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Le caratteristiche della giurisdizione ed il giusto processo 1.Premesse. Il testo definitivo dell’art. 111 Cost., quale si può leggere dopo le modifiche introdotte dall’art. 1 della legge cost. n. 2 del 1999, è così formulato: 1-La giurisdizione si attua mediante il giusto processo regolato dalla legge. 2-Ogni processo si svolge nel contraddittorio tra le parti, in condizione di parità, davanti ad un giudice terzo e imparziale. La legge ne assicura la ragionevole durata. 3-Nel processo penale, la legge assicura che la persona accusata di un reato sia, nel più breve tempo possibile, informata riservatamente della natura e dei motivi dell’accusa elevata a suo carico; disponga del tempo e delle condizioni necessari per preparare la sua difesa; abbia la facoltà, davanti al giudice, di interrogare e di far interrogare le persone che rendono dichiarazioni a suo carico, di ottenere la convocazione e l’interrogatorio di persone a sua difesa nelle stesse condizioni dell’accusa e l’acquisizione di ogni altro mezzo di prova a suo favore; sia assistita da un interprete se non comprende o non parla la lingua impiegata nel processo. 4-Il processo penale è regolato dal principio del contraddittorio nella formazione della prova. La colpevolezza dell’imputato non può essere provata sulla base di dichiarazioni rese da chi, per libera scelta, si è sempre volontariamente sottratto all’interrogatorio da parte dell’imputato o del suo difensore. 5-La legge regola i casi in cui la formazione della prova non ha luogo in contraddittorio per consenso dell’imputato o per accertata impossibilità di natura oggettiva o per effetto di provata condotta illecita.

Le caratteristiche della giurisdizione ed il giusto processo · personale almeno con il ricorso in Cassazione per violazione di legge. Infine, i tre commi concernenti il “giusto

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Le caratteristiche della giurisdizione ed il giusto

processo

1.Premesse.

Il testo definitivo dell’art. 111 Cost., quale si può

leggere dopo le modifiche introdotte dall’art. 1 della

legge cost. n. 2 del 1999, è così formulato:

1-La giurisdizione si attua mediante il giusto processo

regolato dalla legge.

2-Ogni processo si svolge nel contraddittorio tra le parti,

in condizione di parità, davanti ad un giudice terzo e

imparziale. La legge ne assicura la ragionevole durata.

3-Nel processo penale, la legge assicura che la persona

accusata di un reato sia, nel più breve tempo possibile,

informata riservatamente della natura e dei motivi

dell’accusa elevata a suo carico; disponga del tempo e

delle condizioni necessari per preparare la sua difesa;

abbia la facoltà, davanti al giudice, di interrogare e di

far interrogare le persone che rendono dichiarazioni a suo

carico, di ottenere la convocazione e l’interrogatorio di

persone a sua difesa nelle stesse condizioni dell’accusa e

l’acquisizione di ogni altro mezzo di prova a suo favore;

sia assistita da un interprete se non comprende o non parla

la lingua impiegata nel processo.

4-Il processo penale è regolato dal principio del

contraddittorio nella formazione della prova. La

colpevolezza dell’imputato non può essere provata sulla

base di dichiarazioni rese da chi, per libera scelta, si è

sempre volontariamente sottratto all’interrogatorio da

parte dell’imputato o del suo difensore.

5-La legge regola i casi in cui la formazione della prova

non ha luogo in contraddittorio per consenso dell’imputato

o per accertata impossibilità di natura oggettiva o per

effetto di provata condotta illecita.

6-Tutti i provvedimenti giurisdizionali devono essere

motivati.

7-Contro le sentenze e contro i provvedimenti sulla libertà

personale, pronunciati dagli organi giurisdizionali

ordinari e speciali, è sempre ammesso ricorso in Cassazione

per violazione di legge. Si può derogare a tale norma

soltanto per le sentenze dei tribunali militari in tempo di

guerra. Contro le decisioni del Consiglio di Stato e della

Corte dei conti il ricorso in Cassazione è ammesso per i

soli motivi inerenti alla giurisdizione”.

Occorre cercare di cogliere il significato della nozione di

“giusto processo” ivi delineato.

Va notato che solo i primi due commi hanno portata

normativa generale, riferendosi ad ogni tipo di processo

giurisdizionale, mentre i successivi tre contengono

principi e regole puntuali concernenti specificamente il

processo penale.

Ora, dall’esame dei primi due commi del nuovo art. 111

Cost. si ricava che il concetto generale di “giusto

processo” accolto nella Costituzione è contrassegnato dalla

compresenza di alcuni “elementi indefettibili”, ai quali si

aggiungono le specificazioni dei commi successivi con

riferimento alla definizione dei caratteri “essenziali” del

giusto processo penale.

Le garanzie minime che devono essere salvaguardate perché

un processo, un qualsiasi tipo di processo giurisdizionale,

possa definirsi “giusto” sono dunque: a) il contraddittorio

tra le parti, in condizioni di parità; b) la terzietà e

l’imparzialità del giudice; c) la ragionevole durata.

Oltre a queste, vanno ricordate le garanzie che erano già

presenti nell’art. 111 e che oggi sono contemplate nei

commi 6 e 7: d) l’obbligo di motivazione di tutti i

provvedimenti giurisdizionali ed e) la possibilità di

impugnare le sentenze e i provvedimenti sulla libertà

personale almeno con il ricorso in Cassazione per

violazione di legge.

Infine, i tre commi concernenti il “giusto processo penale”

ne precisano i contenuti elencando i diritti spettanti ad

ogni “persona accusata di un reato” (comma 3) e stabilendo

il suo svolgimento in conformità al “principio del

contraddittorio nella formazione della prova” (comma 4),

con l’unica eccezione dei casi in cui vi sia il consenso

dell’imputato, venga accertata un’impossibilità di natura

oggettiva o venga provata una condotta illecita nei

confronti dell’autore di dichiarazioni a carico (comma 5).

Occorre tuttavia guardarsi dal concepire il “giusto

processo” quale mera sommatoria delle sue componenti

espressamente enunciate, da considerare come entità a sé

stanti, senza coglierne i collegamenti e le interdipendenze

funzionali.

In dottrina si è sostenuto che «il compendio delle singole

garanzie che attengono all’esercizio della funzione

giurisdizionale all’interno della formula unitaria di

“giusto processo” è cosa ben diversa dalla semplice e

autonoma enunciazione delle medesime garanzie. Nell’uso

della formula di sintesi emerge, infatti, una intrinseca

valenza “sistemica” o “relazionale” che impone il

coordinamento tra le diverse garanzie nell’ottica di una

loro concretizzazione che tenga conto delle reciproche

interazioni e del risultato complessivo» (CECCHETTI).

