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INDICE
MILANO
La felpa della Kappa 4
Lui, e solo lui 6
Provare a fare i grandi 8
Non meritevoli di vivere quel sogno 14
Perché 18
Senza età 21
Stai calmo, non agitarti, ho paura 23
C’è la neve nei miei ricordi 26
Forare 30
Fuga 32
PISTOIA
Per le cose semplici 34
NAPOLI
Rattenuto 36
VIESTE
Sgarbugliando la grande matassa 43
L ’ architiello e la gabbia d’oro 46
San Francesco, la mancanza di lucidità e l’ingordigia 49
Svegliarsi nuovo 54
L’altalena di coriandoli 57
Un natale a marzo con la voce di panna 66
L’acqua schietta ed il sole intimorito 76
Il sole che ci inghiottiva 82
Per l’istante 86
Leggi Roma al contrario 88
3
FLASH FORWARD
Prato immenso.
Prato irlandese, prato pugliese…che importa dove sono.
Il sentiero infinito si perde nella valle, appoggio la schiena al capezzale di tua madre.
Aspetto te.
Te insicura.
Te donatrice.
Te indefinita.
Te, svolta della mia vita.
Tramonto caldo, quasi mi dai fiducia sul fatto che lei arriverà.
Ma se non sa nemmeno che io sono qui?!
Io pazzo.
Io sognatore.
Io indefinito.
Io, spero svolta della sua vita.
La paura di riaffidarsi ad una persona, di donarle la mia bussola e dirle:
“Scegli tu la rotta, io mi fido di te”.
La paura di donarle quella bussola quando ne sono appena ritornato legittimo
possessore.
Ma, dietro i fiori, un biglietto….
la sua scrittura…
calda come questo tramonto….
che sembra quasi darmi fiducia sul fatto che lei…arriverà.
4
MILANO
La felpa della Kappa
21.59
“Non esco”
22.03
“Esco”
22.05
“Non esco”
22.09
Squilla il telefono: “Andre, ti muovi, esci?!”
“No”
“Vengo a prenderti a calci Andre, dai che ci divertiamo”.
“No”
“Sono sotto casa tua, mò ti suono”
“No”
Driiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiin
Persona apatica che non vuole uscire: Andrea, 23 anni, abitante di Carugate, sperduto
paese situato nella Brianza di serie B, ma pugliese nel sangue, natio di Vieste, luogo
dove risiede la sua anima.
Un gruppo di amici, “La_Kumpa”, ristretto ma fidato. Qui si parla di vera amicizia, mica
balle.
Un luogo di ritrovo fisso da sempre: il bar in piazza “La cascina” che per connotazione
pare più “Bar dello sport” lei di qualsiasi altro bar chiamato “Bar dello sport”, perfino più
di quello narrato da Benni.
Con i suoi i vecchietti, che un bianchino lo fanno durare un pomeriggio. Con la Wilma,
una brioche su cui specifici studi antropologi hanno dimostrato un’età pari al triplo della
Luisona di Benni. Un forestiero un giorno la mangiò. Non se ne ebbe più traccia…di lui.
La Wilma tornò reincarnata in una stecca di Liquirone, dura come il marmo, e molto
Oratorioladomenicapomeriggio nello spirito.
5
Una storia con una ragazza bellissima e dolcissima, Francesca, finita…per colpa di
Andrea, chiaramente. Tante matasse mentali auto costruite ed auto flagellatanti, otto
mesi di down e quindicidicoquindici chilogrammi persi per superare tale debacle.
Pochi vizi, essenzialmente due: i concerti, nei quali sogna un giorno di poter lavorare e
la buona cucina, i ristoranti. Il sogno, forse irrealizzabile, di aprire un ristorantino di
pesce sulla spiaggia nella sua Vieste.
Una passione calcistica: a’ Lazzzio, scelta a cui non sa dare spiegazione essendo un
pugliese trapiantato a Milano.
Un amico fidato: Pablo, un labrador bianco che pesa più di lui e che, non si sa come,
ogni santissima sera ha l’entusiasmo, gli occhi vispi e la gioia di chi ama veramente la
vita.
Una laurea apparentemente utile, rivelatasi poi totalmente inutile, in quel settore a
cavallo tra la comunicazione, l’economia, il marketing, il pierraggio, Fabrizo Corona e
Lele Mora.
Un sogno realizzato, tramite una botta di culo stratosferica: dopo la tesi riesce ad
entrare nel team di una delle agenzie di concerti più importanti d’Italia.
Persona attiva che vuole uscire: Daniele, 23 anni. Semplice ma bello. Bello ma
semplice. Uno che con le donne ci sa fare, alla grande. Uno che, miei occhi testimoni,
andò a ballare nella discoteca più alla moda di Milano con la felpa della tuta della
Kappa e, così conciato, si fece un figone stratosferico che non sto a spiegarvi, davanti
agli occhi increduli dei figli di papà incravattati ed imbambati.
Daniele è la luce di Andrea. Per Andrea. Daniele è l’unico amico che per farlo reagire
non lo consola ma lo scuote, lo sgrida, lo passa appunto a prendere quando lui non
vorrebbe mai e poi mai uscire.
Daniele nella vita reale è…Daniele.
Andrea nella vita reale è….me medesimo.
E questa è la mia storia, o meglio, la storia di uno che stava male e tentava in ogni
modo di cambiare per stare bene.
6
Lui, e solo lui
“Non riesco a capire che cos’hai e, soprattutto, perché lo hai. Ti sei laureato in tempo a
pieni voti, lavori nel posto dove hai sempre sognato di lavorare, privilegio che hanno in
pochi, hai una famiglia unita, hai tanti amici, non hai problemi di salute.
Perché stai male?” disse Daniele passandomi la terza birra della serata in Cascina.
“Non lo so, cazzo. Non lo so. E’ una crisi mutabile, astuta, camaleontica. Un giorno sto
male per un motivo ed il giorno dopo per un altro. È indecifrabile. Il fatto è che io non
riesco ad affrontarla, c’è sempre un muro di distrazioni e di finti impegni che mi fa
impedire di mettermi lì e parlare a questa crisi. E il realizzarsi di questo pensiero sai
quale è? Lo sai quale è, Dani?! È che non riesco a piangere.
Non riesco a piangere, per Dio. A volte mi metto lì, ci penso sai, a tutto questo che ti
sto dicendo, ma non riesco a piangere. E piangere sarebbe un primo passo verso
l’ammettere di avere un problema. Invece vince sempre l’aridità nei miei occhi, non
riesco ad ammettere il mio dolore”.
Mi alzai, andai verso il cornicione della fontana davanti alla Cascina. Una fontana che
vorrebbe dare un tocco di eleganza ad una piazza rustica, come un bicchiere di vetro
di Murano messo in una tavola di un’osteria per camionisti, una fontana vorrei ma non
posso, una fontana che li, tra le nostre vite, non centrava proprio un cazzo.
Salii sul cornicione e ci camminai sopra, ritornai da lui e riattaccai:
“I motivi sono del mio malessere sono i più disparati: spesso non riesco a parlare coi
miei genitori, anche se non abbiamo litigato. Non mi va di parlare, così, senza un
motivo. Mi chiudo. E sto bene con la musica silenziosa nelle mie orecchie. Con la dolce
malinconia di un venerdì sera in casa da solo.
Altre volte mi manca mostruosamente una donna, donna non in quanto donna, donna
non in quanto sesso…ma donna in quanto abbraccio, in quanto progetto, in quanto
vigilia di natale assieme, in quanto Andrea stringimi forte.
Altre volte ancora questa realtà e questo paese mi stanno stretti come un giubbino
delle scuole elementari. Sarà che questo lavoro mi ha trasportato in una realtà che è la
cosa più distante che possa esistere da qui, da noi…ma mi sembra di volere di più, di
iniziare a capire che ci sono tanti di quei paesaggi, mari e tramonti che non abbiamo
mai visto che è assurdo stare a passare le sere a sbronzarci in Cascina.
7
Non riesco più a capire neanche se mi vada ancora bene uscire sempre, e dico
sempre, con le stesse persone. So che su di loro posso contare, che se manco mezza
volta mi vengono a cercare ma, Dani, sono sempre gli stessi discorsi. Conosciamo a
memoria pregi e difetti di ciascuno di noi, è come specchiarci ogni sera in una foto già
vista.
Io non voglio più specchiarmi, io voglio buttarmi. Buttarmi nell’ignoto, buttarmi e
sbagliare, buttarmi e bruciarmi…ma buttarmi!”
“Ma pensa a chi non ha tutto quello che hai tu” disse lui alzandosi di scatto “Pensa a
chi non ha i genitori, a chi non ha amici, a chi si alza ogni mattina e vorrebbe bruciarla
la fabbrica dove lavora, pensa ai bambini in Africa che muoiono perché non hanno
l’acqua”
“Dani, ma vaffanculo! Come faccio io a pensare ai bambini in Africa, a
contestualizzarmi in quel dolore?! Il dolore che prova ognuno di noi è sempre il dolore
più grande che in quel momento possa esistere, anche se si parla di un taglietto al
mignolo. Il dolore è soggetivizzato, io non riesco a pensare al dolore degli altri.
Io devo pensare al mio, e risolvere il mio”
Il secondo wodka tonic in mezzora ci aveva steso. Avrei potuto addormentarmi nella
fontana di fronte alla Cascina. Ma sapevo anche che avremmo potuto continuare fino
all’alba con quei discorsi e che lui, e solo lui, avrebbe potuto capirmi.
8
Provare a fare i grandi
Sabato sera.
Solita routine, anticipo “Lazio – inter”, avrei potuto vederlo a casa, ma avevo bisogno di
una birra ed una pacca sulla spalla da un amico. Mi recai quindi in Cascina per vedere
la partita con gli altri. Mentre parcheggiavo pensai, a differenza del mio discorso fatto a
Dani poche sere prima, alla fortuna di abitare in provincia. Non hai tutto a portata di
mano, è vero, ma chi abita a Milano la “Cascina” se la scorda; non intendo come luogo
concreto, ma come concezione astratta, come respiro di casa..
A Milano, se una parte della città prima in diventa out, il locale ti saluta e chiude.
La Cascina è un’istituzione, qualsiasi concetto di “tendenza” sbatterebbe contro la sua
serranda, è come una bandiera nel calcio, come Franco Baresi. Nel calcio moderno
non esistono più le bandiere, nella società attuale un locale non ha la certezza di
sopravvivere in eterno.
Per questo è affascinante la solidità della Cascina.
“Luca il solito, grazie” dissi.
Mi piaceva un sacco dire il solito, mi faceva sentire uno di casa.
Sei medie chiare arrivarono immediatamente sul nostro tavolo.
Sciarpa d’ordinanza bianco azzurra al collo, seppur consapevole di essere cenerentola
che va contro al corazzata Potionski.
Invece…Rocchi di testa, gol. 1-0 per noi.
Rocchi, Pandev, Ledesma la ridà a Pandev, semirovesciata, gol. 2-0.
Madò, Madò.
Intervallo. Altra media.
Mauri, Mutarelli, Mauri, gol 3-0.
Traversa di Cambiasso, Crespo a porta vuota. 3-1.
Maledette birre di Luca di seconda scelta, la mia vescica stava a dir poco scoppiando.
Corsi in bagno come un bambino che non vuole perdersi la fine del suo cartone
animato preferito, conscio però che, a sette minuti dalla fine, il risultato fosse ormai in
cassaforte.
Si,. in una cassaforte…bucata. Tornai giusto per vedere il 3-4 in diretta. Quaterna di
Crespo, infame traditore.
9
Perdere così, in rimonta, mi faceva veramente imbestialire. Perdere in generale mi
faceva imbestialire, ma in quel modo ancor di più. Per dieci minuti dovevo stare solo,
tutti lo sapevano.
“Certo che un laziale a Milano è proprio strano trovarlo” ecco, lei non lo sapeva.
“….”
“Cosa fai, hai perso la parola dopo che vi abbiamo stesi?”
“!!!!”
“Ho capito, la partita è argomento tabù. Claudia, piacere”
“Andrea”
Claudia era la classica ragazza che non noti in mezzo ad altre ragazze, che non ti
gireresti mai a guardarla per strada ma che, se la scruti bene, scopri che è veramente
carina. Fisico asciutto. Capelli mossi.
Non l’avevo mai vista alla Cascina, nonostante fosse di Carugate.
Quella sera non uscii con gli altri, ma rimasi a parlare con lei in piazza tutta notte.
La settimana successiva l’Inter perse in casa contro il Catania ed io mi feci due grosse
risate guardandola dritta in faccia.
Tre giorni dopo venne a casa mia.
Due giorni dopo ci baciammo, alle 16:07, mentre impastavamo insieme una torta alle
mele guardando un attuale e triste rifacimento dell’indimenticato Bim Bum Bam.
In quell’istante Claudia mi disse che nonostante i suoi 17 anni non aveva mai baciato
nessuno. Immediatamente realizzai di non essermene accorto, dato che altre ragazze
che si vantavano di chissà quali passati amatori baciavano in realtà molto peggio.
