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L'Africa non è lontana

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di Carmela Blescia, narrativa

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Carmela Blescia

L’Africa non è lontana  

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L’AFRICA NON È LONTANA Copyright © 2010 Zerounoundici Edizioni

Copyright © 2010 Carmela Blescia ISBN: 978-88-6307-329-4

In copertina: Shutterstock.com

Finito di stampare nel mese di Novembre 2010 da Logo srl

Borgoricco - Padova

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RITORNO A CASA

 

 

 

«I passeggeri sono pregati di allacciare le cinture di sicurezza. Stiamo per decollare». L’elegante hostess aveva appena illustrato le tecniche di primo soccorso in caso di guasti all’aereo ma Matilde, incurante, non si era nemmeno tolta gli auricolari e continuava ad ascoltare, con volume al massimo, le opere di Mahler. Era l’unica musica che riusciva a placare la sua tristezza e adesso ne aveva bisogno: ne aveva disperatamente bisogno. Stava tornando a casa dopo un lungo viaggio, il viaggio più incantevole che avesse fatto nei suoi quasi ventotto anni di vita; un viaggio dopo il quale più niente sarebbe stato come prima; un viaggio che aveva scosso la sua essenza sin nelle viscere, cambiandola profondamente. Le calde temperature e i colori accesi della terra africana aleggiavano nella sua memoria stordendole i sensi e lì sarebbero rimasti per tutta la sua vita. Da circa un anno, Matilde aveva adottato un bambino a distanza, Lisimba. Cinque anni appena compiuti, un sorriso che rallegra l’anima e una storia triste alle spalle come molte, tante, troppe laggiù, in quella terra dimenticata da Dio e dal mondo.

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Lisimba viveva a Iringa, una città della Tanzania, nel cuore dell’Africa, sul versante dell’oceano Indiano. Suo padre non aveva né un volto né un nome e sua madre lo aveva reso orfano mettendolo al mondo, ma lasciandogli un’eredità: l’AIDS. Durante il viaggio, Matilde scaricò sul suo portatile le migliaia di foto scattate nei suoi tre mesi trascorsi a Iringa e mentre i files passavano dalla fotocamera al computer, lei guardava fuori dal finestrino quanto stava, a malincuore, lasciando. La terra ferma non si vedeva già più e calde e salate lacrime le rigarono il volto fino a inumidirle le labbra. Si asciugò e ripose nuovamente lo sguardo sullo schermo. Non vedeva l’ora di mostrare le foto a suo padre, di raccontargli cosa aveva visto laggiù sperando che lui potesse fare qualcosa. Aveva l’ingenuità di una ragazzina sotto questo aspetto ma nessuno più di lui avrebbe potuto capire; nessuno più di lui avrebbe potuto essere fiero di lei. Suo padre, Andrea Loche, era stato un brillante chirurgo ormai in pensione. Aveva conosciuto sua moglie, Carla, proprio in Africa. Lui era nell’èquipe di Medici Senza Frontiere, lei invece una volontaria in terra straniera. Avevano vissuto insieme le sofferenze di quella gente e il loro reciproco senso di umanità li aveva avvicinati a tal punto da renderli una squadra vincente sul lavoro e una coppia innamorata nella vita privata. Consumarono il loro amore in Etiopia, in una minuscola tenda di un altrettanto minuscolo villaggio. In quella notte fu concepita Matilde. Il volo da Dar Er Salaam a Roma era durato diciassette ore, ma la mente di Matilde era stata così impegnata a tentare di fissare i dettagli del suo viaggio che non si era quasi accorta del tempo trascorso. Ritirò il suo bagaglio, piccolo nonostante la lunga permanenza fuori di casa, e si avviò alla zona Arrivi. C’era suo padre ad aspettarla e aveva in mano un grazioso mazzo di fiori, delle semplici violette, quelle che a lei piacevano tanto, violette di campo. Appena lo vide, Matilde gli corse incontro e gli si

