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Daniela De Robertis1
Ricerca Psicoanalitica, 2009, Anno XX, n.3, pp. 325-348.
L’AFFIDABILITÀ SCIENTIFICA DELLA PSICOANALISI.
UN CONFRONTO TRA IERI ED OGGI
SOMMARIO
Nella prima parte del contributo vengono ripercorse le ragioni per cui la psicoanalisi standard ha offerto
il fianco alle denunce di non scientificità che le sono state mosse. L’A. individua nell’adesione di Freud
allo scientismo la causa prima che ha innescato una serie di fragilità epistemiche a carico della psicoanalisi
rintracciabili nell’autoconvalida e nell’autoreferenzialità, nella chiusura rispetto alle altre scienze, nella
mancanza a livello teorico e clinico di procedure di verifica e nell’assenza dell’osservazione naturalistica.
Nella seconda parte si argomenta in che misura la psicoanalisi postmoderna disponga di requisiti di
scientificità rintracciabili in vari ambiti, quali, l’adesione ad un nuovo paradigma epistemico di tipo
cognitivista e costruttivista, l’assunzione di una posizione di trasversalità rispetto alle altre scienze,
l’adozione di procedure capaci di coniugare gli assunti teorici e clinici con l’osservazione naturalistica e la
verifica sperimentale.
SUMMARY
Scientific reliability of psychoanalysis.
A comparison between yesterday and nowadays’one
In the former part of the paper the A. considers the reasons according to which orthodox
psychoanalysis was accused of not belonging to the scientific field. The A. discovers in Freud’s adhesion to
scientism the main reason, which brought phychoanalysis to epistemological weaknesses such as
autovalidation and autoreferentiality. The consequence of all that was a rigidity towards other sciences, a
lack of procedure of validation and an absence of naturalistic observation in the theoretical and clinical
field. In the latter part the A. discusses how postmodern psychoanalysis has at its disposal scientific
requirements such as the adhesion to new epistemological paradigms belonging to either costructivism or
cognitivism, the assumption of a position which crosses over other sciences, the adoption of procedures
able to conjugate theoretical and clinical assumptions with naturalistic observation and experimental data.
-------------------------------------------------
Il presente lavoro non intende proporre una valutazione della psicoanalisi nel suo complesso, ma è
esclusivamente circoscritto al tema della scientificità di essa e pertanto è limitato ad una lettura epistemica.
Quale rispettabilità scientifica?
È affare noto, e da più parti denunciato, che i dispositivi di credibilità epistemica della psicoanalisi siano
stati, per tradizione, piuttosto carenti, tali da inficiare le sue credenziali di scientificità.
1 Filosofo, psicologo, analista di training e supervisore della Società Italiana di Psicoanalisi della
Relazione (SIPRe) e membro dell’International Federation of Psychoanalysis Societies (IFPS). Via Crivellucci, 35 - 00179 Roma. Email: [email protected].
Nel ripercorrere a volo d’uccello le accuse di scarso rendimento scientifico che nel tempo sono state
indirizzate alla psicoanalisi, prenderei come punto di avvio il famoso convegno di New York del 1958 (Hook,
1959).
L’evento, guidato dall’interrogativo se la psicoanalisi dovesse essere iscritta tra le scienze o le non
scienze, rappresentò il primo incontro ufficiale dell’epistemologia con la psicoanalisi. Il vaglio degli
epistemologi concluse i lavori con una valutazione di non scientificità: non probatur fu la sentenza del
filosofo della scienza E. Nagel (1959). Una formula che intendeva esprimere quanto gli assunti psicoanalitici
fossero espressi in modo così generico, metaforico e astratto, da non poter essere sottoponibili alle
procedure della verifica.
Al verdetto di New York, pronunciato dall’epistemologia neopositivista, che, differentemente da oggi, a
quei tempi era la corrente dominante, seguì quello di Popper (1963), che qualificò la psicoanalisi come
“cattiva scienza” o “pseudoscienza”, in quanto forma di sapere “infalsificabile”. A questi accertamenti via
via se ne aggiunsero altri: aliena dai metodi sperimentali, carente di verifica, non testata, fondata su
astrazioni, fornita di un bagaglio teorico inutilmente complicato e artificiale, furono le accuse più frequenti
rivolte alla psicoanalisi. Critiche che rimbalzavano da più osservatori, non solo da parte dell’epistemologia e
della psicologia, ma anche da postazioni critiche all’interno della psicoanalisi stessa (G. Klein, M. Gill, R.
Holt, B. Rubinstein).
E arriviamo così agli anni ’80 e al clamoroso attacco di Grünbaum (1984), clamoroso perché suscitò
notevole risonanza e scalpore dal momento che l’appellativo di “scienza malata”, certo non moribonda, ma
bisognosa di cure, veniva a colpire nelle sue argomentazioni anche l’affidabilità terapeutica della
psicoanalisi.
Oggi, a distanza di più di 20 anni, vale la pena rilanciare il discorso sull’affidabilità scientifica della
psicoanalisi, per verificare se la legittimità di queste denunce valga ancora per la psicoanalisi postmoderna
o debba rimanere confinata alla psicoanalisi standard.
Per procedere a questa verifica è opportuno indagare storicamente le ragioni che hanno impedito alla
psicoanalisi di assumere un habitus scientifico e, nel ripercorrerne la storia, è agevole rinvenire una specie
di “peccato originale” alla base delle sue conseguenti fragilità epistemiche. Si tratta dell’adesione originaria
di Freud allo scientismo; una scelta a monte, responsabile del paradosso epistemico nel quale la psicoanalisi
è rimasta per lungo tempo ingabbiata.
L’adesione allo scientismo ovvero il paradosso epistemico
Il termine scientismo comincia a girare in Francia negli anni ’30 del secolo scorso, per poi diffondersi in
Inghilterra ed in seguito affermarsi nel lessico della filosofia della scienza. La parola, sebbene nel significato
generale sia carica di una connotazione critica volta a denunciare gli abusi della ragione scientifica, più in
dettaglio si riferisce ad un modo di concepire la scienza in auge circa tra il 1830 e il 1880 nella cultura
mitteleuropea. La datazione è rilevante per comprendere l’idea di scienza che Freud nutriva, dal momento
che in questo arco di tempo ricadono gli anni della formazione universitaria, i primi lavori accademici e il
periodo prepsicoanalitico del giovane Freud.
