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1 ASPETTI STORIOGRAFICI L’arte carolingia, nella lettura proposta da Conant (1973), con i suoi riflessi nordici, orientali e origini mediterranee, fu un fenomeno molto complesso, animato da un ca- rattere fecondo e dinamico che connota, in eguale misura, la pittura, la scultura e l’architettura. Carlo Magno, aiutato dalle capacità di organizzazione e di sintesi pos- sedute dai maestri di Palazzo Alcuino ed Eginardo, pose l’architettura al centro dei suoi programmi imperiali, riservando particolare attenzione alla costruzione di nuovi complessi monastici. La corte di Carlomagno era perfettamente consapevole delle li- nee innovative contenute nel proprio programma architettonico, e il vasto orizzonte di concezioni civili e religiose che si delineò in quel periodo offrì agli architetti la possi- bilità di sperimentare nuove forme architettoniche, principalmente nei monasteri e in particolare nella disposizione planimetrica e negli alzati delle chiese. I nuovi temi compositivi delineati nelle chiese carolingie, furono di durevole im- portanza, in quanto anticiparono, per alcuni aspetti, le caratteristiche del Romanico. Per questo studioso la critica storiografica contemporanea concorda nel collocare l’architettura compresa tra l’VIII e la metà circa del XII secolo in un unico processo di formazione, sviluppo, crescita e maturazione dello stile romanico, anche se autorevoli esperti del settore esitano nell’affermare che le proprietà dell’architettura romanica inizino con la rinascenza carolingia, preferendo riservare il termine Romanico all’ar- chitettura che si sviluppa in Europa occidentale a cominciare dal regno di Ottone il Grande (936-973). Tale convinzione sembra giustificata dal fatto che la pittura carolingia, i manoscritti e la scultura differiscono molto più nettamente che l’architettura dall’opera romanica propriamente riconosciuta. Tuttavia, per Conant il termine “Romanico-Carolingiosi presta meglio di altri a definire le caratteristiche di questa architettura, perché par- ticolarmente adatto ad illustrare la componente “romana” del fenomeno artistico. Egli ha tuttavia riconosciuto che nell’architettura carolingia il carattere romanico è rimasto, per così dire, in superficie, piuttosto che essere sviluppato in uno stile pienamente definito. L’ARCHITETTURA ALTOMEDIEVALE NELL’EUROPA OCCIDENTALE

L’ARCHITETTURA ALTOMEDIEVALE NELL’EUROPA … · l’architettura compresa tra l’VIII e la metà circa del XII secolo in un unico processo di formazione, sviluppo, crescita e

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ASPETTI STORIOGRAFICI

L’arte carolingia, nella lettura proposta da Conant (1973), con i suoi riflessi nordici, orientali e origini mediterranee, fu un fenomeno molto complesso, animato da un ca-rattere fecondo e dinamico che connota, in eguale misura, la pittura, la scultura e l’architettura. Carlo Magno, aiutato dalle capacità di organizzazione e di sintesi pos-sedute dai maestri di Palazzo Alcuino ed Eginardo, pose l’architettura al centro dei suoi programmi imperiali, riservando particolare attenzione alla costruzione di nuovi complessi monastici. La corte di Carlomagno era perfettamente consapevole delle li-nee innovative contenute nel proprio programma architettonico, e il vasto orizzonte di concezioni civili e religiose che si delineò in quel periodo offrì agli architetti la possi-bilità di sperimentare nuove forme architettoniche, principalmente nei monasteri e in particolare nella disposizione planimetrica e negli alzati delle chiese.

I nuovi temi compositivi delineati nelle chiese carolingie, furono di durevole im-portanza, in quanto anticiparono, per alcuni aspetti, le caratteristiche del Romanico.

Per questo studioso la critica storiografica contemporanea concorda nel collocare l’architettura compresa tra l’VIII e la metà circa del XII secolo in un unico processo di formazione, sviluppo, crescita e maturazione dello stile romanico, anche se autorevoli esperti del settore esitano nell’affermare che le proprietà dell’architettura romanica inizino con la rinascenza carolingia, preferendo riservare il termine Romanico all’ar-chitettura che si sviluppa in Europa occidentale a cominciare dal regno di Ottone il Grande (936-973).

Tale convinzione sembra giustificata dal fatto che la pittura carolingia, i manoscritti e la scultura differiscono molto più nettamente che l’architettura dall’opera romanica propriamente riconosciuta. Tuttavia, per Conant il termine “Romanico-Carolingio” si presta meglio di altri a definire le caratteristiche di questa architettura, perché par-ticolarmente adatto ad illustrare la componente “romana” del fenomeno artistico. Egli ha tuttavia riconosciuto che nell’architettura carolingia il carattere romanico è rimasto, per così dire, in superficie, piuttosto che essere sviluppato in uno stile pienamente definito.

L’ARCHITETTURA ALTOMEDIEVALENELL’EUROPA OCCIDENTALE

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Richard Krautheimer (1993) ha studiato a fondo il ruolo svolto dal tipo della ba-silica paleocristiana romana nell’Alto Medioevo (fino al X secolo circa). Per questo studioso, intorno al 1910-1920 si ragionava secondo il seguente schema concettuale. Punto di partenza era stato il tipo basilicale paleocristiano a “T”, rappresentato da San Pietro e San Paolo fuori le mura (atrio cinto da portici, navata e doppie navatelle laterali separate da colonnati, transetto stretto e lungo sulla cui parete di fondo si apri-va un abside semicircolare). Questo tipo di basilica era sopravvissuto in Italia dal IV al XII secolo e a cominciare dal V secolo si era diffuso dall’Italia in tutta l’Europa con continue varianti, fino a dare origine, nell’XI secolo, all’architettura romanica.

Assumendo come riferimento il sistema modulare dello stile romanico, si crede-va di riconoscere nella basilica romana a T un antecedente non ancora pienamente strutturato; mentre i tipi paleocristiani e altomedievali che non rientravano in questa visione venivano inconsciamente lasciati in disparte.

Nel corso degli anni quaranta del XX secolo il tipo di analisi sopra descritto è stato abbandonato a seguito della scoperta di una grande quantità di chiese paleocristiane sulle coste del Mediterraneo, dell’Africa settentrionale, dell’Asia Minore, della Dalma-zia e nel retroterra del Vicino Oriente (Siria e Armenia).

S’è visto così che la basilica a “T” rappresenta solo una delle numerose soluzioni paleocristiane, nel cui repertorio rientrano a tutti gli effetti tipi molto diversi tra loro: basiliche prive di transetto; con tre absidi; con brevi e basse ali (cioè a transetto nano); con torri gemelle e pastophoria; con galleria al di sopra delle navate laterali; con pilastri anziché con colonne; con terminazione triconca; e con torri a est a fian-cheggiare l’abside.

E’ stato pertanto rivisto il modo tradizionale di concepire l’evoluzione dell’architet-tura occidentale prima del Romanico attraverso l’analisi dell’architettura preromanica (Carolingia, Asturiana e Mozarabica) e delle sue relazioni con l’Oriente.

Secondo Krautheimer, nell’età preromanica elementi asiatici e africani penetrarono in Francia, in Inghilterra e in Lombardia e gli elementi orientali non furono assorbiti in modo fortuito nell’architettura occidentale dell’alto medioevo, ma ne costituirono il fondamento.

Le chiese spagnole dal VII al IX e X secolo seguono prototipi orientali (Asia Mino-re). Nell’Italia settentrionale si affermano fin dal IV secolo schemi planimetrici molto simili a quelli del Vicino Oriente. A Milano il primo Sant’Ambrogio era una basilica priva di transetto con una sola abside; mentre l’impianto di San Lorenzo, a quattro lobi, riflette quello della cattedrale di Bosra (Siria) o dei martyria situati presso Antiochia o Apamea.

Anche a Roma erano comparsi tra la fine del IV secolo e il VII secolo elementi orientali. Nel San Lorenzo in Lucina (432-440), davanti all’abside, vi era un profondo avancorpo, a cui era affiancato un pastophorion, come in molte chiese nordafricane; il San Giovanni a Porta Latina, con la sua abside poligonale (500 circa), ci riporta a Costantinopoli e all’Asia Minore. San Lorenzo fuori le Mura (579-590) e Santa Agnese

(625-638) si rifanno invece a modelli greco-bizantini (chiesa di Acheiropoietos di Salonicco 450-470). In definitiva, per Krautheimer, in tutta Europa, fra il IV e l’VIII secolo, assistiamo a riecheggiamenti dell’architettura del vicino Oriente, dove però si distinguono due fasi: la prima, anteriore al 600, ancora dominata dagli influssi orien-tali; la seconda in cui i prototipi orientali furono utilizzati e modificati fino a dare origine a uno stile nuovo, avente un carattere proprio. Inoltre, per questo studioso, in età paleocristiana (dal IV alla fine del V secolo), il tipo basilicale a “T” con transetto continuo e abside unica ricorre a Roma solo nel San Pietro, nel San Paolo fuori le Mura e forse nel Sant’Eusebio a Vercelli; mentre nell’alto medioevo il ritorno all’impianto basilica a T, osservabile più volte nel medioevo avanzato, si riscontra solo in un pe-riodo ben definito: quello compreso tra la fine dell’VIII secolo e buona parte del IX secolo, vale a dire in età carolingia. Quindi, per Krautheimer, le tematiche compositive dell’architettura carolingia pur seguendo il solco tracciato dalla tradizione romana, fu-rono contaminate, in diversa misura, da influenze bizantine e orientali; ma tutto questo ebbe modo di manifestarsi entro gruppi sociali relativamente ristretti e non in grandi contesti urbani e geografici, come avvenne con l’architettura classica. Inoltre, come avverte Conant, l’originalità dell’architettura carolingia, che spesso raggiunse traguar-di architettonici e decorativi innovativi, venne acuita dalla forte spiritualità religiosa espressa dal mondo medievale, declinata in forme monumentali e simboliche.

Il processo storico che conduce dall’architettura tardo antica a quella dell’Alto Me-dioevo, secondo Renato Bonelli (2003), offre notevoli difficoltà di interpretazione in quanto gli edifici superstiti che vanno dalla metà del VI alla metà dell’VIII secolo sono numericamente esigui. Tuttavia, per questo studioso i fattori regressivi, economici, so-ciali e politici, che pure si registrano in quel periodo, non possono aver causato la to-tale interruzione dell’attività edificatoria, poiché gli edifici destinati al culto religioso erano considerati dall’uomo medievale i luoghi simbolo del proprio essere spirituale e sociale. In questa sostanziale continuità del processo edificatorio, Bonelli ritiene che, almeno nell’Europa meridionale, si possano individuare due linee di tendenze, tra loro parallele e distinte. La prima privilegia i modelli delle chiese paleocristiane, nel tipo più comune e diffuso, vale a dire la basilica a tre navate con arcate su colonne, co-pertura lignea e senza transetto; la seconda, pur preservando l’impianto basilicale, ne stempera i caratteri costitutivi, adottando strutture più propriamente medievali, quali l’accentuato spessore dei muri e la riduzione della luce delle finestre, fino a determi-nare uno spazio “chiuso e ombroso”. Appartiene alla prima linea di tendenza la chiesa di San Salvatore a Brescia (prima metà del IX secolo), la quale si attesterebbe come “tarda testimonianza di un processo conservativo di ampio respiro temporale”(fig.1) Sono invece da includere nella seconda linea di sviluppo il San Vittore di Ravenna (VI secolo), la Pieve di Bagnacavallo (VII secolo) e la Pieve di Ariano (VIII secolo).