Non solo, ma, come risulta con evidenza dai lavori

parlamentari che condussero all’approvazione della riforma,

la portata della nozione di “giusto processo” può

estendersi ben oltre il dettato del testo modificato, fino

a includere anche gli altri principi processuali già

consacrati nella Carta costituzionale e nelle convenzioni

internazionali sui diritti umani e appartenenti alla

tradizione angloamericana del due process of law.

2. Il carattere innovativo della costituzionalizzazione del

“giusto processo”

Occorre preliminarmente notare che il complesso delle

caratteristiche del processo in genere, quale emerge dalla

riforma, risulta comprensivo delle garanzie che devono

essere assicurate in tutti i tipi di processo, cosicché

sarà della totalità delle disposizioni del nuovo art. 111

che si dovrà verificare se esse abbiano portata innovativa,

nel senso della specificazione e/o attuazione delle norme

costituzionali preesistenti, oppure semplicemente

ricognitiva, nel senso della sola esplicitazione e/o

riproduzione di contenuti normativi già presenti a livello

costituzionale.

Condivisibilmente in dottrina si è ritenuto che è infatti

difficile negare che «almeno una gran parte dei contenuti

normativi del nuovo art. 111 costituisca nient’altro che la

formale esplicitazione nel testo della Costituzione di

norme già considerate, in modo pressocché incontestato, di

livello costituzionale, perché immediatamente connesse a

disposizioni presenti nella Carta del 1948» (COMOGLIO).

In tal senso sembra doversi concludere per le norme

generali dei primi due commi, dai quali non si ricava

alcuna garanzia sostanziale che non possa essere dedotta

dal coordinamento logico degli articoli di attinenza

giurisdizionale già appartenenti alla I o alla II parte

della Costituzione, come del resto è stato evidenziato

dalle ricostruzioni giurisprudenziali precedenti l’entrata

in vigore della riforma.

Più complesso si prospetta invece il discorso concernente

le disposizioni contenute nel comma 3, che riproducono, sia

pure con qualche variante, le norme contenute nell’art. 6

comma 3 della Convenzione europea per la salvaguardia dei

diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali.

Non sembrano sussistere dubbi, infine, sulla natura

innovativa delle disposizioni dei commi 4 e 5, se non nel

senso che contengano norme costituzionali interamente

“nuove”, almeno sotto il profilo della specificazione di

principi generali già vigenti. Lo dimostra la posizione del

Giudice delle Leggi che, soprattutto in una serie di

pronunce, dal 1992 al 1998, si era sempre mostrato ben

lontano dal riconoscere il rango costituzionale del

principio del contraddittorio come metodo di formazione

della prova nel processo penale.

Di conseguenza, si può affermare – sempre con il Cecchetti

– che «le uniche norme autenticamente “nuove” introdotte

nell’art. 111 come qualificanti il “giusto processo” sono

quelle contenute nei commi 4 e 5, le quali forniscono

un’opportuna “specificazione” delle modalità con cui il

principio del contraddittorio deve essere applicato al

processo penale. I primi tre commi, invece, si limitano a

rendere espliciti nel testo costituzionale principi e

regole già desumibili direttamente dalle disposizioni

costituzionali previgenti, mentre gli ultimi due erano già

presenti nel testo della Costituzione».

Ma se è dunque il contraddittorio nella formazione della

prova l’elemento realmente innovativo dell’art. 111, allora

dovremmo riconoscere agevolmente che, di tutte le garanzie

processuali che vi sono sancite, è proprio questa, o

principalmente questa, a qualificare come “giusto” il rito

penale “riformato”.

Possiamo supporre del resto che il legislatore

costituzionale abbia voluto precisare nel quarto e quinto

comma le peculiarità di quella che per lui rappresenta

semplicemente la forma compiuta del contraddittorio, tale

da riverberare la particolare “giustezza” del processo che

ne risulta caratterizzato anche sui processi a proposito

dei quali si parla “genericamente” di “contraddittorio tra

le parti”.

Possiamo supporre, in altri termini, che il costituente

abbia parlato di “giusto processo” in riferimento a tutti i

tipi di processo che si svolgono “nel contraddittorio tra

le parti” per analogia di attribuzione con quell’archetipo

di processo “giusto” in cui il contraddittorio si realizza

nella sua integralità, ovvero “nella formazione della

prova”.

3. Il giusto processo ed il giudice contabile.

La legge costituzionale n. 2/1999 è stata una riforma di

grande importanza.

Basta considerare il dibattito dottrinale e politico-

istituzionale che l’ha preceduta e accompagnata. Punti

fondamentali della riforma, che valgono per ogni tipo di

processo, sono quelli dei primi due commi dell’art. 111:

– “la giurisdizione si attua mediante il giusto processo

regolato dalla legge”

– “ogni processo si svolge nel contraddittorio tra le

parti, in condizione di parità, davanti al giudice terzo ed

imparziale. La legge ne assicura la ragionevole durata”.

Si tratta di norme che, di fatto e come detto, codificano

principi e regole precedentemente evidenziate sia dalla

riflessione teorica più attenta in tema di teoria generale

del processo, sia dalla giurisprudenza più sensibile ai

profili delle garanzie giurisdizionali delle parti.

Peraltro, occorre tenere presente che, già prima

dell’introduzione degli stessi nella Carta costituzionale,

esistevano comunque disposizioni che imponevano il rispetto

dei principi in oggetto. Tali principi, infatti, erano

sanciti dalla Convenzione europea per la salvaguardia dei

diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali del 1950, e

sono entrati a far parte della Carta dei diritti

fondamentali dell’Unione europea. Mentre, per quanto

concerne il contesto nazionale, non sfuggirà il riferimento

a quei principi e a quelle regole contenute nelle

disposizioni costituzionali in materia di diritto alla

difesa (art. 24, comma 2, Cost.), di soggezione dei giudici

solo alla legge (art. 101 Cost.) e della loro indipendenza

(art. 104 e 108 Cost.), nonché di effettività della tutela

giurisdizionale (art. 24, comma 1 e art. 113 Cost.).

Quanto al contenuto dell’art. 111 Cost., come risultante

dalla novella costituzionale, è necessario in primo luogo

porre l’attenzione sul principio di riserva di legge

indicato dal primo comma. Esso sta a significare che tutti

i principali aspetti del processo – e fra questi

soprattutto i poteri istruttori e le modalità di

svolgimento del contraddittorio – devono trovare adeguata

definizione legislativa. Non possono, ad esempio, essere

lasciati indeterminati i modi di acquisizione delle prove,

il loro rilievo assiologico, e così via. È la legge a dover

regolare il processo secondo i principi costituzionali

definiti. Non basta, dunque, una qualsiasi legge

preesistente. Serve una legge i cui contenuti siano

rigorosamente coerenti con tali principi.

