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DOMENICA 22 AGOSTO 2010 / Numero 289 D omenica La di Repubblica Nonno, famiglia, solitudine, tattica, idee e geometrie di Cesare Prandelli, l’uomo che deve salvare il nostro calcio Mestiere Il allenatore i sapori Benvenuti nel paese delle mille sagre LICIA GRANELLO e MICHELE SERRA l’incontro Yunus, trent’anni di microcredito LAURA PUTTI cultura Baby Art, il museo è un luna park GIUSEPPE MONTESANO e MARIO SERENELLINI l’attualità L’uomo che fotografa i ghiacciai FEDERICO RAMPINI DARIO CRESTO-DINA spettacoli Il presidente Havel torna in scena NICOLA LOMBARDOZZI FOTO MASSIMO SESTINI/OLYCOM FIRENZE C he campionato sarà quello che comincia domenica prossima? Senza Mourinho, dopo i fallimenti di Ca- pello, Lippi e Maradona il mister tornerà a essere un insegnante di calcio? E sulla scena gli attori saranno uomini, bambini viziati o ragazzi cattivi? Lo domando a Cesare Prandelli, cinquantadue anni, nuovo commissario tecnico della Nazionale. Si parte da lontano, da che cosa c’è o ci dovrebbe esse- re dentro un mestiere fortunato. Il mestiere di allenare può conte- nere un desiderio, nient’altro. Chi è nato povero sa che è molto me- glio desiderare che possedere. Finché non si possono toccare, le meraviglie inseguite racchiudono in sé qualcosa di magico. A Orzinuovi il nonno di Prandelli aveva una piccola azienda di acque minerali e bibite, ogni sera riuniva figli e nipoti attorno al ta- volo della cucina, contava l’incasso della giornata, metteva i soldi in una scatola e, prima di nasconderla nel tiretto più basso della stufa, teneva da parte una manciata di monete che buttava sul pa- vimento ai bambini. Cesare era il solo a non raccoglierle. Non vo- leva chinarsi verso un’elemosina, voleva guadagnarsi il suo Nata- le. Agognarlo. Lo fa ancora adesso. È rimasto là, nella fila di quelli che desiderano. Dice: «Certo, mi dà fastidio non avere vinto nulla, se non due scudetti e un Viareggio con le giovanili, ma so che suc- cederà presto. Io sono fortunato». Ma subito insiste sulla relatività di fortuna e sfortuna, ricorda la parabola dei due contadini dai po- deri confinanti, uno che smarrisce la vacca più bella della stalla e l’altro che gli fa pesare la disgrazia, ma il primo dopo qualche gior- no ritrova la mucca nel bosco e con lei un cavallo, la sfortuna ha ge- nerato una fortuna, e i due vanno avanti all’infinito tra miserie e ric- chezze, figli strappati dalle guerre e affetti riguadagnati, carezze e rovesci della sorte, perdendo la misura dei destini paralleli. (segue nelle pagine successive) di Repubblica Nazionale

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DOMENICA 22 AGOSTO 2010 / Numero 289

DomenicaLa

di Repubblica

Nonno, famiglia, solitudine, tattica,idee e geometrie di Cesare Prandelli,l’uomo che deve salvare il nostro calcio

MestiereIl

allenatore

i sapori

Benvenuti nel paese delle mille sagreLICIA GRANELLO e MICHELE SERRA

l’incontro

Yunus, trent’anni di microcreditoLAURA PUTTI

cultura

Baby Art, il museo è un luna parkGIUSEPPE MONTESANO e MARIO SERENELLINI

l’attualità

L’uomo che fotografa i ghiacciaiFEDERICO RAMPINI

DARIO CRESTO-DINA spettacoli

Il presidente Havel torna in scenaNICOLA LOMBARDOZZI

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FIRENZE

Che campionato sarà quello che comincia domenicaprossima? Senza Mourinho, dopo i fallimenti di Ca-pello, Lippi e Maradona il mister tornerà a essere uninsegnante di calcio? E sulla scena gli attori saranno

uomini, bambini viziati o ragazzi cattivi? Lo domando a CesarePrandelli, cinquantadue anni, nuovo commissario tecnico dellaNazionale. Si parte da lontano, da che cosa c’è o ci dovrebbe esse-re dentro un mestiere fortunato. Il mestiere di allenare può conte-nere un desiderio, nient’altro. Chi è nato povero sa che è molto me-glio desiderare che possedere. Finché non si possono toccare, lemeraviglie inseguite racchiudono in sé qualcosa di magico.

A Orzinuovi il nonno di Prandelli aveva una piccola azienda diacque minerali e bibite, ogni sera riuniva figli e nipoti attorno al ta-volo della cucina, contava l’incasso della giornata, metteva i soldi

in una scatola e, prima di nasconderla nel tiretto più basso dellastufa, teneva da parte una manciata di monete che buttava sul pa-vimento ai bambini. Cesare era il solo a non raccoglierle. Non vo-leva chinarsi verso un’elemosina, voleva guadagnarsi il suo Nata-le. Agognarlo. Lo fa ancora adesso. È rimasto là, nella fila di quelliche desiderano. Dice: «Certo, mi dà fastidio non avere vinto nulla,se non due scudetti e un Viareggio con le giovanili, ma so che suc-cederà presto. Io sono fortunato». Ma subito insiste sulla relativitàdi fortuna e sfortuna, ricorda la parabola dei due contadini dai po-deri confinanti, uno che smarrisce la vacca più bella della stalla el’altro che gli fa pesare la disgrazia, ma il primo dopo qualche gior-no ritrova la mucca nel bosco e con lei un cavallo, la sfortuna ha ge-nerato una fortuna, e i due vanno avanti all’infinito tra miserie e ric-chezze, figli strappati dalle guerre e affetti riguadagnati, carezze erovesci della sorte, perdendo la misura dei destini paralleli.

(segue nelle pagine successive)

di

Repubblica Nazionale

32 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 22 AGOSTO 2010

la copertinaIl mestiere di allenatore

Il nonno che nascondeva i risparmi nel tiretto della stufa, la storia del contadinoche perde la vacca migliore ma trova un cavallo, l’etica del lavoro duronel “paese delle scorciatoie”,una vita da mediano che sentiva crescereuna vocazione più grande: insegnare il calcio. A una settimana dalla ripresadel campionato, incontro con Cesare Prandelli, artigiano di professione ct

‘‘Lo sguardoMi accorsi che avevo smesso di guardare

la partita con l’occhio piccolo del giocatoreche crede di recitare uno spettacolo privato

‘‘La geometriaIl calcio è semplice, geometrico

Nello sviluppo del gioco non esistono schemiGli schemi si applicano soltanto su palle inattive

‘‘La tecnicaNon c’è più nulla da inventare, ci hanno provato

i tedeschi in Sudafrica. La differenza la fannotecnica, velocità di esecuzione e possesso palla

(segue dalla copertina)

«Prendi la cosa peg-giore che può suc-cedere a un allena-tore: il licenzia-mento. Spesso l’e-sonero è un bene, ti

permette di guardarti dentro per capirese e dove hai sbagliato. Puoi imparare asdrammatizzare. Quando Zamparini micacciò dal Venezia alla quarta giornata dicampionato, mi spaccai la testa per setti-mane. Che faccio? Adesso che faccio? miripetevo ossessivamente. Fino a quandoun giorno ho cominciato a giocare a golf».

La casa di Cesare Prandelli è in via del-la Torre del Gallo, sopra Firenze, un po’ diverde e di vento, tanto cielo. Sulla soglia sista accomiatando qualcuno della Fio-rentina. È passato a dargli le ultime noti-zie. Due giocatori si sono separati dallamoglie, uno di loro vuole fargli sapere diavergli lasciato una lettera al bar, l’uomogli dice che gliela porterà. Al piano terra

un tapis roulant, molti libri, nessuno dicalcio, cataloghi d’arte, quadri moderniai muri, una piccola scrivania con uncomputer portatile, un tavolo da lavorodegli anni Cinquanta con lo stantuffo del-la morsa di legno, fotografie della moglieManuela che non c’è più, un gagliardettodella Nazionale. Prepara il caffè, dopoche lo abbiamo bevuto risciacqua le taz-zine. «È la solitudine che mi fa essere or-dinato», dice. Bisogna cancellare anchele tracce della nostra presenza per ingan-narla. Il figlio Nicolò si è sposato e lavoraa Parma, la figlia Carolina rimarrà un an-no in Inghilterra per motivi di studio.«L’allenatore è sempre solo. Fino a quan-do non si confronta con la squadra. Nonposso dire di avere amici tra i colleghi, hofrequentato a lungo solo chi ha fatto il cor-so con me a Coverciano: Colomba, San-dreani, Novellino».

Questo è un mestiere che si inizia a in-dossare quando se ne pratica ancora unaltro. Per lui cominciò nell’ultima stagio-ne alla Juventus e nell’autunno della car-riera a Bergamo. «Mi accorsi che avevosmesso di guardare la partita con l’occhio

piccolo del giocatore, con il narcisismo dichi crede di recitare uno spettacolo pri-vato. Nei ritiri i ragazzi bussavano alla miacamera, mi chiedevano consigli. Non eroun campione, cercavo di farmi apprezza-re per qualcos’altro. Sotto la maglia di cal-ciatore ho cominciato a sentirmeneun’altra». Nell’Atalanta un ginocchio loabbandona, si fa operare ma i medici gliconsigliano di smettere se non vuole ri-schiare di rimanere zoppo. «Ho trenta-due anni, dico a Emiliano Mondonico:vado a Orzinuovi e mi cerco una squadradi bambini, mi piacerebbe insegnare cal-cio. Lui mi fa: aspetta, parlo io con il pre-sidente. Cesare Bortolotti mi propone direstare, c’è un posto nelle giovanili. Mo-rirà dieci giorni dopo, durante i campio-nati mondiali del ’90. Faccio appena intempo a dirgli grazie».

