Upload
dinhthuy
View
215
Download
0
Embed Size (px)
Citation preview
Le caratteristiche della giurisdizione ed il giusto
processo
1.Premesse.
Il testo definitivo dell’art. 111 Cost., quale si può
leggere dopo le modifiche introdotte dall’art. 1 della
legge cost. n. 2 del 1999, è così formulato:
1-La giurisdizione si attua mediante il giusto processo
regolato dalla legge.
2-Ogni processo si svolge nel contraddittorio tra le parti,
in condizione di parità, davanti ad un giudice terzo e
imparziale. La legge ne assicura la ragionevole durata.
3-Nel processo penale, la legge assicura che la persona
accusata di un reato sia, nel più breve tempo possibile,
informata riservatamente della natura e dei motivi
dell’accusa elevata a suo carico; disponga del tempo e
delle condizioni necessari per preparare la sua difesa;
abbia la facoltà, davanti al giudice, di interrogare e di
far interrogare le persone che rendono dichiarazioni a suo
carico, di ottenere la convocazione e l’interrogatorio di
persone a sua difesa nelle stesse condizioni dell’accusa e
l’acquisizione di ogni altro mezzo di prova a suo favore;
sia assistita da un interprete se non comprende o non parla
la lingua impiegata nel processo.
4-Il processo penale è regolato dal principio del
contraddittorio nella formazione della prova. La
colpevolezza dell’imputato non può essere provata sulla
base di dichiarazioni rese da chi, per libera scelta, si è
sempre volontariamente sottratto all’interrogatorio da
parte dell’imputato o del suo difensore.
5-La legge regola i casi in cui la formazione della prova
non ha luogo in contraddittorio per consenso dell’imputato
o per accertata impossibilità di natura oggettiva o per
effetto di provata condotta illecita.
6-Tutti i provvedimenti giurisdizionali devono essere
motivati.
7-Contro le sentenze e contro i provvedimenti sulla libertà
personale, pronunciati dagli organi giurisdizionali
ordinari e speciali, è sempre ammesso ricorso in Cassazione
per violazione di legge. Si può derogare a tale norma
soltanto per le sentenze dei tribunali militari in tempo di
guerra. Contro le decisioni del Consiglio di Stato e della
Corte dei conti il ricorso in Cassazione è ammesso per i
soli motivi inerenti alla giurisdizione”.
Occorre cercare di cogliere il significato della nozione di
“giusto processo” ivi delineato.
Va notato che solo i primi due commi hanno portata
normativa generale, riferendosi ad ogni tipo di processo
giurisdizionale, mentre i successivi tre contengono
principi e regole puntuali concernenti specificamente il
processo penale.
Ora, dall’esame dei primi due commi del nuovo art. 111
Cost. si ricava che il concetto generale di “giusto
processo” accolto nella Costituzione è contrassegnato dalla
compresenza di alcuni “elementi indefettibili”, ai quali si
aggiungono le specificazioni dei commi successivi con
riferimento alla definizione dei caratteri “essenziali” del
giusto processo penale.
Le garanzie minime che devono essere salvaguardate perché
un processo, un qualsiasi tipo di processo giurisdizionale,
possa definirsi “giusto” sono dunque: a) il contraddittorio
tra le parti, in condizioni di parità; b) la terzietà e
l’imparzialità del giudice; c) la ragionevole durata.
Oltre a queste, vanno ricordate le garanzie che erano già
presenti nell’art. 111 e che oggi sono contemplate nei
commi 6 e 7: d) l’obbligo di motivazione di tutti i
provvedimenti giurisdizionali ed e) la possibilità di
impugnare le sentenze e i provvedimenti sulla libertà
personale almeno con il ricorso in Cassazione per
violazione di legge.
Infine, i tre commi concernenti il “giusto processo penale”
ne precisano i contenuti elencando i diritti spettanti ad
ogni “persona accusata di un reato” (comma 3) e stabilendo
il suo svolgimento in conformità al “principio del
contraddittorio nella formazione della prova” (comma 4),
con l’unica eccezione dei casi in cui vi sia il consenso
dell’imputato, venga accertata un’impossibilità di natura
oggettiva o venga provata una condotta illecita nei
confronti dell’autore di dichiarazioni a carico (comma 5).
Occorre tuttavia guardarsi dal concepire il “giusto
processo” quale mera sommatoria delle sue componenti
espressamente enunciate, da considerare come entità a sé
stanti, senza coglierne i collegamenti e le interdipendenze
funzionali.
In dottrina si è sostenuto che «il compendio delle singole
garanzie che attengono all’esercizio della funzione
giurisdizionale all’interno della formula unitaria di
“giusto processo” è cosa ben diversa dalla semplice e
autonoma enunciazione delle medesime garanzie. Nell’uso
della formula di sintesi emerge, infatti, una intrinseca
valenza “sistemica” o “relazionale” che impone il
coordinamento tra le diverse garanzie nell’ottica di una
loro concretizzazione che tenga conto delle reciproche
interazioni e del risultato complessivo» (CECCHETTI).
Non solo, ma, come risulta con evidenza dai lavori
parlamentari che condussero all’approvazione della riforma,
la portata della nozione di “giusto processo” può
estendersi ben oltre il dettato del testo modificato, fino
a includere anche gli altri principi processuali già
consacrati nella Carta costituzionale e nelle convenzioni
internazionali sui diritti umani e appartenenti alla
tradizione angloamericana del due process of law.
2. Il carattere innovativo della costituzionalizzazione del
“giusto processo”
Occorre preliminarmente notare che il complesso delle
caratteristiche del processo in genere, quale emerge dalla
riforma, risulta comprensivo delle garanzie che devono
essere assicurate in tutti i tipi di processo, cosicché
sarà della totalità delle disposizioni del nuovo art. 111
che si dovrà verificare se esse abbiano portata innovativa,
nel senso della specificazione e/o attuazione delle norme
costituzionali preesistenti, oppure semplicemente
ricognitiva, nel senso della sola esplicitazione e/o
riproduzione di contenuti normativi già presenti a livello
costituzionale.
Condivisibilmente in dottrina si è ritenuto che è infatti
difficile negare che «almeno una gran parte dei contenuti
normativi del nuovo art. 111 costituisca nient’altro che la
formale esplicitazione nel testo della Costituzione di
norme già considerate, in modo pressocché incontestato, di
livello costituzionale, perché immediatamente connesse a
disposizioni presenti nella Carta del 1948» (COMOGLIO).