In altri termini, i principi affermati nel nuovo testo

dell’articolo 111 hanno un peso che non può essere

ricondotto ad affermazioni di massima che portino a

coonestare forme rudimentali di contraddittorio e di parità

delle parti. Tanto più che essi vanno intesi in un contesto

ordinamentale in cui il principio del contraddittorio si è

affermato anche in materia di attività amministrativa. La

giurisprudenza consolidata della Corte di Giustizia delle

Comunità europee ha affermato l’obbligo di applicare il

principio del contraddittorio in tutti i casi in cui

vengano assunti provvedimenti di disfavore a carico di

terzi. È stato affermato, ad esempio, che la Corte dei

conti delle Comunità europee ha violato tale principio

nello svolgimento della sua attività di controllo per non

aver sentito gli interessati dopo aver deciso di citare, in

una propria Relazione speciale da pubblicare in GUCE,

soggetti terzi che a suo giudizio avevano male ottemperato

ai propri obblighi contrattuali.

La Corte di Giustizia ha parlato di “illiceità commessa”

dalla Corte dei conti europea. Infatti, “sebbene l’adozione

e la pubblicazione delle relazioni della Corte dei conti

non siano decisioni che incidono direttamente sui diritti

delle persone in esse menzionate, esse possono avere per

queste persone conseguenze tali che gli interessati devono

essere messi in condizione di esprimere osservazioni sui

punti delle dette relazioni che li riguardano

nominativamente, prima che esse siano definitivamente

adottate. Poiché la Corte dei conti aveva omesso di

invitare la Ismeri ad esprimere il suo punto di vista sui

passaggi che la concernevano (…), da ciò consegue che la

procedura di adozione di tale relazione è inficiata da una

violazione del principio del contraddittorio”.

Se, dunque, il principio del contraddittorio si sta

affermando in attività che non sono giurisdizionali, ben

s’intende come in sede giurisdizionale esso debba essere

applicato con rigore.

Entrando più nello specifico, è ricorrente in dottrina il

rilievo della questione della (in)compatibilità

dell’attuale assetto del processo contabile con i principi

fissati dall’art. 111 Cost..

Si afferma in via generale: “Certamente appare necessaria

la revisione (...)del vigente regolamento di procedura per

i giudizi avanti alla Corte dei Conti”. Con alcune

indicazioni particolari:

– è necessario “l’adattamento del giudizio contabile ai

principi di terzietà ed imparzialità del giudice ed al

contraddittorio tra le parti in condizioni di parità”;

– appare “delicata la questione relativa alla posizione ed

ai poteri del giudice contabile e del cosiddetto potere

sindacatorio.

Con tale formula, cui si è fatto nella giurisprudenza un

ricorso frequente, soprattutto per giustificare nella

pratica giudiziaria poteri di iniziativa riguardanti la

formazione del contraddittorio, l’acquisizione delle prove

ed i limiti stessi della pronuncia, si è finito con il

riconoscere al giudice contabile, nel tentativo di

rimarcarne la differenziazione di ruolo e di poteri

rispetto al giudice civile, una posizione che mal si

concilia con il carattere di terzietà del giudice;

– di qui “l’esistenza di un potere del giudice di estendere

la propria cognizione ad ogni possibile profilo della

vicenda (...) e di determinare autonomamente sia i soggetti

che l’oggetto del giudizio sino a ritenere superabili,

addirittura, i vincoli posti dalla iniziale contestazione”;

– ancora: “è necessario recuperare una cultura

dell’accertamento delle prove, anche fuori del principio

dispositivo che sicuramente non si concilia con la natura e

la funzione pubblicistica del processo in questione anche

in relazione all’esigenza di ancorare ad elementi del tutto

certi la valutazione di colpa grave ora richiesta”.

La necessità di un adeguamento del processo contabile alle

regole del giusto processo diviene sempre più un’evidenza.

Ciò vale certamente per quanto riguarda i principi generali

fissati nei primi due commi dell’art. 111 Cost. che

immediatamente si applica ad ogni tipo di processo.

Per quanto riguarda i principi specifici in tema di

garanzie e di formazione delle prove introdotti per il

giudizio penale dai commi 3 e 4 dello stesso art. 111

Cost., l’applicazione degli stessi anche al processo

contabile può non essere un dato pacifico. Ciò soprattutto

in considerazione dell’insegnamento derivante dalla Corte

costituzionale in virtù del quale il legislatore può

regolare in modo non rigorosamente uniforme i modi della

tutela giurisdizionale, in quanto non esiste in

Costituzione un principio di uniformità di regolamentazione

tra diversi tipi di processo (Corte cost. 19 marzo 1996, n.

82). È vero che i principi di cui ai commi 3 e 4 riguardano

il processo penale, tuttavia è ragionevole ritenere che

quelle disposizioni vanno in qualche modo ad incidere anche

su quel tipo di processi, come appunto quello contabile,

che replicano vari caratteri da quello penale.

Ciò in conformità con la nuova configurazione della

responsabilità contabile, non qualificabile come intesa

solo al relativo risarcimento ma meglio configurabile con

una qualificazione paradisciplinare, cognitiva di

comportamenti di amministratori pubblici e di pubblici

dipendenti in contrasto con loro doveri d’ufficio allorché

in danno di finanza pubblica. Si è giunti anche a definire

il processo contabile quale “processo penale che si svolge

secondo le forme del processo civile”.

E c’è chi, anziché utilizzare paradigmi e formule

precostituite, si limita a constatare “la specificità del

rito contabile la cui disciplina di diritto singolare segna

la propria atipicità dal processo civile e dal processo

penale, non solo per la peculiarità degli interessi

protetti attraverso il valore unificante della sana e

corretta gestione finanziaria, ma soprattutto per la

essenzialità e laconicità della disciplina processuale”.

Ciò è accaduto senza ridefinire espressamente e

compiutamente il sistema processuale.

Quest’ultimo è rimasto definito, nelle norme di base, dal

Regolamento di procedura del 1933. Sono tre gli articoli

del Capo V (Della istruzione) ed è il primo, l’art. 14, che

fissa le coordinate: “La Corte può richiedere

all’Amministrazione e ordinare alle parti di produrre gli

atti e i documenti che crede necessari alla decisione della

controversia e può ordinare al Procuratore generale di

disporre accertamenti diretti anche in contraddittorio

delle parti”. Ruolo dominante della Corte (per quel che si

è chiamato il “potere sindacatorio”) e continuum organo

giudicante-Procura. Logica che viene confermata nell’art.