In breve la storia. In pieno ‘800 nella cultura centroeuropea il discorso sulla conoscenza e sulla
scientificità del sapere aveva assunto una configurazione molto particolare: la methodenstreit, che stava a
significare la discussione sui metodi in adozione nelle scienze, aveva distinto e scisso le scienze in due
blocchi, in base alle caratteristiche dell’oggetto della conoscenza e quindi in base al metodo da impiegare.
Una polarità occupata dalle scienze della natura, l’altra dalle scienze dello spirito, a cui più tardi subentrò la
dizione di scienze umane o ermeneutiche e, più recentemente, quella di scienze antropologiche o scienze
sociali¹.
La forbice, che ufficializzava in pieno ‘800 quello che in realtà si andava consumando da tempo,
produsse una scissione e una dicotomia del sapere, un’incomunicabilità progressiva che con reciproco
danno agì il frazionamento dell’unità della scienza, come dimostrò la grave e insanabile frattura tra scienza
e filosofia, di cui Freud è stato uno degli esponenti più significativi.
Nel passato questa dicotomia era inconcepibile (Dionigi, 2007). Le prove? C’era una volta in cui la
scienza si scriveva in versi, come ci tramandano le opere di Esiodo e i frammenti di Parmenide, così come il
filosofo Platone faceva disquisire di scienza e di matematica i personaggi dei suoi Dialoghi, in modo così
perspicuo da suscitare l’ammirazione di Galileo. Il testo poetico di Lucrezio o di Dante è pervaso da assunti
scientifici. In tempi a noi più prossimi Newton intitolava il suo trattato sulle leggi della
gravitazione Philosophiae naturalis principia matematica.
Ma i danni non si limitarono soltanto alla separazione delle scienze in due tipologie: il vero guaio arrivò
in seconda battuta, quando il positivismo si arrogò il diritto di attribuire solo alle scienze della natura lo
statuto di scientificità e il rango di essere depositarie di verità, escludendo in blocco da queste prerogative
tutte le scienze umane. Espressione degli abusi della ragione scientifica, lo scientismo ne incarnò lo spirito.
La forbice si allargò, producendo una divaricazione ancora più insanabile tra il sapere scientifico, detenuto
dalle hard sciences, in primis la fisica, seguita dalla matematica, biologia, ecc., e il sapere non scientifico
entro cui ricadde tutta l’area delle conoscenze antropologiche, sorelle povere del sapere.
All’interno di questa logica l’accostamento “scienze umane” diventò un ossimoro: significava accostare
due elementi opposti, perché le discipline a base antropologica non erano da considerare scientifiche.
Freud, per quanto geniale, era anche figlio del suo tempo e non sfuggì all’attrazione della logica del
proprio contesto. Formatosi alla scuola dello scientismo (Assoun, 1981), ne subì un imprinting, a cui rimase
rigidamente fedele per tutta la vita, anche quando, con la virata del secolo, il positivismo si stava
scolorando e il paradigma scientista già cominciava a perdere i primi colpi.
Fu così che Freud, stretto tra l’adesione al “credo” scientista e l’aspirazione che la nuova disciplina che
egli andava costruendo e formalizzando fosse scientificamente rispettabile, fu “costretto” a posizionare
la sua psicoanalisi tra le scienze della natura (Freud, 1924, p. 125; 1938, p. 585). Configurare la
metapsicologia in termini fisicalisti e energetisti gli consentì l’operazione. Ma Freud non fece mai i conti con
il paradosso epistemico nel quale si era infilato: includere, per esigenze “superiori”, la psicoanalisi tra le
scienze della natura, portava a disconoscere che l’oggetto d’indagine era per sua natura umano e mal si
prestava a questa operazione di riduzionismo meccanico.
Pericolosamente in bilico tra un mondo di meccanismi (energia, omeostasi, cariche e scariche) e un
mondo di significati, sospesa tra quantità e qualità, affetta da una vocazione duale, la psicoanalisi marciò
verso il suo paradosso epistemico. Con ciò non voglio dire che lo statuto epistemico in Freud non
fosse univoco. Freud si proclama ed è scientista. Ma fu questa adesione che nella psicoanalisi provocò
come conseguenza un doppio volto, uno statuto misto: un po’ scienza della natura nella versione ufficiale,
un po’ scienza umana nella versione ufficiosa. Per sfuggire al paradosso che la psicoanalisi postfreudiana si
trovò tra le mani, si confezionarono risposte ad hoc, epistemicamente altrettanto improbabili, definendo la
psicoanalisi una scienza sui generis o “speciale” o addirittura una scienza a “statuto anomalo” (Morpurgo,
1981).
Alcuni invece denunciarono nella psicoanalisi la compromissoria presenza di due teorie che coabitavano
nel suo interno. Da una parte la teoria teorica, cioè la metapsicologia: l’apparato artificioso dei giochi
impersonali tradotti nei meccanismi economici che Freud aveva congetturato per conferire dignità
scientifica al suo modello e poterlo iscrivere nella “vera” scienza. Dall’altra la teoria clinica, profilata su
concetti più antropologici e meno astratti (il sintomo, il disagio, i vissuti, il conflitto) (Klein, 1976)².
Si pensò allora di adottare come soluzione il rasoio di Occam: sbarazzarsi d’un colpo degli orpelli della
metapsicologia, per utilizzare solo la teoria clinica. Ma la manovra non riuscì per l’ingenuità di
presumere che la teoria clinica vivesse di autonomia propria, non percependo che questa ultima era una
filiazione diretta della teoria teorica, perché contraeva legami profondi sia con la metapsicologia che con i
referenti epistemici alla base di essa.
Di fatto l’operazione si dimostrò molto più complessa e fu proprio ciò che la psicoanalisi postmoderna si
è trovata ad affrontare. Non era sufficiente una manovra di restyling, occorreva reinventare un modello
teorico fondato su una nuova piattaforma epistemica che tagliasse i ponti tra psicoanalisi e scientismo, in
modo tale che il paradosso epistemico si sarebbe sciolto come neve al sole. E così accadde, quando i tempi
furono propizi.
Vorrei soffermarmi, ripercorrendone le tappe, sulle condizioni che permisero alla psicoanalisi
postmoderna questa correzione epistemica di rotta.
I “killer” dello scientismo
Verso la fine dell’800 si produsse la crisi del positivismo e della concezione meccanicistica del mondo e
della scienza. Furono proprio le hard sciences ad accelerarne la fine.
In matematica la teoria degli insiemi, il logicismo e le geometrie non euclidee, ma soprattutto la fisica
subatomica, la meccanica quantistica, la meccanica ondulatoria, insieme al principio d’indeterminazione e
alla teoria della relatività, sono da considerarsi i motori del cambiamento.
