ultimi  consideravano  la  trasmissione  di  Funt  come  un  contributo  fondamentale  alla  comprensione   della   realtà   sociale,   ma,   al   tempo   stesso,   erano   molto   sensibili   rispetto   alla   sua  dimensione   spettacolare,   tanto   è   vero   che   hanno   finito   per   reinvestirla   nei   loro   esperimenti  scientifici,   al   fine   di   renderli   più   accattivanti   per   il   pubblico.   In   effetti,   se   si   guarda   il   film  Obedience,   realizzato   nel   1965   da   Milgram   come   strumento   pedagogico   per   illustrare   la   sua  esperienza,  non  è  –  mutatis  mutandis  –  diverso  da  trasmissioni  come  Le  jeu  de  la  mort  e  Diktatorn,  per  la  semplice  ragione  che  si  presenta  come  una  sorta  di  Candid  Camera  dagli  scopi  e  i  contenuti  direttamente  scientifici:  in  altri  termini,  la  realtà  psicologica  dell’obbedienza  non  si  distingue  dallo  spettacolo  psicologico  dell’obbedienza.  Come  diceva  lo  stesso  Milgram:  “È  possibile  che  il  modo  di  comprensione  dell’uomo  che  cerco  di  realizzare,  sia  un  amalgama  di  scienza  e  arte.  Sarà  senz’altro  rifiutato  sia  dagli  scienziati,  sia  dagli  artisti,  ma  rimane  per  me  significativo”.      Nell’ultima   edizione   del   Festival   de   Libertés   (Bruxelles,   ottobre   2014),   dedicato   al   tema  dell’obbedienza   e   della   disobbedienza,   con   il   collettivo   Action30   abbiamo   presentato   la  performance-­‐spettacolo  Nage,  nage  petit  poisson.  Dés/obéir  à  l’époque  de  la  téléréalité:  immerso  nell’universo  mediatico  in  cui  tutto  si  confonde,  il  protagonista  scopre  improvvisamente  di  essersi  trasformato  in  un  pesce  e  comincia  a  interrogarsi  sulla  sua  nuova  condizione  alla  ricerca  di  una  via  d’uscita   (nel   testo  La   scimmia  a   la   sirena,   adattato   in   funzione  dello   spettacolo,   la   riflessione   si  nutre  di  una  serie  di  riferimenti  filosofici  e  letterari,  percepibili  in  filigrana:  il  percorso  del  dubbio  nelle  Meditazioni  cartesiane,  e  la  considerazione  di  Foucault  nella  Storia  della  follia  sull’esclusione  della  follia  da  parte  del  soggetto  che  dubita;  l’antinomia  kantiana  tra  necessità  e  libertà,  e  la  linea  di  fuga  di  Deleuze;  il  racconto  di  Kafka  Una  relazione  accademica,  e  il   libro  di  Deleuze  e  Guattari  Kafka,   per   una   letteratura   minore;   il   racconto   di   Andersen   La   sirenetta).   Infatti,   la   perfetta  ibridazione  della  realtà  e  del  suo  spettacolo  rischia  di  dissolvere  tutte   le  opposizioni  sulle  quali   il  nostro   modo   di   pensare   è   fondato:   il   vero   e   il   falso,   il   bene   e   il   male,   il   giusto   e   l’ingiusto,   il  pubblico  e  il  privato.  In  particolare,  potremmo  chiederci  se,  a  queste  condizioni,  l’opposizione  tra  obbedire  e  disobbedire  sia  ancora  operativa,  e,  di  conseguenza,  se  la  scelta  tra  queste  due  opzioni  sia  ancora  possibile  e  abbia  ancora  un  senso.  Forse,  oggi,  il  problema  è  “cognitivo”  prima  di  essere  “morale”.  Come  riuscire  a  pensare  –  ad  analizzare,  a  riflettere,  a  porsi  ancora  delle  “domande”  –  stando   immersi   nell’oceano   mediatico   che   noi   stessi,   tutti   i   giorni,   alimentiamo?   Questo  interrogativo   tocca  precisamente   la  questione  dell’attuale  crisi  della  democrazia  o,   come  dicono  alcuni,  delle  nuove  forme  di  “fascismo”  che  sorgono  nel  cuore  della  libertà:  l’antifascismo  del  terzo  millennio  potrebbe  essere  prima  di  tutto  cognitivo.    

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     Pierangelo  Di  Vittorio      Filosofo  e  scrittore.  Dottore  di   ricerca   in   filosofia  delle  Università  di  Strasburgo  e  di  Lecce,  ha  partecipato  di   recente  alla  ricerca  “Construction  des  catégories  de  la  santé  mentale”  (Maison  des  Sciences  de  l’Homme  d’Aquitaine,   Universités   de   Bordeaux).   È   autore   di   numerose   pubblicazioni,   tra   cui   Foucault   e  Basaglia,   L’incontro   tra   genealogie   e   movimenti   di   base   (Verona,   1999)   e,   con   Mario   Colucci,  Franco  Basaglia  (Milano,  2001).  È  stato  tra  i  curatori  del  volume  collettaneo  Lessico  di  biopolitica  (Roma,  200§).  Con  il  collettivo  Action30  ha  realizzato  il  volume  L’uniforme  e  l’anima.  Indagine  sul  vecchio  e  nuovo  fascismo   (2009),   e   ha   scritto:   il   cortometraggio  Grande   Brasserie   Cyrano   (2009),   centrato   sulla  polemica   tra   Georges   Bataille   e   André   Breton,   lo   spettacolo   Constellation   61,   Entre   histoire   e  magie  (2011:  coprodotto  con  l’Autre  a«  lieu  »,  Bruxelles  Laïque  e  il  Théâtre  National  de  Belgique),  dedicato   alla   trasformazione   della   psichiatria   nel   XX   secolo,   e   la   performance-­‐spettacolo  Nage,  nage  petit  poisson,  Dés/obéir  à  l’époque  de  la  téléréalité  (Festival  des  Libertés,  Bruxelles  2014).      Sul  tema  dell’obbedienza  e  della  disobbedienza  nell’epoca  del  reality  –  si  veda:  –   la   conferenza   multimediale   Liberi   di   non   esserlo.   Perché   siamo   diventati   così   obbedienti?,  presentata  per  la  prima  volta  al  “Botanique”  su  iniziativa  di  L’autre  «  lieu  »  (Bruxelles,  28  ottobre  2010),  e   i   cui   contenuti   sono  stati   in  parte   ripresi  nel   saggio  Au-­‐delà  du  normal  et  de   l’anormal,  Hypothèses  sur  l’homme  néolibéral  (Essaim,  31/2013).  –   i   saggi:   Carismi   del   reale.   L’opera   d’arte   nell’epoca   del   marketing   e   dello   spettacolo   (éd.   fr.  “Multitudes”,   48/2012;   trad.   it.   “aut   aut”,   353/2012)   e   Come   pesci   nell’acqua.   Prospettive  genealogiche   sulla  mediatizzazione   del   quotidiano   (éd.   fr.   “Multitudes”,   51/2012  ;   trad.   it.   “aut  aut”,  359/2013).    maggiori  informazioni:  http://pdivittorio.wordpress.com