In tal senso sembra doversi concludere per le norme
generali dei primi due commi, dai quali non si ricava
alcuna garanzia sostanziale che non possa essere dedotta
dal coordinamento logico degli articoli di attinenza
giurisdizionale già appartenenti alla I o alla II parte
della Costituzione, come del resto è stato evidenziato
dalle ricostruzioni giurisprudenziali precedenti l’entrata
in vigore della riforma.
Più complesso si prospetta invece il discorso concernente
le disposizioni contenute nel comma 3, che riproducono, sia
pure con qualche variante, le norme contenute nell’art. 6
comma 3 della Convenzione europea per la salvaguardia dei
diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali.
Non sembrano sussistere dubbi, infine, sulla natura
innovativa delle disposizioni dei commi 4 e 5, se non nel
senso che contengano norme costituzionali interamente
“nuove”, almeno sotto il profilo della specificazione di
principi generali già vigenti. Lo dimostra la posizione del
Giudice delle Leggi che, soprattutto in una serie di
pronunce, dal 1992 al 1998, si era sempre mostrato ben
lontano dal riconoscere il rango costituzionale del
principio del contraddittorio come metodo di formazione
della prova nel processo penale.
Di conseguenza, si può affermare – sempre con il Cecchetti
– che «le uniche norme autenticamente “nuove” introdotte
nell’art. 111 come qualificanti il “giusto processo” sono
quelle contenute nei commi 4 e 5, le quali forniscono
un’opportuna “specificazione” delle modalità con cui il
principio del contraddittorio deve essere applicato al
processo penale. I primi tre commi, invece, si limitano a
rendere espliciti nel testo costituzionale principi e
regole già desumibili direttamente dalle disposizioni
costituzionali previgenti, mentre gli ultimi due erano già
presenti nel testo della Costituzione».
Ma se è dunque il contraddittorio nella formazione della
prova l’elemento realmente innovativo dell’art. 111, allora
dovremmo riconoscere agevolmente che, di tutte le garanzie
processuali che vi sono sancite, è proprio questa, o
principalmente questa, a qualificare come “giusto” il rito
penale “riformato”.
Possiamo supporre del resto che il legislatore
costituzionale abbia voluto precisare nel quarto e quinto
comma le peculiarità di quella che per lui rappresenta
semplicemente la forma compiuta del contraddittorio, tale
da riverberare la particolare “giustezza” del processo che
ne risulta caratterizzato anche sui processi a proposito
dei quali si parla “genericamente” di “contraddittorio tra
le parti”.
Possiamo supporre, in altri termini, che il costituente
abbia parlato di “giusto processo” in riferimento a tutti i
tipi di processo che si svolgono “nel contraddittorio tra
le parti” per analogia di attribuzione con quell’archetipo
di processo “giusto” in cui il contraddittorio si realizza
nella sua integralità, ovvero “nella formazione della
prova”.
3. Il giusto processo ed il giudice contabile.
La legge costituzionale n. 2/1999 è stata una riforma di
grande importanza.
Basta considerare il dibattito dottrinale e politico-
istituzionale che l’ha preceduta e accompagnata. Punti
fondamentali della riforma, che valgono per ogni tipo di
processo, sono quelli dei primi due commi dell’art. 111:
– “la giurisdizione si attua mediante il giusto processo
regolato dalla legge”
– “ogni processo si svolge nel contraddittorio tra le
parti, in condizione di parità, davanti al giudice terzo ed
imparziale. La legge ne assicura la ragionevole durata”.
Si tratta di norme che, di fatto e come detto, codificano
principi e regole precedentemente evidenziate sia dalla
riflessione teorica più attenta in tema di teoria generale
del processo, sia dalla giurisprudenza più sensibile ai
profili delle garanzie giurisdizionali delle parti.
Peraltro, occorre tenere presente che, già prima
dell’introduzione degli stessi nella Carta costituzionale,
esistevano comunque disposizioni che imponevano il rispetto
dei principi in oggetto. Tali principi, infatti, erano
sanciti dalla Convenzione europea per la salvaguardia dei
diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali del 1950, e
sono entrati a far parte della Carta dei diritti
fondamentali dell’Unione europea. Mentre, per quanto
concerne il contesto nazionale, non sfuggirà il riferimento
a quei principi e a quelle regole contenute nelle
disposizioni costituzionali in materia di diritto alla
difesa (art. 24, comma 2, Cost.), di soggezione dei giudici
solo alla legge (art. 101 Cost.) e della loro indipendenza
(art. 104 e 108 Cost.), nonché di effettività della tutela
giurisdizionale (art. 24, comma 1 e art. 113 Cost.).
Quanto al contenuto dell’art. 111 Cost., come risultante
dalla novella costituzionale, è necessario in primo luogo
porre l’attenzione sul principio di riserva di legge
indicato dal primo comma. Esso sta a significare che tutti
i principali aspetti del processo – e fra questi
soprattutto i poteri istruttori e le modalità di
svolgimento del contraddittorio – devono trovare adeguata
definizione legislativa. Non possono, ad esempio, essere
lasciati indeterminati i modi di acquisizione delle prove,
il loro rilievo assiologico, e così via. È la legge a dover
regolare il processo secondo i principi costituzionali
definiti. Non basta, dunque, una qualsiasi legge
preesistente. Serve una legge i cui contenuti siano
rigorosamente coerenti con tali principi.
In altri termini, i principi affermati nel nuovo testo
dell’articolo 111 hanno un peso che non può essere
ricondotto ad affermazioni di massima che portino a
coonestare forme rudimentali di contraddittorio e di parità
delle parti. Tanto più che essi vanno intesi in un contesto
ordinamentale in cui il principio del contraddittorio si è
affermato anche in materia di attività amministrativa. La
giurisprudenza consolidata della Corte di Giustizia delle
Comunità europee ha affermato l’obbligo di applicare il
principio del contraddittorio in tutti i casi in cui
vengano assunti provvedimenti di disfavore a carico di
terzi. È stato affermato, ad esempio, che la Corte dei
conti delle Comunità europee ha violato tale principio
nello svolgimento della sua attività di controllo per non
aver sentito gli interessati dopo aver deciso di citare, in
una propria Relazione speciale da pubblicare in GUCE,
soggetti terzi che a suo giudizio avevano male ottemperato
ai propri obblighi contrattuali.