Sono tre mesi che Prandelli si doman-da che cosa può fare per l’Italia. «Non houna risposta, rifletto su come sia statopossibile che una squadra campione delmondo non sia riuscita a farsi amare e siaandata in giro a prendere fischi. Se i tem-pi non cambiano, dobbiamo provare a

cambiarli noi. Forse bisogna tornare allasemplicità. Mi piace il paragone con il la-voro dell’artigiano, il falegname che tor-na a usare il talento delle mani e che sa dinon potere costruire un letto in un gior-no. Stiamo annegando nel calcio dei pa-radossi. Ci sono autisti che in due mesi di-ventano dirigenti o procuratori, buonicalciatori che dopo un colpo di tacco ven-gono celebrati come campionissimi e sifa fatica a convincerli che si è trattato di unepisodio, genitori che abdicano al lororuolo, presidenti che promettono di pun-tare tutto sui giovani salvo poi farli fuoridopo due sconfitte perché in realtà ciòche vogliono è il risultato e lo vogliono su-bito, anzi, se esiste una scorciatoia daqualche parte sono già lì che prendono larincorsa. Questo è il paese delle scorcia-toie. Io predico ai miei giocatori: non tut-to vi è dovuto, dimostratemi che sapeteessere generosi e curiosi. L’altro portadentro di sé una cultura, avere l’umiltà divolerlo conoscere ci arricchisce».

La semplicità è la lente di ingrandi-mento attraverso la quale guarda la suaprofessione. «Il calcio è semplice, forse

geometrico, per dirla con Zeman. Nellosviluppo del gioco non esistono schemi.Gli schemi si applicano soltanto su palleinattive. Dopo l’Olanda di Cruijff, fu rivo-luzionaria l’Italia dell’82 in Spagna. Bear-zot giocava con due punte, due mezzepunte e due esterni offensivi. Scirea eraun centrocampista aggiunto, Cabrini unattaccante di fascia. Sacchi ha portatol’organizzazione al potere. Giocava già ilmartedì la partita della domenica, spo-stando la squadra in avanti di trenta me-tri creava un effetto sorpresa che schiac-ciava l’avversario nella sua metà campo.Zeman ha insegnato agli allenatori italia-ni come si attacca, è stato un maestrostraordinario della fase offensiva, unoche continua a essere studiato. Mou-rinho è un talento nel prendere la testa delgruppo, costringe Eto’o a fare il terzino,sposta Cambiasso stopper, manda inpanchina Maicon e Stankovic eppuretutti lo amano e lo temono come fosseAlessandro Magno o Napoleone. Oggi lesquadre sono organizzate. Non c’è piùnulla da inventare, ci hanno provato soloi tedeschi in Sudafrica con un 4-2-3-1 sen-

DARIO CRESTO-DINA

IN SERIE ANel 1978

debutta

in serie A

con l’Atalanta

In un anno

gioca 27 volte

e segna un gol

I SUCCESSICon la Juve

l’apice

della carriera:

tra il ’79 e l’85

vince tre scudetti

e varie coppe

europee

IN AZZURROÈ il 1979

quando

indossa

la maglia

della Nazionale

e gioca

con l’under 21LA CARRIERA

La solitudine del Mister

L’ESORDIONasce nel ’57

a Orzinuovi,

provincia

di Brescia

Nel ’74 l’esordio

come mediano

nella Cremonese

Repubblica Nazionale

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 33DOMENICA 22 AGOSTO 2010

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‘‘Il talentoNon bisogna mai frenare l’abilità dei giocatori,

mai modificare le loro caratteristichepiù istintive, anche quando sembrano un limite

‘‘La psicologiaDurante la settimana il giocatore

ti trasmette sempre qualcosa, se lo capisciin ritardo, e a me è successo, sei fottuto

‘‘La squadraQuando dalla panchina vedo la mia squadrain campo con l’idea che le ho cucito addosso

mi dico felice: questa è una squadra

za punti di riferimento. La differenza lafanno la velocità di esecuzione, cioè pen-sare in anticipo il passaggio, il possessopalla e le qualità tecniche dei giocatori.Ormai esistono soltanto due tipi di alle-natori: quello che sa far crescere i giovani,come Wenger e Guardiola, e quello che sagestire i fuoriclasse. Senza campioni l’al-lenatore conta poco e non vince più, ba-sta pensare alla Spagna che ha conqui-stato Europei e Mondiali con due tecnicidiversi. E all’Inter, di gran lunga la favori-ta del campionato che sta per iniziare, no-nostante l’arrivo di Adriano alla Roma e larinnovata Juventus di Del Neri che faràbene perché è un martello e ha il coraggiodi dire in conferenza stampa: Del Pierosta fuori. Ecco perché dobbiamo costrui-re nuovi talenti».

Mi racconta di quando allenava i gio-vani dell’Atalanta. Avevano abolito leclassifiche, ogni quaranta giorni ai ragaz-zi venivano controllati i risultati scolasti-ci e chi aveva brutti voti era escluso dalleconvocazioni. «Mino Favini era il respon-sabile del settore giovanile. Chiamavame, Vavassori, Gustinetti e Finardi e ci

raccomandava di non frenare mai l’abi-lità dei giocatori, di non modificare le lo-ro caratteristiche più istintive, anchequando le ritenevamo un limite, un’in-completezza. C’era, per esempio, Tho-mas Locatelli che faceva tutto con il man-cino. E Mino che ci ripeteva: lasciatelo inpace, si diverte, avrà tempo per usare an-che il destro. A Bergamo ho imparato chevincere è importante, ma che il vero pia-cere fisico lo provo quando dalla panchi-na vedo la mia squadra stare in campocon l’idea che ho cercato di cucirle ad-dosso e tutti hanno i tempi di gioco giusti,non solo i tempi per se stessi. E mi dico, fe-lice: questa è una squadra».

Cesare Prandelli ha frequentato dueuniversità. È stato due anni a Covercianocon Franco Ferrari, il professore, un mae-stro di tecnica e tattica. Sei a Torino, nellaJuventus di Trapattoni, Zoff, Scirea, Tar-delli, Causio, Furino, Bettega, Platini,Rossi, Boniek. Una squadra dallo spiritomilitare, unita nella divisione, spietataanche al suo interno. Nello spogliatoio sifronteggiavano due gruppi, quello di Fu-rino e quello di Bettega. Arrivò Platini, sof-

frì sei mesi, li decapitò entrambi e prese ilcomando. Boniperti piombava agli alle-namenti e scriveva con il gesso i nomi ditre giornalisti sulla lavagna: «Con questinon dovete parlare». Nessuno sgarrava.All’uscita del campo gli ultimi arrivatichiedevano le generalità all’intervistato-re che gli si parava di fronte e se era uno diquei tre scappavano via in un amen. Allafaccia dello stile Juve. «Ogni settimana or-ganizzavamo una cena in qualche risto-rante della collina. Era un nostro deside-rio, ci svagavamo, si imparava a cono-scersi. Dividevamo il conto, nulla era gra-tis. Se qualcuno beveva tre bicchieri di vi-no in più, gli altri lo fermavano. Stare as-sieme costituiva la forza di quellasquadra, anche se non posso dire vi fosseamicizia vera, se non tra Zoff e Scirea. Gayera una persona di intelligenza e bontàrare, non ha mai pronunciato un giudiziocattivo su un compagno o un avversario.Dino era taciturno, ricordo di averlo sen-tito parlare solo due volte nello spoglia-toio, ma in quelle due occasioni tutti gli al-tri si sono zittiti e hanno abbassato la te-sta sugli scarpini».

Balotelli e Cassano, se vogliono, inten-dano. «Con Cassano non ho mai litigato,gli va tolto il marchio che si è messo sullapelle. Per Balotelli vale la regola Favini: la-sciamolo divertire, per ora, e che faccia isuoi numeri da giocoliere. Il tempo con-tiene sempre la verità. Penso a Pazzini,sono assolutamente certo di non averesbagliato con lui. A Firenze era troppococcolato, non sarebbe mai cresciuto.Oggi, rispetto a venti, trent’anni fa, i gio-catori sono più individualisti. Vivonobarricati nel loro mondo e spesso quelmondo è malamente popolato. Li vediuscire da una sconfitta sorridenti, comese non gliene fregasse nulla, eppure ci so-no atteggiamenti di strafottenza che van-no interpretati nel loro esatto contrario,perché esprimono uno stato d’animo didisagio. Ho letto così il gesto degli azzurripiù giovani ai mondiali, quelle foto scat-tate con i cellulari prima della partita de-cisiva con la Slovacchia. Mi è sembrato ilsintomo di una difficoltà, di paura, una ri-chiesta di aiuto. Il lavoro fuori campo diun allenatore è questo: cercare di preve-nire i problemi, ascoltando anche i silen-

zi. Durante la settimana il giocatore ti tra-smette sempre qualcosa, se lo capisci inritardo, e a me è successo, sei fottuto».

Cesare Prandelli è un timido, come tut-ti i timidi è permaloso. Come tutti gli one-sti, di una franchezza acuminata. Ha det-to tre volte no alla Gea di Moggi, nel me-stiere non fa il padre né l’amico, è gentilema duro, la domenica dopo la partita nonparla alla squadra per non correre il ri-schio di dire cose sgradevoli, lo fa il mar-tedì, un “processo” di quasi un’ora sugliaspetti temperamentali e caratteriali.Non va a cena con i giocatori. «Sono pro-fessionisti super stipendiati. Devono as-sumersi le proprie responsabilità, se li as-secondi tendono allo scaricabarile. Sonopronto ad ascoltare i loro problemi, comeun genitore con i figli adulti. Ma c’è unmomento in cui devono tirare fuori l’ani-ma. Devono andare avanti. Da soli. Nonpossono girarsi, non possono guardarmi.Se lo fanno sono pronto a dir loro, anchecon violenza: adesso basta. Lo dovrem-mo fare di più».