15 secondo il quale (comma 1): “La Corte può inoltre

disporre l’assunzione di testimoni ed ammettere gli altri

mezzi istruttori che crederà del caso, stabilendo i modi

con cui debbono seguire ed applicando, per quanto

possibile, le leggi di procedura civile”.

Per quanti aggiustamenti abbia prodotto la giurisprudenza –

d’altra parte, com’è naturale, non sempre omogenea – sono

rimasti fermi alcuni punti: per esempio, l’applicazione

della procedura civile è limitata dal criterio del “per

quanto possibile”, che è un criterio meramente

discrezionale.

Infatti l’art. 26 RD n. 1038/1933 disciplina il rito

contabile attraverso un rinvio “aperto” e “dinamico” al

codice di procedura civile. Proprio tale rinvio ha

conferito natura “pretoria” al rito contabile, il quale si

è venuto caratterizzando dalla sovrapposizione dei due

modelli processuali di riferimento, quello civile e quello

penale.

Il processo contabile non è, dunque, un giusto processo

regolato dalla legge, perché quella vigente è del tutto

insufficiente e lascia troppo spazio alla discrezionalità

del giudice. Discrezionalità che appunto l’art. 111 Cost.

vuole evitare.

Pertanto, se è vero che la Costituzione, con l’art. 103,

comma 2 (“La Corte dei conti ha giurisdizione nelle materie

di contabilità pubblica e nelle altre specificate dalla

legge”), ha dato un impulso allo sviluppo del giudizio di

responsabilità per danno erariale,proprio in ragione di ciò

oggi la giurisdizione della Corte è completamente

sottoposta ai principi del giusto processo. La Costituzione

non può essere in contraddizione con sé stessa: una

giurisdizione di rilevanza costituzionale può soltanto

essere una giurisdizione secondo le regole costituzionali

del processo.

PARAMETRI DI VALUTAZIONE IN MATERIA DI PROVE

Il contraddittorio processuale può non significare

necessariamente parità formale e sostanziale delle parti

nell’esercizio del diritto di prova, poiché nella

giurisprudenza della Corte costituzionale considerata

antesignana della riforma dell’art. 111 Cost. si

conferiscono al “contraddittorio” molteplici significati e

intensità. In particolare, si è individuata una concezione

“forte” del contraddittorio, che sta a significare

necessaria partecipazione della parte all’escussione del

mezzo di prova dedotto dalla controparte, in posizione e

con regole idonee ad assicurare il controllo sulla

veridicità e genuinità della fonte probatoria introdotta

nel giudizio. Conseguentemente, ad una fase di ricerca

della prova – che è anteriore all’instaurazione del

processo – deve seguire una fase di formazione della prova,

che si svolge necessariamente alla presenza di entrambe le

parti dinanzi ad un giudice preposto preliminarmente al

valutare la rilevanza e l’ammissibilità del mezzo di prova

dedotto. Alla concezione forte si contrappone, poi, una

concezione “debole” del contraddittorio, la quale consente

di ridurre ad unità le due fasi: della ricerca e della

formazione della prova.

La fonte ricercata dalla parte è automaticamente introdotta

in giudizio attraverso la mera attività processuale di

produzione. Compete alla controparte il diritto di critica

di una prova già formata, ed è riservata al giudice la

valutazione del significato probatorio con obbligo di

motivazione che copre la deduzione e la critica. Si tratta

di due concezioni collocate in ordine graduale, delle quali

il minimo comune denominatore per la verifica di conformità

al giusto processo è che la fonte di prova sia inserita nel

circuito del contraddittorio, riconoscendosi anche la

sufficienza di forme e tipi di contraddittorio differito.

Cerchiamo di applicare questi criteri al processo

contabile.

Sull’applicazione del principio del contraddittorio

I. La fase pre-dibattimentale

Ciò posto in termini generali, entriamo nello specifico dei

vari istituti.

Tra i profili che maggiormente hanno attratto l’attenzione

degli studiosi, un ruolo centrale ha assunto il problema

dell’applicazione dei principi del giusto processo alla cd.

fase pre-dibattimentale. Fase, questa, volta ad accertare

la sussistenza dei presupposti per l’esercizio dell’azione

di responsabilità, nella quale è possibile riscontrare con

ogni evidenza le influenze dell’originaria impostazione

inquisitoria del giudizio di conto. È evidente, infatti, la

asimmetria che caratterizza la fase che precede

l’instaurazione formale del giudizio, ove è assicurata

all’attore/procuratore una libertà di azione sproporzionata

rispetto alla posizione garantita al futuro convenuto. In

contrasto con qualunque attuazione del principio di parità

delle parti. Peraltro, tale impostazione della fase pre-

istruttoria comporta delle ripercussioni di rilievo anche

sul ruolo assolto dal Collegio nella fase dibattimentale,

in quanto l’organo giudicante si limiterebbe a svolgere un

ruolo “ausiliario” e secondario rispetto alle iniziative

assunte dall’attore.

II. Il c.d. potere sindacatorio

Non può, in tal senso, non condividersi l’idea di chi

afferma che “l’assenza di adeguate garanzie riguardo alla

concreta applicazione del principio del contraddittorio nel

momento della raccolta del materiale e dei fatti su cui poi

verrà a svilupparsi l’oggetto del contendere, anche alla

luce delle modalità che continuano a regolare la

prosecuzione del giudizio in sede dibattimentale,

rappresentano un ostacolo insormontabile verso una piena

attuazione di un giusto processo avanti alla Corte dei

conti”. Andrebbe pertanto quanto prima ripensata la

disciplina positiva della fase pre-dibattimentale, tenuto

conto della circostanza che le peculiarità che

caratterizzano il processo contabile – sia sotto il profilo

della natura sostanziale della responsabilità

amministrativa, sia sotto il profilo della particolare

evoluzione del processo contabile – non sono di per sé

sufficienti a giustificare la mancata attuazione dei

principi costituzionalmente conferiti al sistema

processuale nazionale.

Altro aspetto assai controverso della difficile attuazione

del principio del giusto processo al sistema processuale-

contabile, concerne la compatibilità con l’odierno testo

costituzionale della permanenza in capo al giudice della

responsabilità amministrativa del cd. potere sindacatorio.