La Corte di Giustizia ha parlato di “illiceità commessa”
dalla Corte dei conti europea. Infatti, “sebbene l’adozione
e la pubblicazione delle relazioni della Corte dei conti
non siano decisioni che incidono direttamente sui diritti
delle persone in esse menzionate, esse possono avere per
queste persone conseguenze tali che gli interessati devono
essere messi in condizione di esprimere osservazioni sui
punti delle dette relazioni che li riguardano
nominativamente, prima che esse siano definitivamente
adottate. Poiché la Corte dei conti aveva omesso di
invitare la Ismeri ad esprimere il suo punto di vista sui
passaggi che la concernevano (…), da ciò consegue che la
procedura di adozione di tale relazione è inficiata da una
violazione del principio del contraddittorio”.
Se, dunque, il principio del contraddittorio si sta
affermando in attività che non sono giurisdizionali, ben
s’intende come in sede giurisdizionale esso debba essere
applicato con rigore.
Entrando più nello specifico, è ricorrente in dottrina il
rilievo della questione della (in)compatibilità
dell’attuale assetto del processo contabile con i principi
fissati dall’art. 111 Cost..
Si afferma in via generale: “Certamente appare necessaria
la revisione (...)del vigente regolamento di procedura per
i giudizi avanti alla Corte dei Conti”. Con alcune
indicazioni particolari:
– è necessario “l’adattamento del giudizio contabile ai
principi di terzietà ed imparzialità del giudice ed al
contraddittorio tra le parti in condizioni di parità”;
– appare “delicata la questione relativa alla posizione ed
ai poteri del giudice contabile e del cosiddetto potere
sindacatorio.
Con tale formula, cui si è fatto nella giurisprudenza un
ricorso frequente, soprattutto per giustificare nella
pratica giudiziaria poteri di iniziativa riguardanti la
formazione del contraddittorio, l’acquisizione delle prove
ed i limiti stessi della pronuncia, si è finito con il
riconoscere al giudice contabile, nel tentativo di
rimarcarne la differenziazione di ruolo e di poteri
rispetto al giudice civile, una posizione che mal si
concilia con il carattere di terzietà del giudice;
– di qui “l’esistenza di un potere del giudice di estendere
la propria cognizione ad ogni possibile profilo della
vicenda (...) e di determinare autonomamente sia i soggetti
che l’oggetto del giudizio sino a ritenere superabili,
addirittura, i vincoli posti dalla iniziale contestazione”;
– ancora: “è necessario recuperare una cultura
dell’accertamento delle prove, anche fuori del principio
dispositivo che sicuramente non si concilia con la natura e
la funzione pubblicistica del processo in questione anche
in relazione all’esigenza di ancorare ad elementi del tutto
certi la valutazione di colpa grave ora richiesta”.
La necessità di un adeguamento del processo contabile alle
regole del giusto processo diviene sempre più un’evidenza.
Ciò vale certamente per quanto riguarda i principi generali
fissati nei primi due commi dell’art. 111 Cost. che
immediatamente si applica ad ogni tipo di processo.
Per quanto riguarda i principi specifici in tema di
garanzie e di formazione delle prove introdotti per il
giudizio penale dai commi 3 e 4 dello stesso art. 111
Cost., l’applicazione degli stessi anche al processo
contabile può non essere un dato pacifico. Ciò soprattutto
in considerazione dell’insegnamento derivante dalla Corte
costituzionale in virtù del quale il legislatore può
regolare in modo non rigorosamente uniforme i modi della
tutela giurisdizionale, in quanto non esiste in
Costituzione un principio di uniformità di regolamentazione
tra diversi tipi di processo (Corte cost. 19 marzo 1996, n.
82). È vero che i principi di cui ai commi 3 e 4 riguardano
il processo penale, tuttavia è ragionevole ritenere che
quelle disposizioni vanno in qualche modo ad incidere anche
su quel tipo di processi, come appunto quello contabile,
che replicano vari caratteri da quello penale.
Ciò in conformità con la nuova configurazione della
responsabilità contabile, non qualificabile come intesa
solo al relativo risarcimento ma meglio configurabile con
una qualificazione paradisciplinare, cognitiva di
comportamenti di amministratori pubblici e di pubblici
dipendenti in contrasto con loro doveri d’ufficio allorché
in danno di finanza pubblica. Si è giunti anche a definire
il processo contabile quale “processo penale che si svolge
secondo le forme del processo civile”.
E c’è chi, anziché utilizzare paradigmi e formule
precostituite, si limita a constatare “la specificità del
rito contabile la cui disciplina di diritto singolare segna
la propria atipicità dal processo civile e dal processo
penale, non solo per la peculiarità degli interessi
protetti attraverso il valore unificante della sana e
corretta gestione finanziaria, ma soprattutto per la
essenzialità e laconicità della disciplina processuale”.
Ciò è accaduto senza ridefinire espressamente e
compiutamente il sistema processuale.
Quest’ultimo è rimasto definito, nelle norme di base, dal
Regolamento di procedura del 1933. Sono tre gli articoli
del Capo V (Della istruzione) ed è il primo, l’art. 14, che
fissa le coordinate: “La Corte può richiedere
all’Amministrazione e ordinare alle parti di produrre gli
atti e i documenti che crede necessari alla decisione della
controversia e può ordinare al Procuratore generale di
disporre accertamenti diretti anche in contraddittorio
delle parti”. Ruolo dominante della Corte (per quel che si
è chiamato il “potere sindacatorio”) e continuum organo
giudicante-Procura. Logica che viene confermata nell’art.
15 secondo il quale (comma 1): “La Corte può inoltre
disporre l’assunzione di testimoni ed ammettere gli altri
mezzi istruttori che crederà del caso, stabilendo i modi
con cui debbono seguire ed applicando, per quanto
possibile, le leggi di procedura civile”.
Per quanti aggiustamenti abbia prodotto la giurisprudenza –
d’altra parte, com’è naturale, non sempre omogenea – sono
rimasti fermi alcuni punti: per esempio, l’applicazione
della procedura civile è limitata dal criterio del “per
quanto possibile”, che è un criterio meramente
discrezionale.
Infatti l’art. 26 RD n. 1038/1933 disciplina il rito
contabile attraverso un rinvio “aperto” e “dinamico” al
codice di procedura civile. Proprio tale rinvio ha
conferito natura “pretoria” al rito contabile, il quale si
è venuto caratterizzando dalla sovrapposizione dei due
modelli processuali di riferimento, quello civile e quello
penale.