(d. crestodina@repubblica. it)

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LA FAMIGLIANell’82 sposaManuela Caffida cui ha i duefigli Nicolòe CarolinaLa mogliemuore nel 2007

BARCELLONAI blaugrana di PepGuardiola, tecnicodal 2008, campionidel mondo in carica con la formula:puntare sul vivaio

ZEMANAltro modello, il tecnicoboemo: attacco totalee 4-3-3 puroQui nel suo Foggiadei miracoli anno ’89

GERMANIALa nazionaledi Joachim Löw,terza ai Mondiali2010 è, secondoPrandelli, l’unicanovità tattica: 4-2-3-1 senza puntidi riferimento

IN PANCHINACon l’Atalantail primo contrattoda allenatorePoi vengonoLecce, Verona,Venezia, Parmae Fiorentina

LA NAZIONALEIl 30 maggio2010 vienenominato ctdella Nazionaleal postodi MarcelloLippi

ITALIA ’82Uno dei modellidi Prandelli è l’Italiadi Bearzot: due punte,due mezze punte,due esterni d’attaccoe il libero dietro

Repubblica Nazionale

NEW YORK

illecinquecento morti, quattro milioni in fuga dai villaggi sommersi, unquinto del Pakistan inondato da piogge monsoniche eccezionali. L’allar-me umanitario diventa anche una minaccia politica: la disastrosa ineffi-cienza del governo pachistano trasforma la calamità naturale in un’occa-sione per l’ulteriore avanzata del fondamentalismo islamico. Anche in Ci-na l’estate si chiude sotto il segno di una tragedia, milletrecento morti so-lo nella provincia del Gansu per i violenti nubifragi, straripamenti e allu-vioni. Sono due esempi recenti della potenza distruttiva dell’acqua sca-tenata da fenomeni climatici estremi. Cina e Pakistan, con altre nazioniasiatiche che hanno il quaranta per cento della popolazione mondiale, di-pendono dalle stesse riserve idriche primordiali. Cioè i ghiacciai del Tibet.Dalle vette dell’Himalaya nascono tutti i grandi fiumi dell’Asia, il più oc-cidentale diventa l’Indus, il più orientale il Fiume Giallo. In mezzo ci sonoi due fiumi sacri dell’induismo, Gange e Brahmaputra. I due fiumi del-l’Indocina, Mekong e Irrawady. Lo Yangze che traversa tutta la Repubbli-ca Popolare fino a Shanghai. Sono i maestosi corsi d’acqua che hanno ali-mentato le civiltà più antiche nella storia dell’umanità. Oggi possono ri-voltarsi contro di noi. O semplicemente abbandonarci e sparire, come inampi tratti della Cina ha fatto il Fiume Giallo. Inaridito, sterile.

Troppo pieni o troppo secchi, all’origine delle convulsioni dei fiumiasiatici c’è una causa comune, è lo scioglimento e la grande ritirata deighiacciai sull’Himalaya. Lo documenta un’importante esposizione fo-tografica all’Asia Society di New York, Rivers of Ice, “Fiumi di Ghiaccio”.È una mostra che farà il giro del mondo, andrà anche in Cina e in India,nella speranza di smuovere le classi dirigenti locali. La sua peculiarità: perla prima volta esibisce al pubblico le prove fotografiche, raccolte con ri-gore scientifico, che il cambiamento climatico sta provocando una forteriduzione nel volume dei ghiacciai tibetani. Dietro c’è un uomo straordi-nario, anzi due, che si “parlano” a un secolo di distanza. David Brea-shears, cinquantacinque anni, è il più celebre alpinista-fotografo ameri-cano. Dopo essere diventato una star acclamata anche a Hollywood, daanni si dedica a tempo pieno alla causa dei ghiacciai morenti in Tibet conla sua organizzazione Glacier Research Imaging Project. Il suo alleato difatto è un italiano che lo precedette cent’anni fa, il padre nobile della fo-tografia alpina, Vittorio Sella. Dal dialogo ideale tra Breashears e Sella ènata questa operazione senza precedenti: il raffronto sistematico tra ighiacciai dell’Himalaya come sono oggi, e come erano all’inizio del No-vecento.

Incontro Breashears al suo ritorno a New York dopo una delicata mis-sione in Cina. È andato a raccogliere fondi e a negoziare con le autorità,per rendere possibile una tournée dell’esposizione Rivers of Ice a Pechi-no, Shanghai e Shenzhen. «Il cambiamento climatico — mi dice — è untema scottante e controverso nel mondo intero. Sappiamo quanto tem-po è stato speso per rintuzzare gli attacchi dei negazionisti. Io non voglioentrare in contese politiche, mi limito a usare la forza delle immagini.L’impatto di queste fotografie è chiaro, non c’è bisogno di aggiungere unsovrappiù di polemica. L’acqua che scorre nelle pianure più popolose delpianeta è minacciata, i fiumi da cui dipende la sopravvivenza di due mi-liardi di persone oggi corrono un pericolo mortale. La spiegazione è tut-ta in queste foto. E senza il lavoro da pioniere di Vittorio Sella forse nonavremmo mai potuto raggiungere una conclusione così chiara, o rap-presentarla in modo così efficace».

Breashears ha lasciato la sua impronta sulle vette più inaccessibili delpianeta. Primo americano a espugnare per due volte l’Everest, ci è tor-nato per un totale di otto volte e ha anche realizzato la prima diretta tele-visiva della storia da quella cima. La passione congiunta per l’alpinismoe per la fotografia ne ha fatto un’autorità in campo cinematografico. Havinto quattro Emmy Awards, il più importante per il documentario Eve-

l’attualitàSenza acqua

L’uomo che guardasciogliersi i ghiacciai

David Breashears è il più celebre alpinista- fotografoamericano. Dopo essere diventato una star a Hollywoodha capito la sua missione: testimoniare come il cambiamentoclimatico stia facendo sparire le riserve idriche himalayaneMa per farlo, racconta, ha avuto bisogno dell’occhioe della memoria del più grande pioniere: Vittorio Sella

KANGCHENJUNGA 1899. Fotografia di Vittorio Sella

SCALATORI

In alto, DavidBreashears, alpinista,fotografo, cineasta,

e ideatore del GlacierResearch Imaging

Project. La sua mostraRivers of Ice

sta facendo il giro del mondo

In basso, Vittorio Sella (1859-1943),

grande alpinista e padre

della fotografiadi montagna

restrealizzato con la tecnica Imax. C’è la sua mano invisibile anche dietroalcuni grandi film commerciali: fu lui a guidare gli scalatori del filmCliffhanger con Sylvester Stallone e Sette anni in Tibet con Brad Pitt (sul-la vita del Dalai Lama da giovane). Ha vissuto in presa diretta la più gran-de tragedia dell’alpinismo contemporaneo: interruppe le riprese del do-cumentario Everest per partire in soccorso alla spedizione dove moriro-no otto dei più grandi scalatori mondiali nel 1996. Ma a un certo puntodella sua vita alpinismo e cinema non gli sono bastati. «Ho conosciuto —dice Breashears — il grande alpinista inglese Sir Edmund Hillary e mi è ri-masta scolpita una sua frase: ricordati che nella vita devi riuscire a farequalcosa di più importante che scalare montagne. Lui ci è riuscito, nel Ne-pal lo ricordano non come rocciatore ma per gli ospedali che ha costrui-to». Per Breashears l’occasione si presentò nel 2007, quando la rete tvamericana Pbs gli chiese un servizio sull’impatto del cambiamento cli-matico nell’Himalaya. Una sfida doppiamente difficile sul piano tecnico.Da un lato perché occorreva restituire nelle immagini la profondità, lospessore volumetrico di ghiacciai che si trovano in luoghi inaccessibili.D’altro lato era indispensabile trovare qualche traccia del passato deighiacciai, visibile e documentabile, comprensibile anche per un vastopubblico. È qui che la “memoria italiana” è venuta in soccorso a Brea-shears. «Da ragazzo — ricorda — dopo i miei esordi in Colorado frequen-tavo regolarmente le Dolomiti ed ero già un ammiratore della grandescuola italiana di roccia: i Ragni di Lecco, i primi free-climber della storia,Riccardo Cassin, Walter Bonatti. Ma quando cominciai a imbattermi nel-le opere di Vittorio Sella, nelle librerie antiquarie, scoprii un’altra dimen-sione. Sella era un vero artista dell’immagine, un genio dell’inquadratu-ra, il maestro per molte generazioni di alpinisti-fotografi».

Nato a Biella nel 1859 in una dinastia dell’industria tessile, iniziato al-l’alpinismo dal celebre zio Quintino (ministro delle Finanze dal 1862 al1873), Vittorio Sella fu protagonista delle prime storiche imprese sull’Hi-malaya: con lo scalatore inglese Douglas Freshfield nel 1899, poi soprat-tutto con il Duca degli Abruzzi sul Karakorum nel 1909. Per Breashears lascoperta delle fotografie custodite a Biella dalla Fondazione Sella è statauna svolta. In quell’archivio del primo Novecento c’è l’elemento indi-spensabile, il punto di confronto. È una monumentale banca-dati sullostato dei ghiacciai tibetani all’inizio del secolo scorso. Ripreso con unaminuzia meravigliosa, da quello che Breashears definisce «un artista-scienziato», ricco di sensibilità estetica, capace di una tenacia maniacaleper raggiungere le postazioni più impervie da cui scattare foto “impossi-bili”. «L’anno scorso — racconta Breashears — sono stato sul Karakorumper rifare tre servizi fotografici esattamente dove li fece Sella. Un’impre-sa tremenda, gli sherpa erano spaventati, non capivano l’ostinazione concui volevo raggiungere dei punti così pericolosi. Ogni volta che torno dauna di queste spedizioni il mio rispetto per Sella aumenta. Lui e i suoi com-pagni avevano una preparazione da autodidatti, se paragonata all’adde-stramento di oggi. Avevano mezzi arcaici. Eppure riuscirono a fare cosedi una difficoltà impressionante. A un profano che guardi con occhio di-stratto queste foto di ghiacciai può sfuggire l’immensa difficoltà per far-le. È duro trovare la veduta giusta, che non sia ostruita da qualche mon-tagna, che dia un’idea precisa della massa di ghiaccio. Nel mio lavoro cisono tanti ostacoli da superare, bisogna trovare gli uomini adatti, i fondiper finanziarsi. Sella però me ne ha tolto uno: non ho bisogno di cercarela postazione giusta, basta che raggiunga il punto dove scattò lui, mi la-scio guidare».

Nel gioco di dissolvenza delle immagini che accoglie i visitatori dellaAsia Society, una grande distesa bianca immortalata da Sella lascia il po-sto a un’immagine di Breashears dove il candore delle nevi eterne si è rat-trappito in altura, e dietro la sua via di fuga ha lasciato una lunga scia ne-ra, una vallata di pietre e terra nuda che sembra una cicatrice oscena.

