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LE RADICI DELLA FILOSOFIA MEDIEVALE.
LA RINASCITA CAROLINGIA
1 Temi e tempi della filosofia medievale Il pensiero medievale è un fenomeno complesso e la categoria "filosofia medievale" rischia di
non dare ragione della pluralità di espressioni che lo caratterizzano
L'impiego di un'unica definizione per indicare le diverse scuole e correnti che costituiscono il
pensiero medievale rischia di far dimenticare che la speculazione di quella lunghissima epoca è
costituita da esperienze di pensiero molto diverse tra loro in termini culturali e geografici. La
"filosofia medievale", infatti, comprende autori estremamente eterogenei, sia per formazione
culturale che per luogo di nascita e lingua parlata: dal pensiero di Boezio, nobile romano al servizio
del re goto Teodorico nel VI secolo, alla filosofia del persiano Ibn Sı¯na (in latino Avicenna) che
nella Hamadan (città dell'attuale Iran) dell'XI secolo ricopre importanti incarichi politici; dalla
teologia in lingua greca di Dionigi Areopagita nel Medio Oriente del VI secolo, alla raffinata
speculazione di Tommaso d'Aquino, docente all'università di Parigi nel XIII secolo, e al pensiero
ebraico di Mosè Maimonide, attivo tra Spagna ed Egitto nel XII secolo. Il pensiero medievale,
dunque, deve essere considerato come un fenomeno plurale, composto da diverse tradizioni
culturali-speculative. Perché allora continuiamo a sintetizzare tutto nell'espressione filosofia
medievale? Perché questa categoria si è imposta nel lessico storiografico-scientifico e rappresenta
ormai un insostituibile "strumento di lavoro".
È dunque inevitabile utilizzarla ma non dobbiamo dimenticare che il pensiero medievale:
• è un'esperienza costituita da molteplici correnti teoriche e organizzata intorno alla discussione di
differenti questioni;
• non è identificabile con la sola speculazione in lingua latina, ma comprende anche le esperienze
filosofiche greco-bizantine, arabe ed ebraiche;
• non è identificabile con il solo mondo cristiano, ma è caratterizzato da un rapporto pluri-
confessionale con le altre "religioni del libro" (islam ed ebraismo).
Carlo Magno incoronato imperatore; particolare da una miniatura delle Chroniques de France,
1332-1350. Londra, British Library.
Nonostante la molteplicità degli interessi speculativi, si possono identificare alcune tematiche
chiave che caratterizzano la filosofia medievale
La comprensione della natura plurale della filosofia medievale è un'acquisizione della storiografia
contemporanea. L'impostazione tradizionale, come quella per esempio proposta da Etienne Gilson
(1884-1978), uno dei più importanti storici del pensiero medievale del XX secolo, presentava
fondamentalmente questi due caratteri:
• riduceva l'intera filosofia medievale alla filosofia cristiana e in particolare alla Scolastica che,
come vedremo, ne rappresenta invece solo un periodo;
• riconduceva l'intera speculazione dell'epoca di mezzo all'esame del rapporto tra fede e ragione.
In realtà il Medioevo si caratterizza per filosofie che, pur nascendo in un contesto cristiano, hanno
diversi interessi ed esiti non necessariamente teologici; i temi affrontati, inoltre, sono molto più
numerosi di quanto l'enfatizzazione della questione del rapporto fede-ragione faccia pensare. Il
progresso dell'indagine storiografica, infatti, ha fatto emergere la molteplicità degli interessi dei
pensatori medievali, attenti a problemi di fisica, semiotica, politica, teoria della letteratura,
epistemologia. Riconosciuta questa molteplicità della riflessione culturale, si possono identificare
alcune tematiche chiave che caratterizzano la filosofia medievale.
Si tratta per la verità di temi che sono genericamente propri della filosofia cristiana, ma che nel
Medioevo trovano il loro compimento:
1. il rapporto tra filosofia, intesa come indagine razionale, e fede cristiana;
2. la disputa sugli "universali", cioè la questione della coincidenza o meno tra linguaggio e realtà,
tra le parole e le cose (voces e res);
3. il problema della felicità umana e dei modi per raggiungerla. Rimandiamo la trattazione della
disputa sugli universali al cap. 10 e iniziamo a esaminare perché e come vennero affrontati i punti 1
e 3.
Il rapporto tra la filosofia, come pratica razionale, e la fede, come accettazione di una verità
assoluta, caratterizza l'intera filosofia cristiana
La filosofia, intesa come ricerca della verità per mezzo della ragione, nasce nel mondo greco.
Rispetto alla realtà greca, l'evento che rivoluziona il contesto culturale e "ideologico" nel mondo
medievale è rappresentato dall'affermazione del cristianesimo come nuova religione e nuovo
sistema di valori. Analoga importanza avrà più tardi la nascita dell'islam. Con la diffusione di
queste religioni il tema del rapporto fede-ragione diventa una delle problematiche centrali della
riflessione filosofica: diviene cruciale, infatti, stabilire se anche gli articoli di fede possano essere
oggetto di indagine filosofica o se invece si debbano riconoscere i limiti della ragione nella
comprensione dei dogmi religiosi. Il problema appare di estrema importanza perché il cristianesimo
(come l'islam e l'ebraismo) in quanto "religione del libro", ovvero fede rivelata direttamente da Dio
in un testo ben definito, consiste in una verità assoluta che richiede una totale adesione da parte del
credente. Nel mondo cristiano, inoltre, la Chiesa assunse ben presto il ruolo di giudice della purezza
della fede e della conformità delle pratiche dei credenti alla verità del testo sacro.
Questo tema, infatti, si impone immediatamente all'attenzione dei Padri della Chiesa. In particolare
Agostino di Ippona (354-430) propone una posizione che avrà grande successo: contro chi era
diffidente verso la razionalità, perché espressione di un mondo pagano che aveva perseguitato la
Chiesa, ribadisce l'opportunità di servirsi della cultura del mondo greco-romano per un
approfondimento della stessa religione cristiana. In un suo testo fondamentale, il De doctrina
christiana (L'insegnamento cristiano), Agostino paragona l'utilizzo della sapienza pagana allo scopo
di un perfezionamento della comprensione delle dottrine di fede all'oro che il popolo ebraico portò
via con sé nella fuga dall'Egitto (Esodo 12, 35): i beni, impuri e da rifiutare, di un popolo nemico
della fede, possono essere utilizzati per scopi positivi. Agostino riassume questa posizione con la
formula credas ut intelligas, intellige ut credas («credi per comprendere, comprendi per credere»,
Sermones 43, 9): la fede apre il percorso di ricerca della verità e tale ricerca risulta perfezionata
dall'incontro con la razionalità filosofica, capace di rendere più saldo e pieno lo stesso atto del
credere (vedi p. 189).
Questa teoria, per cui la ragione filosofica può agire come dottrina al servizio della fede per
edificare e promuovere la pietà del credente, viene ripresa da vari autori differenti nel corso del
Medioevo. La si trova, solo per citare alcuni nomi, in Giovanni Eriugena (IX secolo) il quale
afferma che la vera filosofia è la vera religione; in Anselmo d'Aosta (XI secolo) che si serve
dell'espressione fides quaerens intellectum («la fede che cerca l'intelligenza », cioè la
comprensione razionale); in Tommaso d'Aquino (XIII secolo) nel cui pensiero si può trovare la
dottrina dei preambula fidei secondo la quale la fede deve avvalersi della ragione per spiegare
quelle verità conoscibili senza la rivelazione divina e quindi dimostrabili con la sola filosofia, ma
utili alla fede (come l'esistenza di Dio o di un'anima immortale).
Per tutti gli autori medievali, la felicità dell'uomo, la beatitudo, si realizza nella
contemplazione del vero, che è Dio
Studi recenti hanno messo in rilievo il fatto che nel Medioevo molti autori affrontano la questione
della felicità (beatitudo), nell'intento di definirne le forme e di identificare gli strumenti che
consentono all'uomo di raggiungerla. Tale problema è da sempre al centro della filosofia
occidentale, ma ciò che caratterizza il Medioevo è che in questa epoca per quasi tutti i pensatori la
felicità, risultato e premio di una vita buona, ha una natura intellettualistica, ovvero consiste nella
contemplazione del vero che è Dio.
Per i filosofi di questo periodo, infatti, la massima realizzazione dell'uomo consiste nella
conoscenza del vero: questa attività produce un peculiare piacere intellettuale e realizza il fine
proprio della natura umana, volta nella sua più intima essenza al sapere e alla conoscenza. Ma
poiché Dio è il principio di ogni verità, la conoscenza del vero coincide con la contemplazione del
divino: è questa la ricompensa che l'uomo buono merita per la sua condotta in vita. In realtà, l'idea
che la vita dovesse essere volta alla piena realizzazione delle capacità conoscitive era propria anche
della cultura classica, ma la filosofia greca collocava tale fine in un orizzonte del tutto mondano.
L'Occidente latino coglierà la portata di questa differenza quando nel secolo XII riscoprirà
Aristotele, che vede proprio nella vita teoretica il vertice delle virtù dianoetiche e il coronamento di
ogni attività umana. Si innescherà allora il dibattito sulla differenza tra la felicità intellettuale
"laica" e quella concessa da Dio ai beati: un'eco di questo dibattito si trova nel Monarchia di Dante
Alighieri (circa 1312), dove viene discussa la distinzione tra le due tipologie di felicità.
La storiografia ha organizzato lo studio della filosofia medievale distinguendo le fasi
attraverso cui si sviluppò
Il Medioevo abbraccia un periodo lunghissimo (476-1492), oltre un millennio in cui si passò dalla
caduta dell'Impero romano alla nascita dello Stato moderno, in cui si produssero straordinarie
innovazioni in tutti i settori della vita umana, nella società, nella cultura, nell'economia ecc. Per
ricostruirne l'evoluzione filosofica, la storiografia ha diviso questa epoca in varie fasi in funzione
dei temi e dell'impostazione che caratterizzarono i pensatori. Abbiamo già esaminato la prima epoca
della storia del pensiero medievale, la Patristica, che grosso modo si estende sino all'VIII secolo. Il
periodo successivo, che rappresenta l'oggetto specifico di questa parte del testo, può essere
suddiviso in quattro fasi.
1. La rinascita carolingia: questo periodo va dall'VIII secolo (771: ascesa al potere di Carlo Magno;
800: sua consacrazione come imperatore) alla dissoluzione del potere carolingio (morte di Carlo il
Calvo nell'877). È una fase storica contrassegnata da una ripresa degli studi filosofici e teologici,
resa possibile anche dall'unificazione politica carolingia e dal programma culturale promosso dallo
stesso Carlo Magno. Agli studi filosofici si affianca la pratica di leggere e raccogliere intorno a
determinati problemi filosofico-teologici i contributi dei Padri della Chiesa. La figura di spicco di
questo periodo è Giovanni Scoto Eriugena.
2. L'affermazione della dialettica: il processo di arricchimento delle fonti impiegate e di
approfondimento della discussione filosofica e teologica del mondo carolingio produce i propri
effetti anche nei secoli successivi, tra il IX e l'XI secolo. Bisognerà attendere l'XI secolo, tuttavia
per assistere alla nascita di esperienze filosofiche inedite fondate sullo studio della dialettica. Le
opere di Berengario di Tours, Lanfranco di Pavia e, soprattutto, Anselmo d'Aosta rappresentano le
testimonianze più interessanti di questo periodo.
3. La rinascita del XII secolo: nel XII secolo la riflessione filosofica conosce un momento di
particolare vitalità speculativa. In questo periodo, si assiste alla crescita degli studi logico-dialettici
e al potenziarsi dell'utilizzo degli strumenti razionali in sede teologica: la ragione cioè viene
sistematicamente applicata all'analisi dei misteri della fede. È questo il periodo in cui la cultura si
sviluppa anche nelle scuole cittadine, espressione della rinnovata vitalità economico-sociale dei
centri urbani. Le figure emblematiche di questo periodo sono i pensatori della scuola di Chartres e
Pietro Abelardo.
4. La Scolastica: con questo termine si intende la filosofia che si produce a partire dal XIII secolo
nelle scuole universitarie, ovvero nelle università quali tipiche istituzioni culturali medievali. La
ricerca filosofica e teologica universitaria nel Medioevo era caratterizzata da tematiche nuove (lo
studio del pensiero greco) e dal metodo della disputatio: nella sostanza il docente poneva in
discussione una questione e successivamente illustrava la sua risposta (vedi p. 350).
La Scolastica viene tradizionalmente suddivisa in:
• prima Scolastica (XIII secolo), che rappresenta l'affermazione del sistema metodologico e
contenutistico universitario; le figure più rappresentative di questo periodo sono Tommaso
d'Aquino, Bonaventura da Bagnoregio, Duns Scoto;
• seconda Scolastica (a partire dal XIV secolo), caratterizzata da una riflessione intorno agli sviluppi
teorici del precedente periodo; la figura più rappresentativa di questo periodo è Guglielmo di
Ockham.
