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3 L’AZ iONe L ETTURE ESTIVE Dieci agosto duemilatre Settimanale della diocesi di Vittorio Veneto (Iscritto al n. 11 del Registro stampa del Tribunale di Treviso il 21-9-1948 e al Reg. Naz. della Stampa con il n. 3382 vol. 34 f. 649 del 5-9-91 - Iscr. ROC n. 1730) Direttore responsabile GIAMPIERO MORET Redazione e amministrazione Tel. 0438 940249 e-mail: [email protected] www.lazione.it Via J. Stella, 8 - Fax 0438 555437 stampa: Grafiche FG - Ponte di Piave- TV ABBONAMENTI 2003: Annuale (50 numeri) 40 Semestrale 22 Sostenitore 80 Per lestero chiedere in amministrazione. Conto corrente postale n. 130310 I dati forniti dai sottoscrittori degli abbonamenti vengono utilizzati esclusivamente nellambito della nostra attivit e non vengono ceduti a terzi per alcun motivo. Questo settimanale è iscritto alla FISC Federazione Italiana Settimanali Cattolici ed associato all’USPI Unione Stampa Periodica Italiana Chiuso in redazione il 28.7.2003 alle ore 18.30 L’AZ iONe Socio del CONSIS CONSORZIO NAZIONALE SETTIMANALI SOC. COOP. a r.l. - ROMA Questo numero speciale de L’Azione - un dono per le vostre vacanze - pubblica i racconti del concorso sulla montagna dell’anno 2003 che hanno ricevuto un alto punteggio. Precisamente presenta otto raconti della sezione adulti e otto della sezio- ne ragazzi. Il concorso, promosso da L’Azione e da altre associazioni, ha lo scopo di mantenere vivo l’amore per la montagna, in particolare per le nostre montagne, le Prealpi trevi- giane e bellunesi, che a volte sono un po’ trascurate a causa delle vicine sorelle, le Dolomiti, molto più famose. Ma anche le Prealpi hanno un loro fascino e delle ca- ratteristiche che non si trovano nelle montagne più alte. Narrare i ricordi, le emozioni e i sentimenti che le montagne hanno suscitato in noi è un mezzo per intensificare questi stati d’animo e rafforzare l’amore per esse. Quest’anno il tema specifico era “Un incontro speciale in montagna”. Noterete che non tutti i racconti si sono tenuti strettamente al tema, ma abbiamo sorvolato que- sta imperfezione, guardando soprattutto all’originalità e la bellezza del racconto. Questo fascicolo vi è stato inviato non solamente per dilettarvi nella lettura, ma an- che per coinvolgervi nella scelta dei vincitori, esprimendo la vostra valutazione. Leggete bene le istruzioni sulle modalità del voto nella pagina seguente. Buona lettura e buone vacanze. (GpM) PRESENTAZIONE

L’AZiONe L ETTURE ESTIVE 3 Dieci agosto duemilatre · 5 L’AZiONe L ETTURE ESTIVE Dieci agosto duemilatre I N D I C E - I sedici racconti in ordine casuale Come per la prima edizione,

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3L’AZiONeL E T T U R E E S T I V E

Dieci agosto duemilatre

Settimanale della diocesi di Vittorio Veneto(Iscritto al n. 11 del Registro stampa del Tribunale di Treviso il 21-9-1948 e al Reg.Naz. della Stampa con il n. 3382 vol. 34 f. 649 del 5-9-91 - Iscr. ROC n. 1730)

Direttore responsabile

GIAMPIERO MORETRedazione e amministrazioneTel. 0438 940249 e-mail: [email protected] J. Stella, 8 - Fax 0438 555437stampa: Grafiche FG - Ponte di Piave- TV

ABBONAMENTI 2003:Annuale (50 numeri) 40 Semestrale 22 Sostenitore 80

Per l�estero chiedere in amministrazione.

Conto corrente postale n. 130310�I dati forniti dai sottoscrittori degliabbonamenti vengono utilizzatiesclusivamente nell�ambito dellanostra attività e non vengono cedutia terzi per alcun motivo.�

Questo settimanaleè iscritto alla FISCFederazione ItalianaSettimanali Cattolici

ed associato all’USPIUnione StampaPeriodica Italiana

Chiuso in redazioneil 28.7.2003 alle ore 18.30

L’AZiONe Socio del CONSISCONSORZIO NAZIONALESETTIMANALISOC. COOP. a r.l. - ROMA

QQuesto numero speciale de L’Azione - un dono per le vostre vacanze - pubblica iracconti del concorso sulla montagna dell’anno 2003 che hanno ricevuto un altopunteggio. Precisamente presenta otto raconti della sezione adulti e otto della sezio-ne ragazzi.Il concorso, promosso da L’Azione e da altre associazioni, ha lo scopo di mantenerevivo l’amore per la montagna, in particolare per le nostre montagne, le Prealpi trevi-giane e bellunesi, che a volte sono un po’ trascurate a causa delle vicine sorelle, leDolomiti, molto più famose. Ma anche le Prealpi hanno un loro fascino e delle ca-ratteristiche che non si trovano nelle montagne più alte.Narrare i ricordi, le emozioni e i sentimenti che le montagne hanno suscitato in noiè un mezzo per intensificare questi stati d’animo e rafforzare l’amore per esse.Quest’anno il tema specifico era “Un incontro speciale in montagna”. Noterete chenon tutti i racconti si sono tenuti strettamente al tema, ma abbiamo sorvolato que-sta imperfezione, guardando soprattutto all’originalità e la bellezza del racconto.Questo fascicolo vi è stato inviato non solamente per dilettarvi nella lettura, ma an-che per coinvolgervi nella scelta dei vincitori, esprimendo la vostra valutazione.Leggete bene le istruzioni sulle modalità del voto nella pagina seguente.Buona lettura e buone vacanze. (GpM)

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Dieci agosto duemilatreDieci agosto duemilatre

II NN DD II CC EE -- II sseeddiiccii rraaccccoonnttii iinn oorrddiinnee ccaassuuaallee

Come per la prima edizione, anche quest’annosaranno i lettori de “L’Azione” a designare i vincitori

del concorso, scegliendo il racconto che più hanno ap-prezzato delle due sezioni.

La Giuria, composta da don Giampiero Moret, Aldo Toffoli, Giu-liano De Marchi, Enrico Dall’Anese e Clementina Cecchinel, que-st’anno ha selezionato, tra i 102 racconti inviati, otto testi per laSezione Adulti e otto per la Sezione Ragazzi.La parola, anzi la lettura, passa ora alla giuria popolare dei nostrilettori, invitati a leggere in queste settimane estive tutti i racconti ea esprimere le loro preferenze, utilizzando la cartolina postale al-legata a questo fascicolo. Il termine ultimo per spedire la cartolinaè stato fissato per venerdì 12 settembre 2003. Se per tutti gli au-tori dei racconti selezionati ci sarà un riconoscimento, ai vincitoridelle due sezioni andrà un premio speciale consistente in una ce-sta di prodotti tipici locali. A tutti i partecipanti andrà un attestato.

1 - Fantasia di un incontro di Valentina Azzalini - Vidor................................................... 62 - Fior d’amor di Daniela Da Dalto - Conegliano.............................................................. 73 - Teresa di Bruno Lorenzon - Roncade............................................................................ 84 - Profumo di Francesco Paloschi - Mestre Venezia....................................................... 105 - Un’ombra alla fine del sentiero di Giuseppina Piovesana - Chiarano....................... 146 - La via romana di Elena Naglia Sartori - Vittorio Veneto.............................................. 167 - La contessa Vittoria di Marliviana Schilirò - Basalghelle di Mansuè.......................... 188 - Un violino altrove di Marita Ceccon - Falzè di Piave.................................................. 21

1 - Nino Della Zentil di Ines Ballarin- Terza media - Cordignano..................................... 282 - La Regina di Veronica Bardin - Seconda media - San Pietro di Feletto...................... 303 - In cerca di riparo... di Gianna Saviane - Prima media - San Fior............................... 314 - Cuore di montagna di Simone Ros - Seconda media - Cordignano.......................... 325 - A tu per tu con la marmotta di Chiara Callegher - Quinta elementare - Refrontolo.. 336 - In Cansiglio con il Maggiore Harold William Tilman di Silvia Tonon - Terza mediaVittorio Veneto................................................................................................................... 34 7 - Harry Potter sullo Schiara di Denise Consalvi - Terza media - Cordignano.................... 368 - Nel meraviglioso mondo di Toio di Francesca Scarabel - Terza media - Vittorio Veneto. 39

SSEEZZIIOONNEE RRAAGGAAZZZZII

SSEEZZIIOONNEE AADDUULLTTII

VV OO TT AA EE FFAA II VV IINNCCEERREE IILL RRAA CCCCOO NN TT OO PP IIUU’’ BB EELLLLOO !!

Questi i promotori del Concorso: L’Azione, Agesci Gruppo di Vittorio Veneto 1, As-sociazione culturale Cimbri del Cansiglio, Associazione culturale Al Mazarol, Asso-ciazione provinciale Dottori in Agraria e Forestali di Treviso, Associazione La Via deiMulini, Gruppo Alpini di Tovena, Gruppo Marciatori di Refrontolo, Pro Loco di Miane,Pro Loco di Valmareno

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La classe più numerosa -La classe con più partecipa-panti alla Sezione Ragazzi èla classe Seconda media diSan Pietro di Feletto, che siè aggiudicata una visita gui-data ad alcune malghe dellenostre Prealpi.

Spett.le L�Azione

�Concorso Letterario�

Via Jacopo Stella, 8

31029 Vittorio Veneto TV

AFFRANCA-

RE

0,41 €

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SSeezziioonneeAAdduullttii

di Azzalini ValentinaVidor

AAAA ltre volte l’avevo vista e sempre mi affascina-va il suo modo di essere. Ora snella, con mo-venze leggere, pallida ed altera nelle vesti mor-bide e fluttuanti, sfumate di verde o di azzurro.Ora vivace, quasi allegra, con abbigliamento piùdeciso e segnato, nei colori arancio o rossi. Inquesti casi io accennavo ad un saluto o ad unoscambio di sguardi. Subito si ritraeva, mante-nendo le distanze, per poi rincorrermi. Mutevole,ma sempre sicura di sé. Era molto civettuola,devo dire, si lasciava ammirare muovendosi len-tamente.Quella sera dovevamo incontrarci, noi dell’asso-ciazione. Ero uscita due o tre volte per guardaredalla parte del Pizzòc. Quaggiù pioveva, lassù ilcielo era spento. Quando arrivai in mezzo al meCanséi, cominciavano a scendere i primi fiocchi;lenti, soffici, belli, grassi. Proprio neve, neve.Ogni fiocco riempiva il palmo di una mano. La riu-nione finì a notte fonda, fuori il bosco s’era rico-perto di cinque o forse più centimetri di morbidaneve. Avviai lentamente la macchina. Accelerato-re appena “puntato”, come mi aveva insegnatomio padre. Il cielo si era “alzato” e mentre per-correvo le curve che portano al Pian Cansiglio,striature chiare si aprivano fra le nubi scure. Lacurva a destra, la piccola discesa, la curva a sini-stra.Eccola, lei, in attesa. Se ne stava proprio di fron-te a me, a circa dieci metri di altezza, laggiù so-pra Le Rotte. Argentata e fredda, con grandi alibianche che le uscivano dai fianchi, allontanandole nubi pesanti. Era diversa dalle altre volte. Misembrava più disponibile, quasi sorridente. Forse

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perché eravamo sole io e lei? La guardai timida-mente. Ero incerta se andare o no per quella stra-da che nessuno aveva percorso dopo la nevica-ta. Mi guardava, invitante. Mi avviai in “secondaappena puntata” e entrai nel suo mondo. Ebbil’impressione di sollevarmi da terra, di arrivare al-la sua altezza. Ora ne ero certa, lei mi sorridevaospitale e silenziosa. Vedevo laggiù la luce di unamalga, a destra le sagome appena accennatedelle stalle, delle casere. La chiesetta di S. Osval-do addormentata nella notte bianca. ‘L Pian dal-le morbide dune ondeggiava sulle note di un vien-nese. Il silenzio si muoveva in una sfera ovattatadandomi una leggera euforia.

***

E vado, dove pur solo la fantasia, dove la perfe-zione non conosce la misura del tempo e dellospazio. E’ meraviglioso fluttuare in questa dimen-sione.Mi accorgo che sono alla fine del rettilineo. Scen-do dalla macchina decisa a tornare indietro. De-vo assolutamente riprovare quelle sensazioni eapprofondirle di più. Il cielo è acceso e sgombroda nubi. Lei si sta allontanando veloce verso imonti dell’Alpago. Non si volta al mio sguardo.Come non mi avesse mai vista, come non fossimai stata sua ospite. Vorrei trattenerla, parlareper un attimo di questi meravigliosi momenti cheho vissuto. Ringraziare. E’ inutile ogni richiamo, lavedo tuffarsi nelle piccole nuvole adagiate sui pi-ni lontani.Lentamente scendo verso Vittorio Veneto. Le lu-ci, le case, le strade sono le stesse di sempre. Ioinvece, sono ricca di un bellissimo ricordo. Ungiorno forse, racconterò del mio incontro con laluna.Ma troverò le parole giuste?