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FEDERICO RAMPINI

34 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 22 AGOSTO 2010

Repubblica Nazionale

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 35DOMENICA 22 AGOSTO 2010

“Ogni volta che tornoda una di questespedizioni il mio rispettoper Sella aumenta”

“Non c’è bisognodi cercare la postazionegiusta, basta trovareil punto dove scattò lui”

BALTORO 1899. Fotografia di Vittorio Sella BALTORO 2009. Fotografia di David Breashears

JANNU 1899. Vittorio Sella JANNU 2009. David Breashears

LILIGO 1899. Vittorio Sella LILIGO 2009. David Breashears

KANGCHENJUNGA 2009. Fotografia di David Breashears

KANGCHENJUNGA 1899. Vittorio Sella KANGCHENJUNGA 2009. David Breashears

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Repubblica Nazionale

PARIGI

Sui tralicci di ferro del CentrePompidou, quest’estate, so-no spuntati i funghi. Tre sul-la facciata: escrescenze di le-

gno e cartone, in forma di capanno, di ni-do di rondine, materiali asimmetrici, av-vinghiati da un giorno all’altro al giocat-tolone high tech di Renzo Piano. Sono leincrostazioni urbane che lo scultored’architettura e spazi Tadashi Kawama-ta fa fiorire dove capita: stavolta a Parigi,chiamato dall’Atelier des Enfants, che gliha affidato in questi mesi i laboratorid’arte con i bambini. Lui non ha chiestocolori e pennelli, ma cartone da imbal-laggio, facendo lavorare le mini-mae-stranze su temi come il paesaggio, lacittà, il labirinto e, infine, la Torre di Ba-bele, sul “modello” di Brueghel. Mesid’immaginazione, arrotolando e pie-gando i cartoni, ora diventati un dome-stico grattacielo, innocente “Babylo-nia”. È da quando il Centre Pompidou èstato inaugurato che i workshop infanti-li spulciano la grande mostra di turno,Bacon, Chagall, i futuristi. L’anno scorsoè toccato ad Alexander Calder, con l’Ate-lier trasformato in cantiere di tavole a in-castro e silhouette sospese, in cerca de-gli equilibri di stabiles e mobiles, con unbel formicolio di fil di ferro, da girare e ri-girare fino a farne figurine, come la Jo-séphine Baker dai seni a molla dell’arti-sta-ingegnere.

Parigi è un’esplosione di “botteghe”dove l’arte è rimessa in gioco dalle idee diminuscoli apprendisti stregoni, che lerestituiscono il divertimento e la libertàda cui è nata. Al Musée en Herbe, da tren-tacinque anni il frullatore più vivace diforme e colori di cui il bambino è mae-

stro, una serigrafia seriale di AndyWarhol, la Mucca, ha partorito mandriebovine nate dal latte in cartone e in bot-tiglia: tappi per gli occhi, i cartoni da unlitro per il corpo (da mezzo litro per i vi-telli). Via bricolage, è stata un’andata-ri-torno arte-pubblicità, creatività-ripro-duzione industriale, binomi in altalenadella Pop Art. Ora il Musée en Herbe è oc-cupato da Salvador Dalì e i suoi amicisurrealisti. Prima di perdersi tra orologimolli ed elefanti sui trampoli, passandoper una porta, naturalmente molle, do-ve si rizzano i baffi vanesi dell’artista-di-vo, la giovane animatrice guida il grup-petto in una gimcana di allegre provoca-

zioni, quelle della mostra a New York del1942, dal Violon d’Ingresdi Man Ray allaGioconda con i baffi di Marcel Du-champ. Qui il bambino potrà tra l’altrointervenire su Leonardo o “baffeggiare”,di rimando, la foto di Duchamp. E nel-l’attigua officina potrà praticare tecni-che surrealiste, come il frottage e il grat-tage di Max Ernst per le sue foreste. Oggitocca al collage: carte veline e colla perpersonalizzare la maestosa Rosa medi-tativa, floreale disco volante che Dalì hamesso all’occhiello del cielo.

Nel Paese dei Balocchi (intelligenti)che sono i musei di Parigi, l’arte non vamai in vacanza. A Les Arts Décoratifs, tra

eleganti gazzelle liberty e i serpenti diNiki de Saint Phalle, tra Paperino eSnoopy, la mostra “Animal” conduce ibambini nella terra di mezzo in cui bestiae uomo si prendono in prestito: tra unbabbuino in veste da camera e una don-na in pelliccia di leopardo, dov’è il di-stinguo uomo-animale? Nelle maliziedel clin d’oeil, s’innesta la mostra che al-la Fondation Cartier Takeshi Kitano,adorabile compagno di giochi in L’esta-te di Kikujiro, ha conce-pito come gioioso lunapark, Disneyland auto-biografica, con nuoveteorie sull’estinzionedei dinosauri, che ibambini possono ridi-pingere fino a ottene-re l’esemplare di lorogusto. Qui e altrove, ilprimo invito delleanimatrici è di esplo-rare e giudicare libe-ramente. «Guardatecon attenzione e diteche cosa vedete». Loscopo non è di pla-smare dei neo-Ma-tisse, ma di alfabe-tizzare i piccoli ailinguaggi visivi: deci-frare, distinguere, capire, imparare. Ve-dere l’arte è arte del vedere, direbbe Ern-st. Ampliarsi gli orizzonti, entrare nellascatola dei giochi per smontarli e co-struirne a propria misura. Baby Artcomeconfronto adulto, tra grandi e piccoli.

In Italia, ne sono stati paladini BrunoMunari, che per l’Einaudi-Bambinireinventava le fiabe (Cappuccetto Ver-de, Giallo...) e nelle personali mostravache pittura a olio può essere anche d’oli-va (di Puglia, di Sicilia...), e Gianni Roda-ri — celebrato, nel trentesimo della mor-

In Francia, e in poche oasi felici anche in Italia, i museihanno ormai cambiato prospettiva: Chagall, Dalì,Calder, Warhol non sono mostri sacri, ma strumenti

per insegnare ai bambini. Così dal Centre Pompidoualla Fondation Cartier, soprattutto d’estateanche le grandi istituzioni culturali

si trasformano in scatole di giochi colorate

CULTURA*

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MARIO SERENELLINI

L’atelier è un luna park

ARAGOSTA SENZA FILIIl famoso Telefonoaragosta di Dalìe la sua riproduzionerealizzatada un bambinoal Musée en Herbedi Parigi

Repubblica Nazionale

te, più in Francia che in Italia —che in Grammatica della fanta-

sia metteva l’esperienza al cen-tro del processo creativo. Nel no-

stro Paese, non mancano qua e làmicro-oasi di riscatto. Ma la favola,

per i piccoli, è la Francia. Libri tipoComment parler d’art aux enfants di

Françoise Barbe-Gall (Le Baron Per-ché), il periodico Paris Mômesdi Libéra-tion, le cine-rassegne L’enfance de l’artsono un laboratorio permanente, comela rivista Dada, puntigliosa e accattivan-

ParigiCENTRE POMPIDOU

Affidato quest’annoall’artista giapponeseTadashi Kawamata:i bambini realizzanoopere con cartone

d’imballaggio

BolognaMAMBO

Da sempre impegnatoin attività didattiche

per bambini, il museobolognese ha vinto

il premio “Alta qualità per l’infanzia”

LioneMAC

La prima personale di Ben ha occupato

tutti gli spazi del Muséed’Art Contemporain

Anche con atelier per bambini

ParigiMUSÉE EN HERBE

“La nostra è una pedagogiabasata su gioco e humour”,

dice Sylvie Girardet, direttriceOgni stagione percorsididattici con manuale

per l’uso

luta una vita per imparare a disegnarecome un bambino». O, sintetizza un pic-colo protagonista, in On peut le voir com-me ça (Flblb), che documenta un ateliernella regione Poitou-Charentes: «Quan-do guardo un’immagine, non è comenella realtà. Le immagini sono delle granbugiarde, come Joséphine. Joséphine èmia cugina».

te, che non esita ad affrontare, nel nu-mero centocinquanta, un tema scottan-te quale l’arte contemporanea, analiz-zandone tutti gli a priori — arte ermeti-ca, noiosa, non sanno tenere in mano lamatita — aiutando ancora una volta ibambini a scorticare e capire. Con tuttolo sforzo che comporta: «Complicare èfacile, semplificare è difficile», dicevaMunari. E Picasso: «A nove anni sapevodipingere come Raffaello. Ma mi ci è vo-

CONFRONTINelle foto,À la Russie,aux âneset aux autrese La maisonbleuedi MarcChagalle La forêtdi Max ErnstAccantoa ogni operaoriginale,quellariprodottadai bambiniNell’altrapaginain basso,un figuradi Calderda colorare

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 37DOMENICA 22 AGOSTO 2010

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L’innocenzaritrovata

da PicassoGIUSEPPE MONTESANO

Forse l’arte della Modernitàcomincia con il detto enig-matico di Lao Tzu che capo-

volge la credenza che la verità ap-partiene alla vecchiaia, ai senato-ri, alle barbe: «Chi è arrivato al Taoè come un bambino appena na-to», così recita un passo del Tao-Tê-Ching. Molti fra gli artisti piùgrandi degli ultimi due secoli a uncerto punto della vita si sono ac-corti che dovevano dimenticareciò che avevano imparato, e ritor-nare a guardare il mondo con oc-chi nuovi, gli occhi appena nati deibambini: è il sogno del ritorno al-l’innocenza giovane che vede piùacutamente della saggezza sclero-tica, l’infanzia a occhi spalancati estupiti che scorge l’amato cagno-lino grande quanto una casa e lamamma che vola per aria con il fi-glio per mano come un angelo diChagall, l’infanzia più vera del ve-ro in cui la casa può essere verdecome un albero e l’albero rosso co-me un pallone. L’età di quelli cheRimbaud chiamava «i poeti di set-

te anni», i bambini avidi di meravi-glie che da sempre si schiaccianole mani sugli occhi per scorgerescintille e apparizioni.

È la rivoluzione che è esplosanel Novecento, la scoperta che perarrivare al cuore dell’arte bisognaabbandonare ciò che si sa faretroppo bene per imparare a fareciò che non è stato mai fatto, ciòche appare ora e qui per la primavolta. Da ragazzo Picasso disegnatori e toreri in ogni dettaglio comeun Goya redivivo, ma i disegni delvecchio Picasso non somiglianopiù a quelli di nessuno: e lui, arri-vato all’innocenza visionaria del-l’infanzia, evoca il toro da una so-la linea tracciata sul foglio; PaulKlee esordisce con elaborati ecomplicatissimi disegni, e finiscedisegnando figure che sembranopupazzetti fatti da un bambino ditre anni in preda all’estasi; a ot-tant’anni, Mirò dipinge come sefosse un moccioso pasticcione:con le mani e i piedi, e usando lamarmellata e gli escrementi.