In un secondo momento pensai che era una cosa fantastica, ai giorni d’oggi, rara e
fantastica. Lei era pura, e non mi riferisco al mero contesto ginecologico della
questione, ma al fatto che fosse pura nelle emozioni, nei brividi, nelle farfalle allo
stomaco. Il suo campo chiamato amore era liscio come dopo una nevicata, sarei stato
io il primo a percorrerlo e a lasciare i miei passi. Tutto ciò profumava clamorosamente
di indelebile.
Claudia mi riportò ad assaporare le piccole cose; lei era un’amante del paese e della
tranquillità; io venivo da un paio di anni vissuti invece decisamente più di notte che di
giorno e con un tasso alcolico tenuto costantemente su livelli, definiamoli,
imbarazzanti.
Ricordo che il primo appuntamento dopo quel bacio lo fissò lei:
10
“Allora ci vediamo domenica a mezzogiorno per una passeggiata in pista ciclabile, ti
va?”
Nella mia mente apparvero tre distinti campanelli d’allarme:
- Primo: io la domenica a mezzogiorno costantemente, pesantemente ed
indiscutibilmente…dormo.
- Secondo: cos’è e dov’è la pista ciclabile?
- Terzo: perché dobbiamo fare una passeggiata a piedi se possiamo farla in
macchina?
Quello infatti era il periodo in cui io usavo la macchina per qualsiasi cosa: se il
giornalaio era a duecento metri da casa mia, io prendevo la macchina, facevo dieci
minuti di strada causa sensi unici inconcepibili, litigavo per un parcheggio cinque minuti
e prendevo il giornale.
Definii la nostra storia “Bim Bum Bam” non per mancarle di rispetto, ma perché era la
riscoperta in me di abitudini, orari e luoghi che avevo completamente dimenticato.
Data la vicinanza tra nostre abitazioni eravamo sempre assieme, preparavamo torte,
prendevamo il thè alle cinque parlando fino a sera.
Tutto troppo bello. Tutto troppo facile. Per essere vero. Per durare.
E invece durava.
Presi casa sua come seconda abitazione, nei giorni in cui i miei erano via ero sempre
da loro. Strinsi un rapporto intenso con sua madre. Praticamente mi ero fatto adottare
senza chieder loro prima il permesso.
Gli equilibri erano chiari fin dall’inizio: io ero quello grande, io ero quello che
proponeva, io ero quello che organizzava le sorprese.
L’implicito compito che mi ponevo ogni mattina al risveglio era rendere la sua giornata
particolare, irripetibile, distintiva dalle altre: un biglietto messo sulla sua macchina al
parcheggio del metrò, una visita anche quando non potevo passare da casa sua.
Rendere straordinario ogni momento ordinario, apparentemente noioso, un lunedì
mattina piovoso.
Capivo benissimo che era talmente sottile il limite tra la distinzione se Claudia fosse
innamorata di me o innamorata dell’innamorarsi da rendere le due cose praticamente
indistinguibili.
Claudia era innamorata dell’innamorarsi.
Di avere qualcuno a cui pensare al risveglio, per la prima volta nella sua vita.
11
Di avere qualcuno con cui passare il sabato pomeriggio, sognare, progettare, cinema,
pizza, non ti lascerò mai, cene, viaggi, ti prego Andrea stringimi forte.
Passarono due anni veramente belli. Veloci, come ogni cosa che sia bella, ma densi.
Per la prima volta stavo vivendo la vera quotidianità con una donna.
Per tutti eravamo una coppia solida. Mi dava più forza questo giudizio esterno che
l’andamento vero e proprio del nostro rapporto, in cui io continuavo a essere quello che
organizzava, proponeva.
Ricordo piccoli momenti che mi facevano sentire grande: ad esempio quando in ferie,
mentre Claudia era in doccia, squillava il suo cellulare. Era sua madre. Io rispondevo e,
in quelle poche parole scambiate, mi sentivo clamorosamente genero. Tutto profumava
di genero.
O quando una delle due famiglie era fuori Milano, vivevamo assieme e giocavamo a
fare gli sposati. In quelle situazioni, la spesa il sabato pomeriggio era la situazione più
surreale.
Lei: “Amore, oggi Ipercoop”
Io: “Noo”
Lei: “Si ciccio, tanto ho solo due cosettine da prendere” e mostrava un minuscolo
foglio.
Sottomesso davanti al potere femminile, mi avviavo a questo esodo insieme ad altri
duemila sudditi delle loro compagne.
Arrivavi e trovavi parcheggio nell’unico posto che era disponibile: sulle strisce, in
rimozione forzata e contromano: praticamente a rischio ergastolo.
Entrati, ecco svelato l’arcano: il microfogliettino era stato in realtà accuratamente
sezionato tipo bigino bignami e srotolato si rivelava come un’infame lista di
quattrocentododici prodotti.
E quel giorno (e lei lo sapeva!) non c’è il 3 x 1 ma il 6 x 1. Dio mio! 6 kg di Macine.
“Ma cosa cazzo ce ne facciamo di 6 kg di Macine se io non faccio colazione?!”
chiedevo sempre stupito.
Il carrello iniziava a riempirsi sempre di più ed io ero sotto che tentavo dagli specchietti
laterali di vedere qualcosa. E, confermatemelo, trovatemi un carrello che vada dritto!
No! sono fatti apposta, sarebbe troppo facile, cosi sbandavo a destra e a sinistra.
Sembravo il dottor House.
Il momento più assurdo era alla cassa. Io ho girato diversi Paesi d’Europa e ho sempre
notato che le file sono lineari, ovvero esiste un primo unico, un secondo unico etc…
12
L’ Italia è l’unico posto al mondo in cui esiste la fila bipolare, ovvero un primo unico ma
due secondi a parimerito e tre terzi sgomitanti che essendo da podio se la giocano; e li
è un guadagnarsi centimetri su centimetri manco fossimo al Tour de France.
Poi c’ erano quelli furbi che si approfittavano anche dei loro bambini; ero in coda e
sentivo da dietro questa voce: “Vai, vai che tanto il signore ti fa passare”.
“No, No! Il signore dopo sedici ore di angherie col cazzo che ti fa passare, bel
bambino!” e allora lì, senza farsi vedere, quando era altezza bacino…pam!, gomitatina
sul viso del piccolo pargolo.
“Sputa i dentini bel bambino, tanto son da latte, e ringrazia quel buon uomo di tuo
padre!”
La persona prima di te in coda, chiaramente, ne aveva una delle sue: aveva vinto un
buono di 100 euro di spesa e comprato un attrezzo da ginnastica dal prezzo di 99.99
euro.
Concluso il pagamento eccolo all’attacco della povera cassiera :”Uè signorina, voglio il
centesimo di resto che mi spetta!”
“Caro cliente, il buono non dà diritto ad un rimborso economico, ma consente solo una
spesa per un massimo di 100 euro”
“Eh no, 100 euro al ghè vint e 100 euro la vò spend’”
“Può prendere queste cicche”
“Va ben”
“Perfetto il conto è di 101,50 euro” mi deve 1,50 euro.
“Ahahha signorina, mì al ghè vint, e mì l ghe devi paghà?! Che schi l’è un contrusens!”
Le duecento persone in fila presero a calci fino all’uscita lui, il suo attrezzo ed il
maledetto buono. E tieniti le cicche per consolazione, nonnino.
Ma il momento peggiore doveva ancora arrivare: durante il pagamento i ruoli erano
definiti a monte…da lei. Lei era l’addetta alle tessere: punti e bancomat, chiaramente il
mio bancomat. Io ero addetto allo stivaggio: dovevo fare le borsine con la divisione dei
prodotti nei vari sacchetti che decideva…lei. Ma lei, questo criterio di divisione, non
me lo diceva mica.
La solidarietà femminile, per antonomasia, in natura non esiste, quando può rivelarsi
determinante per ingabolare un uomo…si!
Cenno d’intesa tra la cassiera e lei, e la cassiera quadruplicava la velocità del nastro.
Arrivavano dei panetti di burro ai 210 km/h, difficile da evitare. E quelle maledette
borsine non si aprivano mai. Mai! Erano saldate quelle borsine!
13
L’ultimo prodotto da inserire era sempre il Dixan da due litri che, immancabilmente,
distruggeva le Macine sottostanti. Lei tanto, nella confusione, non se ne sarebbe mai
accorta.
A casa lei si buttava sul divano e diceva: “Sono distrutta, metti via te che sei alto e
arrivi alle mensole”.
E lì tutto profumava di rassegnazione.
Quando era il turno delle Macine provavo a ravvivare il sacchetto un po’ con una
innovativa respirazione macina a bocca e lì capivo che le donne hanno occhi in luoghi
che noi ignoriamo; perché lei era nell’altra sala, di spalle, con volume del televisore
maleducatamente alto e mi urlava “Le hai sbriciolate eh?! Lo sapevo!”
Era un gioco delle parti, entrambi ne eravamo consapevoli, ma ci piaceva provare a
fare i grandi.
14
Non meritevoli di vivere quel sogno
Questa mia attenzione nell’ordinario veniva esaltata con gesti clamorosamente
straordinari.
Una notte presi bomboletta, il fido Dani e la mattina dopo nella sua via Claudia trovò
scritto:
Quando tu chiudi gli occhi
le tue palpebre sono aria.
Mi trascinano:
vado con te, dentro.
Non si vede nulla,
non si sente nulla.
Superflui gli occhi e le labbra,
in questo mondo tuo.
Per sentire te
non valgono i sensi consueti,
che si usano con gli altri.
Bisogna attenderne di nuovi.
Si cammina al tuo fianco
sordamente, al buio,
inciampando nei forse, nelle attese;
sprofondando verso l'alto
con gran peso di ali.
Quando tu riapri gli occhi
io torno fuori, ormai cieco,
inciampando ancora, senza vedere,
nemmeno qui.
Senza sapere più vivere
nè in quell'altro, nel tuo,
nè in questo mondo scolorito
dove io vivevo.
Incapace, indifeso
fra l'uno e l'altro.
Andando,venendo
15
dall'uno all'altro
quando tu vuoi,
quando apri, quando chiudi
le palpebre, gli occhi.
Avrei voluto vedere il suo viso, mentre alle sei di mattina leggeva quel testo.
Avrei voluto vedere il suo viso, per capire se vi era stupore.
Perché da un po’ di tempo mi ero reso conto di essere entrato in un circolo vizioso
ingestibile: inizialmente non ricevevo da lei, me ne ero fatto una ragione, ma lei era
entusiasta del mio dare, delle mie attenzioni, del mio metterla su un piedistallo.
Successivamente non ricevevo da lei, ma non vedevo nemmeno più una gioia in lei per
le cose le donavo. Non riuscivo più a sorprenderla. E la cosa mi faceva impazzire. E
più tentavo di sorprenderla, più alzavo il livello delle mie idee, più lei si abituava a quel
livello, più non riuscivo più a ri-sorprenderla. Ciclo assassino. Ciclo vizioso.
Un giorno feci il gioco della morte, come lo chiamo io. Il venerdì pomeriggio
solitamente si organizzava, ops…organizzavo, la serata. Uno di quei venerdì stetti
volontariamente zitto. Ore 18, nulla. Ore 20, nulla. Ore 22, nulla.
Me ne andai a letto.
Il giorno dopo arrivai da lei sconsolato. Claudia, in massima tranquillità, disse: “Ho visto
che non ti eri fatto sentire, quindi ho organizzato con le altre”.
Fuoco e fiamme nella mia testa.
Non per il gesto in sè, ma per la consapevolezza che secondo lei quello che aveva
fatto era giusto. Le due cose sono radicalmente diverse.
Poi, però, il giorno dopo arrivava il messaggio “Ho sognato il nostro amore, la nostra
casa, il nostro futuro”.
Sali e scendi. Scendi e sali. Emozione su, delusione giù. Delusione giù, emozione su.
Ma, dopo un po’, anche sulle migliori giostre di Gardaland viene la nausea.
L’apice del mio improvvisarmi inventivo la raggiunsi quando un giovedì le dissi:
“Sabato partiamo”.
“Dove?”
“Non lo saprai mai”.
Taxi, mentre eravamo seduti guardavo i prati confinanti la zona di Varese. Mi piace
molto, quando sono su un’auto ma non guido, guardare il paesaggio e astrarmi,
diventare aria, reinventarmi pensiero, improvvisarmi sole e passeggiare in quei campi
che vedo schizzare dal vetro.
16
Pensai a come stesse lei in quell’istante, alla fortuna che stesse vivendo: qualcuno la
stava conducendo in un luogo a lei segreto, qualcuno aveva usato il proprio tempo per
organizzare qualcosa per lei.
Quasi mi dimenticai che quel qualcuno fossi io, ci vedevo quasi dall’alto, pensai a
quanto lei fosse fortunata.
E accettai, con un vuoto al cuore, la consapevolezza che lei non mi avrebbe mai
donato quella fortuna. Quell’istante su quel taxi.
Arrivammo a Malpensa.
Tabellone delle partenze:
“Scegli” dissi.
Avevo già scelto.
Parigi.
La città dei suoi sogni.
La città dei miei sogni, ma questo non aveva più importanza.
Subito dopo la dichiarazione della destinazione, maledetta la mia capacità di dare un
significato ai gesti più inutili, capii che Claudia non mi amava più.