La tradizione storiografica, prendendo le mosse dalla lettura della filosofia medievale
semplicemente come dialogo di fede e ragione, indicava nella prima Scolastica il momento di
massima armonizzazione tra questi due elementi: conseguentemente considerava le posizioni della
Scolastica più tarda come un momento di dissoluzione o crisi della Scolastica, proprio in ragione
del lavoro di analisi e verifica che il pensiero del XIV secolo sviluppa intorno ai risultati dottrinali
precedentemente ottenuti. Più recentemente, si è correttamente sottolineato che la filosofia del
Trecento può essere descritta non tanto come la fine della Scolastica quanto come un momento di
evoluzione del dibattito filosofico-teologico proprio della stessa tradizione scolastica: per questo si
preferisce la definizione seconda Scolastica. Si è correttamente sottolineato, inoltre, che la filosofia
della tarda Scolastica continuerà a essere utilizzata all'interno delle università europee ben al di là
del Medioevo, anche in piena epoca moderna, quando ormai la filosofia occidentale aveva scelto
differenti direttrici di sviluppo e nuove forme per esprimersi.
MAPPA CONCETTUALE
I temi caratterizzanti della filosofia medievale
2 La rinascita carolingia
La rinascita carolingia è preparata dalla speculazione che si era affermata tra il VI e il VII
secolo nel mondo ecclesiastico delle aree periferiche dell'antico Impero romano
L'immagine del Medioevo come il tempo dei "secoli bui", segnati da decadenza culturale e
materiale, è stata da tempo sottoposta a una profonda revisione. Le fasi storiche segnate da una
profonda crisi socio-politica sono state circoscritte temporalmente e geograficamente, cosicché se la
fine delle guerre greco-gotiche lascia l'Italia in una condizione di grave disordine, nei medesimi
anni la condizione del mondo iberico o anglosassone è differente. Una delle acquisizioni
storiografiche che ha contributo a rinnovare l'immagine tradizionalmente diffusa del Medioevo sono
gli studi sulla cultura e la filosofia dell'VIII e IX secolo in territorio francese, durante il periodo
carolingio. Il peso della ricerca culturale prodottasi nel mondo carolingio è tale che alcuni autori
hanno parlato di rinascita carolingia, per sottolineare la trasformazione prodottasi in questo periodo
rispetto alle fasi precedenti della storia dell'Europa continentale. Tale fioritura è stata preparata da
esperienze filosofiche precedenti che si collocano all'interno del panorama storico e politico
europeo tra il VI e il VII secolo. I nomi più importanti in questo periodo sono quelli di Isidoro di
Siviglia (560-636) e di Beda il Venerabile (672-735), pensatori appartenenti a due diverse
generazioni che ben rappresentano l'ambiente culturale dell'epoca, teso soprattutto a preservare il
patrimonio culturale della classicità.
Infatti, l'attività speculativa in quegli anni si caratterizza per:
• l'attenzione alla "conservazione" del precedente sapere, più che alla creazione di una nuova
conoscenza o alla ricerca di originalità;
• la centralità del mondo ecclesiastico: Isidoro fu vescovo di Siviglia, mentre Beda passò la sua vita
nel monastero di Jarrow in Inghilterra;
• l'affermazione come luoghi di ricerca di territori periferici rispetto all'antica mappa del potere
romano e segnati da una maggiore stabilità politica (la Spagna dei visigoti e l'Inghilterra nata dalla
fusione tra il mondo romano-bretone e il mondo degli anglo-sassoni);
• l'importanza attribuita al cosiddetto trivio e quadrivio, ovvero il modello basilare della conoscenza
secondo le sette arti liberali, già elaborato in ambiente romano. Vengono così suggeriti il numero e
l'articolazione definitiva delle discipline in grado di costruire il sapere.
Ecco uno schema delle sette arti liberali:
TRIVIO (ARTI DELLA PAROLA) QUADRIVIO
grammatica
retorica
dialettica
aritmetica
geometria
astronomia
musica
Il trivio (trivium) rappresenta l'insieme
delle "strade" e, quindi, degli strumenti per
ragionare in modo corretto ed
esprimere con chiarezza nonché efficacia
quanto si conosce; la logica appare
disciplina propedeutica al sapere perché
insegna il giusto ragionare, inferendo e
deducendo.
Il quadrivio (quadrivium) insegna a ricercare la
verità nella realtà, facendo uso di tecniche
matematiche; anche la musica, infatti, è pensata
non come composizione o esecuzione di melodie,
ma come l'ordine numerico che sussiste tra le cose,
organizzate (secondo una dottrina pitagorica
e neoplatonica) in maniera armoniosa.
Le arti liberali avranno un'importanza centrale per tutto il Medioevo, in particolare nello sviluppo di
nuove esperienze filosofiche tra XI e XII secolo.
La Filosofia presenta a Boezio le sette arti liberali; ogni arte porta un oggetto che la simboleggia. Miniatura tratta da un
manoscritto del De consolatione philosophiae, XIV secolo. Parigi, Biblioteca nazionale.
Le Etymologiae di Isidoro di Siviglia raccolgono in una singola opera il corpus dei saperi
fondamentali e sono alla base della tradizione delle enciclopedie medievali
Nato a Cartagena intorno al 560, in una famiglia ispano-romana, Isidoro rimase orfano molto
presto. La sua educazione fu quindi affidata al fratello maggiore Leandro. Il giovane Isidoro studiò
in un monastero, dove maturò una profonda conoscenza degli autori latini e la consapevolezza
dell'importanza dell'istruzione per il clero. Intorno all'anno 600 divenne vescovo di Siviglia,
seguendo le orme del fratello Leandro, ed ebbe un ruolo da protagonista nelle vicende politiche e
religiose della Spagna dominata dai visigoti. Contribuì alla loro conversione al cristianesimo e
promosse la diffusione della cultura e delle lettere classiche. Isidoro lasciò una grande quantità di
scritti, dedicati a temi filosofici e teologici, ma la ragione della sua grande fama è legata alle
Origines o Etymologiae, un'opera organizzata come uno scritto enciclopedico, su ogni aspetto dello
scibile umano e dell'indagine teologica. Isidoro vi lavorò per molti anni, sino alla morte, senza
riuscire però a completare il progetto che aveva concepito. Divisa in venti libri, l'enciclopedia
trattava di logica, matematica, grammatica, storia e teologia, ma anche di medicina, mineralogia,
agricoltura e alimentazione. Di capitale importanza risultano le informazioni relative ad alcune
discipline del trivio, in particolare alla dialettica: Isidoro, infatti, fornisce un sintetico riassunto della
logica di Aristotele e in particolare delle Categorie, utilizzato come introduzione all'argomento da
generazioni di pensatori successivi. In questa operazione di raccolta e sistematizzazione Isidoro
persegue un fine didattico, mirando a fornire in modo semplice e preciso informazioni che potessero
essere utili al lettore. Le Etymologiae, tuttavia, non sono uno scritto originale: il vescovo di
Siviglia, infatti, riprende la struttura dell'opera e le informazioni da altri autori latini: innanzitutto
Cassiodoro, nobile romano che, dopo un'importante carriera politica, fondò un monastero nell'Italia
del Sud (a Squillace) dove scrisse intorno al 560 un'enciclopedia del sapere cristiano (le
Institutiones divinarum et saecularium litterarum); ma anche Marco Terenzio Varrone (I secolo
a.C., autore latino di importanti scritti d'erudizione) e Plinio il Vecchio (I secolo d.C., autore latino
della famosa Historia naturalis, un'opera enciclopedica in 37 libri). Le ragioni del successo delle
Etymologiae sono da ricercare nella volontà di preservare il ricco patrimonio culturale romano,
sempre a rischio di essere smarrito in un periodo di transizione tra due mondi. Grazie alla sua
preparazione culturale, Isidoro fornì in un singolo scritto tutte le informazioni e le dottrine che
potevano costituire l'ideale corpus dei saperi fondamentali. Il metodo seguito per preparare le voci
della sua enciclopedia è già descritto nel titolo Etymologiae: l'autore è convinto infatti che la
ricostruzione dell'origine del nome con cui si designa una determinata realtà, cioè la ricerca
etimologica, indichi il significato più profondo e l'essenza stessa di quella realtà. La conoscenza
dell'origine del nome equivale dunque alla conoscenza della cosa.
Nell'opera di Beda il Venerabile una nuova realtà etnico-culturale nata dalla fusione tra
mondo anglosassone e mondo romano-bretone si misura con la cultura latina
Beda, detto il Venerabile, nacque intorno al 672-673 a Jarrow, nel regno anglosassone della
Northumbria, nell'Inghilterra nord-orientale. Crebbe e fu educato nei monasteri di San Pietro e San
Paolo di Jarrow e divenne sacerdote a trent'anni. Non ebbe incarichi né uffici particolari al di fuori
dell'insegnamento, a cui si riferisce la maggior parte dei suoi scritti. La sua attività di studioso va
intesa come il prodotto della fusione tra mondo anglosassone (i popoli germanici che avevano
invaso l'Inghilterra a partire dal V secolo) e mondo romano-bretone e come il risultato della prima
assimilazione della cultura latina da parte di questa nuova realtà etnico-culturale. L'opera di Beda,
come quella di Isidoro, non è originale, ma si serve di materiali precedenti e di dottrine già
elaborate; l'importanza di questi scritti, quindi, è ancora una volta quella di difendere e diffondere
un sapere già costituito, rendendolo fruibile alle successive generazioni. Beda visse e lavorò per
tutta la sua vita nel monastero di San Paolo, dotato di una ricca biblioteca che il fondatore,
Benedetto Biscop, aveva costruito riportando da Roma vari volumi. Beda è autore del De rerum
natura, un'opera che verrà utilizzata da molte generazioni di pensatori medievali, che fornisce
informazioni intorno a vari aspetti sia del trivio che del quadrivio, in particolare intorno alle
"scienze naturali". Il De schematibus et tropis è invece un'analisi grammaticale delle figure
retoriche e della loro importanza per la comprensione delle Sacre Scritture, elemento centrale nella
formazione della cultura cristiana. Anche in quest'opera, quindi, le discipline del trivio (grammatica
e retorica) rivestono un ruolo centrale. Nel De temporibus, nel De tempore e nel De ratione computi
sono sviluppate le nozioni di matematica applicate al problema dell'esatto calcolo delle date per
l'anno liturgico.
La rinascita fu favorita dall'affermazione del potere carolingio: per questo è strettamente
collegata alle sorti della dinastia e si sviluppò dalla fine dell'VIII alla fine del IX secolo
Nell'Europa segnata dalle grandi trasformazioni politiche e religiose, tra il V e l'VIII secolo, si
sviluppa una trasmissione del sapere tardo-antico da cui ha origine la tradizione carolingia. Carlo
Magno stesso accompagna la creazione del suo grande regno a una precisa politica culturale, con
l'intento di rendere uniformi e coesi i suoi domini, oltre che per la necessità di formare funzionari
imperiali sufficientemente acculturati. Per questo la rinascita carolingia è strettamente collegata alle
sorti politiche della dinastia e si inscrive in un arco temporale che va dalla fine dell'VIII alla fine del
IX secolo, producendo i suoi risultati migliori durante il regno di Carlo il Calvo, nipote di Carlo
Magno e imperatore sino all'877. Questa politica trova concreta attuazione mediante precise
indicazioni volute dallo stesso Carlo Magno. In una lettera-ordinanza, la Epistula de litteris colendis
(Missiva sulla cura per le lettere), scritta tra il 780 e l'800, Carlo ordinava che gli esponenti del
mondo ecclesiastico fossero impegnati anche nello studio delle lettere, intendendo cioè la cultura
nelle sue varie forme. Carlo si assicurò inoltre che tale sapere fosse trasmesso anche agli altri
membri della società franca.
Nel processo riformatore avviato in età carolingia si possono quindi individuare alcuni aspetti
peculiari:
• la centralità del sistema educativo ecclesiastico: la rinascita si produce, come si evince dalla stessa
Epistula, all'interno dell'apparato educativo e culturale della Chiesa cattolica e in particolare dei vari
monasteri. I centri monastici, luoghi di raccolta, copiatura e studio dei libri antichi, divengono così
sedi di scuole che diffondono il sapere e formano le nuove generazioni di studiosi. È evidente che
nell'ambiente monastico ed ecclesiastico le questioni teologiche e quelle relative ai dogmi di fede
assumono un'importanza fondamentale;
• la pratica della lectio e del florilegio: la ricerca filosofica carolingia si fonda sulla lettura di un
testo (lectio) e sulla sua spiegazione: gli scritti analizzati sono sia la Scrittura, il testo per eccellenza,
sia le opere filosofiche, in particolare quelle dei Padri (soprattutto Agostino). Tale attività inizia con
la comprensione del significato letterale del testo e prosegue con la decodificazione dei suoi livelli
più profondi (la dimensione allegorica), per poi sviluppare un'interpretazione sul significato
complessivo. Questa pratica si può basare sul metodo del florilegio: intorno a un passo o a un
problema teologico, l'interprete raccoglie riflessioni e commenti di autori diversi e particolarmente
rilevanti, cioè le auctoritates, producendo un campionario di interpretazioni possibili, da offrire alla
meditazione dei fedeli;
• l'importanza delle arti liberali: la centralità del rapporto con il testo rende necessario lo studio
della retorica, della grammatica e della dialettica, discipline che permettevano una migliore
comprensione della parola scritta e delle sue funzioni e che diverranno quindi gli strumenti di
lavoro essenziale per l'intellettuale carolingio;
• la diversa provenienza degli autori carolingi: la vastità dei domini dell'impero carolingio e il fine
politico della riforma (creare uniformità tra i vari popoli) determinarono un'accentuata eterogeneità
tra gli studiosi protagonisti della rinascita: Paolo Diacono, maestro di grammatica (720-799) era
longobardo e nato in Italia; Alcuino di York (735-804) era un anglosassone proveniente dalla
Northumbria; Rabano Mauro (780 ca.-856) proveniva da Magonza; Teodulfo d'Orléans (750-821)
era di origine gota, nato nella Spagna allora occupata dal dagli arabi; Giovanni Eriugena (attivo nel
IX secolo) era di origine irlandese.