Sebbene tra le due categorie di edifici individuate da Bonelli vi siano caratteri distintivi di un qualche rilievo, tuttavia lo schema planimetrico che le accomuna re-

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di Santa Maria alla Posterla di Pavia, l’impianto trilobato di Santa Maria Foris Portas di Castelseprio (fig.6) ecc.) offrono un panorama alquanto eterogeneo della tipologia architettonica dell’ VIII secolo, che spazia dagli organismi a pianta centrale (circolare, stellare o lobata), agli schemi a pianta longitudinale (ad aula unica o tripartita e con terminazioni absidate o rettangolari). Una tale diversità di tipi edilizi mette in evidenza un percorso dell’architettura religiosa alquanto più articolato e complesso, che con-temporaneamente si fa ricettore di influssi romani, orientali e nordici.

1- Brescia, San Salvatore, pianta della basilica attuale risalente al IX secolo.

sta fondamentalmente quello dell’impianto basilicale. Sicché le due categorie più che attestare processi edificatori stilisticamente distinguibili, vanno piuttosto considerate come variazioni sul tema di uno stesso schema architettonico, che si differenzia nel modo di realizzare le strutture murarie solo per ragioni legate all’avvenuto distacco dalla comune radice costruttiva tardo antica e al contemporaneo riapparire di tecniche costruttive e di materiali legati a consuetudini di carattere regionale, che possono an-che essere anche lette come manifestazioni sintomatiche di fasi temporali regressive, entro le quali riemergono tendenze culturali tese a riaffermare i valori identitari locali, specialmente in seno alle piccole ed isolate comunità rurali.

Come ha evidenziato Krautheimer, va inoltre rilevato che il fenomeno della rinascita altomedievale va inquadrato all’interno di un processo di trasformazione-rigenerazione più ampio, mosso da istanze che fanno capo a centri di potere aventi finalità diverse e in alcuni casi contrapposte. Da un lato le chiese romane del IX secolo testimoniano di una “rinascenza carolingia” dai connotati alquanto diversi da quelli che si realizzano al di là delle Alpi, vale a dire una rinascenza tesa ad affermare il recupero di una pro-pria autonomia culturale e politica che, nell’affrancarsi dai modelli protobizantini rea-lizzati a Roma tra il VII e l’VIII secolo (chiese triabsidate o con pastofori e matronei), prendeva contemporaneamente le distanze dai programmi architettonici dettati dalla Scuola di corte carolingia. Dall’altro, le poche testimonianze che restano dell’architet-tura longobarda (come ad esempio la chiesa triabsidata del San Salvatore di Brescia, il tempietto a terminazione rettangolare di Santa Maria in Valle di Cividale (fig.2), la chiesa basilicale di Santa Maria in Compulteria ad Allignano (fig.3), la chiesa palatina a pianta centrale stellata di Santa Sofia di Benevento (figg.4,5), l’oratorio triabsidato

2- Cividale (Udine), tempietto di S. Maria in Valle, seconda metà dell’VIII secolo, pianta e sezione. L’edificio potrebbe essere annoverato nella più generale categoria dei piccoli oratori triabsidati longobardi. Qui però l’area presbiteriale è conclusa da una parete rettilinea e le tre volte a botte

del santuario sono sostenute da colonne libere.

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4- Benevento, S. Sofia, 760 c., pianta.

3-Alvignano (Caserta), S.Maria di Compulteria, VIII secolo. Veduta dell’interno e dell’sterno. L’impianto basilicale dell’edificio non si discosta da quello delle chiese romane della fine del IV e del V secolo.

5- Benevento, S. Sofia, 760 c., veduta dell’interno. Lo schema a impianto centrale dell’edificio, di indubbia ispirazione orientale, è qui contaminato da sorprendenti elementi spaziali che ne innovano l’articolazione interna.

6- Castelseprio, Santa Maria Foris Portas, VIII secolo. La pianta trilobata dell’edificio non può essere spiegata senza riferimenti diretti ai modelli orientali a pianta centrale del V secolo. L’ambiente centrale è separato dai lobi laterali da archi oltrepassati, a ferro di cavallo, impostati su ampi setti murari che accentuano la

compartimentazione dello spazio interno.

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In conclusione, l’idea di Bonelli che la tradizione edificatoria romano-paleocristia-na abbia attraversato l’intero periodo altomedievale senza soluzioni di continuità, è contraddetta dai pochi reperti architettonici superstiti di età visigota e longobarda che mostrano componenti culturali assunte da aree geografiche diverse, assorbite e trasfi-gurate entro una nuova spazialità che per certi versi rompe, parcellizzandola, la tensio-ne unitaria della spazialità classica. In definitiva, nell’Europa latina, questo processo di trasformazione inizia a definirsi con gli stanziamenti dei Merovingi in Francia, dei Longobardi in Italia settentrionale e meridionale (qui con tempi e modalità diverse) e dei Visigoti in Spagna.

Per G. Lorenzoni (1991), il VII secolo, il più buio della storia altomedievale, rap-presenta il periodo storico ove si registra il distacco dalla cultura tardoantica attraver-so il progressivo concretizzarsi di episodi costruttivi che rispecchiano una concezione spaziale nuova. Questo autore fa osservare che i nuovi apporti si manifestano con tratti di relativa omogeneità, che vanno individuati almeno nel modo in cui veniva in-terpretato lo spazio. Inoltre, tale omogeneità non è determinata da fattori di reciproca interdipendenza o dal prevalere dell’influenza esercitata da un certo ambito regionale rispetto a un altro, ma è essenzialmente correlata all’azione esercitata da un comune sostrato tardoromano. Pertanto, per Lorenzoni, i nuovi apporti non vanno individuati negli elementi che compongono le strutture architettoniche, i quali non fanno parte del bagaglio culturale delle genti barbariche, ma nel manifestarsi di una diversa “menta-lità” (Weltanschauung) che si scontra con quella dei vinti civilizzati; ed è da questo scontro che scaturisce una situazione nuova che non appartiene più al mondo tardo antico in quanto assume decisamente i caratteri dell’età medievale. Proseguendo nel suo argomentare, Lorenzoni arriva a sostenere che i caratteri salienti dell’architettura tardoantica, riguardanti sia quella profana che la cristiana, sono circoscrivibili all’in-terno di una “struttura continua”, che privilegia i dati figurativi di superficie, come, ad esempio, nel S. Apollinare Nuovo di Ravenna, dove le rappresentazioni pittoriche del porto di Classe e del palazzo di Teodorico, appaiono “il più possibile spianate”, vale a dire senza alcun accenno alla rappresentazione tridimensionale; e questo per evitare di interrompere la “continuità” dello spazio interno della basilica. In definitiva, per questo studioso, se lo spazio tardo antico si caratterizza per i valori espressi in termini coloristici di superficie, gli studi effettuati sulle chiese edificate nel corso del VII secolo lasciano emergere una “nuova sensibilità spaziale”, differente da quella anti-ca; e le assonanze che si possono riscontrare nel modo di concepire la loro spazialità architettonica deriva dal fatto che le regioni d’Europa in cui sono sorti questi edifici hanno prima vissuto un comune processo di romanizzazione e poi subito l’invasione di popolazioni barbariche di diversa estrazione e origine.

Le argomentazioni del Lorenzoni hanno il pregio di mettere in evidenza uno dei fattori di discontinuità che caratterizza l’architettura altomedievale da quella tardo-antica. Tuttavia i valori di continuità spaziale di superficie, che pur si riconoscono in

alcune tipologie architettoniche tardo antiche, soprattutto negli impianti derivati dalle basiliche paleocristiane e bizantine, connotate da un ampio dispiegamento di pareti piane, non possono essere assunti come il tratto unificante dell’architettura di quel periodo, in quanto la spazialità architettonica tardoantica non si riduce ai soli valori di superficie, ma si concretizza in una plasticità dello spazio alquanto più complessa e ar-ticolata, determinata dal sovrapporsi delle visuali, virtuali e reali, delle scene murarie interne, poste spesso in rapporto di compenetrata assorbenza, specie negli organismi a pianta centrale. L’effige, “il più possibile spianata”, quando è presente, gioca un ruolo che vuole essere principalmente simbolizzante; e questa sua caratteristica è do-vuta ad una modalità interpretativa della rappresentazione pittorica che è governata da una concezione stilistica priva di profondità prospettica e quindi del tutto estranea ai parametri della spazialità architettonica. I due modi di rappresentare lo spazio, quello pittorico e quello architettonico, hanno per così dire delle finalità diverse, che finisco-no per congiungersi sull’ampio dispiegamento delle superfici verticali e orizzontali generando in alcuni casi degli effetti di smaterializzazione delle masse.

Erwin Panofsky (1961) ha ben chiarito che l’illusione della rappresentazione pro-spettica “naturale” dell’età antica, proprio perché costruita sulla convergenza delle linee di profondità sull’asse verticale di proiezione o, per meglio dire, basata sul rap-porto intercorrente tra gli angoli dei coni di proiezione visiva che intercettano i singoli oggetti disposti liberamente nello spazio reale, dava luogo ad effetti di tipo “impres-sionistico, trasognato e straniante”, soprattutto quando quest’arte voleva rappresenta-re lo spazio compreso tra un oggetto e l’altro nella profondità dello spazio pittorico. E in effetti, nelle rappresentazioni pittoriche della classicità lo spazio veniva configurato come una molteplicità di singoli elementi, legati tra loro da “vincoli mimetico-corporei e prospettico-spaziali”, privi di collegamenti geometrici. Nel VI e VII secolo, in ambito occidentale, con il diffondersi delle influenze culturali orientali, le figure disposte in apparente profondità dell’arte antica tendono ad essere rappresentate in “contiguità”. Si assiste cioè alla disgregazione della rappresentazione prospettica naturale, e le figure sono ricomposte in una reale continuità riferita ad un piano. I singoli elementi, per quanto non del tutto piani, si dispongono l’uno accanto all’altro, su un fondo oro o neutrale. Tra il vedere attraverso il piano pittorico della prospettiva naturale antica e il vedere attraverso il piano di proiezione dell’arte del Rinascimento, governato da rapporti numerici e geometrici intercorrenti tra gli oggetti collocati nello spazio reale e le figure trasposte sul piano di proiezione, il medioevo dispone le figure su un piano pittorico considerato come una superficie da colmare. Le figure appaiono quindi lega-te tra loro da un nuovo nesso stabilito da un ordine immateriale, omogeneo e privo di lacune, di tipo coloristico. In definitiva, lo spazio si trasforma in materia impalpabile, priva di dimensioni, e quindi non misurabile. Tale processo giunge a compimento solo nell’XI secolo, con l’affermarsi dello stile romanico.