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di Daniela Da DaltoConegliano

TTTTanto, tanto tempo fa, sul far del tramonto di unlungo dì d’estate, me ne andavo senza fretta tra iprati e boschi del Monte Serva. Farfalle e fiori rav-vivavano le loro tinte dispiegando ali e petali al ri-flesso dorato dell’ultimo sole. Sentii uno stropicciod’ali, vicino, e appena mi voltai la vidi: una grossamosca pelosa, stranamente immobile vicino adun’incantevole Orchidea Mosca. Mi chinai ad os-servare le sfumature gialle della corolla punteggia-ta di scuro. Madre Natura dovette essere stata mol-to indaffarata, o distratta, il gior-no in cui creò fiori ed insetti; intutto e per tutto simile ad una mo-sca, eppur fiore, quella bizzarracreatura sembrava protestareper il destino riservatole. Sentiiun flebile bisbiglìo: «Non ce lafaccio più ad aspettare.» Era lamosca che si lamentava som-messamente. Ricordando di ave-re qualche granello di zuccherosul fondo di una tasca, sparso daun sacchettino che vi si era rotto,glielo porsi. Dopo qualche minu-to la mosca, rinvigorita, disse:«Come posso ricompensarti peril tuo aiuto? Ti racconterò la sto-ria di un incantesimo, avvenutotanti anni fa.» Fu così che ebbi notizia di unaleggenda conosciuta solo agliabitanti del bosco; narrata infini-te volte dalle fate ai loro bambini.Pare che un antenato della mo-sca, precisamente il nonno delnonno di suo nonno, fosse per-dutamente innamorato di una bellissima moschi-na. Era così graziosa che tutti la chiamavano Fio-re; aveva il musetto bianco, il pancino color marro-ne con puntini giallo oro, le alucce di sottile organ-za viola ed era così vanitosa da portare sempre, amò di cuffietta, una piccola foglia verde brillante. Un brutto giorno, sorvolando raso un prato fiorito,le giunse all’orecchio che ci sarebbe stato un con-corso di bellezza; la prestigiosa competizione, ri-servata esclusivamente ai Fiori di Campo, era pre-sieduta nientemeno che dalla Regina delle Fate.La sciocchina, seduta stante, decise che vi avreb-be partecipato.E così fece: il giorno del concorso abbracciò stret-

to un bel filo d’erba fresco e stette lì, immobile co-me un fiore cullato dolcemente dal vento. Nessunosi era accorto dell’inganno perché pratoline, ange-liche, papaveri e botton d’oro erano tutti impegnatia lisciarsi bene i petali. C’era molta agitazione nelprato quando, in tarda mattinata, arrivò la giuria. I fiori erano al loro massimo splendore e le Fate,valutando attentamente tutti i pistilli, le corolle, lefoglie ed i profumi si fermarono spesso vicino aquello strano fiore a forma d’insetto.Poi, dopo un breve consulto, furono radunati Fol-letti, Elfi, Gnomi ed animali del bosco e la Reginadelle Fate proclamò: «Di tutti i fiori in bella mostra

la vincitrice è, fuor di dubbio, l’Orchidea Mosca!»Proprio in quel preciso momento,con la giuria sospesa solenne-mente in volo, alla piccola vanito-sa scappò uno starnuto. Etciù!Tutta la radura ammutolì, stupitae indignata; neppure il vento sof-fiò per un terribile, infinito istante,poi, con una stoccata di bacchet-ta, la Regina la trasformò, persempre, in fiore.Il bis-bis nonno, disperato, videtutta la terribile scena senza po-ter intervenire in alcun modo.Non gli rimase che ascoltare at-tentamente la formula magica,l’unica che avrebbe potuto, ungiorno, spezzare l’incantesimo: «Deliziosa tu saraima volar più non potraiSol un battito il risveglio durerà se nessun con amor ti guarderà.»Da quel giorno, solo una voltal’anno e solo per la durata di un

battito d’ali di fata, la moschina si risveglia. Di non-no, in padre, in figlio; di generazione in generazio-ne i discendenti del povero moscone innamoratoaspettavano il risveglio dell’Orchidea Mosca, sen-za mai riuscire a cogliere il breve, fuggevole attimoper svegliarla dal sortilegio. Ormai era buio, un po’ triste mi incamminai versocasa. Il giorno dopo tornai sul Monte Serva ma – e lo soche non mi crederete - l’orchidea, e la mia mosca,non c’erano più.

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di Bruno Lorenzon Roncade

QQQQuando lo vidi per la prima volta era appoggiatoalla staccionata e la lunga asta dell’alzabandiera sidisegnava alle sue spalle; teneva un piede sulla tra-versa più bassa, il busto infagottato dentro un’enor-me giacca a vento. Mi pareva che ridesse, ma nonebbi il tempo di accertarmene perché scomparvedietro la curva del sentiero. Quando superai l’ultimabalza lo rividi, ancora nella stessa posizione, in at-tesa che strascicassi le ultime scarpinate; e - dav-vero - rideva! Davanti a me si parava la porta dellacasèra: un paio di tavoli, poche panche, formaggioe latte e grappa e magari un minestrone per pochiescursionisti; fungeva, d’estate, anche da rifugio maera piuttosto la casa di Gianni Groz, che meno gen-te vedeva e meglio stava.«Beh, cosa c’è da ridere?» Erostizzito perché, diavolo, uno non siarrampica fin lassù per dare spet-tacolo a uno sbarbatello.«Allora, hai perso la lingua? Nonridi più?»Già il viso era colorito di suo, madiventò ancora più rosso; nascosecon una mano il sorriso sulla boc-ca (ma non quello negli occhi chia-ri) e con l’altra m’indicò il fianco,ammiccando. Come piegò la testada un lato movendosi senz’alcunamalagrazia mi accorsi dei capellibiondi raccolti sotto il berretto edelle belle mani curate. Lì per lìnon ci feci caso, intento com’ero aosservare l’ampia scucitura neimiei pantaloni corti di fustagno;scendeva dalla tasca fino all’orloinferiore che sventolava come una randa, scopren-do a ogni passo la biancheria intima. Mio malgradosorrisi anch’io e infilai sveltamente l’uscio.Il padrone non c’era, l’avevano ricoverato a Trevisonel reparto di urologia, alla sua età certi problemi siaggravano. La moglie non sembrava preoccupata.«Sempre il migliore, siora Maria, il suo spezzatino.Quando me la da la ricetta?»«Via, via, gliel’ho detto: ci vuole l’acqua di qui, l’ariabuona e l’appetito. Lo sa che il Gianni mi ha man-dato a dire che non vede l’ora di mangiare qualco-sa di sostanzioso, che lì in ospedale non gli dannopolenta e tocio ed è per questo che lui non si rimet-te in fretta?»Sì, come Bertoldo, pensai, ma non glielo dissi. In-

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tanto però mi ha inguaiato, il Gianni. Sono salitoquassù per fotografare i camosci, e adesso...«Chi mi aiuta con l’attrezzatura, siora Maria? Se va-do solo, poco combino con Canon e tele, anche selascio qui il treppiede.»«Lei intanto va su, il letto è pronto e ci ho messo ilpiumone come il solito, che lo star bene viene daipiedi caldi, e domani si vedrà. La Teresa pare unospeck ma ha gambe e occhi buoni e si arrampica co-me le capre.»«La Teresa?»«Certo, mia nipote: l’ha incontrata proprio oggi. Ge-sù! e non è stato mica fine, sa, un giovanotto comelei, presentarsi a una ragazza con le brache scuci-

te. Ma lei non l’aveva mai vista pri-ma, vero? Ha finito le superioriquest’anno, per questo si ferma unpo’ di tempo qui da noi, mi da unamano finché Gianni è via. E’ la fi-gliola della Caterina - ma sì, di miasorella vedova, poverina -ma è co-me se fosse anche figlia nostra, dinoi che di figli il Signore non ce neha voluto dare. Ma vedrà, in cittànon sono riusciti a farla disamoraredel suo paese.»«Così tu saresti la nipote del Gian-ni. Mica gli somigli, sai? Lui ha lespalle un bel po’ più larghe e... labarba. Ma quanti anni hai. Tere-sa?»A guardarla meglio si vedeva beneche non era un maschietto. Insom-ma, la forma e la grazie e certe ro-tondità sono inequivocabili; anzi,

vestita come si conviene, poteva essere davverouna bella ragazza. Era ancora buio, fuori, ma lechiare stelle settembrine bastavano ad accenderetenui bagliori sulle aride crode del Grappa, comefuochi di Sant’Elmo sui pennoni di un vascello gi-gantesco. L’aria era frizzante, odorosa di fieno e difuochi di legna, di stallatico e... di caffè. Controllai ilcarico e gli strumenti disposti dentro e fuori gli zaini,diedi un tocco a Teresa, masticai un arrivederci allasiora Maria e ci incamminammo.Due ore buone ci vogliono, dalla casera del Giannialla cengia dei camosci. Teresa era taciturna comesuo zio e teneva (lo riconobbi) la stessa andatura.Giungemmo sotto la Pala Sbusa mentre la primasciabolata di luce spazzava le cime dei cespugli ab-

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barbicati ai sassi. Con pochi cenni Teresa era giàentrata nella parte, che era stata quella del Gianni;io presi ad armare i miei obiettivi e lei apparecchiòper la colazione. Tra un boccone e l’altro disse chesì, c’erano corni oltre la cengia, lo aveva detto lo zioall’ospedale; occorreva appostarsi sopra la PalaSbusa e quelli si sarebbero fatti vedere sul ciglione.Non faceva domande: guardava, curiosa, le mac-chine e gli attrezzi; sorrideva spesso, un po’ concompatimento, forse dubitava che riuscissi a cattu-rare le immagini autentiche della natura. Stava –magrolina ma non spigolosa - stagliata contro il cie-lo chiaro come la silhouette di un camoscio sulla cre-sta; e aveva un che di tenero e di acerbo, di forte edi leggero, che dava piacere e ti infondeva un sensodi pace che l’ora e l’occasione concorrevano ad ac-centuare.Ci scoprimmo a guardarci, io e lei masticando delpane buono che c’eravamo portati; alzai gli occhi al-la cengia: formava uno scalino naturale davanti anoi, quasi un trampolino di roccia, poi una cre-pa di un paio di metri di larghezza la fen-deva e ci sbarrava il passo, e di là daquella una corona di massi delimi-tava una conca verde-azzurra in-castonata ai piedi del cielo.Quando andavo col Gianni, luisaltava bravamente di là, liberodai pesi, quindi trasbordavamogli zaini e infine mi dava un trat-to di corda e saltavo anch’io. Mistavo risolvendo a muoverequando Teresa, che aveva già af-fardellato il suo sacco, mi prevenne:«Io non ci passo, per prima. Se non civa lei, prenderemo un’altra strada; magarilunga ma più sicura.»Aveva l’aria contrita eppure stranamente speranzo-sa. Non so cosa mi prese ma d’improvviso: «Andia-mo» dissi, «faccio strada io.»Raccolsi il cordino e lo svolsi; agganciai il moschet-

tone alle cinghie dello zaino che posai sull’orlo deldirupo. Dopo il salto, Teresa mi avrebbe buttato la ci-ma, avrebbe fatto rotolare il sacco dentro la crepa eio l’avrei issato sull’altra sponda. Con lo stesso si-stema avrei trasferito l’altro sacco, poi lei. Soltantoqualche spuntone di roccia ammiccava qua e là toc-cato dall’alba; qualche fascia di erba azzurrina sistriava di verde e di giallo dove i raggi del sole filtra-vano fra le creste dentellate e i radi cembri. Arretraidi qualche passo, poi presi lo slancio. Mancai l’appi-glio e rovinai su un fianco del canalone dentro la cre-pa, la dannata crepa della Pala Sbusa; ruzzolai peruna decina di metri, urtai la morena sassosa, mi fer-mai intorpidito a ridosso di un lastrone di schisto chenon mi prese, per fortuna, di taglio.Teresa si portò le mani alle tempie, fece «Oh!» esparì dalla vista. Intanto chiazze sempre più vaste diluce ravvivavano il sentiero che avevamo percorsodi buon’ora. Dopo una quarantina di minuti la rividi:aveva risalito la crepa penetrandovi da un punto più

a valle e procedendo come in un canion, icapelli sciolti sulle spalle, il treppiede

stretto in mano come un alpenstock; erideva! Scuoteva la testa, ma rideva!Io sentivo un male cane, adesso,dopo la botta, ma non mi risolvevone a gridare ne a imprecare. Do-potutto, come maschio, avevo deidoveri, no?Teresa non disse una parola. Po-sò l’attrezzo badando di non rovi-narlo, poi si chinò su di me, mi ta-stò le braccia, la testa, le gambe;mi diede un paio di pacche sul to-

race, mi tese la mano. Quando,barcollando un poco e abbastanza av-

vilito mi tirai in piedi (niente di rotto, per fortuna) ed’istinto le passai un braccio intorno alle spalle, leigirò il viso e gli occhi ridenti verso di me e... mi det-te un bacio.Rientrammo alla casèra a pomeriggio inoltrato.

