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Vittorio Brancatelli J. Amba Ed. messaggi dalla galassia cronaca di un incontro ravvicinato L’A LIENA

L'ALIENA messaggi dalla galassia

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Cronaca di un incontro ravvicinato di Vittorio Brancatelli. Escatologia aliena. Risposte alle eterne ricerche dell'uomo da un punto di vista extraterrestre.

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Vittorio Brancatelli

J . Amba Ed.

messaggi dalla galassia

cronaca di un incontro ravvicinato

L’ALIENA

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Vittorio Brancatelli

J. Amba Ed.

messaggi dalla galassia

cronaca di un incontro ravvicinato

L’ALIENA

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L’ALIENA escatologiamessaggi dalla galassiacronaca di un incontro ravvicinato di Vittorio Brancatelli

Correzione di bozze, Grafica e Computergraficadi Kalavati

In copertina:“Angelo Alieno” dipinto di Gianbarberis

Edizione Digitalee-book

ISBN 978-88-86340-43-4© Copyright

J. Amba EdizioniStrada Battaglini, A 2 - 74015 Martina Franca TA

tel. 333 4681236www.j-amba.com [email protected]

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P r o l o g o

Sono passati vent’anni da allora, da quando ho vis-suto l’avventura più straordinaria e incredibile della miavita. Finora non avevo avuto il coraggio di metterla periscritto. L’avevo raccontata a tanti, amici e non, franca-mente non ricordo chi avesse creduto alla sua veridici-tà. I più ritenevano che fosse parto della mia fantasia,dovuto ai libri di fantascienza che ho letto. Ciò mi avevascoraggiato e avevo sempre rimandato aspettandotempi migliori.

Ritengo che i tempi siano finalmente maturi. Lescoperte delle varie sonde, su Marte e intorno ai piane-ti del sistema solare, hanno fatto capire ai più le dimen-sioni dell’universo e l’isolamento della Terra da ognicomunicazione spaziale. D’altra parte sono aumentatigli avvistamenti UFO, ingigantendo il mistero che liavvolge. La sete di spiritualità che oggi si riscontra,palesata dall’aumento di gruppi religiosi, sette, aggre-gazioni spiritualistiche spontanee, dimostra che l’uomosente dentro di sé più grande il bisogno di risposte e lecerca ovunque, riscoprendo le antiche e altrui religionio approfondendo le proprie.

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Non è mia intenzione approfittare del maggiorinteresse per questi argomenti, ma ritengo che la miaavventura, con tutto il bagaglio di conoscenze di cui èarricchita, possa essere utile a tanta più gente di allora.Non c’è in me la voglia di apparire diverso da quelloche sono, cioè un qualsiasi uomo di media cultura, cheha avuto la fortuna, o la sfortuna, di avere avuto unincontro ravvicinato completo con un alieno. La cosaha cambiato tutta la mia vita, poiché dopo quell’espe-rienza non è stata più la stessa: l’ho dedicata all’appro-fondimento di quei dati e quegli spunti che mi sonostati svelati.

E’ tempo di affrontare le nostre realtà da un puntodi vista un po’ più ampio, che non sia solo quello di ter-restri ciechi e dimentichi dell’infinito che circonda ilpianeta, fatto di innumerevoli stelle, mondi e galas-sie,quasi che quell’infinito sia stato inutilmente messo lìper caso, o chissà per quale utilizzo!

Affrontiamo dunque quegli interrogativi che affio-rano da tempo immemore sulle nostre labbra e ricac-ciamo negli anfratti più reconditi del dimenticatoio pernon esserne coinvolti, più per timore che per mancanzadi risposte. Poniamoci allora le domande, oggi è possi-bile avere quelle risposte!

Bisogna solo avere il coraggio di vedere le cose dapunti di vista diversi da quelli cui siamo abituati. E’necessario mettere in dubbio ogni nostro credo, ogni

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nostra precedente convinzione, accettando umilmentedi guardare, cercando di capire anche ciò che a primalettura può sembrarci fantastico o pura invenzione.

La verità non è mai da una sola parte, ma ogni cosane contiene un frammento: solo se sapremo raccoglierequesti frammenti riusciremo a mettere insieme la gran-de Verità che circonda il nostro universo e quindi il pia-neta Terra, suo granellino infinitesimale.

Chi siamo noi uomini?Qual è lo scopo del nostro vivere?Cos’è l’universo?Siamo soli in un universo così enorme?Perché è così grande, mentre la durata della nostra

vita è così breve?Esistono gli extraterrestri? Se esistono perché non si mostrano?Come mai - questa è la domanda più drammatica -

non ci fanno neanche schiavi?La storia che sto per raccontarvi vi fornirà le

risposte a quelle e ad altre domande sulla vita e lamorte e anche sul dopo morte da un punto di vistaextraterrestre.

Ecco il perché del titolo: Escatologia Aliena.Escatologia, parola composta dal greco escatos che

significa ultimo e logia che sta per conoscenza, quindi,da vocabolario: dottrina degli ultimi fini, cioè quellaparte delle credenze religiose e filosofiche che riguarda

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i destini ultimi dell’umanità e del mondo, in senso piùgenerico anche il modo in cui è concepito l’aldilà.

Non pretendo che voi ci crediate. L’unico mioscopo è quello di aggiungere un altro frammento diverità che, unito agli altri in vostro possesso, possa aiu-tarvi a giungere alla Verità assoluta.

Vi avverto però fin d’ora, affinché possiate sceglie-re se andare avanti o fermarvi, che nel momento in cuiconoscerete i misteri dell’universo, della galassia e dellaTerra non potrete più ignorarli, indipendentemente dalfatto che vogliate crederci o no.

Ho cercato di mettere le rivelazioni ottenute dall’a-lieno in un racconto che vi sia meno noioso possibile.E’ la prima volta che mi cimento con la prosa: siate cle-menti con me e cercate se possibile di guardare più alcontenuto e non al contenitore.

Un’ultima cosa voglio puntualizzare: c’è sempreuna soluzione a tutto. Per risolvere un problema è peròindispensabile disporre di tutti i dati necessari.

L’uomo ha sempre trovato le risposte a tutto quel-lo su cui si è impegnato tranne su questi temi, da sem-pre dominio delle religioni, che hanno purtroppo impe-dito di andare oltre i limiti delle conoscenze delle reli-gioni stesse. Ecco perché fino ad oggi la risposta adogni domanda era mistero, non conoscevamo né pote-vamo conoscere i dati relativi alla situazione che circon-da l’uomo, la Terra, la galassia, l’universo tutto.

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Il problema fondamentale attuale non è trovare unao la soluzione, ma è la ricerca dei dati. In poche paro-le, se non conosciamo la nostra situazione in tutta lapropria interezza, qualunque soluzione troveremo saràsbagliata perché carente di dati sostanziali.

Quello che sto cercando di farvi capire è che tuttociò che oggi presumiamo di conoscere sull’organizza-zione dell’universo, oppure su temi spirituali comeinferno, paradiso, angeli, diavoli, spiriti, è in buonaparte falso, perché si basa su mancanza di conoscenza.

Ciò vuol dire, semplicemente e nient’altro di più,che abbiamo ancora bisogno di scoprire tante cose perazzardare delle risposte certe. Sta a voi con la vostraintelligenza comprendere e vagliare questi nuovi dati inmodo che, aggiungendoli alle vostre conoscenze,potrete avere un nuovo punto di vista più completodella nostra situazione.

Ricordate che, se doveste avere delle difficoltà o peraltro motivo, potrete sempre contattarmi attraverso ilmio editore e sarò ben felice di approfondire con voi ciòche vi sta a cuore.

Buona lettura!

Vittorio Brancatelli

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La Gita

Era luglio e a Milano il caldo umido rendeva lenotti una battaglia con le lenzuola e i cuscini inzuppatidi sudore e insonnia.

Fu la calura asfissiante dell’estate a suggerirmi dipassare il fine settimana in montagna. Sognavo di tra-scorrere delle notti riposanti nei duemila metri del rifu-gio godendo quel freddo che la pianura padana nonpoteva regalarmi.

Sì, dovevo reagire, non lasciarmi prendere dallanoia e dalla pigrizia che quell’afa accentuava. La deci-sione fu presa: avrei passato il fine settimana al RifugioGrassi sulle Prealpi Lombarde.

Fu così che mi addormentai di un sonno agitato.Il primo pensiero del mattino, memore della mia

decisione notturna, fu di telefonare a Sara, la mia ragaz-za, che in quel periodo divideva con me speranze etempo libero. Volevo proporle di venire con me.Speravo e volevo che lei accettasse. Sarebbe stato mera-viglioso poter dormire abbracciati senza timore di sof-focare dal caldo, anzi cercando e godendo del calore deinostri corpi nel freddo di un rifugio alpestre. Mi godet-ti la scena, lasciando divagare la mente sugli sviluppi diquell’immagine di noi due abbracciati nel fresco letto.

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Gustando le piacevolezze dell’avventura che ciattendeva, composi il suo numero. Il telefono squillòpiù volte. Dopo un’infinità lei rispose quasi seccata.

“Pronto, chi parla?” “Ciao Sara, indovina chi sono? Come stai? Hai dor-

mito bene questa notte? “Ho capito, fece lei, ti serve qualcosa! Dimmi, cosa

nascondono questi preamboli?” Non potei fare a meno di sorridere, mi conosceva

troppo bene.“Volevo proporti una splendida gita per il fine set-

timana. Ci vediamo a pranzo e ne parliamo, ci stai?” “D’accordo! Ma non propormi cose assurde come

al solito e vieni puntuale, perché se ritardi non ti aspet-terò. Ci vediamo al solito bar, ciao.”

La salutai anch’io, felice che non avesse protestatoalla sola idea della gita, il che mi faceva sperare cheaccettasse e quindi venisse con me.

Da quando ero venuto a Milano le cose stavanoandandomi piuttosto bene. Ero capo ufficio vendite diuna fabbrica di mobili moderni della Brianza. Provengodalla Sicilia, dalla zona dell’Etna. Dopo il diploma dimaturità classica, mi ero iscritto all’università di Cataniae avevo scelto la Facoltà di Fisica.

La materia mi appassionava, mi stimolavano soprat-tutto le nuove branche. Allora si parlava di fisica atomi-ca, elettronica e cibernetica, punta di diamante di que-

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sta scienza, e sognavo di fare il ricercatore. Ma la realtàcontingente mi aveva riportato con i piedi per terra eper vivere avevo iniziato a fare il venditore. Finì così ilmio sogno di grandi scoperte scientifiche, smisi di stu-diare dedicandomi solo al lavoro. Venire a Milano fuquasi una scelta obbligata, il capoluogo lombardo miaveva sempre affascinato.

All’ora di pranzo fui puntuale, Sara sopraggiunsesubito dopo. Per tutta la mattina il mio pensiero erastato occupato più dalla gita che dal lavoro. Tra unpanino e l’altro le esposi il mio piano per il fine setti-mana. Fui attento ad evidenziare gli aspetti divertentidella cosa, minimizzando invece il percorso che avrem-mo dovuto affrontare, con il Passo del Toro.

Lei dapprima fu riluttante, ma alla fine acconsentì.Con il suo solito entusiasmo mi espose cosa avrebbeindossato e amenità del genere.

Mentre parlava la osservai. Ammirai per l’ennesimavolta i suoi lineamenti aggraziati, le sue forme tondeg-gianti e sode che conoscevo bene. Una forte attrazionefisica mi pervase. Mi piaceva quella ragazza, soprattuttoper il suo fisico pieno ma non grasso, il sedere promi-nente alla brasiliana, i seni piccoli ma proporzionati esodi. Ogni volta che la guardavo provavo il desiderio distarle più vicino possibile e farle di tutto.

Mi ripresi da questi pensieri perché lei aveva smes-so di parlare e guardava l’orologio, doveva rientrare in

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ufficio. La baciai affettuosamente e ci accomiatammo.Ci ripromettemmo di sentirci per gli ultimi dettagli.

Il resto della settimana passò nei preparativi menta-li alla gita.

Il venerdì sera mi telefonò: “Sai, mi dispiace, madevo proprio rinunciare a questa tua gita; non potrestirinunciare anche tu?”

Questo il preambolo e la cosa mi colse di sorpresa.“Ma... hai cambiato idea, c’è qualcosa che non va?”“Sai, ho un forte raffreddore e poi mi sono venute

le mie cose. Non me la sento di affrontare una scarpi-nata in montagna in queste condizioni.”

“Ho capito, vorresti che io ti tenessi compagnia,così entrambi passeremmo male il fine settimana!”

“Voi uomini siete tutti egoisti, ma se proprio lovuoi sapere, non ho affatto bisogno della tua compa-gnia. Va’ a farti la tua stupida passeggiata e lasciami inpace!” Era proprio seccata.

“Dai, non fare così... ti capisco, ma tu devi capireanche me! E’ tutta la settimana che penso a questa gita.Ho anche prenotato il rifugio per il pernottamento enon me la sento di passare un’altra domenica a soffoca-re qui in città.”

Cercavo la sua comprensione, così da farle dimenti-care che la abbandonavo nel momento del bisogno.

“Dispiace anche a me lasciarti sola, ma ho propriobisogno di cambiare aria almeno per un giorno.”

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“Non cercare di prendermi in giro con le tue chiac-chiere. So che io ti servo solo quando non hai di meglioda fare. Ma stai attento, se proprio vuoi andarci, nonfare cose difficili, ricordati che non devi dimostrareniente a nessuno, hai capito cosa voglio dirti?”