Se ci atteniamo al quadro interpretativo delineato da Panofsky, la “struttura conti-nua” della spazialità architettonica tardoantica, di cui parla Lorenzoni, non è affatto

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continua, ma disarticolata da intersecazioni e da sovrapposizioni di visuali. Pertanto, i nuovi apporti che si determinano nelle architetture religiose dell’alto medioevo, non possono essere ridotti ai soli fattori coloristici e pittorici, giacché la pittura altome-dievale è essa stessa caratterizzata da una visione dimensionale, tesa a colmare le superfici piane dell’architettura con l’intento di determinare un risultato avente prin-cipalmente una valenza simbolica. Se, dunque, nel VII secolo si ripropongono modelli paleocristiani, gli elementi pittorico-decorativi che li contraddistinguono non possono determinare da soli, come sostiene Lorenzoni, quegli apporti innovativi che modificano la spazialità dell’architettura tardoantica, né, tanto meno, la “struttura di base” della basilica di San Salvatore di Brescia può considerarsi alterata per gli arricchimenti pla-stico-decorativi degli archi longitudinali che separano le navate e per lo sfondamento figurativo prodotto sulle pareti del claristorio dalla decorazione pittorica (figg.7,8). Nonostante la presenza di queste ornamentazioni, la caratteristica spaziale dell’inter-no di San Salvatore resta comunque ancorata ai modelli paleocristiani romani del V secolo; e questo, nella piena consapevolezza degli artefici di recuperare e, in qualche misura, far rivivere una coscienza storica del passato romano, che va accomunata ad analoghe esperienze di rinascita dei modelli di chiese del V secolo, registrate a Roma più o meno nello stesso periodo.

Per altro verso, la chiesa di San Salvatore non può neppure essere considerata la tangibile testimonianza di un “processo conservativo di ampio respiro temporale”, come sostenuto da Bonelli. Va infatti considerato che la frattura dei nessi culturali con il passato tardo antico prodotta dagli invasori Longobardi e il recupero, nel senso di rinascita, di parte di tali nessi trovano riscontro proprio nel fatto che la basilica del IX secolo di San Salvatore si sovrappone ad una preesistente chiesetta triabsidata longobarda, risalente alla metà dell’VIII secolo (fig.9). Le motivazioni che condus-sero alla decisione di abbandonare il preesistente impianto longobardo sostituendolo con un nuovo edificio esemplato sullo schema paleocristiano vanno ricercate, oltre che nei fattori storici contingenti legati al caso specifico, anche e soprattutto nella maggiore e consapevole coscienza dei valori culturali, religiosi e architettonici del sostrato romano assimilati dalla gente longobarda del dopo conquista. Questo processo di assimilazione trova quindi conferma nelle differenze strutturali e architettoniche che intercorrono tra la chiesetta triabsidata dell’VIII secolo e il San Salvatore del IX secolo. Quest’ultimo edificio va dunque considerato come un segnale di rinascita di una tradizione dei modelli tardo antichi, rimasta in sospensione per circa due secoli.

In conclusione, si può affermare che l’arrivo degli invasori nell’Europa latina ha segnato di fatto l’inizio di un nuovo processo, la cui discontinuità con il passato romano è andata di pari passo con la fase di acculturazione dei conquistatori.7- Brescia, interno della basilica di San Salvatore, IX secolo.

8- San Salvatore, particolare delle arcate centrali con decorazioni in stucco.

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Questo processo non ha comportato solo e unicamente un’acquisizione passiva dei modelli ereditati dalla tradizione romana, occidentale e orientale, ma ha evidenziato an-che una capacità reattiva, che può essere letta in termini di sostanziale rottura, tesa a delineare nuove forme figurative e spaziali, adeguatamente rappresentative dei nuovi gruppi sociali al potere. Del resto, se restringiamo il campo delle osservazioni agli arredi scultorei altomedievali longobardi, che in Italia si conservano in maggior numero rispetto alle architetture di quel periodo, si evidenzia ancor meglio il fenomeno di ibridazione culturale messo in atto dagli invasori (A. Peroni, 1984; A.M. Romanini, 1991). E dun-que, i “nuovi apporti” introdotti dall’architettura alto medievale, cui fa riferimento il Lorenzoni, non si riducono ai soli effetti di spianamento delle superfici pittoriche, ma determinano principalmente soluzioni spaziali che tendono a ridurre la complessa plasti-cità dell’antichità entro parametri in genere connotati da un respiro spaziale contratto e parcellizzato. Allo stesso tempo, questa architettura prefigura un nuovo incedere spaziale che, basandosi su un aggregato di cellule geometricamente elementari, da luogo ad una configurazione giustapposta di volumi, all’interno dei quali la decorazione architettoni-ca svolge una funzione simulativa e dissimulativa dello spazio antico. Nel primo caso tende ad adagiarsi su posizioni di acculturazione passiva dei caratteri tardo antichi; nel secondo caso si frappone in termini più reattivi, introducendo temi ibridativi del corredo decorativo che arrivano fin anche a mettere in discussione l’invariante per antonomasia del linguaggio classico: il capitello corinzio (figg.10,11).

E nel far questo, introduce un sovvertimento dell’inganno spaziale classico, svelan-do la gravità delle masse portate dalle membrature, le quali assumono una corporeità

9 Brescia, pianta della chiesa primitiva di San Salvatore, dopo la metà dell’VIII secolo appartenente alla tipologia dei piccoli oratori triabsidati diffusamente utilizzata dai Longobardi nel corso dell’VIII secolo.

10- Pavia, S. Eusebio, capitelli della fine del VI secolo, riutilizzati nella cripta dell’XI secolo. La forma “mutante” assunta da questi quattro esemplari deriva dalla trasposizione in pietra di motivi decorativi

assunti dalla oreficeria ostrogota, cosiddetta di “stile policromo” o colorato.

11- Cordova, Museo Archeologico Provinciale, capitello dell’Evangelista,VII secolo. Si tratta dell’opera figurativa più antica del repertorio artistico visigoto. Sulle quattro facce del capitello, danneggiate

dalla violenza iconoclasta degli arabi, sono rappresentate, su corpi a figure umane, i quattro simboli dell’Apocalisse: il leone, il toro, l’angelo e l’aquila. Lo stesso tipo di rappresentazione, si ripete sulla base

scolpita di alcune colonne della chiesa visigota di San Pedro de la Nave (680?), situata presso Zamora.

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più statica e quindi costretta in un respiro spaziale più compartimentato e conseguen-temente più frammentato. Di fatto, nello spingere oltre il processo di dissimulazio-ne del gioco delle masse murarie, questa architettura acquista progressivamente una consapevolezza tecnica più evoluta, incentrata particolarmente nell’articolazione del-le strutture voltate. E quando arriva a concepire dei sostegni affrancati dalle masse murarie, tramutandoli in perni isolati, su cui precipitano i pennacchi delle volte, si genera una spazialità protesa verso una maggiore apertura, delimitata nello stesso tempo da cadenze ravvicinate. In definitiva, questo processo, pur ramificato in numero-se varianti tematiche, espressione delle diverse realtà dei contesti regionali d’origine, già prefigura la successiva scansione modulare dell’architettura romanica dell’Europa occidentale.

IL CONTESTO STORICO

Agli inizi del V secolo i Suebi (altrimenti denominati Suevi o Svevi), i Vandali e gli Alani, tutte popolazioni di stirpe germanica, invasero la penisola iberica. Queste tribù, divenute foederati dei romani nel 411, si stabilirono rispettivamente nelle province romane di Baetica, Lusitania e Galleacia.

I Visigoti, una delle principali tribù dei Goti, provenienti dalla Germania orientale, dopo aver saccheggiato Roma nel 410 e risalito l’Italia settentrionale, entrarono in Gallia e occuparono un’area geografica compresa tra la Gallia sud occidentale (Aquitania) e la Spagna settentrionale (412 circa). Nel 416, i Visigoti acquisirono lo status di federati dell’Impero e nei due anni successivi prestarono soccorso ai Romani, sconfiggendo i Vandali e gli Alani in ripetuti scontri avvenuti in territorio spagnolo. Per il leale impegno dimostrato nel corso di queste battaglie, i Visigoti furono ricompensati dall’Impero con nuove terre aquitane, da cui prese origine, nel 418, il regno di Tolosa.

La fuoriuscita dei Vandali dalla penisola iberica, nel 429, favorì l’espansione territo-riale dei Suebi, i quali stabilirono la loro capitale a Emerita Augusta (Mérida). I Romani, per contrastare le loro mire espansionistiche, chiesero nuovamente aiuto al re visigoto Teodorico II (426-466), che sconfisse i Suebi nel 456, costringendoli a ritirarsi nel nord ovest della penisola iberica (corrispondente in larga misura all’attuale regione galiziana). Da questo momento i Visigoti avviarono una nuova fase di conquista. Nel corso del regno di Eurico (466-484), i territori conquistati si estesero dalla Loira e dal Rodano a gran parte della penisola Iberica, soggiogata entro il 476.

Verso la fine del V secolo, la crescente pressione espansiva dei Franchi costrinse i Visigoti ad abbandonare progressivamente la Gallia e l’Aquitania: il grosso della popola-zione visigota, stimata intorno alle 200.000 unità, si trasferì nella penisola iberica entro il 490 (I Goti, 1994); e solo la provincia Narbonensis restò ancora in loro possesso dopo la sconfitta subita nella battaglia di Vouillé, del 507, per mano del re franco Clodoveo (466-511). Sul finire del V secolo, la penisola iberica, pur essendo ancora formalmente inclusa nell’Impero romano, venne di fatto governata dalla minoranza visigota. Il nuovo regno fu suddiviso in sei province e ciascuna di queste in territoria. I conti, ai quali era

L’ARCHITETTURA VISIGOTANELLA PENISOLA IBERICA

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demandato il governo comitale, risiedevano nelle principali città delle singole province. Nel 552, l’imperatore bizantino, Giustiniano I, approfittando delle ribellioni fomen-

tate da alcuni signori visigoti delle province meridionali di Cordoba, Siviglia e Mérida, diede inizio alla riconquista bizantina della penisola iberica, occupando un’ampia fascia della costa sud-orientale, situata fra il Golfo di Cadice, la città di Valencia, le province di Baetica e Cartagena, e lo stretto di Gibilterra. Ciò nonostante, i successivi e ripetuti tentativi dei bizantini di acquisire nuovi territori attraverso la loro azione di riconquista fallirono tutti miseramente, e il loro effimero dominio su parte della penisola iberica tra-montò definitivamente nel 629.

In un contesto di relativa instabilità politica e di conflitti armati, i Visigoti riuscirono a instaurare e, in qualche misura, a sviluppare la struttura amministrativa del nuovo regno, soprattutto grazie ai buoni rapporti che la monarchia seppe instaurare con l’ari-stocrazia ispano-romana e con la Chiesa cristiana, di cui rispettarono fondamentalmente l’ordinamento religioso. Nella seconda metà del VI secolo il re Atanagildo (554-567) trasferì la capitale a Toledo (568). Il suo successore Leovigildo (567-586) si adoperò per stabilizzare il potere politico sui territori occupati e conferì alla figura del regnante una veste istituzionale mutuata dalle consuetudini imperiali romane, adottando uno specifico cerimoniali di corte e l’uso della corona regale. Attuò inoltre una riforma monetaria, introducendo il conio di una moneta d’oro. Riuscì in fine a sottomettere i territori me-ridionali dichiaratisi indipendenti nella prima metà del VI secolo; soffocò la ribellione capeggiata dal figlio Ermenegildo nel sud del regno; riconquistò gran parte dei territori sud orientali occupati dagli avamposti bizantini; e sottrasse definitivamente la Galizia ai Suebi nel 584.