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lanciò addosso non curante dei fiori che finirono stritolati dal caloroso abbraccio. «Ti avevo portato dei fiori» disse il padre sorridendo «ma credo che non potrai metterli in un vaso!». Matilde rispose al sorriso come per ringraziarlo e continuò ad abbracciarlo senza proferir parola. Il viaggio fino a casa fu accompagnato da un silenzio tombale. Aveva immaginato nella sua mente un discorso lungo tre mesi, lungo quanto la durata del viaggio stesso, ma adesso non riusciva a parlare. Le parve, improvvisamente, di non poter rendere bene il suo viaggio con le parole; pensò che se avesse provato a raccontare non avrebbe reso giustizia alla sofferenza che lei aveva toccato con le sue mani, che aveva visto con i suoi occhi, che aveva sofferto con il suo cuore e con la sua anima. Neanche suo padre, sebbene avesse operato laggiù, avrebbe potuto capire. Andrea conosceva troppo bene sua figlia, si somigliavano molto e per questo non le fece domande. Arrivarono a casa in venti minuti e Carla li aspettava guardando fuori dalla finestra, impaziente. Appena vide aprirsi il cancello automatico, corse ad abbracciare sua figlia. «Tesoro! Come stai? Com’è andato il viaggio? Ti trovo sciupata, dimagrita. Hai fame? Ti ho preparato le lasagne che ti piacciono tanto! Stanno cuocendo in forno». Come un vulcano attivo, parlava Carla. “La solita mamma” pensò Matilde e a voce alta disse «Mi faccio una doccia e poi ceniamo, va bene?» Andò in camera sua a posare la valigia e tutto quello che vedeva sembrava non appartenerle più. Sedette sul suo morbido letto, aprì il suo armadio per prendere gli abiti da indossare dopo la doccia, vide i suoi vestiti costosi, belli, dai colori sgargianti e un improvviso senso di colpa le attanagliò il cuore. Rimandò giù nello stomaco,

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deglutendo, il magone che le era salito in gola e prese una vecchia tuta consunta e scolorita. Si spogliò e i suoi abiti odoravano di Africa. Inspirò a pieni polmoni e, scuotendo la testa per impedire al magone di risalire, andò a infilarsi sotto la doccia. L’acqua calda aveva concesso ristoro alle sue membra, ma non alla sua anima. Indossò la vecchia tuta e si distese sul letto chiudendo gli occhi. Senza accorgersene, si addormentò.

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UN ANNO PRIMA «Allora, signorina Loche, da lunedì potrà cominciare il suo lavoro di Addetto alle Risorse Umane. E’ un incarico di alta responsabilità; da lei, e dai curricula che sceglierà, dipende il futuro lavorativo di tanta gente.» Così, il signor Ferese, con voce impostata, dall’alto del suo metro e novanta di statura, diede il benvenuto a Matilde nel suo nuovo incarico. Era marzo e Matilde aveva terminato il suo percorso universitario da circa sei mesi. Una laurea in Lettere Moderne che, in fondo, sapeva non le sarebbe servita a niente semplicemente perché non era quella la sua strada. Non aveva mai avuto ambizioni, non una in particolare, almeno. Tanti progetti, tanti sogni, si certo, ma non uno solo per cui valesse la pena di lottare con le unghie e con i denti. I giorni trascorrevano, uno dopo l’altro, sempre nello stesso modo. Di tanto in tanto, trovava del tempo da dedicare al volontariato. Suo padre, di ritorno dall’Africa, aveva fondato un’associazione per mandare aiuti là dove ce n’era particolarmente bisogno; e stare lì, prodigarsi per gli altri la aiutava a sentirsi utile. Ammirava molto suo padre: lui era stato in Etiopia e grazie alle sue straordinarie qualità, grazie al suo lavoro aveva salvato molte persone. Lei, invece, chi avrebbe mai potuto salvare col suo stupido lavoro? Pensava. Ma aspettava, paziente e fiduciosa, da inguaribile fatalista quale era, che il destino le indicasse il suo futuro.