Il processo contabile non è, dunque, un giusto processo
regolato dalla legge, perché quella vigente è del tutto
insufficiente e lascia troppo spazio alla discrezionalità
del giudice. Discrezionalità che appunto l’art. 111 Cost.
vuole evitare.
Pertanto, se è vero che la Costituzione, con l’art. 103,
comma 2 (“La Corte dei conti ha giurisdizione nelle materie
di contabilità pubblica e nelle altre specificate dalla
legge”), ha dato un impulso allo sviluppo del giudizio di
responsabilità per danno erariale,proprio in ragione di ciò
oggi la giurisdizione della Corte è completamente
sottoposta ai principi del giusto processo. La Costituzione
non può essere in contraddizione con sé stessa: una
giurisdizione di rilevanza costituzionale può soltanto
essere una giurisdizione secondo le regole costituzionali
del processo.
PARAMETRI DI VALUTAZIONE IN MATERIA DI PROVE
Il contraddittorio processuale può non significare
necessariamente parità formale e sostanziale delle parti
nell’esercizio del diritto di prova, poiché nella
giurisprudenza della Corte costituzionale considerata
antesignana della riforma dell’art. 111 Cost. si
conferiscono al “contraddittorio” molteplici significati e
intensità. In particolare, si è individuata una concezione
“forte” del contraddittorio, che sta a significare
necessaria partecipazione della parte all’escussione del
mezzo di prova dedotto dalla controparte, in posizione e
con regole idonee ad assicurare il controllo sulla
veridicità e genuinità della fonte probatoria introdotta
nel giudizio. Conseguentemente, ad una fase di ricerca
della prova – che è anteriore all’instaurazione del
processo – deve seguire una fase di formazione della prova,
che si svolge necessariamente alla presenza di entrambe le
parti dinanzi ad un giudice preposto preliminarmente al
valutare la rilevanza e l’ammissibilità del mezzo di prova
dedotto. Alla concezione forte si contrappone, poi, una
concezione “debole” del contraddittorio, la quale consente
di ridurre ad unità le due fasi: della ricerca e della
formazione della prova.
La fonte ricercata dalla parte è automaticamente introdotta
in giudizio attraverso la mera attività processuale di
produzione. Compete alla controparte il diritto di critica
di una prova già formata, ed è riservata al giudice la
valutazione del significato probatorio con obbligo di
motivazione che copre la deduzione e la critica. Si tratta
di due concezioni collocate in ordine graduale, delle quali
il minimo comune denominatore per la verifica di conformità
al giusto processo è che la fonte di prova sia inserita nel
circuito del contraddittorio, riconoscendosi anche la
sufficienza di forme e tipi di contraddittorio differito.
Cerchiamo di applicare questi criteri al processo
contabile.
Sull’applicazione del principio del contraddittorio
I. La fase pre-dibattimentale
Ciò posto in termini generali, entriamo nello specifico dei
vari istituti.
Tra i profili che maggiormente hanno attratto l’attenzione
degli studiosi, un ruolo centrale ha assunto il problema
dell’applicazione dei principi del giusto processo alla cd.
fase pre-dibattimentale. Fase, questa, volta ad accertare
la sussistenza dei presupposti per l’esercizio dell’azione
di responsabilità, nella quale è possibile riscontrare con
ogni evidenza le influenze dell’originaria impostazione
inquisitoria del giudizio di conto. È evidente, infatti, la
asimmetria che caratterizza la fase che precede
l’instaurazione formale del giudizio, ove è assicurata
all’attore/procuratore una libertà di azione sproporzionata
rispetto alla posizione garantita al futuro convenuto. In
contrasto con qualunque attuazione del principio di parità
delle parti. Peraltro, tale impostazione della fase pre-
istruttoria comporta delle ripercussioni di rilievo anche
sul ruolo assolto dal Collegio nella fase dibattimentale,
in quanto l’organo giudicante si limiterebbe a svolgere un
ruolo “ausiliario” e secondario rispetto alle iniziative
assunte dall’attore.
II. Il c.d. potere sindacatorio
Non può, in tal senso, non condividersi l’idea di chi
afferma che “l’assenza di adeguate garanzie riguardo alla
concreta applicazione del principio del contraddittorio nel
momento della raccolta del materiale e dei fatti su cui poi
verrà a svilupparsi l’oggetto del contendere, anche alla
luce delle modalità che continuano a regolare la
prosecuzione del giudizio in sede dibattimentale,
rappresentano un ostacolo insormontabile verso una piena
attuazione di un giusto processo avanti alla Corte dei
conti”. Andrebbe pertanto quanto prima ripensata la
disciplina positiva della fase pre-dibattimentale, tenuto
conto della circostanza che le peculiarità che
caratterizzano il processo contabile – sia sotto il profilo
della natura sostanziale della responsabilità
amministrativa, sia sotto il profilo della particolare
evoluzione del processo contabile – non sono di per sé
sufficienti a giustificare la mancata attuazione dei
principi costituzionalmente conferiti al sistema
processuale nazionale.
Altro aspetto assai controverso della difficile attuazione
del principio del giusto processo al sistema processuale-
contabile, concerne la compatibilità con l’odierno testo
costituzionale della permanenza in capo al giudice della
responsabilità amministrativa del cd. potere sindacatorio.
Si tratta di un potere che caratterizza fortemente il
giudizio di responsabilità e contrasta con il principio
dispositivo che connota il rito civile. Esso si esprime
nella vasta gamma di poteri istruttori del giudice – poteri
ben più ampi di quelli previsti dal codice di procedura
civile – nella prassi applicativa che ha ritenuto che
l’organo giudicante dovesse esercitare una sorta di
controllo sull’operato del pubblico ministero attraverso la
ricerca di altri responsabili – realizzata mediante l’uso
dell’integrazione del contraddittorio – e nella supplenza
nell’attività di ricerca del materiale probatorio. Fino ad
arrivare ad affermare che “la Corte non è vincolata dalle
domande delle parti, né dai motivi da esse dedotti, avendo
un illimitato potere di indagine indipendente dagli
elementi di giudizio prodotti dalle parti interessate”.