Nonostante gli sforzi profusi dai regnanti visigoti per mantenere unito il regno, la stabilità politica dello Stato fu sempre caratterizzata da una intrinseca precarietà, princi-palmente dovuta alle continue lotte intraprese dai vari pretendenti al trono per la succes-sione dinastica agli inizio del VII secolo e che perdurarono, con diversi gradi di intensità e gravità, fino all’inizio del secolo successivo. Ben quattro dei successori di Leovigildo furono assassinati o morirono in circostanze sospette. Ciò nonostante, nel 629, il condot-tiero Suintila riuscì a scacciare definitivamente i bizantini dalla costa meridionale della penisola, relegandone la presenza alle sole isole Baleari. Il re Recesvindo (653-672) riformò la legislazione, la quale, migliorata dal suo successore Wamba (672-680), costi-tuì il testo di riferimento legislativo su cui si definirono, a partire dal X secolo, le norme degli statuti cittadini (i “fueros locales”).

Gli aspetti confessionali giocarono un ruolo fondamentale nel processo di assimila-zione delle minoranze visigote nella società iberico-romana e nella formazione di una comunità più omogenea e integrata fra invasori e popolazione assoggettata (García Mo-reno, 1889).

La conversione al cristianesimo del re Recaredo (secondo figlio di Leovigildo) e di buona parte della popolazione visigota nel 587, sancita nel III Concilio di Toledo del 589, facilitò ulteriormente il processo di integrazione e il diffondersi dei modelli culturali

romani tra gli esponenti dell’aristocrazia visigota, nonostante fosse ancora fortemente radicato uno stile di vita militare, forgiato nella tradizione germanica. I sovrani fino alla fine del regno furono esclusivamente di stirpe germanica.

A partire dagli ultimi anni del VI secolo, a seguito del definitivo abbandono dell’a-rianesimo da parte della minoranza visigota, i sempre più saldi rapporti stabiliti dalla monarchia con l’episcopato iberico-romano consentirono ad alcuni suoi esponenti di accedere alle cariche del clero cristiano e ai ceti elevati romani di partecipare al gover-no del regno. Le assemblee conciliari dell’episcopato iberico, convocate regolarmente a Toledo dal 589 al 711, offrirono infatti al sovrano l’opportunità di avviare un costruttivo confronto con la Chiesa e di mediare, in quella sede istituzionale, i conflitti generati da contrapposte istanze sociali, religiose e politiche. D’altra parte, i rapporti intrattenuti dalla gerarchia ecclesiastica con il regnante furono quasi sempre connotati da atteggia-menti di riverente subordinazione. Tra gli esponenti della Chiesa che nel corso del VII secolo si distinsero particolarmente per l’efficacia e la rilevanza dell’azione svolta in campo sociale, culturale e religioso, vanno annoverati: il vescovo di Siviglia Leandro (m. nel 600); suo fratello Isidoro di Siviglia (m. nel 636); il vescovo di Saragozza Baulino (m. nel 651); il vescovo di Braga, Fruttuoso (m. nel 665) e quello di Toledo, Ildefonso (m. nel 667). Isidoro di Siviglia fu sicuramente la personalità di maggior rilievo culturale e religioso del VII secolo. Egli dedicò parte del suo impegno alla letteratura, perseguendo modelli letterari che guardavano all’eredità culturale romana. Le sue Etimologie sono oggi considerate le prime opere letterarie del Medioevo. Sul versante religioso si adoperò per infondere nei fedeli una più salda consapevolezza dottrinale, anche attraverso una più rigorosa regolamentazione e codificazione della liturgia cristiana. Isidoro fu infatti il principale ispiratore dei 14 canoni, dedicati alla liturgia, promulgati nel corso del IV Concilio di Toledo del 633; canoni che costituirono il presupposto dottrinale su cui si fondò la scrittura dei libri liturgici del successivo periodo mozarabico.

Nel IV Concilio di Toledo si affrontarono e definirono anche temi di carattere politico, come quello di far eleggere il re da un’assemblea mista, composta da vescovi e aristo-cratici visigoti e di consacrarne l’elezione adottando il rituale dell’unzione. La prima legittimazione del potere del sovrano, attestata secondo questo protocollo, risale tuttavia al 672.

Il ruolo esercitato dalla Chiesa nel processo di integrazione che si sviluppò, non senza contrasti e regressioni, fra i dominatori visigoti e la popolazione iberico-romana, fu dunque di fondamentale importanza e, nel dialettico dispiegarsi di questi rapporti, va soprattutto riconosciuto il primato acquisito dai rappresentanti della corte e dall’episco-pato di Toledo, città, questa, che divenne quindi il centro di riferimento laico e religioso dell’intero regno visigoto.

Claudio Sáncez Albornoz (1971) ha sostenuto, con convincenti argomentazioni, che nella società visigota del VII secolo si svilupparono, in tutte le sue articolazioni e isti-tuzioni, delle relazioni sociali sempre intrise di dipendenze personali di tipo “protofeu-dale”. Un si fatto sistema di vincoli sociali, affermatosi entro un quadro di progressiva

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ruralizzazione della popolazione sparsa sui territori occupati dai visigoti, trova dei relati-vi riscontri negli stretti legami, spesso sanciti da statuti specifici, che si registrarono tra le comunità rurali e le numerose abbazie, in generale di piccole dimensioni, costruite diffusamente in questo stesso periodo. Le caratteristiche architettoniche che denotano i complessi monastici superstiti, pervenuti fino a noi, per lo più connotate da accenti spaziali chiusi e minimali, lasciano effettivamente supporre un radicamento territoriale parcellizzato della società iberico-romana-visigota. E tuttavia, pur rinserrata all’interno di un circuito di relazioni frammentato, questa società riuscì a conservare un ampio respiro identitario, alimentato dalla comune fede cristiana, cementata dalla pervasiva e sostanzialmente conservativa dottrina della Chiesa.

Alla fine del VII secolo, le sfavorevoli condizioni economiche alimentate dalla ca-restia, protrattasi dal 680 al 687, il diffondersi della pestilenza nel 687-702, l’antise-mitismo violento, perpetrato nei confronti degli ebrei, e le incessanti lotte delle fazioni nobiliari, a cui vanno aggiunte le pesanti esazioni fiscali imposte alle popolazioni assog-gettate, portarono alla disgregazione e al definitivo declino dello stato visigoto. Con la morte del re Witiza, nel 710, la lotta per la successione al trono tra Rodorigo a sud e Agila II a nord fu causa di duri scontri che agevolarono l’invasione araba della penisola iberica. Le truppe berbere, guidate da Tāriq e Muza, dopo aver lasciato il Maghreb e attraversato lo stretto di Gibilterra nel 711, penetrarono nella regione Betica, sconfissero Rodorigo nella battaglia di Guadalete e occuparono Toledo. Due anni più tardi, nel 713, cadde anche Saragozza e tutta la penisola iberica, con l’eccezione delle Asturie, venne totalmente soggiogata dai musulmani (714).

CONSIDERAZIONI STORICHE ARTISTICHE E ARCHITETTONICHE

Il forte decremento demografico che si registrò nella penisola iberica già agli inizi del VI secolo, fu accompagnato da un progressivo spopolamento delle grandi città. Il len-to e inarrestabile processo di ruralizzazione della popolazione iberico-romana, favorì la formazione di piccoli centri abitati intorno alle villae romane. Molti dei grandi edifici di epoca classica andarono distrutti e i materiali di risulta più pregiati vennero riutilizzati per costruire nuovi edifici di culto e altre costruzioni civili, le cui piccole dimensio-ni meglio rispondevano alle esigenze delle comunità rurali che preesistevano o che si andavano formando nei territori dell’interno. Alcuni storici sostengono che l’originaria popolazione ispano-romana delle comunità rurali rimase di gran lunga la maggioritaria rispetto agli invasori visigoti, anche dopo il forte decremento demografico del VI secolo, e che la prevalenza del ceppo iberico-romano rese anche possibile una certa continuità con il passato tardo antico.

Questa convinzione ha portato a considerare un ventaglio più ampio delle possibili influenze esercitate dal mondo antico sull’arte del VII secolo visigoto, superando defi-nitivamente la posizione della storiografia del XIX secolo che vedeva in quest’arte una

matrice di impronta prevalentemente germanica o, in alternativa, fortemente influenzata da una onnicomprensiva arte bizantina. Le scoperte e gli studi della prima metà del Novecento hanno messo in evidenza la complessità delle origini del fenomeno artistico visigoto, rivelando una molteplicità di componenti: da quella paleocristiana africana, prima romana e poi bizantina, a quella germanica; da quella tardo antica delle province interne della penisola iberica a quella giustinianea della capitale Costantinopoli e delle altre province dell’ Impero d’Oriente, in particolare della Grecia e della Siria, senza escludere il riaffiorare di elementi indigeni preromani che rendono ancora più complesso e ingarbugliato il quadro di riferimento culturale di insieme.

Per questa sua complessità, alcuni archeologi spagnoli sono arrivati a definire l’arte ispanovisigota come “la concrezione nazionale dell’arte ispanocristiana” e a valutare l’arte romana originaria della penisola iberica e quella della tarda antichità, quest’ul-tima sempre più interessata da una crescente differenziazione provinciale, come fattori connettivi di continuità, su cui però le invasioni germaniche hanno interagito lasciando emergere una visione creatrice più libera da condizionamenti culturali e dunque con ricadute, a livello locale, più aperte agli apporti artistici delle mai sopite tradizioni del mondo indigeno preromano. In un si fatto crogiolo, nel quale si mescolano e si fon-dono temi e tecniche artistiche diversi, documentati da frammenti archeologici sparsi in una considerevole diversità di luoghi, J. Fontaine (1978) ha cercato di individuare quei tratti di omogeneità che caratterizzerebbero l’arte dei visigoti, riconoscendo, prin-cipalmente nella decorazione plastica, l’influenza decisiva esercitata dalla capitale del regno, Toledo, sull’arte della provincia, in particolare su quella del nord della penisola. Per Fontaine, l’apparecchio murario dell’architettura visigota, costituito per lo più da grandi blocchi di pietra squadrati, accuratamente tagliati e montati a secco, si distingue nettamente dall’opus incertum della maggioranza dei resti paleocristiani della peni-sola iberica e dalla muratura di piccole pietre grezze dei successivi edifici asturiani. La loro qualità e imponenza evocherebbero direttamente la tecnica dei monumenti di età romana della penisola. Inoltre, la presenza di decorazione scolpita, spesso integrata da pitture affrescate e da mosaici, connoterebbe questa architettura di caratteri distinti-vi e omogenei, sconosciuti nei monumenti della Spagna paleocristiana. In particolare, tali tratti distintivi si manifesterebbero nei capitelli, nei fregi orizzontali, nelle cimase, che profilano plasticamente le superfici delle pareti, e nelle cornici che sottolineano la curvatura delle arcate disposte lungo le navate o sormontano gli archi trasversali delle chiese. Ma l’elemento più originale che per Fontaine meglio caratterizza l’architettura vi-sigota è costituito dall’arco a ferro di cavallo, oltrepassato di circa 1/3 del raggio rispetto al diametro orizzontale. Il suo diffuso impiego, sia in pianta che in alzato, rende questa architettura sicuramente più affascinante, ma allo stesso tempo evidenzia “l’oscura com-plessità” della sua origine.