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Il 17 giugno di quell’anno, Matilde compì ventisette anni. Uscì a festeggiare con Monica e Giulio, i suoi amici di sempre, a scolare birra fino a tardi. Entrambi due tipi ambiziosi. Monica era in attesa di discutere il suo lavoro di tesi in Biologia Marina, Giulio aspirava invece a diventare un impegnato giornalista. Rappresentavano un bel trio insieme. Trascorsero un sabato come gli altri. Matilde aprì la porta di casa alle tre del mattino camminando in punta di piedi per non far rumore con il suo tacco nove centimetri. Era tardi, ma non aveva sonno. Andò in cucina e tirò una birra fresca dal frigo recandosi nel soggiorno. Accese una piccola lampada etnica, una lampada dalla luce fioca che poco si intonava all’arredamento classico scelto da sua madre, aveva dovuto lottare per convincerla a tenerla lì. Era un souvenir che Matilde aveva portato in Italia dopo una vacanza estiva in Tunisia e le piaceva tanto. Si sedette sull’elegante poltrona rossa di pelle lucida e si tolse le scarpe cominciando a sorseggiare la sua birra. “Ventisette anni” pensò “sono tanti!” Cercava di ricordare cosa di importante avesse fatto: si era laureata, aveva un lavoro, adorava la sua famiglia, ma non aveva un fidanzato né una casa tutta sua né un progetto da rincorrere, diversamente dai suoi amici. Si sentiva una bamboccia viziata. Se solo avesse voluto, suo padre le avrebbe comprato un appartamento ovunque lei desiderasse, ma forse non era pronta per addossarsi le responsabilità di un’intera casa o, forse, voleva arrivarci da sola senza dover ringraziare nessuno. Mentre continuava a fare voli pindarici nella sua mente, altalenando i pensieri da ciò che era stato a ciò che avrebbe potuto essere a ciò che sarebbe stato in futuro, il suo sguardo si posò su una vecchia foto dei suoi genitori sorridenti circondati da numerosi bambini di colore. Aveva sempre pensato, senza averne mai cercato conferma, che si trattasse di bambini etiopi di cui Andrea e Carla si erano presi cura in gioventù. La prese e la guardò attentamente.

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L’aveva sempre vista lì da che ne avesse memoria, accanto a una foto di famiglia che immortalava i signori Loche e Matilde durante una giornata al mare, sul mobile di legno massello accanto al camino, sotto quell’orribile quadro dipinto da un amico di famiglia. Aveva sempre visto quella foto, ma non l’aveva mai guardata. Notò subito l’insolito abbigliamento del padre che indossava un gilet a mezza manica aperto sul davanti e dei pantaloncini lunghezza ginocchio e non poté evitare di sorridere, abituata com’era a vedere suo padre sempre elegante, senza cravatta, ma pur sempre con la giacca. Al suo fianco, Carla portava con assoluta disinvoltura una canotta bianca, palesemente macchiata di terriccio e un largo pantalone beige. Alle loro spalle una carovana di bambini sorridenti che tentavano di arrampicarsi sui due pelle bianca. Ma Andrea e Carla non stavano guardando l’obiettivo verso cui tutti i bambini avevano rivolto lo sguardo. Andrea stringeva tra le braccia una bambina bellissima ed entrambi la guardavano con estremo affetto. Uno strano e sciocco sentimento di gelosia la invase per un istante. Voltò la cornice ed estrasse la foto «20 settembre 1980. Mamma e papà, vi voglio bene. Matilde». Incredula, rigirò la foto cercando dei dettagli che potessero aiutarla a capire. La rigirò ancora e ancora e ancora. “Chi è questa bambina e perché chiama mamma e papà i miei genitori? E perché ha il mio stesso nome?” pensò. Rimase a lungo a fissare quella foto, a cercare una spiegazione, a tentare di capire perché i suoi non gliene avessero mai parlato. Cosa le nascondevano? Forse si stava agitando inutilmente, di sicuro c’era una spiegazione molto più semplice di quelle che stava immaginando lei. Non serviva arrovellarsi, avrebbe esposto