PPRROOFFUUMMOOPPRROOFFUUMMOO

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SSeezziioonneeAAdduullttii

di Francesco Paloschi Mestre - Venezia

MMMMartedì 4 marzo 2003Sono partito da Mestre dopo avere depositato ibambini dai nonni e Paola al lavoro. Passati alcunigiorni fiacchi di pioggia, mi accoglie una giornataprimaverile. Scivolo sull’autostrada rilassato,ascolto un blues in cassetta con un occhio allastrada e uno alla campagna. L’A27 è un mostro an-tiecologico, la testa divora l’entroterra venezianocon una ridda di spire d’asfalto, la coda ferisce lavalle Lapisina e vi si erge arrogante sulle sue zam-pe di cemento armato. Un ponte insolente tra unagglomerato umano volgare e il regno della rocciae della pace. La percorro sempre con qualche sen-so di colpa. Ma la percorro. Raggiungo il casello diVittorio Veneto sud intorno alle nove. Apro il fine-strino per pagare e respiro già un’aria migliore.Due euro e ottanta.Sempre più care micostano, queste pa-rentesi.Si sale. La Uno èdell’ottantotto, cento-novantamila chilome-tri portati con orgo-glio. Mi conduce susenza affanni, fino aFregona, un paeseche è il suo campani-le. Lo scorgi e sei si-curo di non averesbagliato la stradaper il Cansiglio. Sostoqui per una piccolaspesa, devo integrareil panino portato dacasa. Faccio un saltodi là della piazza incuriosito dalla vetrina della proloco. Vi campeggia una cartina della zona, sopraqualche prodotto d’artigianato locale. Al vetrostanno affisse delle locandine, promuovono unaconferenza, una sagra, un concorso letterario.Prendo la macchina e riparto. Il motore ‘Fire’ ma-stica brioso i tornanti. Ho spento la radio, preferi-sco prepararmi al silenzio. A quota 850 metri, in lo-calità Valsalega, compaiono le prime macchie dineve. Fino a tre giorni fa ha insistito il freddo, chesoltanto adesso allenta la morsa sulle montagne.La fa ggeta fa la sua apparizione inconfondibile esolenne. Dalla Crosetta discendo per gli ultimi chi-lometri ed accedo alla piana cristallizzata e deser-

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ta. Sorrido al pensiero di sfuggire il caos turisticodomenicale. Parcheggio davanti alla sede di Ve-neto agricoltura e scendo. Porto con me l’agendae una penna.Entro. Da basso non c’è nessuno. Sento dei passidi sopra, una ragazza si protende con aria indaffa-rata dalla cima della scala di legno e mi domandacosa desidero.«Cercavo Toio De Savorgnani» dico.«Sì, venga su».In fondo al corridoio, scesa la rampa a sinistra, mispiega. M’incammino. Qui lavorano in uffici di le-gno profumato circondati dalla corona delle mon-tagne. Siedono al computer, discutono, ragionano,e ogni tanto un’occhiata alla finestra. Come fosseuna finestra normale. Trovo Toio seduto in uno

stanzino colla scriva-nia r ivolta verso i lgruppo del Cavallo.Mi porge la mano conla quale ha imparatoa convivere e a strin-gere altre mani. Le di-ta le ha lasciate tuttein dono all’Himalaia,congelate. Mi sorridecol suo sguardo sce-vro di orpelli e di pro-blemi superflui. Ven-go da lui per avere ilnumero che mi avevapromesso, quello delgestore del Casellodella guardia. Con gliscout abbiamo pro-grammato un’uscita

quassù per la fine di maggio. Accompagnerò il‘clan’ a conoscere Toio, una chiacchierata sul rap-porto tra uomo e natura. L’incontro con Toio è l’in-contro con la montagna. Lui ci vive in simbiosi permestiere e per vocazione. Le spedizioni sulle gran-di cime asiatiche ed europee, le battaglie ecologi-ste con Mountain Wilderness, l’impegno scientifi-co e divulgativo qui al Cansiglio. Soprattutto, la suaintimità con la foresta dei Cimbri. Nei suoi scrittiToio racconta che il bosco è popolato di spiriti, chela montagna è un organismo vivente. Io gli credo.Ci congediamo e scendo. Riprendo la Uno e vadoa posteggiarla in fondo alla piana. Rassetto lo zai-no, vestiario, cibo, libri. Finalmente mi metto in

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marcia. La temperatura è gra-devole, resto in pail. Una sen-sazione anomala dopo i rigoridi febbraio. Mi appropriodell’intera vallata con losguardo. Le lame ghiaccia-te scintillano sotto il sole.Salgo fino al villaggio cim-bro “I Pich”. E’ barricato,asettico, bardato di an-tenne e parabole. Mi pa-re che qui i Cimbri c’en-trino poco. Prima d’im-mergermi nella forestaestraggo un pacchettodallo zaino. Mi è venuta famee a Fregona ho comprato delle “chiacchiere”. Aproe attacco. Distendo una cartina per terra, confron-to il panorama, mi oriento e macchinalmente infiloi dolci in bocca. Una pacchia. Quando riparto, mi accoglie la quiete della pecce-ta. Solo gli scarponi scricchiolano sul sentiero in-nevato. Poche settimane fa eravamo venuti in que-sto stesso punto con Paola e i bambini. Mi pare dirisentirlo, Davide, mentre mi chiede di poter porta-re a casa un ramoscello che ha raccolto sulla ne-ve. Piccoletto, ti adoro. Proseguo lungo il sentierofiancheggiato da due muri di giovani abeti. Il con-tatto carnale col regno arboreo è di quelli che mi ri-caricano per un mese. Faccio spesso delle pause,immobile, ad ascoltare l’assoluto silenzio. Mentrebarcollo sul ghiaccio punteggiato di aghi secchi, miguardo cautamente dallo scivolare. Una cadutaqui, rifletto, potrebbe immobilizzarmi. Battere la te-sta, rompere una gamba: chi mi ritroverebbe, purea pochi metri dalla piana abitata?La foresta si dirada, mi circonda di piante vetuste,slanciate, coi rami concentrati nella porzione som-mitale. E’ il “Bosco Vecchio” di Dino Buzzati. Pareche lo scrittore si sia ispirato camminando da que-ste parti. Nel romanzo, alla vita di ciascun abeteera legata quella di un genio del bosco. I geni sianimavano all’imbrunire e in un convegno som-messo confabulavano su come resistere ai tagli eai soprusi degli uomini. Mi piace muovermi blan-damente, come un cervo a zonzo nel bosco. Unostrido si leva di lontano, lo direi un rapace. La neveche ammanta il sottobosco ovatta i rumori e rendepiù tenue ogni pensiero. D’istinto accarezzo unacorteccia, struscio una fronda tra i polpastrelli,adagio la mano su un tappeto di muschio. Mi uni-sco alla natura e mi pacifico con me stesso, men-tre una linfa nuova mi attraversa. Saranno gli spiri-ti di Toio ma non mi sento solo.

E’ mentre m’indugio a guarda-re il gioco prospettico dei fustinella profondità del bosco, cheEnrico compare. Proprio dietrodi me, accosciato sopra il mar-gine del sentiero.«Enrico, amico mio» vorrei riu-scire a dire. Invece taccio impie-trito. Mi discosto di due passi e lofisso agghiacciato, impotente, co-me ci si arrende a un lupo sbuca-to dalla selva. Lui mi osserva conun sorriso che vorrebbe rassicu-rarmi. Mi accorgo che è lucente,agile e scolpito com’era primadella malattia. Il colore del ma-

glione che indossa si confondecon le tinte del bosco. Con un balzo

scende più vicino. Punta i pugni sui fian-chi e rimane ritto in piedi, larghe le gambe, gonfioil torace da sportivo. Ne riconosco ogni mossa.Scuote la testa sdrammatizzando la commozioneche mi sale agli occhi. Provai la stessa incapacitàd’estrarre la voce solo davanti ai bambini espulsiviolacei dal ventre di Paola.Lanciandomi un’occhiata sbarazzina, si china adestrarre due ciottoli calcarei da una sezione sco-perta di suolo. Il primo sasso lo lancia, teso, e cen-tra in pieno un tronco lontano. L’impatto col legnorisuona secco nel silenzio del bosco. Quindi mi sfi-da porgendomi l’altra pietra, come facevamo sem-pre, come se questi quattordici anni non fosseromai passati. Il mio tiro è più arcuato, fiacco e ver-gognosamente fuori bersaglio. Mi guarda e noncommenta, continua solo a sorridere. Racimolo leforze per biascicare due parole, che restano lì ap-pese alla mia faccia stralunata.«Come… Tu…»Enrico solleva la testa. Con uno sguardo incantatoabbraccia l’intreccio di fronde smeraldine che in-tarsia l’azzurro del cielo. Non compare traccia su dilui del gonfiore umiliante con cui il cortisone gli ave-va sformato le carni. La pelle innaturalmente turgi-da e slavata, il cranio denudato dei capelli colpiti dauna caduta implacabile, gli ematomi sugli avam-bracci torturati dalle flebo, la rigidità delle membradiacce allorché, nella penombra della camera ar-dente, gli infilammo l’uniforme scout: di tutto que-sto, più niente. Ho di fronte soltanto Enrico l’atleta,Enrico il sognatore e il giullare, Enrico il capo in-diano dei giochi scout in mezzo al bosco. Sediamo assieme, uno di fianco all’altro, sopra unacatasta di tronchi d’abete allestiti per il trasporto.Abbiamo liberato dalla neve una piccola superficie

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di corteccia eci siamo acco-modati lassù,come due uc-celli sopra unramo. Il legnotagliato di fre-sco c’inondadella sua fra-granza soave,a chi infliggeloro la mortegli alber i r i-s p o n d o n oe f fo n d e n d oprofumo. Soli,noi due, nelcentro del ri-goglio natura-le. Il mio amicoEnrico ed io.Compenetrareil silenzio. Assorbire neve e terra, lasciarle fluidifi-care dentro, divenire legno, foglia, squama di unostrobilo che custodisce vita. Dimenticare il peso diun’agonia, cancellare gli anni delle stanze d’ospe-dale e degli appelli universitari rimandati all’infinito,

delle riunioni distaff intorno alsuo letto e deisuoi zaini sem-pre più vuoti,r a g g r i n z i t i ,pendenti sullaschiena chead ogni pausatorceva e sti-r a c c h i a v a ,nell’ostinazio-ne delle ultimesalite in mon-tagna. Annul-liamo tutto, ciresta questanostra posta-zione sui tron-chi e ciò cheabbiamo il do-no di contem-

plare intorno. Di quando in quando una brezza, im-percettibile al suolo, sospinge nel fruscio di unadanza i mille arti flessuosi che ci sovrastano. Il tem-po scorre leggero e non so quante ore restiamo co-sì, immobili, con gli occhi fissi dentro gli occhi del

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bosco. Il crepuscolosi adagiasull’altopianos m o r z a n d ocolori e detta-gli. L’intorno siè fatto più cu-po e la tempe-ratura è cala-ta. Enr icoscende daitronchi, puntaverso un gi-gantesco abe-te che dispie-ga i rami abandiera so-pra il sentiero.Sembra unbambino, lag-giù nell’ombraai piedi del patriarca arboreo. Si allunga con lebraccia in alto e stacca un frammento da uno deirami basali. Poi mi raggiunge per l’ultima volta.Quando risale il pendio incrostato di neve, mi fer-mo di lontano a guardarlo. Penetra nella foresta

agile ed ener-gico. Pr imache dispaia deltutto nella sel-va oltre il crina-le, mi volto emi avvio sulsentiero conpasso malfer-mo, stringendogli aghi del ra-metto tra le di-ta aggranchite.Assorto sullastriscia d’asfal-to percorro aritroso la pia-nura. La Uno èun puntino alcentro di unasfera di stelle edi brillii artifi-

ciali. L’abitacolo è buio, la radio è spenta. Sopra ilcruscotto ho posato il rametto d’abete. Riempie lamacchina di un intenso profumo di bosco.

UUNN’’OOMMBBRRAA AALLLLAA FFIINNEEUUNN’’OOMMBBRRAA AALLLLAA FFIINNEEDDEELL SSEENNTTIIEERROODDEELL SSEENNTTIIEERROO

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di Giuseppina PiovesanaChiarano

DDDDomenica mattina, è tardi.A casa dormono, tutti.E pensare che oltre le stanze in penombra, caldic-ce, fuori è già primavera.Ma come si fa a saperlo se dal lunedì al sabato, sicorre di qua e di là, sempre con qualche problemain arretrato? Come si fa a saperlo se la domenicaè diventata la giornata da dedicare alla polvere,quella accumulata sui mobili durante la settima-na?Come si fa a capire che fuori, è già primavera?Magari l’istinto, lo sa. O l’anima, se c’è ancora.Magari… Allora via, ho deciso che me ne andrò avedere il sole. E loro, lasciamoli dormire. Ma è proprio necessario che tutte le domeniche,quelli che si alzano all’una abbiano da trovare il ta-volo ben apparecchiato e la crostata in forno?E allora via. Puntiamo a nord. A nord, dove il pro-filo azzurro del Monte Cavallo si staglia contro ilcielo di marzo. A nord, dove la groppa arrotondatadel Cansiglio corona le colline ancora brulle. Via.Sono arrivata a Fregona. Ecco il campanile dellefate far da sentinella alla pianura che si perde lon-tano, nella bruma. «Da qui si può vedere il mare,nelle belle giornate limpide», mi dicevano unavolta, oh! quanto tempo fa. Io aguzzavo la vi-sta, cercando un luccichio lontano,un’idea delle onde.Scorgevo solo stra-de e strade, case, capannoni e ca-pannoni. Il mare non l’ho visto, mai. Me-glio volgere le spalle, alla pia-nura. Molto meglio. Qui sul versante, marzo ha fat-to esplodere in cespi odorosi leviolette, e l’erba nuova si piegaal soffio tiepido che accarezza ildeclivio.«Vado a vedere le grotte. Piegoqui, a sinistra», dico fra me eme. A quest’ora, è quasi mezzo-giorno, non c’è gente, sembra.Bene, perché non ho proprio in-tenzione di salutare nessuno.Anche il parcheggio è deserto. Credevo; invece, zac!: «Un euroe mezzo, grazie. Si ferma molto?Sa, qui nel pomeriggio il piazzalesarà piuttosto affollato, e lei haparcheggiato da… donna», pe-

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pato, il signore. O è soltan-to finissima ironia, quellache non sono riuscita a co-gliere?«Mi fermo mezz’ora. Tran-quillo».«La stradina è quella lag-giù, dove vede il cartello:Grotte»«Grazie».Mi preoccupo: «Cavolo:che faccia ho? Sono partitada casa senza un filo truc-co, d’accordo. E’ certo cheil buon uomo non s’è fattouna grande opinione di me.Pazienza, sopravviverò».Imbocco il sentiero cheserpeggiando scende allegrotte del Calieron. Ci sonoquattro persone sul viottoloripido; camminano lente.Sembrano coppie stanche.Di quelle che - il maritoporta a spasso la moglie: ladomenica - , e intanto vorrebbe essere altrove.Gli uomini davanti in silenzio. Le donne dietro, ar-rancano, mentre cianciano, querule: «E alora elala me ga dito… e mi po’ gh’o risposto…»; rallen-tando il passo, aspetto che se ne vadano.