Questi artisti immensi cercava-no nello sbaffo di colore e nelloschizzo imprevisto ciò che è in-confondibilmente personale per-ché viene non più solo dall’arte,ma dalla vita. Cercavano ciò che ilbambino che disegna e coloranon cerca, ma trova: la bellezzache dà gioia e risveglia dal sonnodell’abitudine. La frase di schernotante volte pronunciata, «Ma que-sto lo so fare anch’io!», deve esse-re rovesciata, e indicare una via discampo: la bellezza, se non di-menticassimo di aver avutoun’infanzia, potrebbe essere fattada tutti e per tutti.

Repubblica Nazionale

NICOLA LOMBARDOZZI

certo Bertolt Brecht. Io voglio solo far ri-flettere il pubblico, mettergli davanti unacerta realtà. Sensazioni, commenti, giu-dizi non spettano a me. Ognuno se li ve-drà a suo modo».

Anche perché le reazioni del pubblicolo hanno già sorpreso. «Mi sono accortoche certe battute che a me sembravano dicollegamento tra un discorso e un altro,qui sul set, facevano ridere tutti. Prima cisono rimasto male. Poi ho provato a ria-scoltarle cambiando atteggiamento.Provando a pensare quello che pensava-no loro. Incredibile: mi son messo a ride-re come un matto. Ho scritto un testo piùdivertente di quanto pensassi».

Accanto a lui un cast adorante e rilas-sato. La moglie Dagmar Havlova, attricedi mestiere e protagonista principale delfilm, che gioca con i due nipotini in visita.Josef Abrhám, il cancelliere, stella del ci-nema e del teatro ceco, che ha scelto untrucco che lo fa sembrare il fratello mag-giore di Havel. Alma, il boxer di famiglia,che si aggira per il giardino. Ma soprattut-to il vecchio Stanislav Milota, il fotografodi Charta 77. Con Havel ha condiviso glianni dell’opposizione. Insieme organiz-

ritorno in scena

È stato macchinistadi teatro, attore,dissidente, scrittore,operaio e il capodi Stato più amatodella Repubblica CecaOggi l’ex ragazzodella Rivoluzionedi velluto ha riunitoi vecchi compagniper dirigereil suo primo filmSiamo andatia trovarlo sul set

Havelparte, che cerca di convincerlo ad accet-tare la fine serenamente; gli avversari diun tempo, felici di poter infierire su di luicon perfidia; la moglie che gli rimproveradebolezza e finisce per lasciarlo; il fedelesegretario che resta con lui più di ogni al-tro prima di andarsene sconfitto.

Ma niente conclusioni affrettate. Ha-vel diventa serio per un attimo: «Non c’ènessun riferimento alla mia esperienzapersonale. O meglio c’è senza dubbio. Masolo nella misura in cui la vita di ogni au-tore incide sulla sua opera. Non volevocerto fare un documentario». Va bene lamodestia congenita, ma passare per unbanale scrittore di proprie memorie, pro-prio non gli va giù. Ben altri sono gli obiet-tivi del regista-presidente: «Questa è unastoria con almeno due temi. Uno è quel-lo della terza età, della pensione forzata.L’altro è quello di una certa politica cheho sempre detestato e combattuto. Lapolitica del blablabla, delle chiacchierevuote, del pensiero fisso al presente sen-za mai guardare al futuro, a cosa sarà dinoi tra cinquanta, cento anni». La mode-stia riaffiora: «Intendiamoci però. Nonvoglio dare lezioni a nessuno. Non sono

SPETTACOLI

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CIAKNelle foto,Václav Havelsul set del filmtrattodalla sua pièceteatralePartenze

Con lui, il caste lo staffdella produzionenel giardinodella villaa centocinquantachilometrida Praga sceltacome quartiergenerale: Haveldà gli ordinisedutosu unapoltronicina Ikea

38 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 22 AGOSTO 2010

Manca solo il barbecuema forse è già prontodietro la siepe, per una

bella grigliata dopo il tramonto. Sarà an-che il set di un film importante, sarà an-che l’inizio dell’ennesima vita di VáclavHavel, ma nemmeno questo giardino acentocinquanta chilometri da Pragasfugge alla regola dell’allegra combricco-la dei dissidenti di Charta 77. Gente tosta,capace anche di fare la rivoluzione ma so-lo a patto che fosse «di velluto». Hannovissuto con apparente leggerezza censu-ra, persecuzioni, carcere, perfino le dila-nianti responsabilità del potere. Figurar-si adesso che, in piena terza età, giocanoa fare i cineasti, liberi e scanzonati comestudenti in gita. Ed è tutto un vortice di ca-lici di bianchetto della Moravia, ironie lie-vi, carezze al cane di casa, abbracci e ap-plausi per ogni battuta ben riuscita.

Havel sorride, si guarda intorno e sor-ride ancora. Come quella sera dell’89 inpiazza Venceslao quando il partito co-munista filo sovietico decise di andarse-ne, di cedere alla protesta della piazza:«Sì, era da tempo che non stavo così be-ne». Porta un abito grigio presidenziale,residuato formale di tredici anni che nonsi dimenticano. Sotto però ha una vistosat-shirt colorata. Si leggono le paroleHavel

e evil, “Havel, il diavolo” o qualcosa delgenere. Siede su una poltroncina del-l’Ikea del tipo “da regista”. Dietro, qual-cuno ci ha scritto Havel con un pennarel-lo arancione. È vero che questo, a settan-taquattro anni, è il debutto in una carrie-ra che tanto ha invidiato al suo amicod’infanzia Miloš Forman, ma comunquenessuno se la sente di chiamarlo «regi-sta». Per gli amici resta Václav, per gli altriè, e sarà sempre, il Presidente.

A vederlo al lavoro, in realtà, non sem-bra né un regista, né un presidente. Fissail monitor, alterna vino freddo e caffè cal-do, dà gli ordini in perfetto stile Havel:«Ottima scena, bravissimo. Peccato soloper quella mossa finale, forse era meglioevitarla. Anche all’inizio, in effetti, avrestipotuto avere un tono più... e magari ag-giungere... Dici di rifare tutto daccapo?Ma sì, mi sa che hai ragione tu». Gentilema non è un novellino. Quando, banditodalle scuole di regime, faceva l’attrezzistaal teatro Divadlo Na zábradlí e frequenta-va un corso di drammaturgia per corri-spondenza, studiava tutte le mosse deiregisti, cercava di capire le difficoltà degliattori. E, in fondo, nemmeno un anno faa Praga, ha messo in scena proprio que-st’ultima sua pièce che oradiventerà film.

Si chiama Partenze. L’aveva comincia-ta da dissidente, ci ha pensato di tanto intanto quando era presidente della Re-pubblica, l’ha buttata giù subito dopo lapensione. E il tema sembra un po’ auto-biografico. La storia di un politico, uncancelliere di un paese imprecisato, chesi ritrova messo da parte dal suo partito,relegato in una bella villa senza più pote-re e senza niente da fare. Attorno a lui ipersonaggi inevitabili di queste situazio-ni. L’adorato delfino, passato dall’altra

CESKA SKALICE

(Praga)

Repubblica Nazionale

IL DRAMMATURGONasce a Praga nel 1936Allontanato dalle scuoledi regime, lavora comemacchinista nei teatrie studia drammaturgiaper corrispondenza

LA VITTORIAL’attività politica comedissidente gli costa cinqueanni di carcere. A capodella Rivoluzione di velluto,nell’89 è eletto presidentedella Repubblica fino al 2003

hai un senso di vuoto. Anch’io l’ho prova-to quando è scaduto il mio mandato. Cisono tante cose che se ne vanno per sem-pre, ma altre che restano, e altre ancorache arrivano all’improvviso. Ricomin-ciare è fondamentale». Entra nella villache fa da quartier generale della produ-zione. In sala mensa, Vlasta Chramo-stová, altra star del cinema locale e ve-terana di Charta 77, che interpreta lamadre del protagonista, si pettina dasola allo stesso tavolo in cui due ope-ratori mangiano zuppa di crauti e pa-ne nero. Il Presidente adora, e si vede,questa atmosfera così naif: «Lavoria-mo molto seriamente, cerchiamo difare un bel film. Non è detto vengabene. Ma ci sono cose più pericolo-se nella vita che fare un film chenon ha successo».

La prima è prevista a Praga perfebbraio. Tutta da decidere la di-stribuzione all’estero, anche se ilnome del regista dovrebbe esse-re un richiamo niente male. «Sìma ho molto pudore a pensarci.Da giovane adoravo Fellini, An-tonioni, De Sica. Non è facilepensare a un mio film in unasala italiana». Ma insommapresidente, riassumiamo: leiè stato un giovane facoltosodella Praga che conta, unmacchinista di teatro, un at-tore, un dissidente, unoscrittore, un operaio in unfabbrica di birra, un presi-dente della Repubblica,adesso un regista cinema-tografico. Ma per cosa vor-

rebbe essere ricordato? «Come politicodevo dire che sono l’unico presidentedella nostra storia a non essere andato viacon ignominia. La cosa mi piace. Ma cre-do che i politici passino, gli uomini di cul-tura restino. Forse, se qualcuno mi ricor-derà, sarà per i miei scritti. E magari per ilmio film».

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 39DOMENICA 22 AGOSTO 2010

zavano proiezioni di diapositive e fil-metti amatoriali a casa dell’uno o dell’al-tro. O rappresentavano testi proibiti nelfamoso “Teatro in casa” tanto odiato dalgoverno. Un po’ di sedie messe in fila, unproiettore in bianco e nero e un amico afar da palo davanti al portone. Insieme

La nuova vecchia vita

del presidente ribelle

LA FABBRICACon la repressione seguitaalla Primavera di Pragaviene bandito dal teatroe costretto ai lavoripiù umili, come lo scaricatorein una fabbrica di birra

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IL COPIONEDue schizzi per Audience

(1975); accanto, il copionedel film con le annotazionia mano di Havel

LA PRIMAVERANel 1968 aderiscealla Primavera di Pragae inizia un’intensa attivitàpolitica che culminacon la pubblicazionedel manifesto Charta 77

all’altro, ma a bassa voce, con l’antico to-no del cospiratore. Crede nel film, sentequanto sia importante per Havel, non lomolla un istante.