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ogni suo dubbio l’indomani a chi poteva darle risposte certe. Rimise la foto al solito posto, raccolse le scarpe e andò a dormire, o meglio, a tentare di dormire. Fu, infatti, una notte agitata. Non riusciva a togliersi dalla mente l’immagine felice dei suoi genitori con quella bambina, Matilde, che in quella foto avrà avuto cinque anni al massimo. “Allora adesso avrà non più di trentatré anni!” pensò. Intorno alle sei finalmente si addormentò e riuscì ad aprire gli occhi solo all’ora di pranzo quando fu svegliata dalla voce di sua madre che prepotentemente entrò nella sua stanza aprendo la finestra «Sveglia dormigliona! Renditi presentabile e vieni a pranzare» disse Carla con tono di rimprovero poco convincente. «Arrivo» fu la risposta di Matilde. Le venne in mente quanto scoperto la sera precedente e il dubbio che si fosse trattato solo di un sogno, frutto magari dell’alcool ingerito, prese il sopravvento. Andò a lavarsi. Quando scese in cucina, Andrea era già seduto a tavola e Carla stava decorando il suo risotto ai frutti di mare. «Come hai festeggiato il tuo compleanno ieri sera? Hai fatto molto tardi, a giudicare dal fatto che se tua madre non fosse venuta a svegliarti saresti ancora tra le braccia di Morfeo» disse Andrea. Subito a Matilde venne in mente che si era addormentata molto tardi per via di quella foto e capì che non si era trattato di una situazione onirica scaturita dall’alcool; tra l’altro, ricordava di non aver neanche esagerato con i liquidi. «Mhm, niente di che» rispose «sono uscita con Giulio e Monica, ma sono andata a letto tardi perché mi sono fermata in salotto...» Carla la interruppe «Allora hai bevuto tu quella birra che ho trovato di là?». Con tono serio, Matilde riprese il suo discorso «Mi sono fermata in salotto a guardare una foto, quella che ritrae voi due con tutti quei bambini africani. Ho letto la dedica sul retro.» Andrea e Carla si guardarono per un istante e poi rivolsero lo sguardo verso il basso, imbarazzati. «Hai conosciuto Matilde Zahina!» replicò suo padre. «Ma chi

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è? Perché vi chiama mamma e papà? Perché porta il mio stesso nome?» uscirono aggressive le parole dalla bocca di Matilde che si sentiva ferita. Andrea allontanò il risotto che sua moglie gli aveva appena servito e, inspirando profondamente, cominciò «E’ una lunga storia, tesoro. Ma è domenica. Forse riesco a riassumerti i miei ultimi trentacinque anni di vita.» Il racconto ebbe inizio.

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ANDREA LOCHE «Andai in Africa per la prima volta nel 1973 con uno dei gruppi di Medici Senza Frontiere, avevo pressappoco la tua età e mi ero appena laureato. Partimmo in cinque, ma non fummo assegnati tutti alla stessa missione né, tanto meno, fummo destinati allo stesso paese. La miseria e le malattie imperversano nella maggior parte del territorio lì e c’era bisogno di medici ovunque. Mi divisero dal mio collega, nonché migliore amico, Flavio. Io fui mandato nello Zimbabwe e lui in Etiopia. La missione sarebbe durata tre mesi. Ci separammo augurandoci buona fortuna a vicenda e fissandoci appuntamento, passati i tre mesi, a Roma, in ospedale, per cominciare insieme la specializzazione: almeno così credevo. Ma Flavio non tornò dopo il terzo mese, né dopo il quarto né dopo il quinto. Cominciai a preoccuparmi. Mi ero reso conto da solo che laggiù c’era davvero tanto da fare e non si aveva modo di interagire con il mondo esterno perché non c’è nessun mezzo per farlo, ma dovevo sapere che fine avesse fatto. Andai nel centro di smistamento di Medici Senza Frontiere e chiesi di parlare direttamente con il responsabile, il signor Guidoni, colui che aveva dato le destinazioni a noi cinque mesi prima ed esposi la mia preoccupazione. Guidoni si attivò subito: prese l’incartamento di Flavio e dopo aver sfogliato e letto i numerosi fogli che lo riguardavano, tirò un sospiro di sollievo e mi comunicò la decisione del mio amico di non ritornare in Italia. Aveva programmato di restare in Etiopia. Esterrefatto, scossi la testa quasi per chiedere conferma e il mio interlocutore annuì. Restare lì per sempre mi sembrava una follia. E i suoi progetti? La specializzazione in chirurgia che