Tale potere può essere visto come la più concreta
attuazione della vecchia e originaria impostazione che
attribuiva al giudice contabile la funzione di controllare
la corretta gestione della spesa pubblica, unitamente
all’obiettivo di risarcire l’erario dei danni subiti dai
comportamenti illeciti degli agenti pubblici, anche
mediante l’irrogazione delle relative sanzioni. Sul punto,
la giurisprudenza ha manifestato due orientamenti
contrapposti.
Una parte della giurisprudenza ha sostenuto la validità e
necessità di un potere sindacatorio del giudice contabile,
sia pure al fine di dare attuazione a principi del giusto
processo. In tale prospettiva, il potere acquisitivo del
giudice viene visto come lo strumento che consente di
tutelare la posizione del convenuto tra gli elementi
introdotti nella controversia del solo PM e l’impossibilità
di confutare la fondatezza di un’amministrazione dotata di
poteri autoritativi. Su questa linea di pensiero si è
giunti di recente ad una ordinanza di rimessione alla Corte
costituzionale volta all’abrogazione per incostituzionalità
dell’art. 5, comma 1 della Legge n.19/1994, nel testo
sostituito dall’art. 1 del d.l. 23 ottobre 1996, n. 543,
convertito in legge 20 dicembre 1996, n. 639, per contrasto
con gli articoli 3, 24 comma 2 e 111, comma 2, della
Costituzione (Corte dei conti, Sez. Giur. Abruzzo, ord. n.
56 del 28 giugno 2004).
Occorre concordare con quanti affermano che tale
orientamento può essere condiviso soltanto laddove il
collegio facesse realmente ricorso alla vasta gamma dei
mezzi istruttori legislativamente previsti.
Il contrario è da dirsi, invece, allorché il giudice
contabile interpreta il proprio ruolo in termini riduttivi,
limitandosi a verificare sul piano formale la fondatezza
delle prove poste a fondamento della citazione: il
controllo di natura cartolare che il collegio si limita a
svolgere il più delle volte nei confronti del materiale
probatorio raccolto dalla procura regionale rappresenta “la
minaccia più seria alla concreta applicazione dei principi
discendenti dalla nozione del giusto processo”. Non v’è chi
non veda come i principi codificati dall’art. 111 Cost.
impongono, al contrario, una figura di giudice attiva che
possa valutare in chiave critica le operazioni e gli
accertamenti che una delle parti ha condotto in totale
autonomia e in assenza di contraddittorio.
Altra parte della giurisprudenza afferma la progressiva
recessività del potere sindacatorio, mai “positivamente
prescritto per i giudizi di responsabilità”, “contrastante
con i principi contenuti nell’art. 111 Cost., che impongono
che il processo si svolga assicurando adeguate forme di
contraddittorio tra le parti in condizioni di parità,
avanti ad un giudice terzo ed imparziale, cui non è
permesso di introdurre d’ufficio alle parti medesime,
l’oggetto del contendere, né decidere su questioni che non
siano state previamente sottoposte al necessario
contraddittorio”. Conseguentemente, la giurisprudenza ha
attivato un procedimento interpretativo volto a ridurre
drasticamente il potere sindacatorio nel rispetto del
canone di terzietà ed imparzialità del giudice e dell’onere
della prova. Val la pena citare la sentenza n. 116 del 2003
della Corte dei conti, Sezione giurisdizionale Lazio, la
quale innanzitutto riprende la nozione del c.d. potere
sindacatorio. Tale potere “consentirebbe al giudice
contabile la possibilità, in veste di inquisitore, di
estendere la responsabilità a soggetti diversi rispetto a
quelli individuati dal Pubblico ministero, di allargare
oggettivamente la controversia al di là ed a volte contro
le richieste dell’accusa stessa, nonché di utilizzare, di
propria iniziativa, mezzi e strumenti intesi
all’acquisizione della prova, il tutto in contrasto con
l’uguaglianza tra le parti, con il diritto alla difesa ed,
in genere, contro il principio della terzietà del giudice
sancito dal novellato articolo 111. (…) osserva il Collegio
che indubbiamente la costituzionalizzazione dei principi
del giusto processo enfatizza in particolare il principio
del giudice terzo e imparziale, che viene considerato
valore primario su cui si basa la funzione giurisdizionale
e che impone una rilettura della normativa che disciplina
il processo contabile; va peraltro rilevato che il “potere
sindacatorio” è più che altro una creazione della dottrina
e della giurisprudenza che hanno talvolta attribuito al
giudice un ruolo attivo nella ricerca della verità e
nell’individuazione delle responsabilità tale da
compromettere, almeno in via teorica, il connotato della
terzietà”.
La sentenza richiama alcune antecedenti pronunce che qui si
riportano:
“Qualora a seguito del corretto instaurarsi di un giudizio
di responsabilità il giudice valuti sussistere la
responsabilità dei convenuti per ragioni diverse da quelle
esposte in citazione, non può che procedere all’assoluzione
dei convenuti, non potendo sostituirsi al PM e riformulare
la domanda risarcitoria, a ciò ostando il chiaro disposto
dell’art. 111 della Costituzione” (Sez. Giur. Basilicata 4
Aprile 2002, n. 112); “Il Potere sindacatorio del giudice
contabile, non previsto da alcuna disposizione di legge,
deve oggi ritenersi non più esercitabile in ossequio
all’art. 111 della Costituzione, sicché il giudice non può
mai d’ufficio, sostituendosi alle parti, determinare
l’oggetto del contendere su questioni che non siano state
preventivamente sottoposte al necessario contraddittorio”
(Sez. Giur. d’App. Sicilia 9 Maggio 2002 n. 75/A); ancora,
“Il giudice contabile, a maggior ragione dopo la previsione
della garanzia costituzionale del giusto processo ai sensi
dell’art. 111 Cost., non dispone del potere di ordinare la
chiamata in causa di soggetti che il Procuratore Regionale
non abbia, motivando al riguardo, convenuto nell’atto
introduttivo del giudizio”. (Sez. III Centrale 30 settembre
2002 n. 300/A). Analoghi criteri emergono in ordine al
potere istruttorio esercitato d’ufficio: “I principi del
giusto processo limitano il c.d. potere sindacatorio
attribuito al giudice contabile, essendo egli tenuto a
pronunciarsi nei limiti della domanda con esclusione di
qualsivoglia intervento integratore finalizzato alla
ricerca della prova, il cui onere non può non gravare su
chi propone la domanda” (Sez. Giur. d’Appello Sicilia 17
luglio 2001 n.148/A); “Il potere sindacatorio del giudice
contabile si mantiene nei limiti dei principi di terzietà e
di imparzialità recentemente riaffermati dal novellato
art.111 Cost. soltanto se esercitato in riferimento ai
fatti allegati dalle parti in adempimento dei rispettivi
oneri processuali (…).” (Sez. III Centrale 17 aprile 2002
n.125/A). Il giudice della richiamata sentenza n. 116/2003,
infine, sottolinea come ci si trovi davanti ad “un
travaglio ermeneutico in atto che cerca il giusto
equilibrio tra la terzietà del giudice, l’indisponibilità e
l’esclusività dell’azione contabile, nonché la tutela della
parte più debole (…) e che può trovare il suo punto
d’arrivo in figure disciplinate dal codice di procedura
civile (v. artt. 102, 107 e 421)”.