Iniziò a saltare da sola, a cinque metri da me, urlando “Vado a Parigi, vado a Parigi!!!”
Non venne da me.
Non disse “Andiamo a Parigi”.
Non esisteva più unione.
Non esisteva più condivisione.
La città che più di ogni altra trasuda amore, arte e passione da ogni suo angolo fece da
contesto alla fine di un amore che nessuno dei due aveva la forza di ammettere.
Pittoresco paradosso.
Parigi non è mai banale, incantevole nel suo sorprenderti. Ogni monumento non lo vedi
avvicinandoti da lontano, ma te lo trovi solo a due metri da te, uscendo da una via
chiusa o da una metro. Imprevisto ed imponente come uno schiaffo.
Paradosso dei paradossi, il sabato notte la portai in cima alla torre Eiffel, luogo
turisticamente scontato ma sfido chiunque a dire che non mozzi il fiato.
Tre ore di coda per salire mi avevano fuso il cervello. È affascinante pensare come
migliaia di persone facciano ore ed ore di coda per assistere a una veduta che dura
non più di dieci, quindici minuti. Quanto deve essere magica quella visione? Quanto
deve essere rara? Immensa nella sua brevità?
Al terzo piano, davanti ad un’orda di cinesi incuriositi, mi inginocchiai e le dissi:
17
“Qui siamo davanti alle luci del mondo, e davanti al mondo non potrei mai mentirti”
Ma lo stavo facendo.
Bugiardo.
Infame.
In ginocchio.
Anello.
“Claudia, vuoi sposarmi?”
“Si” e scoppiò a piangere.
Ma anche lei mi stava mentendo.
Davanti agli applausi ed i flash dei giapponesi si compiva la più triste farsa del nostro
amore.
Le luci del mondo ci guardarono severe come una madre guarda il proprio figlio dopo
un capriccio o come forse Dio, chi lo sa, guarda l’uomo che sfrutta il povero per
arricchirsi.
Le luci del mondo ci giudicarono non meritevoli di vivere quel sogno che spettava solo
a chi di vero amore…si nutriva.
18
Perché
Il nostro amore finì silenzioso ed inosservato in una calda estate, dopo
milletrecentoventisette giorni di storia.
Solitamente divido la fine degli amore tra fine infarto e fine tumore.
La fine infarto è quando tu passi da lei, camicia perfetta, serenità totale. Vedi da
lontano che lei non ti aspetta sotto casa come al solito, ma poco più in là, quasi a
proteggere dalla tempesta in arrivo quel luogo così magico in cui vi eravate scambiati
migliaia di promesse e brividi. Sale in macchina un secondo, ti dà una lettera mentre
singhiozza e riscende subito. Tu non hai neanche bisogno di leggerla, inizi
semplicemente ad urlare, dentro o fuori di te non fa differenza.
Urlo muto od urlo lancinante, cosa cambia?
Ti senti stupido, ripensi a quante volte nel mese precedente tu non ti accorgevi di nulla
e lei stava per trovare le parole per dirti tutto.
La fine infarto è…Francesca.
La fine tumore è lenta, inesorabile, paradossale. Paradossale perché ti rendi conto che
il tuo o il suo amore sta svanendo lento, goccia dopo goccia, ma pur sempre svanendo
e tu, che sei il protagonista di quella favola, non puoi fare niente. Tu, che saresti l’unico
a poter muovere le pedine, devi assistere inerme.
E’ come quando ti cade il tappino del dentifricio nel lavandino. Blocca l’attimo.
Nell’istante in cui ti cade dalle mani sei cosciente che lo stai perdendo, ma la possibilità
concreta che tu lo recuperi è praticamente nulla.
La fine tumore è…Claudia.
Claudia tre giorni dopo la nostra fine conobbe un’altra persona.
Claudia cinque giorni dopo la nostra fine uscì con questa persona.
Claudia sette giorni dopo la nostra fine baciò questa persona.
Claudia tra due anni sposerà questa persona.
Dire che ciò mi lasciò indifferente è da ipocriti.
Il suo ragazzo mi disse: “La mattina dopo la fine di una storia, qualsiasi storia, io mi
sento una persona nuova, libera”. Mi fece tenerezza, perché capivo che a quella frase
non ci credeva nemmeno lui. Provi a dire questa frase ad un uomo che la sera prima è
stato lasciato da moglie e quattro figli dopo trentaquattro anni di matrimonio, credo che
19
convincerlo della bontà di questo pensiero sia alquanto difficile. Perché mentre parlava
sentivo le sue unghie che si graffiavano col vetro su cui si stava arrampicando.
Ero fiero di me quando mi rendevo conto che tutte le motivazioni a cui attribuivo la fine
della storia non le pensavo solo a posteriori, ma erano in me ferree certezze da mesi e
mesi.
Capii che ciò che avevo visto all’inizio come una cosa emozionante, il campo innevato
mai calpestato da nessuno, era stato la causa della nostra morte.
L’esperienza, assente.
Gli errori del passato da cui impari, assenti.
Pensai a Claudia come un genietto della matematica, portata. Portata a vivere una
storia quotidiana, accontentarsi di poco, di un sorriso, di una visita. In seconda media,
quando si affrontano le espressioni, il professore di matematica sottopone a Claudia un
analisi di sistema con studio di funzione comparato alla valutazione dei limiti
infinitesimali. Una storia densa come l’olio e con prospettiva di matrimonio.
Claudia è spiazzata, considerava la matematica come casa sua, se ne sentiva
padrona; ma ora trova, proprio in casa sua, un elemento che non sa capire. Dopo tre
anni non puoi più emozionarti come il primo mese, ma devi trovare l’emozione da
momenti diversi.
Claudia non crede più nella matematica. Se fosse stata in quarta liceo l’avrebbe risolto
quel sistema, ora no. Ora le fa paura, perché è una cosa più grande di lei.
Secondo elemento che ci uccise, insieme all’inesperienza, fu la vicinanza. Una storia
vicina è una storia vera: giustissimo! Ma spesso nelle uscite serali non parlavamo più.
Io la guardavo e tentavo di capire, capire dove stavamo andando, perché eravamo
arrivati a quel punto. Cosa ci avesse portato lì. Ammesso che vi erano molti altri
problemi, spesso ripensavo alle ore immediatamente precedenti a quell’uscita e capivo
che non ci stavamo dicendo più nulla semplicemente perché ci eravamo già detti tutto.
In quella giornata, infatti, ci eravamo già sentiti dodici volte e visti altre quattro.
Capii che un difetto portato dalla vicinanza era la facilità nel vedersi. Deduzione
talmente banale da risultare geniale. Non c’era un’attesa, un viaggio da fare in
macchina, un sacrificio. Bastava citofonare.
20
Dai piccoli gesti traggo universali considerazioni. È il mio pregio ed il mio difetto. Ogni
sera, dopo lavoro, passavo da casa sua. Mi sentivo a casa, ci raccontavamo la
giornata.
All’inizio in queste visite lei era ammirevole in ogni piccolo gesto. Ricordo che quando
andavo via non chiudeva mai la porta, ma rimaneva a guardarmi fino a che avessi
chiuso anche il cancello. Non mi piace che una porta chiuda netta ed implacabile un
momento che era stato tutto nostro, cullati tra sogni e speranze. Il lasciare quella porta
aperta fino all’ultimo era come giurarmi che quel momento, il nostro momento, non si
sarebbe esaurito solo chiudendo una barriera, ma sarebbe rimasto sempre vivo nella
sua mente.
Poi quella visita risultò sempre più scontata, quotidiana, entravo e non si girava
neanche a salutarmi dal divano su cui era seduta.
Ma soprattutto. perché quella visita non la faceva anche lei?! I tempi ci sarebbero stati,
dato che abitiamo a cento metri di distanza.
Da quella osservazione capii come la vicinanza in una storia faccia da cartina di
tornasole, tolga i vincoli, le supposizioni. Se Claudia avesse abitato anche a soli dieci,
quindici chilometri da me non mi sarei mai posto il dubbio del perché non venisse a
trovarmi in quella mezzora prima di cena. Sarebbe stato per lei impossibile, dato che
solo di strada correva appunto mezzora. Non avrei mai capito se fosse la distanza o la
mancata voglia di me ad impedire quella visita. Qui la vicinanza aveva distrutto questo
dubbio.
Perché non prendeva i jeans, le scarpe e non veniva lei da me?
Perché?
Abitudine.
Perchè?
Mancanza di stimoli.
Perché?
Passività.
Perché?
Tutto è dovuto.
Perché?
Perché?
Perché?
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Senza età
Tre anni, che nel loro viverli sembravano eterni ed impossibili nel concludersi,
parevano ora come una breve parentesi. Dalla vita. Dalla mia crisi. Che riaffiorò,
intatta, inesorabile, invincibile.
Ciao crisi, credevo di averti sconfitto, ma eri andata solo un attimo al bar, brutta
puttana.
Ero quasi orgoglioso nel dire che non stavo male per la fine con Claudia, ma per
qualcosa di molto più grande, complesso, indecifrabile, arriverei a dire affascinante.
“Per Dio” mi dicevo “se si deve star male, che almeno si stia male per un qualcosa di
indecifrabile e non per una storia portata avanti a forza per un anno!”.
Alienato.
Da vocabolario:
“L'alienazione nel suo verbo <alienare> riferimento all'atto dell'allontanare da sé,
dell'estraniare da sé e quindi all'atto di prendere distanza da qualcuno o da qualcosa.
Talvolta il termine viene utilizzato per indicare genericamente il disagio dell'uomo nella
moderna civiltà industriale nella quale l'artificio che gli è proprio lo fa sentire allontanato
dalle proprie radici più naturali.”
Io prendevo distanza da me.
Spesso, durante il tragitto in macchina per arrivare a lavoro, mi rendevo conto in viale
Palmanova di essere in…viale Palmanova! Non sapevo minimamente come ci fossi
arrivato lì, non me lo ricordavo, non ero arrivato io lì. MI vedevo dall’alto e non mi
riconoscevo nel guidatore di quell’auto, ne ero estraneo.
Io ero schiacciato in me.
Tutte le volte che uscivo con i miei amici dovevo sempre e assolutamente avere la mia
auto. Per potermene andare via da solo. All’improvviso. Accadeva che all’improvviso
mi mancasse l’aria, mi venissero delle fitte di mal di testa lancinanti, i discorsi intrapresi
al tavolo non mi interessassero più, improvvisamente e totalmente. Potevo essere nella
festa più rumorosa, nella cena più coinvolgente ma io mi sentivo improvvisamente solo.
Solo e chiuso in una bolla di vetro. Non capivo più i discorsi, non sentivo più gli odori,
non vedevo più i colori. Aria fresca, sognavo aria fresca ed i-pod a palla nelle
orecchie. Così uscivo e giravo per ore in macchina cantando, urlando, le canzoni dei
miei idoli. Quanta benzina sprecata.
22
Io ero impaurito dal mio mondo.
Dal mondo che mi circondava. Dal mondo che avevo scelto. Capii che il settore
lavorativo in cui mi ero inserito era, al di fuori del nostro ufficio, un mare pieno di squali.
Ma non squali cattivi e basta, il che ci può anche stare. Ma squali stronzi, che è
diverso. Quante strette di mano finte. Quanti sorrisi finti. Quanta finzione. Finzione.
Finzione. Finzione. Imparai che tutto doveva essere dimostrato, carta canta. Un cliente
ti chiamava e, con la scusa di farti un saluto, ti diceva che l’offerta l’accettava a quelle
condizioni. Quella per lui era una risposta mascherata da saluto.
Per me indimostrabile in futuro.
Imparai a dimostrare tutto e a richiedere dimostrazione di tutto. Ogni minima notizia
veniva scritta per mail. “Sono arrivato” mail; “Ho acceso il pc” mail; “Sto impazzendo”
mail.
Io ero impaurito da me.
Non riuscivo più ad amarmi. Ad amare la semplicità, un tramonto, a stare fermo. Stare
fermo. Stare fermo nella nostra società non è accettato. Devi correre. Se non corri devi
essere in ritardo per una riunione. O dover fare una telefonata urgente. O modificare
un allegato. Mi accorsi che anche quando camminavo durante una passeggiata, il
passo era rapido, affannato, sempre in ritardo. Anche se stavo andando contro il nulla.
Stare fermi era impossibile.
Una volta feci il gioco della morte “Devi guardare per cinque minuti immobile un
tramonto” mi dissi; dopo venti secondi mi sentii agitato; dopo trenta mi sentii stupido;
dopo quaranta me ne andai a bermi una birra. Di corsa, ovviamente.
Non capivo il me nella mia famiglia. Non riuscivo più a parlare, a comunicare. La
stanchezza del lavoro era solo un pretesto. Non ero assolutamente arrabbiato con loro.
Ma non avevo la spinta, l’input per raccontare loro la mia giornata. O per interessarmi
alla loro. Non mi piacevo in quella veste. Ma non riuscivo ad uscirne.
Un altro me, in me, che comandava il mio vero me.
Assurdo, ero l’unico quasi trentenne ad avere una crisi adolescenziale!
Io prendevo distanza da me.
Io ero schiacciato in me.
Io ero impaurito dal mio mondo.
Io ero impaurito da me.