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dovevamo cominciare insieme? Mi venne in mente che avrei potuto scrivergli una lettera da inviare non certo per posta, ma avrei potuto chiedere al signor Guidoni la cortesia di spedirla in Etiopia con il primo gruppo che fosse partito per quella meta. Così feci. Guidoni fu ben felice di accontentarmi: è molto difficile trovare gente scortese in questi centri missionari. Svolgono tutti la loro attività con una passione e una dedizione così totali che non c’è spazio né tempo per le incomprensioni, gli equivoci, le antipatie o sciocchezze simili. Tutti hanno a cuore un unico obiettivo e non lo perdono mai di vista. Il primo gruppo per l’Etiopia sarebbe partito dopo due settimane e sarebbe stato di ritorno non prima di tre mesi. Mi rassegnai ad attendere con pazienza una risposta di Flavio. Trascorsero quattro mesi, durante i quali cercai di tenermi impegnato il più possibile con i miei studi di specializzazione e finalmente, una domenica, arrivò un volontario a casa mia: mi consegnò la tanto attesa lettera dicendomi che il mio amico stava bene, che stava svolgendo un ottimo lavoro e che non avevo ragione di preoccuparmi. Ringraziai il volontario e, dopo aver richiuso la porta alle sue spalle, mi precipitai nel soggiorno a leggere, curioso e impaziente. Strappai la busta e divorai le sue parole. Dovetti rileggerla non so nemmeno io quante volte prima di afferrare il senso di ogni frase. Diceva di essersi innamorato di una donna del posto, Samira, e aspettavano un bambino. Samira era già al quinto mese di gravidanza ed era molto malata. Flavio aveva cercato di convincerla a farsi curare in Italia, avrebbe fatto carte false per portarla qui, ma non ci fu modo di farle cambiare idea. Cominciammo una lunga corrispondenza epistolare. Dieci mesi dopo ricevetti la sua

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seconda lettera: Samira aveva dato alla luce una splendida bambina, Matilde Zahina. Avevano deciso di darle un nome italiano, come il padre, e uno africano, come la madre. Era nata pre termine, con tre settimane di anticipo. Era molto minuta, poco nutrita ma dalle foto che lui mi mandò, scattate con una Polaroid, capii subito che si trattava di una bambina forte, speciale. La malattia di Samira, fortemente debilitata dalla gravidanza e dal parto, progredì così rapidamente che la uccise nel giro di pochi mesi senza che gli studi di Flavio, le sue cure né il suo amore smisurato potessero farci niente. Fece però in tempo a strappare a Flavio la promessa che mai avrebbe sradicato la piccola dalla sua terra. Fu allora che ebbi il sentore che non avrei rivisto Flavio mai più, non da vivo, almeno. Mi comunicò che Matilde aveva contratto la stessa malattia di Samira, malattia che non ha un nome se non denutrizione o AIDS e tutte le infezioni e i tumori che ne possono derivare. L’unico modo che avevo per aiutarlo era quello di inviargli farmaci che potessero rallentare il decorso del suo male, ma non sapendo da che tipo di malattia fosse affetta la piccola, poiché lì non ci sono strutture ospedaliere attrezzate o macchinari adatti a diagnosticarne una, gli spedivo di volta in volta un po’ di tutto, accollandomi ogni sorta di spesa. Così andammo avanti per più di sei anni. La bambina cresceva con tutte le difficoltà del caso ma Flavio si stava prendendo bene cura di lei. In casi simili, non avrebbe festeggiato nemmeno il suo secondo compleanno». Matilde ascoltava suo padre come se stesse guardando un film; il sentimento di gelosia che aveva generato tutte quelle domande aveva lasciato il posto a una pura e innocente curiosità. Andrea bevve un sorso d’acqua e riprese «L’ultima lettera di Flavio che mi giunse suonava allarmata. Era molto preoccupato. Tempo prima, aveva donato delle piastrine a un bambino e per un malaugurato caso era stato infettato contraendo il mortale virus dell’Ebola. Non