Ci si è orientati, quindi, nel senso di “non escludere
completamente l’iniziativa del giudice, ma di limitarla a
valorizzare ed a sollecitare lo sviluppo nell’ambito del
processo di elementi probatori incompleti, introdotti nel
giudizio ma non ancora definiti (cd. principio della
prova), evitando quindi di affidare al giudice stesso
un’attività intesa alla ricerca di nuove prove, ma
consentendogli di esercitare una funzione, per così dire
maieutica, ritenuta rientrante nei poteri di direzione
generalmente riconosciuti”.
Nonostante tale ridimensionamento del cd. potere
sindacatorio, esso ha comunque conservato la sua
consistenza. Con i suoi conseguenti problemi di
compatibilità con i principi del giusto processo. Basti
pensare, a titolo esemplificativo, alla disapplicazione del
principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato e
quindi della non vincolatività della richiesta di
assoluzione eventualmente richiesta dal PM nel
dibattimento. È evidente in tale aspetto “la mancanza di
solidità nella giurisprudenza contabile del principio della
terzietà del giudice intesa nel senso più forte dell’essere
questo investito del solo potere di comporre la lite e non
anche di quello di svolgere una funzione autonoma, come
tale svincolata dalle posizioni e dalle richieste delle
parti, in ordine alle vicende sottoposte al suo giudizio”.
Sulla stessa linea si pone il problema della compatibilità
con il principio di terzietà del giudice del potere di
chiamata in giudizio di soggetti diversi da quelli citati
dal Procuratore. Si pensi che “da parte dell’organo
pubblico d’azione, la citazione in giudizio dei soggetti di
cui era stata disposta la chiamata, è stata spesso intesa
come mero adempimento di un obbligo imposto dal giudice con
la paradossale conseguenza di citazioni prive di alcuna
richiesta di condanna”.
A questo punto, una domanda è ineludibile: al fine di
uscire dallo stato di incertezza e contraddittorietà che
caratterizza il processo contabile, basta il “travaglio
ermeneutico” della stessa giurisprudenza contabile quando
questa può, in concreto, prendere strade spesso così
divaricate?
In realtà occorre porre rimedio alla mancanza, nel processo
contabile, del parametro costituzionale fondamentale del
“giusto processo”: la puntuale definizione delle norme
processuali che assicuri la piena parità delle parti.
Il giudice non può continuare ad autoregolamentare il
processo al di fuori del rispetto di tali principi, secondo
una normativa di base non solo insufficiente, perché assai
lontana nel tempo, ma rispondente a criteri ampiamente
superati.
Per completezza va detto che della questione si è
recentemente interessata la Corte Costituzionale la quale,
chiamata a decidere proprio della compatibilità del “potere
sindacatorio” con i principi del giusto processo, ha eluso
la problematica con una decisione in rito (Corte
Costituzionale, ord. N.68 del 9.3.2007). La Corte, chiamata
a pronunciarsi sulla legittimità dell’art.14 del
regolamento a seguito di una questione sollevata dalla III
Sezione Centrale d’appello con ordinanza del 4.2.2005, ha
risolto la questione nel senso della inammissibilità poiché
il giudice a quo non avrebbe posto un dubbio di
costituzionalità, bensì una questione di mera
interpretazione, così da utilizzare impropriamente il
giudizio di legittimità costituzionalità, che non è volto a
fornire avalli alle interpretazioni dei giudici comuni, ai
quali spetta invece scegliere, tra le più interpretazioni
possibili, quella conforme a Costituzione.
Allo stato, dunque, alla luce del recente arresto della
Corte, la norma è salva ed anche il potere sindacatorio del
giudice contabile è salvo, anche se è innegabile che i
dubbi sulla loro compatibilità con la Costituzione restano.
Va detto che se la Corte ha eluso il problema sicuramente
esso non potrà essere eluso dal legislatore allorché, come
è auspicabile, il parlamento metterà mano ad un nuovo
Codice di procedura per i giudizi innanzi alla Corte dei
Conti, la cui approvazione appare sempre di più
indifferibile. Risulta infatti presentato il disegno di
legge delega sul nuovo Codice di procedura per i giudizi
innanzi alla Corte dei Conti (atto senato n.702). Fra i
principi della delega, occorre ricordare, vi è proprio
quello della “partecipazione al giudizio delle parti, su
basi di effettiva parità in ogni stato e grado del
processo, anche in attuazione del principio costituzionale
del giusto processo” (art.1, comma 2, lett.c), del DDL
Delega ato Senato n.702).
Il problema, quindi, è solo rinviato.
L’estensione della giurisdizione contabile.
I principi dell’art. 111 Cost. hanno bisogno di inverarsi
in un adeguato sistema di norme anche per poter far fronte
alle questioni che sorgeranno nel giudicare responsabilità
che non sorgano nell’ambito tradizionale della pubblica
amministrazione. Al riguardo e soltanto a titolo d’esempio,
si considerino i problemi che potranno sorgere
dall’applicazione alle società pubbliche e miste del nuovo
diritto societario.
A differenza di quel che è avvenuto nella legislazione in
materia di giustizia amministrativa, dove il recente
riordinamento attuato dalla legge n. 205/2000 ha visto un
sostanziale equilibrio tra norme sostantive e norme
processuali, non così è avvenuto nel campo della
giurisdizione contabile.
Il riordinamento, insomma, è rimasto monco.
Ulteriore problema è quello della compatibilità
dell’attuale sistema processuale con il progressivo
allargamento dell’area della giurisdizione contabile,
collegata con una nozione di responsabilità erariale
connotata da sempre maggiore latitudine.