Continuò così per un bel po’ a farmi raccomanda-zioni, temendo chissà cosa potesse accadermi. Fece ditutto per convincermi a restare con lei a Milano, ma laprospettiva di passare delle noiose giornate afose nonera per me molto allettante. Sara quando stava malenon era una compagnia molto piacevole.

“Starò attento e ti prometto che la prossima dome-nica la passerò con te ovunque tu vorrai andare.”

Sembrò essersi calmata. Adesso era più conciliante.“E’ promesso! D’accordo?” incalzai.Brontolando accettò la mia proposta per la dome-

nica successiva e ci accomiatammo.La telefonata di Sara mi aveva scompigliato i piani.

Per rilassarmi preparai l’attrezzatura da montagna. Presilo zainetto e predisposi tutte le attrezzature per escur-sioni su sentieri facili. Intendevo pernottare al RifugioGrassi per raggiungere, la domenica, il Pizzo dei TreSignori sulle Prealpi Lombarde, sopra Lecco.

La notte scivolò velocemente senza altre sorprese.Al mattino del sabato, pieno di entusiasmo, a parte

le solite raccomandazioni che Sara si premurò di farmi,con la mia Lancia Fulvia Coupè partii dalla città afosa e

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accaldata. Mi mossi verso il lago di Como attraverso lanuova superstrada. Prima di Lecco restai imbottigliatoin una lunga fila, che da Valmadrera arrivava ai pontisull’Adda. In prossimità del Ponte Vecchio potei ammi-rare il paesaggio che, per quanto noto, mi riservavasempre qualche novità.

La cappa di nuvolaglie compatte e grigio rossastreche copriva Milano e la pianura qui si era dissolta e ilcielo appariva dell’azzurro cristallino e limpido che soloi paesaggi montani sanno mostrare.

Il lago riluceva. I pescatori, stivaloni fino alla coscia,erano già dentro l’acqua con le canne in mano, armatidi esche e pazienza. Il Resegone, dalle caratteristichecime frastagliate sgombre di nubi, annunciando unagiornata perfetta, sembrava volesse darmi il benvenuto.

Soffermandomi su queste bellezze naturali, per medi volta in volta sempre nuove, la tensione accumulataper il lavoro e per la coda che avevo fatto in macchinasi dissolse. Imboccai con una certa allegria la salita perla Valsassina. Con un po’ di pazienza per il lento proce-dere, ma gustando il paesaggio, potei alla fine raggiun-gere la prima tappa della mia meta: Barzio. C’era qui laconfusione dei paesi ad alta densità turistica, persone ditutte le età andavano per le viuzze strette e la piazza inun vociare festoso. Posteggiata la macchina, mi fermaiin un bar; non notando nessun conoscente, mi immer-si nella lettura dei titoli del giornale locale rilassandomi.

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Erano già le dieci del mattino quando decisi dirimettermi in moto. Raggiunsi la stazione della funiviae con la cabinovia arrivai ai Piani di Bobbio. Da qui par-tiva il sentiero per il Rifugio Grassi, seconda tappa dellamia gita, dove intendevo pernottare.

Mi sentivo felice e stavo fisicamente bene, per nien-te stanco, malgrado la fila che avevo dovuto affrontare.Avevo la consapevolezza del momento che stavo viven-do, la certezza che sarebbe stato un bel fine settimana.La mancanza di Sara aveva dapprima scombussolato imiei progetti, ma adesso ero quasi felice che lei non cifosse, mi sentivo più libero. Più ci pensavo e più erocontento di essere solo e disponibile a qualsiasi incon-tro. Questa sensazione mi rendeva felice. Sentivo chestavo iniziando un qualcosa che avrei potuto racconta-re agli amici o ricordare da vecchio con soddisfazione.

Mi sembrò paradossale questo pensiero, stavo perfare una semplice passeggiata in un facile sentiero dellePrealpi Lombarde. Arrivare alla cima del Pizzo dei TreSignori non si può dire un’impresa eroica, ma non soperché intuivo che avrei vissuto un’avventura entusia-smante. Era la giornata adatta, lo sentivo!

Mi guardai intorno, l’erba brillava di un verdeintenso. Nel cielo, di un azzurro raro, si muovevanomasse di nuvole biancastre che non promettevano nulladi buono: mi assalì il timore che la mia avventura sipotesse trasformare in una noiosissima permanenza for-

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zata al rifugio o peggio. Scacciai questi pensieri molesti.I Piani erano magnifici nell’estate inoltrata, ricchi diinnumerevoli colori che contrastavano piacevolmentecon il verde dei prati e degli alberi. Il paesaggio eratotalmente diverso da quello invernale, per me piùusuale. Dove c’erano le piste da sci ora spuntavano sassie rocce, la seggiovia era in funzione e presa di mira daun gruppo di gitanti chiassosi. Mi soffermai a seguirnei piloni, ridisegnando a fatica le piste da neve. Mi vidicon la tuta e gli sci sulla pista più difficile disegnare loslalom che mi permetteva di scendere frenato ed evita-re le gobbe del terreno.

Mi incamminai per il sentiero che porta alla miameta, scavato dal passaggio di innumerevoli amantidella montagna. Mi avvidi subito di non essere solo.Davanti a me c’erano gruppi di ragazzi che mi precede-vano con passo deciso.

Camminai spedito, mentre la mia mente vagavaimmersa in pensieri che non riuscivo a seguire. Poi lasalita divenne pesante. Davanti a me c’era quasi unmuro d’erba. Ero giunto nel tratto più ripido: il Passodel Toro. Sapevo che, superato quell’ostacolo, la strada,sebbene più pericolosa, sarebbe stata meno ripida.

Cadenzando i passi per evitare sforzi inutili, miaccinsi a salire con decisione. Avevo imparato quelmodo di procedere lento e sicuro tra gli artiglieri dimontagna, di cui ero stato ufficiale di complemento.

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Delle lunghe escursioni fatte durante il periodo milita-re serbavo un ricordo bellissimo, che adesso affiorava emi rendeva meno faticoso l’incedere.

Sul passo mi fermai e mi guardai intorno. Apprezzaiil silenzio, il senso di pace, la sana stanchezza che senti-vo addosso, mentre lo sguardo vagava sulle cime, legole, i picchi e i prati e il verde di quel mare di alberiche copriva ogni cosa. Il passo scosceso è accessibilesolo dal sentiero appena percorso. Le case nella valleerano puntini, le strade vecchie cicatrici. Man mano chesi saliva si notava sempre meno la presenza dell’uomo.Provai a cancellare gli scempi provocati dalla civilizza-zione umana in quella natura che avrei voluto inconta-minata e per un attimo immaginai come sarebbe statosenza le strade, le case, i piloni e i cavi dell’elettricità:tutto mi apparve rigoglioso e selvaggio.

Respiravo profondamente godendo di quell’ariapura e di quel paesaggio, quando fui raggiunto da ungruppetto di tre ragazzi. Due ragazze oltre i vent’annie un giovane prestante che faceva loro da guida.

“Posso unirmi a voi?” Mi rivolsi alla guida, ma con gli occhi imploravo la

brunetta del gruppo, che era piuttosto graziosa.“Purché non ci fai ritardare...” Fu Gianni a rispondere, presentandosi e sorriden-

domi, felice di aver trovato un aiuto insperato per quelluogo. Notai che aveva particolari attenzioni per Luisa,

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la bionda amica di Sonia, la brunetta che avevo adoc-chiato. Fatte le dovute presentazioni e visto che la metaera comune, ci incamminammo.

Tentai di affiancarmi a Sonia, ma il sentiero erastretto sull’orlo di uno strapiombo. Il cielo si mantene-va limpido e l’aria cominciava ad essere calda ma piace-vole. Giungemmo in una radura. Il sentiero si allargavaverso un boschetto. Finalmente raggiunsi Sonia.

“Di dove sei?”“Di Milano. Abito in Città Studi. Frequento

l’Università, sono iscritta a Filosofia. Mi piace conoscere il pensiero. E’ una materia che

trovo importantissima. Peccato che ormai interessi apochi e poco. Una volta si discuteva di filosofia anche alivello popolare e i filosofi erano gli uomini più apprez-zati e seguiti, ma purtroppo era tanto tempo fa.

Forse ti annoio con questi discorsi?” “No, no! Mi piace sentirti parlare. Ho frequentato

il liceo classico e ricordo ancora qualcosa di filosofia. Secondo te qual è stato il più grande filosofo del-

l’antichità?”“Socrate!” rispose decisa. “Tutto ciò che conoscia-

mo di lui lo sappiamo attraverso il suo discepoloPlatone, anche lui grande filosofo. Sai che è stato tra iprimi del mondo occidentale a parlare di metempsicosi,cioé della reincarnazione delle anime?

Vedi, per gli orientali questo è un discorso noto.

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Ma parlare di reincarnazione al tempo degli Deidell’Olimpo era veramente provocatorio, quasi impossi-bile da concepire, anche se lui trae questo concettodalle idee degli Orfici, che credevano nella trasmigra-zione delle anime da un corpo all’altro dopo la morte.

Mi affascina questo discorso della rinascita e perapprofondirlo mi sono anche avvicinata a gruppi dimeditazione trascendentale, che però non mi hannoconvinto molto.”

Mi guardò per verificare il mio interesse e per esser-ne certa aggiunse: “Ti interessa questo discorso? Se nonti va, dimmelo subito! Perché io quando comincio nonmi fermo più.” Rise, era veramente bella e ridendo lodiventava di più.

I suoi discorsi mi incuriosivano. Avendo idee pro-fondamente cristiane, la cosa mi sembrava assurda.

“Come si concilia questo con Adamo e Eva? Il cri-stianesimo non fa cenno a queste cose.”

“Non è vero”, rispose sicura, “che il cristianesimonon sappia niente di reincarnazione. Pensa al Vangelo,a quel brano in cui Gesù chiede ai discepoli: ‘Chi dicela gente che io sia?’ Ricordi? Ebbene i discepoli rispon-dono: ‘Mosè reincarnato o uno dei profeti!’

Vedi, anche i discepoli e il mondo ebraico doveva-no avere conoscenza della cosa. E ti dirò di più! FuGiustiniano, esattamente nel 553 dopo Cristo, a riuni-re il secondo Sinodo di Costantinopoli nel quale, tra le

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altre cose, si proibiva ogni riferimento a vite preceden-ti e veniva lanciato l’anatema a chiunque asserisse lapreesistenza delle anime: vennero cancellati dalle sacrescritture tutti i riferimenti a queste credenze.”

Ero colpito dalle conoscenza che questa ragazzaapparentemente frivola mostrava e veramente non sape-vo cosa controbattere. Non potevo mettere in dubbiociò che mi diceva, anche se per me era cosa nuova.Conoscevo Giustiniano da quello che avevo studiatonella storia: aveva fatto un codice di leggi che prendeappunto il suo nome. Non sapevo nulla delle sue inge-renze nelle questioni religiose. Le esternai il mio pen-siero e lei sembrò apprezzare la mia sincerità.

Luisa ci interruppe mostrandoci il rifugio, che siintravedeva tra gli alberi ancora lontano.

“Stai attento a Sonia: è un mostro di conoscenzefilosofiche e ha messo in difficoltà parecchi preti. Sai, lepiace provocarli per poi metterli in difficoltà.”

Rise divertita della sua battuta e ci superò, affian-cando Gianni che faceva strada.

Guardai l’orologio e mi meravigliai che fosse passa-to tanto tempo da quando eravamo partiti.Evidentemente apprezzavo la colta compagnia di que-sta ragazza, che il caso aveva messo sulla mia strada. Laguardai, lei sembrava assorta nei suoi pensieri, ma notòil mio sguardo, che ricambiò sorridendomi.

“Non dare ascolto a Luisa: a sentire lei, io sarei un

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mostro che mette in difficoltà tutti gli uomini! Questopoi non è del tutto falso, non riesco a mantenere unarelazione più di una sera, ma sono fatta così. Prima opoi troverò qualcuno al quale i miei discorsi e il miomodo di vedere le cose piacciano e se non dovessi tro-varlo, pazienza! vuol dire che non c’è nessuno che mimerita.”

“Brava Sonia, mi piace la tua franchezza. Sono con-vinto che staremo bene insieme.”

“Vacci piano! Questo non vuol dire che io accettitutti gli uomini che mi capitano o che senta la mancan-za di uomini. Riesco a farne benissimo a meno senzasentirmi per questo privata di qualcosa, però se unragazzo mi piace so anche prendere direttamente l’ini-ziativa.”

“E io ti piaccio?”“Come corri: ci siamo appena conosciuti e vorresti

già portarmi a letto?” Ammutolii. Aveva letto chiaramente le mie recon-

dite intenzioni, però non avrei mai pensato che me leavrebbe spiattellate in faccia così. Mi sentivo offeso,anche se sapevo benissimo che aveva ragione lei e nonsapevo come superare la cosa.

“Chi ti dice che io voglia venire a letto con te? Pensidi essere tanto irresistibile che tutti gli uomini debbanocadere ai tuoi piedi?”

“So di non essere irresistibile, però so anche che voi

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uomini pensate solo a una cosa e quando vedete unagonna, che poco poco vi piaccia, l’unico scopo per voiè quello di portarla a letto. Sbaglio?”