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aveva scampo, neanche tornando in Italia. Con le cure opportune, in Italia, avrebbe potuto rallentare il decorso dell’infezione, ma non avrebbe mai lasciato Matilde da sola e aveva promesso a Samira che non l’avrebbe mai portata via di lì. Dunque, mi stava chiedendo aiuto. Mi chiedeva, disperatamente, di prendermi cura di sua figlia una volta che lui non ci fosse stato più. Mi ringraziava per tutto l’aiuto che gli avevo offerto nel corso di quegli anni, per il sostegno morale che gli avevo dato e mi chiedeva un ultimo grande favore: voleva che adottassi Matilde a distanza. Mi sentii lusingato dalla sua richiesta. Aveva scelto me come custode della cosa più importante che aveva e un macigno di responsabilità mi piombò addosso. Non mi venne in mente di rispondere alla sua lettera e senza pensare mi precipitai alla fondazione missionaria con il cuore in gola e la lettera stretta tra le mani. Esposi la mia volontà di un viaggio solo andata per l’Etiopia». Driin driiin! Driin driin! A spezzare l’atmosfera magica che il racconto di Andrea aveva generato, lo squillo del telefono. Cercavano il signor Loche per una consulenza. «Dovremo rimandare la nostra chiacchierata a questa sera, piccola» disse Andrea. «Nooooo!» rispose, delusa, Matilde. Carla sorrise e mise in tavola l’orata dicendo «Mangiamo almeno il secondo, altrimenti oltre al risotto dovrò buttare anche questo e dopo il racconto di tuo padre non mi sembra il caso». Matilde chinò la testa e mangiò.

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ETIOPIA Dopo pranzo, Matilde aspettò ansiosa il ritorno di suo padre. Si era accomodata pazientemente nel salotto e guardava quella foto cercando di dare un volto a Flavio e a Samira e immaginando un lieto fine per la storia di suo padre. Ma, in realtà, sapeva che non c’era un lieto fine. Gli occhi di Andrea mentre raccontava e il silenzio religioso con cui Carla ascoltava lasciavano ben pochi dubbi. Carla le si accostò e le passò una mano tra i capelli; delicatamente, con un gesto, si fece dare la cornice con dentro la foto e se la strinse forte al petto. Commossa, Matilde si girò di fianco sulla poltrona e disse «Mamma, vieni qui. Siedi accanto a me. La poltrona è abbastanza grande per tutte e due. Aspettiamo papà insieme». Carla si asciugò le lacrime appena scese e sedette accanto a sua figlia. Ebbe voglia di sfogare il suo dolore che nel corso di quegli anni le era rimasto dentro come in coma e che Matilde, con le sue domande, aveva risvegliato; e, ancora di più, il racconto di Andrea stava infierendo come lama incandescente in una ferita non ancora cicatrizzata. Finalmente, il signor Loche aprì la porta di casa. Sembrava molto stanco e provato: aveva dato consulenza a un collega su un’operazione molto complessa. Avevano studiato nel particolare ogni dettaglio dell’operazione e avrebbe voluto solo andare a dormire, ma non poteva deludere Matilde. Prese posto sul divano di fronte a loro chiedendo cortesemente che gli fosse versato del whisky, ne tracannò un piccolo sorso e disse «Allora... dove eravamo rimasti? Ah, si certo... alla mia decisione di partire per l’Etiopia. Fu questione di secondi. Non pensai alla mia carriera di chirurgo, a cosa stessi per rinunciare

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né a cosa stavo andando incontro; semplicemente, non pensai affatto. Spiegai i motivi per cui mi premeva essere assegnato al gruppo missionario in partenza per la Valle dell’Omo, in un villaggio nelle immediate vicinanze di Arba Minch, dove Flavio aveva piantato le sue radici da sette lunghi anni. I volontari del centro, dopo essersi accertati che la mia versione fosse vera, accolsero la mia proposta e ci organizzammo per la partenza, prevista all’incirca entro una settimana. Non so quanti e quali furono i miei pensieri in quei giorni; di sicuro ero molto spaventato. Ero già stato in Africa, avevo già visto, me l’ero anche cavata bene, ma questa volta era diverso. Non stavo semplicemente andando in missione, stavo per rispondere all’urlo di un uomo disperato che non aveva potuto scegliere. Temevo di fallire ma avevo dato, sebbene solo telepaticamente, la mia parola d’onore. Solo rileggendo la sua lettera a mente lucida, dopo aver preso la mia decisione, mi accorsi che quella non era la grafia di Flavio. Stava già così male da non poter neanche scrivere? Probabilmente sì e questo dubbio mi agitò ancora di più. Temevo di non giungere per tempo. Arrivò il giorno della partenza e il viaggio fu estenuante. Impiegammo più tempo da Adiss Abeba ad Arba Mich con un mezzo locale piuttosto che da Roma ad Adiss Abeba con l’aereo. Arrivati a destinazione, mi preoccupai immediatamente di cercare Flavio. Chiesi di lui a uno dei volontari che ci accolse, ma eravamo arrivati tardi. Flavio era morto da due giorni, era andato via prima che io riuscissi a dirgli che mi sarei preso cura di sua figlia. Sandro, era questo il nome del volontario che mi annunciò la triste notizia, mi disse che potevo vederlo. Non erano ancora riusciti a seppellirlo, sebbene