Sono soltanto quattro quelle persone, mi pre-cedono e stanno per inoltrarsi nell’umida pe-nombra delle grotte del Calieron. Eppurel’incessante vocio delle donne sovrasta lamusica dell’acqua e mi lacera i timpani.Finalmente, spariscono nell’antro.E ricomincia il concerto delle gocceappena nate che saltellano, e corro-no ad incontrarsi nella gora diprofondo smeraldo. Un pianto cri-stallino in mille note lucida le sta-lattiti, inturgidisce i cuscinetti dimuschio, ridà vita alla felce.Avanzare. Non scivolare. Unpiede dopo l’altro. Attenta, sul-la passerella sospesa nelvuoto. Sostare. Osservare la lamadi sole che irrompe improv-visa e accende la danzadell’acqua.Avanzare. Non scivolare. Unpiede dopo l’altro: luce.Oltre il sipario dell’edera

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rampicante che si tuffadalla sommità dell’antro,il sole di mezzogiornocanta un’altra canzone.E’ la canzone per la lu-certola immobile sul pa-rapetto di legno, per lacavolaia bianca che hascoperto le primule, eanche per me.E’ colmo di stelle gialle ilcorniolo che si inchinasull’acqua della vasca, adue passi dalla ruota delvecchio mulino. Ferme,anche le pale di legnosembrano ascoltare ilcanto di primavera delruscello nascente. Rivolgo il viso al sole cheintiepidisce il versante.Chi è quella forma eva-nescente che si stagliasul sipario del verde?«Fermati» mi dice «quinon c’è nessuno».Speravo proprio di esse-re sola, in tanto silenzio.Invece c’è un’ombra al-la fine del sentiero; èimmobile, sembraaspettare. Non voglio vedere nessuno. Quasi qua-si torno sui miei passi, ripercorro la passerella mu-schiosa, mi rifugio nella grotta ad ascoltare il con-certo della sorgente che zampilla dalla roccia. Nonvoglio sentire voci, umane.«Fermati» ripete.Riesco a trovare una zolla rialzata, sembra comeun sedile preparato vicino alla vasca del vecchiomulino. Ascolto il mormorio del ruscello. Nellamente ho soltanto un verso antico, di quelli ches’imparano a scuola: “…trafitta da un raggio di so-le …ed è subito sera”.L’ombra è sempre lì, presente, con tutta la forzaevanescente delle emozioni.«Ti stavo aspettando» mormora. Siede accanto ame, senza neppure aspettare un cenno di invito. E’ un’evanescenza familiare. Mi somiglia, credo.Mentre l’osservo in silenzio, scopro qualcosa di no-to nella figura minuta che mi sta vicina; mi rivedonei suoi movimenti rapidi, nel sorriso un pocoamaro, un poco ironico; ma l’espressione serena,tranquilla di quello sguardo credo proprio che nonmi appartenga.

O, forse, non mi appartie-ne più.Si ravviva i capelli scuri ecorti, scuote la testa, co-me materializzandosi nel-la luce del mattino; nel si-lenzio fatto di note d’ac-qua cristalline, riprende aparlarmi, lentamente:«Me ne andai, tempo fa.Non c’era più spazio perme, nella tua vita di corsa.Ho trovato rifugio in que-sta valle di sole e di ac-qua. Fermati, riprendi fia-to. Rammenda i tuoi pen-sieri, e lasciali sgorgareanche in un pianto: seserve. Come l’acqua chenasce nell’antro e saltel-la, viva, eterna, ma con-sapevole che fra un po’scenderà la sera. Perquesto fermati, finché faràgiorno, e non lasciare,mai più, che quest’animase ne vada esule, fra imonti».Allora si svelano i miei oc-chi, e la riconosco.Quell’emozione era l’ani-

ma, la mia anima.Rinvigorita ora dalla solitudine silenziosa dellamontagna mi aiuterà a camminare, quando tor-nerò? Davvero lo spero.Ora in silenzio, stiamo sedute lì, fra acqua e prato.E inizia il concerto delle campane; è soltanto mez-zogiorno. Non c’è fretta.«Ma» mi chiedo «tornerò a casa?» Vorrei restareper sempre lì, appena fuori dall’antro.Anch’io avrei bisogno di costruire due tende sulmonte: una per me e una per l’anima.Rimaniamo ancora un poco. Quando arriverà lagente ci alzeremo e torneremo a valle, insieme,con calma. E faremo la strada più lunga. Quellache si snoda in cento tornanti fra le colline: Osigo,Piai, Mezzavilla, Costa.Senza fretta, perché proprio oggi il sole di marzoha fatto esplodere in mille cespi odorosi le violette,e l’erba nuova si piega, al soffio tiepido che acca-rezza i declivi.Laggiù, nella pianura che si perde lontana torne-remo, sì.Ma senza fretta: l’anima ed io.

LLAA VVIIAA LLAA VVIIAA RROOMMAANNAARROOMMAANNAA

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di Elena Naglia Sartori Vittorio Veneto

LLLLa via Romana, larga poco più diun paio di metri, parte dall’angolosud di Palazzo Morosini e sale dol-cemente, tra muri di sostegno inpietra grigia da un lato, orti, cortili,abeti secolari ed acacie maestosedall’altra. Alcune povere case, co-struite contro la roccia, aprono le lo-ro finestrelle ad incorniciare le im-ponenti cime del Duranno, delgruppo della Sacra Famiglia e delBecco di Mezzodì col suo BoscoNero, un angolo di natura ancoraselvaggia protetta come un gioielloprezioso.La via Romana termina davanti alcimitero del paese, ricavato da unalingua di terra piana, ai piedi dellaparete rocciosa. In tempi recenti èstata costruita, a sbalzo sul fiume,una piccola terrazza eternamente battuta dai venti cheda mattina a sera percorrono la valle piegando arbusti ecanneti cresciuti rigogliosi sul greto fin quasi a nascon-dere il corso d’acqua. La terrazza s’è resa necessariaper consentire ai carri funebri di tornare in paese conuna semplice manovra ad U, senza dover affrontare unadifficile discesa a marcia indietro.Fino a qualche anno fa la gente del paese, in mesto cor-teo salmodiante, seguiva a piedi la bara portata a spal-le dagli uomini più robusti, dai parenti o dagli amici deidefunti. La commovente abitudine di accompagnare unpaesano all’ultima dimora, stringendolo quasi in un ab-braccio, ora è tramontata.In mezzo secolo, nei mesi di luglio o di agosto, ho potu-to qualche volta affacciarmi alle finestre sul retro della ca-sa e, tra i rami degli abeti e delle acacie, seguire i corteiper un buon tratto.I paesani li conosco tutti, so dove abitano e cosa fanno,ma non sempre ricordo come si chiamano, ragion percui, quando ricevo il “Bollettino” con i dati dell’anagrafeparrocchiale, non riesco a dare un volto ai nomi. Così,almeno una volta, prima di tornare in città ed ancor pri-ma di salutare i vivi, risalgo la via Romana per andare asalutare i morti.Cammino tra i vialetti e, da un lato e dall’altro, mi vengo-no incontro volti mai dimenticati, personaggi che rivivo-no per un attimo, grazie alle fotografie che li ritraggonoproprio come io li ricordo.Ed ecco Anselmo, il fabbro, che quattro volte al giornopassava sotto le mie finestre, coi capelli grigi scomposti

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dal vento, gli occhiali dalle lentispesse, il bastone, e l’eterna giac-ca grigia che indossava con qual-siasi tempo, frusta, spiegazzata,aperta e gonfia come una vela sulmare. Più avanti ritrovo la postina,piccola e robusta, che, con la suagerla sulle spalle, raggiungeva lecase più alte risalendo ripide sca-le o impervi sentieri tra i boschi,sempre allegra e sorridente, con lagrossa treccia fissata alla nuca, lespalle un po’ curve e i piedi infilatinei tipici “scarpet” di corda e vellu-to nero.Poi viene il vecchio custode dellasegheria, che sedeva sempre ac-canto alla moglie, vestita di nerodalla testa ai piedi, sulla panchettadi legno a lato della porta di casa,

davanti al ponticello che attraversava la Roja, il vivacecorso d’acqua che andava allegro a muovere la sega. Digiorno passava le ore a godersi il sole, a far chiacchierecon gli amici e a guardare gli affezionati clienti della Coo-perativa, il grande negozio di alimentari che era ancheosteria, con sedie e tavoli sempre ingombri di bicchieri,poiché sempre numerosi erano i “giri d’ombrette” richie-sti alla svelta Teresa, banconiera ed ostessa del locale.Di sera invece il vecchio Nane si aggirava instancabiletra le cataste di legname per snidare i furbi ed incoscientiragazzini che andavano in cerca di maggiolini per poibruciarli sull’argine alto del fiume. L’odore del fuoco e ilfumo che si levava verso il cielo terso della sera, eranole spie verso cui dirigeva i suoi passi.Ed ecco Chino, che dalla sua lapide di marmo scuro misorride proprio come faceva quand’era in vita, mettendoin mostra due file di denti perfetti. Chino, sagrestano,spazzino, giardiniere e becchino, passava con indiffe-renza dalle cesoie alla borsa delle elemosine, dalla pa-la alla ramazza, parlando poco per non mostrare le gen-give vuote, vuote fino al giorno in cui un amico dentista,pur inorridito dall’insistente quanto incredibile richiesta,non si decise a regalargli la dentiera usata di un dana-roso cliente. Chino, felice, poté quindi masticare, sorri-dere e parlare durante i suoi quotidiani pellegrinaggi cheprevedevano soste più o meno lunghe nelle cinque oste-rie del paese. Raccontava della guerra, della Sardegna,del suo lavoro e spesso inorridiva gli ascoltatori dilun-gandosi con dovizia di particolari sulle sue esperienze diesumatore di cadaveri o di occasionale aiuto-medico in

qualche raro caso di autopsia. Ricorda-va spesso anche il suo lontano soggiorno inCorsica e i giorni della grande fame che po-teva essere placata soltanto grazie al danaroche certo non abbondava nelle tasche dei no-stri poveri soldati. Raccontava con spirito masenza vanto, di aver saputo sfruttare in pienola tipica capacità italiana di “arrangiarsi”, apren-do con alcuni commilitoni, figli come lui dellenostre montagne, un fiorente Laboratorio arti-stico cadorino “Cristi in bottiglia”.A sera, di ombrelle, ne aveva tracannate mol-te e a chi gli chiedeva quante volte fosse tornato a casaubriaco, rispondeva ridendo: «Io, ho presa una solasbronza nella mia vita. E’ cominciata quando avevo di-ciott’anni e finirà il giorno del mio funerale.»Passando così fra le tombe, ricordo la gente del paese,la saluto e scendo i pochi gradini che portano alla ter-razza.L’ultima volta, uscendo dal cimitero, noto, parcheggiatadavanti al cancello, una lussuosa macchina color caffel-latte, targata Svizzera. Ne scende un elegante signoredalle tempie brizzolate e dalla figura slanciata che, stra-namente, non entra nel Camposanto. Mi fermo più delsolito ad ammirare il paesaggio, incuriosita. Mi sto chie-dendo cosa sarà venuto a fare, uno svizzero che non hamorti in paese, sulla terrazza della via Romana. Lascioche l’uomo s’avvii prima di me, decisa a seguirlo a di-stanza. Lo vedo fermarsi davanti ad una casa disabita-ta, dalle imposte cadenti senza più colore.Guarda il lampione in ferro battuto che un tempo avevailluminato il portoncino d’ingresso, l’orto invaso dalle or-tiche, la finestrella aperta sotto il tetto dalla quale entra-no ed escono le rondini, poi lo vedo posare le mani e la

fronte sulle pietre grigie delmuro e così restare, immobile.Mi avvicino preoccupata e gli chiedo: «Mi scusi, si-gnore, ha bisogno di qualcosa? Si sente male?Vuole che vada a prenderle un caffè al bar?»Lui mi guarda con occhi velati di lacrime e mi dice:«La ringrazio, signora, sto bene, non ho bisogno diniente. Mi sono lasciato travolgere dall’emozione,perché, vede, questa era la casa dei miei nonni, che

lasciarono il paese quando mio padre ave-va soltanto cinque anni. Il nonno lavoròprima in una tipografia, poi si mise in pro-

prio, mio padre poté studiare, aprire una cartoleria e fon-dare una modesta casa editrice che io ho ingrandita, ren-dendola prestigiosa e nota in tutta la confederazione perle sue artistiche pubblicazioni.Mio padre, una volta raggiunta l’agiatezza, volle tornareal paese dei suoi vecchi; paese che ricordava appena,ma che aveva imparato ad amare attraverso le parole delnonno, rispettando la modestia onorata delle sue origini.Adesso che mio padre non c’è più, io, che sono cittadi-no svizzero e che amo il paese dove sono nato, vogliocontinuare a ricordare la mia Patria, tornando ogni annoa pregare contro il muro di questa povera casa. Doloro-sa è, per me, la critica che mio figlio rivolge a questa for-ma di sentimentalismo superato e patetico, assurdo efuori del tempo, come dice lui. Ieri però mi ha accompa-gnato alla macchina, ha aspettato che la mettessi in mo-to, poi mi ha fatto cenno di abbassare il cristallo per dir-mi: «Dopo tutto sai, penso anch’io che le tradizioni nondebbano andare perdute. La prossima volta verrò conte.»Ancora incredulo ma felice, ho sollevato la mano in unveloce cenno di saluto mentre il vetro si alzava col suo

lieve ronzio. Volevo nascondere l’emo-zione e, soprattutto, le lacrime che mi-nacciavano pericolosamente di roto-larmi sulle guance.»Ritornando in paese, nell’ultimo trattodella via Romana, mi supera con len-tezza la lussuosa vettura color caffel-latte, il signore mi saluta con la manoe con un leggero colpo di clacson.Commossa per lo strano incontro,penso con patriottica soddisfazioneche c’è ancora qualcuno felice di sen-tirsi italiano e di avere qui quelle radiciche, affondando nella buona terra, so-no riuscite a portare alla luce verdi e ri-gogliosi germogli.