“E va bene, allora ci vieni a letto con me?” Mi parve la battuta più giusta, vista la piega che

stava prendendo il discorso.“Certo che ci vengo: sono proprio curiosa di vede-

re cosa sai fare!” Se avevo pensato di coglierla di sorpresa mi ero pro-

prio sbagliato. Devo proprio dire che questa era laragazza più imprevedibile con cui mi era mai capitato diavere a che fare. Adesso ero incastrato. Ero io che dove-vo dimostrare qualcosa a lei. Avevo perso l’iniziativa.Restammo in silenzio.

Lei passò avanti e si unì ai suoi amici e io non poteifare a meno di seguirla con lo sguardo. Temevo di aver-la offesa, che volesse ridere con loro di me. Spiavo lesue parole ma non riuscivo a sentirle, per quanto cer-cassi di accostarmi. Il sentiero era stretto e non ci con-sentiva di camminare tutti affiancati.

Eravamo quasi giunti al rifugio. Guardai l’orologio,erano le quindici e trenta. Mi sentivo un po’ stanco.

Raggiunsi Sonia e cercai di leggere negli occhi lesue intenzioni, ma lei: “Guarda che bel cielo limpido eche colori!”

Poi guardò in basso e raccolse un non ti scordar dime e porgendomelo mi disse: “Quant’è bello!”

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Presi il fiorellino dal delicatissimo colore e guar-dandola negli occhi mi chiesi cosa volesse farmi inten-dere, ma lei disse: “Ci vediamo a cena!”

Scappò via correndo verso il rifugio che appariva infondo alla radura su un piccolo rilievo.

Io non mi affrettai. Guardandomi intorno mi sedet-ti sotto un albero a godere dell’ombra che gratuita-mente mi elargiva. In cielo neppure una nuvola. C’erauna pace totale.

Più in basso si vedeva una malga e nel prato dellemucche pascolavano tranquille. I cani vigilavano chenon si disperdessero. La scena ricordava le cartoline deipaesaggi montani. Alla mia sinistra si scorgeva il Pizzodei Tre Signori, chiamato così perché segnava il confi-ne tra le Signorie di Milano, Sondrio e Bergamo.Sembrava vicinissimo, quasi a portata di mano, masapevo che per raggiungerlo occorreva ancora una pas-seggiata di almeno due ore. Una grossa nuvola ne stavaincoronando la cima, dando più imponenza ai suoi2500 metri. Mi sdraiai al sole a goderne il tepore, unleggero venticello lo rendeva più piacevole.

Non pensai più a niente. Mi misi in ascolto deirumori che attutiti mi giungevano. Il fruscio delle fogliemosse dal vento era come risacca sulla spiaggia. Il cin-guettio di qualche uccello che svolazzava da un ramoall’altro era musica che addolciva l’animo. Poco a pocofui pervaso da una felicità completa.

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Forse mi mancava Sara perché fosse più completa.Stetti così perso in ricordi piacevoli di Sara. Sara poidivenne non so come Sonia con le sue promesse perniente recondite. Era sfida tra maschio e femmina perimporre il proprio volere sull’altro. Sfida che mi stimo-lava. Un maschio accetta le provocazioni e non si tiramai indietro quando deve mostrare la propria bravuradi gallo latino. Ero intrappolato dal mio stesso modo divedere e sentire.

Pur riuscendo a vedere la cosa per quello che era,volevo approfondire la conoscenza di Sonia, chemostrava di avere una mente molto sveglia. Avevoparecchie cose da apprendere da lei, volevo conoscerle.Mi incuriosivano tutti quei discorsi sulla reincarnazio-ne, mi avevano colpito in passato, ma non li avevo maiapprofonditi. Pensavo fossero indimostrabili o pure cre-denze. Lei sembrava conoscere l’argomento e volevovedere fino a che punto. C’era veramente tanta carne alfuoco. Ero desideroso e affamato di tutto ciò che pote-va arrivare ai miei denti.

Con questi pensieri, alzatomi, mi diressi al rifugioormai vicino.

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Rifugio

Mi fu assegnata una cameretta piccola e ordinata.C’era un letto matrimoniale, una panca, una sedia e

un armadio, tutti in legno di pino. Anche le paretierano rivestite fino a una certa altezza con lo stessolegno. Il bagno era in comune nel corridoio.

Sistemai la mia poca roba nell’armadio. Mi rinfre-scai facendo una doccia, che gradii enormemente poi-ché fece svanire in me ogni stanchezza. Era da un pezzoche non facevo simili escursioni e, per quanto questafosse stata facile, ero comunque fuori allenamento.Indossai dei pantaloni e una camicia e, preso un giub-botto per la sera, scesi nel salone dove speravo di incon-trare Sonia. Non la vidi e neppure c’erano i suoi amici.

Mi sedetti e ordinai della birra gelata. Avevo desi-derato tanto quella birra, il suo pensiero mi aveva ralle-grato mentre accaldato parlavo di filosofia con Sonia.

Mi guardai intorno sorseggiando. Vidi un gruppodi giovani che giocavano a carte. Mi avvicinai per segui-re il gioco e mi stupii vedendo che stavano giocando abridge. Non è un gioco che solitamente si pratica neibar. Ma eravamo in un rifugio alpino, non al bar del-l’angolo. Li osservai per un po’ sperando di poter gio-care anch’io, magari più tardi.

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Uscii fuori sullo spiazzo antistante e mi unii ad altrigiovani che stavano giocando a pallone. Indubbiamentenon ci si annoiava.

Il pomeriggio passò così, tra il pallone e una parti-ta a bridge, che più tardi riuscii a vincere con Filippo,compagno improvvisato ma molto esperto.

A sera, insieme ai compagni di bridge, con i qualimi ero subito trovato a mio agio, mi recai nella sala dapranzo. Ci sedemmo. Eravamo in sei e ci sistemammoin un tavolo d’angolo da cui dominavamo la sala.

Il mio pensiero era rivolto a Sonia, che non avevopiù rivisto dopo l’arrivo al rifugio. Ero ormai rassegna-to a non vederla più, quando arrivò con Gianni e Luisa,si sedettero di fronte a noi.

“Ciao Vittorio!” mi sorrise.“Ciao!” ricambiai il sorriso.“Scusate!” dissi ai miei nuovi compagni alzandomi.“Ubi maior, minor cessat!”, mi fece Filippo, canzo-

natorio.Ammiccai sorridendo e raggiunto l’altro tavolo:

“Posso?” chiesi a Gianni, mentre osservavo Sonia cheparlottava con Luisa.

“Certo, siedi. Cosa hai fatto nel pomeriggio?” “Ho giocato a pallone e poi a bridge, e tu?” “Niente di speciale.” intervenne Sonia.Non mi diede neppure il tempo di sedermi che mi

bombardò di domande, e mentre stavo per rispondere

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riprese a parlare con Luisa. Cosa voleva dimostrare?Non riuscivo a capire questo suo comportamentoespansivo e allegro da una parte ed elusivo e sfuggentedall’altra. Mi misi ad osservarla mentre cenavamo.Continuò a trattarmi come un vecchio amico, parlandodel più e del meno, ma rifiutando di parlare diretta-mente con me. Ogni volta che mi rivolgevo a lei, gene-ralizzava il discorso rivolgendosi a tutti, ignorandomiapertamente. Mi stava irritando. Già, pensai, il suoscopo era irritarmi. Ma perché? Cosa voleva ottenere?Decisi di stare al gioco e vedere dove andava a parare.

Finita la cena, Gianni mi venne in aiuto prendendosottobraccio Luisa per uscire dal rifugio a prendere unaboccata d’aria.

Io e Sonia restammo soli e finalmente, facendo fintadi accorgersi di me, mi disse: “Che bella serata, vero?Sai, a me piace da matti l’atmosfera di questi piccolirifugi alpini: se potessi ci passerei tutta la vita.”

Tacque per riprendere subito dopo: “Vieni, andia-mo a prendere un po’ d’aria!”

“Certo, sono ai tuoi ordini!” Lei mi ignorò e uscimmo.Il cielo era limpido e la più brillante distesa di stel-

le ci apparve in tutto il suo immenso nitore. Estasiati,restammo muti ad ammirare. Non c’era luna, tutto erabuio intorno. Il tempo parve fermarsi in un momentodi magia. Sonia taceva, guardava commossa. Eravamo

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come sospesi nel tempo in un’estasi che durò solo pochiattimi, sufficienti per farci sentire tanto vicini che, istin-tivamente, le misi un braccio sulle spalle e la strinsi ame. Lei parve abbandonarsi appoggiando la testa sullamia spalla e con leggera mestizia si lasciò sfuggire:“Perché non è sempre tutto così bello e pulito?”

La domanda era retorica e non volendo romperel’incanto restai in silenzio.

Lei continuò: “A che serve questo cielo stellato,tutto quest’ infinito spazio, se non possiamo che guar-darlo? Perché un dio avrebbe creato tanta grandezzaper impedirci di goderne?”

“E’ vero...”, dissi banalmente e aggiunsi: “Perchéparli di un dio e non di Dio?”

“Ritengo che questo universo non possa esserestato creato dal Dio così come noi, cristiani e non, cre-diamo. Abbiamo di Dio una concezione di perfezione,di amore, di grandezza, è un Dio che non può fare delmale: gli addebitiamo però la creazione di questo uni-verso scellerato.”

“Scellerato?” “Vedi”, fece lei pazientemente, “c’è la convinzione

che la natura sia perfetta, dispensatrice di ogni cosa checi serve per vivere. Tutti, in questo caso proprio tutti,fanno a gara per convincerci che ciò che è naturale èsinonimo di perfezione e bellezza.

Ma dov’è la perfezione nel mangiare? Dov’è la giu-

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stizia nell’uccidere per doverci cibare? Dov’è la bellez-za negli escrementi che siamo costretti ad emettere,inquinando la terra? Hai mai provato ad immaginartimentre fai l’amore? La goffaggine della posizione. Lafoga brutale della passione. La poca grazia di queimovimenti: solo convulsi e non controllati.

Guarda la maternità: quanta poesia, pittura, arte,quanta magniloquenza per descrivere e sublimare lasofferenza della maternità. Eppure c’è solida, fisica,brutale sofferenza! Non c’è poesia, ma atroce dolorementre si partorisce. Pensi che questo sia il sistema diprocreazione migliore che ci sia in natura? E’ falso!

Forse le donne non potevano fare le uova per esem-pio? Ci sono mammiferi che fanno le uova. Ebbene nonsarebbe stato più semplice? Dal punto di vista delledimensioni non dovrebbero esserci problemi. Gli uomi-ni in fondo sono più piccoli dei dinosauri, dalle cui uovauscivano animali che poi diventavano enormi.

E per quanto riguarda la bellezza, non ci sono cosebelle o brutte, perché le stesse cose che oggi vediamobelle domani ci possono sembrare brutte e viceversa.

La bellezza è in noi. Siamo noi i dispensatori di bel-lezza e questa non è statica, varia da momento amomento, si evolve nel tempo perché, come per tuttele cose, ci stanchiamo anche di questa. Basta osservarele donne nella pittura, nella scultura, nell’arte in gene-re, guarda le indossatrici di oggi, la cui bellezza sembra

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seguire un periodo di imbruttimento anziché di miglio-ramento estetico. Ma queste sono solo parole. La bel-lezza ha un canone che è in noi, al cui variare variaanche la bellezza che attribuiamo alle cose.

Io ritengo che la natura non sia né bella né perfet-ta, ma matrigna. Una trappola, questa sì perfetta. Inquesto universo tutto è movimento. Non c’è spazio perchi non corre, perché verrà trascinato da altri corpi chelo spingeranno di qua e di là facendolo rimbalzare senzacontrollo. Se vogliamo farci largo dobbiamo correre piùdegli altri. La sai la storia del leone e la gazzella?”

Le feci cenno di no.“In una foresta ci sono un vecchio leone e una gaz-

zella: ambedue quotidianamente si pongono il proble-ma della sopravvivenza.

Il leone pensa: ‘Se oggi voglio vivere, devo correrepiù veloce della gazzella per potermela mangiare’.

La gazzella a sua volta: ‘Se oggi voglio vivere devocorrere più velocemente del leone.’

Morale: non importa essere leoni o gazzelle, quelloche conta è correre più velocemente degli altri.

Ti è piaciuta?”Non mi diede neppure il tempo di rispondere.“Vedi, anche nelle storielle ci sono pezzi di verità.

Questo è un mondo brutale! Solo la patina sociale faapparire i rapporti interpersonali cordiali e amichevoli,tutti educati. Ognuno di noi sta lottando per imporre

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le proprie idee all’altro. Per imporre il proprio arbitrio,la propria volontà. Per rubargli, diciamolo in modomeno duro, per farsi vendere il suo spazio vitale.”

Era presa quasi da un sacro furore. Le parole le usci-vano senza sforzo, come se dicesse cose per lei naturaliche aveva maturato dentro e forse ripetuto tante volte,ma che sapeva difficili da accettare per i conformisti.

“Il nostro non è un corpo spaziale”, continuò, “unpiccolo colpo può danneggiarlo irreparabilmente. Unqualsiasi rumore più forte del solito può ferire o dan-neggiare irrimediabilmente l’udito. Così è per la vista eogni altro nostro senso, limitato da parametri moltopiccoli rispetto alle proporzioni dell’universo. Il nostrocorpo riesce a mala pena a sopravvivere in questo pia-netino sperduto nell’immensità della galassia.