Tra tutte queste personalità, le più importanti per la ricostruzione del pensiero filosofico carolingio
sono Alcuino e Rabano, della prima generazione della rinascita carolingia, e Giovanni Eriugena,
considerato la massima espressione di questa stessa rinascita e del pensiero alto-medievale.
Alcuino di York e Rabano Mauro rappresentano in modo emblematico i caratteri della
rinascita filosofica carolingia Alcuino di York (735-804) fu un importante punto di riferimento culturale sia per la quantità di
scritti sia per il suo contributo alla politica culturale carolingia. Di nobile famiglia anglosassone e
formatosi alla scuola episcopale di York, Alcuino fu chiamato da Carlo Magno per costituire la
Schola palatina ad Aquisgrana. Organizzò un programma di studio, basato sulla conoscenza delle
arti liberali, sulla medicina e sulla teologia, che si diffuse poi in tutte le scuole episcopali e
monastiche dell'Impero e divenne il fondamento della cultura medievale.
L'opera di Alcuino, come quella di Isidoro e di Beda, del quale è conterraneo, è in continuità con la
tradizione del sapere monastico pre-carolingio e riprende nozioni e dottrine precedenti. Il merito di
Alcuino è di averle ordinate con attenzione didattica per renderle fruibili ai suoi lettori. Rabano
Mauro (780 ca -856) è un discepolo di Alcuino; si pone in ideale continuità con la filosofia
monastica di Beda e con il progetto enciclopedico di Isidoro. La sua opera più importante è il De
Universo o De Rerum Naturis, un'enciclopedia in cui offre una raccolta dello scibile umano e dà
una lettura del reale in senso teologico, come manifestazione del divino.
Rabano compose anche poesie e carmina figurata, ovvero componimenti poetici nei quali le parole
del testo erano disposte sulla pagina in modo da creare varie possibilità di lettura e formare
immagini sacre.
Pagina miniata dal De Universo o De Rerum Naturis di Rabano Mauro, 1022-
1035. Montecassino, Libreria dell'abbazia.
MAPPA CONCETTUALE
La scuola nell'epoca carolingia
3 Giovanni Scoto Eriugena L'attività di ricerca e studio sviluppata nel mondo carolingio produce i suoi risultati migliori
con l'opera di Giovanni Eriugena
Nell'ambito della cultura dell'età carolingia, Giovanni Scoto Eriugena risulta essere un pensatore
originale e l'espressione più interessante della filosofia altomedievale, distinguendosi radicalmente
dalla riflessione teologico-filosofica degli altri pensatori carolingi. Nonostante la ricchezza e la
novità della sua dottrina, le notizie che possediamo sulla sua vita sono molto limitate. I nomi con i
quali è conosciuto, cioè "Eriugena" e "Scoto", ci permettono di sapere che era originario
dell'Irlanda: Eriugena infatti significa "nato in Irlanda". Non è conosciuta la data del suo arrivo sul
continente. L'unica data certa della sua biografia è l'851, anno in cui interviene nella disputa sulla
predestinazione dei dannati e dei beati (ovvero la decisione presa eternamente da Dio su quali
individui salvare e su quali contemporaneamente dannare). Nei primi anni Sessanta del IX secolo,
Eriugena è attivo alla Scuola palatina, sotto il regno di Carlo il Calvo. All'incirca sino all'863
traduce in latino le opere di Dionigi (il cosiddetto corpus areopagiticum), insieme agli Ambigua di
Massimo il Confessore (a commento di Dionigi) e alcune opere di Epifanio di Salamina e di
Gregorio di Nissa (il De imagine, ovvero il De hominis opificio). Eriugena in questo modo
introduce la tradizione del neoplatonismo greco in Occidente e in particolare rende disponibile alla
tradizione latina le opere dionisiane. Dà infine prova di una conoscenza eccezionale della lingua
greca, estremamente rara nell'Europa dell'epoca. Le notizie sugli ultimi anni della sua vita sono
poche e confuse. Secondo alcune fonti avrebbe lasciato la Francia alla morte di Carlo il Calvo e si
sarebbe recato in Inghilterra.
Eriugena affronta la complessa questione della predestinazione nell'opera De
praedestinatione, composta intorno all'851
Eriugena, attivo probabilmente già da qualche anno alla Scuola palatina in qualità di dotto filosofo,
era stato chiamato a intervenire nella disputa aperta dal monaco e teologo sassone, studioso di
sant'Agostino, Godescalco di Corbie (ca. 801-868 o 869). A differenza di Agostino che affermava la
predestinazione dei soli beati, Godescalco sosteneva che Dio predestina tanto i malvagi alla
dannazione quanto i giusti alla ricompensa eterna, appoggiando quindi la teoria della doppia
predestinazione (gemina praedestinatio). Eriugena attacca le posizioni di Godescalco con uno scritto
nel quale sviluppa tre dottrine centrali.
1. Dio è in se stesso semplice e Uno: la sua sostanza, quindi, è priva di composizione o
molteplicità. In base a tale assunto teologico, Dio non può avere una doppia conoscenza o un
doppio giudizio, sui giusti e sui reprobi.
2. Il concetto di "predestinazione" è inapplicabile a Dio.
La conoscenza che Dio ha delle realtà mondane e della condotta dell'uomo si produce in modo
conforme all'eternità della stessa natura divina, cioè nel presente perfetto, dove coesistono tutti i
fatti e gli eventi. Quindi, l'intera teoria della duplice praedestinatio, che introduce la categoria
temporale attraverso il "prae-", (cioè il "precedentemente") è estranea a Dio e deve essere rifiutata.
3. Lo strumento della punizione dei reprobi non può essere identificato semplicemente come il
fuoco infernale.
Eriugena afferma che la punizione per i dannati non consiste tanto nelle fiamme quanto nella
condizione propria dell'anima del reprobo, segnata da una profonda mancanza e vuoto. Il peccato e
il male, infatti, sono assenza di essere: colui che pecca sceglie il non essere che non potrà mai
venire realmente realizzato. La dottrina che Eriugena aveva sviluppato per confutare Godescalco
era troppo complessa e originale per i suoi contemporanei. Rifiutata dagli stessi autori che lo
avevano chiamato a esprimersi sulla questione, la dottrina di Eriugena sulla predestinazione verrà
condannata in due distinti Concili (855 e 859).
Lo scritto De divisione naturae è l'opera più importante di Giovanni Eriugena con cui entra in
contatto con la tradizione neoplatonica
Il De divisione naturae, che Eriugena aveva intitolato Periphyseon (Scritto intorno alla natura), non
può essere compreso senza far riferimento all'attività di traduzione e commento che Eriugena compì
nei confronti del corpus di Dionigi Areopagita. La corte carolingia possedeva una copia dell'insieme
dei testi dionisiani redatti in greco, regalata nell'827 dall'imperatore bizantino Michele II a
Ludovico il Pio (padre di Carlo il Calvo). La prima traduzione di questi testi (che era stata tentata da
Ilduino di Saint-Denis) era troppo farraginosa per essere utilizzata e Carlo il Calvo ordinò a
Eriugena, che conosceva il greco e aveva dimostrato una grande abilità linguistica e di traduttore, di
procedere a una nuova versione latina. Eriugena, oltre a rendere in latino i quattro scritti e le dieci
lettere (offrendo una versione che sarebbe stata utilizzata a lungo durante il Medioevo), preparò nel
corso degli anni anche un commento alla prima delle opere del corpus (la Gerarchia celeste).
L'incontro con questa ricca tradizione metafisica - in particolare con la tradizione del neoplatonismo
di Proclo, sostanzialmente ignota sino ad allora in Occidente - condiziona profondamente lo
sviluppo del successivo pensiero eriugeniano e la stesura del Periphyseon. Il concetto centrale del
Periphyseon è quello di Natura, termine con cui Eriugena indica tutte le cose che sono e tutte le
cose che non sono: è Natura, quindi, ogni realtà cosmica, creata e divina, e non solo il mondo fisico
o materiale. Il paradossale significato di "natura" come "ciò che non è", in particolare, definisce per
Eriugena il mondo delle sostanze celesti e di Dio: le essenze immateriali, in quanto sfuggono ai
sensi e alla ragione creata, non esistono e la stessa natura divina può essere identificata con il Nulla.
Questa dottrina porta con sé chiare tracce della teologia negativa di Dionigi (TESTO L'ineffabilità
dell'essenza divina): anche per Eriugena Dio trascende ogni categoria e ogni pensiero, mostrandosi
come il Niente, non per assenza d'essere ma per sovrabbondanza. Il filosofo irlandese arriva ad
asserire che il nulla dal quale, secondo il racconto della Genesi, il mondo è stato creato deve essere
identificato con la ineffabile essenza divina. Eriugena nel III libro del Periphyseon fonda questo
carattere ineffabile di Dio sull'attributo della sua eternità. Eternità divina significa, osserva
Eriugena, infinità; ciò che è infinito non può essere delimitato da nient'altro, ma anche la
definizione è una delimitazione: in quanto infinito Dio è senza definizione e, quindi, è un Nulla
indicibile.
Eriugena individua quattro modi o forme della natura (le divisiones di cui parla il titolo latino
dell'opera):
• la natura non creata e che crea. Tale natura si deve identificare con Dio stesso come il Principio e
la causa incausata di Tutto;
• la natura che è creata e che crea. In questa seconda divisione si ha a che fare con i modelli ideali
che Dio stesso ha posto in essere, definiti da Eriugena cause primordiali. La seconda natura
corrisponde alla seconda persona della Trinità: il Lógos, ossia il Verbo divino. Questi paradigmi
(exempla) eterni hanno la capacità di generare il mondo delle realtà individuali e concrete. Le idee,
quindi, sono create ma possono a loro volta creare;
• la natura che è creata e che non crea. La terza natura coincide con il mondo materiale e con la
dimensione propria dell'uomo;
• la natura che non è creata e che non crea. L'ultima e più enigmatica natura è pensata da Eriugena
come identica a Dio, inteso però non più come causa ma come fine e traguardo ultimo della
Creazione a cui tutte le cose devono ritornare.
Eriugena, infatti, sviluppa una teoria del ritorno (reditus) di tutte le cose a Dio. Come l'universo è
proceduto dalla potenza divina che origina ogni cosa, secondo un modello neoplatonico, così dovrà
tornare a Dio alla fine dei tempi, secondo il movimento ternario di processione, permanenza in sé e
ritorno che già Proclo aveva teorizzato. Tutto il cosmo, quindi, sarà riassorbito nella potenza di Dio,
facendo venire meno ogni distinzione e anche ogni negatività, pur permanendo ogni realtà nella
propria individualità e identità.
Miniatura raffigurante la Creazione, da un salterio del 1246 ca. New York, Morgan Library.
MAPPA CONCETTUALE Le quattro nature
Ogni realtà è una manifestazione di Dio, è una teofania in quanto agisce come simbolo che
rende conoscibile il divino nella sua opera creativa
Poiché ogni creatura discende da Dio e mantiene con la sua origine un certo legame, allora ogni
realtà è in grado di manifestare la natura divina ed è quindi una teofania. La trascendenza divina
impedisce ogni conoscenza autentica di Dio; le singole creature, tuttavia, restituiscono un'immagine
non del tutto falsa del divino, seppure imperfetta, in virtù del legame metafisico che mantengono
con esso. La categoria della teofania si lega così a quella di simbolo e di metafora come già
accadeva in Dionigi. Ogni realtà è quindi teofania, in quanto agisce come simbolo che rende
conoscibile il divino nella sua opera creativa (STORIOGRAFIA Eriugena e la dottrina neoplatonica
del simbolo). La teofania è resa possibile dalla processione della potenza divina oltre se stessa e
dalla conseguente creazione delle realtà determinate, le quali in virtù di questo legame con il divino
possono far conoscere la stessa essenza del Principio. Nella manifestazione teofanica, quindi, la
natura divina acquisisce la forma di un essere determinato, cioè quello delle creature che ha posto in
essere grazie all'elargizione della propria potenza. In modo analogo Dio, in quanto infinito e non
conoscibile, non può possedere neppure autocoscienza, cioè non può avere una nozione chiara di se
stesso. Ma assumendo, nella processione che crea le realtà individuali, una forma determinata, la
natura divina può autoconoscersi, raggiungendo un'autentica consapevolezza. Una simile dottrina
metafisica risultava sempre aperta al rischio di interpretazioni panteiste, ma Eriugena ribadì in ogni
caso a più riprese la differenza tra Dio e mondo, affermando il carattere sempre trascendente del
divino nonostante il suo legame con le creature.