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LLAA CCOONNTTEESSSSAALLAA CCOONNTTEESSSSAAVVIITTTTOORRIIAAVVIITTTTOORRIIAA

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di MarlivianaSchiliròBasalghelle di Mansuè

UUUUna vacanza diversa, quella chemi accinsi a fare, andando indietronel tempo. La Belle Epoque mi atti-rava, così un bel mattino, era il primosettembre del 1898, accomodata suun veloce calesse, mentre, il mio pic-colo paese di Basalghelle sparivanella nuvola bianca che quello la-sciava dietro di sé, mi diressi versola stazione di Treviso, prima tappadel viaggio che mi avrebbe portataallo stabilimento di cura Vena d’Oro,in quel di Capodiponte, l’attuale Pon-te nelle Alpi, per una breve vacanza nella quale ol-tre allo svago, avrei potuto scegliere tra idrotera-pia, fanghi, massaggi, cure elettriche, per usciredallo stress accumulato, e incontrare nobili e arti-sti del tempo, che abitualmente frequentavanoquel luogo. In un capiente baule portavo i costumiadatti all’epoca, confezionati in tutti i dettagli dallamia amica Diella, per le varie sfilate e rievocazioniche avevano allietato negli ultimi tre anni la nostracomunità. Ne indossavo uno da viaggio di vellutoleggero rosa antico. Eccomi alla stazione, il miotreno stava per partire avvolto da un fumo nero, visalii, si mosse subito fischiando e sbuffando. Unmare di verde scorreva veloce davanti ai miei oc-chi e si perdeva nella nuvola grigia che il treno silasciava dietro.Giunta a Belluno, con una comoda carrozza presila strada verso lo stabilimento, del quale intrave-devo la torre spuntare tra i boschi e su di essa labandiera che si gonfiava nel vento quasi a volerdarmi il suo benvenuto. Il cavallo correva velocesulla strada polverosa che saliva per circa novechilometri verso Capodiponte, tra due ali di collineboscose. Giunta a destinazione, mi sembrò dibuon augurio una scritta in latino sulla facciata del-la struttura che diceva: “Ciò che niente riesce aguarire, Vena d’Oro guarisce”. La stanza che mivenne assegnata era molto accogliente, arredatain stile Thonet viennese. Due candelabri doratispandevano intorno una luce soffusa nella quale siperdevano gli ultimi raggi del sole filtrando attra-verso le tende chiare. Mi rinfrescai e mi cambiaid’abito. Scesi e volli fare un giro veloce nel parco,prima che il tramonto spegnesse del tutto i suoimeravigliosi colori. Arrivai fino al laghetto; sentivoil gorgoglio di una cascata che, da quello scende-va verso il basso e si perdeva in mezzo al verde,

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schizzando intorno le ultime gem-me di luce. Vicino alla cascata, unafigura silenziosa sembrava assortain quell’incantesimo. Aveva, perme, un’aria familiare, nel suo abitoscuro, impreziosito da un colletto dipizzo bianco. I capelli neri raccoltiparzialmente sulla nuca, scendeva-no in riccioli ai lati del viso. Al miogiungere si voltò. Riconobbi, laContessa Vittoria Aganoor, la piùgrande poetessa italiana dell’epo-ca, a detta dei critici del suo tempo.

Sapevo che aveva vissuto per vario tempo proprioa Basalghelle, luogo che le aveva ispirato moltedelle sue poesie più belle. Che gioia incontrarla lì.Anche lei mi sembrò contenta di conoscermi, sa-puto che venivo da quello che chiamava “il mio an-golo romito”.Mi invitò al suo tavolo per la cena, per approfondi-re la nostra conoscenza. «Questo posto è splendi-do e alcuni degli ospiti sono veri artisti li conosce-rai presto» mi disse, mentre attendevamo che ve-nisse servita la cena. Brindammo al nostro incon-tro con un calice di vino fresco e frizzante che sisposava alla perfezione con l’arrosto profumato ecroccante che ci fu servito. «E’ fagiano della fagia-neria qui sotto, frutto della scorsa battuta di cac-cia» Mi informò la Contessa. Altri ospiti arrivaronoalla spicciolata nella sala. Le prime ad avvicinarsial nostro tavolo furono la Contessa Alberti e sua fi-glia che, come mi spiegò Vittoria, provenivano daVenezia. Quasi subito venne a salutarci, un perso-naggio strano che inchinandosi quasi si piegò indue, e rischiò di perdere la caramella che tenevaconficcata nell’occhio sinistro. Era il Conte Re-mondini, una caricatura che strappò a Vittoria unadivertita strizzatina d’occhi e a me un vero sforzoper non scoppiare a ridere. Durante la cena la miacompagna mi illustrò in sintesi lo svolgersi dellegiornate a Vena d’Oro. Fin dalle sei e mezzo delmattino con la visita medica e la prima doccia, cheera abbastanza difficile da affrontare, perché aquell’ora e fra quei monti il caldo non si faceva cer-to sentire, era un susseguirsi di appuntamenti trasvaghi e cure. Decisi di coricarmi presto per esse-re in forma all’indomani. Ci ritrovammo alla primapasseggiata. Eccoci in testa al gruppo, dirette ver-so il laghetto attraversando il viale delle mimose epoi su, fino alla stalla svizzera per assaggiare il lat-

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te appena munto.Respiravamo a pieni polmoni l’aria ossigenata da-gli abeti e dai larici, allietate dal canto festoso de-gli uccelli. Poi giù a casa per la colazione. La Con-tessa mi presentò un altro ospite che aveva cono-sciuto proprio in quei giorni: Giulio Cantalamessa,pittore e critico d’arte che, amante della poesia,volle subito offrirci un’ode del Carducci, ma venneinterrotto suo malgrado dalla Contessa Alberti, chereclamava la nostra compagnia al suo tavolo. Do-po colazione, continuai, con Vittoria, l’esplorazionedella struttura. Dalla piazzetta antistante lo stabili-mento, il mio sguardo si perse nella vallata sotto-stante. Dietro a me due spalle di monte, come sen-tinelle protettive facevano corona a quell’angolostupendo, mentre dalla chiesetta tra i pini, dedica-ta all’Immacolata Concezione, alla mia sinistra, ve-niva un dolce suono di campana che cadeva neigiardini delle rose e si spandeva giù lungo il ru-scello, confondendosi con il canto dell’acqua qua-si un richiamo al ringraziamento verso il Creatore,per il dono di quel piccolo gioiello naturale che ciospitava. A scuoterci da quell’incantesimo provvi-de un chiasso crescente giù sotto verso il campo dibocce. Un gruppetto vi stava disputando una parti-ta. Riconobbi subito la Contessa Alberti. Gli altrinon li conoscevo ancora. Vittoria me ne presentòdue, Antonio Freschi da Udine, primo violinistad’Italia e un colonnello in pensione di cui mi sfug-ge il nome. Dopo la seconda colazione e la suc-cessiva doccia, via per un’altra passeggiata, que-sta volta verso lemontagne. Vitto-ria mi confidò chesi sentiva parti-colarmente at-tratta da quelleche lei chiamava“le figlie del caos”e dalle quali trae-va spessoispirazione peri suoi versi.Stanche e im-polverate ritor-nammo per lacena e finim-mo quellag i o r n a t aascoltando unpo’ di musica.Salutai la miaamica e final-mente m’ac-colse la quiete della mia stanza. Il giorno seguen-te, il programma proponeva una cavalcata verso ilNevegal, Vittoria fu tra le prime a montare a caval-lo, io mi feci coraggio e la seguii. Fu un’esperienzaspeciale andare veloce nel vento in compagnia diquella mia nuova amica. Facemmo appena in tem-po a tornare che, d’improvviso l’aria divenne pe-sante. Grosse nuvole da dietro le montagne, qua-si arrampicandosi, raggiunsero il cielo e, oscuran-

dolo, a poco a poco, parve volessero stendere unacoperta su tutta la vallata. Poi un grande acquaz-zone vi si rovesciò arrivando fino al più piccolo filod’erba. Ci riparammo sotto la pensilina per ammi-rare quello spettacolo. Ritornò presto il sole e tuttointorno era bello, fresco e pulito, l’aria impregnatadi odore di fieno e profumo di ciclamini. Alla sera,dopo il caffè Vittoria riuscì a sottrarsi ai soliti pas-satempi e mi invitò nel salottino, perché mi avevapreparato una sorpresa.Io indossai il vestito più bello tra quelli che avevoportato con me, che era di raso verde acqua conadorni di pizzo nero. Mi sentivo molto elegante eringraziai in cuor mio la Diella per la sua bravuraScesi puntuale all’appuntamento. Assieme allaContessa trovai il Freschi con il suo inseparabileviolino e quasi subito arrivò anche il Cantalames-sa. I tre avevano preparato una specie di concertointervallato da odi e sonetti, che il Cantalamessapoteva finalmente dedicarci. Nell’occasione Vitto-ria, ci lesse anche le poesie che aveva compostoin quei giorni dalle quali traspariva la sua grandesensibilità e il suo amore per la natura che la cir-condava. Dalla finestra aperta entrava il profumodel bosco. Le note dell’Ave Maria si confusero perun attimo con la musica del violino. Gli occhi di Vit-toria erano più luminosi del solito e tutto il suo es-sere sembrava vibrare per quell’atmosfera incan-tata che si era creata. La brezza rapì quell’armoniache si perse tra gli alberi del parco, si unì al gorgo-gliare della cascata e volò su su verso le cime ad-

dormentate, con-ciliandone il son-no... Un altro mo-mento indimenti-cabile della vacan-za, fu la gita sulPiave con la zatte-ra per tutti gli ospi-ti. Scendemmo apiedi fino a Sagro-gna, dove la zatte-ra faceva una so-sta. Gli zatterieri,molto disponibili,sostenendoci lun-go la passerellache univa la rivaall’imbarcazione,ci aiutarono a si-stemarci sulla zat-

tera. Poi via verso Mel, scivolando sull’acqua pro-tetta dalle rive sassose che si perdevano tra il ver-de degli alberi e gli arbusti. A Mel ci aspettavano lecarrozze che ci riportarono a Vena d’Oro.Partii a malincuore, conservando il ricordo dei beimomenti di quella vacanza speciale che aveva fu-so due epoche, mentre le montagne, testimoni si-lenziose di quell’incontro, dall’orizzonte mi segui-rono per tutto il viaggio di ritorno quasi a voler dire«Noi c’eravamo allora, ci siamo oggi, ci saremosempre, protettive dispensatrici di salute, testimo-ni di bellezza e della potenza creatrice di Dio.»

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di Marita CecconFalzè di Piave

AAAA d un tratto l’aria divennepiù fresca; presto si tramutòin vento, in un vento che ro-v is tava f ra l ’erbe comestesse cercando chissàquale tesoro. Poi caddero leprime gocce di pioggia a cuiseguirono il diluvio e la corsaverso un rifugio, il più vicinopossibile.Il locale ospitava i “fuggitivi” fral’aroma invitante del caffè ed ilsentore d’umidiccio che traspi-rava dagli abiti bagnati. Sentivovoci allegre; qualcuno, sommessa-mente, intonava un canto di monta-gna. Accanto ad una finestra notai untavolo con due sedie vuote. Mi sedettivolgendo le spalle alla sala. Di là daivetri si intravedevano gli alberi, semprepiù cupi, più soli. Osservavo ed ascoltavola pioggia: intreccio eterno di perle e note.Sentii aprire la porta; qualcuno entrò recandocon sé una folata d’aria umida e fredda. Non mivoltai, non attendevo nessuno.All’improvviso udii alle mie spalle una voced’uomo che, gentilmente, mi chiedeva se l’altroposto era libero. Girandomi leggermente, annuii.Allora lo vidi. Era un uomo di bell’aspetto, manon più giovane. Di lui notai subito lo sguardo: isuoi occhi riflettevano il colore delle felci che

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quiete rivestono il sottobosco. Si accomodò po-sando sul tavolo una custodia di violino.

Come iniziò il nostro dialogo non rammentopiù, tanto tempo è passato da quella lonta-

na estate, ma ricordo benissimo chele nostre parole erano serene,

sincere, come ci fossimore-incontrati dopo una

lunga lontananza. Sep-pi che per anni aveva

suonato il violino inuna grande orchestrae che la musica era lasua grande passione.

Osservai allora le suemani, non avevo mai

pensato alle mani d’unviolinista; se l’avessi fatto

le avrei immaginate così:belle come le sue. Mi chiese

se m’interessava la musica. Gliconfessai, non senza imbarazzo,

che, pur amandola, non avevo unasufficiente conoscenza di quest’arte subli-

me. Mi descrisse le sue emozioni nominandocittà e teatri dove si era esibito. A volte, parlan-do, accarezzava la custodia, delicatamente, co-me se quell’oggetto avesse potuto avere un’ani-ma.Non so quanto tempo passò. La pioggia parevainesauribile. Nel locale le voci si erano affievoli-

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te. Qualcuno, for-se, per ingannare iltempo, giocava acarte. Nell’aria per-sisteva solo l’aromabuono del caffè...Il temporale, prodigiodell’estate, come ina-spettatamente giunge,svanisce. Un raggio disole sbirciò fra brandel-li di nubi e la luce ritornòsovrana. Proprio mentrestava rasserenando ap-presi qual era il vero sco-po della sua presenza aPraderadego. Scoprii chenon amava soltanto la mu-sica, ma anche la natura e, quando poteva, an-dava nei boschi recando con sé il violino. Suo-nava per gli alberi, per i fiori, per gli animali. Miparlò della bellezza dei pini, dei faggi, delle loroartistiche ed enigmatiche cortecce. «Loro cidanno tanto» mi disse «e noi?».Improvvisamente mi chiese di esprimere, conuna sola parola, ciò che provo quando ascoltodella buona musica. Senza esitare risposi conuna sola parola: brivido. Sorrise accondiscen-dendo e m’invitò ad accompagnarlo, oltre la ra-dura, per ascoltare il suo concerto dedicato al

bosco. Lo seguii incuriosi-ta e fiduciosa.L’affascinante strumentoera fra le sue mani. Loposò delicatamente sullaspalla sinistra, l’archettonella mano destra. Ini-ziò a suonare. Le notesi sparsero nell’aria,penetrarono, dolce-mente, nella mia ani-ma. E i l br iv idodell’emozione, pun-

tualmente, si ripresentò. Rico-nobbi subito quella musica, era “L’Esta-

te” di Vivaldi. Chiusi gli occhi. Il bosco ancoraprofumava. La pioggia non aveva cancellatol’odore resinoso delle conifere, ne’ spento quel-lo muschiato del sottobosco, anzi l’aveva accen-tuato. Sentivo trilli d’uccelli, ronzii d’insetti. Im-maginavo le ultime gocce, altalenanti sui rami,farsi sempre più iridescenti prima di tuffarsi nelvuoto. Mi sentivo serena, felice di poter ascolta-re, in un insolito anfiteatro, quelle note immorta-li.Dopo “L’Estate” passò a “L’Autunno” e mai Vival-di fu, per me, così meravigliosamente suonato.Con l’ultima nota ci guardammo scoprendo neinostri occhi la commozione. Un senso di timi-dezza mi trattenne; per la gioia che aveva sapu-

to trasmettermi, l’avreiabbracciato.L’aria, purtroppo, ritor-nava a farsi sentire piùfresca. Fu questo sbalzodi temperatura a ripor-tarmi alla realtà; inoltrem’accorsi d’aver scorda-to lo scialle nel locale. Amalincuore glielo dissi.Ci fu allora un patto franoi: sarei ritornata perriascoltarlo ancora. Dicorsa raggiunsi il locale,ritrovai lo scialle; mi co-prii le spalle infreddolitee ritornai all’aperto. Ol-tre la radura c’era sola-mente la maestosità de-gli alberi. Doveva finirecosì, mi dettò, malinco-nicamente il cuore. Nel-la mia mente ritornaronole parole dello scrittoreRay Bradbury in “Fah-renheit 451”: «Non pos-siamo dire in quale pre-c iso momento nascal ’amic iz ia. Come nelriempire una caraffa agoccia a goccia c’è final-mente una stilla che la fatraboccare, così in unasequela di atti gentili cen’è infine uno che fa tra-boccare il cuore».L’uomo con il violino erasvanito portando con sél’ultima stilla, ma il mes-saggio che mi lasciò miparla ancora, m’invita arecarmi lassù. Da quelgiorno straordinario i lbosco di Praderadegorappresenta, per me, unvecchio saggio genero-so che sempre mi sten-de le braccia fingendo dinon vedere le mie manivuote.