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un prete svizzero si fosse occupato di celebrare gli offici divini dell’occorrenza. Mi proposi di farlo da solo, così avrei anche provveduto a dargli l’estremo saluto; probabilmente mi auguravo che avvertisse in qualche modo la mia presenza e le mie intenzioni così da poter andar via sereno. Vederlo disteso, esanime, dopo tutte le avventure vissute insieme, dopo tutti quegli anni, dopo tutte quelle lettere... insomma, non riuscivo a capacitarmene. Era molto dimagrito dall’ultima volta che lo avevo visto; barba incolta e pelle molto scura a causa del sole che batteva sulla sua pelle quotidianamente, mi resero titubante per alcuni istanti sulla sua identità, ma i lineamenti erano sempre quelli delicati e dolci di un tempo. Se non avessi saputo che era morto, avrei tentato di svegliarlo dal suo sonno profondo: sembrava che stesse riposando dopo una giornata particolarmente faticosa. Ma sembrava sereno. Forse aveva avvertito la mia presenza e la mia volontà di adottare sua figlia. Piansi amaramente, a lungo. Dopo la sepoltura, stremato dai quaranta gradi e dal lungo viaggio, chiesi di vedere Matilde. Sandro mi accompagnò in una casetta di legno e paglia, molto graziosa ma anche poco funzionale all’uso per cui era destinata. Stavo incollato alla schiena del giovane volontario, timoroso per la reazione che Matilde Zahina avrebbe avuto nel vedermi; in fondo, non mi conosceva e neanche io conoscevo lei. Come avrei fatto a colmare il vuoto lasciato da sua madre e da suo padre? Come sarei riuscito a far fronte alla sua malattia, una malattia di cui non si conosceva il nome né tanto meno la cura? Prima di entrare, strattonai Sandro per un braccio come per chiedergli di aspettare e cominciai a respirare profondamente, ma lui sorrise invitandomi a tranquillizzarmi “Non hai motivo di preoccuparti. Flavio le ha parlato così tanto di te che è come se ti conoscesse già” disse e aprì la porta. Alla mia vista apparvero decine di bambini occupati a giocare con dei

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volontari, alcuni dei quali italiani. Si erano messi in cerchio e ognuno di loro teneva le braccia aperte con i palmi delle mani rivolti verso l’alto, in modo tale che il dorso della mano destra di ognuno poggiasse sul palmo della mano sinistra del compagno che si trovava a destra e il dorso della mano sinistra fosse a sua volta poggiato sul palmo della mano destra del compagno che si trovava a sinistra. Lo scopo del gioco era di togliere la mano prima che il compagno la colpisse con uno schiaffo. Chi era colpito usciva dal cerchio. Di fianco a Sandro, guardai emozionato e con la gola secca ogni bambino cercando di indovinare chi fra loro rispondesse al nome di Matilde Zahina. Tentai di scrutare ogni sguardo, ogni movimento alla ricerca di qualcosa che mi ricordasse Flavio. La canzoncina in lingua amharica che faceva da sottofondo al loro giochino si concluse con un coro di urla e un fragoroso battere di mani, saltelli, abbracci. Era meraviglioso vederli ridere per così poco. Continuando a saltellare, i bambini aprirono fra loro una fessura umana che mi permise di intravedere una donna con una bambina sulle ginocchia che, come a simulare un cavalluccio, si muovevano in modo sussultorio. Avrei scommesso qualunque cosa: quella bambina era Matilde Zahina. L’avevo vista una sola volta in foto quando aveva all’incirca quattro mesi, ma non avevo dubbi. Guardai Sandro per chiederne conferma e lui annuì invitandomi a seguirlo. Ci avvicinammo. Quando fummo vicino a loro, mi accorsi degli occhi tristi della piccola orfana: era bellissima nonostante lo sguardo assente. Era molto magra, visibilmente denutrita come tutti i bambini di quell’avida terra incolta, molto minuta per la sua età, una finestrella aperta fra un canino e un incisivo che