Havel continua a bearsi della venera-zione che lo circonda. «È un’esperienzaesaltante. Ogni volta che lasci qualcosa,

rintracciarono e montarono le brevi im-magini del rogo di Ian Palach e della suatragica sfida all’occupazione sovieticanel gennaio del ’69. Adesso, quasi ottan-tenne sta lì, calice di vino in mano e Nikona tracolla, tra il suo amico e il direttore del-la fotografia ufficiale. Dà consigli a l’uno e

Repubblica Nazionale

40 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 22 AGOSTO 2010

i saporiTradizioni

Trionfo di pesce sulla costiera adriatica, sfilate di salumiin Pianura padana, fioritura di erbe e formaggi in montagnaDa nord a sud, in estate la nostra penisola si trasformain una fiera a cielo aperto: niente forchette, niente bon tone assaggio libero. Ma attenti ai falsi

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Sagre

Il Paeseche mangiain piazza

Erbe aromaticheBRENTONICO (TN)

20-29 AGOSTO

La festa delle erbe aromatiche“Baldo Speziale” anima ogni anno il “fiordo delle Alpi” con scuola di cucina, visite nelle malghe,mercatino degli speziali, menù a tema e ricerca guidata delle erbe

PaneSENIGALLIA (AN)

16-19 SETTEMBRE

Decima edizione per il viaggio tra le culture del pane. Intorno alla rocca, forni a cielo aperto, corsi per grandi e piccini, i segreti della panificazione senza glutine, la scoperta dei pani del mondo

gli italiani che ogni annovisitano le sagre

75%le manifestazioni segnalatein Italia ogni anno

37.500le proloco organizzatricidi fiere e sagre

6.000

Non c’è estate senza sagre.Certo, perfino in quest’epo-ca di pochissima cultura ali-mentare, una qualche sta-gionalità resiste: cachi e cal-darroste sono ineluttabili fi-

gli d’autunno, così come sanguinacci e tar-tufi bianchi non possono prescindere dallebrume invernali. Ma le sagre invernali sonoesercizio da gourmet stoici, addobbati co-me omini Michelin per resistere al freddo eadeguatamente supportati da vigorosi cic-chetti alcolici.

L’estate, invece, regala alla sagra il sensodella stagione vacanziera. Fosse anche perqualche ora solamente, la gita acquista su-bito i connotati della liberazione civico-ga-stronomica: una volta infilati nel gioiososerpentone ondeggiante tra pentole di ognitipo e montagne di cose di mangiare, nonesiste altra regola che quella dell’assaggiocompulsivo. Niente forchette, niente restri-zioni, niente bon ton: se l’occasione fa l’uo-mo ladro, la sagra fa uomini, donne e bam-bini mangiatori felici. Del resto, una sagranon si nega a nessuno. Bastano un ingre-diente, una ricetta, una tradizione, a tra-sformare il borgo prescelto nel paese di Ben-godi, con stand e bancarelle attrezzati per ladistribuzione di assaggi urbi et orbi, mentrei venditori predicano le virtù dei propri pro-dotti come tanti oracoli del cibo.

Naturalmente, c’è sagra e sagra. A volte,l’upgrade lessicale — da sagra a festa, o a unnome evocativo — sancisce la differenza. Sipassa dal padellone da Guinness dei prima-ti — il fritto più grande, la salsiccia più lun-ga, il risotto per mille persone — alla com-mistione tra cibo e cultura, spettacolo,sport, moda.

Si va per filoni e aree geografiche. L’inte-ra costiera adriatica, per esempio, si dedicaalla promozione del pescato, equamentediviso tra pesce azzurro, crostacei e mollu-schi. Tra brodetti e sardine fritte, cozze eguazzetti, calamari e granchi (su tutti lemoeche, pescate nel momento della muta, equindi col carapace morbido, da mangia-re), non c’è paese senza griglie o friggitriciinattive da giugno a settembre.

Pianura padana e qualche enclave delsud, invece, mandano in passerella i salumi,scelta apparentemente controversa — si di-ce che la carne di maiale “scaldi” — ma benmotivata dall’urgenza estiva della “cucinasenza cucinare”: prosciutto e melone, gli in-voltini di prosciutto cotto, i sempiterni pa-nini con salame o mortadella.

Poi ci sono le montagne. Erbe aromatichee formaggi a latte crudo trionfano nei borghialpini, in un tripudio di gite nelle malghe epercorsi botanici, frittate e fondute, tome eliquori, mentre nella dorsale degli Appenni-ni i funghi regnano incontrastati dalla Ligu-ria alla Calabria, che si tratti di porcini, ovu-li o prataioli, spesso in allegra combinazio-ne con fette di polenta e paste fatte a mano.

Se avete un debole per il gelato, il turismodel cono vi farà toccare gli estremi d’Italia: ametà settembre a Cefalù, Palermo, e a finenovembre a Longarone, Trento. Mentresiete in viaggio verso la Sicilia, fermatevi aCesenatico, dove nel secondo weekend disettembre verrà celebrato il “Piadina day”:rucola e squacquerone vi prepareranno labocca alla mitica granita di gelsi neri.

LICIA GRANELLO

Fungo porcinoORIOLO ROMANO (VT)

10-19 SETTEMBRE

Il trionfo del boletus edulis

che popola i boschi intorno al borgoNel centro, trasformato in ristorantea cielo aperto con mercatoannesso, cento ricette ispirate, dalle fritture alle paste asciutte

MieleMONTALCINO (SI)

7-9 SETTEMBRE

Edizione trentaquattro per l’eventoclou del mondo apicolo italiano che quest’anno apre le porte ai mieli del Mediterraneo, dagli agrumatispagnoli a quello di lavanda in arrivo dalla Francia

Salame Cremona IgpCREMONA

16-19 SETTEMBRE

“Basta poco per tornare bambini”recita il motto della festa improntataalla realtà contadina: esibizionedi trattori e carrozze d’epoca, gitefluviali sul Po, visita alle cascineE pane e salame gratis per tutti

FormaggiCASTAGNETO (BS)

8-10 OTTOBRE

Oltre quattrocento formaggidi qualità a “Franciacorta in bianco”,fiera nata nel 1985: ricche cartedei formaggi, produzioni d’alpeggio,storiche e a latte crudo. E concorsoper il miglior yogurt di fattoria

Repubblica Nazionale

NocciolaGIFFONI SEI CASALI (SA)

17-19 SETTEMBRE

Convegni e golosità nel paese che contende alle Langhe il primato della miglior produzioneItinerari botanici nei noccioleti,degustazione di ricette dedicate e lo sposalizio con il cioccolato

UvaRUTIGLIANO (BA)

18-19 AGOSTO

Terreni argillosi e microclimaasciutto sono le caratteristichedi una delle migliori produzioni d’uvadel sud, glorificata ogni anno con una due giorni di degustazionie la gara per il grappolo più grande

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 41DOMENICA 22 AGOSTO 2010

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Prosciutto di ParmaPARMA

10-19 SETTEMBRE

Si parte dalle “finestre aperte”,ovvero la possibilità di entrare nelle aziende per seguire dal vivo la lavorazione. E poi visite al museodedicato a Langhirano, laboratori del gusto e un’asta benefica

Cibo di stradaCESENA

1-3 OTTOBRE

Una straordinaria miscellanea di street food in arrivo da tutto il mondo: fianco a fianco piadine e kebab, tacos e panzarotti, zeppole e souvlaki. Per tutti, i laboratori di Vittorio Castellani (Chef Kumalè)

Brodetto di pesceFANO (PU)

9-12 SETTEMBRE

Doppia giuria — tecnica e popolare— per decidere vincitore del festivale premio speciale. L’anno scorso,ottantamila gli assaggiatori alla “spiaggia del gusto”, con stand,proiezioni di film e abbinamento vini

Fonduta di vongolee altri inganni

MICHELE SERRA

Ogni sagra gastronomica parte avvantaggiata daun pregiudizio favorevole quasi indiscrimina-to: perché è conviviale (si mangia insieme), per-

ché è informale (si mangia anche con le mani), perchéè liberatoria (si mangia molto e si mangia qualsiasi co-sa, anche certe trionfali porcherie, summa di grassi ecalorie, che in condizioni normali rifiuteresti con sde-gno).

Questi evidenti meriti rischiano di far passare in se-cond’ordine anche l’approfondimento della “genui-nità” della sagra: se cioè affonda la sua storia in qualchetradizione o produzione locale, o se è l’invenzione lastminute di un assessore spregiudicato, o di una prolocoinvidiosa della sagra accanto. Il rapporto tra tradizionee invenzione, del resto, è molto studiato e molto di-scusso: ogni tradizione in fin dei conti ha un suo in-ventore, una sua arbitrarietà più o meno accertabile eaccettabile.

Il proliferare di feste “celtiche” nel Nord Italia, peresempio, puzza lontano un miglio di forzatura politicaleghista, e anche se le braciole di porco non ne portanocolpa e si fanno mangiare volentieri, la circostante pac-cottiglia new age non è un punto a favore, ne lo è il con-certo per arpa e liuto eseguito da maturi precari del-l’heavy metal riciclatisi per poter campare. Ugual-mente stonate suonano certe sagre del porcino co-strette a rimediare la materia prima nell’Est europeo, osagre della lumaca che integrano le dieci lumache fati-cosamente reperite in loco con qualche tir di lumachecongelate.

Così come è accaduto per i festival culturali, feno-meno dilagante e positivo però anche inflattivo (esau-riti i temi di evidente spessore, come Storia Letteratu-ra Scienza Arte eccetera, proliferano festival cervelloti-ci il cui argomento sfugge anche ai convegnisti più in-calliti), le sagre vivono una crisi da troppo successo chele moltiplica a dismisura. Per orientarsi tra villaggi fu-miganti e nubi di frittura che catturano il viandante an-che a dieci chilometri, sarebbe dunque opportuno dar-si un minimo di criterio selettivo. In una sagra doc, perevidenti ragioni identitarie e perfino etiche, il terroirdovrebbe fare la parte del leone, con i suoi corollariclassici: filiera corta, tipicità di quello che si mangia, le-game stretto tra stomaco e tradizione, tra metabolismoe cultura locale. Sarà ovvio diffidare, dunque, di una sa-gra della fonduta in Calabria, o di una sagra della von-gola nel Bresciano, perché per quanto la globalizzazio-ne mischi le carte e confonda i sapori, la sagra ha un suosenso se descrive (e circoscrive) un luogo e le sue tradi-zioni gastronomiche.

In questo senso, meglio sarebbe – e stupisce che an-cora non ce ne sia una – una festosa sagra del kebab aMilano, dove quegli spiedi arabo-turchi oramai sonodi casa, piuttosto che una Sagra Celtica nelle campa-gne emiliane. Perché per quanto inventata possa esse-re una tradizione, ha radici più forti il kebab a Milanoche il crauto a Bologna, specie se servito da camerieriin elmo cornuto.