Hai mai fatto caso all’enormità dell’universo? E’composto da un’infinità di galassie, parecchie più gros-se della Via Lattea, di cui la Terra fa parte. Vedi?Ritorna la domanda iniziale! Perché tanta grandezza, sela nostra stessa costituzione fisica ci impedirà di goderne?E’ evidente che il nostro corpo non ha dimensioni spa-ziali. Perché quindi tanta enormità, se la stessa duratadella nostra vita non ci consentirà di staccarci neppuredal sistema solare?”

Le sue domande erano chiaramente retoriche, cosìmi limitai ad assentire anche se la sua logica mi sembra-va troppo spinta, troppo irriverente verso tutto ciò che

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era scienza ufficiale. Lei, pur intuendo le mie perplessi-tà, continuò quasi a volermi sbalordire, buttandomiaddosso la sua ricerca, i suoi dubbi più profondi, cheevidentemente la stavano tormentando più di quanto lasua sicurezza non facesse supporre.

“Sai quanto dura la nostra vita rispetto all’universo?Quanto campiamo? Facciamo... ottanta anni? Bene!

Sai quanti sono ottanta anni rispetto alla nostragalassia? Ottanta piccoli giri della Terra intorno al sole.Nel frattempo la nostra galassia si è mossa solo di pochidecimi di grado intorno a se stessa.

Non ti fa sentire piccolo tutto questo? Non ti facapire che c’è una incongruenza in tutto ciò?”

Tacque guardandomi negli occhi, per cercarvi unaconferma che istintivamente le diedi, seppure turbatodall’ultima sua immagine davvero suggestiva. Più tardiquest’immagine della galassia che ruota di pochi decimidi grado, mentre al suo interno un pianetino compieottanta giri intorno al suo sole, mi tornerà in mente e lavedrò drammaticamente in tutta la sua interezza.

Ma non anticipiamo i tempi! Ascoltiamo Sonia.“Perché allora creare un universo così grande per

delle creature che non potranno mai uscire dal propriopianeta o al massimo possono visitare solo il propriosistema solare? La sola galassia sarebbe già stata più chestragrande per noi. Perché allora una quantità cosìenorme di altre galassie?”

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Mormorai: “Allora chi ha fatto tutto questo?”“Non ti so ancora rispondere”, disse abbassando il

tono di voce, “ma una cosa è certa: è più facile che ilcreatore o i creatori di questo universo siano demoni,anziché dei!” Tacque, quasi a considerare l’enormità diciò che aveva detto. Nei suoi occhi c’era una luce ispi-rata, senza paura.

Mi sentii turbato da questa affermazione, ma nonosai controbattere. C’era in lei qualcosa che mi spaven-tava, ma non potevo fare a meno di stare ad ascoltare.

Era la prima volta che qualcuno affrontava con meapertamente questi temi. Pur avendo in mente cose piùpiacevoli da fare con Sonia, mi attiravano come coseproibite, pensieri da non dover formulare perché sug-geriti da chissà quale demone.

Rivolta verso il cielo continuò: “Guarda l’universo,così glaciale e infuocato, violento e quieto, la vita inesso sembra essere un’eccezione, limitata ad alcuni sco-gli insignificanti sperduti nelle spire di qualche galassia:come può essere stato creato da Dio?” Mi scrutò inten-samente, cercando la mia comprensione.

“Doveva essere veramente un dio malvagio perpensare a tanta miseria: la pochezza di un corpo umano.Gli appetiti sessuali, insaziabili, violenti. La ferociabestiale. Le uccisioni. La malattia. Il dolore. La pazzia.La fame vorace. Gli escrementi. La putrefazione.

La morte!”

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Scandì lentamente le parole, quasi volesse che mirestassero impresse.

“Quanta cattiveria per un essere eterno e immorta-le pensare di realizzare la morte: qualcosa di inimmagi-nabile per chi non l’ha mai avuta né sperimentata.

Ripeto, solo un idiota può attribuire a Dio un uni-verso così perverso.”

“Ma allora chi l’ha creato?” ripetei confuso. “E’ quello che voglio scoprire anch’io! Voglio

anche scoprire perché! Cosa sta cercando di farci?” Siinterruppe per cercare dentro di sé una risposta cheforse non ci sarebbe mai stata. “Vedi quante domandesenza risposta? Questi pensieri sono come le ciliege:uno tira l’altro. Ma credimi, anche se dovrò sprecaretutta la mia vita, riuscirò a trovare le risposte.”

Restammo in assoluto silenzio, mentre la volta stel-lata sembrava essersi abbassata per avvolgerci nel suoancestrale incantesimo.

Le parole di Sonia vibrarono in me creando disso-nanze e lacune. Mi sentii confuso: le convinzioni su cuibasavo la mia vita avevano perso consistenza. Nonavevo ancora altre idee chiare con cui sostituirle. Tacevoavvertendo la carica emotiva che emanava dalla ragazza,fragile apparentemente, che mi stava accanto.

La strinsi dolcemente. Lei volse il viso verso di me.Distogliendo lo sguardo dalle stelle e volgendomi versodi lei mi ritrovai vicinissimo al suo volto.

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I suoi occhi brillavano nel buio. Le sue labbra miattiravano e verso di esse mossi le mie in un bacio chelei non rifiutò. Me la ritrovai così tra le braccia in unbacio casto, che ben presto si trasformò, spinto da undesiderio crescente, in un impeto prepotente e selvag-gio. Lei mi si avvinghiò stringendomi forte, mentre lesue labbra serravano le mie e la sua lingua penetravacercando la mia. La presi in braccio continuando abaciarla per non interrompere quell’atmosfera che si eracreata insperatamente tra noi e mi allontanai dal rifugioalla ricerca di un posto discosto dove nessuno potessevederci o disturbarci.

Lei mi sussurrò in un orecchio: “E’ meglio cheandiamo in camera tua, qui farà sempre più freddo.”

La misi giù. Facendo gli indifferenti entrammo nelrifugio. Lei andò al bar mentre mi avviavo per le scale.

Mi sentivo scombussolato e trepidante, timorosoanche. Temevo potesse succedere qualcosa che le faces-se cambiare idea, che mi piantasse in asso. In camera fuiindeciso se mettermi subito a letto o farmi trovare indif-ferente ma pronto a tutto. Decisi di farmi trovare aletto, così da non perdere tempo in preamboli.

Passarono circa dieci minuti per me eterni e final-mente la porta si aprì: “Bravo, non perdi tempo tu!”

Cominciò a spogliarsi per raggiungermi.Io mi sfilai le mutande che avevo tenuto per scara-

manzia, forse temendo che non sarebbe venuta.

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Lei finì di spogliarsi e nuda me la ritrovai tra le brac-cia. Fu una sensazione piacevole il contatto con la suapelle fresca e liscia. Accarezzai le sue gambe. Godettidel suo sedere pieno, su cui mi soffermai. Accarezzai lesue spalle, i suoi seni rotondi e sodi. Mentre l’accarez-zavo ci baciavamo appassionatamente riprendendo là dadove avevamo interrotto. Continuavo ad accarezzarla.Mi piaceva farlo dolcemente. Volevo farle vibrare lapelle, darle piacere. Accarezzai il suo pube setoso e lemie dita cercarono il suo sesso.

Il resto avvenne di conseguenza, con naturalezza,inevitabilmente. Ci amammo con passione e trasporto.C’era tra noi un’intesa fisica tale che il ritmo non veni-va imposto da nessuno dei due, ma era sincronizzato.Ci trovavamo perfettamente a nostro agio e l’uno cer-cava il godimento dell’altro. I movimenti erano volutiper dare l’uno all’altro il massimo del piacere.

E così era!Ad un tratto, contemporaneamente, accellerammo

il ritmo. Di più, sempre di più! In un’esplosione di gioiaci trovammo entrambi, a godere insieme. Volevo riti-rarmi, ma lei lo impedì. Si serrò convulsamente alle miegambe, godendo a pieno della danza impazzita che lairrorava spargendo in lei il mio seme. La udii trattener-si dall’urlare emettendo solo dei gridolini sommessi.

Mi abbandonai disteso e lei mi venne addosso,baciando dolcemente e ripetutamente le mie labbra,

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quasi a ringraziarmi. Mi sentivo benissimo. Ero in esta-si. Ero grato a lei che aveva fatto sì che tutto fosse spon-taneo, senza sforzo, come fosse la cosa più naturale delmondo. Non provavo nessun senso di colpa. Mi senti-vo orgoglioso di quella donna che mi aveva messo com-pletamente a mio agio e come me aveva goduto piena-mente dell’occasione che il destino ci aveva concesso.

Restammo così abbandonati per qualche tempol’uno nelle braccia dell’altro in silenzio cullando i nostripensieri, che intuivo uguali. Lei era sopra di me e miguardava. Mi baciava sulle labbra, quasi giocando, conpiccoli baci. Poi tornava a guardarmi maliziosamenteper poi baciarmi ancora. Le accarezzavo i fianchi e i glu-tei, le cosce lisce e calde mentre partecipavo al gioco.

Mi fece chiudere gli occhi. Poi mi baciò in postidiversi: vicino alle labbra, sul naso, sulla fronte, sfioran-do di tanto in tanto le mie labbra, che erano sempre piùvogliose delle sue. Il gioco continuò finché non miritrovai pronto per un nuovo incontro. Lei mosse ilbacino aiutandomi e facemmo un’altra volta all’amore.Durò di più. Non fu come la prima volta. L’intesa erala stessa, anche la voglia di dare piacere reciproco eraintatta. Fu bellissimo ma non come prima.

“Cosa pensi? Vorrei che tutto questo non finissemai, che tu ed io potessimo restare sempre così, dimen-tichi di tutto.”

La strinsi dolcemente. “Parlami di te!”

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“Di me? C’è poco da dire, mi piace la vita all’ariaaperta, mi piace fare all’amore.” Rise di cuore.

Mi venne spontaneo darle un bacio per suggellare ilreciproco accordo, anche a me piaceva fare all’amore emi era particolarmente piaciuto farlo con lei.

“Cosa fai domani?”“Penso di raggiungere il Pizzo.” risposi.“Noi invece andremo sull’altro versante ed io pur-

troppo devo seguire i miei amici. Stai tranquillo, ci rive-dremo se il destino vorrà farci ancora incontrare. Iocredo che non ci si incontra mai per caso. Sono con-vinta che quello che c’è stato tra noi non può essere unabanale coincidenza. Sì! Io e te ci stavamo cercando.Chissà da quanto tempo! Chissà da quale spazio! Oggi,sul pianeta Terra, qui, ci siamo ritrovati, completandouna cosa che forse era rimasta incompiuta tra noi datempo immemorabile.”

Riusciva ancora a stupirmi e a incuriosirmi. Chi eraveramente questa ragazza e cosa conosceva realmente?

“Come fai a dire queste cose, come fai a concepirequeste idee?”

E lei tranquilla: “Guarda dentro di te! Non c’è stataforse tra noi un’attrazione immediata?”

Era tanto sicura della risposta, che non attese nep-pure un mio cenno.

“Come spieghi questo, solo come attrazione fisica?Perché per alcuni hai attrazione, mentre per altri senti

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repulsione? Sai rispondere a questo? Solo consideran-do...” si fermò per cogliere in me l’effetto di ciò chestava per dire, “...solo considerando che abbiamo vissu-to altre vite tutto comincia ad allinearsi e avere senso.”

Pausa. Tornava il discorso delle vite passate, lametempsicosi di Socrate, la reincarnazione degliInduisti. Doveva pure esserci un fondamento di veritàin questo continuo ritornare su questo argomento.Perché altrimenti tanti in tempi e luoghi diversi aveva-no affermato la stessa cosa?

“Anche i bambini appena nati ridono quando vedo-no una persona e piangono immediatamente vedendo-ne un’altra. Eppure non dovrebbero avere nessuna con-siderazione, se è vero che vivono per la prima volta.Invece non solo distinguono le persone, ma hanno giàdei gusti ben precisi. Hanno le idee chiare.

Solo noi adulti non le abbiamo più chiare. Abbiamofatto e facciamo infinite confusioni, mischiando creden-ze religiose a raziocinio. Raziocinio che può spiegarcisolo il tangibile. Ma toccando si può conoscere solo ciòche è solido. Il cane si morde la coda.

Come conoscere noi, che siamo pensiero, volontà,amore, attenzione e infinite altre cose che non sono fisi-che, se continuiamo a toccare, sentire solo ciò che èmateriale, dando poi dei pugni sui tavoli per affermar-ne la solidità, solidità che non si può invece percepire diciò che è spirituale? La Chiesa e le religioni vorrebbero

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che non ci ponessimo questi problemi. Ancora con-traddizioni! Ma c’è di più: le religioni affermano che èimpossibile conoscere. Capisci?... Non difficile... o perora impossibile, ma: assolutamente... im-pos-si-bi-le!

Il mistero viene definito come ciò che non si puòconoscere. L’unica cosa quindi che ci può aiutare è lafede. Ma io mi chiedo perché, mi chiedo il perché ditutto! E se mi accorgo che qualcuno, chiunque esso sia,vuole impedirmi di conoscere, vuol dire che lì ci sonocose molto importanti da scoprire. Non ti sembra?”

Io tacqui pensieroso e lei continuò.“E’ facile dire: ‘Sii concreto. Non c’è niente da sco-

prire. L’unica realtà è la vita di tutti i giorni.’Sì, questo potrà anche essere un discorso concreto.