La fisica subatomica, ad esempio, spalancando un nuovo dominio nel quale l’oggetto di studio non era
un fatto empiricamente osservabile, disconfermò il primato dell’approccio positivista alla scienza. Venne
così a cadere la validità della teoria della corrispondenza, un caposaldo della concezione positivista, in base
alla quale ciò che è nella mente dell’osservatore, cioè i dati della conoscenza, corrisponde esattamente a
ciò che si trova “là fuori” nella realtà. In altri termini si confutò l’idea veritativa della scienza, la credenza
che essa fosse depositaria della Verità. Di conseguenza fu colpita anche la concezione fondazionista e
riduzionista della scienza. Già Mach aveva denunciato quanto fosse indebita la pretesa di ridurre le
spiegazioni scientifiche ad un unico principio, preso a fondamento delle scienze: sorte che l’800 aveva
riservato al concetto di energia e posizione di cui Freud fu parte attiva, come testimonia la riconduzione
dello psichico all’esclusività del parametro energetico-pulsionale.
Oggi uno sguardo alle epistemologie del nostro tempo conferma che l’approccio scientista è assai poco
sostenibile³. Diversamente da come la pensava Freud e la scienza dell’epoca, il copyright scientifico di una
disciplina non è garantito dalla natura del suo oggetto: lo studio dell’atomo non è di per sé più scientifico
dello studio della rivoluzione bolscevica. La garanzia di scientificità non si ritrova nelle caratteristiche
dell’oggetto di studio, naturalistiche o umane che siano, ma è data dal rigore e dal criticismo delle
procedure e del metodo perseguito dall’osservatore .
Questa svolta che ha caratterizzato la New Episthemology, da Popper ad oggi, ha depotenziato il primato
assoluto delle scienze della natura, facendo cadere la rigida demarcazione scientista tra scienze naturali e
scienze umane, e di conseguenza ha riabilitato le scienze antropologiche come forma di sapere di uguale
dignità scientifica. L’evento non può non aver avuto una felice ripercussione sulla psicoanalisi,
consentendole di sciogliersi dai lacci dello scientismo e di svincolarsi dal paradosso epistemico nel quale si
era incartata, bloccata, come l’asino di Buridano, nel dilemma tra la necessità di essere scientifica e
rinunciare alla natura dei suoi dati e l’esigenza di rispettare la natura dei suoi dati e rinunciare alla sua
scientificità.
L’epistemologia contemporanea non ritiene che sia l’oggetto e le sue fattezze a garantire la scientificità
di una disciplina, ma che, indipendentemente dal tipo di oggetto indagato, siano le procedure “mentali”
adottate dallo studioso. Perciò è inutile contrapporre un oggetto ad un altro, un metodo ad un altro, il
sapere è sempre dell’uomo. Allora si apre una terza via che è quella che indaga le procedure di costruzione
degli oggetti del sapere (Borutti, 1999). Ciò significa che la logica del discorso si è spostata dall’attenzione
all’oggetto conosciuto, approccio di marca positivista e scientista, all’attenzione al soggetto conoscente,
approccio di marca cognitivista e costruttivista.
La dualità delle scienze e il primato di quelle naturalistiche aveva rimosso il soggetto dall’atto della
conoscenza. In tal senso le attuali filosofie della scienza rappresentano una restitutio del soggetto e
un’enfasi sulle attività mentali dell’osservatore, che ha fatto parlare di “ritorno a Kant”, nel senso di
privilegiare l’attenzione sugli schemi mentali messi in campo nella conoscenza. E se ciò è applicabile a tutte
le discipline, sia quelle a matrice naturalistica che quelle a matrice antropologica, la centralità del soggetto
conoscente è un concetto che lavora a favore di un ritorno all’unità della scienza (Lanni, 2005), unità che lo
scientismo aveva frazionato.
Lo scientismo ovvero l’asino di Buridano
Però ora vediamo come reagì la psicoanalisi alle varie accuse di non scientificità a partire dagli anni ’60.
Due furono in sintesi le manovre adottate. Entrambe, rilette a distanza, denunciano una strategia
difensiva. Una risposta fu quella di autoproclamarsi una scienza sui generis o una scienza a statuto
speciale. L’altra risposta, stringendo i legami con l’ermeneutica, fu quella di proclamarsi un’ermeneutica in
quanto dottrina dei significati.
La prima risposta è epistemicamente alquanto discutibile, perché uno statuto scientifico “speciale” è
un non-sense: qualsiasi sapere, per essere scientifico, deve sottostare a un vaglio di scientificità che si
presuppone consensuale e non autoproclamato, perché a nessuno è consentito credersi una scienza
“particolare” e costruirsi la propria identità scientifica per conto proprio e in modo personale.
La seconda risposta testimonia l’atteggiamento implicito che motivò la psicoanalisi a
rivolgersi all’ermeneutica. Ritenendo l’esigenza di essere scientifica una pretesa che non le competeva, si
rivolse ad un ambito nel quale nessuno avrebbe richiesto più di tanto verifiche scientifiche. Ritenere la
psicoanalisi un’ermeneutica esprimeva tuttavia una posizione che continuava a muoversi all’interno dello
scientismo e della sua logica di out-out. Il gioco messo in atto sembra essere stato quello della coperta
troppo stretta: infatti se, dato il suo interesse antropologico, per la psicoanalisi non era congruo occupare
un posto tra le scienze della natura, l’alternativa era quella di conquistare una postazione tra le discipline
umane (De Robertis, 1993), cercando rifugio in casa della parente povera, ovvero presso un tipo di sapere
di serie B. L’ermeneutica infatti, come tutte le scienze umane, veniva considerata costituzionalmente più
fallibile, opinabile e incerta, denunciando un tasso di relativismo semplicemente per il fatto di non essere
ritenuta nomologica, cioè di rappresentare una forma di conoscenza i cui dati non possono essere
traducibili in leggi.
Ne consegue che essersi assimilata all’ermeneutica è stato un comodo alibi per la psicoanalisi per
proiettare i limiti scientifici sul suo oggetto e per non fare i conti invece con la fragilità delle misure
scientifiche adottate dagli psicoanalisti. In altri termini una contromisura per evitare di riflettere sulla
considerazione che non è l’oggetto, ma è il soggetto, che, adottando metodologie consensuali e
validate, garantisce spessore scientifico alla propria disciplina, al di là se essa si occupi di fatti umani, non
umani, direttamente o indirettamente osservabili, riconducibili a leggi o invece dotati di relativa e non
assoluta predittività4.