Tale nozione di responsabilità si è venuta affermando
soprattutto grazie all’attività interpretativa della
giurisprudenza delle Sezioni unite della Cassazione. In
particolare, con due importanti decisioni intervenute negli
ultimi anni, le Sezioni unite della Suprema Corte di
Cassazione – prima con ordinanza 22 dicembre 2003, n.
19667, e poi con la sentenza 26 febbraio 2004, n. 3899 –
hanno affermato la giurisdizione della Corte dei conti,
rispettivamente: per le ipotesi di responsabilità
amministrativa degli amministratori e dei dipendenti degli
enti pubblici economici, per i danni patrimoniali arrecati
al patrimonio dell’ente, e per le ipotesi di responsabilità
amministrativa delle s.p.a. partecipate dagli enti pubblici
per i danni erariali arrecati al patrimonio dell’ente. Tale
orientamento ha il merito di aver individuato, nella natura
pubblica delle risorse finanziarie in relazione alle quali
si configura il danno di cui alla pretesa risarcitoria, il
presupposto per l’incardinazione della stessa
giurisdizione. Operando così un passaggio dalla
responsabilità amministrativa dei soli amministratori e
dipendenti pubblici alla responsabilità finanziaria intesa
come una generale forma di responsabilità patrimoniale per
danno alle pubbliche finanze in cui possono incorrere tutti
i soggetti che abbiano maneggio o che utilizzino pubbliche
risorse. Tale responsabilità si configura, in via generale,
in relazione alla violazione degli obblighi nascenti in
capo al soggetto stesso dalla finalizzazione delle risorse
pubbliche; così si legge in C.conti, sez. giur. Lombardia,
22 febbraio 2006, n. 114, con la quale si è affermata la
sussistenza della giurisdizione della Corte dei conti nelle
controversie volte all’accertamento di illeciti erariali
posti in essere da dipendenti di società per azioni
partecipate da enti pubblici – ENEL – ovvero di società
controllate dalle medesime – ENEL POWER e ENEL PRODUZIONE.
Tale orientamento è stato seguito per gli enti pubblici
economici.
Più di recente, la sentenza delle Sezioni unite del 1°
marzo 2006, n. 4511, ha affermato la giurisdizione della
Corte dei conti anche nei confronti del privato che
utilizzi o che comunque impieghi risorse pubbliche,
affermando, in particolare, che “il baricentro per
discriminare la giurisdizione ordinaria da quella contabile
si è spostata dalla qualità del soggetto (che può ben
essere un privato o un ente pubblico non economico) alla
natura del danno e degli scopi perseguiti, cosicché
sussiste la giurisdizione della Corte dei conti nei
confronti di società privata che abbia beneficiato di fonti
pubblici nazionali e comunitari nell’ambito di un programma
operativo multiregionale diretto alla promozione dello
sviluppo imprenditoriale e abbia realizzato uno sviamento
dalle finalità perseguite dalla pubblica amministrazione
così determinando un danno erariale”.
Tali interventi, come più volte sottolineato, hanno
innovato profondamente l’oggetto del giudizio contabile,
senza tuttavia affrontare i numerosi problemi pratici che
essi portano con sé. Primo fra tutti il problema della
possibile interferenza dell’azione di responsabilità
amministrativa esercitata dalla procura della Corte dei
conti rispetto all’azione di responsabilità sociale che i
soci possono intraprendere nei confronti degli
amministratori o dei dipendenti delle società partecipate
dai soggetti pubblici.
La giurisprudenza, infatti, sta discutendo se
l’accertamento di responsabilità di questi soggetti ricada
esclusivamente sotto la giurisdizione della Corte dei
conti, o se invece spetti anche (o solo) alla giurisdizione
ordinaria intervenire. La scelta ha importanti
implicazioni, perché la responsabilità amministrativa
(quella accertata dal giudice della Corte dei conti)
risulta significativamente meno gravosa di quella derivante
dal diritto privato e societario. A ciò si aggiunga che le
regole che guidano il processo contabile spesso – come si è
visto nelle pagine che precedono – sono in contrasto con i
principi propri del sistema civilistico e con le garanzie
assicurate alle parti.
Servirà probabilmente un intervento legislativo per
dirimere la controversia interpretativa.
Sviluppi giurisprudenziali
Abuso del diritto e frazionamento della domanda.
I principi del giusto processo hanno trovato massima
valorizzazione attraverso l’opera della giurisprudenza che,
anche ai più alti livelli, ispira ad essi costantemente la
sua opera.
Va segnalata, per l’attualità e l’importanza dei principi
espressi, la recentissima Cass.UU. n.15.11.2007 n.23726,
con cui la Suprema Corte, ripensando un proprio
orientamento neanche tanto risalente, ha stabilito che è
contraria alla regola generale di correttezza e buona fede,
in relazione al dovere inderogabile di solidarietà di cui
all’art.2 della costituzione, e si risolve in abuso del
processo (ostativo all’esame della domanda), il
frazionamento giudiziale (contestuale o sequenziale) di un
credito unitario.
A tale decisione la Suprema Corte è pervenuta valorizzando,
tra gli altri, proprio il canone costituzionale del giusto
processo ex art.111 Cost.
Esaminiamo nello specifico la questione, interessante per
la pregnanza delle soluzioni offerte nonché per gli
sviluppi ipotizzabili.
Con la sentenza n. 108 del 2000, in sede di composizione di
precedente contrasto, le Sezioni unite si erano già
pronunziate, in senso affermativo, sul tema della
frazionalità della tutela giudiziaria del credito.
Ritenendo, in quella occasione, "ammissibile la domanda
giudiziale con la quale il creditore di una determinata
somma, derivante dall'inadempimento di un unico rapporto,
chieda un adempimento, parziale, con riserva di azione per
il residuo, trattandosi di un potere non negato
dall'ordinamento e rispondente ad un interesse del
creditore, meritevole di tutela, e che non sacrifica, in
alcun modo, il diritto del debitore alla difesa delle
proprie ragioni".
Nel rimeditare questa soluzione - come sollecitato con
l’ordinanza di rimessione – “il Collegio ritiene ora però
di non poterla mantenere ferma, in un quadro normativo nel
frattempo evolutosi nella duplice direzione, sia di una
sempre più accentuata e pervasiva valorizzazione della
regola di correttezza e buona fede - siccome specificativa
(nel contesto del rapporto obbligatorio) degli
"inderogabili doveri di solidarietà", il cui adempimento è
richiesto dall'art. 2 della Costituzione - sia in relazione
al canone del "giusto processo", di cui al novellato art.