Il primo studioso a sollevare il problema dell’origine dell’arco a ferro di cavallo nell’architettura visigota fu Gomez Moreno. Nel suo celebre articolo: “Excursión a travéò del arco de herradura” (1906), fece osservare che la rappresentazione in

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serie di due o tre archi a ferro di cavallo era ampiamente diffusa nell’epigrafia leonese, asturiana e castigliana del II secolo d. C., come dimostra l’esempio della stele funeraria proveniente dalla regione di Lara, oggi conservata nel museo di Burgos. La diffusione di queste steli funerarie e le caratteristiche geometriche e dimensionali delle serie di archi oltrepassati, scolpite in leggero bassorilievo, indussero Gomez Moreno a supporre che esse rappresentassero semplicemente la trasposizione di motivi arcuati desunti dal repertorio dell’architettura reale. L’arco a ferro di cavallo appare infatti anche in alcuni impianti di ville ispano romane. Per Fontaine (1978), i riscontri storici e documentari ef-fettuati dall’archeologo spagnolo, successivamente corroborati da altri archeologi, hanno generato un certo scetticismo nei confronti di chi vorrebbe circoscriverne la comparsa ad una fase cronologica più tarda dell’architettura visigota. Fontaine, escludendo in ogni caso che questa revisione cronologica possa essere applicata indistintamente all’intero repertorio dell’architettura iberica del periodo visigoto, ha sostenuto che, qualunque sia l’origine di questo tipo di arco, indigena o importata da oriente, è molto probabile che i visigoti ne abbiano riformulato lo schema geometrico in modo autonomo e originale e che, in ogni caso, l’arco visigoto non deve essere confuso con l’arco a ferro di cavallo uti-lizzato nella successiva architettura del periodo arabo-ispanico. I rilievi effettuati dagli archeologi sulle caratteristiche geometriche di questi due diversi tipi di arco hanno in-fatti dimostrato che, in generale, l’arco visigoto oltrepassa il diametro orizzontale di circa 1/3, mentre l’arco arabo presenta una curvatura leggermente meno oltrepassata rispetto allo stesso diametro orizzontale. Inoltre, va considerato che, almeno nel caso della chie-sa visigota di San Juan Bautista de Baños (652- 661), la curvatura dell’arco trionfale, che separa la navata centrale dall’abside, oltrepassa il diametro orizzontale di 2/5, vale a dire di una misura sensibilmente maggiore di 1/3; caratteristica questa che ne accentua ulte-riormente l’effetto gonfiante. Vi sono anche altri elementi che contraddistinguono l’arco visigoto: l’appoggio sugli stipiti è usualmente realizzato senza la mediazione di cornici o abachi; la curva estradossale che delimita i conci di pietra tagliata della ghiera ten-de ad allontanarsi dalla curva intradossale in corrispondenza del diametro orizzontale, conferendo al disegno d’insieme dell’arco un effetto leggermente più schiacciato; e solo le linee di accoppiamento dei conci di pietra della parte superiore della ghiera dell’arco convergono verso il centro, mentre quelle che delimitano i conci più bassi della ghiera convergono su un punto spostato più in alto rispetto al centro del cerchio.

Fontaine ha anche prestato particolare attenzione al processo temporale e ai diversi modi in cui l’arte bizantina si è diffusa e ha esercitato la sua influenza tra i visigoti. A suo giudizio l’influenza bizantina ebbe modo di esplicare i suoi effetti molto prima della fase di riconquista del territorio iberico, iniziata da Giustiniano nel 552 e conclusasi nel 629, soprattutto attraverso l’Africa settentrionale, e perdurò per circa un secolo oltre lo stesso dominio politico bizantino della Spagna sud orientale. Significativa a questo riguardo è la scoperta dei resti della chiesa di Aljezares, risalente alla seconda metà del VI secolo. Situata a poca distanza da Cartagena (capitale dell’insediamento bizantino), fu in un primo momento riconosciuta dagli archeologi come “basilica bizantina”, cioè con carat-

teristiche proprie della fase di riconquista giustinianea. Ma in seguito, una più attenta e approfondita analisi comparativa rese evidente che si trattava di un edificio religioso che in tutti i suoi particolari costruttivi corrispondeva agli impianti delle chiese sorte in Afri-ca settentrionale nel corso dello stesso VI secolo. Analoghi fraintendimenti interessarono pure i giudizi critici espressi sui resti della chiesa di Vega del Mar. Secondo Fontaine, gli approfondimenti degli studi archeologici hanno reso possibile dimostrare il perdurare di una condizione di continuità nei rapporti intercorsi con le tradizioni costruttive dell’A-frica settentrionale anche durante il dominio politico bizantino della fascia costiera sud orientale della penisola iberica; mentre l’arte di Costantinopoli, nel senso stretto del ter-mine, incominciò a manifestare la sua influenza solo dopo la seconda metà del VI secolo, soprattutto sulla decorazione scolpita, e sull’architettura dell’intera penisola, attraverso l’importazione di pezzi scolpiti, come i capitelli, od anche, e in maggior misura, per cono-scenza indiretta dei motivi e delle forme attinenti il repertorio decorativo, incluso quello delle arti minori (gioielli, avori e tessuti). Inoltre, questo studioso non ha escluso che tra gli apporti dell’arte visigota siano da comprendere anche quelli appartenenti ad un orizzonte geografico più ampio: quali l’arte della Siria, dell’Egitto coopto e dell’Armenia. A suo dire, furono però le province più occidentali dell’Impero di Giustiniano, come la Sicilia, Ravenna e la stessa Africa settentrionale, legate tradizionalmente alla penisola iberica, che intensificarono maggiormente, insieme a Costantinopoli, la loro influenza diretta, non solo sull’arte delle province meridionali della Betica e di Cartagena, sotto-poste al dominio diretto bizantino, ma anche, e con maggiore evidenza, sull’ultima arte visigota prodotta al di fuori delle province sottomesse, come dimostrerebbero i così detti gioielli di Regesvindo e le chiese della meseta settentrionale. Inoltre, per Fontaine, l’arte visigota mostra, contemporaneamente, anche una certa continuità di frequentazione con l’arte ispano-romana dell’alto e del basso impero, come dimostrerebbero le riproposizioni di alcuni schemi decorativi desunti da precedenti romani e paleocristiani. Le trame ge-ometriche degli affreschi e dei mosaici, composti da circoli ed esagoni, furono spesso uti-lizzate nei rilievi scolpiti delle lastre dei cancelli del periodo visigoto. La trasposizione nella decorazione scolpita, a due dimensioni, di un tema pittorico appartenente all’esteti-ca tardo antica della Spagna romana, spiega, secondo lo studioso, la qualità ottica dell’ar-te del rilievo visigoto, incisa con bisellature molto accurate, tanto da apparire come una sorta di “pittura plastica” (figg.12,13). La continuità con il repertorio ispano-romano si evidenzia in maggiore misura nei pezzi di reimpiego rilavorati, nei fusti di colonne e nei capitelli. Addirittura, in alcuni edifici religiosi si possono osservare delle copie visigote di capitelli tardo romani, giustapposte nello stesso ambito ai capitelli originali. Ad esempio, a Mérida, architravi antichi, decorati a bassorilievo sulla superficie intra-dossale, furono riutilizzati come pilastri nei monumenti visigoti (figg. 14,15). In altri casi, l’opera scultorea degli artisti visigoti del VI e del VII secolo fu eseguita rispettando la parte incisa dai loro predecessori ispano-romani, sia dell’alto che del basso impero. Tutto questo dimostra per Fontaine un’indubbia contiguità, se non proprio continuità di sensibilità artistica fra la popolazione ispanica e i conquistatori visigoti.

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Fig. 12- Madrid, Museo Archeologico- lastra di transenna, seconda metà VII secolo, proveniente da Mérida. Due colonnette stilizzate sostengono un timpano triangolare con una conchiglia bordata da un cordone. Lo spazio tra le colonnette è ricolmo di foglie di vite e grappoli d’uva, disposti a quinconce.

Fig. 13- Mérida, Museo Archeologico Provinciale, lastra di transenna, seconda metà VII secolo. Particolare di nicchie alternate, triangolari e circolari, con conchiglie stilizzate bordate da cordoni.

Tra le colonnette, si alternano motivi geometrici e vegetali tendenti all’astrazione. In entrambe le figure 12 e 13 si ravvisa una certa dissoluzione della decorazione classica in forme

plastiche bidimensionali, che arrivano a ricoprire intere superfici, in una ripetizione infinita.

Fig. 14 - Alcazaba di Mérida, entrata nord alla cisterna. I due stipiti del portale sono pilastri di reimpiego probabilmente provenienti da una basilica visigota del VII secolo.

Fig. 15 - Alcazaba di Mérida, vista prospettica della prima galleria situata subito dopo l’ingresso nord alla cisterna. I due architravi dei varchi laterali e uno degli stipiti sono pilastri di reimpiego di epoca visigota. In entrambe le immagini (figg. 14-15), la presenza di motivi decorativi sulle superfici esposte dei pilastri, testimonia della tendenza visigota ad estendere la decorazione, che in epoca romana era in

genere limitata ai soli architravi, sulle superfici di altre membrature architettoniche; in questo seguendo la moda bizantina di Costantinopoli affermatasi nel corso del VI secolo. Questo tipo di decorazione

ripetitiva acquista così un proprio senso solo se riferita al suo originario spazio architettonico visigoto.

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Rispetto alla supposta continuità culturale sostenuta da molti specialisti del set-tore, si deve tuttavia richiamare l’attenzione su un ulteriore fattore che per certi versi ha alterato i rapporti delle influenze esercitate sull’arte dei visigoti. Gli storici hanno osservato che nei paesi dell’Impero d’Occidente, che hanno subito le invasioni barba-riche, riaffiorarono elementi indigeni o locali, in ragione dell’affievolirsi dell’impronta romana, soprattutto nelle regioni che erano state meno romanizzate. Questo fenomeno assunse un carattere più rilevante in Spagna e in particolare nei territori situati lontano dalla costa mediterranea. Vi sono numerosi esempi che possono attestare questo pro-cesso, attentamente analizzati da Puig y Cadafalch (1961) con l’intento di mettere in rilievo, nelle rappresentazioni artistiche influenzate dalle culture esogene, quei temi e quei sincretismi ornamentali generati dal substrato culturale propriamente iberico. Le steli funerarie della conca del Duero, come ad esempio quella di San Cébrian de Ma-zote, hanno tramandata un certo repertorio arcaico che servì da modello agli invasori visigoti per le decorazioni scultoree inserite negli edifici della regione castellano-leo-nese. In particolare, nella chiesa visigota di San Pedro de la Nave (612 - 680?), presso Zamora, si possono osservare, nel braccio sinistro della crociera, delle steli di arte indigena romana con incisi dei dischi solari o svastiche. Un identico motivo è pure ripetuto nei fregi decorativi realizzati da artefici visigoti sulle pareti del transetto dello stesso edificio. Si tratta in definitiva di simboli astrali di forma elementare, ereditati dal passato preistorico e tracciati con la riga e il compasso, cioè con le stesse modalità tecniche ed esecutive utilizzate in età preromana per incidere le forme di argilla prima di sottoporle a cottura.