La concezione antropologica in Eriugena è improntata a un sostanziale ottimismo perché
riconosce all'uomo una particolare dignità
Nella dottrina di Eriugena ogni realtà creata, anche umile, è riflesso della potenza divina. In questo
quadro Eriugena riconosce all'uomo peculiare dignità, attribuendogli un ruolo e una posizione di
grande valore all'interno dell'ordine cosmico. Eriugena, infatti, sottolinea la continuità tra Dio e
uomo, fondandola essenzialmente sulle capacità conoscitive dell'essere umano. Individua nell'uomo
innanzitutto la sensibilità come la forma più bassa di conoscenza. Le immagini delle realtà fisiche,
che i cinque sensi producono nell'anima dell'uomo, vengono poi organizzate perché siano conformi
alla ragione dal senso interno, che funge da elemento di unione tra momento empirico e momento
razionale del sapere. La ragione (lógos) definisce le realtà e per questo conosce Dio come il creatore
di Tutto. L'intelletto (noús), infine, si spinge quasi alla contemplazione diretta di Dio, ma, data
l'ineffabilità divina, non può cogliere la sua natura e, quindi, si limita a rimanere vicino al divino
stesso, «ruotando» dice Eriugena «intorno all'essenza del Principio». Quale unica creatura dotata
non solo di sensibilità ma anche di ragione e intelletto, ogni uomo è in grado di riassumere in sé
tutti gli aspetti della realtà creata, tanto quelli materiali quanto quelli spirituali. Inoltre, proprio in
quanto dotato di conoscenza razionale, in ogni individuo sono presenti tutte le idee e i paradigmi
eterni della realtà sensibile, così come sussistono in un differente grado di perfezione nella mente di
Dio, il suo Lógos o Verbo. La conoscenza di tali paradigmi nell'uomo non è empirica ma deriva
dall'alto, secondo un modello innatista, ed è frutto della stessa processione della potenza divina:
l'uomo, quindi, è l'ente che riassume in sé tutta la natura. Questo ruolo riservato all'uomo è
confermato sul piano teologico dalla teoria della divinizzazione della sostanza antropica. Eriugena
afferma che l'incarnazione del Cristo (cioè il Verbo che prende carne nel Nazareno) è la condizione
che permetterà in futuro all'uomo di realizzare la propria autentica natura, raggiungendo una
condizione divina: «l'essere umano perfetto», infatti, per Eriugena «è il Cristo» (Periphyseon, IV,
543 B).
L'AFFERMAZIONE DELLA DIALETTICA
1 La ripresa culturale e lo studio della logica Dall'eredità carolingia deriva un nuovo fermento culturale che si sviluppò nelle scuole
cattedrali nelle città
Durante l'età carolingia la cultura si era sviluppata nei centri monastici e nelle abbazie; dopo il
Mille, tra XI e XII secolo, la ricerca filosofica si praticò anche nelle scuole cattedrali che si
svilupparono contestualmente alla crescita dell'economia europea e delle città. Queste scuole erano
centri di formazione costituiti all'interno delle cattedrali, cioè nelle sedi vescovili, ed erano una
novità per la loro fisionomia e per il contesto socio-culturale: erano infatti legate alla realtà urbana e
vi venivano formati anche uomini non di chiesa, per svolgere attività politiche e amministrative.
Nelle scuole abbaziali e cattedrali tra IX e inizio dell'XI secolo veniva praticato lo studio della
grammatica e delle lettere antiche, unitamente a quello della logica in accordo con i testi allora
utilizzati (Categorie, De interpretatione e le Categoriae decem) e alla teologia dei Padri della
Chiesa. Si trattava di un'operazione di conservazione e di consolidamento tanto delle posizioni
dottrinali quanto dei curricula di studio delineatisi a partire dalla rinascita carolingia.
I più importanti protagonisti di questa epoca sono:
• Eirico e Remigio di Auxerre (il secondo era allievo del primo), attivi tra l'841 e il 908, studiosi
delle lettere, della dialettica, della grammatica e dei testi dei Padri. In entrambi questi autori è forte
l'influenza di Giovanni Eriugena;
• Abbone di Cluny (988 ca.-1004), anche noto come Abbone di Fleury, attivo presso la scuola
dell'abbazia di Fleury-sur-Loire; tra i suoi meriti c'è quello di aver introdotto in Occidente i testi
logici di Aristotele allora non ancora conosciuti;
• Gerberto d'Aurillac (950 ca.-1003), eletto papa con il nome di Silvestro II, uno degli uomini più
colti della sua epoca; fu un profondo conoscitore del trivio e del quadrivio, un rappresentante del
riuscito incontro tra cultura pagana e cristianesimo.
L'opera di questi autori, tuttavia, benché sia testimonianza di una significativa attività culturale, si
caratterizza per una sostanziale assenza di originalità e di innovazione dottrinale.
A partire dall'XI secolo si può assistere alla nascita di esperienze filosofiche inedite,
prevalentemente fondate sullo studio della logica
La grande novità della ricerca filosofica in questo periodo consiste nel potenziamento della logica e
nell'impiego della razionalità per indagare le verità di fede. Questa impostazione produrrà nuovi
modelli teologici e speculativi ma anche molti contrasti. L'aspetto caratterizzante della riflessione
teologica e filosofica nell'XI secolo, infatti, è proprio il confronto tra quanti sostenevano i diritti
della ragione, e quindi della logica e degli strumenti dialettici in materia di fede, e quanti invece
respingevano l'interazione tra rivelazione e ragione. Lo studio della logica, ovvero dell'ars dialectica
(secondo la dicitura propria del trivio), conosce nell'XI secolo uno sviluppo significativo
innanzitutto nelle scuole cattedrali. Le principali furono la scuola di Reims, dove insegnò e fu
scolarca Gerberto d'Aurillac, e la scuola di Chartres che conobbe la sua massima fioritura nel XII
secolo. Altre scuole cattedrali molto attive erano quelle di Ravenna e di Parma, ma nello studio
della dialettica si distinsero anche alcune scuole monastiche come quella di Fleury sulla Loira, il cui
scolarca fu Abbone.
Gli "antidialettici" negano l'uso della dialettica nelle questioni di fede e sostengono che
l'onnipotenza divina non può essere subordinata alla logica umana
Di fronte al fiorire degli studi logici e all'applicazione della dialettica alle questioni di fede, molti
autori dell'XI secolo assumono una posizione critica, negando il valore della ragione nello studio
della Scrittura.
Una delle figure più rappresentative della mentalità antidialettica è Pier Damiani (1007-1072),
vescovo di Ostia. L'approccio di questo autore alla rivelazione è quello suggerito dai Padri della
Chiesa: le capacità razionali dell'uomo sono al servizio della Parola per la sua comprensione e non
possono servire a giudicarla o a discuterla.
Nel suo De divina omnipotentia (Sull'onnipotenza divina), Pier Damiani subordina così ogni verità
filosofica alla potenza di Dio che non si sottomette nemmeno al principio di non contraddizione
affermato dalla ragione. Gli "antidialettici", avversari della razionalizzazione della fede, erano
uomini che conoscevano profondamente la logica e la filosofia che criticavano.
Lo stesso Pier Damiani, ad esempio, frequentò la scuola cattedrale di Parma e pur nel suo rifiuto ad
accordare alla dialettica una funzione conoscitiva, fu un attento studioso delle arti liberali. La
reazione preoccupata, sul fronte dei contenuti, per gli eccessi a cui può condurre la speculazione
razionale in ambito teologico venne soprattutto da Bernardo di Chiaravalle (1090-1153) che riprese
gli elementi della critica anti-razionalista di Pier Damiani e cercò di far condannare le dottrine
teologiche sviluppate con l'apporto degli strumenti razionali.
Pagina di un manoscritto dell'opera di Bernardo di Chiaravalle De diligendo Deo, XIV secolo. Londra, British Library.
La controversia più significativa relativamente all'applicazione della dialettica e della
razionalità alla teologia fu quella sull'eucarestia
L'espressione più significativa del dibattito tra "dialettici" e "anti-dialettici" è quella
sull'interpretazione del miracolo eucaristico e vede contrapposti Lanfranco di Pavia e Berengario di
Tours. Il dibattito riguarda la presenza del corpo e del sangue di Cristo nell'eucarestia, cioè il
rapporto del sacro, quindi dello spirituale, con la natura materiale. Nella riflessione su questo tema
Berengario di Tours (1005-1088) applica gli strumenti dell'analisi logica e filosofica aristotelica,
derivata da Boezio, per negare la presenza sostanziale e sensibile del corpo del Cristo
nell'eucarestia, come invece affermava il dogma della transustanziazione. Secondo la logica
aristotelica infatti gli accidenti di una sostanza (il colore e le dimensioni ad esempio) non possono
sussistere da soli, senza la sostanza stessa alla quale ineriscono (la reale natura del corpo al quale
quelle qualità come il colore e le dimensioni sono legate). Un accidente, infatti è unicamente ciò che
inerisce al suo soggetto. Nel caso dell'eucarestia, Berengario ritiene dunque impossibile che il pane
e il vino mantengano i loro accidenti. La presenza del corpo e del sangue del Cristo allora sarà reale
ma in una modalità figurata, secondo una sorta di similitudine e allegoria, mentre la sostanza
materialmente presente è quella del solo pane e del solo vino. Nonostante la condanna di questa
dottrina, Berengario continuò a difenderla quasi sino alla morte. Contro tale posizione si pose
Lanfranco di Pavia (1010- 1089), monaco all'abbazia di Bec, in Normandia, poi abate dell'abbazia
di Santo Stefano di Caen e alla fine arcivescovo di Canterbury. Lanfranco scrive un Libro sul corpo
e il sangue di Cristo contro Berengario di Tours in cui si impegna a confutare le dottrine del rivale.
Lanfranco conosce la dialettica e la utilizza, ma "in negativo", per confutare coloro che
contraddicono i dogmi della Chiesa. Lanfranco, infatti, non è contrario a ricorrere agli strumenti
della logica perché ritiene che, se usata correttamente, la ragione possa essere utile a sostenere la
fede.
3 La rinascita del XII secolo
Tra la fine dell'XI e l'inizio del XII secolo la filosofia occidentale conobbe una nuova fase di
rinnovamento che investì anche la teologia
Il rinnovamento della filosofia fu determinato dagli sviluppi degli studi logici. Nel XII secolo lo
studio della logica conobbe una crescita dovuta:
1. al precedente lavoro di studiosi che si erano confrontati con gli elementari testi aristotelici
(Categorie e De Interpretatione) e avevano sviluppato dottrine di rilevanza logica attraverso
l'approfondimento di altre discipline del trivio, come la grammatica;
alla progressiva riscoperta di opere logiche di Aristotele sino ad allora non studiate in Occidente,
ovvero gli Analitici Primi, in parte i Topici e le Confutazioni sofistiche. Il mondo latino conoscerà
questi trattati grazie agli scritti a essi dedicati e alle traduzioni preparate da Boezio. Questo percorso
di trasformazione del sapere logico latino si compirà definitivamente quando anche gli Analitici
Secondi, cominceranno a essere studiati e compresi dagli autori occidentali.
2. La riscoperta dei testi aristotelici si collegherà a un processo più generale di recupero da parte
dell'Occidente di testi e dottrine greche che iniziò proprio nel XII secolo. La causa storica di questo
processo fu l'incontro con il mondo arabo: le città "di confine" tra mondo latino e mondo islamico,
in particolare Palermo e Toledo, divennero luoghi di trasmissione del sapere tra studiosi di
tradizioni e religioni diverse. Si realizzò così un'"acculturazione" del mondo occidenta e che avrà
conseguenze importantissime per il pensiero medievale, imponendo una generale riorganizzazione
del sapere. Il potenziamento della logica, infatti, ebbe conseguenze anche al di fuori dell'ambito
puramente dialettico. Tecniche e dottrine logico-grammaticai furono applicate allo studio di
problemi filosofici e teologici: venne inaugurata così una nuova fase della teologia medievale, nella
quale la ragione e i suoi strumenti trovarono applicazione all'analisi dei misteri divini. Fu una tappa
ulteriore in quel processo di dialogo tra ragione e fede che caratterizza almeno in parte il mondo
medievale. Figure emblematiche di questa fase del pensiero medievale furono i pensatori di
Chartres e Abelardo, al quale si devono le più importanti intuizioni logiche nel XII secolo e che sarà
uno dei protagonisti della cosiddetta disputa degli universali. Naturalmente questa svolta nella
teologia susciterà la reazione di diversi esponenti della cultura del tempo, preoccupati per gli esiti
cui poteva condurre questo tipo di speculazione e per l'ampliamento, a loro avviso eccessivo, della
sfera d'azione della ragione. È emblematica in questo senso la dottrina di Bernardo di Chiaravalle
(1090-1153), che sembra riprendere elementi della critica anti-razionalista di Pier Damiani:
Bernardo, infatti, cercò di far condannare le dottrine teologiche sviluppate con l'apporto degli
strumenti razionali (come quelle di Pietro Abelardo e di Gilberto Porreta).