Ma dov’è la concretezza nel dover morire? Che sensoavrebbe vivere con la nostra consapevolezza di esisten-za per poi morire? Perché allora non essere delle bestie,che non hanno consapevolezza eppure vivono. C’èquasi da invidiare le bestie che sono prive di consape-volezza. Non si pongono domande. Non sanno nullané possono scoprirlo. Mi viene da chiedermi: chi vuoleche noi diventiamo delle bestie?”

Tacque guardandomi intensamente negli occhi. Isuoi brillavano di una luce e profondità tali che miparve smarrirmi.

“Ti sto annoiando, vero, con questi discorsi?Dimmelo subito perché io sono fatta così: o parlo di

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queste cose o non parlo per niente. Mi sembra cosìbanale il resto!”

“Credimi, sono cose che anch’io sto cercando”,osai azzardare, “sono cresciuto nelle verità cristiane edè difficile per me vedere in un’ottica diversa. Le tuedomande sono sempre state mie, ma forse per pigriziao vigliaccheria non ho mai voluto approfondire. Cisono parecchie cose nella religione che non mi convin-cono. Continua, mi piace ascoltarti, vedere il tuo visobello diventarlo ancora di più, illuminandosi nella fogadel discorso.” Le detti un bacio sulle labbra.

Lei ricambiò e aggiunse: “Siamo fatti di materia:vedi, questo bacio”, mi baciò con ardore controllato,“questo è materiale, ma ci prende dentro, muove sen-sazioni in noi che non sono materiali. L’amore, la tene-rezza e mille altre sensazioni che esprimiamo con paro-le sono spirituali, sono proprie dello spirito, anima,elam vital, o in qualsiasi altro modo vogliamo chiamar-lo. Io voglio capire sia l’una che l’altra, sia la partemateriale che, soprattutto, la parte spirituale. Quandoinizio questi discorsi voglio capire qualcosa di più. E’proprio parlando che mi sembra di capire qualcosa dipiù. Quando parlo con qualcuno che mi ascolta notoproprio questo, che riesco ad aggiungere qualcosa dinuovo a ciò che conoscevo prima. Seguimi, e se c’èqualcosa su cui non sei d’accordo dimmelo.”

Mi guardò interrogativa e io feci un cenno deciso.

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“Se noi siamo esistiti in altre vite precedenti, non sitratta di una, ma di quante? Dieci, venti, mille, forseinfinite? Perché no!

All’inizio come eravamo? Migliori? Peggiori?Stiamo cercando di migliorarci o stiamo involvendoci inuna spirale di aberrazione spirituale?

Credimi, vorrei sbagliarmi, ma ho la netta convin-zione che stiamo diventando sempre più solidi, menospirituali. Sembra quasi che tutto spinga verso la distru-zione dello spirito e di tutto ciò che è spiritualità.Guardati intorno: gli psichiatri parlano di psiche, mapoi diventa tutto cervello. Lo stesso fanno i medici chenegano sempre di più l’origine psicosomatica dellemalattie, scoprendo sempre nuovi virus. Poi si chiedo-no il motivo per cui, pur essendo attaccati dai più sva-riati microrganismi, in certi momenti ci prendiamo lemalattie, mentre in altri momenti siamo molto resisten-ti al loro attacco. Vorrei sapere qual è la causa del calodelle nostre difese immunitarie... Ma per i medici tuttodipende dai batteri e dai virus e per gli psichiatri esisto-no solo i neuroni e la nostra memoria è solo cervello.”

Mi guardò negli occhi intensamente: voleva che iocapissi il suo desiderio di conoscenza e lo condividessi.

Ma allora, pur condividendo i suoi dubbi, mi senti-vo anch’io più materia che spirito ed ero attratto più dalsuo splendido corpo che non dalla sua anima inquieta edesiderosa di conoscenza. La strinsi a me e il calore del

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suo corpo sul mio e la sua pelle che accarezzai mi pro-dussero turbamento e cercai le sue labbra.

Lei si abbandonò, completamente animata da unfuoco, come se quella sua ricerca spirituale passasseattraverso il sesso, la fisicità della carne.

Non mi feci pregare. Fu una cosa ardente, appas-sionata, che trascese il semplice accoppiamento fisico.

C’era in lei un nuova vitalità. Fu lei ad imporre ilritmo. Fu lei per prima ad arrivare ad un godimento chenon riuscì a posticipare per arrivare insieme. Lo fece inmodo selvaggio senza trattenersi, urlando e gemendo.

Fu il suo godimento prolungato a trascinare ancheme in un’esplosione di risate che provavo solo quandogodevo pienamente. Ci abbandonammo esausti e pianpiano lei si addormentò tra le mie braccia.

Mi sentivo stanco, ma le sue parole mi impedivanodi dormire. Come potevamo aver avuto infinite vite?

Cosa c’entrava il dire che stavamo diventando sem-pre più solidi, che qualcuno poteva volere che noidiventassimo delle bestie e perché?

Ma era poi così importante sprecare la vita a porsiqueste domande? Non era forse più semplice non chie-dersi niente e continuare a vivere la vita di tutti i giornicon i semplici problemi che quotidianamente ci ponesenza ulteriori complicazioni? Ma questo non mi con-vinceva del tutto. Mi sembrava vigliaccheria!

Lei aveva insinuato in me una curiosità nuova.

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Aveva smosso, riportando a galla, un qualcosa che eralatente in me e che si era risvegliato e non mi facevaprendere sonno. Mi sentivo stranamente lucido. Cercaidi mettere ordine nei miei pensieri ma a poco poco miabbandonai ad un sonno profondo e meritato.

Era stata una giornata interessante e intensa. Il mio sonno non fu quieto, feci dei sogni confusi.

Questo lo ricordo perfettamente. Mi sembrava di esse-re sospeso nel cielo. Volavo nel nulla e poi incontravoSonia che volava verso di me. Facevamo all’amoresospesi nel vuoto. Poi all’improvviso e sul più bello pre-cipitavamo e ci perdevamo di vista. Non riuscivo più atrovarla, per quanto facessi per chiamarla e cercarla.

La luce dell’alba mi risvegliò con Sonia ancora tra lebraccia. Sembrava una bambina tra le braccia dellamadre alla quale si stringe per avere protezione.

Avevo ancora sonno e mi sentivo un braccio intor-pidito dal peso di lei. Mi rigirai e mi riaddormentai.

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La Cosa

Quando mi risvegliai ebbi la sensazione di esseresolo. Tastai il letto: là dove era stato il corpo caldo diSonia era vuoto. Per un attimo mi sembrò che quellanotte, unica per le mille sensazioni che mi aveva offer-to così in abbondanza, fosse stata un sogno. Mi lasciaicullare sentendomi fremere al ricordo.

Mi scossi di mala voglia. Guardandomi intorno tro-vai il biglietto che Sonia mi aveva lasciato sul comodi-no. Svegliatomi del tutto, lo lessi:

Caro Vittorio, come ti ho detto non ci siamo incontrati per caso. Sono convinta che ci incontreremo di nuovo. E non

sarà per caso!A presto allora. Che la prossima volta il nostro incon-

tro sia ancora più bello e chissà, anche più duraturo. Con affettuosa amicizia Sonia.Avrei preferito che non se ne fosse andata, che fos-

simo rimasti insieme anche oggi. Al diavolo la monta-gna e la scalata! Almeno mi avesse dato un appunta-mento più preciso! Invece no! Dovevamo affidare ilnostro futuro incontro a quella forza imponderabile cheper lei non era casuale, ma una spinta interiore capace

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di muoverci gli uni verso gli altri come una forza gravi-tazionale. E se con il nostro incontro questa forza pernoi due si fosse esaurita? Non ci saremmo mai piùincontrati.

Questo pensiero mi infastidì. Desiderai con tuttome stesso che non fosse ancora partita. Guardai l’oro-logio: erano già le nove del mattino. Citofonai al por-tiere per chiedere di Sonia e dei suoi amici. Erano giàandati via e non sarebbero tornati. Restai deluso! Midovetti rassegnare e accettare il fatto compiuto.

Feci una doccia calda, ne avevo proprio bisogno,mentre mille pensieri si affollavano nella mia testa.Ripensai ai dolci momenti passati. Il sangue mi si rime-scolava dentro. Tentai di scacciare quei pensieri, che,anche se dolci, mi riempivano di nostalgia e mi faceva-no desiderare Sonia. Mi sembrava di stringere ancora ilsuo corpo tra le mie braccia, tanto erano caldi e viviquei momenti di intensa esperienza fisica. L’acqua caldascivolava sul mio corpo e indugiai su quel calore che miridonava energie.

Mi sentii affamato. Non volevo neanche pensarealle vite precedenti. Ma i pensieri non si riesce a con-trollarli e mi ritrovai a considerare tutto ciò che Soniami aveva detto. La cosa che più mi aveva colpito era lastoria della natura matrigna. Aveva parlato di universoscellerato, citando tutte le cose ripugnanti di questavita. Nitide mi vennero in mente le sue parole: “Dov’è

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la perfezione nel mangiare, nell’uccidere per dovercicibare, negli escrementi, nella putrefazione dellamorte...”

Finora avevo sempre visto le cose con l’ottica cri-stiana, dove un Dio di perfezione crea l’uomo a Suaimmagine e somiglianza e lo pone in un paradiso di per-fezione e bellezza. Era poi il suo peccato originale aportarlo al male e quindi fargli perdere tutti i privilegidi quel paradiso che adesso non meritava più. La storiaera alquanto romanzata e forse improbabile, ma era perme l’unica spiegazione che avevo delle origini dell’uo-mo e non riuscivo a vedere diversamente.

Ma adesso lei, come una meteora che precipita suun pianeta devastandolo, aveva scombussolato tutti imiei dati stabili e mi sentivo alquanto confuso.

“Perché un universo così smisurato per un uomoche non potrà mai uscire dal suo pianeta?”

Già, perché? Non avevo risposte!“Doveva essere un Dio malvagio, un demone

appunto, per creare tanta miseria.” Queste e altre paro-le mi rintronavano ancora nelle orecchie e feci fatica anon pensare a tutte le incongruenze di questa vita chela sensuale filosofa Sonia aveva insinuato in me. Ma lafame, o forse il mio ottimismo, mi fece reagire e conmio sommo piacere mi accorsi che dopo tutto valeva lapena vivere questa vita con tutti i suoi enigmi e tutte lebelle Sonie che vi si potevano incontrare. Mi sentii feli-

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ce di essere vivo e giovane. Nuove energie mi stavanopervadendo. Mi affrettai a finire le pulizie personali,preparai il mio zainetto e scesi per la colazione. Nonc’era più nessuno al bar. Tutta quella gente che avevovisto il pomeriggio e la sera prima doveva essersi rimes-sa in movimento per raggiungere la meta. Anch’io nonvedevo l’ora di mettermi in marcia. Volevo raggiungerela cima del Pizzo dei Tre Signori.

La giornata era splendida. Si vedeva la cima sulladestra del rifugio: ci voleva almeno un’ora per raggiun-gerla, così di buona lena mi incamminai per il sentiero.L’alto pascolo era invaso da mucche che placidamentebrucavano l’erba, mentre nella malga sottostante non sivedeva anima viva. Tutto era quiete e pace.

La montagna dà sempre questa sensazione di stasi,come se il tempo si fermasse o scorresse a ritmi piùlenti. Forse la nostra ansia interiore si placa dinnanzi aqueste cime possenti, a questi spazi infiniti, mentre ilnostro essere spirituale pare respirare più intensamentein una dimensione più consona. Camminavo lentamen-te guardandomi intorno e godendo di quell’aria, diquella atmosfera e dei colori che la montagna mi offri-va. Mi sentivo più vicino al cielo. Senza che me neaccorgessi mi ritrovai a pensare alle parole di Sonia.

Come poteva tanta bellezza sposarsi con le brutali-tà e le violenze della vita, con la noia quotidiana, con lalotta? Perché questi contrasti?

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Ma forse è proprio questo il senso della vita, nelsapere mescolare e mitigare il bene con il male, il bellocon il brutto e così via. Ma chi ha voluto tutto questoe perché? Perché noi uomini ci troviamo in un mondoche non abbiamo né voluto né scelto?

Dio aveva voluto metterci alla prova dopo il pecca-to originale e questi contrasti erano frutto proprio delpeccato con cui tutti nasciamo?

Non è che ne fossi molto convinto, ma l’unica cosache poteva venirmi incontro era appunto la religione,nella cui educazione avevo trascorso l’infanzia. Larisposta poteva essere nelle vite precedenti, nellametempsicosi?

La nostra religione non parla di reincarnazione nédi vite precedenti, ma solo di vita dopo la morte.Eppure Sonia aveva detto che la Chiesa e anche Gesùerano a conoscenza di tali fenomeni. E se fosse vero cheDio avesse creato degli esseri appunto a Sua immaginee somiglianza? Lui non ha un corpo come il nostro!

Cosa c’entrano allora i nostri corpi di materia?Poteva aver creato dei puri spiriti come Lui, che per unqualsiasi motivo si erano poi ribellati a Lui.

La storia poteva tornare. Nella Bibbia si parla dipuri spiriti che si ribellarono a Dio. C’è un problemaperò: quelli sono i demoni, i diavoli. Un’idea assurdama logica stava balenando in me e mi sentii rabbrividi-re. Credetemi, non ve l’avrei mai esternata, se i fatti

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successivi non mi avessero poi confermato quanto que-sta mia folle idea si avvicinasse alla nostra triste realtà:che forse potessimo essere proprio noi quei poveri dia-voli che vivono fin da allora?