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di Ines Ballarin Terza media - sez. CCordignano

EEEEra una bella giornata di primavera al bo-sco del Cansiglio, il cielo era limpido e nes-suna nuvola presente lasciava pensare aduna possibile pioggia. Il clima era caldo(ma non eccessivamente) e il sole brillavacome non mai: era il giorno ideale per unabella escursione.Mi trovavo in un bar e stavo sorseggiando un buoncaffè prima di cominciare la mia lunga passeggia-ta. Mi caricai lo zainetto sulle spalle e iniziai a cam-minare di buon passo. Il paesaggio era stupendo,sembrava non essere mai stato toccato dall’uomo.Solo i segni blu presenti sui tronchi degli alberi cheindicavano la strada da seguire tradivano questastupenda sensazione. Tratti di salita si alternavanoa tratti di discesa. Alcune piccole depressioni delterreno contenevano moltissimi alberi e arbusti, tral’altro numerosissimi in tutto il paesaggio, e nevenon ancora sciolta nonostante l’arrivo della stagio-ne primaverile. Il tragitto che avevo deciso di per-correre era molto in pendenza, le strade non era-no asfaltate e ciò rendeva mol-to difficoltosa l’azione del cam-minare. A parte questo incon-veniente ero felicissima di tro-varmi in quel bosco, totalmenteimmersa nel cinguettio degliuccelli, nel profumo dei fiori,dell’erba e del terriccio. A voltequalche albero caduto in mez-zo al sentiero mi costringeva astrane movenze e a percorsileggermente diversi da quelliche mi ero prefissata di fare,ma continuavo a tenere la stra-da che avevo deciso di seguire,aiutata anche dalla preziosacartina che avevo portato conme. La temperatura dell’aria,nel frattempo, si era alzata edero completamente bagnata disudore: decisi, quindi, di fer-marmi per recuperare le forze eriposarmi. Dopo dieci minuti disosta ripresi il cammino, decisapiù che mai ad arrivare alla ca-sa forestale di Candaglia senzapiù fermarmi.Tutto proseguì per il meglio fino

a che non mi trovai ad un bivio: c’erano duestrade, una a destra, una a sinistra. Non sa-pevo che strada prendere e questo era ef-fettivamente un problema!Provai ad osservare se c’erano i segni bluche indicavano il sentiero: c’erano, ma sitrovavano in tutte e due le vie.

Come ultima possibilità c’era la cartina (che con-sultai senza esitazioni), purtroppo non servì a nul-la perché non riuscivo ad orientarmi. Alla fine de-cisi di affidarmi alla sorte. Presi una monetina da10 centesimi. che si trovava in una tasca dello zai-no e la tirai in aria: se fosse uscita la testa della Ve-nere di Botticelli avrei preso la strada alla mia sini-stra, se fosse uscita la faccia con inciso il valoredella moneta avrei preso la strada alla mia destra.Appena la ripresi in mano vidi il numero dieci capiiche avrei dovuto prendere la strada alla mia de-stra. Così mi diressi nella direzione che il caso ave-va deciso di farmi seguire.Durante il tragitto notai un pino che si stagliava ri-

goglioso tra tutti gli altri alberie ne rimasi incantata, mi ri-presi subito da questo stupo-re però; non c’era tempo persoffermarsi a frivolezze. Cosìtornai a camminare. Dopo po-chi minuti rividi il pino. Primapensai che fosse uno simile aquello visto in precedenza madopo aver camminato e aver-lo rivisto per la terza volta ca-pii cosa stavo realmente fa-cendo: stavo girando in ton-do!Presa dal panico e dall’insicu-rezza cominciai a vacillare al-la cieca, anche se sapevo checosì facendo mi sarei persaancor di più.All’improvviso scorsi una figu-ra in lontananza e, senzapensarci più di tanto, corsi su-bito verso di essa.«Mi scusi, mi scusi signore»dissi affannosamente «è pra-tico di qui? Sa, mi sono persamentre cercavo…»«Di raggiungere la casa di

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Candaglia»c o n c l u s elui con tran-quillità.«Sì ma…come fa asaper lo?»chiesi stu-pita.«Molte per-sone si per-dono inquesta zo-na del bo-sco. Non sipreoccupisignorina,la guideròio fin su inC a n d a -glia!» disse. E mi fece cenno di seguirlo.Era un uomo vecchio, sui settanta – settantacinqueanni, con capelli e baffi bianchi. Era vestito da al-pino, con un grande cappello con una bella pennanera che faceva capolino dal retro della sua testa.Le cose che mi colpirono particolarmente diquell’uomo furono il modo sicuro e tranquillo di gui-darmi e il suo sguardo. Uno sguardo dolce ed enig-matico, con un velo di tristezza dentro.Camminammo per molte ore di seguito, non sapreidire quanto però. Fino a quando stetti con lui il tem-po era come se si fosse fermato. Il mio sguardo erasempre incollato a lui, tanto era il fascino che egliesercitava sulla mia persona. Ero totalmente im-pegnata a guardarlo che non mi accorsi di un sas-so che se ne stava in mezzo alla strada e sul qua-le – ovviamente – inciampai. Lui si voltò e, tenden-domi la mano con infinita dolcezza, mi aiutò a ri-mettermi in piedi. La sua mano era tiepida e liscia.Non parlammo fino a che non arrivammo alla Can-daglia. Qui ci fermammo e io mi sedetti sulla primapanchina che vidi. Lui si sedette ad un tavolo e co-minciò a bere dalla borraccia che aveva aggancia-ta alla cintura dei pantaloni. Lo raggiunsi e comin-ciammo a conversare. Mi disseche era un ex partigiano delgruppo Brigate Vittorio Veneto.Lui era un medico (ai suoi tem-pi) e si chiamava Nino DellaZentil. Mi raccontò che il rifugioprincipale del suo gruppo par-tigiano era l’albergo San Mar-co, mi descrisse i bombarda-menti avvenuti in Cansiglio edei combattimenti partigiani.Restammo a parlare per un’orabuona. Credo che fossero circa

le quattro delp o m e r i g g i oquando ci in-camminammoper r itornareindietro. Primaperò l’ex parti-giano mi portòa vedere unluogo davverospeciale.«Questo è i lBus de la Lum.E’ un bucoprofondo, sucui girano di-verse leggen-de. Si dice chevi siano stategettate dentro

circa cinquecento persone vive tra cui donne in-cinte. In realtà sono stati rinvenuti solo venticinquescheletri e si è scoperto che nel Bus de la Lum nonci gettavano dentro persone vive, ma morte, fucila-te dai partigiani dopo un regolare processo.»Il Bus de la Lum era un grande buco nel terreno,profondo più di cento metri, circondato da alberi efilo spinato. All’interno era possibile vedere il mu-schio cresciuto sulle rocce e qualche striscia di ne-ve non ancora sciolta.Dopo questa visita siamo tornati al punto dove eropartita. Posai lo zaino e mi voltai per ringraziarlo.Ma lui non c’era più. Non riuscivo a capire dove po-tesse essere sparito. L’unico posto in cui poteva es-sere andato era un bar, vicinissimo a noi. Entrai acercarlo tra le persone presenti, ma non trovai nes-suno simile a lui.Mi avvicinai al bancone e parlai all’uomo che era lì.«Ha per caso visto un uomo con i capelli e i baffibianchi, abbastanza alto, vestito da alpino?» chie-si.«Mi dispiace, non l’ho visto. Magari potrebbe dirmiil suo nome, magari lo conosco…»«Si chiama Nino Della Zentil.»

All’uomo partì una risata. Poi midisse una cosa incredibile.«E’ impossibile signorina! Que-sto nome appartiene ad un me-dico, ex partigiano, morto più dicinque anni fa! Si sarà confu-sa…»Io invece ero sicurissima di averdetto il nome giusto. Ma allorachi era l’uomo che avevo visto?Forse era un fantasma? Chis-sà…

primavera resta-no innevate.Roccia grigia, in-quieta, paurosa…Tra quella pietra,cos ì ar ida , rar iciuffi d’erba ed unfiore.Elisa notava varitipi di strati di roc-c ia , a lcun i p iùchiar i e altr i piùscur i , ma tu t t io r ien ta t i ne l lastessa direzione.Appa r t enevanoalle varie epoche.Queste montagnehanno visto, han-no assist i to al lemolte guerre dellastoria; sono statetes t imoni de l lemolte migrazionidei popoli che lehanno attraver-sate.Testimoni remo-te, sor te in untempo sperduto…

Le punte aguzze, tagliavano il vento che le per-correva, come un coltello taglia la seta.I pendii, così spogli, assenti d’alberi e di terra;solo roccia e nient’altro.Il vento non s’arrestava, continuava a soffiare,come un treno senza una meta.Sembravano ululati tristi, soli in quel deserto.Ma ecco che continuando a camminare, trovòuno specchio d’acqua, che rifletteva la sua im-magine e i picchi della montagna.Due picchi di due cime distinte: i due opposti:la fertilità e l’aridità, il paese e il deserto. Era giunta la sera ed Elisa, stanca dopo quellalunga passeggiata tra i boschi, riprese la via dicasa, speranzosa di ripetere quest’esperienza. Mentre la ragazza camminava, la regina si co-ricò e il sole, assieme ai suoi raggi, calò dietrodi lei.

LLAA RREEGGIINNAALLAA RREEGGIINNAA

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di Veronica BardinSeconda media - sez. ASan Pietro di Feletto

CCCC amminava da ore,quando, inciampandosu di un sasso, alzò losguardo e incontrò lei:la montagna, la mae-stosa regina della Ter-ra, inquietante ed in-cantevole governatrice:in quel tramonto parevasprigionare tutta la suagrandezza.Sui suoi pendii si esten-devano fitti boschi, or-mai anziani, di un oscu-ro verde.Elisa non resistette e,senza accorgersene, sitrovò sui sentier i na-scosti tra la vegetazio-ne: i ciottoli scricchio-lavano mentre cammi-nava, accompagnati dauna terra rossastra edumida.Lì, nascosto, un ruscel-lo scorreva: acqua lim-pida e fresca.Poco più in là, un la-ghetto, anch’esso lim-pido e azzurro.Vari tipi di sassi, dai colori strani, alcuni veri mi-nerali, altri più poveri.Si udivano i versi della natura; la montagna re-spirava, la montagna le parlava, le sussurravai propri segreti; sentiva il gorgogliare dei ru-scelli, il fruscio degli alberi mossi dal vento, ilrumore dell’erba che veniva calpestata.Ramoscelli caduti venivano spezzati dai suoipassi. Proseguendo, incontrò una sorgente; l’acquapareva bollire, ma, dall’oscura terra, giungevain superficie aggiungendosi alle altre meravi-glie del Creato.La terra era bagnata, sembrava fosse appenapiovuto, ma l’acqua era penetrata nel terreno e,ad ogni passo, pareva calpestare una spugna.Ma le montagne non sono tutte così dolci, conrilievi che sembrano onde; vi sono i montiaguzzi, aspri, con cime elevate che anche in

di Gianna SavianePrima media - sez. CSan Fior

QQQQ uando ero piccola andavospesse vol te, ass ieme al lamamma, a fare delle lunghepasseggiate nel bosco. Dopoaver preparato uno zaino pienodi viveri, partivamo di buonoraverso la Palantina. Da quandola neve cominciava a scioglier-si a quando le foglie cadevano,potevamo osservare i cambia-menti del bosco e dei suoi abi-tanti. Era bello vedere i primigermogli spuntare, gli uccelliniindaffarati a costruire il nido, gliscoiattoli saltare vivaci da unramo all’altro, qualche capriolofare timidamente capolino per poi scappare ve-locissimo, mille fiori dai mille colori. Il bosco erabello anche d’autunno, quando si colorava dirosso e giallo e gli animali preparavano accura-tamente le loro tane per trascorrere il lungo in-verno: mi facevano tanta tenerezza e avrei vo-luto portarmeli tutti a casa vicino al caminetto.Fu proprio durante una di queste escursioniestive, che arrivò, all’improvviso, un forte tem-porale, uno di quelli che durano poco, ma sonomolto violenti e terribili: in poco tempo il cielo fuoscurato da grandi nuvoloni neri e carichi dipioggia ed il bosco piombò in un buio inquie-tante.Ci rifugiammo in una baracca, costruita per da-re riparo ai pastori ed ai boscaioli, ed accen-demmo il fuoco. Avevamo, così, un po’ di luce edi tepore: dalle piccole finestre vedevamo i lam-pi squarciare il cielo e il rumore dei tuoni era co-sì forte che ci faceva sobbalzare il cuore.Ad un certo punto, udimmo uno strano rumore:

IINN CCEERRCCAAIINN CCEERRCCAADDII RRIIPPAARROO……DDII RRIIPPAARROO……

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SSeezziioonneeRRaaggaazzzziiL’AZiONe

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c’era qualcosa o qualcuno chegraffiava la porta. Io morivo dipaura, ma la mamma decise diaprire: poteva essere qualcunoche, come noi, aveva bisognod’aiuto. E infatti, appena soc-chiusa la porta, scorsi due pic-coli occhioni neri che sbircia-vano curiosi. La mamma si fe-ce da parte sorridendo e all’im-provviso, un simpatico scoiat-tolo entrò a farci compagnia:era proprio bello con una ma-gnifica coda folta e lucente esaltava di qua e di là vivace eallegro. Nello zaino avevo del-le noccioline che avevo raccol-

to durante la camminata e così, ne offrii unamanciata al nostro originale ospite. Lo scoiatto-lo si avvicinò subito, per niente impaurito e re-stò a sgranocchiare il suo cibo preferito proprioaccanto a me. Mi faceva tanta tenerezza e qua-si senza accorgermene lo accarezzai dolce-mente: lui, con mio sommo stupore, rimase lìtranquillo a farsi coccolare, dimostrandomi fidu-cia e riconoscenza.Il temporale durò circa mezz’ora e, quandouscimmo, il bosco era tutto bagnato: i raggi delsole, attraversando gli alberi, illuminavano legoccioline pendenti dando vita a mille e più ar-cobaleni.Su un ramo di pino, il nostro nuovo amico muo-veva felice la sua folta coda mentre noi ci av-viavamo verso casa con la certezza che loavremmo sicuramente rivisto.Il bosco, per noi, era ancora un grande e incan-tevole amico.