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lasciava intendere che stava cambiando i suoi dentini da latte, gli occhi color nocciola brillavano e il rossore che si intravedeva svelava un pianto appena terminato; delle treccine nere, fitte e molto strette le pendevano quasi fino all’ombelico. Ritornò in sé appena Sandro disse “Che fanno queste due donne meravigliose sole solette?” Matilde capiva e parlava l’italiano, l’unica forse in mezzo a quella tribù di piccoli uomini scatenati; si portò le dita in bocca come se il complimento l’avesse imbarazzata e mi guardò. La donna che la teneva in braccio rispose “Oggi abbiamo imparato a scrivere l’alfabeto in italiano e ora siamo molto stanche. Ci siamo meritate un po’ di riposo, vero Matilde?” La piccola annuì continuando a guardarmi. Non sembrava spaventata dalla mia presenza né intimidita, solo incuriosita. Poi avvicinò le sue labbra all’orecchio della donna che la teneva sulle ginocchia e le sussurrò qualcosa. A voce alta, la donna le rispose “Chiediglielo!” Allora la piccola si fece coraggio e puntando il dito indice verso di me disse “Tu sei Andrea, l’amico del mio papà?” Un nodo alla gola chiuse le mie vie respiratorie per pochi secondi e miei occhi arrossirono visibilmente; Matilde non poteva sapere che mi avrebbe incontrato, neanche io sapevo che sarei andato lì. Evidentemente, Flavio, che mi conosceva meglio di quanto credessi o potessi farlo io stesso, sapeva che non mi sarei limitato ad adottare Matilde a distanza e si era premurato di preparare la piccola al nostro incontro. Ripresi faticosamente a respirare e imposi al mio cuore, diventato tachicardico in quel momento, di rallentare il suo ritmo e riuscii a trattenere le lacrime proferendo “Sì, sono io. Piacere di conoscerti, Matilde Zahina” e le tesi la mano per formalizzare la nostra appena avvenuta conoscenza. Lei rispose al mio invito dandomi la mano e subito dopo allungò le braccia sporgendo il suo busto in avanti. Mi stava chiedendo di prenderla in braccio. Non esitai un solo istante e la strinsi a me

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con tutta la forza che avevo ma evitando, ovviamente, di stritolarla. Anche lei mi stringeva forte le braccia intorno al collo e posò la testa sulla mia spalla dicendo “E’ andato via da poco, ma già mi manca tanto il mio papà”. Stava piangendo e a quel punto non riuscii più a trattenere le lacrime “Lo so, piccola. Manca molto anche a me” dissi continuando a stringerla forte. Sembrava esserci un’intesa perfetta fra noi, mi parve di conoscerla da sempre. Tutte le mie paure e la stanchezza di ormai quasi tre giorni di viaggio erano svanite. Sarei rimasto così per ore. Adoravo già quella piccola creatura sfortunata e fui certo di potermi prendere cura di lei. I suoi amichetti vennero a chiamarla invitandola a giocare e lei, ristorata dal mio abbraccio, mi chiese di metterla giù. Notai che zoppicava e prima che chiedessi spiegazioni circa il motivo della sua andatura claudicante, la donna che teneva in braccio Matilde al mio arrivo disse “La sua malattia sta colpendo gli arti inferiori” mi voltai a guardarla. “Mi chiamo Carla, sono volontaria in questo territorio da otto mesi e Flavio mi ha affidato Matilde.” disse porgendomi la mano. Era tua madre». FINE ANTEPRIMACONTINUA...