Lo scientismo ha innescato una reazione a catena
La fedeltà di Freud, e poi del postfreudismo, ad una concezione della scienza di tipo scientista, non è
stata una scelta da poco e tanto meno circoscrivibile. Piuttosto essa ha funzionato da motore primo che ha
innescato, come una reazione a catena, una pioggia di conseguenze responsabili di aver compromesso il
rigore scientifico del discorso psicoanalitico.
A questo proposito è possibile individuare l’esito di tali effetti in alcuni ambiti dove si sono
concentrate le carenze endemiche per le quali il modello standard della psicoanalisi ha prestato il fianco
all’impossibilità di essere rubricato tra le discipline dotate di rispettabilità scientifica.
Gli ambiti che qui riporto non sono certo separabili, ma contraggono rapporti di causa-effetto reciproci,
come emergerà nel corso del discorso:
- l’autoconvalida e l’autoreferenzialità, come posizione autogiustificatoria;
- la chiusura rispetto alle altre scienze in generale e, in particolare alle scienze affini e confinarie;
- la mancanza, a livello teorico, di procedure di validazione degli assunti e dei costrutti del modello di
funzionamento psichico;
- l’assenza, a livello operativo, di un’euristica della ricerca, volta ad indagare non solo l’efficacia dell’azione
terapeutica (il curare), ma soprattutto l’efficienza di essa (come e perché cura);
- il deficit di procedure a carico dell’osservazione naturalistica.
L’autoconvalida e l’autoreferenzialità come forme di “autismo” epistemico
Disponiamo di vari riscontri che attestano in che misura le convalide che la psicoanalisi si è data
assunsero la forma di un’autoconvalida, in nome del presupposto che essa si giustifichi da sola e di per sé,
come compito di sua esclusiva e insindacabile pertinenza.
Sebbene all’interno del campo abbiano giocato anche variabili personali e politico-istituzionali, da un
punto di vista epistemico la pretesa deriva da vari assunti, tutti afferenti alla matrice scientista. In primo
luogo la concezione veritativa e fondazionista della scienza, veicolata dallo scientismo, secondo cui solo le
scienze naturali (fisiche e matematiche) detengono il potere di avere in mano i fondamenti dei fenomeni
e sono depositarie di verità assoluta. Una visione “hard” della scienza, assai lontana dall’attuale
epistemologia che va proponendo una concezione fallibilista e autocorrettiva delle proposizioni
scientifiche.
Come la storia della scienza insegna, la consapevolezza del carattere storico e temporale della scienza
induce ad attribuire ad essa una valenza provvisoria e relativa, nel senso di approssimazione alla verità e
non di possesso compiuto di essa. La rinuncia alle certezze della scienza significa che le risposte utili a
spiegare come stiano le cose saranno provvisorie e rivisitabili. Tuttavia che il sapere sia una “congettura”
non significa che sia una “favola”, in quanto le congetture sono scientifiche e non favolistiche proprio
perché si dispongono alla smentita o alla conferma.
Ma a quei tempi si credeva che la scienza, come scienza della natura, detenesse verità incontrovertibili.
Dunque la psicoanalisi, proclamata da Freud scienza della natura, finiva, quasi per virtuosa contaminatio,
per godere del possesso di verità incontrovertibili, tali, e questo e il punto nevralgico, da rendere superfluo
ogni ulteriore accertamento e qualsiasi verifica sul fronte della giustificazione dei suoi assunti. Come se
implicitamente per Freud il fisicalismo del modello psicoanalitico costituisse una sorta di corazza magica
che rendeva la psicoanalisi invulnerabile.
Un altro puntello fu l’adesione freudiana alla teoria della corrispondenza, altro corollario dello
scientismo. Per corrispondenza s’intendeva sottolineare che il pensiero, nell’atto del conoscere
rispecchiasse la realtà, vi aderisse perfettamente e quindi la scienza restituisse l’immagine di come stiano
“veramente” le cose “lì fuori”. Si tratta di ciò che oggi viene definito l’occhio di Dio, come espressione di
una conoscenza pura e immacolata, poco credibile per le attuali filosofie della scienza che inseriscono tra i
fenomeni e l’osservatore lo sguardo dell’osservatore che, leggendo, non rispecchia, ma “costruisce” e
interpreta i fenomeni. Da questo punto di vista decade la ripartizione tra scienze vere e scienze più
approssimative, tra scienze che osservano e registrano i fatti e scienze che interpretano i fatti. Anche in
questo caso assistiamo a un’operazione volta a ripristinare l’unità metodologica della scienza, nel momento
in cui si riconosce la valenza costruttivista di tutte le scienze, nessuna delle quali afferra la verità, ma tutte
costruiscono le rispettive conoscenze.
Ma tornando a Freud, non è un caso che il sapere psicoanalitico sia autoconfermante, perché verità e
giustificazione sono termini che si escludono a vicenda. Perché mai bisognerebbe dimostrare ciò che è
vero?
Refrattario ad ogni controllo pubblico, il sistema psicoanalitico è stato concepito nel diritto di eludere
qualsiasi prova e controllo che non fosse dato da se stesso e dal suo interno5.
E così la fiducia a priori nella verità rese irrilevante qualsiasi referente probatorio che si situasse fuori
della circolarità interna tra teoria e clinica. Si tratta dello Junktim, il “legame inscindibile”: i dati teorici
confermano i fatti clinici e i fatti clinici vanno a riconfermare i dati teorici. Un procedimento
autoreferenziale che ha alimentato il circolo vizioso della reciproca validazione tra livello teorico e
livello clinico, tra teoria e prassi. Questa attitudine autoreferenziale ha portato la psicoanalisi a disertare
per lungo tempo la riflessione sulla valenza terapeutica della cura psicoanalitica, ovvero quell’area di
sperimentazione che oggi è rappresentata dalla ricerca extra-setting e dal discorso sulle meta-analisi.
Chiusura e isolazionismo: i figli dell’autoconvalida
Il regime di autoconvalida è stata uno dei fattori che ha portato all’isolazionismo della psicoanalisi. Una
sorta di statuto autarchico che ha depotenziato, privandola del confronto, le indubbie risorse di cui essa
avrebbe potuto disporre nell’interfacciarsi non solo con le scienze affini e confinarie ma anche con il
panorama scientifico in generale.
Contestualizzando le origini della psicoanalisi in questo caso si può spezzare una lancia a favore di Freud.