Già, saremmo dei poveri diavoli! Questo pensiero spiritoso oggi potrebbe far sorri-

dere. Allora mi venne la pelle d’oca e un formicolio mipervase testa. Paura?

Per vincere appunto la paura, decisi di approfondi-re questa idea. Volevo andare avanti, perché no? Misentivo un libero pensatore che non vuole essere imbri-gliato da concetti religiosi bloccati nel tempo, delimita-ti da scritture pseudo sacre. Nessuno deve impedire ilpensiero! Su questo ero d’accordo con Sonia. Nessunopuò tarpare le ali alle idee. Più una direzione è proibitae più ci sente attratti.

Siamo noi quei poveri diavoli? La domanda mi sti-molava. Erano stati forse loro, quindi noi, che vivendoda sempre avevano creato tutto ciò? Poteva essere unarisposta! Come mai allora non ricordiamo niente?

Mi sentivo di nuovo al punto di partenza. C’eranotroppi misteri. Ma continuavano a frullarmi nella testae più cercavo di scacciarli, più mi rintronavano. Nonavevo risposte concrete. Non volevo impazzire! Trovaiquindi facile concludere che era tutto inutile. Nessunomai potrà dare risposte soddisfacenti, mi dissi. Che valeallora lottare per avere risposte che non si avranno mai?

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La montagna mi venne in aiuto. Il tratto era in fortependenza, mi concentrai sul tragitto e aiutandomianche con le mani mi portai fin sotto il roccione checostituiva il Pizzo. Era già trascorsa più di un’ora daquando avevo lasciato il rifugio e non me ne ero nem-meno accorto, assorto com’ero nei miei pensieri.

Fu allora che notai una scia nel cielo che si muove-va in modo irregolare. Sembrava ondeggiare anzichémuoversi in modo rettilineo, scendendo poi verso di mead una velocità pazzesca. La scia divenne un aereo, sem-pre più grosso. Mi sembrò immenso nel momento incui superò la cima del Pizzo, sfiorandola quasi e scom-parendovi dietro.

Tutto avvenne in una frazione di secondo, o tale miparve. Con la stessa velocità la montagna parve scuo-tersi in un tremendo terremoto. Subito dopo esploseun rumore assordante. Un boato mi rintronò nelleorecchie, intontendomi più della scossa stessa. Mi tenniforte contro una roccia per non cadere a terra, mentrei pensieri più neri si impossessavano di me.

Cos’era, cosa era successo? Trattenni il fiato, quasitemendo di dover saltare in aria anch’io. Una nube nerasi levava verso il cielo da sopra la cima della montagna,che mi riparava la vista del disastro che paventavo. Mifeci forza e mi arrampicai su per la cima del Pizzo. Unasciagura aerea. Chissà quanti morti. Gente ferita, dila-niata dall’urto. Continuai a salire concentrandomi sulla

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roccia e sui miei passi. Raggiunta la cima, potei final-mente affacciarmi sull’altro versante.

La prima cosa che vidi fu una massa scura. Un mistodi fumo, polvere e vapore che saliva emanando unodore acre e pungente, irrespirabile. Mi tirai indietroistintivamente per riprendere fiato. Decisi di aspettareche la nube nera che si stava formando poco a poco sidiradasse. Temevo per i feriti intrappolati dentro quel-l’immane rogo. Ero impaziente di scoprire cosa fossesuccesso. Volevo potermi muovere, fare qualcosa, orga-nizzare dei soccorsi, che sicuramente sarebbero statinecessari. Mi guardai intorno per vedere se per casoaccorresse qualcuno. Possibile che dal fumo e dallascossa provocata dall’impatto, quasi un piccolo terre-moto, non fosse stato richiamato nessuno?

Mi misi in ascolto. Non si udivano voci né suoni.Sembrava che tutto fosse sospeso in un istante senzatempo. Mi sentii paurosamente solo. Ero... solo!

Ma c’era quel disastro. Malgrado la situazione, misentivo perfettamente lucido. Mi capita nelle emergen-ze di trovare, non so come né dove, delle riserve di luci-dità. Mi ricordai che, in passato, tale lucidità mi era tor-nata utile, mi aveva salvato da situazioni, che, pur nonessendo di per se stesse gravissime, potevano portarmi amorire, se non risolte con prontezza di spirito.

Mi fece piacere riuscire ancora, malgrado la situa-zione, a fare divagazioni sul passato.

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Guardai verso il laghetto. Per essere più corretti,dove ritenevo avrebbe dovuto esserci il laghetto, perscoprire qualcosa tra quel fumo nero che stava manmano diventando sempre più chiaro.

Il calore mi investì e dovetti ritirarmi riparandomidietro la roccia. Il fuoco doveva essersi spento, madoveva ancora permanere una temperatura tremendaper generare tanto vapore. Dovetti aspettare almenoun’ora prima che la colonna che aveva sostituito il fumocominciasse a scemare, tanto da consentirmi di vederecosa nascondeva. Finalmente, timidamente, mi accostaial ciglio per guardare. Guardai in basso. Rimasi di sale!

Il laghetto non c’era più. C’era una “cosa”. Al suoposto brillava la “cosa”! Enorme!

Attesi ammutolito. Ero affascinato. Era ancora sur-riscaldata e luminescente, lo attribuii all’attrito atmosfe-rico e all’impatto contro la montagna. Ma che “cosa”era? Non volevo, temevo definirla. Mi sovvenne un ter-mine che si adattava perfettamente: UFO. Non potevache essere un UFO: “Oggetto volante non identificato”.Pensai, non volerà più. Nel mezzo di questi colti pen-sieri mi accorsi che un portello si stava ribaltando da unfianco dell’oggetto, formando uno scivolo.

Mi misi a guardare incuriosito e intimorito allo stes-so tempo. Non accadde nulla. La porta si era aperta enient’altro. Non uscì nessuno, tranne un po’ di vapore.

Mi guardai intorno. Avrei voluto che qualcun altro

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avesse diviso con me quella scoperta sconcertante. Lasorte non mi favorì. Ero solo. Intorno a me regnava ilpiù assoluto silenzio. Le cicale e i grilli avevano smessoil loro assordante frinire. Neanche gli uccelli si udivano.Osservando meglio, non si vedeva volare neppure uninsetto. Era l’atmosfera di attesa e sgomento che prece-de il mistero e che riveste ogni cosa sconosciuta.L’atmosfera che si respira nell’avventura per chi avesseavuto il coraggio di stendere le mani e afferrarla. Nelmio caso dovevo solo scendere la collina e addentrarminell’ignoto che a braccia aperte, o meglio a bocca spa-lancata, mi aspettava. Che fare?

Qui si convien lasciare ogni sospetto ogni viltate convien che qui sia mortaChissà perché in certi momenti ci vengono in

mente la cose più strane. Non erano poi così estraneiquei versi di Dante che mi sovvennero, reminiscenzadei miei studi classici, forse inconsciamente mi sentivocome il sommo poeta.

Dante Alighieri, poeta sì, ma così sommo non miera mai sembrato. Lo ritenevo dicitore in versi di pen-sieri, detti e conoscenze dell’epoca. Aveva sprecato unagrossa occasione per essere originale. Si era limitato adire solo tutto ciò che era “il sentito dire” che rispon-deva pedissequamente alle conoscenze dell’epoca,senza nessun volo pindarico, senza nessuna invenzionepropria. Povero Dante, chissà cosa avrebbe detto

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davanti a questa visione? Io stavo realmente per entrarein un inferno o forse in un paradiso. Cosa mi aspettavadentro quella che ritenevo essere una nave spaziale?Dante aveva immaginato il suo viaggio, io invece lostavo proprio intraprendendo. Speravo proprio fosse unviaggio in paradiso.

Osservai l’UFO. Era veramente spaziale? O era unmanufatto terrestre di qualche potenza straniera?

Ero più propenso a credere si trattasse di qualcosadi alieno. Era troppo grande per poter essere stato lan-ciato da noi. Aveva una perfezione e anche una certabellezza di forme che andava oltre tutto ciò che fin’oraavevo visto in fatto di veicoli spaziali. Andava oltreanche l’immaginazione dei disegnatori dei romanzi edei fumetti di fantascienza di cui ero assiduo lettore.

Decisi di guardare la “cosa” prima di prendere unaqualche decisione che avrebbe potuto crearmi proble-mi. Osservai bene l’oggetto e notai che era di forma sfe-rica, ovale, veramente enorme. Riempiva tutto il lago,che era sparito nell’impatto, e toccava i fianchi dellecime che circondavano la conca. Abbozzai approssima-tivamente un diametro di duecento metri: uno stadiocome San Siro, pensai sbalordito! E se conteneva anchei settantamila di San Siro? Poteva esserci un esercito diinvasione!

Mi resi conto che la cosa era assurda. Un viaggiostellare dovrebbe essere molto lungo e ci vuole molto

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spazio per stivare il cibo necessario per settantamilauomini, per quanto piccole possano essere le razionispeciali create per simili viaggi.

Era meglio farmi coraggio e andare a vedere!Chiamare aiuto? E se nel frattempo l’Ufo se ne fosseandato? Mentre rimuginavo in preda a tali dubbi, mitrovai istintivamente a muovermi verso la nave spaziale.L’oggetto continuava ancora a splendere di luce pro-pria. Discesi dal roccione lungo il sentiero. Attraverso lascarpata mi diressi verso il punto più vicino alla portadella nave, che era ancora aperta e silenziosa.

Mi assalirono mille timori. Volevo tornare indietro.Sentivo che la cosa migliore da farsi era chiamare gente.Meglio non essere solo in questa impresa. Ma qualcosami affascinava e mi attirava. Mi azzardai a salire su quel-la passerella aperta e invitante. Con passo incerto miavviai per introdurmi nell’Ufo. Mi fermai sulla soglia.

Ero attento ad ogni rumore o movimento che misegnalasse la presenza di qualcuno o qualcosa, nonsapendo con chi o con che cosa potevo avere a che fare.Pensai agli alieni dei numerosi romanzi di fantascienza,il cui genere mi aveva sempre attirato e di cui avevoletto i migliori autori. Mi vennero in mente le riprodu-zioni che i film si erano divertiti a fare di mostri semprepiù orripilanti e così poco umani. Chissà perché la fan-tascienza aveva sempre posto l’uomo al centro dell’uni-verso, unico abitante cui spettasse l’onore e l’onere di

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colonizzatore? Ora accadeva il contrario davanti ai mieiocchi. Avevo l’occasione di venire a contatto con alieni.Scoprirne le sembianze. Stavo per svelare uno dei gran-di insoluti dell’universo!

E se non trovavo nessuno? La nave poteva esseredisabitata! Poteva essere solo una nave esploratricecome i nostri satelliti artificiali. Ne orbitano così tantiattorno al nostro pianeta e quanti ne abbiamo speditinello spazio. Se quella era una sonda esplorativa priva diequipaggio, aveva portato a termine la sua missione?Iniziata quanti anni prima? Lanciata da chi?

Troppi interrogativi! Mi sforzai di non pensare. Mimossi decisamente dentro la nave. Mi addentrai lungoil corridoio che si vedeva dall’ingresso.

Mi guardai intorno, voltandomi ancora. Volevovedere se per caso qualcuno fosse arrivato, attrattocome me dall’esplosione o dal fumo. Non vedendo nes-suno, mi feci forza e procedetti verso la sala che comin-ciavo a vedere in fondo al corridoio. Udii un tonfosordo. Mi voltai di scatto! Il cuore batteva all’impazza-ta! Era tardi. La trappola si era chiusa!

Mi sentivo un topo. Mi consolai pensando che ilmio formaggio era stata la curiosità, la molla che muoveogni essere raziocinante e ciò mi fece sentire meno stu-pido. Il rischio forse valeva la candela!

Non avevo vie di scampo. Potevo solo procedere.Volevo andare avanti! Scoprire quale destino mi era

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riservato. Senza timori avanzai con lo spirito del pio-niere che si avventura verso l’ignoto, il cui alito potevogià sentire, la cui presenza era tanto forte che vacillai.

Mi ritrovai in una sala. Ritenni fosse il posto dicomando della nave stessa. Era immensa. Sul fondo sinotava una consolle con una serie di monitor e spie equadri e luci che si accendevano e spegnevano. C’erauna strana luminosità e s’udiva un ronzio leggero mafastidioso. Mi guardai intorno per abituarmi a quellaluce e vedere meglio tutto ciò che quella strana salaconteneva. Mi avvicinai piano con la sensazione di pro-fanare un luogo religioso, guardandomi continuamen-te alle spalle. Udii un leggero fruscio o rantolo umano.Non riuscivo a definire cosa fosse. Mi allarmai. Tesitutte le mie facoltà percettive per riudire il rumore edindividuarne la provenienza. Fu più forte e deciso que-sta volta. Era un qualcosa di umano, come un lamento.Proveniva dalla poltrona che dominava la consolle,davanti a me.

Restai per un attimo senza fiato. C’era forse unaltro essere? Come me? Altrimenti, come? Senza muo-vermi non avrei saputo. Mi decisi facendomi coraggio.

Superai la poltrona per poter guardare e vidi. Deicapelli biondi. Lunghi. Un viso bellissimo, di donna.Pallido. Sofferente per l’impatto, pensai. Indossava unatuta di uno strano materiale: aderendo perfettamente lemodellava la figura riversa sulla poltrona, che appariva

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di una perfezione statuaria. Non potei fare a meno diammirarne la bellezza e questo fece tacere i miei timo-ri. Provavo adesso un sentimento di compassione. C’erauna creatura sofferente! Era secondario che fosse amicao nemica. Era solo una creatura e mi avvicinai di più.