111 della Costituzione.
In relazione al quale si impone una lettura "adeguata"
della normativa di riferimento (in particolare dell'art. 88
c.p.c.), nel senso del suo allineamento al duplice
obiettivo della "ragionevolezza della durata" del
procedimento e della "giustezza" del "processo", inteso
come risultato finale (della risposta cioè alla domanda
della parte), che "giusto" non potrebbe essere ove frutto
di abuso, appunto, del processo, per esercizio dell'azione
in forme eccedenti, o devianti, rispetto alla tutela
dell'interesse sostanziale, che segna il limite, oltreché
la ragione dell'attribuzione, al suo titolare, della
potestas agendi.
Per il primo profilo, viene in rilievo l'ormai acquisita
consapevolezza della intervenuta costituzionalizzazione del
canone generale di buona fede oggettiva e correttezza, in
ragione del suo porsi in sinergia con il dovere
inderogabile di solidarietà di cui all'art. 2 della
Costituzione, che a quella clausola generale attribuisce
all'un tempo forza normativa e ricchezza di contenuti,
inglobanti anche obblighi di protezione della persona e
delle cose della controparte, funzionalizzando così il
rapporto obbligatorio alla tutela anche dell'interesse del
partner negoziale (cfr., sull'emersione di questa linea di
indirizzo, Cass. sez. I n. 3775/94; Id. n. 10511/99; Sez.
un. 18128/2005).
Se, infatti, si è pervenuti, in questa prospettiva, ad
affermare che il criterio della buona fede costituisce
strumento, per il giudice, atto a controllare, anche in
senso modificativo o integrativo, lo statuto negoziale, in
funzione di garanzia del giusto equilibrio degli opposti
interessi (cfr., in particolare, nn. 3775/94 e 10511/99
citt.), a maggior ragione deve ora riconoscersi che un
siffatto originario equilibrio del rapporto obbligatorio,
in coerenza a quel principio, debba essere mantenuto fermo
in ogni successiva fase, anche giudiziale, dello stesso
(cfr. Sez. III n. 13345/06) e non possa quindi essere
alterato, ad iniziativa del creditore, in danno del
debitore.
Il che, però, è quanto, appunto, accadrebbe in caso di
consentita parcellizzazione giudiziale dell'adempimento del
credito. Della quale non può escludersi la incidenza, in
senso pregiudizievole, o comunque peggiorativo, sulla
posizione del debitore: sia per il profilo del
prolungamento del vincolo coattivo cui egli dovrebbe
sottostare per liberarsi della obbligazione nella sua
interezza, ove il credito sia nei suoi confronti azionato
inizialmente solo pro quota con riserva di azione per il
residuo [come propriamente nel caso esaminato dalla citata
Sez. un. n. 108/00 cit., in cui la richiesta di pagamento
per frazione era finalizzata ad adire un giudice inferiore
rispetto a quello che sarebbe stato competente a conoscere
dell'intero credito], sia per il profilo dell'aggravio di
spese e dell’onere di molteplici opposizioni (per evitare
la formazione di un giudicato pregiudizievole) cui il
debitore dovrebbe sottostare, a fronte della
moltiplicazione di (contestuali) iniziative giudiziarie,
come nel caso dei processi a quibus.
Non rilevando in contrario che il frazionamento del
credito, come in precedenza affermato, possa rispondere ad
un interesse non necessariamente emulativo del creditore
(come quello appunto di adire un giudice inferiore, più
celere nella soluzione delle controversie, confidando
nell'adempimento spontaneo da parte del debitore del
residuo debito), poiché - a parte la pertinenza di tale
considerazione alla sola ipotesi (di cui alla sentenza
108/00) del frazionamento non contestuale - è decisivo il
rilievo che resterebbe comunque lesiva del principio di
buona fede, nel senso sopra precisato, la scissione del
contenuto della obbligazione operata dal creditore, per
esclusiva propria utilità con unilaterale modificazione
aggravativa della posizione del suo debitore.
Ad evitare la quale neppure è persuasiva, infine, la
considerazione che "il debitore potrebbe ricorrere alla
messa in mora del creditore, offrendo l’intera somma", non
essendo tale soluzione praticabile ove, come possibile, il
debitore non ritenga di essere tale.
Oltre a violare, per quanto sin qui detto, il generale
dovere di correttezza e buona fede, la disarticolazione, da
parte del creditore, dell'unità sostanziale del rapporto
(sia pur nella fase patologica della coazione
all'adempimento), in quanto attuata nel processo e tramite
il processo, si risolve automaticamente anche in abuso
dello stesso.
Risultando già per ciò solo la parcellizzazione giudiziale
del credito non in linea con il precetto inderogabile (cui
l’interpretazione della normativa processuale deve
viceversa uniformarsi) del processo giusto.
Ulteriore vulnus al quale deriverebbe, all'evidenza, dalla
formazione di giudicati (praticamente) contraddittori cui
potrebbe dar luogo la pluralità di iniziative giudiziarie
collegate allo stesso rapporto.
Mentre l'effetto inflattivo riconducibile ad una siffatta
(ove consentita) moltiplicazione di giudizi ne evoca ancora
altro aspetto di non adeguatezza rispetto all'obiettivo,
costituzionalizzato nello stesso art. 111, della
"ragionevole durata del processo", per l'evidente antinomia
che esiste tra la moltiplicazione dei processi e la
possibilità di contenimento della correlativa durata.
L'esaminato primo motivo del ricorso va quindi respinto,
enunciandosi, in ordine alla questione di massima ad esso
sotteso, il principio (con il quale risulta in linea la
sentenza impugnata) per cui è contraria alla regola
generale di correttezza e buona fede, in relazione al
dovere inderogabile di solidarietà di cui all'art. 2
Costituzione, e si risolve in abuso del processo (ostativo
all'esame della domanda), il frazionamento giudiziale
(contestuale o sequenziale) di un credito unitario”
(Cassazione – Sezioni unite civili – sentenza 23 ottobre –
15 novembre 2007, n. 23726, Presidente Carbone – Relatore
Morelli, sottolineature aggiunte).
Tale decisione dimostra l’incredibile capacità espansiva
dei principi costituzionali in tema di giusto processo
nella nuova formulazione contenuta nel novellato art.111
della Costituzione.