In una lettera a Marie Bonaparte Freud confessa che, a differenza degli scienziati che attingevano ad una
lunga tradizione, guidati dai grandi del passato, egli fu costretto a lavorare “solo” e “nel buio” (cit. in Gay,
1985, p. 69 e n. p. 85). Questa solitudine è verosimile per le origini della psicoanalisi, che, storicamente
priva di possibilità di dialogo, si muoveva in un panorama pressoché deserto, dove spiccava la psicologia
sensorialistica, addirittura considerata una branca della fisiologia, e la psichiatria organicista. Ma
l’isolazionismo della psicoanalisi si protrasse a lungo, anche quando il panorama della psicologia era
cambiato, diventando un’identità non facilmente superabile. Essa restò incurante ai rumori esterni e anche
all’epoca della crescita della psicologia non fu incuriosita dai dati delle sperimentazioni e delle ricerche,
comprese le rivoluzioni che il dominio psicologico andava effettuando. La crescita delle scienze psicologiche
fu considerato altro o a parte rispetto alla psicoanalisi. Un mondo parallelo, vissuto con
un habitus d’indifferenza che spesso ha assunto toni di rivalsa e di conflitto, orientati dalla preoccupazione
di vedere erosi pezzi del proprio territorio.
La logica della dimostrazione: un procedimento superfluo
La psicoanalisi, così euristica e creativa sul fronte della scoperta, non è stata altrettanto attiva e
produttiva sul fronte della giustificazione (Popper, 1959). L’abitudine ad usare procedure autogiustificatorie
ha indotto la psicoanalisi ad eludere i grandi temi su cui si basa il controllo di qualità di qualsiasi disciplina:
temi che riguardano la convalida dei propri assunti, la verifica dei risultati, il confronto con altre aree
disciplinari, le modalità di trasmissione e comunicazione del proprio sapere.
L’esigenza della giustificazione degli enunciati scientifici non riguarda tanto cosa essi vadano
affermando, quanto come sia dimostrabile ciò che essi affermano (Kosso, 1992). Freud conosceva molto
bene i metodi sperimentali, avendoli impiegati nell’ambito neuroanatomico, in particolar modo
nell’istologia. È sorprendente che questa prassi, da lui stesso ottemperata, non venisse poi trasferita, non
certo come tipo di metodologie, ma come forma mentis, al nuovo ambito psicoanalitico (Jervis, 1993, p.
116). Perché mai Freud lasciò nel laboratorio di Brücke il rigore delle verifiche, lo zelo dell’osservazione?
Una possibile risposta è rintracciabile nell’ambiguità di fondo nel quale Freud si era infilato, nel momento in
cui aveva catalogato la psicoanalisi tra le scienze della natura. Certo non si sarebbero potuto validare i dati
di una scienza umana con lo stesso tipo di procedure valide per le scienze fisiche. Era il doppio volto della
psicoanalisi a mettere in scacco l’applicazione di normative di convalida. A causa dell’ambiguità di fondo su
cui viaggiava la psicoanalisi gli ingranaggi delle verifiche sarebbero girati a vuoto. Infatti come si sarebbero
potuti sottoporre a verifica enunciati teorici come l’energia psichica, il principio omeostatico, la scarica?
Come sottolinearono, dopo Nagel, anche i postrapaportiani Rubinstein in testa (Rubinstein, 1973), i
concetti psicoanalitici non erano aggredibili e, non soggetti né a smentita, né a conferma, sgusciavano tra le
maglie della verifica, perché erano astratti e pertanto non osservabili. In conclusione era il modello
psicoanalitico, proprio per come era congeniato e epistemicamente impostato a sabotare la verifica.
L’ampio tema della mancanza di verifica (Caretti, 1985) rimanda ad un ulteriore ambito in cui la psicoanalisi
si dimostrò difettosa: l’osservazione naturalistica.
L’osservazione naturalistica: il grande assente
Una delle procedure più disertate dalla psicoanalisi, che ha prodotto sacche di notevole fragilità
scientifica, è proprio quella dell’osservazione. Ne porta le tracce il modello evolutivo e la psicologia
dell’infanzia: ignorato dall’osservazione, l’immagine del bambino freudiano, kleiniano e anche
postfreudiano, è desunta, con un procedimento retrogrado, a partire dall’adulto della clinica. E quando, per
fortuna, si cominciò a guardare in faccia questo oggetto sconosciuto, ce ne volle ancora di tempo
perché l’osservazione fosse effettuata nel rispetto delle condizioni naturalistiche. Bowlby denunciava lo
scollamento che la psicoanalisi aveva consumato tra teoria e osservazione. Di parere contrario sembra
essere stato Freud, dal momento che non si peritò di affermare che “gli assunti della psicoanalisi sono
basati su una quantità enorme di dati ed esperienze” (Freud, 1938, p. 571; cfr. anche Freud, 1924, p. 125).
Da dove viene questa posizione? Per la psicoanalisi per “quantità enorme di dati ed esperienze” s’intende
quello che proviene dalla stanza dell’analisi, considerata la fonte dei dati.
Ma lo spazio dell’intervento clinico, nulla togliendo alla spontaneità dell’analista nell’usare la teoria non
come un formulario, ma in modo creativo e non protocollare, è già un luogo “secondo”, perché dovrebbe
risultare uno spazio applicativo e unmomento successivo rispetto allo spazio della teorizzazione e della
verifica di essa. Il fatto è che la psicoanalisi non ha distinto l’ambito della formulazione e della verifica
sperimentale degli assunti dallo spazio operativo dell’applicazione di essi. Usando indebitamente i dati
provenienti dalla stanza dell’analisi, ha creato la cultura dell’autogiustificazione e ha chiuso le porte
all’osservazione e alla verifica. Procedure che dovrebbero essere condotte in spazi “esterni”.
La mancanza di procedure di valutazione e controllo è responsabile anche di un bizzarro modo di
procedere del freudismo. Ad esempio, le ipotesi che spesso Freud prospetta, e che propone come istanze
provvisorie, finiscono col diventare, senza alcuna forma di verifica, ma semplicemente col passare del
tempo, verità indiscusse e indiscutibili (Zusman et al., 2007). Altrettanto accade per enunciati avanzati sotto
forma di metafora. L’esempio più vistoso è l’apparato psichico del VII capitolo (Freud, 1900): presentato
come formula metaforica, si converte nell’asse portante del modello metapsicologico. È pur vero che
all’interno della scienza è ammessa la presenza del linguaggio metaforico (le metafore costitutive), che
svolge una funzione conoscitiva che può facilitare la ricerca. La metafora infatti può essere uno strumento
utile al raggiungimento della spiegazione, come momento intuitivo da parte dello scienziato, che,
difettando di un linguaggio esplicito, rispondente e tecnico, si può avvalere di un linguaggio per immagini,
in adozione in forma provvisoria in una fase di gestazione (Boyd e Kuhn, 1980; Gagliasco, 2001) . Ma
nella psicoanalisi le metafore in adozione, sono diventate uno stato permanente e non provvisorio del
sistema, convertite direttamente in concetti, senza l’intervento di alcuna verifica.