Nel XII secolo si afferma un approccio razionale agli studi naturalistici che trova una prima
espressione nelle dottrine di Ugo di San Vittore
Parallelamente al potenziarsi dell'apparato dialettico il mondo latino conobbe anche un
rafforzamento della ricerca razionale sulla natura: la nuova impostazione degli studi implicava la
possibilità di affrontare l'indagine sul mondo fisico in modo autonomo rispetto alle risposte della
rivelazione. All'interno della scuola di Chartres si potranno trovare autori che sosterranno questa
forma di ricerca intorno al mondo naturale. Ma l'approccio razionale agli studi naturalistici era stato
preannunciato dalle dottrine sviluppate nel centro monastico di San Vittore, a Parigi. Il maestro di
questa scuola, Ugo di San Vittore, (1096-1141) sostiene la necessità di un dialogo tra ragione e fede
e afferma il valore della scienza mondana. La scienza profana, organizzata intorno alle sette arti
liberali e a sette arti meccaniche (come l'arte della navigazione e l'agricoltura), non deve essere
contrapposta al sapere sacro perché anch'essa è originata da una "scintilla della luce divina". Se il
sapere profano fine a se stesso è inutile e persino nocivo alla ricerca della verità, l'erudizione
filosofica può essere impiegata come mezzo di avvicinamento a Dio e in questo modo essere utile.
Anche in Ugo, tuttavia, la conoscenza umana del mondo è intesa prevalentemente in modo
simbolico: è solo un'occasione per cogliere Dio e la natura non è considerata come un autonomo
campo di indagine, ma come riflesso allegorico dell'attività divina. La lettura simbolico-allegorica
della realtà fisica, che è stata creata per l'uomo e per la sua redenzione, è essa stessa una forma di
contemplazione per arrivare alla visione mistica.
Pagina miniata da un erbario medievale della scuola salernitana, 1280-1310. Londra, British
Library.
L'applicazione delle tecniche dialettiche alla teologia è all'origine dei Libri di Sentenze: quello
di Pietro Lombardo fu il testo su cui si formarono molti filosofi medievali
L'applicazione delle tecniche dialettiche alla teologia diede vita a un nuovo genere letterario, i Libri
di Sentenze. Questi testi consistevano nella raccolta di dottrine e asserzioni (Sententiae), tratte da
autori della Patristica e alto-medievali su un tema o una questione teologica complessa. L'intento
dei redattori di queste opere era fornire materiali di studio e chiarificazione per una migliore
comprensione delle Scritture. La novità delle Sentenze consiste nel metodo e nell'ordine impiegati
per la presentazione dei materiali. Le questioni e i testi a loro commento sono organizzati in base a
un preciso progetto culturale: prima viene la riflessione intorno a Dio, poi quella sulle realtà
immateriali e infine sull'uomo. Il metodo utilizzato è quello razionale e dialettico: il passo delle
Scritture che risulta oscuro va compreso a partire dal confronto delle auctoritates, aprendo la via a
un'indagine razionale sulle tematiche oggetto di dibattito. Questa nuova tipologia di testi ha il suo
modello in Pietro Lombardo (fine XI secolo -1160). Formatosi a San Vittore, Pietro Lombardo
raccolse e sistemò organicamente nei suoi Libri IV sententiarum (1142-1158) i testi dei Padri e dei
più illustri maestri medievali su differenti questioni teologiche. Il primo libro tratta di Dio e della
Trinità; il secondo, della creazione, del peccato e della grazia; il terzo, dell'Incarnazione, della
redenzione e delle virtù teologali; il quarto, infine, dei sacramenti e dei misteri della fine dei tempi.
Le Sentenze di Pietro Lombardo ebbero un'enorme importanza in quanto nel 1215 il Concilio
Lateranense lo adottò come libro di testo nelle facoltà teologiche delle nascenti università. Le
Sentenze divennero così la raccolta su cui si formarono generazioni di pensatori medievali, visto
che il loro commento era parte obbligata del percorso di formazione teologica: infatti, dopo lo
studio delle arti liberali, la prima tappa del percorso di formazione teologica era proprio il
commento alle Sentenze che permetteva di divenire baccellieri sentenziari (TESTO La philosophia
ancilla theologiae).
Pagina iniziale di un manoscritto del XII secolo delle Sententiae di Pietro Lombardo.
Parigi, Biblioteca nazionale.
MAPPA CONCETTUALE Il rinnovamento filosofico del XII secolo
4 La scuola di Chartres
La scuola di Chartres è una delle maggiori testimonianze della vivacità speculativa del XII
secolo sia in filosofia che in teologia
Sorta a circa cento chilometri da Parigi, nel contesto delle trasformazioni economico-sociali e del
rinnovamento culturale europeo dell'XI secolo, la scuola di Chartres diventa nel XII secolo uno dei
centri culturali di maggiore interesse filosofico. La scuola accoglie un gruppo di maestri che
operano tra il 1100 e il 1175 circa, apparentabili per le questioni che affrontano e per le fonti su cui
fondano la loro speculazione. In primo luogo, le dottrine platoniche, conosciute direttamente
dall'unica opera di Platone accessibile al mondo medievale, cioè il Timeo; o indirettamente,
attraverso i frammenti presenti in altri autori antichi e tardo-antichi disponibili nelle biblioteche
dell'epoca. In secondo luogo, le dottrine neoplatoniche, conosciute attraverso gli autori che le hanno
cristianizzate e diffuse nel mondo medievale, come Agostino, Boezio e Dionigi, ma anche
Macrobio con il suo commento al cosiddetto Somnium Scipionis (VI libro del De re publica di
Cicerone). Insieme a questa tradizione platonizzante a Chartres si prosegue lo studio delle arti
liberali e in particolare della grammatica, che è oggetto di approfondimenti, soprattutto per i suoi
rapporti con la logica e per le indicazioni speculative che può fornire. Grande attenzione, infine, è
dedicata allo studio della medicina - attraverso gli autori che rendono disponibili i saperi arabi,
come Costantino l'Africano - e alla fisica, secondo un approccio razionale e attento all'indagine
concreta. Anzi, proprio gli interessi medico-scientifici rappresentano il tratto speculativo più
caratterizzante della scuola di Chartres.
Bernardo di Chartres riprende le dottrine platoniche e risulta l'autore più rappresentativo
della scuola di Chartres
Dopo Fulberto di Chartres, fondatore della scuola, e Ivo di Chartres, vescovo della città, fra i
pensatori più originali legati alla scuola della cattedrale, attivi tra la fine dell'XI e l'inizio del XII
secolo vi è Bernardo (la cui data di morte si può collocare tra il 1124 e il 1136). In Bernardo di
Chartres si possono individuare molti degli elementi caratterizzanti la dottrina di questa scuola, a
cominciare dal platonismo. La sua teoria delle formae nativae afferma che le realtà materiali sono
plasmate in conformità al loro modello perfetto, identificabile con le idee di Dio. Le singole cose,
quindi, vengono all'essere perché le essenze ideali si uniscono alla materia, creando gli esseri
appartenenti ai diversi generi e specie. Il paradigma formale che entra in rapporto con la materia,
tuttavia, non è l'idea perfetta ma una sua immagine, la forma nativa. Esiste così una sorta di
gerarchia dei principi: Dio, le idee perfette, le loro forme derivate, le cose concrete. In conformità
con tale teoria, in Bernardo è rinvenibile una teoria della derivazione paronimica tra termine astratto
e termine concreto che definisce una gerarchia cosmica tra idee e cose. In questo tipo di rapporto,
secondo Bernardo, si produce una subordinazione dell'espressione concreta rispetto a quella più
astratta; nel caso di "bianco" e "bianchezza", quindi, il primo termine è inferiore e dipendente dal
secondo. Bernardo ordina così i termini in una gerarchia dove al vertice sta l'espressione astratta
nella sua semplicità, cioè la nozione astratta di "bianchezza"; al secondo posto l'azione che dal
termine astratto prende significato cioè "imbiancare", l'atto di rendere qualcosa bianco; e al gradino
più basso vi è l'espressione determinata, cioè "bianco", l'accidente proprio solo di un corpo
determinato. L'espressione che fonda il significato di tutte le altre è la prima, ovvero la più astratta,
l'idea di bianchezza, e le altre acquisiscono il proprio valore semantico in relazione a questa. Tale
teoria di natura grammaticale ha implicazioni metafisiche: la forma pura è il principio dell'essere,
mentre le realtà concrete dipendono da essa. La perfezione semantica e ontologica coincide così con
l'astrattezza priva di materia. Celebre, infine, è anche la dottrina metodologica che Bernardo
formula in riferimento al rapporto tra sapienza antica e sapere nuovo. Da Giovanni di Salisbury
sappiamo che:
Bernardo di Chartres diceva che noi siamo come nani sulle spalle di giganti, così che possiamo
vedere più cose di loro e più lontane, non certo per l'acume della vista o l'altezza del nostro
corpo, ma perché siamo sollevati e portati in alto dalla statura dei giganti.
Utilizzando questa felice metafora, Bernardo attribuisce ai maestri del passato un ruolo centrale
nella costruzione della conoscenza e riconosce a loro un'acutezza speculativa che non è rinvenibile
nel pensiero a lui contemporaneo: li paragona a dei giganti, mentre i filosofi contemporanei sono
solo nani che possono dare un contributo minimo alla crescita del sapere. Ciononostante, anche il
piccolo apporto che da questi "nani" può derivare ha comunque valore: infatti, sedendosi sulle
spalle dei giganti, ovvero riprendendo e studiando le verità che la filosofia passata ha scoperto,
possono vedere qualcosa di nuovo, cioè sviluppare le precedenti dottrine in modo inedito.
Chartres, particolare del Portale Reale: personaggi dell'Antico Testamento, scolpiti intorno agli
anni 1140 sulla facciata ovest. Questa facciata è stata l'unica parte della cattedrale a
salvarsi dall'incendio del 1194, il resto dell'edificio è stato successivamente ricostruito in
stile gotico.
Gilberto Porretano sviluppa un'organica teoria dell'essere fondata sulla distinzione tra ciò che
è (id quod est) e ciò per cui è (quo est)
Fra gli studiosi che si formano sotto la guida di Bernardo di Chartres un personaggio interessante è
Gilberto Porreta (o Porretano, conosciuto anche come Gilberte de la Porreé). Porreta (1076-1152) è
autore di una serie di commenti agli opuscoli sacri di Boezio, fra cui quelli al De Trinitate e al De
hebdomadibus, dai quali si può ricostruire la sua filosofia. La filosofia di Porreta si sviluppa in
un'organica teoria dell'essere e dell'esistenza delle cose fondata sui seguenti principi.
Distinzione tra id quod est e quo est - I due termini, ripresi dal De hebdomadibus boeziano,
indicano rispettivamente ciò che è, ossia la realtà concreta esistente, come il singolo uomo, e ciò per
cui è, ossia il principio che lo fa essere; tale principio si deve identificare con la realtà che fa sì che
l'uomo esista come uomo, cioè la sua forma. In questo modo la dicotomia tra quo est e id quod est
può essere ricondotta a quella tra:
• l'essere formale puro, che ha la capacità di portare all'esistenza le cose;
• e la realtà concreta, che è caratterizzata dalla materia, la quale dipende dal quo est.
In Dio, secondo Gilberto, quo est e id quod est coincidono; le cose create, invece, non sono ciò che
sono, in quanto in esse c'è anche "altro" rispetto alla pura forma.
Distinzione tra sostanza, sussistenza e sussistente - Tale principio in parte si sovrappone alla
precedente dottrina. Gilberto definisce la sostanza (substantia):
1. come ciò che esiste veramente;
2. come ciò che può avere degli accidenti (i quali possono esistere solo unitamente a una sostanza).
In questo secondo senso sostanze sono unicamente le realtà dotate di materia (id quod est), perché
solamente ciò che ha corpo e materia può avere accidenti. La sussistenza (subsistentia) è la forma
che fa essere una certa realtà, in questo senso simile al quo est. Pertanto la sussistenza è vera
sostanza perché esiste perfettamente, ma non è sostanza quale sostrato degli accidenti. Il sussistente
(subsistens) è la realtà concreta (id quod est) che esiste in virtù della sussistenza e può far esistere
gli accidenti (agendo così come sostanza).