CCUUOORREECCUUOORREEDDII MMOONNTTAAGGNNAADDII MMOONNTTAAGGNNAA

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di Simone RosSeconda media - sez. CCordignano

PPPP ioveva, pioveva quasi da tre giorni, e non ac-cennava a smettere. Pioveva ininterrottamente,con insistenza, con caparbietà, con fragore, condolore. L’acqua cadeva sulla nuda terra comegrandine e la pugnalava con fremiti che sembra-vano dei gridi sussurrati. L’acqua e soprattuttol’umidità, penetrava nelle rocce, penetravanell’asfalto, penetrava nelle ossa e nelle case, an-che in quelle chiuse, sbarrate con le imposte, ri-scaldate nel migliore dei modi esistenti. Ma in unapersona sola, che sfilava tra le altre persone, alte,nere, incappucciate e imbacuccate, pioveva anchenel cuore. Il bambino, piccolo, incappucciato, stret-to nella folla, piangeva di un pianto silenzioso e re-condito, sepolto nel piccolo cuore, ferito nel profon-do. La processione finì e le nuvole sembraronorannuvolarsi nella sua mente. La madre, spazien-tita, lo guidò fuori dal cimitero con cipiglio altezzo-so e lo trascinò via, dai marmi e dai fiori, tra cui ri-posava il nonno.

Carlo sapeva che il nonno non c’era più, che nonlo avrebbe più rivisto, che con la sua risata unica ei suoi occhi cerulei tranquilli, non l’avrebbe più ac-compagnato nei posti che amava, su per la mon-tagna, quelli che conosceva solo lui. Si sedette ariflettere, mentre il soffio di quel ventoso pomerig-gio, lo accarezzava tiepido. Quali eranoi posti che il nonno gli aveva fatto co-noscere, amare, esplorare? Conti-nuò la salita, instancabile, senza fer-marsi. Erano passati degli anni daquel piovoso pomeriggio, quando alnonno avevano dato l’ultimo saluto,eppure nel suo cuore sentiva che at-traverso qualcosa di indefinito, loavrebbe ritrovato, lo avrebbe alme-no ricordato…Il sole cominciò ad illuminare il sen-tiero dove si stava inerpicando Car-lo, dividendosi tra i rami e illuminan-do con mille sfaccettature le foglieche orgogliosamente sventolavano,come austeri stendardi. La terra bat-tuta da tanti dei suoi scalpiccii infan-tili, gli sembrava familiare, conosciu-ta. L’aria frizzante penetrava comeun balsamo nei suoi polmoni e, ga-gliarda e potente, scompigliava gioco-

samente le foglie compassate che resistevano sol-tanto ad una brezza primaverile. Ricordò tante im-magini di passeggiate ed escursioni, anche con lascuola, che però erano prive della scherzosa inti-mità che contraddistingueva le scappatelle sue edel nonno, magari da un pranzo domenicale, chela nonna aveva diligentemente programmato.Gli sembrava di camminare a fianco di qualcuno,non da solo, ma sorretto da un invisibile presenza.E fu quella presenza, che come un convertito Ca-ronte dantesco, o meglio… come un angelo custo-

de, muto ma con lo sguardo dolce e si-curo, lo accompagnò in un sentiero

estraneo alle cartine che portavaappresso.Era invaso dalle erbacce e i lichenipendevano ammonitori dai rinsec-chiti rami degli abeti. Fece per tor-nare indietro, ma la presenza, dalfondo del suo cuore, lo guidava ver-so l’ignoto, con una voce familiare:diceva «Vieni forza, non avere pau-ra… siamo quasi arrivati, che omet-to sei se abbandoni l’impresa ad unpasso dall’arrivo… forza, il Cansi-glio ti saluta… non fare quella fac-cia, forza, la montagna è come unamamma affettuosa, ma il suo cuoreè nascosto, se lo trovi sarai suoamico per sempre…» poi subentròuna vocina esile «Ma tu l’hai già tro-vato il suo cuore nonno?».In quel momento si spalancò, timidae riservata, una piccola radura, di un

verde penetrante, occhieggiante di un

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di Chiara Callegher Quinta elementare Refrontolo

UUUUn giorno di primavera io e la mia famiglia siamoandati in montagna per fare un picnic e per diver-tirci. Dopo aver mangiato un po’ di tramezzini, ab-biamo giocato al gioco dell’oca e ci siamoraccontati delle divertentissime barzel-lette. Poi la mamma ha proposto di fa-re una bella passeggiata, così siamoandati verso un campo pieno di fiori.Mentre ne raccoglievo qualcuno, miopapà mi ha chiamato sottovoce e mi hadetto che dovevo subito andare da lui:aveva visto un gruppo di marmotte. Su-bito abbiamo chiamato la mamma cheè arrivata con la macchina fotografica.Dato che eravamo lontani, abbiamo dovu-to avvicinarci di più altrimenti la foto sarebbevenuta male. C’era però un problema: una mar-motta era di guardia e quando noi ci spostavamolei, con un verso simile ad un fischio, dava l’allar-me alle compagne che si nascondevano nelle lorotane.Il papà ci ha suggerito di andare vicino ad una ta-

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tripudio di fiori montani, lì, raccolti insieme, in unpiccolo cuore pulsante di vita e di colore. Non eraun vero proprio incontro, con qualcosa di materia-le… come aveva sperato. Il ragazzo era stupefatto,attonito… quello era il cuore della montagna, quel-lo era il segreto di cui il nonno per anni gli avevaparlato… un cuore che aveva accolto anche lui ora,come tutti quelli che inconsapevolmente lascianoun frammento del proprio cuore… tra un fiore o traqualsiasi essere vivente che vive dell’energia chela montagna dona… anch’essa inconsapevolmen-te … forse.

Il giorno dopo, in un vaso sperduto, brillava unsemplice fiore montano, un po’ in disparte dagli al-tri. Racchiuse in sé, portava ancora le parole dolcidi chi lo aveva portato silenziosamente: «Nonno, tiriporto un frammento del tuo cuore che è stato ge-losamente custodito, tra i luoghi che hai amato…»

na e di attendere in silenzio perché prima o poi lamarmotta sarebbe uscita. E’ stato proprio così: erabellissima, aveva un musetto bianco, due occhiet-

ti vispi, due orecchie piccole, gli incisivilunghi, la pelliccia grigia e fitta e le zam-

pette corte. Quando l’ho vista mi sonoemozionata, però sono r iuscitaugualmente a scattarle una foto.Quel giorno ho conosciuto un ani-male che avevo visto solo nei libri eper me è stato un incontro speciale.

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di Silvia Tonon Terza media - sez. AVittorio Veneto

EEEEra mezzogiorno, e il crinale orientale di Col deiScios, appariva un po’ misterioso, coperto com’erada una fitta coltre di nebbia. Mi trovavo in uno deiposti più suggestivi dell’Altopiano del Cansiglio,dove dalla cima delle varie doline, nelle giornateeccezionalmente belle, è possibile vedere per mol-ti chilometri la pianura. Ma questo non era il miocaso: la nebbia avvolgeva ogni persona e ogni co-sa, rendendole indistinte. Mi ero appena seduta estavo cominciando a mangiare quando ad un trat-to, da dietro una dolina, apparve una vaga formanella nebbia. Chi poteva essere? Così, come vuo-le la tradizione in montagna, mi alzai e dissi«Buongiorno». Davanti a me apparve un signore,ne’ vecchio ne’ giovane, di un’età indefinibile, conuna pipa in bocca, vestito in un modo assai stranoper chi frequenta la montagna. Indossava infatti uncompleto da militare. Vedendo la strana espres-

sione stupita dipinta sul mio viso, mi disse subitoche era un militare di nazionalità inglese. Mi dissedi essere stato in quei luoghi negli anni 1944-1945quando l’Altopiano fu zona residenziale delle for-mazioni partigiane. Aggiunse inoltre che il periodopassato insieme a queste persone fu uno dei pe-riodi più significativi della sua vita: egli rimase mol-to colpito dalla voglia che avevano i ragazzi divent’anni di ridare la libertà all’Italia. A quell’età in-fatti solitamente si ride e scherza e si sta con gliamici. Detto questo si offrì di narrarmi in modo det-tagliato l’episodio che forse gli era rimasto più - adistanza d’anni - nella memoria: e cioè il primo lan-cio effettuato dagli alleati il 26 dicembre 1944 pro-

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prio in Col dei Scios.Io accettai con gioia, anche perché questi raccon-ti mi hanno sempre affascinato.E così, rivivendo quegli avvenimenti nella suamente, cominciò a narrare...«Era l’imbrunire, il sole scomparendo dietro lemontagne e la neve segnava la fine di un’altra gior-nata. Quella però non era una giornata qualunque:era la vigilia di Natale e ci stavamo preparando perraggiungere la mezzanotte. Tutti seduti attorno adun tavolo, ci domandavamo cosa voleva dire ilmessaggio molto strano ricevuto poche ore prima.I più ottimisti sostenevano che fosse un messaggioin codice e che annunciasse un imminente lancio.I pessimisti invece affermavano che gli alleati an-cora una volta avrebbero sganciato il loro preziosolancio altrove. Io cercai di tranquillizzarli anche senon riuscivo a comunicare con loro molto bene.Stavamo ancora discutendo quando ad un trattoentrò nella stanza una sentinella. Pensando ad unattacco da parte dei tedeschi, ci alzammo di scat-to ma la sentinella tranquillizzandoci ci disse chestava arrivando il regalo di Natale: erano stati av-vistati due aerei. Senza pensarci due volte, ci ca-tapultammo fuori dalla porta della casera. Tutti gliuomini disponibili si misero al lavoro, per prepara-re le cataste di legno che sarebbero servite a co-municare agli alleati la nostra posizione. Svolto illavoro ci mettemmo attorno ai fuochi a chiacchie-rare e cantare cercando di radunare le nostre for-ze. Ci aspettava un grande lavoro. Erano previsteinfatti circa cinque tonnellate di rifornimenti. Nono-stante il notevole calore emesso dai falò eravamocongelati da capo a piedi, il vento ululava attorno anoi e la neve era molto alta, troppo alta. Verso ledieci il rombo di un motore ruppe il silenzio e inquello stesso momento cominciarono a piovere dalcielo lunghi bidoni detti colli provvisti di paracadu-te. Cominciammo subito, facendoci penosamentelargo nella neve, a recuperare le attrezzature. Por-tammo tutti i colli al sicuro entro l’alba. Trovammoanche alcuni oggetti di conforto natalizio assiemea whisky piuttosto scadente. Rinvenimmo ancheuna radio e il nuovo operatore. Lo trovammo im-merso nella soffice ma gelida neve e, per ristorar-lo gli somministrammo una notevole dose di whi-sky, che certamente lo ubriacò. Sta di fatto chequando lo incontrai, non riusciva a comprenderese fosse capitato a Gerico oppure a Gerusalem-

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me...».Era ormai primo pomerig-gio, quando il Maggioreconcluse il racconto. Oraanche la coltre di nebbia sistava dissolvendo ed iocominciai a scorgere alcu-ni timidi raggi di sole. Conmia somma sorpresa an-che il Maggiore svanì nel nulla con la nebbia, sen-za una parola di saluto, senza un cenno di arrive-derci. All’inizio pensai di aver sognato, che questoincontro fosse stato solo un frutto della mia imma-ginazione. Quando però scorsi sul terreno la pipache il mio interlocutore portava sempre con sé, nonebbi più dubbi. La sua pipa, lasciata lì per caso odi proposito, era un segno inconfondibile della suapresenza, l’incredibile testimonianza che quelloche avevo visto e sentito non era soltanto un’illu-sione, ma la realtà.Quando più tardi, ritornata a casa, dedussi che ilmio interlocutore era il famoso maggiore Tilman, il

conquistatore delNanda Devi, non-ché Comandantedella Missione Be-riwind in Cansiglio,disperso nel 1977 allargo delle isoleFalkland nell’Ocea-no Atlantico, tutto

mi fu d’un tratto chiaro ed evidente. Tilman era ve-nuto ancora una volta in Cansiglio, per rivedere iluoghi in cui aveva combattuto e sofferto, per riem-pirsi di quelle ore, di quei rumori e di quelle imma-gini dell’Altopiano, prima di tornare definitivamentenell’Aldilà. Perché, ciò che siamo stati, ciò che ab-biamo fatto, ciò per cui abbiamo lottato e speratonon si dissolve con la nostra morte, ma continua avivere incessantemente dentro di noi, in tutti colo-ro che abbiamo incontrato nel nostro cammino, eci accompagna indissolubilmente nel nostro viag-gio.