Alcune buone ragioni per puntare sulla rispettabilità epistemica della psicoanalisi postmoderna
Concludendo questa prima parte, volevo sottolineare che la psicoanalisi standard è caduta nella
trappola dello scientismo. Continuando a credere, come successe a Freud, che lo scientismo fosse la scienza
e non il modo ottocentesco di concepire la scienza, ora si è proclamata scienza della natura, seguendo la
definizione freudiana o all’opposto si è proclamata ermeneutica. Tuttavia nell’un caso come nell’altro, la
sostanza non cambiava, perché entrambe le risposte si posizionavano all’interno della concezione del
sapere operata dallo scientismo (Clarke, 1997). Attualmente questa concezione che separa le scienze è
tramontata ed è tornata alla ribalta un’idea unificata di scienza, fondata sul criticismo del metodo che
accomuna tutte le discipline, fatto salvo la morfologia specifica dell’oggetto di studio che modellerà a sua
volta il tipo di “lessico”, di procedure e di metodiche adottate.
Gli steccati che delimitavano le hard sciences depositarie di verità dalle soft sciences, più fallibili e
relativistiche sono venuti a cadere nel momento in cui la scienza ha dismesso le sue pretese di verità certe
e indiscutibili. Scienze naturalistiche e scienze antropologiche allora si vanno riavvicinando, in base alla
considerazione che, se le teorie scientifiche non riproducono la realtà, di conseguenza saranno il prodotto
di un’interpretazione della realtà, nel senso di essere polarità concettuali che sfruttano i dati, ma non sono
derivate in presa diretta dai dati. La realtà non si trova preconfezionata nella conoscenza, non è
oggettivamente data, ma dipende dall’osservatore e dal contesto, ossia non dipende da come il mondo è,
ma da come viene concepito da colui che lo osserva. Ne deriva l’idea che la conoscenza scientifica non
abbia un valore ontologico, ma un valore cognitivo e che il grado di scientificità di una scienza stia in ciò che
funziona, nel suo valore d’uso, nella sua capacità di fornire spiegazioni circa un determinato ambito di
fenomeni e nel suo successo nel prevedere e gestire eventi fino a quel momento sconosciuti. Questa virata
costruttivista, che vede nelle teorie scientifiche costrutti interpretativi e non riproduzioni della realtà, ha
avuto una ricaduta eccellente sulla psicoanalisi postmoderna. I tempi erano propizi per abbattere le
pregiudiziali di marca scientista, che in modo aprioristico tenevano la psicoanalisi fuori dai confini della
scienza.
Ne consegue che le condizioni di scientificità della psicoanalisi attuale risiedono in due premesse. La
prima esterna, l’altra interna alla psicoanalisi.
La prima riguarda la considerazione di base che le nuove epistemologie a matrice costruttivista e
funzionalista consentono al sapere antropologico, e quindi alla psicoanalisi, il novero tra le scienze.
La seconda si riferisce al fatto che la psicoanalisi, per essere annoverata tra le scienze, dimostri di
ottemperare ai requisiti di scientificità, che sono a carico non del suo oggetto, ma del modus operandi della
comunità psicoanalitica.
La psicoanalisi “relazionale” ha operato svolte concettuali all’insegna di una revisione profonda rispetto
alla tradizione. Non soltanto l’intervento clinico si è rimodellato in funzione dei nuovi costrutti teorici, ma
anche il livello teorico è statoimpostato su referenti epistemici di diversa matrice: l’epistemologia
psicoanalitica contemporanea non è posizionata sullo scientismo, ma è improntata sull’approccio
costruttivista che caratterizza i rappresentanti del pur variegato pianeta relazionale (Richards, 2003).
Disporre di un modello teorico fondato su una nuova piattaforma epistemica che tagliasse i ponti tra
psicoanalisi e scientismo, ha fatto sì che il paradosso epistemico si sciogliesse come neve al sole.
Ma non è tutto qui.
L’adesione della psicoanalisi contemporanea al paradigma costruttivista testimonia in che misura la
psicoanalisi non viva del suo passato, ma nel suo presente: non persegua una visione autoreferenziale, ma
risulti aperta all’esterno, confrontandosicon la concezione della scienza vigente e adottandone i parametri.
Il fatto che la psicoanalisi adotti un’epistemologia condivisa è già di per sé una preliminare garanzia di
scientificità per costruire un sapere su basi epistemiche rispettabili.
Infatti la scientificità, per come è concepita dalla nostra cultura, non consiste solo nelle verifiche
sperimentali, ma anche nella condivisibilità dei presupposti e nel confronto intersoggettivo con le altre
forme di sapere. In altri termini non saranno sologli strumenti di verifica a saturare il grado di scientificità
della psicoanalisi; è altrettanto importante che essa si presti ad essere un veicolo sociale , nel senso che una
teoria, per essere scientifica, deve produrre conoscenze negoziate e condivise all’interno del dialogo
interdisciplinare. Aver negoziato e condiviso il paradigma epistemico ne è già una prova.
Vista la premessa, proviamo a rivisitare le aree in cui prospettavo, si fossero concentrate, come in un
collo di bottiglia, le carenze scientifiche del modello standard della psicoanalisi, per verificare se le versioni
postmoderne si muovano in maniera diversa.
Passando in rassegna i concetti che animano gli attuali orientamenti psicoanalitici, ci si accorge che molti
di essi sono tributari degli apporti forniti da altre scienze, più o meno affini.
La psicoanalisi, nel riflettere sui suoi dispositivi concettuali, sembra ufficializzare la posizione che non sia
solo l’osservazione clinica a convalidare il modello psicoanalitico, ma una riflessione interna orientata sugli
stimoli forniti dalle scienze affini e non (Gedo, 1996).
È significativo in tal senso che i più vistosi cambiamenti degli ultimi decenni si siano verificati grazie alle
riflessioni e alle “appropriazioni” che la psicoanalisi ha operato sui risultati raggiunti da un ventaglio di
domini disciplinari ad essa anche eterogenei. Si tratta di una sollecitazione che ha stimolato la psicoanalisi
ad aprirsi ai contributi delle altre scienze, interrogandosi, con un atteggiamento di autonomia critica e
costruttiva, non di sudditanza, come accadde per l’omaggio al fisicalismo, sulle misure di utilizzazione dei
nuovi dati provenienti da settori limitrofi e non (Olds e Cooper, 1997).