Le misi una mano in fronte. Stavo per prenderle ilpolso per sentirne i battiti, quando lei aprì gli occhi. Miguardò. Impaurita dapprima, poi, ritrovato il coraggio,con aperta sfida: “Chi sei e come osi toccarmi?”

Io la guardai. Mi pareva più confusa che impaurita.Appariva evidente in lei una forza, un’abitudine alcomando che il suo stato confusionale non riusciva anascondere.

“Sono Vittorio, e tu chi sei?” I suoi occhi penetranti scrutavano in me come

lame. Frugavano nella mia mente per trovare ognirisposta. Parve rasserenarsi, capendo che per lei io noncostituivo alcun pericolo. Tentò di alzarsi con enormefatica. Si sollevò, premette un pulsante, poi si risedettepiù tranquilla. Aveva ripreso completamente il control-lo della situazione. “Come sei entrato qui e perché seistato tanto pazzo da farlo?”

Apparve silenziosamente un robot. Sembrava scivo-lare sul pavimento senza toccarlo. Pensai al cuscino d’a-ria degli hovercraft. Si avvicinò alla donna e attese ordini.

“Fammi una relazione completa dei danni e deitempi per ripararla.”

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“Riparazione in atto, portello aperto per impattogià chiuso. Intruso al tuo cospetto è l’unico introdotto.Copertura mimetica già in funzione. Tempi riparazionequattro ore nave.”

Lo disse in una strana lingua. Lei glielo fece ripete-re in Italiano, perché voleva che io capissi. Mi accorsisolo allora che aveva parlato con me nella mia lingua findal primo momento - evidentemente, pensai, era datanto che spiava e seguiva le nostre emissioni radio.Chissà quante altre lingue conosceva.

Chi era questa astronauta? Da dove veniva? Qualepericolo rappresentava per l’umanità?

Mentre ero immerso in questi pensieri, lei conge-dando il robot disse brutalmente: “L’intruso va consi-derato prigioniero, sarà libero di muoversi e saperetutto ciò che vorrà, ma non dovrà lasciare la nave pernessun motivo. Lascia che ad un condannato a mortesiano esauditi gli ultimi desideri.”

Mi guardò con sfida e io intimorito riuscii a dire:“Bella gratitudine: io ero preoccupato per te, per ciòche poteva esserti successo nell’urto e tu mi fai prigio-niero e mi condanni a morte?”

“Gratitudine? Cosa vuoi dire?” mi scrutò insisten-temente. “Dovrei esserti grata per esserti intrufolatocome un ladro nella mia nave?” Era incuriosita e miinvitava a parlare. Mi feci coraggio: forse non tutto eraperduto, potevo convincerla della mia buona fede.

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“Io sono entrato pensando che potevano esserciferiti, per portare soccorso.”

“E non hai avvertito nessuno?” “Non ne ho avuto il tempo, siamo a circa duemila

metri di altezza e il paese più vicino è a quattro ore distrada a piedi.”

Questo la rassicurò. Capii l’errore che avevo com-messo: le avevo detto di essere il solo a sapere dellacaduta della nave. Non avevo più scampo!

Mi feci coraggio: “Temevo fosse un nostro aereo dilinea ed ero venuto per prestare aiuto. Quando honotato che era straniero sono entrato lo stesso e quan-do ti ho visto ferita volevo aiutarti, le mie intenzionierano e sono amichevoli.

Perché invece tu vuoi uccidermi? Che pericolo rap-presento per te, così potente? Vedi, sono disarmato,non ho con me neppure un coltello.” Aprii le bracciaperché potesse verificare quanto avevo detto.

“Per ora non ho voglia di discutere! Devo occupar-mi della nave.” Fece un cenno al robot, che mi si avvi-cinò e mi indicò l’uscita facendomi segno di seguirlo.

Varcata la soglia, un altro robot mi si mise dietro inmodo che io non potessi scappare da nessuna parte.

Mi condussero in una cabina.

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Rivelazioni

Notai subito la grande vetrata che mostrava la pare-te rocciosa contro cui la nave si era incagliata. Mi avvi-cinai per vedere meglio dove eravamo, per cercare inqualche modo un riferimento che mi riportasse al miomondo, dal quale sembrava mi stessi allontanando defi-nitivamente. C’era ancora in me la speranza di potervedere qualcuno che potesse aiutarmi. Ma non vidi nes-suno e tutto intorno sembrava quieto, per me non c’eraproprio speranza. Guardai la cabina: su una parete c’erauna cuccetta, le altre erano lisce a colori cangianti.

Il robot mi mostrò una tastiera che non avevo nota-to e me ne spiegò l’uso, facendomi capire che mi per-metteva di rendermi autonomo. C’era una sezione cheattivava un meccanismo che faceva apparire tutta unaserie di paesaggi su una o più pareti. Potevo variarne icolori, formare disegni modificandoli oppure aggiunge-re immagini prese da una banca predisposta. Un tastomi permetteva di chiamare un servitore che, a detta delrobot, avrebbe esaudito ogni mio desiderio. Una doc-cia e un accessorio che poteva essere un water appariva-no premendo i tasti che ne riproducevano le immagini.C’era anche un televisore inserito nella cuccetta con untelecomando inserito in un apposito bracciolo mobile.

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“Signora ha detto di esaudire ogni tuo desiderio:sono a tua disposizione!”

“Da dove venite e chi è la Signora?”“Signora è Arvea, Ispettore Generale dell’Impero

Galattico. La rotta e gli scopi sono segreti, solo Signorapotrà dire.”

“Impero Galattico? Cos’è? Dove si trova?” “Sistema Solare è in periferia galassia. Il centro è

costituito da un Impero di mondi, pianeti e interi siste-mi come il sole terrestre. Esistono numeroseConfederazioni o Imperi Galattici.”

Imperi Galattici? Confederazioni? Piena fantascien-za! Ma questa non era fantasia! Sperai di essere in unsogno dal quale ci si può svegliare. Doveva essere così epresto lo avrei fatto. Chiusi gli occhi e li riaprii di scat-to, adesso mi sarei risvegliato e mi sarei ritrovato a lettonel rifugio.

Non fu così! Il robot era accanto a me, silenziosa esolida presenza. Provai a toccarlo e lui mi lasciò fare: erafreddo ma non gelido. Al tatto sembrava molto lisciocome fosse ricoperto d’olio. Ritirai la mano, mi accorsiche non era unta.

Non era purtroppo un sogno dal quale mi sareipotuto risvegliare, era una concreta realtà che dovevoaffrontare e risolvere. Ne andava della mia vita.

“Parlami dell’Impero Galattico!” “Impero molto potente. Comprende centoventi

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sistemi solari e trecento mondi, tra pianeti e satelliti abi-tati. Ogni mondo è governato da un Re in rappresen-tanza dell’Imperatore, che governa su tutti i mondi. Cisono poi mondi esterni in altre galassie su cui l’Imperoestende il proprio dominio.”

Tacque pensando di aver esaurito la mia domanda.Indubbiamente non era abituato a dire più di ciò che gliveniva richiesto.

“Dimmi di Arvea, qual è il suo ruolo nell’Impero?” “Signora molto importante. E’ plenipotenziaria

dell’Imperatore. Risolve tutti i problemi più difficili.” “Di quali problemi parli?” mi venne spontaneo.“Tutti! Tutti quelli in cui altri ispettori falliscono.

Fino ad oggi non c’è mai stata emergenza o pericoloche Signora non abbia risolto con pieno successo e conbenefici per tutto l’Impero. Signora è molto potente!”

Mi sembrò che ci fosse dell’ammirazione e delrispetto nelle parole del robot e la cosa mi meravigliò:ritenevo, evidentemente in modo erroneo, che i robotnon fossero dotati di sentimenti. Dovetti ricredermianche su questo punto!

“Lasciami solo, se avrò bisogno ti chiamerò.” Volevo pensare. Volevo fare chiarezza nella confu-

sione che mi sentivo dentro. Il robot silenziosamente si ritirò e la porta si richiu-

se dietro di lui. Appena solo osservai bene la porta. Nonaveva maniglie e non c’erano pulsanti di apertura.

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Provai a forzarla, ma era solida e non cedeva. Andai allatastiera e provai i tasti della prima sezione. Su una pare-te apparve una galassia immensa, tridimensionale, cheriproduceva, almeno mi pareva, la profondità dell’abis-so cosmico. Premetti un’altro pulsante e apparve unparadiso, con alberi e colori e uccelli che non erano ter-restri, ma erano egualmente belli e davano un senso dipace e serenità. Lasciai quel paesaggio e ne scelsi unaltro per l’altra parete disponibile, tipo Grand Canyon.Anch’esso non doveva appartenere alla Terra, ma avevaun fascino indiscutibile. Notai che anche sulla parete avetri si poteva riprodurre un’infinità di paesaggi, cheforse rappresentavano il meglio dei pianeti esplorati edello spazio cosmico. Mi colpì un’immagine del sistemasolare visto da Saturno con gli anelli in primo piano egli altri pianeti allineati e in fondo il sole. Anche questaimmagine appariva tridimensionale e sembrava propriodi poter vedere la profondità e l’enorme distanza trapianeta e pianeta. Il sole appariva grande appena quan-to un’arancia, ma illuminava via via tutti pianeti e i lorosatelliti. Notai pure che potevo variare l’angolo di visua-le e ingrandire i particolari con apposite manopole.

Tutto questo mi assorbì e mi fece dimenticare i mieiproblemi più immediati. Quando mi staccai da quellatastiera mi accorsi che era passata quasi un’ora. Mi atti-rava. Era come viaggiare per l’universo e vedere i mondipiù fantastici. Volevo giocarci ancora.

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Ma l’incantesimo si era rotto! Mi erano tornate allamente le domande irrisolte e stabilii che al prossimoincontro mi sarei fatto dire tutto ciò che mi incuriosiva.Speravo che la mia condanna a morte non fosse ancoradefinitiva. Speravo di poter convincere la bella Arvea arisparmiarmi, facendomi tornare al mio mondo.Perché, adesso dove ero?

Mi sentivo lucido e confuso allo stesso tempo.Questa atmosfera mi appariva terribile da una parte, maancora inconsistente e irreale dall’altra. Mi appariva lon-tano adesso il mio mondo.

Cambiai angolazione alla mia finestra e potei vede-re le montagne e il paesaggio circostante. Ero di nuovosulla Terra, sul Pizzo dei Tre Signori. Pensai a Sara conil suo raffreddore. Forse anche lei pensava a me, cre-dendomi chissà dove. Non avrebbe mai potuto imma-ginarmi in una simile situazione.

Mi persi in ricordi di me e Sara. Ricordai la primavolta che l’avevo conosciuta. Mi avevano subito colpitoi suoi occhi neri. Mi aveva attratto il suo sedere cosìrotondo e perfetto nell’insieme della sua figura. Stetticosì perdendomi in ricordi piacevoli di me e di Sara. Masenza accorgermene mi ritrovai a considerare la mianuova realtà, anche se mi rifiutavo ancora di accettarla.

Pensai alla notte passata con Sonia. Questo mi scal-dò un po’ il cuore, il ricordo era ancora vivo. Mi chiesise l’avrei più rivista, accarezzata, amata. Pensai ai suoi

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discorsi filosofici. Come sarebbe stata felice lei al mioposto! Lei, così istruita, curiosa.

Avrei più rivisto la mia casa? Mia madre? La miafamiglia? Mi stava prendendo uno scoramento, sulquale per un po’ indugiai.

Reagii! Non volevo intristirmi. Avevo bisogno ditutta la mia lucidità per affrontare questa situazione icui sviluppi mi erano del tutto ignoti, salvo il fatto cheavrei dovuto morire.

Ma non è forse così tutta la vita? Quali certezze cioffre? Nessuna se non la morte: unica certezza di que-sta esistenza. Eppure viviamo senza chiederci un per-ché. Perché viviamo? Perché non sappiamo niente?Perché il Dio che ci ha creato ci tiene nella più comple-ta ignoranza, salvo le quattro scemate che ci propinanoi preti di tutte le religioni?

Sapevo che la vita poteva sfuggirmi. Senza risposteadeguate che senso ha una vita? E’ sprecata senza nes-suna conoscenza in più di quando si è nati.

Fatti non foste per viver come bruti ma per conseguir virtude e conoscenza Dante Alighieri, ancora! E quali conoscenze avevo

approfondito? Solo adesso volevo conoscere, saperetutto. Prima quando Sonia aveva accennato a questecose mi avevano sì incuriosito, ma se non ci fosse stataquesta nuova esperienza forse non mi sarei più chiestoniente, trasportato dal vivere quotidiano e dall’indiffe-

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renza generalizzata. Adesso avevo questa occasioneunica e potevo avere le risposte!

Arvea aveva detto che bisognava soddisfare l’ultimodesiderio di un condannato a morte. Avrei chiesto a leile mille domande che i discorsi di Sonia avevano stimo-lato e che adesso mi tormentavano. Mi decisi!

Premetti il bottone di chiamata del robot, cheapparve con una sollecitudine che non immaginavo.

“La Signora ti aspetta?” “Sono pronto, vengo subito.”Lo seguii, ma non andammo nel salone di coman-

do. Mi condusse attraverso vari corridoi in una cabinamolto spaziosa. Mi fece accomodare e mi disse di aspet-tare. Doveva essere la camera di Arvea.