Si tratta di un potere che caratterizza fortemente il

giudizio di responsabilità e contrasta con il principio

dispositivo che connota il rito civile. Esso si esprime

nella vasta gamma di poteri istruttori del giudice – poteri

ben più ampi di quelli previsti dal codice di procedura

civile – nella prassi applicativa che ha ritenuto che

l’organo giudicante dovesse esercitare una sorta di

controllo sull’operato del pubblico ministero attraverso la

ricerca di altri responsabili – realizzata mediante l’uso

dell’integrazione del contraddittorio – e nella supplenza

nell’attività di ricerca del materiale probatorio. Fino ad

arrivare ad affermare che “la Corte non è vincolata dalle

domande delle parti, né dai motivi da esse dedotti, avendo

un illimitato potere di indagine indipendente dagli

elementi di giudizio prodotti dalle parti interessate”.

Tale potere può essere visto come la più concreta

attuazione della vecchia e originaria impostazione che

attribuiva al giudice contabile la funzione di controllare

la corretta gestione della spesa pubblica, unitamente

all’obiettivo di risarcire l’erario dei danni subiti dai

comportamenti illeciti degli agenti pubblici, anche

mediante l’irrogazione delle relative sanzioni. Sul punto,

la giurisprudenza ha manifestato due orientamenti

contrapposti.

Una parte della giurisprudenza ha sostenuto la validità e

necessità di un potere sindacatorio del giudice contabile,

sia pure al fine di dare attuazione a principi del giusto

processo. In tale prospettiva, il potere acquisitivo del

giudice viene visto come lo strumento che consente di

tutelare la posizione del convenuto tra gli elementi

introdotti nella controversia del solo PM e l’impossibilità

di confutare la fondatezza di un’amministrazione dotata di

poteri autoritativi. Su questa linea di pensiero si è

giunti di recente ad una ordinanza di rimessione alla Corte

costituzionale volta all’abrogazione per incostituzionalità

dell’art. 5, comma 1 della Legge n.19/1994, nel testo

sostituito dall’art. 1 del d.l. 23 ottobre 1996, n. 543,

convertito in legge 20 dicembre 1996, n. 639, per contrasto

con gli articoli 3, 24 comma 2 e 111, comma 2, della

Costituzione (Corte dei conti, Sez. Giur. Abruzzo, ord. n.

56 del 28 giugno 2004).

Occorre concordare con quanti affermano che tale

orientamento può essere condiviso soltanto laddove il

collegio facesse realmente ricorso alla vasta gamma dei

mezzi istruttori legislativamente previsti.

Il contrario è da dirsi, invece, allorché il giudice

contabile interpreta il proprio ruolo in termini riduttivi,

limitandosi a verificare sul piano formale la fondatezza

delle prove poste a fondamento della citazione: il

controllo di natura cartolare che il collegio si limita a

svolgere il più delle volte nei confronti del materiale

probatorio raccolto dalla procura regionale rappresenta “la

minaccia più seria alla concreta applicazione dei principi

discendenti dalla nozione del giusto processo”. Non v’è chi

non veda come i principi codificati dall’art. 111 Cost.

impongono, al contrario, una figura di giudice attiva che

possa valutare in chiave critica le operazioni e gli

accertamenti che una delle parti ha condotto in totale

autonomia e in assenza di contraddittorio.

Altra parte della giurisprudenza afferma la progressiva

recessività del potere sindacatorio, mai “positivamente

prescritto per i giudizi di responsabilità”, “contrastante

con i principi contenuti nell’art. 111 Cost., che impongono

che il processo si svolga assicurando adeguate forme di

contraddittorio tra le parti in condizioni di parità,

avanti ad un giudice terzo ed imparziale, cui non è

permesso di introdurre d’ufficio alle parti medesime,

l’oggetto del contendere, né decidere su questioni che non

siano state previamente sottoposte al necessario

contraddittorio”. Conseguentemente, la giurisprudenza ha

attivato un procedimento interpretativo volto a ridurre

drasticamente il potere sindacatorio nel rispetto del

canone di terzietà ed imparzialità del giudice e dell’onere

della prova. Val la pena citare la sentenza n. 116 del 2003

della Corte dei conti, Sezione giurisdizionale Lazio, la

quale innanzitutto riprende la nozione del c.d. potere

sindacatorio. Tale potere “consentirebbe al giudice

contabile la possibilità, in veste di inquisitore, di

estendere la responsabilità a soggetti diversi rispetto a

quelli individuati dal Pubblico ministero, di allargare

oggettivamente la controversia al di là ed a volte contro

le richieste dell’accusa stessa, nonché di utilizzare, di

propria iniziativa, mezzi e strumenti intesi

all’acquisizione della prova, il tutto in contrasto con

l’uguaglianza tra le parti, con il diritto alla difesa ed,

in genere, contro il principio della terzietà del giudice

sancito dal novellato articolo 111. (…) osserva il Collegio

che indubbiamente la costituzionalizzazione dei principi

del giusto processo enfatizza in particolare il principio

del giudice terzo e imparziale, che viene considerato

valore primario su cui si basa la funzione giurisdizionale

e che impone una rilettura della normativa che disciplina

il processo contabile; va peraltro rilevato che il “potere

sindacatorio” è più che altro una creazione della dottrina

e della giurisprudenza che hanno talvolta attribuito al

giudice un ruolo attivo nella ricerca della verità e

nell’individuazione delle responsabilità tale da

compromettere, almeno in via teorica, il connotato della

terzietà”.

La sentenza richiama alcune antecedenti pronunce che qui si

riportano:

“Qualora a seguito del corretto instaurarsi di un giudizio

di responsabilità il giudice valuti sussistere la

responsabilità dei convenuti per ragioni diverse da quelle

esposte in citazione, non può che procedere all’assoluzione

dei convenuti, non potendo sostituirsi al PM e riformulare

la domanda risarcitoria, a ciò ostando il chiaro disposto

dell’art. 111 della Costituzione” (Sez. Giur. Basilicata 4

Aprile 2002, n. 112); “Il Potere sindacatorio del giudice

contabile, non previsto da alcuna disposizione di legge,

deve oggi ritenersi non più esercitabile in ossequio

all’art. 111 della Costituzione, sicché il giudice non può

mai d’ufficio, sostituendosi alle parti, determinare

l’oggetto del contendere su questioni che non siano state

preventivamente sottoposte al necessario contraddittorio”