Un trend a testimonianza che la psicoanalisi sta maneggiando un nuovo know how, non limitandosi ad
essere incuriosita dalla trasversalità delle proposte, ad essere disponibile all’ibridazione epistemica, ma già
impiantando strategie di costruzione di nuovi assunti teorici e nuovi orientamenti, che, sebbene
diversificati tra loro, hanno comunque il pregio di condividere logiche e matrici comuni al pensiero
postmoderno a cui tutta la Grande Scienza appartiene (Dorato, 2007).
Si tratta di un lavoro di confronto che costituisce una sorta di ricerca concettuale: è importante
osservare anche quello che fanno gli altri e farsene stimolare, senza il timore di perdere l’”esclusività”
dell’osservazione. Come sottolineò von Mises (1939) i progressi scientifici talvolta possono originarsi dal
chiarimento di problemi che si trovano al confine di settori disciplinari che fino a quel momento erano stati
considerati in termini strettamente separabili. Assumere un focus integrato nel confronto tra competenze
appartenente a domini diversi fornisce elementi reciprocamente fruibili. La scientificità di qualsiasi
disciplina e di ogni ricerca sta nell’assumere una posizione cross-over con le altre discipline. Ogni disciplina
andrebbe pensata come una scienza di confine, una disciplina non separata, ma che confina con altre. Le
situazioni confinarie modificano entrambi gli ambiti. Ci troviamo davanti a quello che l’epistemologia
chiama Teoria dell’intercampo, secondo la quale, nel momento in cui lo stesso fenomeno è studiato da
varie angolazioni disciplinari, possono operarsi interconnessioni reciproche, che lungi dal ridurre una teoria
all’altra, lavorano e riflettono sulle interconnessioni, creando appunto un intercampo.
Ma c’è di più. Il momento di confronto, oltre ad essere un momento scientifico, è anche un momento
etico e dialogico, nella misura in cui funziona da riflessione sui propri strumenti di lavoro e da indice di
controllo sulle ipotesi del ricercatore. È bene tenere presente che l’operare scientifico è innanzitutto un
vettore sociale: l’esigenza del confronto poggia sulla necessità della convergenza dei risultati e della
controllabilità sociale, all’interno di un linguaggio comune. Ogni verifica scientifica è essenzialmente una
verifica linguistica e intersoggettiva, interna al dialogo interdisciplinare e resa possibile da una terminologia
condivisa (De Robertis, 2004).
Sotto questo profilo - solo per citare alcune testimonianze - dietro il concetto di prospettivismo
(Stolorow et al., 1997) e di intersoggettività (Stolorow et all. 1994; Stolorow e Atwood, 1992; 1996) c'è la
teoria dei sistemi complessi (Stolorow, 1995; 1997), esplorata dalla fisica, dalla biologia e dalle
epistemologie sulla teoria del caos, che la psicoanalisi ha preso a modello della complessità dei mondi
psicologici (Sander, 2002; Tronick, 1998).
Il bipersonalismo è stato stimolato dal costruzionismo sociale (Gill 1994; Hoffman 1983; 1994) di Pearce
e di Shotter (Gergen, 1985). Anche le scienze sociali sono diventate fruibili per la psicoanalisi sotto l’impulso
del relational track e della “motivazione sociale”.
Il “neonato competente” e il “bambino intelligente” della I. R. rappresentano la risposta psicoanalitica ai
risultati della psicologia dello sviluppo. Le “RIG” di Stern, gli IWM di Bowlby, i “principi organizzatori “ e gli “
stati attrattori” di Stolorow, le “scene modello” di Lachmann, il “piano inconscio” e le “credenze patogene”
di Sampson e Weiss sono modi psicoanalitici per declinare i costrutti della scienza cognitiva degli “scripts” e
degli “schemata”.
Le nuove concettualizzazioni psicoanalitiche sulla motivazione e sui sistemi motivazionali (Lichtenberg,
1989) sono mediate dagli assunti della scienza informatico-cognitiva (P.D.P.).
Gli apporti dell’etologia (R.A. Hinde, 1983), hanno improntato la revisione del concetto di fase, periodo
critico, discontinuità dello sviluppo, fissazione, regressione, ecc..
La psicologia delle emozioni ha rimodellato il concetto di affetto (Emde, 1989; Emde e Buchsbaum,
1993), relazionando l'esperienza affettiva ai sistemi di cognizione (Tomkins, 1991).
Per quel che riguarda la memoria, tema centrale della narrazione clinica, l'attenzione ai dati della
psicobiologia del ricordo ha permesso di puntare alla narrazione in modo alternativo rispetto al recupero
archeologico; analogamente i risultati delle neuroscienze hanno stimolato la psicoanalisi a riformulare il
quadro mnestico in base alla memoria implicita.
Il nuovo focus interpretativo al sogno (Fosshage, 1997) è solidale con i risultati delle neuroscienze
cognitive. E non da ultimo il concetto di inconscio sta acquisendo una più vasta articolazione e un più ampio
respiro, tributario dei contributi delle scienze cognitive e della psiconeurobiologia.
Anche la scoperta dei neuroni specchio, al di là di facili riduzionismi cui è oggetto, ha spinto la
psicoanalisi a rileggere i dispositivi di comprensione all’interno delle facoltà metacognitive, in rapporto agli
schemi di previsionalità, ma anche alle capacità di autoriflessione (Fonagy e Target, 2001).
La lista potrebbe proseguire, includendo gli autori che, all’interno della psicoanalisi, si sono rivolti alla
linguistica, alla semiotica, alla storiografia, alla filosofia della mente, ecc..
Iniziare a parlare una lingua comune come membri di una comunità scientifica allargata è la prova di
quanto, ormai da tempo, la psicoanalisi abbia spezzato quel linguaggio separatista a monte della passata
fragilità scientifica. Ma è anche l’attestato di un linguaggio convalidato, perché un sapere condiviso è già un
sapere convalidato.
Ma non basta. Altre forme di verifica devono essere percorse dalla psicoanalisi, tenendo conto anche
della sua fisionomia. La psicoanalisi infatti non è una filosofia, né una weltanschauung e tanto meno una
dottrina esegetica. Non lo è per il semplice fatto che la sua finalità è la cura e questo obiettivo la rende un
sistema concettuale provvisto di tecnica. Allora, in quanto scienza applicata, la psicoanalisi è chiamata a
gestire un versante operazionale e quindi non può esimersi dal fare i conti con le verifiche della propria
operatività. Per verifiche non mi riferisco solo alla convalida dell’efficacia della terapia, ovvero sull’esito e i
risultati della cura (outcome research), quanto alle ricerche sull’efficienza della terapia (process research).