La compresenza in età preromana e visigota del motivo delle “greche ondulate” nelle decorazioni scolpite della penisola iberica, ha sollevato in Fontaine ulteriori in-terrogativi su come questo cortocircuito temporale si sia potuto determinare. Vi po-trebbero essere stati dei legami diretti o indiretti tra i due fenomeni artistici; come è possibile che gli artisti visigoti abbiano ritrovato nella loro memoria visiva temi deco-rativi correlati a monumenti di epoca e origini diverse, od anche che si siano limitati a copiare le forme arcaiche, o che, meno probabilmente, le abbiano addirittura reinven-tate. Un analogo fenomeno di sovrapposizione imitativa si riscontra anche rispetto alla tecnica di intaglio e di bisellatura delle steli funerarie “indigeno-romane”, praticate in Castiglia sia nella prima che nella tarda età imperiale, e che ha coinvolto anche le opere scolpite di derivazione orientale. Ciò troverebbe un ulteriore conferma nella produzione dei sarcofagi romani della Burba. In questi territori vi sarebbe quindi stata una tradizione conservativa delle tecniche e di alcuni temi artistici che travalicarono i limiti temporali correlati alle singole fasi storico-stilistiche. Ragion per cui l’arte dei visigoti non poteva che essere un “arte di sintesi”, con profonde radici ispaniche che, sotto il profilo strettamente cronologico, incominciò a manifestare i propri tratti caratteristici con Leovigildo (567-586) e soprattutto con Recaredo I (586-601), e si esaurì con la fine del regno di Toledo.

Uno dei vettori attraverso il quale è possibile valutare il processo di mutazione-

ibridazione del costume artistico dei visigoti è costituito dalla lavorazione degli oggetti preziosi. Nel 1861 J. Amador de los Rios, nel confutare la tesi di F. de Lasteyrie (1860) circa la presunta origine germanica della corona votiva di Guarrazar (gioielli rinvenuti nella sepoltura del re visigoto Recesvindo, morto nel 672, sulla meseta ca-stellana), ribaltò completamente l’orientamento critico del tempo, qualificandoli come “romano-bizantini”. Con il succedersi dei ritrovamenti, delle scoperte archeologiche e della conseguente sistematizzazione cronologica dei reperti, divenne sempre più chia-ro che l’arte del metallo dei visigoti, in particolare le spille ad arco e le fibie dei cin-turoni, smaltate con granate o pasta di vetro colorata, ove meglio si riconoscevano le caratteristiche stilistiche germaniche, fosse quella per lo più prodotta nel periodo ante-riore alla conversione al cattolicesimo dei visigoti, avvenuta nella tarda seconda metà del VI secolo. D’altro canto, lo stesso Fontaine (1978), ha considerato che i visigoti conservarono prevalentemente il proprio costume germanico per un periodo di tempo circoscrivibile intorno ad un secolo, e che i contatti dei visigoti con l’arte dell’Oriente greco e con la moda della tarda romanizzazione furono molto precoci. Attraverso l’in-tensificarsi degli scambi commerciali si determinò quindi una progressiva mutazione dei costumi e la produzione degli oggetti preziosi più autenticamente visigota diven-ne uno dei principali agenti di trasmissione della moda e delle tecniche orientali. A questo assunto si contrappongono, in parte, le considerazioni di Schlunk e Hauschild (1978), secondo i quali, dell’attuale patrimonio artistico, quello che più si caratterizza in senso germanico è quasi esclusivamente limitato ai corredi funerari dei visigoti e alla loro produzione di monete; mentre la restante attività artistica, specie quella legata alla produzione dell’architettura religiosa e del relativo patrimonio scultoreo, mantiene fermi i segni di continuità con la tradizione paleocristiana, almeno fino allo scorcio del VI secolo. Arbeiter (2004), nel confermare sostanzialmente la posizione critica di Schlunk e Hauschild, ha ulteriormente precisato che a partire dalla metà inoltrata del VI secolo e fino alla conquista musulmana, nella così detta produzione artistica del regno di Toledo, nota per i suoi tratti distintivi con il termine di “arte visi-gota”, le connotazioni germaniche, quando affiorano, sono come riassorbite all’interno di una matrice romana o bizantina. Perciò, la definizione di arte visigota poco si adatta alle caratteristiche di tali espressioni artistiche, che più opportunamente dovrebbero essere indicate con termini più generici, come “arte del periodo visigoto” o, in alter-nativa, “del maturo o tardo periodo visigoto” od anche “del regno visigoto di Toledo”.

Per ciò che concerne le tecniche costruttive, la consuetudine di apparecchiare le strutture murarie ad opus incertum e con spessi giunti di allettamento, propria dell’architettura tardo antica romana, continua ad essere esercitata nelle prime fasi del regno visigoto, come dimostrano i muri superstiti, costituiti da materiale povero e frammentario, di alcune chiese rurali di datazione coeva, situate nelle regioni sud occidentali della penisola. Alcuni studiosi ritengono che questo modo di realizzare le strutture murarie si protrae almeno fino agli inizi del VII secolo. Per Molinero Pérez (1953) sono da ricondurre all’attività edificatoria dei visigoti i pochi resti di edifici

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religiosi scoperti nei pressi della necropoli di Ventosilla y Tejadilla nella provincia di Segovia, e quelli rinvenuti a Herrera de Pisuerga nella provincia di Palencia. Al perio-do visigoto va anche ricondotta la chiesa di Recopoli, nella provincia di Toledo, il cui impianto planimetrico è costituito da una navata connessa, sui fianchi e sulla testata di ingresso, ad ambienti molto stretti (simili agli omologhi ambienti affiancati alla na-vata del piccolo edificio triabsidato del San Salvatore di Brescia dell’VIII secolo) e da un’abside che all’interno è conformata ad arco a sesto oltrepassato e all’esterno assume la forma di un rettangolo.

Per Zamorano Herrera (1974) e Storch de Gracia y Asensio (1986) vanno anche attribuiti al periodo del regno di Toledo gli edifici religiosi situati a ovest e a nord della penisola iberica; mentre il copioso repertorio plastico decorativo, generalmente su pietra, disseminato su più vasta scala territoriale (nello stesso altipiano a nord, nella regione di Beja, nella città di Tarragona e i suoi dintorni e nella capitale Toledo), presenta, per questi stessi autori, connotati stilistici i cui tratti comuni lasciano ipo-tizzare l’affermazione di un linguaggio artistico avente una sua specifica e riconosci-bile caratterizzazione e una portata culturale, religiosa e sociale che dovette investire l’intero territorio dominato dai visigoti.

Premessa alla diffusione della decorazione plastica è l’affermarsi nel VII secolo della tecnica costruttiva con blocchi di pietra sbozzati e ben squadrati, apparecchiati a corsi paralleli o pseudoisodomi e con giunti privi o quasi di malta. Tale tecnica consentiva infatti di utilizzare le superfici lapidee del paramento murario come piani continui su cui incidere i rilievi plastici a bassorilievo che, in alcuni casi, venivano scolpiti direttamente in corso d’opera (Hauschild, 1972; Porter, 1980).

Secondo Arbeiter (1996), Feld (1996) e Hauschild (1996), il tipo di paramento murario in blocchi di pietra squadrata e l’attitudine ad arricchire le pareti con rilievi plastici trovano riscontri in area bizantina e furono probabilmente introdotti in Spagna nella seconda metà del VI secolo attraverso Mérida (nell’attuale provincia di Estre-madura), centro di riferimento culturale dell’antica Lusitania, sede dei traffici da e verso l’Oriente e di un episcopato che annovera tra i suoi vescovi Paolo (+ 560) e Fe-dele (+ 571), entrambi di origine greca. Tutti gli edifici religiosi gravitanti nell’area di Mérida presentano strutture murarie eseguite con blocchi di pietra squadrata. Questa tecnica, sicuramente più onerosa, venne probabilmente giudicata dai contemporanei anche più evoluta, tanto che, già agli inizi del VII secolo, sostituì gradualmente la mu-ratura apparecchiata ad opus incertum della tradizione tardo antica, come sembrano dimostrare i reperti architettonici superstiti di questo periodo. Nei resti della chiesa rurale di Vera Cruz de Marmelar, in Portogallo (del VII secolo), è stato individuato un caso specifico di reimpiego di materiale lapideo tardo antico, sbozzato e squadrato ex novo e arricchito da elementi plastico decorativi a basso rilievo (Schlunk e Hau-schild,1978).

Le ipotesi cronologiche riguardanti le probabili datazioni degli edifici religiosi del periodo visigoto realizzati nel corso del VII secolo, compresi quelli in blocchi di

pietra squadrata tuttora esistenti, sono state messe in discussione da Camón Aznar (1950), successivamente da Puig y Cadafalch (1961) e, più recentemente, da altri stu-diosi quali: Ferreira de Almeida (1993), Cabalero Zoreda (1994-1995; 1997; 2000), e Real (1995; 2000). Con varie argomentazioni, questi studiosi hanno sostenuto che la datazione della maggior parte degli edifici così detti visigoti debba essere spostata più opportunamente a dopo il 711, anno dell’invasione musulmana. Per sostenere questa loro posizione, gli autori citati hanno ritenuto di individuare delle dirette influenze stilistiche tra il repertorio scultoreo cristiano appartenente a questi stessi edifici, e l’arte omayyade introdotta in Andalusia dalla Siria. Ma il dibattito tra gli specialisti del settore è tutt’oggi ancora aperto (cfr. Visigodos y Omeyas, 2000). Infatti, secondo Arbeiter (2000), questa suggestiva ipotesi di revisione cronologica va limitata ad una parte molto piccola del patrimonio architettonico e scultoreo preso in esame; così come gli influssi direttamente islamici possono essere riconosciuti solo ad un numero ancor più ristretto di questi edifici.

D’altra parte, non bisogna dimenticare che, con la caduta del regno visigoto con-seguente all’invasione islamica (711-714), la popolazione cristiana non interruppe la propria produzione artistica, la quale, pur conservando alcune delle sue principali ca-ratteristiche visigote, si arricchì di nuove esperienze costruttive e decorative, mutuate dai repertori di origine islamica.

La presenza e il perdurare di una componente germanica nell’arte dei visigoti può essere esaminata anche sotto un’angolazione sociologica e psicologica. Il fenomeno di acculturazione degli invasori visigoti deve infatti aver assunto un certo grado di reazione al processo di ibridazione culturale venutosi a creare quando i conquistato-ri entrarono in contatto più o meno stabile con le popolazioni assoggettate; processo che per certi versi è simile all’analogo fenomeno di acculturazione osservato fra gli invasori longobardi in Italia settentrionale. Si dovrà precisare nella penisola iberica la stratificazione di diverse culture, a cominciare dai radicamenti di quella indigena, e il loro diverso grado di attecchimento e assorbimento nell’organizzazione sociale tardo romana, sempre più sospinta, nel corso del VI secolo, verso la frammentazione sociale prefeudale, hanno notevolmente complicato il quadro del processo di ibrida-zione culturale. Tale fenomeno, nonostante sia ampiamente manifesto nella produzione artistica e architettonica del VII secolo, soprattutto nella Spagna centrale e setten-trionale, non ebbe tuttavia modo di fare avvertire compiutamente i suoi effetti per la traumatica invasione musulmana del 711. Ciò nonostante, nelle zone geograficamente più isolate, come nell’autonomo regno delle Asturie, la reattività degli invasori visigoti nei confronti dei modelli tardo antichi e paleocristiani assunse una dimensione più consistente, con esiti che anticiparono di oltre un secolo alcune delle caratteristiche spaziali dell’architettura propriamente asturiana.