Io mi sentivo…senza età.
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Stai calmo, non agitarti, ho paura
Una lunedì mattina dovetti andare a Bologna per un sopralluogo in un area in cui
pensavamo di fare un festival rock nell’estate successiva.
Le trasferte, brevi o lunghe che siano, sono un’altra cartina di tornasole. In quel viaggio
stacchi completamente la testa e scappi via dal tuo mondo quotidiano. Non esistono
più mail, telefonate, riunioni, impegni, allegati, amici, aperitivi, cinema, cene. Non esiste
più quel muro tra la proiezione che pensi di avere di te e la tua vita reale. Quel muro di
colpo scompare e ti ritrovi davanti a te stesso. Solo. Lì ogni stato d’animo viene
amplificato o, meglio, analizzato per quello che è realmente.
Se in quel periodo stai bene, in quelle ore ti rendi conto realmente di stare bene.
Ma se in quel periodo stai male, concludete voi.
E io in quel periodo stavo concretamente ed indiscutibilmente male.
Arrivai con largo anticipo ed entrai quindi in un bar per buttare sul pc appunti sparsi che
avrebbero poi composto questo testo. Questa scena è alquanto rara in Italia, abituale
invece in altri Paesi come l’Inghilterra in cui moltissime persone scrivono o leggono
negli Starbucks.
Poche settimane prima ero stato a Londra per lavoro e mentre stavo scrivendo in un
Cafè un uomo seduto accanto a me, sulla quarantina, mi disse:
“You are a great history in your mind”
“How do you understand this text?” replicai col mio inglese stentato.
“Sono di Barletta, per questo l’ho capita” disse spiazzandomi.
“Naaaa, pur io sò puglies”
“Naaaa, nù miracol, da scend a bascc?”
“Viest, provinc d Fogg”
“Antò, piacer”
“Andrè, piacer”
“Andrè, stai scrivendo proprio una bella storia. Malinconica, ti invidio, hai qualcosa da
raccontare”
“Antò, da noi in Italia non funziona così. Se scrivi da solo a un bar, si nù sfigat Lei ora il
venerdì sera esce con questo tizio, io sono da solo a casa a scrivere. Secondo te chi
sta messo meglio?”
“Assolutamente tu.” Replicò convinto. ”Scrivendo questi strazi, tu ti stai
inconsapevolmente amando. Ti stai raccontando, stai conoscendo te stesso e questo è
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il primo e più difficile passo per uscire da questa crisi che, da quanto ho capito, stai
affrontando. Lei cerca lui per saltare il suo maggese, l’inevitabile periodo di riposo che
la tua anima deve avere dopo un terremoto come quello che avete subito. Ma dal
maggese non si scappa. O vai tu da lui, o viene lui da te. Tu hai avuto il coraggio di
affrontarlo a piè pari.
Stai certo che ti stai amando molto di più tu di quanto lei ami lui.”
Ricordo con grandissimo affetto e stupore le parole di Antonio, mi aveva aperto una
porta nuova, una visione che non avevo mai ipotizzato.
Ma, come mi capitava spesso in quel periodo, bastavano due parole per darmi
entusiasmo, ma anche due minuti da solo per farmi ripiombare nella mia
insoddisfazione.
“Soccia, ma poveriiino quel ragasssso che scrive al computer. Deve essere proprio
sooooolo” disse un’anziana bolognese al marito, facendomi appunto ricordare che la
realtà si chiamasse purtroppo Italia e non Londra.
Andai al luogo prestabilito e monitorai la zona. Era affascinante la pace assoluta di
quel luogo sapendo che, da lì a pochi mesi, quel prato sarebbe stato una fusione di
musica, emozioni, urla, note, canne, brividi e sesso. La quiete prima della tempesta.
Ad un tratto notai un avvallamento, un’enorme buca. Questa non ci voleva. Avremmo
dovuto assolutamente coprirla o recintarla. Scesi, tramite una piccola scala per capire
quanto fosse profonda. Non era molto ampia, era piena di fango e foglie, foglie e
fango. Feci per risalire quando “STAAMMMM” le viti della scaletta cedettero e caddi a
terra con l’arnese in faccia.
“Ohi che bot che gu pres” dissi con il mio milanese stentato.
Dopo essermi ripreso, mi adoperai per salire, doveva essere semplice dato che era
profonda solo tre metri. Iniziai però a capire che quei tre metri erano pochi per incutere
timore, ma irraggiungibili per superarli senza un supporto.
Inizia a agitarmi.
Le pareti erano scivolose, impossibili da arrampicare.
Stai calmo.
Attorno l’area era completamente deserta.
Non agitarti.
La scaletta era irrimediabilmente rotta.
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Ho paura.
Una fossa, apparentemente contenuta, stava diventando la mia gabbia.
Quella fossa era la mia crisi, solo apparentemente superabile, ma in realtà astuta,
fangosa, mutabile. Io vedevo la luce, era li a pochi centimetri da me, “E’ facile”
pensavo, ma in realtà era irraggiungibile. E se la luce è irraggiungibile, che sia a pochi
centimetri da te o a decine di metri, poco cambia: sempre irraggiungibile è.
Quella fossa era la mia crisi. Ufficiale. E io ne ero prigioniero, senza sapere come
uscirne.
“STO MALEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEE” urlai con tutta voce che
avevo in gola.
Stai calmo.
Non agitarti.
Ho paura.
Stai calmo.
Non agitarti.
Ho paura.
Stai calmo.
Non agitarti.
Ho paura.
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C’è la neve nei miei ricordi
Il fatto di Bologna mi aveva scosso, avevo perlomeno ammesso di avere un problema
e si dice che ammetterlo sia solo il primo passo, ma anche il più difficile.
Tornai da Bologna a notte fonda, il mattino mi svegliai tardi. Talmente tardi da perdere
il mio solito pullman ed inseguire il successivo che, buonanima, si fermò ad aspettarmi.
Mentre correvo, notai che mi scivolarono gli appunti che stavo scrivendo su quel mio
bizzarro periodo. Non avevo certo tempo di fermarmi a riprenderli, tanto nessuno li
avrebbe mai letti. La sera ritornai distrutto alla stessa fermata.
Avevo il solito mal di testa lancinante. Solo per caso notai, nella casella contenente gli
orari del pullman, un foglio incastrato.
Lo aprii incuriosito.
“Ragazzo misterioso,
mi sono imbattuta casualmente nel tuo scritto e perciò, inconsapevolmente, nella tua
crisi. Non so se riceverai mai queste parole. Mi rivedo nel tuo momento, nel tuo buio,
nel tuo non saperti orientare per uscirne.
Esiste un cielo che ci proteggerà, liberi, dalla nostra inquietudine?
Un saluto,
Liliana”
Realizzai cosa avevo fatto solo dopo averlo compiuto: presi un foglio, trovai
miracolosamente una biro nel giubbino e scrissi.
“Cara Liliana,
leggo con piacere queste tue parole. Ho perso il foglio mentre rincorrevo il pullman,
solito ritardatario che sono. Sto affrontando questo periodo con lucidità, lucidità nello
sconforto, strano binomio. Ma almeno non cado in scene isteriche e ridicole quali il
chiudersi in casa o il non mangiare. Condivido con questa mia crisi, me la porto dietro
al lavoro, al cinema, in pizzeria come ti porteresti dietro un amico, un confidente.
La scruto, la osservo, per un giorno, spero, attaccarla. Ma lei è camaleontica, furba,
attenta. Credevo di averla eliminata tramite una storia duratura, ma non era affatto
così. Vivo ogni momento, anche il più felice, con una vena di malinconia. La notte di
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capodanno sono sempre triste. Lo faccio quasi apposta, per distinguermi dagli altri-
Quando sono felice mi piace guardare il mare d’inverno.
Buona serata,
Andrea”
Lo ammetto, non dormii tutta la notte.
Quella scrittura mi emozionava. Sapeva di pace, di donna, di calma, di bambina, di
pura, di montagne russe.
Al mattino presi il pullman talmente presto che in ufficio si sarebbero poi emozionati,
dati i miei conclamati arrivi in ritardo. Corsi alla fermata, il cuore mi batteva come ad un
primo appuntamento.
Un nuovo foglietto.
“Ciao compagno di gioco epistolare,
è una notte buia, talmente buia che il cielo sembra quasi di pietra, invalicabile.
Vorrei essere stella, per starci aggrappata a quel muro di pietra.
Almeno il mio limite sarebbe anche la mia ancora. Nella realtà invece il mio limite
produce in me solo ossessione, frustrazione.
Io, quel tramonto per cinque minuti immobile, non riesco proprio a vederlo.
Non ne ho la forza.
Liliana”
Entrai in quel vortice senza neanche accorgermene. Gioco epistolare. Che cosa
assurda, ma bella. Riuscivamo a sentirci due volte al giorno, tra mattino e sera. Mi
affascinava il fatto che i suoi pensieri notturni, in cui la notte offre intimità, pace e
silenzio, fossero letti da me durante il giorno caotico e viceversa. Una sola volta ebbi la
tentazione di “spiare” per capire chi fosse quella ragazza, ma mi schiaffeggia da solo.
Avrei tolto la magia a tutta la situazione.
Lo scambio di lettere era così costante da farlo diventare quasi un botta e risposta.
Lei:
“Colore preferito?”
Io:
“Azzurro, tu?”
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“Giallo”
“Stagione preferita?”
“Te l’ho già detto!”
“Quando?! Non è vero!”
“Il mare d’inverno”
“Non è una stagione, imbroglione, è uno stato mentale!”
Ciò che mi affascinava era, nell’era della comunicazione/sms/mail/incapacità di
attendere, l’ aspettare cinque, sei, otto ore per una risposta solo sul suo colore
preferito. Mi aiutava a calmarmi, a far fare al tempo il suo corso, a guardare il tramonto
senza scappare.
“Cara Liliana,
voglio farti una confessione, che ti farà ridere, ma per me è importante: io non ho
vissuto il Natale. Questo Natale che è appena passato.
<Stupido> penserai <solo i bambini vivono il Natale!>
Invece lo vivo anch’io, o forse sono un bambino, chi lo sa!
Da piccolo all’inizio dell’avvento ponevo un calendario con delle finestrelle nascoste.
Ogni finestrella nascondeva un cioccolatino. Da solito impaziente, non resistevo ed il 5
dicembre avevo già finito tutti i dolci. Passo da uomo medio, lo so, ma mi piace tutto
del Natale. Passeggiare stretti per evitare il freddo per il centro. Prendere la cioccolata
assieme. Passare dai rispettivi parenti a fare gli auguri. Darsi indizi sui rispettivi regali,
depistare la persona amata. Mentre scrivo noto che tutte queste cose appartengono al
periodo precedente il Natale, non nel giorno del 25 dicembre in sè. Aveva ragione
Leopardi, l’attesa di un evento crea idealizzazione dello stess; più lo idealizzi, più è
difficile mantenere le aspettative, più ti delude.
Il giorno di Natale vale per me come Capodanno, mi piace essere triste. Camminare
per il paese da solo, mentre tutte le famiglie si riuniscono tra i parenti, ascoltare
Carmen Consoli e la sua poesia. La adoro nell’essere rock anche con una sola chitarra
acustica, la adoro nella sua dolcezza, nella sua rabbia, nella sua dedizione all’arte.
<Rep etra rep etra, is eroum> recita una sua canzone.
<Per arte per arte, si muore>.
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Quest’anno non ho vissuto nulla di tutto ciò, non ho comprato un regalo, non ho dato
indizi, non ho ricevuto indizi. E, cara Liliana, non c’è nulla di più brutto quando devi
convincerti di essere felice solo perché tutti sono felici.
Quando io sto male ho però la presunzione che tutti sappiano che sto male. Fuori dalla
messa di Mezzanotte io volevo gridare a tutti <Cosa fate? Eh?! Cosa fate tutti qui?!
Andate tutti a lavorare, oggi è il 17 settembre, non è Natale, non c’è nulla da
festeggiare!>. Capii che mi avrebbero preso per un pazzo, quindi evitai.
Tutto questo per dirti, anche se non ti interesserà per nulla, che io non ho vissuto il
Natale.
Andrea”
“Caro Andrea,
io non ho vissuto il Natale, non avevo il coraggio di dirlo a nessuno.
Ora posso farlo.
Grazie.
Inoltre mi sono trasferita qui a Carugate da poco, vengo da molto lontano, ho
pochissimi amici, pochi parenti.
Sono scappata da un dolore immenso ma ho capito che, se il dolore è dentro di te,
puoi anche andare in capo al mondo ma te lo porterai dietro, sempre e comunque.
Se il dolore invece è causato dalla tua staticità, o dalla vita che questo luogo ti obbliga
a fare, allora scappa. Se la tua condizione è questa, provaci Andrea, provaci.
Scappa per ritrovarti.
Quando non capisci più gli altri, quando gli altri non ti capiscono più prendi un lenzuolo
bianco e rannicchiati sotto.
Ora sarai spettro agli occhi del mondo.
Ora sarai peccatore e redentore di te stesso.
Ora dovrai rendere conto solo alla tua felicità.
C’è la neve nei miei ricordi,
c’è sempre la neve,
e mi diventa bianco il cervello,
se non la smetto di ricordare.