La teoria dell'esistenza del concreto - Le precedenti teorie permettono a Gilberto di spiegare
l'esistere delle cose materiali. Poiché l'esistenza è data dalla forma (quo est, sussistenza) ciascuna
realtà esiste in virtù dei suoi elementi formali o eidetici; l'uomo ad esempio esiste in quanto ha in sé
l'essenza dell'uomo, ovvero la sussistenza dell'umanità (humanitas). Gilberto applica questo
principio metafisico a ogni elemento che può essere individuato all'interno della realtà materiale. Il
corpo umano, per esempio, non è solo la materia che si unisce alla forma per produrre il sussistente
come cosa concreta, ma a sua volta è dato da una materia e da quella forma che organizza la materia
stessa per creare proprio il corpo umano (e non il corpo di un altro animale o di una realtà
inorganica); anche il corpo, quindi, possiede una sussistenza, ovvero la corporeità. Il medesimo
ragionamento può essere applicato potenzialmente a tutti gli elementi che contribuiscono a portare
all'esistenza una certa realtà (non solo anima e corpo, ma anche gli aspetti accidentali come colore e
dimensioni) conducendo a spiegare le cose concrete come una concretio (unione) di più elementi
formali (l'umanità, la corporeità, ecc.), quali vere cause dell'essere della realtà stessa.
La teoria della materia - Gilberto completa questa dottrina distinguendo tre principi fondamentali
dell'essere: l'essenza (ousia) di Dio, le idee delle cose sensibili e la materia. La prima è essere (esse)
perfetto, nel quale non si distingue materia e forma: Dio è puro quo est ed essenza, ovvero sola
divinitas quale forma che permette a Dio di essere Dio. Questa essenza crea le idee delle realtà
sensibili; non saranno queste però a unirsi alla materia, ma delle loro copie (formae nativae),
secondo la dottrina già di Bernardo. L'unione tra tali forme e la materia produce la singola realtà. La
materia stessa, tuttavia, è data da sussistenze, in quanto ogni sostrato materiale è composto dai
quattro elementi primi, ovvero terra, acqua, aria e fuoco, che a loro volta esistono in quanto
possiedono la forma loro corrispondente (la forma dell'acqua, dell'aria, della terra e del fuoco): in
questo modo, in omaggio al principio della sussistenza, la radice della materia è un dato eidetico e
formale.
Gilberto Porretano raffigurato in una miniaturata da un commento al De Trinitate di Boezio della
fine del XII secolo. Valenciennes, Biblioteca municipale.
Teodorico di Chartres elabora una teologia fondata su principi matematici e dalla Genesi
ricava una teoria fisica della creazione
Teodorico si formò alla scuola della cattedrale di Chartres. La lasciò intorno al 1134 per insegnare a
Parigi ma vi ritornò nel 1141 come cancelliere al posto di Gilberto Porreta. La sua attività si
caratterizza per lo studio delle arti liberali e per l'elaborazione di una teologia fondata su dottrine
matematiche. Teodorico di Chartres afferma esplicitamente di seguire il modello della conoscenza
offerto dalle sette arti liberali, a cui dedica un intero scritto, l'Eptateuchon appunto, ovvero i Sette
libri. Importanti in quest'opera sono in particolare le dottrine astronomiche e geometriche, che
Teodorico riprende da molti autori tardo-antichi (Igino, Tolomeo, Gerberto, Columella, Garlando),
e le dottrine logiche. A proposito di queste ultime, è importante il fatto che Teodorico prosegue nel
recupero di testi aristotelici poco studiati sino ad allora, come gli Analitici Primi e le Confutazioni
sofistiche. La sua originale dottrina della creazione del mondo si fonda sui principi matematici.
Teodorico identifica il principio metafisico creatore nell'unità: l'unitas è ciò per cui ogni cosa che
esiste viene all'essere e come tale rappresenta il divino. Di contro all'unità, il numero appare come
dimensione del divenire e quindi delle realtà create, in quanto i numeri sono addizionabili e
sottraibili nella loro sequenza infinita. L'unità è forma dell'essere (forma essendi) e causa delle cose
soggette alle regole matematiche dei numeri. L'atto creatore divino si compie mediante l'operazione
matematica della moltiplicazione. Teodorico distingue la moltiplicazione dello "stesso per lo stesso"
(quando uno stesso numero è moltiplicato per se stesso) dalla moltiplicazione dello "stesso per
l'altro" (quando si tratta del prodotto di due numeri diversi). La creazione divina si compie secondo
il secondo tipo di moltiplicazione, che produce differenza e l'infinità dei numeri, simbolo della
potenza del Creatore e atto fondativo del reale. La moltiplicazione del primo tipo ("stesso per lo
stesso") applicata all'unità divina, unitamente al principio per cui ogni cosa tende a porsi in
uguaglianza con se stessa (ogni cosa è unità perché deriva da Dio e, quindi, è una con se stessa,
ovvero identica a sé), spiega la generazione della Trinità. Nell'operazione 1 X 1 = 1, diviene
manifesto come Padre e Figlio abbiano la stessa natura (alla quale si fa riferimento nell'identità
delle cifre della moltiplicazione), benché siano distinte in quanto due persone. Il rapporto tra le due
unità che si scoprono uguali per la loro natura (introdotto dal segno di uguaglianza nel prodotto 1 X
1 = 1), invece, rimanda alla terza unità che è lo Spirito Santo. Nel Tractatus de sex dierum operibus
Teodorico cerca di rinvenire nel racconto della creazione del mondo del libro della Genesi una serie
di verità razionali fisiche o di filosofia della natura. Ravvisa quindi nell'affermazione biblica "Dio
creò il cielo e la terra" un riferimento ai quattro elementi, i due più pesanti (a cui fa riferimento
l'espressione "terra"), ovvero terra e acqua, e i due più leggeri ("il cielo") identificabili nell'aria e nel
fuoco. Teodorico ritiene poi che il fuoco, quale ultimo elemento che circonda l'universo, possa
muoversi solo in modo rotatorio (il moto è conseguenza della sua estrema leggerezza). Questo
movimento dell'elemento igneo produce la rotazione degli altri elementi e dell'intero universo. Il
fuoco è anche responsabile della comunicazione del calore all'acqua e alla terra, con la
corrispondente evaporazione di parte dell'acqua stessa, l'emersione di alcune parti della terra e la
nascita delle prime specie vegetali, degli animali sino all'uomo, grazie all'intervento del calore degli
astri. L'acqua trasformata in vapore sale superando l'aria e generando le nubi. La condensazione di
questo vapore genera poi le stelle e gli astri. Questi eventi si compiono nell'arco dei sei giorni,
ovvero di sei rivoluzioni del cielo mosso dal fuoco. Il settimo giorno, indicato nella Scrittura come
il riposo di Dio, deve essere spiegato fisicamente come l'autonomo processo della natura secondo
l'interazione delle forze prima create o come il dispiegarsi di un principio formale potenziale (ratio
seminalis) che Dio stesso ha posto nella natura durante i sei giorni.
Guglielmo di Conches è l'intellettuale che meglio riassume la fisionomia della cultura
elaborata a Chartres
Guglielmo (1080 ca.- morto dopo il 1154) è allievo di Bernardo di Chartres e insegnante a Parigi e a
Chartres negli anni Quaranta del XII secolo; tra il 1144 e il 1149 si trova alla corte di Goffredo il
Bello Plantageneto, che è suo protettore. A Guglielmo si possono attribuire un commento al Timeo,
uno al De nuptiis di Marziano Capella, uno all'opera di Macrobio sul Somnium Scipionis e uno alla
Consolatio philosophiae di Boezio. È l'unico autore che ha lasciato opere su tutti questi scritti,
centrali per la formazione del pensiero della scuola di Chartres. Come altri pensatori di Chartres
impegnati a riflettere sul Timeo, Guglielmo si sofferma in particolare sulla materia e la sua origine.
Nel dialogo platonico, la materia, principio che rende possibile il mutamento e il reciproco
trasformarsi degli elementi gli uni negli altri, è indipendente dal Demiurgo e a lui coeterna. Nella
tradizione dogmatica cristiana, invece, la materia deve essere intesa come prodotta essa stessa da
Dio nella sua creazione del mondo dal nulla, ex nihilo. Guglielmo sostiene la posizione cristiana,
cercando di conciliarla con il testo platonico. Intende anche risolvere la divergenza fra Platone, che
attribuisce alla materia un carattere negativo, e la Bibbia che, definendo la materia come prodotto
del volere divino, non può che considerarla positivamente. Nello sforzo di spiegare ogni realtà
naturale con la sola ragione, Guglielmo, come Teodorico, riconduce ogni evento fisico ai quattro
elementi primi (terra, acqua, aria e fuoco). Questi elementi sono a loro volta composti da particelle
ancora più piccole, che Guglielmo chiama elementatum: sono i costituenti primi di ogni corpo,
semplici per la qualità e minimi per la quantità. Terra, acqua, aria e fuoco hanno qualità che li
portano a disporsi secondo un ordine. Le leggi che governano gli elementi e in particolare il
principio per cui il simile agisce sul simile, norma fondamentale della natura, permettono di
spiegare ogni cosa senza far riferimento all'intervento di Dio. Dalla lettura di Platone, Guglielmo
elabora anche la dottrina dell'integumentum. Con il termine integumentum, in latino "rivestimento"
o "maschera", si intende la pratica di nascondere e la conseguente necessità per colui che legge di
disvelare un messaggio o dottrina dietro a un racconto che ha in apparenza altro significato.
L'integumentum, quindi, è la narrazione allegorica o mitica di una verità filosofica. La pratica di
lettura allegorica dei testi e in particolare della Scrittura era presente in molti autori della scuola di
Chartres e la si ritrova utilizzata in modo sistematico da Guglielmo.
Il ricorso all'integumentum è considerato da Guglielmo necessario in due occasioni:
1. per nascondere una verità complessa o difficile da spiegare in un racconto mitico, come accadeva
già in Platone;
2. per spiegare un passaggio, scritturale o di un autore antico, il cui senso letterale è in
contraddizione con un dogma o con una verità precedentemente scoperta.
Giovanni di Salisbury è tra gli ultimi autori di Chartres: si ispira all'ideale scettico e sostiene
la subordinazione del potere politico all'autorità della Chiesa
Giovanni di Salisbury (1115 ca.-1175 ca.) rappresenta uno degli ultimi autori legati alla scuola di
Chartres; altri pensatori che pure si sono formati in quest'ambiente, come Alano di Lilla e Nicola
d'Amiens, svilupperanno poi una filosofia che non può essere direttamente riportata ai caratteri
della scuola. Nato in Inghilterra attorno al 1115, Giovanni si formò a Parigi e a Chartres. Rientrato
in patria, fu segretario di Thomas Becket; poi tornò in Francia dove fu vescovo di Chartres.
Giovanni ricostruisce nel suo Metalogicon (1175) la storia e le dottrine dei maestri di Chartres che
ricorda con entusiasmo: dobbiamo proprio a lui, ad esempio, molte notizie su Bernardo di Chartres.
Giovanni segue la dottrina filosofica fatta propria da Cicerone e dagli appartenenti all'Accademia
platonica nel suo cosiddetto periodo medio, cioè le dottrine che sostenevano l'impossibilità di
ottenere una conoscenza certa del reale e che limitano la conoscenza umana a opinioni probabili.
La difficoltà umana di conoscere una verità stabile su molte questioni estremamente complicate
consiglia all'uomo di limitarsi al sapere sicuro che la percezione sensibile e la fede religiosa
permettono di attingere. Al di là di questo sapere l'uomo non deve assumere una posizione
dottrinale definitiva. Questa sospensione del giudizio è il prodotto di una lunga ricerca e, quindi,
non porta a una rinuncia della conoscenza bensì si fonda su un'ampia indagine di tutte le posizioni
possibili. Proprio la capacità di confrontare varie teorie e di scoprire per tutte il loro carattere
puramente probabile porta all'astenersi dall'asserire la verità di una e la falsità delle altre. In qualità
di uomo politico e vescovo, Giovanni dedica anche alla politica un'attenzione assente negli altri
pensatori di Chartres.
Nel suo Policraticus sostiene che il potere politico deve essere esercitato in conformità della legge
divina della quale la Chiesa è interprete. Se l'uomo politico non rispetta tale norma etica e agisce
come un tiranno perde la sua condizione e può essere messo a morte. Il potere politico, quindi,
dipende da quello religioso e non detiene un'autorità autonoma.