Con l’avvento del dominio arabo, le popolazioni meridionali e centrali della pe-nisola iberica accentuarono, per così dire, l’atteggiamento di chiusura conservativa, tesa a preservare le proprie prerogative culturali e religiose. La produzione artistica

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dell’VIII e IX secolo riflette quindi una stratificazione culturale ancor più intersecata da influenze diverse, definita dagli specialisti arte mozarabica, cioè arabizzata. Ciò ha determinato, per un verso, l’arresto dell’evoluzione del processo di ibridazione cultu-rale dispiegatosi attraverso i visigoti, che perciò registrò la riproposizione di repertori artistici e architettonici legati alle consuetudini già acquisite, e, per altro verso, si arricchì di nuovi temi artistici introdotti dai dominatori musulmani.

Sotto il profilo storico-cronologico, l’architettura della penisola iberica, dall’alto medioevo fino alle soglie del romanico, è stata distinta in tre periodi: quello del regno dei visigoti (VI-VII secolo - inizio VIII secolo); quello asturiano (inizio IX - inizio X secolo); e quello denominato mozarabico (dal IX secolo circa al 1030 circa).

Bonelli (1997-2003), ha sostenuto che l’architettura iberica di questi tre periodi presenta un grado di definizione sostanzialmente unitario dei tipi edilizi e dell’arti-colazione strutturale delle murature, tanto che in tutto l’arco temporale qui preso in considerazione si possono riconoscere agevolmente evidenti elementi di continuità.

Questa tesi, pur condivisibile per alcuni suoi aspetti, trascura totalmente quei trat-ti di discontinuità con il passato che l’architettura altomedievale iberica ha prodot-to nell’arco della sua evoluzione. La presunta continuità del processo formativo e di sviluppo dell’architettura della penisola iberica, particolarmente quella della zona settentrionale, va infatti circoscritta solo ad alcune caratteristiche strutturali che con-notano gli alzati delle chiese visigote, asturiane e mozarabiche. Inoltre, gli edifici di queste tre fasi architettoniche non danno affatto luogo ad uno stile unitario riconosci-bile nella sua continuità, quanto, piuttosto, ad una sorta di ventaglio diversificato di soluzioni architettoniche, sperimentate e circoscritte in specifici ambiti territoriali, ove sicuramente si riconoscono alcuni elementi lessicali comuni.

Si può in ogni caso affermare che, inizialmente, con la conversione al cattolicesimo del re visigoto Recaredo I (587), si assiste ad una fase di ibridazione culturale, nel corso della quale si definisce un’architettura religiosa che riprende lo schema dell’im-pianto basilicale, così come si era venuto evolvendo nell’intero bacino mediterraneo orientale alla fine del V e del VI secolo. Contemporaneamente e nelle fasi successive, una volta metabolizzati gli schemi basilicali protobizantini, soprattutto africani, e le soluzioni spaziali già sperimentate in ambito propriamente bizantino e siriano, si in-comincia a manifestare una tipologia dalle forme massicce e fortemente caratterizzate, i cui innesti contaminanti in alcuni casi resero possibile definire soluzioni inedite e originali. Va inoltre aggiunto che il rituale liturgico codificato dall’episcopato iberico all’inizio dell’alto medioevo, citato per l’appunto come visigoto o mozarabico, e ap-plicato con continuità fino all’XI secolo, ha notevolmente influenzato la disposizione degli ambienti interni degli edifici a pianta basilicale. La spazialità “compartimentata” degli interni delle chiese di questo periodo si evidenzia soprattutto lungo le linee di connessione tra navate, transetto e ambienti absidali, e diventa particolarmente evidente quando la disposizione delle absidi assume la rara forma di una “pianta a tridente”, ovvero con i tre ambienti rettangolari della testata orientale indipendenti

tra loro e, in alcuni casi, con l’abside centrale più sviluppata in profondità rispetto alle due laterali.

La cesura tra navata e transetto si accentua ulteriormente in quelle chiese dove l’elemento di interconnessione si riduce alle dimensioni di una vera e proprie strettoia, conformata a “collo di bottiglia” (fig.16); e questo per rispondere ad una specifica regola imposta alle comunità monastiche dalla liturgia iberica. Schlunk (1965) aveva già fatto notare l’importanza delle arcate di separazione tra navata, transetto e abside, soprattutto nelle chiese destinate alle comunità monastiche.

Fig. 16- Alquescar, Spagna, Santa Lucia del Trampal, VII secolo.Veduta esterna della testata orientale e pianta. Si osservi la caratteristica disposizione “a tridente” delle absidi

indipendenti e lo stretto passaggio a “collo di bottiglia” che collega la navata centrale al coro-transetto.Nello schema dell’impianto è evidente il tentativo di frammentare l’unità dello spazio assiale

longitudinale dello schema basilicale tardo antico.La compartimentazione dello spazio interno, comune a molti altri edifici altomedievali dell’Europa

occidentale, è qui enfatizzata dalla presenza di transenne che sottolineano la cesura da un ambiente all’altro.

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Per lo studioso, la conformazione in tre ambiti distinti, separati da elementi, diver-samente qualificati sotto il profilo architettonico, era giustificata dalla necessità di pri-vilegiare il rapporto di vicinanza tra il celebrante, situato nell’abside, e i monaci, che confluivano in assemblea attraverso le porte laterali disposte sui bracci del transetto.

Successivamente, Fontaine (1978) richiamò l’attenzione degli studiosi sulla pre-fazione scritta nell’XI secolo all’Antifonario di León (del X secolo), la quale, a suo dire, sembra ancora rievocare la disposizione tripartita degli impianti religiosi non solo per rispondere alla necessità di orchestrare la musica e il canto dei chierici secondo l’antico rituale liturgico visigoto o mozarabico, ma anche per dare modo agli stessi monaci di riunirsi nel coro-transetto o crociera, in diretta prossimità dell’altare. Altri studiosi, come Godoy Fernández (1995) e Bango Torviso (1997), confermano questo tipo di disposizione della chiesa visigota. Al celebrante era riservata l’abside cen-trale, dove normalmente trovava posto l’altare maggiore, separato dal presbiterio per mezzo di transenne; mentre gli altri membri del clero o della comunità monastica, non celebranti, erano riuniti nel coro-transetto. Le navate, riservate all’assemblea dei fe-deli, erano a loro volta separate dal coro-transetto da altre transenne. Si venivano così a costituire tre compartimenti distinti, ciascuno con sue proprie funzioni religiose e liturgiche, e ciascuno connotato da caratteri spaziali aventi un diverso grado di defini-zione, strutturale e architettonico, sottolineato dall’ampiezza e dall’altezza dell’imposta delle volte di copertura dell’area presbiteriale e degli ambienti absidali, dalla disposi-zione e dallo spessore dei setti murari divisori, dal numero e dalla larghezza dei varchi arcuati praticati tra un compartimento e l’altro, dalle scansioni ritmiche e dalla qualità decorativa delle membrature che articolano le pareti nei singoli ambienti.

Molte delle chiese di impianto basilicale, spesso di modeste dimensioni ma con i bracci del transetto ben sviluppati, assumono una conformazione più contratta sull’as-se longitudinale, che si evidenzia maggiormente nella disposizione degli alzati. In que-sto tipo di chiese, i bracci del transetto si innestano nel corpo prismatico della navata ad un livello preferibilmente più alto e sono affiancati da atri di ingresso di dimen-sioni più ridotte, tanto che all’esterno l’aggregato dei volumi assume una disposizione che rammenta quella, omologamente affine, delle chiese protobizantine ad impianto centrico, vale a dire con una disposizione dei volumi che scala progressivamente dal quadrato centrale agli ambienti collaterali. Inoltre, questi edifici presentano ambienti di dimensioni limitate, coperti da volte a botte od anche, e più raramente, a cupola o con volte a crociera, che ne accentuano la chiusura plastica rispetto allo spazio cir-costante. Muri traforati da arcate a ferro di cavallo su colonne o su pilastri separano il presbiterio dalla navata, a sua volta scandita da arcate su robusti e corti pilastri, trattati preferibilmente con paramento rustico, che conferiscono allo spazio un’atmo-sfera di mistica essenzialità, resa ancor più penetrante dal profondo addensamento delle ombre. L’altare per le celebrazioni liturgiche è solitamente confinato all’interno dell’abside maggiore, di pianta quasi sempre rettangolare allungata e disposta nella zona più ad est dell’edificio.

Per Krautheimer (1993), tutte le chiese della penisola iberica, dal VII al X seco-lo, ripropongono schemi compositivi dell’Asia Minore. Anche questo studioso esclude quindi definitivamente dalle possibili linee di influenza il tipo basilicale romano. Si è già fatto rilevare che, per ragioni storiche, geografiche e di scambi commerciali, il sostrato culturale della penisola iberica, e in paticolare quello delle province orien-tali e meridionali, venne fortemente influenzato dal portato artistico e architettonico dell’Africa del nord, di Costantinopoli e della Siria bizantina.

Uno dei temi architettonici che affrontarono gli artefici delle chiese visigote, e sul quale è opportuno riflettere, è sicuramente quello incentrato sulla ricerca di una com-posizione spaziale degli interni che rispondesse alle esigenze funzionali definite dai precetti liturgici della Chiesa iberica altomedievale. Gli artefici delle chiese di questo periodo, non meno di quanto fecero le maestranze dei successivi periodi asturiano e mozarabico, pur continuando ad esprimersi nel solco delle tradizioni culturali ere-ditate dal passato tardo antico, conferirono alle nuove architetture delle specifiche caratteristiche spaziali, per lo più protese a interrompene l’assialità longitudinale della basilica con diaframmi murari trasversali, traforati da varchi e nicchie di dimensioni e forme diverse; e questo al fine di demarcare la separazione delle diverse funzioni liturgiche ospitate al suo interno.

I risultati più significaivi di questa linea di ricerca, che attraversa ininterrotta-mente anche i periodi asturiano e mozarabico, si avvertono principalmente in quelle chiese dove la prevalente assialità longitudinale del tradizionale impianto basilicale è costantemente messa in discussione dalla sensibile contrazione in lunghezza delle navate e dalla presenza di transetti sviluppati in altezza e dilatati trasversalmente da avancorpi addossati alle estremità dei bracci; mentre la testata orientale, costitu-ita in genere da un volume compatto e squadrato all’esterno e tripartito all’interno o, più raramente da tre absidi indipendenti tra loro e conformate a “tridente”, si pone quasi come un corpo a se stante. L’organismo nel suo insieme appare quindi come un aggregato di volumi elementari, giustapposti tra loro, e privi di ulteriori elementi volumetrici di mediazione. Inoltre, all’esterno, il protendersi dei corpi secondari sugli assi ortogonali, quali l’atrio di ingresso in facciata e gli atrii sulle testate dei bracci del transetto, promuove un effetto radiante simile, per certi versi, agli organismi a pianta centrale. All’interno, le navate, unitamente alla contrazione longitudinale, presentano, in alcuni casi, un dispiegamento di membrature architettoniche, sulle fiancate e sulla parete divisoria del presbiterio, disposto in modo da suscitare un effetto simmetrizzan-te dello spazio o, quantomeno, un rapporto incrementale della componente trasversale rispetto a quella longitudinale, enfatizzato ulteriormente dalla presenza dei varchi di ingresso posti sulla mezzeria delle fiancate. La semplicità dello schema compositivo di insieme concepito dai costruttori visigoti delinea quindi un processo destrutturante del modello basilicale orientale, che diviene, contemporaneamente, prefigurazione di un nuovo schema, il quale incorpora in se i semi, contaminati e ibridati, della decora-zione architettonica e della plastica lapidea bidimensionale, assunta da fonti indigene

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arcaiche, iberico-romane, bizantine e tardo antiche, sia delle fasi più remote che di quelle temporalmente più vicine; schema rigido e funzionale alle norme liturgiche, e votato all’innovazione soprattutto nell’articolazione della parte orientale della chiesa.