Liliana”
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Forare
Liliana sembrava la voce della mia coscienza: diceva quello che avevo paura di dire, o
quello che speravo di sentirmi dire.
Chissà se era reale, nessuno l’aveva vista, io non l’avevo mai vista. Magari quei
biglietti erano una mia proiezione.
Pensavo a queste mentre guidavo, direzione Trento, per un concerto.
Ad un tratto Sbang! Sbang! Sentii la ruota posteriore cedere, avevo forato.
Fortunatamente a poche decine di metri vi era una piazzola di sosta. Accostai. Mentre
cercavo il crick, le macchine mi passavano affianco ad una velocità impressionante.
Quando noi andiamo in auto non ci rendiamo conto di andare così veloce, di essere
come schegge impazzite. Provate voi a porvi ai bordi di un’autostrada e dire che le
sensazioni sono le stesse rispetto a quando si è seduti in auto. In tal caso sei scheggia
impazzita ma non te ne rendi conto, non ne hai la percezione. Senti solo silenzio,
calma.
Mi bloccai e in un attimo mi sembrò tutto così chiaro: l’autostrada era la nostra vita da
percorrere, l’auto a tutta velocità era la vita come te la faceva percepire la società
attuale: a tutta velocità con l’illusione di essere fermo.
Io non ce la facevo più, non volevo più fingere, volevo scendere, semplicemente
scendere.
Ripensai a quello che mi aveva detto Liliana e se fosse per puro caso o per magico
destino che avessi fatto queste considerazioni subito dopo le sue parole.
Realizzai che ero assuefatto dal mio malessere.
Quando entri in un ristorante un odoro tremendo di fritto ti pervade. Lo senti. Ti
disgusta. Ma la cena dei tuoi ex compagni di classe è fissata lì. Entri, quasi ti
dimentichi del fritto, che in realtà sta penetrando in te, nel tuo giubbotto, nel tuo olfatto.
Solo la realtà esterna, il freddo pungente del giardino per fumatori ti fa capire che puzzi
clamorosamente ed irrimediabilmente di fritto. Senza quel freddo tu non lo avresti mai
capito e l’aria nel locale ti sarebbe sembrata normale.
Io stavo da talmente tanto tempo ormai in quel locale…nella mia crisi…che credevo
che il fritto fosse l’aria normale…che il non parlare ai genitori o lo scappare da un
locale improvvisamente fossero gesti giustificabili ed ammissibili…avevo bisogno di
quell’aria fresca per capire che puzzavo di fritto…di una realtà, una persona, una
divinità, un luogo che mi facessero capire che non erano comportamenti ammissibili.
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Io avevo bisogno di avere le palle di alzarmi da quel tavolo e di andare a fumarmi una
paglia in giardino, non pensare a chi perdevo ma a cosa stavo per guadagnare.
Io avevo bisogno di scappare.
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Fuga
Finalmente presi una decisione, non era proprio un salpare l’ancora verso il mio futuro,
ma diciamo che era almeno l’ iniziare a sistemare le cime.
Decisi di partire, ogni luogo, ogni amico, ogni via, mi ricordava ciò da cui dovevo
scappare. Se, come solitamente succede, quel “cui” fosse stata una lei, sarebbe
bastato semplicemente evitare quei posti. Il problema che in questo caso il “cui” ero io,
era il mio passato; stavo in sostanza scappando da me stesso.
Rassicurai i miei familiari sulla bontà di questa scelta, presi un’aspettativa a lavoro, due
abiti, quei pochi soldi che avevo e partii.
La decisione sulla destinazione fu immediata: Vieste.
Vieste è il luogo della mia anima e, se la mia anima volevo ritrovare, era soli li che
dovevo andare.
Mi immagino già che se Bossi avesse realizzato il suo progetto, al fiume Po mi
avrebbero fermato alla dogana.
“Buongiorno, passaporto”
“Tenga”
“Motivo del viaggio in terronia?”
“Devo ritrovare la mia anima”
“Benissimo, proceda”.
Decisi di andare in macchina, l’on the road mi avrebbe aiutato a metabolizzare la
pazzia di quella scelta. Sviando i continui accorgimenti di mia madre ed i saluti di molti
amici, troppi…dato che fra essi vi era diversa gente che mi aveva accuratamente
evitato nel mio momento di bisogno…una notte, senza dare nell’occhio, partii.
Prima però una sosta inevitabile:
“Cara Liliana,
sarà caso o destino ma dopo le tue parole sono accaduti dei fatti che mi hanno
confermato la bontà del tuo consiglio.
Parto.
Parto per scavalcare il muro che mi separa dalle mie paure.
Parto per ritrovare il silenzio, per rivedere quel tramonto senza che il tempo mi sia
nemico.
Parto per ritrovarmi e chissà, perché no, un giorno poterti raccontare la mia storia.
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In questi giorni così difficili mi hai donato una speranza, una via da seguire. Ora è
giusto che io la segua da solo, ma non posso non ringraziarti per avermela indicata.
Col cuore,
Andrea”
Ero emozionato ed agitato. Da una parte entusiasta: era la prima vera azione che
facevo io, era la prima volta che uscivo dalle rotaie, che decidevo per me
prendendomene rischi e responsabilità; dall’altra ero inquieto: non sapevo cosa stavo
facendo precisamente. Per assurdo io, uomo calcolatore e re dei calcolatori tra tutti i
calcolatori del mondo, non avevo un piano, un tragitto, una tempistica, uno
scopo…nulla.
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PISTOIA
Per le cose semplici
Il viaggio fu tutto tranne che diretto: dovevo rivedere troppi luoghi che mi avevano
emozionato durante i mesi in tour, ma che allora non avevo avuto il tempo di vivere
appieno.
La prima tappa fu Pistoia, località più famosa per il suo festival blues estivo che per la
propria bellezza. Pistoia è un gioiello di arte, di cibo e di pace incastonato tra le colline
dell’appennino toscano. Soggiornai al “Convento”, un hotel nascosto tra i vigneti e le
colline e ricavato da un ex convento di frati francescani. Vi ero già stato nei viaggi di
lavoro e mi ero promesso di riguastarmi, con la dovuta calma, quella vista notturna ed
impagabile sulla città illuminata.
Il silenzio spettrale iniziava il suo gioco: io, solo con me stesso, o meglio, contro me
stesso. Basta amici, basta aperitivi, basta uscite a distrarmi dal mio non vivere. Ora il
mio mostro era davanti a me e con lui dovevo iniziare a farci i conti. Per forza.
Immagini confuse, ricordi, prospettive: ripensai a mia mamma quando metteva insieme
a me la notte della vigilia il pane e il latte fuori dalla finestra. “Questi sono per le renne
e babbo natale” diceva aprendomi le porte di un sogno notturno. Una volta portatomi a
letto, toglieva il tutto ed il mattino io sbarravo gli occhi dalla meraviglia. Quanto tempo è
passato; bastasse così poco per realizzare un nostro sogno ad oggi, bastasse così
poco.
Ripensai anche al signor Lenoni, un personaggio allucinante conosciuto per lavoro a
Pistoia. Arricchitosi attraverso misteriose mosse finanziarie, Luigi Lenoni era diventato
il magnate del paese ed aveva successivamente aperto un noleggio di auto e barche di
lusso. Con lui passai giorni indescrivibili, dove “indescrivibile” era un aggettivo non
necessariamente positivo. Mangiai in ristoranti in cui avrei dovuto aprirmi un mutuo per
pagare il solo coperto, giravo in Porche e per pranzare si andava a Viareggio in barca
su un settanta piedi. Mi ripeteva sempre: “Noi, Andrea, lè si vive nel lussssssso”, si
cosi con sette esse, “Noi la si è gente speciale, ci si distingue dalla massa, dalla gente
normale, al mattino io mi scelgo la macchina in tinta col colore dei calzini!”. E ancora:
“Quando vedo el mio figliolo che alla sssera le ritorna a cccasa su un bel Ferrarino…io
mi sento veramente un uomo soddisfatto”.
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Più ricordavo quei discorsi e più capivo che per risolvere il mio malessere io ero già a
metà dell’opera grazie alle mie origini, pure, semplici, umili.
Le file alla posta, il saluto al fruttivendolo del paese, la passeggiata in piazza erano
cose di cui lui probabilmente ignorava persino l’esistenza. Per risolvere il mio dilemma
io stavo scappando in un posto ancora più umile di quello in cui avevo vissuto, se fossi
stato uno della gente speciale l’avrei risolto (???) con una riga di bamba ed un week
end a Montecarlo.
Stetti fino alle quattro del mattino circondato da quel silenzio e quelle stelle, ubriaco di
costellazioni e pensieri sconnessi.
Al mattino pagai il conto e ripartii, sulla strada confinante con l’uscita dalla cittadina,
fermo ad un semaforo, mi sentii toccare sul finestrino. Lenoni. Dopo 2 anni che non lo
rivedevo.
“O bischerooo!! E che tu ci fai nel mio regno??”
“Ciao Luigi, sto ritrovando la mia anima”
“O che tu dici??!! Ma queste droghe sintetiche del giorno d’oggi fanno male nun lo
sssai? Vieni da me in barca a Viareggio che c’ho dù bimbe (in toscano bimbe è il
termine per indicare le ragazze, per non creare equivoci a sfondo pedofilo) che vedi
che te la ritrovano loro l’anima oh crucco!!”
“No, grazie, Luigi, faccio da ssolo”
“Vabbbene oh bischero, ci si incontra ancora, e ricorda che la gente speciale la
sssiamo solo noi!”
“Ma quale gente speciale, ma quale. Eh… quale? La gente speciale è chi si alza alle
cinque del mattino e si fa un culo così, è chi perde una lacrima dagli occhi mentre il
proprio figlio pronuncia la prima parola, è chi si suda qualunque cosa si guadagna, è
chi si emoziona per un’alba, è chi piange di gioia per un bacio sotto la pioggia, è chi
ascolta la propria madre, è chi fa crescere i propri nipoti senza lamentarsi mai mentre
questi urlano pisciano strillano e cagano tutto il pomeriggio, è chi rispetta se stesso
prima ancora di rispettare gli altri: quella è la gente speciale”.
Volevo dirgli queste cose, ma tanto non avrebbe capito. Rimasero urla silenziose nel
mio cervello confuso, quindi sgommai e ripartii. Ma capii, in cuor mio, che era da quelle
cose che dovevo ricominciare a vivere: dall’emozionarsi per ciò che la vita mi aveva
donato: per le mie mani, per i miei pensieri, per un temporale in mezzo al mare.
Per le cose semplici.
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NAPOLI
Rattenuto
La mia prossima destinazione sarebbe stata Napoli.
Napoli: calore ed ingiustizie, meraviglia e degrado, affetto e camorra.
Napoli, contraddizione innata.
Il golfo che si scorge dall’autostrada sembra un immenso abbraccio pronto ad
accoglierti; mi sentivo più sicuro, protetto.
Avevo scelto il soggiorno presso un hotel affacciato al lungomare: il mare, il mare!
Finalmente vedevo il mare, moto perpetuo, instancabile, affascinante nella sua
costanza. Posai la borsa in stanza e mi diressi subito verso un castello, di fronte
all’hotel, che si spegneva con un piccolo porticciolo tra le onde del Tirreno. Mi diressi
proprio verso il porto, sistemandomi su una panchina. Chiusi gli occhi. Riuscivo a
vedere lo stesso il sole intenso, il calore sulle mie palpebre chiuse. Sentivo il vento,
fresco sul mio viso. Odoravo la salsedine. Aprii le braccia, scappai via con la mente. Il
mio corpo era li ma la mia mente era da tutt’altra parte, ingabbiata tra sensazioni
contrastanti: la libertà che la natura mi stava facendo riassaporare, dopo tanto, troppo
tempo ed i ricordi che quel porto mi faceva riaffiorare. La barca, la sua passione per la
barca, il mare, la navigazione.
Mio padre ed io abbiamo sempre avuto questa passione, lui con grandi sforzi ha
messo da parte i soldi per acquistare una piccola imbarcazione che ormeggia nel porto
di Vieste e che d’estate usiamo per le nostre gite a ridosso della costa. Quella barca è
il mezzo, il braccio per riassaporare la magia di quel luogo ogni estate, ogni anno.
Una magia perpetua, proprio come il movimento del mare.
Questo porto mi ricorda mio padre, mio padre mi ricorda la mia assenza, la mia
assenza mi ricorda la mia crisi. Perché quel porto in quel castello? Perché quel mare
immenso e libero lì accanto? Pensai che poteva essere un segnale, un primo segnale:
lo scontro tra la mia prigione e l’orizzonte più libero, più infinito.
E la barca non era altro che il collante tra i due mondi.
In passato la barca era il mezzo attraverso il quale mio padre mi mostrava le grotte
magiche, in cui un fascio di luce dava vita a mille sfumature. Ammiravamo le coste
imperiose del Gargano in cui gli alberi, sfidando la natura, nascevano tra le rocce più
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dure a venti metri dall’acqua e il vento, nei decenni, li modellava a sua forma e
piacimento.
Ora la barca era il simbolo del contrappasso, del mio male, era il ricordo di mio padre
davanti a quell’immenso blu.