(Sez. Giur. d’App. Sicilia 9 Maggio 2002 n. 75/A); ancora,

“Il giudice contabile, a maggior ragione dopo la previsione

della garanzia costituzionale del giusto processo ai sensi

dell’art. 111 Cost., non dispone del potere di ordinare la

chiamata in causa di soggetti che il Procuratore Regionale

non abbia, motivando al riguardo, convenuto nell’atto

introduttivo del giudizio”. (Sez. III Centrale 30 settembre

2002 n. 300/A). Analoghi criteri emergono in ordine al

potere istruttorio esercitato d’ufficio: “I principi del

giusto processo limitano il c.d. potere sindacatorio

attribuito al giudice contabile, essendo egli tenuto a

pronunciarsi nei limiti della domanda con esclusione di

qualsivoglia intervento integratore finalizzato alla

ricerca della prova, il cui onere non può non gravare su

chi propone la domanda” (Sez. Giur. d’Appello Sicilia 17

luglio 2001 n.148/A); “Il potere sindacatorio del giudice

contabile si mantiene nei limiti dei principi di terzietà e

di imparzialità recentemente riaffermati dal novellato

art.111 Cost. soltanto se esercitato in riferimento ai

fatti allegati dalle parti in adempimento dei rispettivi

oneri processuali (…).” (Sez. III Centrale 17 aprile 2002

n.125/A). Il giudice della richiamata sentenza n. 116/2003,

infine, sottolinea come ci si trovi davanti ad “un

travaglio ermeneutico in atto che cerca il giusto

equilibrio tra la terzietà del giudice, l’indisponibilità e

l’esclusività dell’azione contabile, nonché la tutela della

parte più debole (…) e che può trovare il suo punto

d’arrivo in figure disciplinate dal codice di procedura

civile (v. artt. 102, 107 e 421)”.

Ci si è orientati, quindi, nel senso di “non escludere

completamente l’iniziativa del giudice, ma di limitarla a

valorizzare ed a sollecitare lo sviluppo nell’ambito del

processo di elementi probatori incompleti, introdotti nel

giudizio ma non ancora definiti (cd. principio della

prova), evitando quindi di affidare al giudice stesso

un’attività intesa alla ricerca di nuove prove, ma

consentendogli di esercitare una funzione, per così dire

maieutica, ritenuta rientrante nei poteri di direzione

generalmente riconosciuti”.

Nonostante tale ridimensionamento del cd. potere

sindacatorio, esso ha comunque conservato la sua

consistenza. Con i suoi conseguenti problemi di

compatibilità con i principi del giusto processo. Basti

pensare, a titolo esemplificativo, alla disapplicazione del

principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato e

quindi della non vincolatività della richiesta di

assoluzione eventualmente richiesta dal PM nel

dibattimento. È evidente in tale aspetto “la mancanza di

solidità nella giurisprudenza contabile del principio della

terzietà del giudice intesa nel senso più forte dell’essere

questo investito del solo potere di comporre la lite e non

anche di quello di svolgere una funzione autonoma, come

tale svincolata dalle posizioni e dalle richieste delle

parti, in ordine alle vicende sottoposte al suo giudizio”.

Sulla stessa linea si pone il problema della compatibilità

con il principio di terzietà del giudice del potere di

chiamata in giudizio di soggetti diversi da quelli citati

dal Procuratore. Si pensi che “da parte dell’organo

pubblico d’azione, la citazione in giudizio dei soggetti di

cui era stata disposta la chiamata, è stata spesso intesa

come mero adempimento di un obbligo imposto dal giudice con

la paradossale conseguenza di citazioni prive di alcuna

richiesta di condanna”.

A questo punto, una domanda è ineludibile: al fine di

uscire dallo stato di incertezza e contraddittorietà che

caratterizza il processo contabile, basta il “travaglio

ermeneutico” della stessa giurisprudenza contabile quando

questa può, in concreto, prendere strade spesso così

divaricate?

In realtà occorre porre rimedio alla mancanza, nel processo

contabile, del parametro costituzionale fondamentale del

“giusto processo”: la puntuale definizione delle norme

processuali che assicuri la piena parità delle parti.

Il giudice non può continuare ad autoregolamentare il

processo al di fuori del rispetto di tali principi, secondo

una normativa di base non solo insufficiente, perché assai

lontana nel tempo, ma rispondente a criteri ampiamente

superati.

Per completezza va detto che della questione si è

recentemente interessata la Corte Costituzionale la quale,

chiamata a decidere proprio della compatibilità del “potere

sindacatorio” con i principi del giusto processo, ha eluso

la problematica con una decisione in rito (Corte

Costituzionale, ord. N.68 del 9.3.2007). La Corte, chiamata

a pronunciarsi sulla legittimità dell’art.14 del

regolamento a seguito di una questione sollevata dalla III

Sezione Centrale d’appello con ordinanza del 4.2.2005, ha

risolto la questione nel senso della inammissibilità poiché

il giudice a quo non avrebbe posto un dubbio di

costituzionalità, bensì una questione di mera

interpretazione, così da utilizzare impropriamente il

giudizio di legittimità costituzionalità, che non è volto a

fornire avalli alle interpretazioni dei giudici comuni, ai

quali spetta invece scegliere, tra le più interpretazioni

possibili, quella conforme a Costituzione.

Allo stato, dunque, alla luce del recente arresto della

Corte, la norma è salva ed anche il potere sindacatorio del

giudice contabile è salvo, anche se è innegabile che i

dubbi sulla loro compatibilità con la Costituzione restano.

Va detto che se la Corte ha eluso il problema sicuramente

esso non potrà essere eluso dal legislatore allorché, come

è auspicabile, il parlamento metterà mano ad un nuovo

Codice di procedura per i giudizi innanzi alla Corte dei

Conti, la cui approvazione appare sempre di più

indifferibile. Risulta infatti presentato il disegno di

legge delega sul nuovo Codice di procedura per i giudizi

innanzi alla Corte dei Conti (atto senato n.702). Fra i

principi della delega, occorre ricordare, vi è proprio

quello della “partecipazione al giudizio delle parti, su

basi di effettiva parità in ogni stato e grado del

processo, anche in attuazione del principio costituzionale

del giusto processo” (art.1, comma 2, lett.c), del DDL

Delega ato Senato n.702).

Il problema, quindi, è solo rinviato.

L’estensione della giurisdizione contabile.

I principi dell’art. 111 Cost. hanno bisogno di inverarsi

in un adeguato sistema di norme anche per poter far fronte

alle questioni che sorgeranno nel giudicare responsabilità

che non sorgano nell’ambito tradizionale della pubblica

amministrazione. Al riguardo e soltanto a titolo d’esempio,

si considerino i problemi che potranno sorgere

dall’applicazione alle società pubbliche e miste del nuovo

diritto societario.

A differenza di quel che è avvenuto nella legislazione in

materia di giustizia amministrativa, dove il recente

riordinamento attuato dalla legge n. 205/2000 ha visto un

sostanziale equilibrio tra norme sostantive e norme

processuali, non così è avvenuto nel campo della

giurisdizione contabile.