ALANO DI LILLA: L'EREDITÀ DELLA SCUOLA DI CHARTRES La tradizione della scuola di Chartres ha lasciato tracce significative in diversi autori del XII secolo
che, pur distinguendosi per una loro propria originalità, sviluppano temi analoghi ed esprimono
radici comuni. La voce principale di queste nuove esperienze ispirate al platonismo di Chartres è
certamente quella di Alano di Lilla (1117 ca.-1203 ca.), che è fortemente influenzato dal pensiero di
Gilberto Porretano. La dottrina di Alano di Lilla può essere ricostruita secondo queste linee
fondamentali. La lotta all'eresia - Alano dedicò grande attenzione alla lotta contro le forme di eresia,
tra le quali poneva anche ebraismo e islamismo. Le forme di dottrina cristiana non ortodossa, in
particolare i valdesi e gli albigesi, vengono attaccate da Alano mediante argomenti razionali, in
quanto solo con la ragione, che è elemento comune tra il cristiano e coloro che negano la vera fede,
è possibile combatterle. Il metodo assiomatico in teologia - La ricerca di un'esposizione razionale e
intelligibile, anche per i non credenti, della verità cristiana, che ne dimostri l'intima coerenza e
correttezza, conduce Alano di Lilla a sviluppare un metodo teologico improntato al massimo rigore.
Tale teologia consiste nell'applicare all'indagine su Dio e sulla verità il metodo proprio della
geometria che procede da assiomi e definizioni, deducendone razionalmente, come loro
conseguenze, i teoremi. Nell'impiegare questa metodologia Alano è influenzato da Boezio, il cui De
hebdomadibus aveva la stessa impostazione, e dal Liber de causis, consistente in una parte della
Elementatio theologica di Proclo (412-485), che circolò a lungo nel Medioevo sotto il nome di
Aristotele, che può essere considerata uno dei modelli tardo-antichi per questa modalità di ricerca
speculativa. Nelle Regulae o Maximae de sacra theologia Alano di Lilla, quindi, procede dando
alcuni assiomi teologici per dedurre da essi tutte le verità possibili: la prima di tali asserzioni è
quella che individua nella monade, ovvero nell'Uno come principio di identità, la causa per cui ogni
cosa esiste come unità. In questo modo Alano pone l'Uno come origine di ogni cosa e l'unità come
radice dell'essere di ogni creatura. Questa Monade-Dio sarà allora anche semplice e, quindi, priva di
materia (sempre legata alla molteplicità). L'insufficienza del linguaggio umano in teologia - Le
parole umane sono state create per significare le cose concrete le quali sono sempre unione di
materia e forma e infatti indicano la sostanza e la qualità. Dio invece è unità assoluta, senza materia,
pura forma che causa ogni realtà (detta per questo da Alano formalissima) e non potrà essere
descritto adeguatamente dal linguaggio umano; questo linguaggio avrà allora solo un valore
metaforico, e sarà più efficace nella negazione, secondo la tradizione della teologia negativa
neoplatonica. La visione della realtà naturale - Nel De planctu naturae Alano descrive in termini
allegorici la natura in lacrime per il comportamento dell'uomo che nel suo agire non rispetta lo
stesso ordine naturale. Alano, quindi, presenta la natura come causa dell'essere delle cose e
principio di ordine, bellezza, armonia per le realtà stesse. Si tratta di una visione che collega la
natura a Dio e all'ordine universale, concependola non quale realtà autonoma ma come riflesso-
concretizzazione della legge, anche morale, del Creatore. La struttura assiomatica e la medesima
concezione di Dio, pensato in termini platonici come Uno o Monade, sono presenti anche nel Liber
XXIV philosophorum, un'opera probabilmente composta a metà del XII secolo in cui si narra di
ventiquattro "maestri" che si pongono la domanda: "Che cos'è Dio?". Seguono le diverse risposte, la
più importante delle quali è quella contenuta nella II definizione: "Dio è una monade il cui centro è
ovunque e la sua circonferenza in nessun luogo". Questa definizione di Dio, che lo stesso Alano di
Lilla riprende nelle sue Maximae de sacra theologia, ripropone l'idea di Dio come Unità-Semplicità
assoluta, proprie del concetto di "monade", e come causa dell'universo. Dio produce il Tutto come
Monade semplicissima e senza perdere la propria natura; per questa ragione, quale causa ineffabile
e inestesa è ovunque, ma nessuna creatura lo può comprendere o rappresentare.
Cherubino con sei ali e piume, risalente a tradizioni illustrative legate al trattato De sex aliis
Cherubim di Alanus de Insulis (Alano di Lilla), ispirato a Ezechiele 1,5- 19; manoscritto del XIV
secolo. Londra, British Library.
MAPPA CONCETTUALE La scuola di Chartres
5 Abelardo, tra dialettica e teologia La vita di Abelardo è ricca di eventi, spesso alquanto avventurosi, e ha contribuito ad
accrescere nei secoli la sua fama
Pietro Abelardo si presenta come il filosofo più originale e rappresentativo del XII secolo. La sua
speculazione, muovendo dal piano metodologico e logico, si estende alla teologia e all'etica. Fu
inoltre un protagonista di primo piano della disputa sugli universali, come vedremo nel paragrafo
successivo. È lo stesso Abelardo a narrare molte circostanze della sua biografia in una lettera,
conosciuta con il titolo Historia calamitatum mearum (Storia delle mie disgrazie). Abelardo nasce a
Le Pallet in Bretagna nel 1079. Figlio di un nobile francese, Berengario, ricevette da subito una
buona educazione che stimolò in lui il desiderio di conoscere e sapere. La sua formazione si compì
sotto la guida prima di Roscellino, maestro di logica, e poi di Guglielmo di Champeaux nella scuola
cattedrale di Notre-Dame, che quest'ultimo dirigeva a Parigi. Abelardo diede prova del suo
temperamento e della sua capacità teoretica, attaccando duramente entrambi i suoi maestri e
dimostrando l'insostenibilità delle loro posizioni. La sua vita sarà poi caratterizzata da continui
spostamenti e costanti conflitti. Dopo aver studiato teologia con Anselmo di Laon, a partire dal
1113-1114 diviene maestro nella scuola cattedrale di Notre-Dame e il suo insegnamento riscuote un
grandissimo successo. In questo periodo incontra e si innamora di Eloisa, ma lo scandalo che segue
all'opposizione della famiglia della ragazza lo costringe a ritirarsi nel monastero di Saint- Denis.
Nel corso degli anni continua a spostarsi tra diversi centri monastici, assumendo anche la carica di
abate: fonda la scuola del Paracleto a Troyes e nel 1108 la scuola di Sainte- Geneviève a Parigi,
prima di diventare maestro a Notre-Dame. Pressoché ovunque entra in conflitto con le autorità e le
comunità locali, ma continua anche a riscuotere grande successo come docente. Abelardo muore nel
monastero di Saint- Marcel-sur-Saône nel 1142.
Una coppia mentre gioca a scacchi; valva in avorio di scatola per specchio, di
manifattura francese, del XIV secolo.
Nella lettura dei testi sacri, Abelardo introduce il metodo della quaestio che prefigura la
disputatio della Scolastica
Abelardo compose trattati destinati a suscitare un forte dibattito e a esercitare una significativa
influenza nei secoli successivi. In ambito teologico va ricordato, in particolare, il Sic et non (1121
ca.), una raccolta di affermazioni, tratte prevalentemente dalle Scritture e dai Padri della Chiesa
intorno a uno stesso problema. Ad esempio, rispetto all'interrogativo "È giusto che la fede sia
rafforzata dalla ragione?", le risposte risultano tra loro contraddittorie: da qui nasce la necessità di
confrontare e valutare, come appunto esprime il titolo dell'opera, i sì e i no. Sic et non, dunque,
promuove nei confronti della fede un atteggiamento fondato sul confronto e sull'argomentazione di
posizioni contrarie. Per questa ragione Abelardo è stato visto come il pensatore che inaugura il
periodo della libera e autonoma analisi intorno a ogni questione, contro qualsiasi dogmatismo, a
partire dall'acquisita consapevolezza che la stessa rivelazione non è sufficiente a comprendere le
questioni teologiche. In modo analogo, ad Abelardo è stato attribuito il ruolo di primo critico
dell'impianto ideologico medievale, fondato sull'equilibrio tra fede e razionalità. Il Sic et non si
propone soprattutto di insegnare a leggere in modo adeguato i testi e a comprenderne il vero
significato. Con questo obiettivo pone come introduzione metodologica alla raccolta un prologo
dove illustra tutte le ragioni che possono produrre divergenze puramente apparenti: si tratta di errori
di copiatura del testo, estrapolazioni dell'affermazione dal contesto, intenti ironici dell'autore o la
volontà di completezza storiografica per cui si riportano opinioni scorrette o eretiche al fine di
fornire un quadro esaustivo della questione discussa. Secondo Abelardo, dunque, di un testo si deve
innanzitutto valutare l'autenticità; poi è necessario esaminarne le strutture grammaticali per
comprendere il significato e il valore dei termini, per identificare gli usi figurati del linguaggio.
Infine è necessario riconoscere i passi e gli autori più autorevoli: infatti, se la contraddizione non
viene risolta mediante il ricorso alle tecniche ermeneutiche, allora il lettore dovrà preferire l'autorità
più affidabile e importante. Sulla base di queste indicazioni, il Sic et non può essere considerato
come uno dei primi esempi di applicazione alla teologia di un metodo nuovo, nel quale la ragione e
il confronto delle opinioni hanno un ruolo centrale. Ciò comunque non significa negare il primato
del messaggio rivelato, anzi il metodo è volto alla sua difesa e alla sua più autentica comprensione.
Al Sic et non, dunque, si può far risalire il metodo della quaestio, appunto del "domandare":
"Attraverso il dubbio, infatti, iniziamo a cercare e cercando troviamo la verità", scrive Abelardo.
Questo metodo, volto a dare un sostegno razionale alla conoscenza della verità segnerà il progresso
dell'indagine teologica nel XII secolo e di fatto prefigura la forma tipica della ricerca filosofico-
teologica della Scolastica: la disputatio (vedi p. 350).
Miniatura che ritrae Abelardo con Eloisa tratta da Roman de la Rose di Jean de Meung, 1370
ca. Chantilly, Museo Condé.
ABELARDO ED ELOISA: LETTERE D'AMORE
Pur essendo uno dei più grandi logici di tutti i tempi, ad Abelardo è toccata la sorte singolare di
essere noto presso il grande pubblico più per la sua sfortunata vicenda amorosa che per il suo
pensiero. Insieme a Eloisa, infatti, è entrato nel novero dei più famosi protagonisti di tragedie
d'amore, come Tristano e Isotta o Paolo e Francesca. Questa notorietà è stata determinata dalle
lettere che Eloisa e Abelardo si sono scambiati, un carteggio che è divenuto una delle opere più note
e lette del mondo medievale, da Petrarca fino a Stendhal e ai giorni nostri. Che cosa c'è all'origine
del successo di questo epistolario? Forse l'estrema sincerità degli amanti: Abelardo, per esempio,
confessa con candore la sua inesperienza sessuale prima dell'incontro con Eloisa e non nasconde il
fatto che entrambi furono travolti dalla passione. Probabilmente, però, l'elemento che più colpisce è
la statura straordinaria di Eloisa, non tanto per l'intelligenza quanto per la spregiudicatezza,
stupefacente in una donna medievale, che ne fa un'eroina molto moderna. Eloisa, in effetti, era un
enfant prodige. Quando Abelardo la conosce nel 1117 aveva circa sedici anni ed era già famosa per
la sua erudizione: conosceva il latino classico, il greco - ignoto ad Abelardo stesso - e possedeva
perfino qualche nozione di ebraico. Abelardo d'altronde era all'apice del suo successo, avendo
ottenuto da poco (1114) la cattedra di Notre-Dame. In quel periodo alloggiava proprio presso il
canonico di Notre- Dame, Fulberto, lo zio di Eloisa, a cui non parve vero di avere la possibilità di
affidare l'istruzione della nipote al filosofo del momento. Ed Eloisa oltre che intelligente era
bellissima. Scrive infatti Abelardo: «Trovando in lei tutte le qualità che sogliono attrarre gli amanti,
pensai di iniziare con lei un'interessante relazione, ed ero sicuro che nulla mi sarebbe stato più
facile: avevo allora una tale fama e un tale fascino, anche in considerazione della mia giovane età,
che a qualsiasi donna mi fossi degnato di offrire il mio amore, non avevo timore di ricevere alcun
rifiuto». Ed evidentemente non esagerava giacché Eloisa scrive a proposito di quei tempi: «Tutti
facevano a gara per vederti quando apparivi in pubblico e le donne ti seguivano con gli occhi
voltando indietro il capo quando ti incrociavano per la via. [...] Eri giovane, bello, intelligente. [...]