Come era possibile che lo stesso oggetto fosse mandante di due messaggi così
opposti? Come? Ma la barca è anche l’unico mezzo che permette di attraversarlo quel
mare e chissà che sarebbe stato in futuro il mezzo che mi avrebbe permesso di
ritornarci…a quella libertà.
Iniziavo a capire l’utilità di questo mio viaggio: mai e poi mai a Milano, tra impegni a
domino l’un tra l’altro, sarei riuscito a fare questi pensieri. Serviva quel sole delicato
sulle mie palpebre chiuse, serviva quella linea indecisa a separare il blu intenso del
mare dall’azzurro pallido del cielo. Serviva scappare. Per scavarmi dentro. Ed io ero
scappato. E io mi stavo scavando.
Mi alzai e feci un giro per il centro della città. Le viuzze erano stipate di venditori
ambulanti di ogni cibo ed oggetto immaginabile: dalle vongole ai vestiti, dalle
sfogliatelle ai televisori. Notavo che, pur essendo solo le tre di pomeriggio, tutte le
famiglie erano in giro assieme: mamma, papà e figli. Presumo che nessun milanese
abbia mai fatto una passeggiata con i propri genitori alle ore 15 di un giorno feriale.
Non mi addentro nel fatto che quei padri fossero in giro non per loro scelta ma per
l’inguaribile problema della mancanza di lavoro nel sud Italia, ne rimango ben fuori.
Dico solo che quella scena trasmetteva in me sensazione di libertà, vacanza,
cioccolata la vigilia di Natale; e che quella era l’unica sensazione, in quel momento, di
cui avevo vitale bisogno.
Mi avvicinai nella zona dei quartieri spagnoli, cerchia ben nota per le vicende che
riguardano la criminalità organizzata. Ricordai una scena surreale vissuta proprio in
quel quartiere con i Negramaro. Dopo un concerto al teatro Augusteo di Napoli ci
recammo con il furgone che solitamente trasportava la band verso una pizzeria che era
stata scelta per la cena al termine del concerto. Nessuno di noi conosceva Napoli,
quindi segnammo l’indirizzo sul navigatore satellitare e seguimmo le indicazioni.
Nessuno di noi sapeva che ci stavamo addentrando nei famigerati quartieri spagnoli.
Le vie iniziavano ad essere sempre più strette, le curve sempre più a gomito.
L’incombenza del nostro mezzo non ci aiutava di certo a divincolarci in quelle strade.
Ad un certo punto, infatti, ci incastrammo letteralmente in una curva che definirla a “u”
era un eufemismo. Completamente bloccati, non potevamo andare né avanti, né
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indietro. “Bene” pensai “manteniamo la calma!”. Calma che non fu assolutamente
mantenuta quando si avvicinò davanti a noi una macchina. Lampeggiò due volte i fari
abbaglianti, poi si fermò. Uscirono due energumeni che sembravano arrivati
direttamente dal set di Romanzo Criminale. Capelli con la riga laterale, dolcevita
marrone su giacca di pelle nera e Rayban appesi a vistose collane d’ oro luccicante.
Il sangue mi si gelò. Tentai di capire il da farsi: guardai il satellitare: “nessuna posizione
rilevata”; guardai il cellulare “nessun segnale”; guardai il cielo e iniziai a recitare il
Padre Nostro. Si avvicinarono con passo lento ma sicuro. Ci invitarono a scendere.
“Che modo alternativo di morire” pensai, ormai rassegnato. Uno dei due disse: “Ma Vù
siit u cantanti dù Negramarr?”
“A parte che, gentile signor Romanzo Criminale, al massimo lei dovrebbe usare il
termine singolare: il cantante in quanto in un gruppo musicale solitamente il cantante è
uno solo” pensai, ma chiaramente non dissi.
Tutti, all’unisono, facemmo un gesto affermativo con la testa.
“Beh..allurr..faciteme nà firma, che mia figlia va pazza schiattata pà vvui” disse uno dei
due.
“Ma vafff…” credo che con il sospiro ti sollievo che tirai avrei potuto spegnere l’incendio
del secolo, altro che lo scoiattolo della Vigorson.
In un nanosecondo fornii ai ragazzi carta e penna, credo che per loro quello resterà
uno degli autografi più lieti in carriera.
“Moh scustatevvè, pà à cortesia vi tolg ù mezzo da stu impicc” disse lo stesso. Non ci
potevo credere, l’uomo apparentemente più malavitoso della storia della camorra
napoletana ci stava spostando il furgone incastrato! Con un gesto energico scostò
Francesco, l’autista, dalla portiera, salì e con due rapide manovre riportò il
monovolume in carreggiata.
Credo che in vita mia non assisterò mai più ad una scena così surreale.
Quella sera decisi di tornare a cena nello stessa pizzeria in cui fummo ospiti con la
band. Ricordavo la conduzione familiare, le pareti in legno, respiravo nell’aria la
difficoltà di mandare avanti un’attività in un luogo cosi difficile mista alla forza,
all’unione familiare, al calore di un abbraccio.
Era una sera feriale, il locale era praticamente vuoto. Una radio, in sottofondo,
trasmetteva una musica country, decisamente incoerente con il luogo: offriva un senso
di spaesamento, di astrazione: mi fermai un attimo a riflettere sul potere immenso della
musica. Crea in noi visioni ed ambientazioni che da soli non potremmo mai
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raggiungere. Chi avrebbe mai pensato ai cowboy texani in mezzo ai quartieri spagnoli
a Napoli?!
Ed invece, eccoci qui: sospesi su una nuvola, dilatati nel tempo e nello spazio.
Il proprietario mi fece subito accomodare; dei ristoratori napoletani mi ha sempre fatto
sorridere l’eleganza, quasi goffa, con cui si presentano ai clienti con gesti come
l’inchino od il linguaggio forbito in un perfetto italiano rapportato poi ai dialoghi che si
sentono in cucina in un dialetto che si avvicina quasi ad una lingua straniera, tanto è
stretto ed incomprensibile.
Mentre cenavo, notai una scena che mi colpì: nel tavolo accanto al mio, il padre del
proprietario stava insegnando al nipote il gioco della scopa. L’anziano signore
sembrava appena uscito da una cerimonia regale: giacca, doppiopetto e camicia linda;
una coppola in testa nascondeva parzialmente il suo viso rugoso, quasi a volerlo
proteggere. Il nipote, che non avrà avuto più di dieci anni, era impressionante: una folta
chioma di capelli ricci neri copriva un viso dalle espressioni decise, ferree, quasi
consolidate. Sembrava di vedere gli atteggiamenti di un quarantenne dentro il corpo di
un’adolescente. Pensai che quel viso fosse l’espressione concreta di come in quei
posti sei obbligato a crescere in fretta, la faccia tosta è quasi un obbligo.
Anche per vincere una partita a pallone tra i vicoli.
In quel momento il mio pensiero scivolò indietro negli anni, al mio caro nonno Angelo,
l’unico dei quattro nonni che conobbi. La sua dedizione a me, immensa, era
inversamente proporzionale alla sua statura, minuta. Gli occhi azzurri, come il mare più
limpido, erano un’oasi di pace per me fanciullo, spaventato dalla vita che mi poneva
davanti a sempre maggiori ostacoli.
Nonno Angelo si prese cura di me per tutto il periodo delle elementari. Era un po’
nonna, quando mi cucinava per pranzo, era un po’ padre, quando mi insegnava ad
andare in bicicletta, era un po’ madre, nell’aiutarmi a svolgere i compiti.
Era un punto di riferimento, quando mi aspettava alla fermata del bus scolastico.
Era il calore della serenità, quando dal vetro opaco del forno guardavamo insieme la
spuma di patate lievitare.
Era la severità inesistente, quando lasciava correre situazioni in cui ero palesemente in
torto.
Nonno rifiutò ogni ospedale, orgoglioso e testardo; se ne andò nel letto di camera sua
e l’ultima frase che disse fu a me, sussurrandomi: “Fai il bravo”.
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Caro nonno, se io ora mi ritrovo dalla parte opposta d’Italia, solo, incapace di amare,
incapace di parlare ai miei genitori, non so se ho mantenuto la promessa, non lo so.
Anzi, credo proprio di no.
Pagai conto ed uscii.
Perché mi trovavo qui, sia nel luogo che nella mente? Come ci ero arrivato?
Come in una storia di amore, non ti accorgi mai che stai arrivando alla fine, quando dai
quello che sarà l’ultimo bacio non sai mai, in quell’istante, che quello sarà l’ultimo
bacio. In egual modo, io mi ritrovavo in crisi non sapendo nemmeno come e perché ci
fossi entrato. Io avevo incrinato la storia d’amore con me stesso. Ma se in una storia a
due puoi incolpare l’altro di atteggiamenti sbagliati, in questo caso il conflitto nasceva e
non usciva da me.
Io ero vittima e carnefice del mio male.
Ritornai al porticciolo, sarà per i pensieri della serata, sarà per l’oscurità ma quel luogo
non mi dava più così tanta sicurezza. Sentivo il rumore delle onde, ma non le vedevo.
Non vedevo ma sentivo. Sentivo ma non vedevo.
Quel mare eri tu, oh mia paura.
Ti sentivo, ti sentivo, eccome se ti sentivo. Ti sentivo talmente bene che non rivolgevo
più alcuna parola a nessuno dei miei cari, ti sentivo talmente bene da fuggire per
ottocento chilometri.
Ma non ti vedevo, non ti vedevo assolutamente. Eri nascosta nei miei silenzi, nella mia
malinconia. Avevi mille forme, proprio come un’onda; e quando pensavo di averti vista
e capita, tu cambiavi forma ma mantenevi intatto lo stesso dolore.
Mi ci volevo buttare in quel maledetto mare, ma la logica paura di buttarsi a gennaio in
acqua di notte era la mia implicita paura di affrontare quel dolore.
“E buttati” dicevo “cosa aspetti, codardo, buttati. Cazzo…buttati!”
Il codardo, da buon codardo, se ne tornò invece in albergo.
Quella notte feci un sogno, erano diversi mesi che non sognavo.
Sognai nonno Angelo.
Era in forma, solito vestito grigio della domenica. Camminavamo nel suo orticello,
quello che per anni, con una dedizione certosina, aveva curato ed amato. Ricordo
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quando da piccolo mi “interrogava” chiedendomi se ogni ramo di piselli o di carote
fosse pronto per il raccolto od ancora troppo acerbo.
Mentre camminavamo, notavo però che l’orto era trasandato, irregolare e pieno di
erbacce. “Da quando me ne sono andato io, qui è un disastro” furono le sue prime
parole.
Dopo uno dei suoi soliti sospiri, iniziò un monologo praticamente ininterrotto: “Queste
piante sono come delle splendide figlie, da curare, adorare, sgridare, crescere,
indirizzare. Guarda, persa la loro guida, hanno perso il loro splendore. Solo la natura
potrà dirci se ora la situazione sarà o meno rimediabile. Solo il destino ridarà vigore o
toglierà la vita”. Per la prima volta in vita mia notavo in lui uno sguardo cupo, che
divenne quasi aggressivo quando smise di guardare il sentiero e mi fisso negli occhi.
“Tu stai buttando via il frutto più bello, Andrea, che è la vita. Tu non riesci più a
emozionarti per una tazza di the presa con la tua famiglia una domenica pomeriggio,
non hai più gli occhi lucidi per il silenzio di una valle incontaminata, o per una serata
con i tuoi amici.
E questo perchè? Perchè? Perché una ragazzina ti ha lasciato? E chi sta male
veramente cosa dovrebbe fare, spararsi? La cosa che mi fa imbestialire è che tu stai
buttando via la tua vita e non hai nemmeno un motivo valido, un pretesto per farlo.
Ricomincia dal basso, dal piccolo e se hai bisogno di aiuto, diamine, chiedilo! Quante
volte ho aiutato queste piante, quante volte da sole non ce l’avrebbero mai fatta.
Sii umile, ammetti il tuo dolore ma non solo a stesso come stai facendo ora, ma anche
agli altri, solo cosi potrai vincerlo.”
“Ora devo andare - disse - chiama la mamma.”
“Cosa?” dissi.
“Prendi quel telefono e invece di aspettare la chiamata di chi non ti merita chiama la
mamma, e chiedile aiuto. Abbi cura di te, figliolo” e sparì nel sentiero.
Mi era arrivato addosso un treno, si dice che quando si assiste ad un fatto
sconvolgente, nei primi istanti annulliamo quella visione, la cancelliamo, la evitiamo.
Non capivo se ero frastornato nel sogno o nella realtà, se fossi sveglio o stessi ancora
dormendo.
Quella notte non chiusi più occhio, il sogno era stato come uno scossone, una doccia
ghiacciata, una visione nuova della stessa vita precedente. Volevo chiamarla subito,
mia madre. Volevo chiamarla dopo settimane, forse mesi, che non lo facevo
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spontaneamente. Nel cuore della notte, però, si sarebbe spaventata. Quindi all’alba
andai a fare una passeggiata sul lungomare e lo feci.
La conversazione fu stentata, emozionata, rattenuta, che può considerarsi come un
unione di “rattrappita” e “trattenuta”.