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di Denise Consalvi Terza media - sez. CCordignano

«««« Mio Dio! Come fa ad esserecosì bello? E recita anche bene!»esclamai, non riuscendo a tratte-nermi da l l ’emozione mentreguardavo per l’ennesima volta“Harry Potter e la pietra filosofa-le”. «La smetti di guardare quellastupida cassetta? Ormai la cono-sciamo tutti a memoria!» disseseccata mamma. «E poi io voglioguardare la Pimpa!» aggiunseRiccardo, mio fratello minore. Odiavo quandofaceva così, pensava di essere più grande di mee invece era solo un... quattrenne!«Hai tredici anni compiuti e guardi ancora HarryPotter. Ora spegni tutto e andiamo a dormireche domani ci aspetta una gita coi fiocchi!» or-dinò mamma. «Uffa, di già? Sono appena le21.30!» si lamentò Max. Faceva sempre cosìquando era ora di coricarsi. Cercando di difen-dermi da tutte le accuse che mi si erano statelanciate contro, dichiarai alzando la voce: «Ionon guardo il film, guardo solo l’attore!» «Ieeeh,alla Denise piace Harry Potter!» disse Max intono ironico. «Imbecille, non mi piace Harry Potter, mi piacel’attore che lo interpreta!» rimbeccai subito.Questa volta in coro ripeterono: «Ieeeh, allaDenise piace Daniel Radcliffe!» e scoppiaronoinsieme in una fragorosa risata. «A dormire hodetto!» ringhiò mamma. «Io posso restare a ca-sa?» la pregai «So cavarmela, ho tredici anni epoi ne approfitterò per studiare!» A mammascappò una risata. «Studiare?! Ma se non studi

mai! Vuoi farlo nei giorni festivi?!Figurati!» e aggiunse «Non se neparla più, la risposta è no» dissefredda. Andai a letto sbuffando eprima di addormentarmi pensaialla noiosissima giornata che miaspettava domani: la solita cam-minata con gli amici di mamma epapà che fanno battute e ridonotra di loro e i loro figli che si rin-corrono, giocano a nascondino tra

gli alberi; al ritorno sono stanchi e vogliono sa-lire in braccio ai loro genitori. E così pensandomi addormentai. L’indomani mamma ci svegliòpresto, tutto l’occorrente per il picnic era statocaricato in macchina. Attraversammo VittorioVeneto, Fadalto, Belluno e infine, un po’ sbuf-fando un po’ cantando, arrivammo al MonteSchiara. Scaricai l’auto e, chiacchierando conle amiche di mamma, aiutai a preparare la ta-vola in un luogo all’ombra. Eravamo in mezzo albosco, circondati dagli alberi e dal profumo deifiori: riconoscevo l’odore del ciclamini, dellegenziane e delle genzianelle, tutti fiori bellissi-mi. Il pranzo, che consisteva in pasta fredda,panini, patatine, verdure e pasticcini fu consu-mato in un battibaleno tra i rododendri, piccoliarbusti con dei bellissimi fiori rossi. Fastidioseerano le mille mosche e mosconi che si lancia-vano tra i cibi e le bevande. In compenso peròmoltissime farfalle colorate svolazzavano qua elà, facendo piccole soste tra i nostri capelli. Ibambini erano così emozionati alla vista dellefarfalle che, quando queste si posavano su diloro, le facevano scappare per cercare di affer-rarle. La giornata stava procedendo esattamen-te come prevedevo, la noia mi stava assalendoe a quella si aggiunsero anche i bambini che mifacevano i dispetti: credendo di essere simpati-ci mi tiravano pigne in testa. Quando, più tardi,cominciarono a tirarmi sassetti, decisi che eratroppo. Così dissi alla mamma che andavo a fa-re un giro. Mi avviai per un sentiero, poco dopotrovai il secondo gruppo di mocciosi, sempredella colonia degli amici di mamma.Comprendeva anche i miei fratelli Max e Ric-cardo che a mia insaputa mi facevano gesti al-le spalle, per farsi vedere con i loro amici. Mi gi-rai di scatto con aria di sfida. Max mi grida di gi-

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rarmi dicendo «Denise, voltati, c’è Daniel Rad-cliffe!». «Ah, ah!» feci io. «No, sul serio, girati!»si difese. «E’ come quella volta che mi avevi det-to che mamma aveva comprato l’album di HarryPotter e che era dentro un cassetto, e invecec’erano so lo vecchiecarte!» replicai. «No no,girati, svelta, sta andan-do via!» mi disse di nuo-vo. Mi girai e intravidi trai pini una volpe che mi-rava a uno scoiattolo so-pra un castagno.«Ah, ah, che be l loscherzo!» dissi fingendodi r idere. «Ma no, mano!» si affrettò a dire lui.La sua faccia assunseun’espressione più se-r ia . Dec is i d i darg l iun’altra possibilità e mivoltai dal lato opposto;in mezzo ad un mucchiodi faggi lo vidi. «Per lamiseria, è proprio lui!»Incredula mi diedi unoschiaffo ma mi accorsidi essere completamen-te sveglia, così mi avvi-cinai con gli occhi sbar-rat i , s istemandomi infretta i capelli, pieni dif rammenti d i p igne. Imiei fratelli continuaro-no a giocare, costruen-do case tra i piccoli car-di. Mi fermai davanti alui cercando di ripren-dermi, non era poi cosìdecoroso stargli davanticon la bocca spalancatadallo stupore. «Sei pro-propr io t- tu?» chiesi .«Sorry. I don’t capire»r ispose lui. Ma cer to,era inglese, come avevofatto a dimenticar lo?!Così, con il mio inglesestentato, lo convinsi afare una passeggiata trai faggi, lontano dagli oc-chi dei miei fratelli e deiloro amici. Ad un certopunto, dopo avermi rac-contato come mai era lì,

si sedette su di un masso e io feci altrettanto.Ero come una marionetta davanti a lui: occhistupendi color del mare, capelli neri come il car-bone... era alto quel che bastava più di me. Avederlo dal vero e a distanza ravvicinata era an-

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cora più affascinante, non riuscivo a tro-vargli un difetto. Portava scarpe da gin-nastica ed una tuta nera. Non mi eroancora presentata, quindi lo feci, luifece altrettanto anche se sapevogià tutto di lui: aveva 13 anni e sichiamava Daniel Radcliffe.Cercando di comunicare ininglese, capii che era lì percaso. Doveva andare a tro-vare i suoi parenti a Tori-no, ma l’aereo aveva fat-to scalo a Venezia, così,con i suoi genitori (chein questo momento sta-vano facendo un riposi-no) avevano deciso di fareun giro turistico e, attiratidal Monte Schiara (il più bo-scoso della zona), si eranoaccampati per un picnic. Poi mi raccontò dellesue avventure durante le riprese dei suoi film. Iolo stavo ad ascoltare incantata: oltre ad esseremolto bello era anche intelligente! Gli raccontaidella mia vita, dei miei compagni che mi pren-devano in giro perché tenevo le sue figurine(con lui in primo piano) sempre appoggiateall’astuccio.Intanto il sole era calato e cercai di spiegargliche dovevo tornare dai miei genitori. Ci alzam-mo quasi in contemporanea e le nostre mani sisfiorarono... fui percorsa da un brivido. I miei oc-chi non puntavano altro che ai suoi, volevo re-stare lì a guardarli per sempre, era come vede-re un miraggio. Anche lui mi guardò e mi chiesescusa se prima aveva cercato di nascondersi tragli alberi, ma tante volte le sue fans erano ag-gressive e stupide, invece io non ero così. Lui siavvicinò a me, chiuse gli occhi e...«Ehi! Ma cosa state facendo?» esclamò mio fra-tello «Denise, la mamma ti vuole, ha detto chetra un po’ andiamo e tu devi aiutare a metteretutto in ordine.» Che seccatura questi fratelli!Avevo quasi baciato Daniel Radcliffe, non so seci rendiamo conto! Comunque, arrivati vicinoall’auto, prima che qualcuno mi vedesse dissi:«Oh! Ho dimenticato la felpa!». «Dove?» fecemio fratello seccato. «Penso lì vicino al massodov’eravamo seduti. Tu dì alla mamma che arri-vo subito, io e Daniel andiamo a cercare la ma-glia!» Tornati al masso di prima spiegai a Danielche era solo una scusa per togliere Max di mez-zo. Una breve ricognizione e... ci baciammo, poimi riaccompagnò dai miei genitori. Per strada ciscambiammo i numeri di telefono.Quando fummo arrivati dai miei genitori, ci sa-

lutammo con un forte abbraccio.Non riuscii a trattenere le lacrime:quella storia era nata così in fretta edora era già finita! Non volevo lasciar-lo mai più. Lui mi fece capire che miavrebbe chiamato e che il primapossibile sarebbe tornato in Italia. Ilgiorno dopo mi svegliai, mi alzai asedere sul letto, guardai il poster diHarry Potter che era appeso alla pa-rete e mi dissi che era stato solo unsogno, un fantastico sogno... D’al-tra parte come avrei potuto speraredi incontrare Daniel Radcliffe sulMonte Schiara, a Belluno, lui che èinglese? Comunque, mi appassio-nai all’inglese e mamma, che loconosceva alla perfezione per aver

frequentato alcuni corsi anni fa, miaiutava ad impararlo al meglio.

DOPO UNA SETTIMANA...Era sera e alla tv stavo guardando un’intervistaa Daniel Radcliffe, erano circa la venti. Squillò iltelefono e mamma andò a rispondere. «E’ perte» mi disse. «Chi è?» domandai. «Non lo so,dev’essere un tuo compagno, mi ha parlato ininglese. Dev’essere un po’ matto!» esclamòperplessa. Quando risposi, sentii una voce chenon avevo mai sentito prima, ma subito dopocapii: non era stato solo un sogno...

NNEELL MMEERRAAVVIIGGLLIIOOSSOONNEELL MMEERRAAVVIIGGLLIIOOSSOOMMOONNDDOO DDII TTOOIIOOMMOONNDDOO DDII TTOOIIOO

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di Francesca Scarabel Terza media - sez. AVittorio Veneto

LLLL’ho incontrato per la prima volta inPian Cansiglio, il 18 settembre 2002,nel corso di una visita guidata pro-grammata dalla Scuola media.La sua figura agile e atletica si sta-gliava sullo sfondo autunnale del Pia-no, ed i suoi occhi scuri, circondati dauna capigliatura castana e da unabarba appena accennata, spiccavanosulla carnagione del viso arrossatodall’aria fredda e pungente della mon-tagna.Parlo naturalmente di Vittorio De Sa-vorgnani, alpinista, ecologista e scia-tore.Vittorio, per gli amici “Toio”, è un qua-rantottenne di media statura. Ha sca-lato diverse montagne, tra cui l’Hima-laya, ove, a causa di un incidente, haperso più dita delle mani. Ha scritto unlibro, “Cansiglio Nostra Signora”, oveparla di questo Altopiano apparente-mente come tanti altri, che nasconde però carat-teristiche e segreti che non si riscontrano da altreparti, e che egli ha imparato ad amare e rispettare.Le sue parole, trasportate da una fredda brezza au-tunnale, mi hanno fatto guardare - forse per la primavolta e in modo nuovo - al Cansiglio: e cioè a un ha-bitat fantastico, scrigno di migliaia di specie vegetalie di centinaia di specie animali, una grande bancagenetica di organismi che si è mantenuta nel tempo,nonostante l’inquinamento spietato, il continuo di-sboscamento, la minaccia di una caccia indiscrimi-nata che potrebbero anche portare, con l’andar deltempo, all’estinzione di molti di questi esemplari.Fortunatamente, il Cansiglio non ha grossi problemiche lo affliggono dal punto di vista naturalistico. Persalvaguardarlo, non è necessario migliorare la suasituazione ambientale, ma basta conservarlo cosìcom’è adesso, cercando di mantenerlo intatto.Guardai il Cansiglio. Appariva fermo, immobile e ge-lido... Eppure io sapevo che sotto quelle scure fron-de di alberi sempreverdi c’era un mondo fantastico epieno di vita, un delicato ecosistema che era riuscitoa resistere nel tempo.Il dolce cinguettio degli uccelli mi giunse all’orecchio,rompendo i miei pensieri immersi nel silenzio e nellacalma.Vittorio De Savorgnani continuava a parlare...

Spiegava a tutti noi che,nonostante l’impegnodi ecologisti e naturali-sti per la salvaguardiadi questa foresta, c’èchi ha intenzione di tra-sformarla in un’areaadibita al turismo.Quindi: piste da scisempre più attrezzate,alberghi lussuosi e di-scoteche, ristoranti e

case per le vacanzeper i turisti, cementoal posto del verde evia dicendo. E inoltrelunghe file di mac-chine, con aumentodell’inquinamentoatmosferico.Immaginai così perun momento l’Alto-piano pieno di turisti,

di automobili, di case e di alberghi. Bambini che ur-lavano giocando insieme, gruppi di gitanti seduti aitavolini di un bar a parlare, comitive di gente sulle pi-ste da sci, famiglie che facevano allegri picnic neiprati, rifiuti ovunque e tanta, tantissima confusioneaffollarono la mia testa. Non più il misterioso silen-zio diffuso nell’aria; non più il cinguettio degli uccel-lini portato dal vento; non più quella calma rilassan-te diffusa nel bosco.Un brivido mi percorse la schiena. Era uno spetta-colo orrendo. Mi augurai con tutto il cuore di non do-ver mai assistere ad uno spettacolo simile.Vittorio aveva ormai finito di parlare. Aspettava orale nostre domande, le nostre repliche, i nostri dub-bi, i chiarimenti. In quell’occasione – devo confes-sarlo - non sono intervenuta, forse per la mia con-naturata timidezza. Lo faccio ora, con questo scrit-to.Grazie Toio, per avermi fatto conoscere un mondomeraviglioso, vicino a me, alla mia città, che io hotardato così tanto a scoprire! Grazie Toio! Grazie pertutto quello che mi hai detto! Grazie per aver apertouna nuova finestra nel mio mondo! Grazie per aver-mi fatto capire che la salvaguardia del Cansiglio di-pende da tutti noi, dalla nostra sensibilità dalla no-stra opera, dalla nostra azione!