Lei si fece attendere. Quando apparve ogni miaimpazienza si placò. La sua sola presenza aveva dissoltoin me ogni timore, anche se la sua bellezza mi turbava.Restai muto a guardarla.

Sedendosi di fronte a me disse: “Parlami della gra-titudine e del perché io dovrei esserti riconoscente.”

Non sapevo più cosa dire, ma lei mi incoraggiò conlo sguardo.

“Quando mi sono avvicinato a te, l’unica miapreoccupazione era che tu fossi ferita. Non mi importa-va in quel momento se tu eri umana o di un altromondo qualsiasi. Vedevo in te solo un essere che avevabisogno di aiuto e come tale volevo trattarti.”

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Il mio discorso ebbe un certo effetto su di lei. La sua voce si addolcì: “Quindi non t’importa se io

sono di un altro mondo? Tu mi vedevi come un esserebisognoso di aiuto?”

Sorrideva mostrandosi in tutta la sua radiosa bellezzamentre gonfiava i polmoni evidenziando i seni perfetti,coperti dalla leggera tuta che ne esaltava la perfezione.

Arrossii, ma non potei fare ameno di dirle: “Sì,adesso non credo che sia tu ad avere bisogno di cure.Ma prima eri pallida e sofferente e volevo sentire il tuopolso perché temevo potessi essere morta.”

“E ti importava questo?” “Certo! Per la prima volta l’uomo incontrava un

essere di un altro pianeta e questo poteva essere morto.Sarebbe stata una grossa disgrazia per l’umanità!”

“Cosa ti fa pensare che io viva possa essere di aiutoalla tua umanità?”

Mi guardò con lo stesso sguardo che avevo vistosubito dopo che si era ripresa e la cosa non mi piacque.

Costituiva quindi un pericolo per l’umanità? Eral’avanguardia di un’invasione? Cosa eravamo noi terre-stri per l’Impero, cavie da laboratorio o vivaio di schia-vi da deportare su altri mondi?

Volevo sapere tutto questo, ma mi interessava di piùsapere quale fosse la realtà dello spazio. Ritenevo che leifosse a conoscenza di tutti questi segreti, che noi dalnostro piccolo pianeta, sperduto nell’immensità della

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galassia e dell’universo, non potevamo che abbozzare. Inostri ridicoli telescopi riescono a vedere solo cose chenon sono più. Volevo che lei mi fosse amica e si confi-dasse, raccontandomi dei suoi viaggi, dell’ImperoGalattico cui mi aveva accennato il robot.

“Vorrei che fossimo amici e che tu mi raccontassidell’Impero Galattico, delle tue imprese spaziali. E’possibile questo?”

I miei occhi imploravano più della mia voce. Lei si addolcì. “Dammi un motivo perché io debba

rivelarti ciò che all’uomo non è dato sapere. Ci è nototutto di voi, eppure non abbiamo mai ritenuto necessa-rio metterci in contatto con voi.”

Mi guardò divertita aspettando da me una risposta.“E’ così allora? Ma perchè?... Non riesco a capire!” “Dammi un motivo ed io ti svelerò tutto!” Mi sentivo alle strette, lei mi stava valutando ed io

non volevo mostrarmi stupido. Sapevo di essere intelli-gente, ma lei era al disopra di ogni altra persona con cuiavevo avuto a che fare in passato. Mi intimidiva. Mimetteva a disagio, come mi succedeva da bambino conuna mia professoressa di matematica. Non dovevoarrendermi, volevo sapere ad ogni costo.

Ricordandomi della decisione presa nella cabina:“Tu mi hai condannato a morte, perciò quel che midirai non potrò mai rivelarlo a nessuno. Consideralol’ultimo desiderio di un condannato a morte. Ti basta?”

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“Sì, mi basta!” disse sorridendo compiaciuta, “E’ iltuo ultimo desiderio. Ma non sono sicura che tu possacomprendere.” Fece una pausa studiandomi e aggiun-se: “Fammi delle domande e io cercherò di farti capire,aiutandomi anche con immagini se vorrai.”

“Da dove vieni e chi sei?” “Vengo dal centro della galassia di cui fa parte

anche questo sistema solare. Al centro i sistemi stellarie i pianeti sono più vicini ed esiste un Impero che li diri-ge ormai da millenni. Io sono una pedina dell’Impero,mi occupo di esplorazioni e supervisiono l’amministra-zione nei suoi confini. Ho pieni poteri, anche di vita edi morte! Lo stesso Imperatore mi teme e per evitarmimi spedisce in giro per l’universo.”

C’era tanta fierezza in lei e sentivo che ciò che dice-va era vero, anche se mi sembrava inverosimilmenteimpossibile.

“Perché la Terra è all’oscuro di tutto questo?Perché non vi rivelate e non integrate noi terrestri nelvostro sistema?”

Sorrise divertita: “Vuoi proprio saperlo?” mi scruta-va valutandomi. “Non ti piacerà questa mia risposta!”

Continuava a guardarmi e io feci un cenno decisoperché continuasse, ormai volevo andare fino in fondo.

“Voi terrestri siete integrati nell’Impero, fate partedella nostra organizzazione sociale.” I suoi occhi brilla-rono, mi sembrò che volesse gustarsi il mio stupore. La

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sua voce divenne più calda: “Vuoi proprio saperlo?Sono sicura che stenterai a crederlo.”

Tenni i miei occhi fissi sui suoi, ostentando unasicurezza che non avevo facendole cenno di proseguire.

“Il tuo pianeta è parte dell’Impero e assolve a unafunzione molto importante. Direi che non possiamofare a meno del suo ruolo. Anche voi sulla Terra aveteluoghi che destinate a tale uso.”

Fece una pausa.“Sto cercando di farti capire uno dei grandi segreti,

gelosamente custodito, non solo dell’Impero, ma ditutta la galassia e delle galassie limitrofe. Il solo rivelarequesto segreto a chicchessia comporta la massima puni-zione, che è peggiore della morte fisica. Comporta lamorte psichica dell’individuo, la deportazione su que-sto pianeta. Non hai ancora capito ciò che voglio dirti?”

Sorrise beffarda scrutandomi.Ci fu un attimo infinito di silenzio. Mi resi conto in

quell’attimo della gravità di ciò che mi stava rivelando.Percepivo qualcosa di importante, ma non avrei maipotuto immaginare una realtà così incredibilmentesconvolgente, che era un’assurdità solo formularla.

“La vostra Terra è la prigione dell’Impero!”Tacque. I suoi occhi, che erano rimasti fissi nei

miei, ora si erano ritirati: ci fu in lei come un imbarazzo,ma fu un attimo. Tornò a guardarmi incuriosita. Volevagodere fino in fondo l’effetto di questa sua rivelazione.

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Dire che ero ammutolito e attonito non rende l’i-dea dello stato in cui mi trovavo e non riesco a trovarele parole giuste.

Forse non sono necessarie: è sufficiente che ognu-no di voi analizzi se stesso in questo momento, consi-derando di vivere nella prigione dell’Universo! Cosastate provando nel considerare questa rivelazione? Voiavete il vantaggio rispetto a me di poterne negare laveridicità, ma io non avevo questa possibilità!

L’unica cosa che seppi dire fu: “Come è possibile?” “Già, com’è possibile?” fece lei comprensiva. “Sei

pronto per saperne di più? Fammi delle domande, tisarà più facile capire.”

Mi feci coraggio, cercando qualcosa che potesseconfutare questa nuova realtà che mi si presentava comeverità!

“Una prigione prevede che ci siano dei prigionieri,che vi vengano immessi. Noi non abbiamo rapporti conaltri mondi: a parte degli avvistamenti sporadici di Ufo,non abbiamo mai visto né vediamo esseri che possanoessere considerati nuovi arrivati. E come si integranocon la popolazione? La lingua?” Ero confuso: pensavoche ciò che lei diceva potesse esser vero, ma non riusci-vo a capire come io e tutta l’umanità potessimo essereprigionieri. Quando eravamo stati deportati e come?

“Vedo che sei completamente fuori strada. Devisapere prima un’altra cosa, che non rientra nelle vostre

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conoscenze, anche se qualche barlume a volte affiora.Noi - e includo anche voi terrestri, poiché siete, alme-no nella parte essenziale, uguali a tutti gli altri esseridell’universo - noi, ripeto, non siamo esseri materiali.Siamo degli esseri immateriali! Voi direste”, si fermòper cercare l’esatto termine, “spirituali! Non siamocorpi né siamo fatti di materia. Riesci a capire questo?”

Feci cenno di sì, malgrado la cosa mi turbassealquanto ponendomi nuovi interrogativi, ma non vole-vo interromperla.

Lei continuò: “La nostra natura non ha niente a chevedere con la materia creata: è un’essenza vitale capacedi creazioni, generatrice di materia e vita, eterna eimmortale. Esistiamo da miliardi di millenni, direi dasempre. Questo vale anche per te e per tutti i terrestri.

Noi tutti”, scandì le parole quasi divertendosi nelfarlo, “siamo esseri eterni e immortali che vivono findall’inizio del tempo.”

C’era silenzio intorno a noi e quando lei tacque loavvertii in tutta la sua cruda realtà.

Avvertivo il presente come non mi era mai capitato,come se il tempo si fosse fermato e non scorresse più,mentre le sue parole fluttuavano sospese in questaassenza di tempo, risuonando: “Siamo esseri eterni eimmortali che vivono fin dall’inizio del tempo.”

Avevo la pelle d’oca. Mi sentii grande, eterno eimmortale con lei. Provai una sensazione di vera gran-

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dezza che non avevo mai avvertito prima!Continuò riportandomi alla realtà: “Nell’Impero

Galattico ci sono varie classi sociali, immutabili. Per orasappi che pochi conoscono queste cose, solo coloro chesono al potere. Gli altri conoscono solo le poche realtàche vengono loro insegnate, facendo tutti i lavori e iservizi che occorrono per continuare questo gioco infi-nito che è la vita.

Nella mia classe sociale siamo soliti, ormai damolto, usare corpi come quelli umani e lo facciamointroducendoci in questi e cambiandoli a piacimento,senza dover morire per questo, o avere sensazione dimorte. Gli altri, che non hanno e non avranno mai ilpotere, devono morire per potersi reincarnare e sonocontenti di dimenticare le esistenze precedenti, inmodo da poter iniziare ogni nuova vita con slanci rin-novati e nuovo vigore.”

Si interruppe per controllare la mia attenzione o pervedere se avevo obiezioni a ciò che stava asserendo.

“Per voi terrestri è diverso! Voi, almeno una parte,eravate come me di classe superiore, ma non aveteaccettato l’Impero, le sue usanze, le sue tradizioni: leavete contestate mettendo in discussione le basi stessedell’Impero, che si fonda su una conoscenza millenariae sulla fiducia nelle istituzioni. Voi terrestri siete in partei contestatori scomodi dell’Impero. Le autorità, nonpotendo più fidarsi di voi né potendo uccidervi, poiché

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distruggerebbero solo un corpo, vi condannano all’o-blio e all’ignoranza, mischiati coi delinquenti comuni.Questa è la vera morte dell’anima: l’ignoranza!

Perché questa possa concretizzarsi per intero, voisparite completamente in questo pianeta lontano dallerotte abituali e dai centri di comunicazione intergalatti-ci. Essendo il vostro un pianeta di periferia, si prestaperfettamente allo scopo.

Esiste la proibizione più assoluta per chiunque difarsi scoprire o mettersi in contatto con gli indigeni. E’proibito perfino avvicinarsi se non autorizzati.”

Parve godersi la sorpresa che si era da un pezzoscolpita sul mio volto, poi continuò: “Tutti gli esseriscomodi dell’Impero finiscono su questo pianeta.”

Ero allibito e riuscii a mala pena a dire: “Ma come?” “Ladri, assassini, contestatori, sognatori petulanti,

attaccabrighe, oppositori politici, vengono catturati euccisi, spogliati del proprio corpo, trattati per dimenti-care ogni cosa, surgelati e spediti, con apposite navi, sulpianeta Gea, la vostra Terra.

Venite iniettati in corpi appena partoriti da donne,che saranno le vostre madri. Partoriti nel dolore e nel-l’incertezza. Ciò rappresenta per voi la nascita. Sietecosì soggetti alle leggi di questo pianeta, alla sua igno-rante brutalità, alle malattie, invecchiamento e morte.”

Quasi a voler mitigare quanto detto continuò: “Mavoi, in quanto esseri spirituali, non potete morire, né

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essere costretti in alcun luogo. Ad ogni morte fisica,che rende libera l’essenza vitale che siete voi stessi, veni-te ancora catturati con apposite trappole poste intornoalla Terra stessa. Venite processati ancora una volta,condannati e quindi trattati per dimenticare.

E il ciclo si ripete: venite reiniettati in nuovi corpiappena partoriti. Continuate così a reincarnarvi e aber-rarvi vita dopo vita, senza che vi sia permesso di ricor-dare nulla, senza avere altre conoscenze oltre quelle cheriuscite a scoprire con la vostra intelligenza e forse gra-zie a qualche ricordo che riesce a trapelare malgrado itrattamenti.

Nessuno ricorda le vite precedenti! Malgrado ciòuna buona parte di voi crede nella reincarnazione delleanime. Ma questo è totalmente diverso dal sapere che cisono state infinite vite precedenti.”

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