Era un inizio, è normale che non potesse essere agevole. Poche frasi di circostanza
“Come stai?”, “Che tempo fa?”, ma non era importante il contenuto di quella telefonata,
l’importante era…farla, quella telefonata.
Grazie, nonno.
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VIESTE
Sgarbugliando la grande matassa
Di prima mattina mi misi in viaggio nel miracoloso intento di attraversare l’Italia in
“orizzontale” per giungere fino a Vieste. All’altezza di Cerignola uscii dall’autostrada e,
allungano il percorso, feci tutta la statale 89 che da piccoli chiamavamo l’ora di curve.
La statale 89 è un insieme infinito di curve poste su uno strapiombo adiacente
all’Adriatico ed immerso nel verde del Gargano.
Da lì si può ammirare la conformazione unica della zona, con gli alberi che quasi
sfidano il destino nascendo dalla roccia verticale a pochi passi dal mare.
Era l’inizio della mia terra, di una serie di flashback annebbiati dal tempo ma comunque
vivi e nitidi dentro di me. Durante quel tragitto, mia madre ci impediva di leggere,
mangiare, dormire. Praticamente un regime. Sguardo fisso sulla strada per evitare di
rimettere.
Giunsi sulla vallata che offriva la prima visione di Vieste da lontano.
Quella lingua di terra che muore nel mare con la chiesetta di San Francesco sulla
punta, quello scontro fra civiltà e natura con Dio in mezzo quasi a farne da paciere…mi
offrì un brivido lungo la schiena.
Non posso farci nulla, sono ventisei anni che vedo quei posti, che ormai conosco a
memoria, ma ogni anno è come se avessero sfumature diverse tali da regalarmi nuove
emozioni.
Decisi di soggiornare nel nostro appartamento che usiamo per l’estate, molto meno
comodo rispetto all’hotel, ma immensamente più ricco di ricordi, istanti, emozioni.
La casa era chiaramente da sistemare, non pronta per un soggiorno. Ricordo che
quando ero piccolo e giungevamo dopo dodici ore di viaggio, mia madre organizzava
immediatamente una divisione dei compiti a dir poco staliniana che seguiva il seguente
ordine:
- bagagli da togliere dall’auto;
- bagagli da portare in casa;
- aspirapolvere da passare;
- posate ed oggettistica varia da lavare;
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- tavolo esterno di 400 kg da spostare;
- serramenti della veranda da montare;
- aghi di pini del vialetto da raccogliere (che se, scusate, i punti precedenti erano
necessari per una minima sopravvivenza, ditemi voi che cazzo di fastidio dessero
all’umanità gli aghi di pino sul vialetto!).
Immancabilmente io tentavo di sottrarmi a questa gestapo con la scusa di andare a
salutare gli zii ma, tempo sette minuti diciamo otto al massimo, venivo inesorabilmente
richiamato all’ordine.
Questa volta, conscio della mia libertà, non feci assolutamente nulla di tutto ciò.
Al contrario, mi presi una sdraio, una birra e mi misi a guardare il tramonto calante
sulle colline.
Tramonto fuoco, tramonto impietoso, tramonto delicato, tramonto accogliente.
Era il benvenuto che Vieste mi dava. “Ricambio, cara Vieste”, dissi.
E feci cin cin col sole.
Capivo che mi stavo riappropriando del mio tempo, ogni giornata aveva densità in
quanto mi lasciava qualcosa. Di Pistoia ricordavo la semplicità della vita, di Napoli la
stella eterna dei miei nonni e l’umiltà nel riuscire a chiedere aiuto.
Proprio come con Claudia, ma a differenza di allora dove tentavo io di renderle ogni
giorno indimenticabile, ora cercavo di rendermi ogni giorno indimenticabile: era un
regalo che facevo a me stesso.
Era, forse per la prima volta nella mia vita, far partire un gesto di amore che ritornava
solo ed unicamente a me. Un circolo d’amore finalmente virtuoso.
Nessuno lo avrebbe calpestato o lodato, non avevo più alibi, non avrei più potuto
accusare nessuno di non proteggere il mio amore.
Da quel momento se fossi stato felice, sarebbe stato solo per merito mio; se fossi stato
triste, il problema si sarebbe annidato unicamente in me.
Ero sempre più dentro me stesso. Stavo rompendo tutto pezzo per pezzo, come se
fossi una persona fatta di mattoncini Lego. Toglievo, toglievo, toglievo. Era come se
sotto, soffocata, schiacciata da tutte queste cose, ci fosse la risposta. Sentivo che
eliminare e togliere era la strada giusta. Annullavo sempre di più quell’essere me
stesso che in fondo non era il mio vero io.
Ormai avevo visto, e non potevo più fingere!
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Ero entrato nella grotta dove c’erano le mie paure, i miei fantasmi e li sfidavo.
Cominciavo veramente a conoscermi e a capire quanto tutto questo fosse collegato: il
mio rapporto con la famiglia, gli amici, il lavoro, le donne.
Tutto era intrecciato, ma ora stavo finalmente sgarbugliando la grande matassa.
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L ’ architiello e la gabbia d’oro
La casa è collocata sulle colline del Gargano, ad una decina di chilometri da Vieste.
Scesi in macchina verso il paese quando, sulla destra, notai l’architiello.
L’architiello è un arco di roccia che si erige sul mare ed irrinunciabile meta estiva dei
turisti. Negli anni ottanta realizzarono anche uno spot dei “Baci perugina” su quel
fondale.
Un ricordo mi richiamava lì. Parcheggiai e scesi a piedi fino a raggiungerlo. L’anno
prima io e Claudia, passandoci sotto con la barca, ci eravamo promessi amore (?)
eterno (??).
Claudia, Claudia. Quanto sarebbe rimasta delusa se, entrando una notte nei miei
sogni, si fosse accorta che io non ho mai provato per lei quell’amore totalizzante,
estremo, che ti fa tremare le gambe dalla felicità.
Amavo la sicurezza che la nostra storia mi offriva, non amavo la nostra storia.
È mostruosamente diverso.
Amavo chiederle come era andato un esame, amavo passare da lei la sera, amavo
l’accoglienza della sua famiglia, cercare sorprese, organizzare viaggi, dare densità ad
ogni istante.
Mi resi conto che amavo i gesti che partivano da me; non ho purtroppo percezione,
calore, ricordo dei suoi gesti giunti a me. Sarà spavalderia o prepotenza ma in quella
“casella” di memoria ho un desolante vuoto.
Ho peccato, lo ammetto. Recito alle onde la mia colpa.
Ma, chiedo io, quante storie nate a diciassette anni arrivano ad una stabilità pressoché
definitiva? Due su cento? Tre su cento? Non di più. E siamo sicuri che negli altri
novantasette casi non fosse vero amore? Non lo so. Forse è vero amore ma un’età di
continui cambiamenti, insicurezze, il passaggio dallo studio al lavoro ed il sapore della
libertà fanno perdere la direzione.
Ed, al contrario, quante storie nate a trent’ anni arrivano al matrimonio? Settanta su
cento? Più o meno. Ma chi mi dice che l’amore di queste settanta coppie è più vero, a
prescindere, di quello delle novantasette “vittime” dell’esempio precedente?
“A trentanni anni sei più maturo, ragiona, immaturo scrittore” penseranno i più. La mia
risposta sarebbe: il mio lavoro mi permette di conoscere molte persone, molte storie,
molti racconti. Ed io, cari lettori, ho visto cose che voi umani non potete nemmeno
immaginare.
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Ho visto uomini aprire un mutuo dopo 1 mese e mezzo di fidanzamento per poi dire
“adesso si che sono felice, quando tutti sapevano che non ero fidanzato venivo visto
come un emarginato”. Ho visto persone avere la fretta dipinta nei loro occhi, fretta di
dimostrare a genitori, amici, parenti che anche loro si stavano “realizzando”.
Questo è il modello che impone la società: R-E-A-L-I-Z-Z-A-R-S-I. E tu, anche se ti
ostini a fare quello alternativo contro i modelli di massa (come tutti quelli che dicono ”io
non lo guardo SanRemo” ma chissà perché poi il festival fa sempre venti milioni di
ascoltatori; o trovassi uno che ammette di andare a vedere i film di natale di DeSica
ma, chissà perché, DeSica fa sempre venti milioni d’euro di incasso) inconsciamente
assorbi quel modello e ti adoperi per realizzarlo.
Uno dei punti cardinali di questo modello, insieme al lavoro, la sicurezza economica e
la casetta col giardino è, chiaramente, una compagna.
Una compagna, attenzione, non la compagna.
Mesi fa ero in centro con Daniele e ci fermammo, per un’analisi socio demografica
della società alta borghese, al “Sant’Ambrous”, il bar più famoso di Milano, il bar da
“cioccolata con panna 15 euro grazie” per intenderci.
Ci sedemmo e Dani mi fece notare come nessuna, e giuro nessuna, delle
coppie/famiglie che ci circondavano stesse colloquiando. Sembrava una candid
camera, tutti inesorabilmente zitti.
In quell’istante ho rivisto, con duemila euro in meno nel portafoglio, me e Claudia in
quelle coppie e ho capito che anch'io ero entrato in quel gioco suicida.
“Ho vissuto tanti anni in una gabbia d’oro,
si..forse era bellissimo…
ma sempre in gabbia ero!”
recitava una canzone dal mio i pod mentre guardavo l’oscurità delle onde.
Diploma, fidanzamento, laurea, lavoropostofissoindeterminato, matrimonio,figli.
Non si scappa: questo è il modello.
Il guidatore del tram: ebbene si, a volte mi sento il guidatore del tram. Il guidatore del
tram pensa di guidare il tram, ma in realtà il percorso è già impostato, può solo
accelerare o decellare. Possiamo solo decidere se cazzeggiare un anno in più
all’università e laurearci un anno dopo, ma sempre laurea è! Possiamo decidere di fare
la pazzia e sposarci a venticinque anni o a trentacinque, ma sempre matrimonio è.
Il percorso è già impostato, e tu lo DEVI seguire.
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"Beh se le carte in tavola stanno così" pensavo "se io avrò una moglie non perché lo
voglio ma perché devo, io mi alzo dal tavolo da gioco, cordialmente saluto tutti, mi
allontano con uno svolazzo di smoking e mi trasferisco qui eremita a coltivare olive in
collina per tutta la vita".
“Cara Claudia,
noi eravamo il sistema. Noi eravamo la paura di passare un week end intero da soli a
leggere un libro davanti ad un camino acceso. Noi eravamo l’impossibilità di ascoltarci
dentro noi stessi.
Perdonami, per favore, se non me ne sono accorto prima.
Attenta, tutto questo non è il triste rinnegare solito al termine di ogni storia. Mai lo farò,
e sempre sarò orgoglioso di essere stato il primo a vederti “innamorare dell’amore”.
Non giudico se la tua nuova, immediata, storia sia il rientrare nel sistema o meno, ti
augurò di no, ma questo lo sai solo tu, in fondo al tuo cuore.
Ma ora io devo andare, devo scendere dal tram. Ho voglia di guidare a piedi, di
sbagliare, di perdermi nella notte, di sbattere la faccia ed imparare dalla mia
imprudenza.
Non ti auguro ogni bene come si dice in questi casi ma ti auguro, con i tuoi tempi e le
tue scelte, di avere anche tu il coraggio di scendere da quel tram, da quella gabbia
d’oro, che è sì d’oro, ma sempre gabbia è.
Col cuore,
Andrea”
Presi il foglio scritto e lo infilai in una bottiglia di vetro che avevo con me.
Mi alzai e la buttai proprio lì, nel mare dove ci eravamo promessi eterno amore.
E sentii, per la prima volta, che l’eterno amore lo stavo donando a me stesso.
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San Francesco, la mancanza di lucidità e l’ingordigia
Alba. Alba di fiori. Alba di rugiada. Alba di vacanza. Alba di caffè.
Quando ero piccolo, il risveglio in questa casa aveva un sapore agrodolce. Sapevo
infatti che mi sarebbe aspetta una giornata di mare, sole e giochi con i miei amici
(dolce) , ma prima mi aspettava l’immenso, insuperabile ostacolo dei…compiti! (agro).
Mia madre, da brava maestra, non si perdeva una virgola, sapeva tutto quello che
dovevo fare, per diamine pareva saperne più della mia maestra stessa.
Non si sgarrava, quindi erano prima i brevi pensieri delle elementari, poi le lezioni di
scienze delle medie, fino agli studi di funzione del liceo. I compiti hanno sempre
scandito ogni istante della mia adolescenza, ogni vacanza, ogni inverno, ogni estate.
In ogni ambito in cui ero impegnato, dalla scuola alla musica, ho vissuto la costanza
sempre come un obbligo, mai come una causa nata da un mio interesse di fondo.
Ricordo che un anno il professore di chitarra mi diede da svolgere ogni giorno cento
volte la scala di Do maggiore. Mi sistemavo sul retro della casa, sotto un sole battente
ed incominciavo: do-re-mi-fa. Lentamente, poi sempre più velocemente.
Cento sante volte ogni santo giorno. Mio cugino, che aveva la finestra al piano di sopra
e che probabilmente si era coricato solo un paio d’ore prima dopo l’ennesima notte di
bagordi, batteva ogni mattina alla finestra imprecando: “Allora! Basta! Almeno cambia
tonalità!!!”