Il riordinamento, insomma, è rimasto monco.

Ulteriore problema è quello della compatibilità

dell’attuale sistema processuale con il progressivo

allargamento dell’area della giurisdizione contabile,

collegata con una nozione di responsabilità erariale

connotata da sempre maggiore latitudine.

Tale nozione di responsabilità si è venuta affermando

soprattutto grazie all’attività interpretativa della

giurisprudenza delle Sezioni unite della Cassazione. In

particolare, con due importanti decisioni intervenute negli

ultimi anni, le Sezioni unite della Suprema Corte di

Cassazione – prima con ordinanza 22 dicembre 2003, n.

19667, e poi con la sentenza 26 febbraio 2004, n. 3899 –

hanno affermato la giurisdizione della Corte dei conti,

rispettivamente: per le ipotesi di responsabilità

amministrativa degli amministratori e dei dipendenti degli

enti pubblici economici, per i danni patrimoniali arrecati

al patrimonio dell’ente, e per le ipotesi di responsabilità

amministrativa delle s.p.a. partecipate dagli enti pubblici

per i danni erariali arrecati al patrimonio dell’ente. Tale

orientamento ha il merito di aver individuato, nella natura

pubblica delle risorse finanziarie in relazione alle quali

si configura il danno di cui alla pretesa risarcitoria, il

presupposto per l’incardinazione della stessa

giurisdizione. Operando così un passaggio dalla

responsabilità amministrativa dei soli amministratori e

dipendenti pubblici alla responsabilità finanziaria intesa

come una generale forma di responsabilità patrimoniale per

danno alle pubbliche finanze in cui possono incorrere tutti

i soggetti che abbiano maneggio o che utilizzino pubbliche

risorse. Tale responsabilità si configura, in via generale,

in relazione alla violazione degli obblighi nascenti in

capo al soggetto stesso dalla finalizzazione delle risorse

pubbliche; così si legge in C.conti, sez. giur. Lombardia,

22 febbraio 2006, n. 114, con la quale si è affermata la

sussistenza della giurisdizione della Corte dei conti nelle

controversie volte all’accertamento di illeciti erariali

posti in essere da dipendenti di società per azioni

partecipate da enti pubblici – ENEL – ovvero di società

controllate dalle medesime – ENEL POWER e ENEL PRODUZIONE.

Tale orientamento è stato seguito per gli enti pubblici

economici.

Più di recente, la sentenza delle Sezioni unite del 1°

marzo 2006, n. 4511, ha affermato la giurisdizione della

Corte dei conti anche nei confronti del privato che

utilizzi o che comunque impieghi risorse pubbliche,

affermando, in particolare, che “il baricentro per

discriminare la giurisdizione ordinaria da quella contabile

si è spostata dalla qualità del soggetto (che può ben

essere un privato o un ente pubblico non economico) alla

natura del danno e degli scopi perseguiti, cosicché

sussiste la giurisdizione della Corte dei conti nei

confronti di società privata che abbia beneficiato di fonti

pubblici nazionali e comunitari nell’ambito di un programma

operativo multiregionale diretto alla promozione dello

sviluppo imprenditoriale e abbia realizzato uno sviamento

dalle finalità perseguite dalla pubblica amministrazione

così determinando un danno erariale”.

Tali interventi, come più volte sottolineato, hanno

innovato profondamente l’oggetto del giudizio contabile,

senza tuttavia affrontare i numerosi problemi pratici che

essi portano con sé. Primo fra tutti il problema della

possibile interferenza dell’azione di responsabilità

amministrativa esercitata dalla procura della Corte dei

conti rispetto all’azione di responsabilità sociale che i

soci possono intraprendere nei confronti degli

amministratori o dei dipendenti delle società partecipate

dai soggetti pubblici.

La giurisprudenza, infatti, sta discutendo se

l’accertamento di responsabilità di questi soggetti ricada

esclusivamente sotto la giurisdizione della Corte dei

conti, o se invece spetti anche (o solo) alla giurisdizione

ordinaria intervenire. La scelta ha importanti

implicazioni, perché la responsabilità amministrativa

(quella accertata dal giudice della Corte dei conti)

risulta significativamente meno gravosa di quella derivante

dal diritto privato e societario. A ciò si aggiunga che le

regole che guidano il processo contabile spesso – come si è

visto nelle pagine che precedono – sono in contrasto con i

principi propri del sistema civilistico e con le garanzie

assicurate alle parti.

Servirà probabilmente un intervento legislativo per

dirimere la controversia interpretativa.

Sviluppi giurisprudenziali

Abuso del diritto e frazionamento della domanda.

I principi del giusto processo hanno trovato massima

valorizzazione attraverso l’opera della giurisprudenza che,

anche ai più alti livelli, ispira ad essi costantemente la

sua opera.

Va segnalata, per l’attualità e l’importanza dei principi

espressi, la recentissima Cass.UU. n.15.11.2007 n.23726,

con cui la Suprema Corte, ripensando un proprio

orientamento neanche tanto risalente, ha stabilito che è

contraria alla regola generale di correttezza e buona fede,

in relazione al dovere inderogabile di solidarietà di cui

all’art.2 della costituzione, e si risolve in abuso del

processo (ostativo all’esame della domanda), il

frazionamento giudiziale (contestuale o sequenziale) di un

credito unitario.

A tale decisione la Suprema Corte è pervenuta valorizzando,

tra gli altri, proprio il canone costituzionale del giusto

processo ex art.111 Cost.

Esaminiamo nello specifico la questione, interessante per

la pregnanza delle soluzioni offerte nonché per gli

sviluppi ipotizzabili.

Con la sentenza n. 108 del 2000, in sede di composizione di

precedente contrasto, le Sezioni unite si erano già

pronunziate, in senso affermativo, sul tema della

frazionalità della tutela giudiziaria del credito.

Ritenendo, in quella occasione, "ammissibile la domanda

giudiziale con la quale il creditore di una determinata

somma, derivante dall'inadempimento di un unico rapporto,

chieda un adempimento, parziale, con riserva di azione per

il residuo, trattandosi di un potere non negato

dall'ordinamento e rispondente ad un interesse del

creditore, meritevole di tutela, e che non sacrifica, in

alcun modo, il diritto del debitore alla difesa delle

proprie ragioni".