Ultima osservazione: la musica frastornante e mol-to generica che molti altoparlanti diffondono in moltesagre e feste di piazza sta diventando un problema nonda poco, visto che l’uso dei padri e dei nonni, ai quali cisi riferisce in ogni sedicente “sagra tradizionale”, nonprevedeva questa orrenda commistione tra palato eorecchie. La voce del convivio è – da sempre – la voceumana. Non necessariamente garbata: comunqueumana. Poi si balla e si canta, ma prima si mangia e siparla. Boicottate le sagre troppo fracassone.

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Celebrazione dello storico sorbetto,di origine araba, lo sherbeth, nato grazie alla neve dell’Etna, sale marino e canna da zucchero Ventimila chili di gelato e decine di mastri gelatieri da tutto il mondo

Repubblica Nazionale

42 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 22 AGOSTO 2010

le tendenzeRevival

Abiti vaporosi e a corolla che ondeggiano sui fianchi,vitini di vespa strizzati nei corsetti, tessuti leggeri e mossiTornano attuali per il guardaroba dopo vacanzele forme morbide e i seni generosi. E anche il designsi fa tentare dalle curve del passato

DA GIORNOScarpe da giornocon l’immancabile

fiocchetto FiftyDi Yamamay

INTRAMONTABILESimbolo degli annidel Boom, ritorna

la storica caffettieraMoka Bialetti

STORICAUno dei pezzi storici

della collezioneGherardini

Dai colori classici

TONDEGGIANTEHa segnato

un’epoca. Lady,mitica poltrona

Arflex. Attualissima

LAURA ASNAGHI

© RIPRODUZIONE RISERVATA

Gonne a ruota, vita strizzata e seni prorompenti. Torna, con grande esuberanza, lamoda anni Cinquanta, una tendenza che si fa largo tra le collezioni delle grandigriffe ma anche sugli scaffali delle catene low cost. A Parigi, a dare il via a questorevival, ci ha pensato Louis Vuitton, con una memorabile sfilata, che, a marzo, hariportato in passerella Laetitia Casta, ex modella e attrice, una delle donne più fa-mose d’Oltralpe. Con lei ha sfilato anche un’altra top famosa per le curve, Elle

McPherson, detta The Body. Con gli anni Cinquanta, Marc Jacobs, lo stilista di Louis Vuitton, hadato via libera alle bellezze curvy, un po’ in carne, molto desiderabili. Una svolta estetica che, inItalia, ha molti cultori.

In testa a tutti, Miuccia Prada. Lei, però non si è limitata a riproporre le gonne ampie con il clas-sico vitino di vespa. La sua messinscena è stata, come sempre, più concettuale e spiazzante. Lesue modelle, con seni sottolineati da giochi di ruches, erano sì espressione della moda che im-perversava nei mitici Cinquanta, gli anni della ricostruzione e del miracolo economico, ma persdrammatizzare il tutto portavano, con le scarpe decolté di vernice, i calzettoni a coste. Prada of-fre una sua personalissima visione di quegli anni, mentre i Dolce e Gabbana restano fedeli a uno

dei massimi simboli dell’epoca, vale a dire il corsetto che sottolinea ed esalta il seno e diventa unaccessorio di cui una donna non può fare a meno, un’arma di seduzione fondamentale. Tantoche i due stilisti ripropongono l’abbinata “corsetti e gonne a corolla”, anche nelle collezioni D&G,la loro linea giovane.

Il guardaroba del dopo vacanza sarà all’insegna delle gonne ampie, che ondeggiano sui fian-chi. L’Emporio Armani le propone in tessuti leggeri e mossi, Marni punta sui colori brillanti, Fen-di le personalizza con stivaletti aggressivi e la stessa operazione la fa Lorenzo Riva, che adotta“mini boots” color argento con abiti di taglio couture dagli scolli panoramici. Anche Paul Smithdà il suo contributo con mise color cipria mentre Tommy Hilfiger sceglie la classica accoppiatadel golfino bon ton con gonnellona vaporosa stretta in vita da cinture maschili.

Il vento degli anni Cinquanta soffia sulla moda, ma non solo. Anche il design è piacevolmen-te coinvolto in questo revival che passa dal ritorno della Moka, alle scarpe bi-color (come quelleriproposte da Ferragamo), ai gioielli con perle e brillanti di gran valore (i modelli top sono quellidi Chanel), ai divani dalle linee piacevolmente formose di quegli anni. Tra i best seller c’è la pol-trona Lady di Arflex, disegnata da Marco Zanuso, passata alla storia per essere stata la prima adavere l’imbottitura in gommapiuma. Una innovazione tecnica resa affascinante da forme av-volgenti, sorrette da gambe sottili in acciaio. L’altro capolavoro di quegli anni è la poltrona pen-sile Egg, una creazione di Nanna Jorgen Ditzel per Bonacina.

Voglia di donne con le gonne

NIENTE SPIGOLIGli elettrodomesticiSmeg si adeguanoagli anni Cinquanta:tutto è tondeggiante

’50Anni

Repubblica Nazionale

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 43DOMENICA 22 AGOSTO 2010

FILIPPO CECCARELLI

Senza«modestia» e priva di «pudore verginale», sostenevano autorevoli rappresentanti del-la dottrina cattolica negli anni Cinquanta, la donna provocava istinti e appetiti pericolosi,ragion per cui era «preferibile una bellezza mediocre», come arrivò a suggerire il padre Ata-

nasio rispondendo a una lettera di Famiglia cristiana. Contro le indubbie suggestioni già alloraesercitate da Miss Italia, vigorosamente la Chiesa rivendicava il valore della bellezza morale:«Perciò è bella, sopra tutte le donne, e cantata anche come tale, più in alto delle stelle, la Madon-na», tagliava corto Maria Pia Colini Lombardi, esponente del Comitato italiano di difesa moralee sociale della donna, nonché parlamentare democristiana. Però poi nei fatti la Dc era assai me-no intransigente di certe sue punte, e se pure nel 1954 tredici deputati scudocrociati arrivaronoa proporre per legge l’abolizione dei concorsi di bellezza, contro il bikini il partito di maggioran-za si limitò discretamente a fare in modo che le aspiranti miss sfilassero in passerella con il co-stume intero.

«Non è la bellezza astratta che ci interessa», garantiva dall’altra parte, e cioè nel campo oppo-sto, Cesare Zavattini, presidente del maxi concorso di bellezza che il Partito comunista, dopo averproclamato in una miriade di festival estivi altrettante “Stelline dell’Unità”, aveva a quei tempidelegato con successo al settimanale Vie nuove. La vincitrice, che nella gara era dispensata dal-lo spogliarsi, otteneva una corsia preferenziale per la carriera cinematografica e questo spiegacome nella giuria vi fossero Visconti, Blasetti, Soldati, Moravia e anche la Morante. C’era anche,è vero, su questo genere d’iniziative, una certa resistenza nell’ala dura del Pci: Secchia scanda-lizzato, Pajetta sprezzante, Robotti «fremeva di rabbia», le compagne dell’Udi erano contrarie.Ma al dunque i comunisti le intendevano come uno strumento di penetrazione elettorale, piùche altro mirando a coinvolgere il popolo nelle attività di partito. Visti con gli occhi di oggi, sial’oppressivo moralismo cattolico che l’astuto marketing del Pci tradivano un’ingenuità destina-ta a presentare il conto un paio di decenni dopo. Come nota lo storico inglese Stephen Gundlenel suo acuto saggio Figure del desiderio. Storia della bellezza femminile in Italia (Laterza, 2007)in quegli stessi anni la pubblicità di una cipria dal nome “Velluto di Hollywood” comparve tan-to sulle pagine di Vie nuove che di Famiglia cristiana. Il classico segno rivelatore.

Sulla scorta di quella inserzione pare di cogliere, sul modello di donna cui guardavano i duegrandi partiti negli anni Cinquanta, uno stesso asimmetrico e paradossale destino. Per cui, cosìcome l’austero rigore di Santa Romana Chiesa venne aggirato, addomesticato e poi scavalcatodai pragmatici democristiani, l’opportunismo delle Botteghe Oscure finì per cedere il passo a co-dici culturali addirittura ostili al Pci come potevano essere quelli americani. E per estrema beffa,nel frattempo, si affermavano in Italia le dive che tanto piacquero a Hollywood: «Esotiche, fiere,appassionate, belle e sagge — le qualifica Gundle — In una parola: naturali».

Il compromesso storicosul bikini di Miss Italia

CAPOLAVORIFoulard di Dior

con donne stilizzatedal celebre

disegnatore Gruau

BICOLOREPer un look classico

e chic le scarpebi-color

di Ferragamo

MORBIDIGuanti in morbidanappa: un classico

tra gli accessoriDi Sermoneta

ARTIGIANALILa tradizione

del fatto a manonelle borse Fontanaun marchio storico

UOVOLa poltrona Egg

di Bonacina:si attacca al soffitto

con un gancio

CLASSICABase in marmo neroe diffusore cristallo:

torna la lampadaAlfa di Artemide

PREZIOSIColori vibranti

per i gioielli BulgariLe perle si alternanoalle pietre preziose

EVERGREENLusso ed eleganzanei gioielli CartierEsaltano uno stile

intramontabile

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SENZA TEMPOLinee esagonali

e diamanti al polso:è l’orologiodi Chanel

FIOCCHIScarpe in vernice

con fiocchetto: sonogli anni Cinquanta

interpretati da Prada

PIZZOLa biancheria colorcarne, “strategica”

nei mitici FiftiesDi Intimissimi

Repubblica Nazionale

44 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 22 AGOSTO 2010

l’incontroPremi Nobel

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Sono moltoindisciplinatoMangio tuttoe ogni tantomi concedoun bicchiere di vinoMa solo se mi piaceNon è una questionereligiosa

stiti ai più poveri della Terra. Tutto è ini-ziato dalla disperazione del villaggio diJobra nel ’74. «Avevo chiesto ad alcunistudenti di aiutarmi a stilare liste di per-sone bisognose. Arrivò Maimuna con unelenco: per ricominciare a vivere, per po-tersi ricostruire, quarantadue personeavevano bisogno di ottocentocinquan-tasei taka: ventisette dollari. Ero scon-volto. Diedi i soldi a Maimuna e mandaia dire alle quarantadue famiglie cheavrebbero potuto restituirmeli con co-modo e senza interessi. Non era ancoraquello il mio mestiere».