Queste ultime, attivate fin dagli anni ’70, sono guidate non tanto, e non solo, dall’interrogativo se la
psicoanalisi curi, ma come essa curi, concentrandosi nella verifica extrasetting, sui fattori e sul processo di
cambiamento. Un laboratorio le cui ipotesi da verificare riguardano cosa la terapia metta in campo, come
funzioni e come si realizzi questo funzionamento (Fava e Masserini, 2002; Lambert, 2003).
Infine vorrei sottolineare che l’ampio tema della verifica in psicoanalisi non chiama in causa soltanto le
implicazioni del risvolto operativo, ma riguarda anche gli assunti teorici del modello di riferimento, i quali
devono essere formulati in modo tale da essere disponibili alla verifica. A cominciare dal freudismo, la
psicoanalisi ha rotto i ponti tra teoria e osservazione, non considerando che non esistono conoscenze che
possano sottrarsi al confronto con la realtà, e quindi con l’esperienza. In questi termini ogni scienza, in
quanto produce teorie è empirica, nel senso di non poter fare a meno d’impiegare l’osservazione
naturalistica per formulare e convalidare i propri assunti.
Adottare la verifica empirica nel dominio psicoanalitico non vuol dire adottare strumenti peculiari alla
scienza tradizionale, ma confrontarsi con i dati dell’esperienza, che sono appunto empirici.
Il bambino freudiano prima e psicoanalitico poi, è risultato un bambino astratto e costruito in vitro,
perché non agganciato alla sperimentazione-osservazione. Un modello evolutivo e un’immagine
dell’infante confutate oggi dall’osservazioneempirica. Sono caduti così numerosi tratti inesistenti del
bambino psicoanalitico, non solo in riferimento alla sessualità, ma anche all’onnipotentismo, al narcisismo
e all’autismo primario, all’indifferenziazione e alla simbiosi. L’osservazione naturalistica, entrata in
adozione in psicoanalisi, ha restituito un bambino “osservato” e concreto, con funzionalità basate sulla
competenza sociale e i dispositivi adattivi. Un nuovo modello evolutivo e un nuovo volto dell’infanzia che è
la testimonianza più brillante dell’impegno della psicoanalisi postmoderna nel declinare gli assunti teorici
con l’osservazione naturalistica e la verifica empirica.
Concludendo, sembrerebbe che dal confronto epistemico tra psicoanalisi ieri e psicoanalisi oggi,
l’attuale psicoanalisi esca più equipaggiata da un punto di vista scientifico, dotata di strumenti che
la stanno traghettando da una credibilità scientifica costruita su palafitte ad un assetto scientifico con “base
sicura”. Infatti la psicoanalisi a matrice relazionale sta percorrendo traiettorie che poggiano su
piattaforme epistemiche più stabili, più coerenti e più condivise.
Storicamente stiamo assistendo ad una fase di “normalizzazione” epistemica della psicoanalisi, che
permette di nutrire ragionevoli speranze circa il guadagno di una rispettabilità scientifica, che, se forse oggi
non pienamente consumata, è legittimamente pensabile come futura e possibile.
Allora il problema che si apre è in relazione a quali metodi di costruzione e di verifica, sia degli assunti
teorici, che degli strumenti clinici, debbano essere impiegati. Metodi che siano rispettosi delle proprietà
dell’oggetto della psicoanalisi in riferimento al soggetto psichico, che non producano facili generalizzazioni,
che non restituiscano spiegazioni dualistiche, che sfuggano ai rischi di quelle metodiche modellate su un
naturalismo o su un riduzionismo ingenuo.
Molta strada è stata percorsa, molta ce ne sarà da fare.
Possiamo ritenerci soddisfatti.
NOTE
¹ I rappresentanti più di spicco, fautori della bipartizione epistemica del sapere lungo l’arco dell’800,
furono, cominciando da Droysen, Ampère, che distinse le scienze della natura o cosmologiche dalle scienze
dello spirito o noologiche; Du Bois Reymond, che propose la separazione tra scienze naturali e scienze
culturali; Dilthey che ne sottolineò la diversità del metodo nell’approccio all’oggetto: le prime regolate
dal cognoscere per causas, dalla conoscenza delle cause e dei meccanismi, dallo spiegare (versteben), le
seconde dal metodo della comprensione (erklären); Windelband che, chiamando nomografiche le scienze
della natura, intendeva mettere in primo piano la presenza di fenomeni ricorrenti e quindi iscrivibili in leggi,
individuando invece nelle scienze dello spirito, da lui chiamate idiografiche, la presenza di fenomeni
individuali e irrepetibili; schema riproposto anche da Rickert nel sostenere il carattere generalizzante delle
prime e il carattere individuante delle seconde.
² Anche Ricoeur individuò nella psicoanalisi “una duplice dimensione”, riferendosi ad un’energetica e
un’ermeneutica, ma senza attribuirgli alcuna sottolineatura critica, anzi ritenendo che questo “discorso
misto è la ragion d’essere della psicoanalisi” (Ricoeur, 1965, p. 85).
³ La considerazione che lo scientismo sia una concezione superata dalle attuali epistemologie, non
significa che non permanga come forma mentis culturale, se non inveterata, sicuramente dura a morire. 4 Anche le scienze fisiche infatti non sono assolutamente nomologiche, ma possono contemplare assunti
non prevedibili, come attesta l’impossibilità di prevedere esattamente la posizione istantanea dell’elettrone
intorno al nucleo. 5 A questo proposito torna esemplare il “caso” Rosenzweig. Il documento è una cartolina, è datata 1934
e porta la firma di Freud: si tratta della risposta al dottor Rosenzweig che aveva tentato di sottoporre a
verifica sperimentale extra-clinica un concetto di largo impiego psicoanalitico, la rimozione appunto.
Ecco il testo: “Caro dottor Rosenzweig ho esaminato con interesse i suoi studi sperimentali sulla validità
scientifica delle affermazioni psicoanalitiche. Non posso dare un gran valore a queste conferme, perché
l’abbondanza di osservazioni attendibili sulle quali queste affermazioni riposano, le rende indipendenti dalla
verifica sperimentale” (cit. in L. Postnam, 1962, p. 702).
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