Nel rimeditare questa soluzione - come sollecitato con

l’ordinanza di rimessione – “il Collegio ritiene ora però

di non poterla mantenere ferma, in un quadro normativo nel

frattempo evolutosi nella duplice direzione, sia di una

sempre più accentuata e pervasiva valorizzazione della

regola di correttezza e buona fede - siccome specificativa

(nel contesto del rapporto obbligatorio) degli

"inderogabili doveri di solidarietà", il cui adempimento è

richiesto dall'art. 2 della Costituzione - sia in relazione

al canone del "giusto processo", di cui al novellato art.

111 della Costituzione.

In relazione al quale si impone una lettura "adeguata"

della normativa di riferimento (in particolare dell'art. 88

c.p.c.), nel senso del suo allineamento al duplice

obiettivo della "ragionevolezza della durata" del

procedimento e della "giustezza" del "processo", inteso

come risultato finale (della risposta cioè alla domanda

della parte), che "giusto" non potrebbe essere ove frutto

di abuso, appunto, del processo, per esercizio dell'azione

in forme eccedenti, o devianti, rispetto alla tutela

dell'interesse sostanziale, che segna il limite, oltreché

la ragione dell'attribuzione, al suo titolare, della

potestas agendi.

Per il primo profilo, viene in rilievo l'ormai acquisita

consapevolezza della intervenuta costituzionalizzazione del

canone generale di buona fede oggettiva e correttezza, in

ragione del suo porsi in sinergia con il dovere

inderogabile di solidarietà di cui all'art. 2 della

Costituzione, che a quella clausola generale attribuisce

all'un tempo forza normativa e ricchezza di contenuti,

inglobanti anche obblighi di protezione della persona e

delle cose della controparte, funzionalizzando così il

rapporto obbligatorio alla tutela anche dell'interesse del

partner negoziale (cfr., sull'emersione di questa linea di

indirizzo, Cass. sez. I n. 3775/94; Id. n. 10511/99; Sez.

un. 18128/2005).

Se, infatti, si è pervenuti, in questa prospettiva, ad

affermare che il criterio della buona fede costituisce

strumento, per il giudice, atto a controllare, anche in

senso modificativo o integrativo, lo statuto negoziale, in

funzione di garanzia del giusto equilibrio degli opposti

interessi (cfr., in particolare, nn. 3775/94 e 10511/99

citt.), a maggior ragione deve ora riconoscersi che un

siffatto originario equilibrio del rapporto obbligatorio,

in coerenza a quel principio, debba essere mantenuto fermo

in ogni successiva fase, anche giudiziale, dello stesso

(cfr. Sez. III n. 13345/06) e non possa quindi essere

alterato, ad iniziativa del creditore, in danno del

debitore.

Il che, però, è quanto, appunto, accadrebbe in caso di

consentita parcellizzazione giudiziale dell'adempimento del

credito. Della quale non può escludersi la incidenza, in

senso pregiudizievole, o comunque peggiorativo, sulla

posizione del debitore: sia per il profilo del

prolungamento del vincolo coattivo cui egli dovrebbe

sottostare per liberarsi della obbligazione nella sua

interezza, ove il credito sia nei suoi confronti azionato

inizialmente solo pro quota con riserva di azione per il

residuo [come propriamente nel caso esaminato dalla citata

Sez. un. n. 108/00 cit., in cui la richiesta di pagamento

per frazione era finalizzata ad adire un giudice inferiore

rispetto a quello che sarebbe stato competente a conoscere

dell'intero credito], sia per il profilo dell'aggravio di

spese e dell’onere di molteplici opposizioni (per evitare

la formazione di un giudicato pregiudizievole) cui il

debitore dovrebbe sottostare, a fronte della

moltiplicazione di (contestuali) iniziative giudiziarie,

come nel caso dei processi a quibus.

Non rilevando in contrario che il frazionamento del

credito, come in precedenza affermato, possa rispondere ad

un interesse non necessariamente emulativo del creditore

(come quello appunto di adire un giudice inferiore, più

celere nella soluzione delle controversie, confidando

nell'adempimento spontaneo da parte del debitore del

residuo debito), poiché - a parte la pertinenza di tale

considerazione alla sola ipotesi (di cui alla sentenza

108/00) del frazionamento non contestuale - è decisivo il

rilievo che resterebbe comunque lesiva del principio di

buona fede, nel senso sopra precisato, la scissione del

contenuto della obbligazione operata dal creditore, per

esclusiva propria utilità con unilaterale modificazione

aggravativa della posizione del suo debitore.

Ad evitare la quale neppure è persuasiva, infine, la

considerazione che "il debitore potrebbe ricorrere alla

messa in mora del creditore, offrendo l’intera somma", non

essendo tale soluzione praticabile ove, come possibile, il

debitore non ritenga di essere tale.

Oltre a violare, per quanto sin qui detto, il generale

dovere di correttezza e buona fede, la disarticolazione, da

parte del creditore, dell'unità sostanziale del rapporto

(sia pur nella fase patologica della coazione

all'adempimento), in quanto attuata nel processo e tramite

il processo, si risolve automaticamente anche in abuso

dello stesso.

Risultando già per ciò solo la parcellizzazione giudiziale

del credito non in linea con il precetto inderogabile (cui

l’interpretazione della normativa processuale deve

viceversa uniformarsi) del processo giusto.

Ulteriore vulnus al quale deriverebbe, all'evidenza, dalla

formazione di giudicati (praticamente) contraddittori cui

potrebbe dar luogo la pluralità di iniziative giudiziarie

collegate allo stesso rapporto.

Mentre l'effetto inflattivo riconducibile ad una siffatta

(ove consentita) moltiplicazione di giudizi ne evoca ancora

altro aspetto di non adeguatezza rispetto all'obiettivo,

costituzionalizzato nello stesso art. 111, della

"ragionevole durata del processo", per l'evidente antinomia

che esiste tra la moltiplicazione dei processi e la

possibilità di contenimento della correlativa durata.

L'esaminato primo motivo del ricorso va quindi respinto,

enunciandosi, in ordine alla questione di massima ad esso

sotteso, il principio (con il quale risulta in linea la

sentenza impugnata) per cui è contraria alla regola

generale di correttezza e buona fede, in relazione al

dovere inderogabile di solidarietà di cui all'art. 2

Costituzione, e si risolve in abuso del processo (ostativo

all'esame della domanda), il frazionamento giudiziale

(contestuale o sequenziale) di un credito unitario”

(Cassazione – Sezioni unite civili – sentenza 23 ottobre –

15 novembre 2007, n. 23726, Presidente Carbone – Relatore

Morelli, sottolineature aggiunte).

Tale decisione dimostra l’incredibile capacità espansiva

dei principi costituzionali in tema di giusto processo

nella nuova formulazione contenuta nel novellato art.111

della Costituzione.