Quale regina, quale donna potente non avrebbe invidiato le mie gioie e il mio letto?». I due, dunque,
in breve divennero amanti e, quando furono scoperti da Fulberto, scapparono a Le Pallet, il paese di
Abelardo. In questa piccola cittadina Eloisa diede alla luce un bimbo cui fu imposto il nome di
Astrolabio. Ora che aveva anche un figlio, Abelardo si convinse della necessità di trovare una
soluzione. Si recò allora da Fulberto per implorarne il perdono, dichiarandosi disposto a sposare
Eloisa a patto che «ciò avvenisse in segreto, affinché non nuocesse alla mia reputazione». Gli
uomini si misero d'accordo ma inaspettatamente la reazione più dura venne da Eloisa. Abelardo
restò sbigottito di fronte alle parole della donna: «Che cosa spinge te, che sei chierico e canonico, a
preferire turpi piaceri al tuo sacro ministero?». Il filosofo riferisce le idee di Eloisa ma si vede
chiaramente che non ne comprende il senso. Gli sfugge l'assoluta purezza e gratuità dell'amore di
Eloisa che scopre così di essere amata in modo molto diverso da come amava. Molti anni più tardi
lo rimprovererà esplicitamente ad Abelardo: «In te ho cercato e amato solo te, Dio mi è testimone;
ho desiderato te, non i tuoi beni o le tue ricchezze. Non miravo a farmi sposare né a farmi
mantenere; non volevo soddisfare la mia volontà e il mio piacere, ma te e il tuo piacere, lo sai bene.
E anche se il nome di sposa può parere più sacro e più valido, io preferivo essere per te un'amica,
una compagna, perfino una concubina, se non ti offendi, o una sgualdrina. Mi sarei annullata di
fronte a te, paga soltanto del tuo amore, e sarei vissuta all'ombra della tua grandezza». In ogni caso
Eloisa si dovette rassegnare e una mattina, in gran segreto, i due si sposarono in una chiesa parigina,
alla presenza di Fulberto e di alcuni amici. Lo zio di Eloisa, però, non tenne fede ai patti e diffuse la
notizia del matrimonio: l'affronto era stato pubblico e tale doveva essere anche la riparazione! Per
arginare lo scandalo Abelardo portò Eloisa nel convento di Argenteuil ma Fulberto pensò che
volesse ripudiarla, tradendo l'accordo convenuto. Per questo ingaggiò alcuni sicari che evirarono il
filosofo. Alcuni anni più tardi, quando il Concilio di Soisson giudicò eretica una sua opera,
Abelardo annotò tristemente: «Ero dunque interamente divorato dalla superbia e dalla lussuria, ma
la grazia divina, benché contro la mia volontà, seppe guarirmi da entrambe le malattie: dalla
lussuria privandomi dei mezzi con cui la esercitavo e dalla superbia, che mi veniva soprattutto dalla
mia cultura e dalla mia scienza, obbligandomi a bruciare con le mie stesse mani un mio libro».
Dopo l'aggressione, Abelardo ed Eloisa scelsero di prendere i voti. Torneranno insieme solo nella
tomba: quando morì, infatti, il filosofo fu sepolto nel monastero di cui Eloisa era badessa, nella
tomba in cui lei stessa vorrà essere accolta ventidue anni dopo (1164). Durante la rivoluzione
francese il convento sarà distrutto, ma i resti dei due amanti saranno trasferiti nel cimitero parigino
del Père-Lachaise, dove tuttora riposano.
Monumento funebre a Eloisa e Abelardo al cimitero parigino del Père-Lachaise.
La dottrina teologica di Abelardo affronta in particolare il problema della Trinità e riconosce
il ruolo fondamentale della dialettica
La Theologia Summi Boni, la Theologia christiana e la Theologia scholarium sono considerate
rielaborazioni di un unico progetto che Abelardo comincia a sviluppare con la Theologia Summi
Boni. Al centro della sua riflessione vi è, come primo e fondamentale elemento dogmatico da
approfondire, il mistero trinitario. In primo luogo, Abelardo afferma che si può sostenere solo
quello che si comprende e che non si può credere nulla senza averlo compreso: questo principio è
ben sintetizzato nell'espressione agostiniana intelligo ut credam, capisco per credere. Ciò
ovviamente non significa che la filosofia possa spiegare tutto:
Non ci impegniamo a insegnare le verità, che evidentemente non possiamo conoscere né noi né
alcun altro mortale, ma ci sembra giusto proporre qualcosa di verosimile, vicino all'umana ragione e
non contrario alla Sacra Scrittura. (Teologia del sommo Bene)
Come si vede, Abelardo non propone di sottomettere la fede alla ragione: vuole invece affermare
che le formule teologiche devono avere un significato minimo comprensibile e non devono essere
contraddittorie. In un altro passo, inoltre, enuncia in modo chiaro il ruolo della ragione che
sostanzialmente identifica con la dialettica, cioè la capacità di argomentare:
Ma poiché gli argomenti scorretti non possono essere respinti per mezzo dell'autorità dei santi e dei
filosofi, se non si contrastano con umane ragioni coloro che si basano su argomentazioni razionali,
abbiamo deciso di rispondere agli stolti attraverso i mezzi della loro follia e di abbatterne le
obiezioni con le stesse arti che essi utilizzano contro di noi. [...] Noi quindi, rivolgiamo contro di
loro la medesima spada della dialettica di cui essi si servono. (Teologia del sommo Bene)
La ragione in quanto dialettica, dunque, deve consentirci di respingere gli argomenti degli eretici.
Infine, nello sforzo di definire un livello minimo di coerenza razionale delle verità teologiche, è
ovvio che il mistero della Trinità rappresenta un banco di prova estremamente impegnativo.
Abelardo distingue nella Trinità, la cui sostanza è realmente unica, tre nomi e tre cause: la Potenza,
la Sapienza e la Bontà. La sostanza divina è trina perché caratterizzata da questi tre attributi. Dietro
la spinta delle critiche e delle condanne teologiche, tuttavia, Abelardo ribadirà che ciascun attributo
è proprio di una delle persone trinitarie (Padre, Figlio e Spirito Santo).
Il contributo di Abelardo all'etica consiste nell'avere attribuito valore all'intenzione interiore
più che all'azione esteriore
In ambito etico Abelardo è autore di una Ethica sive Scite te ipsum (Etica o Conosci te stesso), che
riprende nel titolo la formula dell'oracolo di Delfi rivolta a Socrate. In quest'opera Abelardo riflette
sulla causa del peccato e sostiene il primato dell'intenzione rispetto all'azione come elemento per
decidere sulla natura peccaminosa o virtuosa della condotta umana: solo l'intenzione (intentio), che
ispira l'azione e alla quale l'individuo dà il proprio assenso agendo, è responsabile del valore etico
dell'azione stessa. In questo modo, per Abelardo, se si fa il bene senza averne l'intenzione, l'azione
compiuta non può essere considerata realmente virtuosa. Dunque la novità di Abelardo consiste nel
contrastare la morale "esteriore" che classifica una serie di comportamenti come peccati
prescindendo dalla volontà interiore e dall'intenzione di chi li compie. Pensare di uccidere un uomo
è moralmente peccaminoso, al contrario ucciderlo involontariamente, senza averne l'intenzione, è
da considerare un'azione certamente punibile per la legge umana ma non è un peccato. C'è dunque
una distinzione fra il "reato", cioè un comportamento illegittimo, e il "peccato", un comportamento
eticamente scorretto. Solo Dio può giudicare l'agire buono o cattivo perché Lui solo è in grado di
conoscere le autentiche intenzioni, invisibili agli occhi degli uomini. Ma che cosa determina il
comportamento umano? Anche in questo caso Abelardo propone una distinzione fra "vizio"
dell'anima e "peccato" vero e proprio. Definisce il vizio «un'inclinazione naturale al peccato», cioè
un istinto all'agire in contrasto con il volere divino, a non fare ciò che invece si dovrebbe fare: ciò
per Abelardo significa disprezzare Dio. Il peccato invece consiste nell'agire male intenzionalmente,
è l'assenso della volontà al vizio come desiderio di agire scorrettamente, contro il volere di Dio e in
disprezzo della legge divina. L'agire etico si configura pertanto come una conquista, come vittoria
contro il vizio insito nella natura dell'uomo. Ne consegue che il peccato o la virtù non risiedono
nell'azione (operatio) e ancora meno nel suo risultato (opus). Un'azione è peccaminosa o virtuosa a
seconda dell'intenzione dell'anima. Il caso estremo che Abelardo prende in considerazione è quello
di Giuda: tradendo Cristo, ha contribuito all'opera redentrice e, quindi, l'opus (il prodotto) della sua
operatio (della sua azione) è un bene (bonum), ma poiché l'ha fatto con un'intenzione negativa
Giuda ha agito in modo malvagio.
L'etica dell'intenzione proposta da Abelardo non va intesa come soggettivismo: la legge di Dio
indica ciò che è oggettivamente buono
Abelardo rivendica per l'uomo la responsabilità etica, senza tuttavia cedere a un soggettivismo
etico, rifiutato in nome della "legge divina", a cui gli uomini si devono conformare. L'intenzione è
buona soltanto se ciò che si decide di fare è buono non solo per colui che lo fa, ma è oggettivamente
buono ed è un bene autentico, rispettoso dei comandamenti divini. Le fondamenta di questa
complessa etica, dove intenzione e libera ricerca razionale hanno grande importanza, si ritrovano
anche nel Dialogo tra un filosofo, un ebreo e un cristiano. Qui la fede cristiana è vista come una
verità dimostrabile, dove l'autorità si integra con la ricerca razionale, a differenza del rigido
legalismo giudaico. Per questo il cristiano e il filosofo possono discutere di cosa sia il sommo bene
in modo aperto. Ma il Dialogo tra un filosofo, un ebreo e un cristiano è ricordato soprattutto per un
altro motivo: perché è l'unica opera del Medioevo, di un autore cristiano, che mostra comprensione
per le pene del popolo ebraico. Abelardo, infatti, mette in bocca all'ebreo frasi come quella che
segue: Non si sa di nessun altro popolo che abbia sopportato tante prove in nome di Dio quante noi
ne sopportiamo continuamente per Lui; si deve ammettere che la fornace del nostro patire ha
consumato senz'altro ogni ruggine di peccato. È implicita in queste parole la condanna delle
persecuzioni che colpivano gli ebrei. D'altro canto, coerentemente con le sue posizioni etiche,
Abelardo non può proprio accettare l'idea che tutti gli ebrei siano considerati i responsabili volontari
della morte di Cristo.
FILOSOFI a CONFRONTO
Credo ut intelligam o intelligo ut credam? Il problema del ruolo da attribuire all'indagine razionale nelle questioni di fede assume nel corso del
Medioevo un'importanza particolare. Le varie formulazioni del rapporto tra fede e ragione derivano
innanzitutto dai presupposti metodologici di ogni autore e implicano una diversa interpretazione
dell'etica e delle questioni teologiche.
AGOSTINO ANSELMO ABELARDO
Metodo
Forza e fondamento delle
argomentazioni teologich
e derivano dall'autorità
della fede, ma
bisogna raggiungere
l'intelligenza della fede
attraverso la
critica testuale, la
comprensione dei segni,
le regole ermeneutiche
e la teologia biblica.
Nelle dispute teologiche è
legittimo utilizzare la
dialettica; per mostrare la
verità è
meglio argomentare con
la ragione piuttosto che
basarsi
sull'autorità. L'indagine
razionale assume valore
oggettivo entrando
in relazione con le verità
di fede.
Libera e autonoma analisi
intorno a ogni questione.
La veridicità di un testo
deriva
dall'analisi dell'autenticit
à, delle
strutture grammaticali e
dell'autorità
più affidabile.
Rapporto
fede/ragion
e
Credo ut intelligam,
intelligo ut credam - fede
e ragione sono tra loro
complementari perché la
verità è una sola. La
ragione non sempre
conduce alla
verità, dunque non può
prescindere dalla fede;
quest'ultima d'altronde ha
bisogno della ragione
per divenire salda e
chiara.
Credo ut intelligam -
conferma nella sostanza
l'impostazione agostiniana
: solo la fede permette la
conoscenza del vero, ma
per comprenderne i
contenuti è necessaria
l'indagine razionale per
cui "la fede
cerca l'intelligenza" (fides
quaerens intellectum).
Intelligo ut credam - la
fede non deve essere
sottomessa alla ragione,
ma d'altronde si
può credere solo in ciò
che si comprende: le
formule
teologiche, quindi,
devono essere
comprensibili e non
contraddittorie.
Teologia
Nella Trinità Padre,
Figlio e Spirito Santo
sono nomi che
indicano la relazione tra
Essere, Verità e Amore:
attributi fondamentali di
Dio che si
ritrovano anche
nell'uomo.
La verità fondamentale
per la religione è
l'esistenza di
Dio, conoscibile
dall'uomo grazie alla
prova a posteriori e a
quella ontologica.
La sostanza della Trinità
è unica ma possiede tre
nomi e tre cause o
attributi: Potenza (il
Padre), Sapienza (il
Figlio) e Bontà
(lo Spirito Santo).
Etica
La vera libertà è quella di
poter non peccare
posseduta prima del
peccato originale. Dopo
vi è solo il libero arbitrio
La libertà è possibilità di
fare il bene e nasce da una
volontà volta alla
rettitudine. La libertà di
Il valore etico di
un'azione è dato
dall'intenzione che la
ispira. La legge di Dio
e l'uomo non può non
peccare. Il male morale
dipende dall'uomo
che utilizza in modo
errato la libertà donata da
Dio.
scegliere il peccato non
è vera libertà.
definisce il bene davanti
al quale l'uomo ha una
propria responsabilità
etica.