Dopo tre anni lo divenne. Yunus co-minciò, con assistenti che andavano divillaggio in villaggio, a prestare denaro aipoveri i quali lo utilizzavano per i loro mi-croprogetti. Le statistiche, dal ’77 a oggi,dicono che il novantasette per cento diquesto denaro è restituito nei tempi, ildue per cento in ritardo e l’un per cento«non ha restituito, ma un giorno lo farà»dice Yunus. Il quale accoglie le critichedegli economisti contemporanei con ilsuo sorriso a labbra chiuse. «Microcredi-to, miracolo o disastro?» titolava Le Mon-de nel gennaio scorso. Seguiva un lungoarticolo di Esther Duflo, giovanissimastar dell’economia francese, la quale —nella parte “disastro” — spiegava come,oggi, i banchieri del microcredito venga-no considerati i nuovi usurai e i distrut-tori delle economie locali; e come i be-neficiari del microcredito (più del no-vanta per cento donne), in realtà, non di-ventino piccoli imprenditori (comeconsigliato da Yunus), ma si comprino ilfrigorifero per casa e, per restituire il pre-stito, si privino dei miseri surplus dellaloro vita quotidiana (tè, tabacco, cosme-tici). Aggiungendo, però, che soltantoadesso iniziano a essere possibili studiseri e completi sull’argomento.

«Una domanda che mi fanno spessoè: non crede che le multinazionali con lequali collabora usino la sua immagineper ripulire la loro?» dice Yunus, riferen-dosi alle discusse collaborazioni di Gra-meen con Danone, Veolia, Basf e Adidas.«Rispondo: grazie a queste società i po-veri avranno uno yogurt a basso costoche salverà i bambini dalla denutrizionee un villaggio con acqua potabile, mi-gliaia di persone si copriranno con unazanzariera impregnata di un nuovo po-tente insetticida e calzeranno il loro pri-mo paio di scarpe al prezzo di un dolla-ro. Non mi interessa sapere se le multi-nazionali siano “bravi ragazzi”, mi inte-ressa che attraverso il “social business”aiutino i poveri senza pensare di guada-gnarci su. Quando dai i soldi in chiesanessuno ti chiede se li hai rubati».

Oggi la Grameen Bank ha ventisette-mila dipendenti in Bangladesh e haesportato il suo sistema in una sessanti-

na di paesi, anche in Europa e negli StatiUniti. In Italia, dal 2006 al 2009, il micro-credito è aumentato del cinquecentoper cento. Nel 2006 Muhammad Yunusha avuto il Nobel per la Pace (chissà se loavrebbe preferito per l’Economia, masembra irrispettoso chiederglielo) e nel2008 è uscito il secondo libro: Un mondosenza povertàin cui propone la teoria del“social business”. Al quale il nuovo libro,in uscita il 15 settembre (Feltrinelli, tra-duzione Pietro Anelli, 240 pagine, 15 eu-ro), è interamente dedicato. Le parole ri-correnti di Si può fare! Come il businesssociale può creare un capitalismo piùumanosono: capitalismo e business, so-ciale e umano. Un tempo le pensavamoantitetiche.

«Partiamo dall’idea che la povertà siauna imposizione di un gruppo su un al-tro. La povertà è creata da mancanze im-poste per esempio da alcuni istituti fi-nanziari. Le banche di cui parlo rifiutanoi loro servizi a due terzi del mondo. Dueterzi del mondo, parlo di miliardi di per-sone. Quando vengono da me una ma-dre analfabeta e una figlia che, grazie al

microcredito, va all’università, io pensoche anche quella madre avrebbe potutodiventare un avvocato se solo avesseavuto la possibilità di accedere al dena-ro. Vediamo il capitalismo crollare attor-no a noi. La crisi finanziaria ce ne ha mo-strato i difetti. Ci ha dimostrato che il si-stema del credito così come è oggi puòcondurci al disastro. Il capitalismo chie-de profitti sempre più alti. Il “social busi-ness” non chiede profitti e non vuoleperdite. Ha obiettivi sociali. Tolte le spe-se, reinveste ciò che guadagna. Non ar-ricchisce nessuno, ma crede nell’uomoe nella sua capacità creativa (tanto cheYunus viaggerà per un mese seguito dasette giovanissimi studenti dell’IstitutoEuropeo del Design tra Haiti, l’Albania ela Colombia per creare nuovi strumentidi lavoro con prodotti locali ndr). Lavoraper e con i poveri perché solo quando sisiede in mezzo alle macerie, quando i bi-sogni sono reali, si ha davvero voglia di ri-costruire. Io non sono contro il liberomercato, ma credo che vada conciliatocon aspirazioni umanitarie. Solo così lapovertà verrà sconfitta».

Yunus è certo che grazie al businesssociale e alla nascita di “società miste” lapovertà sarà sconfitta tra il 2030 e il 2050.Va in giro per il mondo, soprattutto nel-le università, a predicarlo. In Banglade-sh, che resta il paese del quale si occupadi più (in trentatré anni più del dieci percento degli abitanti è riuscito a usciredalla miseria) in molti lo considerano unvisionario, un pazzo o anche un rompi-scatole. Il governo ha però poco raggio diazione sulla Grameen: quando prova aostacolarla si trova contro i capi degli ot-tantamila e più villaggi nei quali la bancaè stabilita. Il professor Jeffrey Sachs, fon-datore del “Millennium project” attra-verso il quale le Nazioni Unite si prefig-gono di dimezzare la povertà del mondoentro il 2015, dice che non può esserciprogresso senza un sistema politico de-mocratico e onesto. «A nessuno verreb-be in mente di chiedere a un verduraio:che rapporto hai con la politica? È un bu-siness. Lui vende verdura al mercato e iodenaro. Vado avanti seguendo leggi eco-nomiche. La politica va avanti a suo mo-do, ma io non interagisco con lei. A finegiornata devo solo controllare che il de-naro rientri. E questo è tutto».

Ma la politica non potrebbe interferi-re nel suo lavoro? «La polizia può interfe-rire. I religiosi, i professori possono in-terferire. Viviamo in una società nellaquale tutti interferiscono. Ma io credonell’iniziativa individuale. E allora vadodalla polizia e spiego che quello che fac-cio è legale. Mostro i documenti, portogente che spieghi con me. Poi arrivano ireligiosi e dicono: perché dai soldi alledonne?». Lei ha iniziato il microcredito

concedendo prestiti alle donne, e sulle“Grameen ladies” continua a fare moltoaffidamento. Sono pochi i paesi musul-mani nei quali le donne abbiano acces-so al credito. «Ai religiosi spiego che nonc’è nulla di male nel dare soldi alle don-ne, la religione lo permette. La primamoglie del Profeta era una “business wo-man”. E se tu vuoi essere un buon mu-sulmano devi sposare una “businesswoman” perché il Profeta lo ha fatto. Senon la trovi vieni da noi. Abbiamo unsacco di “Grameen ladies”, te le presen-tiamo, se vuoi». Riesce a convincerli?«Diventano nervosi quando parlo delProfeta. Ma non possono dire: stai men-tendo. Perché è così: Maometto lavora-va per una signora molto più vecchia dilui, e l’ha sposata. Tutti lo sanno ed è unbuon esempio». E la corruzione? «Faccioallo stesso modo. Risolvo individual-mente. Scelgo: se la persona con la qua-le lavoro non fa quello che gli dico, vuoldire che è corrotta e vado da un altro».

Quando ha iniziato il suo “business”aveva trentaquattro anni, adesso ne hasettanta e la sua vita è assai più compli-cata. Non è mai stanco? «Mai. È talmen-te eccitante quello che faccio. Amo il miolavoro, lo vedo accadere, tocco la vitadella gente». È religioso? «Non esatta-mente». Segue una dieta? Pratica lo yo-ga? «Sono molto indisciplinato. Mangiotutto e, di tanto in tanto, mi concedo an-che un bicchiere di vino. Non è la miaabitudine o la mia cultura e se non mipiace non lo bevo. Non è una questionereligiosa». Perché la Grameen Bank nonha un testimonial importante? Perchélei non ha attorno una corte di star diHollywood, del calcio o del rock? «Nes-suno si è proposto. Forse pensano chenon si troverebbero bene. Ma, se propriodevo dire, non mi mancano».

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LAURA PUTTI

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A trent’anni era già direttoredella facoltà di economia della sua città,in Bangladesh. Poi una carestia ucciseun milione di persone e lui si fece

una semplice domanda:“A che cosa servivanotutte quelle belle teorie se quando uscivo vedevola gente morire di fame?”Così inventò il microcreditoE oggi, a settant’anni,

il “banchiere dei poveri” a chi lo criticadice: “Il social business non chiedeprofitti né perdite, crede nell’uomo”

Muhammad Yunus

BARCELLONA

Nei suoi sogni di giovane,brillante economistaMuhammad Yunus nonsi vedeva banchiere. A

poco più di trent’anni, nel 1972, dopo es-sersi laureato all’università di Dacca especializzato negli Stati Uniti, era già di-rettore della facoltà di economia dell’u-niversità di Chittagong, la sua città. Il ’74fu un anno tragico per il Bangladesh.Morì più di un milione di persone. Lagrande carestia falciò interi villaggi e suDacca, la capitale, si riversarono frotteaffamate. Fu in quel momento che Yu-nus iniziò a farsi domande. Decise di fre-quentare un villaggio, Jobra, vicino alsuo campus, per imparare sul campo,per tornare a fare lo studente. «Volevo te-nermi aderente al suolo come un verme,invece di librarmi in volo come un uccel-lo», scrisse nel 1997 in Il banchiere dei po-veri, il suo primo libro. «A che cosa servi-vano tutte quelle belle, eleganti e rassi-curanti teorie economiche che andavoinsegnando se quando uscivo dall’uni-versità vedevo la gente morire di famesotto i portici e lungo i marciapiedi?» sichiede ancora oggi il banker to the poor,il banchiere dei poveri.

È un signore calmo, elegante nella suaconsueta camiciona quadrettata conlungo gilet. Ha uno sguardo benevolo,ma vivace. Potrebbe essere un guru, o unnuovo Gandhi. «Sono un uomo d’affari»,dice, a fugare ogni dubbio new age. Yu-nus ha appena compiuto settant’anni (il28 giugno, dichiarato “Social BusinessDay”). Ne aveva trentasette quandofondò la Grameen Bank, la prima bancasenza ufficio legale, la prima banca almondo che si è fidata a concedere pre-

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