L’intersecarsi e il sovrapporsi delle influenze culturali prodotte nell’ambito me-diterraneo, orientale e meridionale, costituisce dunque l’intricato tracciato sul quale lievitarono le chiese visigote. I modelli architettonici che influenzarono questa linea di tendenza, vanno individuati: per l’aspetto della composizione volumetrica degli ester-ni, negli impianti basilicali dell’Africa settentrionale e della Siria; e per le dispo-sizioni simmetrizzanti degli interni delle aule assembleari, negli impianti basilicali greco-bizantini, anch’essi caratterizzati da una dilatazione trasversale delle navate, per accogliere il recinto presbiteriale, posto generalmente nel mezzo della navata mag-giore. J. Fontaine (1978), riprendendo gli studi e le argomentazioni critiche svolte da altri studiosi (P. De Palol, 1967 ; H. Schlunk e T. Hauschlild, 1978), ha rivolto la pro-pria attenzione a quel margine di confine sud orientale della penisola iberica costituito dalle isole Baleari, le quali testimoniano, con i propri antichi reperti di architettura cristiana, un punto di esplicazione delle influenze esercitate dall’Africa e dall’Oriente, in quanto si antepongono, anche geograficamente, alle manifestazioni architettoniche della vicina costa tarragonese.

Sotto il profilo storico è utile ricordare che le isole Baleari appartennero al regno vandalo dell’Africa dal 476 al 534 e, in seguito alla campagna militare di riconquista del generale Belisario (534), tornarono sotto il dominio bizantino fino all’invasione araba del 711.

Le tre basiliche cristiane di Maiorca, rinvenute nel corso di varie campagne di scavo, sono ormai compromesse dalla non corretta esplorazione dei reperti murari originali; mentre i resti della basilica situata sulla costa meridionale di Minorca, a sud est della spiaggia di Son Bou, scavata in tempi più recenti e con metodi scientifici più rigorosi, conserva ancora integralmente la sua configurazione planimetrica origi-naria. Da questo monumento si possono quindi trarre utili indicazioni sulle origini dei modelli di chiese cristiane nell’isola, risultando tra tutti i rinvenimento archeologici scavati nelle Baleari il più istruttivo per la chiara disposizione del suo impianto (Fon-taine, 1979).

La piccola basilica è inscritta in un rettangolo di 26,3 metri di lunghezza per 12,4 metri di larghezza, all’interno del quale si situano: il nartece, preceduto da un piccolo vestibolo di forma cubica, posizionato però al di fuori del lato corto occidentale del rettangolo; le tre navate, suddivise da una doppia serie di quattro pilastri rettangolari liberi e quattro semipilastri addossati rispettivamente, due per parte, alla parete in-terna del nartece e, sul versante opposto, al muro che divide il presbiterio dalle stesse navate. L’abside semicircolare, affiancata da due profondi ambienti, larghi quanto le navatelle, conclude l’impianto verso oriente. Ai tre accessi della facciata (quello cen-trale è inquadrato nell’avancorpo), corrispondono altrettante porte di ingresso che dal nartece introducono alle navate e da queste ai tre ambienti della zona absidale. Il

sistema distributivo degli accessi e dei percorsi interni segue quindi la tripartizione assiale longitudinale dell’impianto, dove però la maggiore ampiezza dei varchi disposti sull’asse centrale, rispettivamente nell’avancorpo, nel nartece e nell’abside, come la maggiore ampiezza della navata maggiore, rispetto alle due navate minori, stabiliscono una chiara e lineare gerarchica delle spazio interno, gravitante sull’asse centrale lon-gitudinale.

L’ultima campata della navata maggiore, che precede l’ingresso all’abside, è leg-germente sopraelevata rispetto al livello pavimentale della chiesa. Se si considera che nelle altre due basiliche di Minorca la pavimentazione dei recinti presbiteriali pre-senta dei singolari motivi decorativi che si distinguono nettamente dalla restante pavi-mentazione, è lecito supporre che anche nella basilica di Son Bou l’ultima campata fosse riservata alla celebrazione liturgica e che quindi fosse anch’essa delimitata da transenne (fig.17).

Fig. 17- Isola di Minorca (Spagna), pianta della basilica paleocristiana di Sou Bou, V-VI secolo. L’impianto è molto simile allo schema delle basilicale mediorientali, come quello della chiesa siriana di Claudianus en Oumm-ej-Jimal (VI secolo). Il piccolo vestibolo anteposto alla facciata è invece di

derivazione nord africana, come documentato nella chiesa di S. Salsa di Tiplisa. L’avancorpo di facciata diviene in seguito un elemento caratterizzane di molte chiese visigote, asturiane e mozarabiche.

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Più approfondite analisi effettuate sui reperti archeologici di Son Bou sembrano confermare che in origine si accedesse ai due ambienti situati ai lati dell’abside unica-mente attraverso i due varchi praticati in corrispondenza degli assi longitudinali delle navatelle e che le tracce di possibili varchi nei muri divisori tra questi due ambienti e l’abside centrale possano invece appartenere ad una diversa e successiva fase di dis-tribuzione dei percorsi interni all’area santuariale. In ogni caso, le funzioni liturgiche di questi due ambienti sembrano significativamente corrispondere a quelle praticate nelle basiliche orientali, e precisamente: l’ambiente di sinistra, alla prothesis o sala della “proposizione”, dove veniva preparata la “specie” su una apposita mensa; e l’am-biente di destra, al diakonikon, ambiente riservato ai diaconi, dove si conservavano gli oggetti e i paramenti sacri per la celebrazione liturgiche.

Nella prothesis di Son Bou, le prospezioni archeologiche hanno anche portato in luce una vasca cilindrica di pietra monolitica, rozzamente intagliata e modellata con quattro lobi al suo interno. Una vasca battesimale della medesima forma e tecnica di lavorazione scultore, si conserva nella basilica bizantina di Monte Nebo (597), nell’at-tuale Giordania occidentale; e ciò porta a supporre che la prothesis di Son Bou sia stata successivamente adibita ad aula battesimale.

Della chiesa non si conservano altri reperti scultorei, o mosaici ed iscrizioni. Res-tano tuttavia alcune sezioni degli alzati: i monconi dei pilastri rettangolari, che forse sostenevano arcate a tutto sesto; parte della muratura superiore, che insieme ai pilastri sono stati costruiti con blocchi di pietra calcarea, facilmente reperibile in loco; e gli stipiti in pietra monolitica della porta di entrata alla navata maggiore. I blocchi di pie-tra sono sbozzati con grande maestria e benché l’apparecchio murario presenti una dis-posizione irregolare, i giunti stretti e rettilinei sono definiti con scrupolosa precisione. Sia l’impiego dei pilastri nelle navate, sia il modo in cui sono stati lavorati e apparec-chiati i blocchi di pietra dei muri rimandano chiaramente ai modelli siriani. Fontaine ha infatti individuato delle similitudini planimetriche molto strette tra la basilica di Son Bou e quella della chiesa siriana nota con l’appellativo di Claudianus en Oumm-ej-Jimâl, datata al IV secolo, appartenente, per così dire, al tipo basilicale «classico» originario di quella regione Medio orientale.

Per altro verso, il piccolo vestibolo anteposto alla facciata del nartece, in asse con la navata maggiore, di cui non si conosce la specifica funzione, se non probabilmente quella puramente architettonica di enfatizzare, con la sua aggraziata forma cubica, l’ingresso alla chiesa, trova analoga disposizione nelle basiliche africane, come quella di Santa Salsa di Tiplisa, dove però è affiancato da due corpi sopraelevati. Tutto ciò conduce a ritenere che la basilica di Son Bou possa risalire al V secolo; mentre la pila battesimale, con i suoi simboli cruciformi intagliati nella pietra rudemente sbozzata, dovrebbe riferirsi ad una seconda fase, ascrivibile al VI secolo, quando si suppone si perse il significato dell’antica liturgia della “proposizione”. Fontaine, propone inoltre suggestivi confronti tra l’opera muraria di Son Bou e le preesistenze megalitiche di

Minorca, vale a dire la così detta ”navata” e la “taulas” risalenti all’età del Bronzo, ravvisando negli stipiti monolitici che delimitano la porta di ingresso della navata maggiore una rude essenzialità dell’ intaglio che li avvicina ai talayots (dolmen) preistorici. Si tratta evidentemente di suggestive evocazioni che tuttavia mettono in campo un’altra delle tematiche riguardanti l’architettura e la decorazione visigota: quella imperniata sui possibili rapporti che intercorrono tra la scultura dei visigoti e l’equivalente repertorio scultoreo indigeno preromano, ancora oggetto di un controver-so dibattito tra gli studiosi.

In conclusione, la piccola basilica di Son Bou, come, in ultima analisi, anche tutte le altre basiliche conterranee, si pone come testimonianza di un avamposto geografico che, insieme ai porti della costa orientale e meridionale della penisola iberica, hanno per primi acquisito e diffuso alcuni schemi tipologici e modalità costruttive orientali, poi ripresi dai visigoti. La sua disposizione planimetrica, inscritta in uno rettangolo (i lati sono in rapporto di circa 1:2,5), con il suo recinto presbiteriale transennato e anteposto all’abside, entro il quale si situava l’altare del celebrante, costituiscono una sorta di lascito che le maestranze visigote utilizzarono cercando di mantenere fermo lo schema planimetrico rettangolare e trasformando il recinto presbiteriale in un am-biente autonomo dalle navate, a queste variamente interconnesso con arcate e a volte anche parzialmente compenetrato. Gli esiti furono per certi versi sorprendenti, specie là dove la contrazione longitudinale delle navate e la dilatazione dei corpi trasversali portarono all’affastellata disposizione di cellule parallelepipede elementari. I visigoti, inoltre, nell’abbandonare il muro romano tardo antico, costituito da piccole bozze di pietra, adottarono nelle loro costruzioni l’apparecchio in pietre squadrate a giunti stretti e il pilastro rettangolare, anch’essi mutuati dal vicino Oriente; lo stesso tipo di pilastro che in seguito venne largamente utilizzato nelle chiese asturiane dell’VIII e IX secolo, per sostenere le pesanti volte di copertura delle navate. L’arco oltrepassato, forse originario del nord Africa, comunque di antica tradizione nella penisola iberica meridionale, fu anch’esso diffusamente utilizzato sia nell’articolazione planimetrica della testata orientale, sia nei massicci muri delle chiese visigote, riconfigurandone le forme con sapiente maestria e tratti di indubbia originalità. Resta da vedere se, e in quale misura, i visigoti siano stati protagonisti attivi di questo processo evolutivo, all’interno del quale i manifesti sincretismi stilistici che si scorgono nelle loro opere scultoree mostrano una dialettica interazione con il lascito culturale tardo antico, reso senza dubbio più dinamico e interattivo all’indomani della conquista della penisola.

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