Ripetei quella scala cento volte per sessanta giorni, uguale seimila volte, la facevo
ormai ad una velocità impressionante.
Quando a settembre il professore disse “Bene, fammela sentire” partii e, alla quarta
nota, mi inceppai. Nooo.
Non sono mai stato lucido nei momenti decisivi della vita.
Non sono mai stato lucido nei momenti decisivi della vita.
Non sono mai stato lucido nei momenti decisivi della vita.
Non sono mai stato lucido nei momenti decisivi della vita.
Ripetei nella mente questa frase lasciando cadere la tazzina di caffè dalle mie mani
che si ruppe a terra in mille pezzi.
50
Questo era un momento decisivo della mia vita e io non riuscivo a venirne fuori perché
non ero stato lucido. O meglio, non ero stato lucido fino alla partenza di questo viaggio.
Il professore che mi guardava in attesa dell’esecuzione del brano era il muro che io
trovavo in me quando mia madre mi chiedeva di parlare. Ed io perché non affrontavo
quel muro? Non per paura od insicurezza, ma per mancanza di lucidità. Non mi
astraevo, non guardavo la situazione da fuori ma continuavo a dire “sarà per la
prossima volta” e intanto distruggevo il rapporto, goccia dopo goccia, con i miei cari.
Che stupido!
Dovevo andare là ora, immediatamente, bisogno primario, boccata d’ossigeno dopo
minuti sott’acqua.
San Francesco. Primo pomeriggio. San Francesco è la chiesa sulla punta di Vieste.
Vieste si presenta come una spada che saluta la terra ferma per morire nel mare. La
città nuova alle spalle, la città vecchia circondata dalle onde.
San Francesco è l’ultimo saluto che il paese dà al mare, prima di abbandonarsi a
quell’immenso.
Attraversai di corsa tutte le stradine della città vecchia, luoghi in estate accalcati di
gente ed ora sorprendentemente nudi. Quelle vie sembravano più larghe, come una
stanza priva degli abituali mobili.
Correvo, correvo, correvo. Qualcosa, qualcuno mi richiamava là. Non sapevo cosa ci
fosse, ma correvo come quando sai che manca poco ad un esito, come quando
acceleri il passo tra i corridoi dell’università per arrivare alla bacheca che espone i
risultati del tuo esame che hai preparato chiudendoti un mese in casa.
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Giunsi alla chiesa, la costeggiai ed arrivai ad un prato incontaminato: l’ultimo, vero,
saluto che la civiltà lasciava alla natura.
Mi appoggia ad una roccia per riprendere fiato.
“Oh, si prop fuoor alenamend” – giunse una voce da pochi metri più in là.
Era un pescatore che, con la solita indifferenza mista a curiosità dei pugliesi, attaccò
bottone.
“No guardi, signor pescatore, sto rincorrendo la mia anima” – stavo per dire. Ma capii
che questa frase avrebbe comportato ulteriori spiegazioni se non derisioni, quindi
sorrisi e mi voltai.
“Nui sim dei tendador” – riattaccò.
“Cosa?!” – dissi io. Essendo fuori allenamento con il dialetto locale avevo capito: “Noi
siamo dei terroristi” e già mi immaginavo i branzini imbottiti al tritolo preparati da Al
Qaeda.
“Noi – siamo – dei – tentatori” ripeté in italiano, scandendo le parole come se fossi io
ad essere tra i due quello che non parlava l’italiano.
Era un signore anziano, le rughe profonde erano il segno del tempo scavato sul suo
viso. Ma i suoi occhi erano sereni, puri, schietti.
“Noi siamo dei maghi, degli illusionisti” proseguì “Vendiamo finzione alle nostre prede
per attirarle.
L’esca è il richiamo. Il pesce saggio la ignora, il pesce ingordo ci casca.
Più l’esca è fatta bene, più sfidiamo la loro arguzia.
Fino ad arrivare all’esca vera, che è la contraddizione totale, perché il tuo pane diventa
l’anticamera del tuo dolore.
Non scendere mai sotto l’ accontentarti, non salire mai sopra l’ingordigia, solo così
sopravviverai.”
Rimasi a bocca aperta. Non perché volessi vedere una metafora in tutto, ma
quell’uomo mi aveva sbattuto in faccia il mio errore. L’ingordigia di pane.
E il mio pane era l’amore.
Io volevo essere un punto di riferimento per tutti, io volevo dare le migliori
soddisfazioni nella vita ai miei genitori, io volevo essere il trascinatore della
compagnia.
Io volevo, io volevo, io volevo.
Ma ho ceduto in tutto, ho peccato in ogni cosa.
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L’ingordigia, chi è ingordo alla fine perde.
Il surfista che sfida l’onda impossibile cade;
l’amico che ha voluto dare sei esami in un semestre deve ancora laurearsi, mentre tu
lavori da tre anni;
lo scalatore finanziario ora è in galera;
chi ha sfidato il troppo amore oggi ha perso.
L’ingordigia, mista alla mia mancanza di lucidità, mi aveva fatto perdere la concezione
dell’umile, l’emozionarsi per il poco, l’addolcirsi per il medio.
Per me una cena in famiglia in settimana non era più nulla perché io puntavo al top, a
portare la ragazza a Parigi, ma quanti avrebbero pagato per quella cena perché oggi
possono solo sognarla?!
Tutto nella mia mente si stava aprendo, riassettando, chiarendo.
Il cielo invece si stava improvvisamente coprendo! A Vieste è così, sarà che è esposta
ai venti, ma il tempo cambia con una velocità incomprensibile.
Nel giro di pochi minuti il cielo era diventato nerissimo. Il vento piegava i rami
fischiando come una stridente melodia, il mare insorgeva come un padre severo.
“Riparati figliolo” disse il pescatore, ritirando in gran fretta la sua attrezzatura.
Io invece sentivo la pace.
Estate, spiaggia al tramonto, la gente rincasa, il mare ti culla, il gabbiano ti saluta, tu
leggi un libro e non sai se è più magico ciò che leggi o quel che ti circonda.
Io ora mi sentivo così.
Sentivo la mia mamma che mi chiamava, dal mare.
Sentivo il mio nonno che mi diceva che il pranzo era pronto, lavati le mani birbante che
si fredda, dal cielo. Chissà che in quel pescatore ci fosse un po’ di lui.
Sentivo mio padre che mi invitava a fare un giro in barca, dai che oggi ci si diverte, dal
vento.
Sentivo loro dalla natura.
Sentivo loro nella natura.
Sentivo loro natura.
“Vienn’ acca! S’impazzuet??!!” gridavano gli altri pescatori correndo al riparo mentre io
mi dirigevo, dalla parte opposta, verso gli scogli.
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Non ero impazzito, cari miei compaesani, ero semplicemente vivo. Sentivo la pace,
non grazie ad una ragazza, una compagnia od un evento. Sentivo la pace grazie a
me. Me soltanto. Me totale. Me puro.
La pioggia iniziò a bagnarmi il viso, l’odore dell’umidità risaliva dai prati. Sentivo le
braccia tremare, il formicolio alle dita proprio come prima di svenire.
Un urlo immenso, liberatorio, totale, intimo, dolce, arrabbiato…uscì dalla mia voce.
Alzai gli occhi al cielo e PIANSI!
Piansi.
Piansi!
PIANSI!!!
PIANSI!!!!!!
Piansi dopo anni.
Piansi le mie paure.
Piansi la mia semplicità.
Piansi il mio nonno.
Piansi la mia famiglia.
Piansi la mia mancanza di lucidità.
Piansi la mia ingordigia.
Il cielo era la mia culla e la sua pioggia l’immensa lacrima che mi donava.
E tutto era pace, tutto era chiarito, tutto era amore.
Tutto era bellezza.
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Svegliarsi nuovo
Il sole mi accarezzò la faccia, augurandomi il buongiorno.
Solitamente si dice “avevo dormito poco e male”, io avevo dormito “poco e bene”, in
quanto era stata la notte insonne più attesa di di tutta la mia vita.
Non potevo non ammettere che il giorno precedente era avvenuta una svolta decisiva
nella mia vita.
Mi sentivo nuovo. Avevo pianto ed affrontato per la prima volta le mie paure.
Tutto mi sembrava più intenso; l’odore del caffè era più corposo, il brillare del sole sul
mare più accecante, il promontorio di colline più maestoso. La mia mente era un
continuo intersecarsi di “grazie” e “scusa”.
Con troppe persone mi dovevo scusare.
Un essere indefinito dovevo invece ringraziare. Forse Dio, forse il mio nonno, non lo
so. Ma ogni panorama, immerso in quella natura incontaminata, mi faceva sentire in
debito con questa “essenza”, è come se mi si regalasse la visione di un film, talmente
reale da essere il mio contesto.
Presi un sentiero che dalla nostra abitazione conduceva nell’entroterra. Ricordo che da
piccolo, grazie alle amicizie dei nostri genitori con la guardia forestale, io ed i miei
cugini facevamo immense passeggiate lungo questi sentieri. Ed era un continuo
rincorrerci, ammirare, fotografare. Si viveva con la pace nel cuore; ma io, ora, quella
pace, anche se in lontananza, riuscivo di nuovo a sentirla.
Camminai a lungo per quegli sterrati. Il silenzio quasi ecclesiastico di quelle valli mi
dava i brividi. Ogni particolare aveva importanza, per me nulla doveva più essere
ovvio. Mi accorsi ad esempio di quanti frutti la natura mi aveva circondato, in pochi
metri raccolsi mandorle, olive, more, carrube e rosmarino.
Guardai questi frutti tra le mie mani ed incominciai a piangere come un bambino.
Ormai la fontana era stata aperta ed avevo tante di quelle lacrime arretrate che ogni
minima emozione coincideva con un singhiozzo.
Il sentiero che stavo percorrendo sfociò in una statale asfaltata. Le colline si erano
diradate e la strada si perdeva tra un prato immenso, chiarissimo. La bellezza della
Puglia è che, in differenti stagioni, cambia radicalmente il suo aspetto: se in estate
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ricorda la Grecia, calda e mediterranea, in autunno e primavera si scopre quasi
nordica: questo prato verdissimo sembra una distesa irlandese.
Accanto ad un palo della luce notai dei fiori. Poi una foto. Poi una candela, accesa. Poi
un biglietto.
Mi avvicinai incuriosito a quella sorta di capezzale e la fotografia immortalava una
donna anziana dal viso accogliente.
“5 febbraio 2006
tre anni fa il destino ti ha rapita da me, ha tolto la tua mano dalla mia.
Sono scappata da qui, cara madre, te ne chiedo scusa ma non resistevo.
Ogni vicolo eri tu. Ogni scoglio eri tu. Ogni gabbiano che vola in cielo SEI tu, ogni
ricordo SEI tu.
Ogni ricordo è il dono più caro, è l’abbraccio ogni mattina quando esco di casa, è il tuo
sorriso prima di un mio impegno che mi mette paura.
Ma ogni ricordo, ognuno di quegli stessi ricordi, è una spada rivolta verso di me ogni
istante, è la consapevolezza che non ti avrò mai più....mai.
Ho bisogno di averti nel mio cuore, mamma, ho bisogno della buonanotte, della pasta
al forno, delle passeggiate, della vigilia di natale, della pace del tuo amore.
Ma se ti porto nel mio cuore è la conferma incessante che tu sei lì perché non sei più al
mio fianco. E questo non riesco più a sopportarlo. Quindi a volte vorrei dimenticarti,
perché così perderei il ricordo, ma forse attenuerei il mio dolore.
Queste due sensazioni mi schiacciano, mi opprimono, mi snervano.
E io non ricordò più nemmeno che sapore abbia la pace del tuo amore.
Col cuore,
tua per sempre
Liliana”
Le mani iniziarono a tremarmi, il cuore iniziò a battermi all’impazzata, proprio come
prima di aprire l’esito di un esame importante, proprio come quando dissi “ti amo” la
prima volta.
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Quel biglietto era di Liliana, la mia Liliana. Ne ho avuto la certezza fin da subito. La
calligrafia, il nome, la fuga da qui, i pensieri, l’incertezza, la delicatezza, il continuo
vacillare tra reazione e sconforto: tutto riportava a lei.
Il biglietto era stato scritto solo un giorno prima del mio passaggio, quindi la speranza
che lei fosse ancora in paese era reale.
Se quello era un segno del distino ora, più che mai, ci credevo.
Clamorosamente, ci credevo.
“Il vento mi ha portato qui.
Le colline mi hanno accolto.
Il mare mi ha cullato.
La pioggia mi ha ridonato nuova vita.
Non ti verrò mai a cercare, mai.
Ti aspetterò qui, dove riposta il tuo ricordo più intimo, al tramonto, ogni sera.
Andrea”
Piegai il biglietto e lo appoggia accanto al suo.
E nuovamente lettere.
E nuovamente sogni.
E nuovamente vita.
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L’altalena di coriandoli
Il giorno successivo, al calar del sole, mi recai sul luogo in cui avevo trovato il biglietto.
Ero emozionato, non mi sentii mai fuori luogo, neanche per un attimo.
Alla curiosità che provavo a Carugate nel gioco epistolare si era aggiunta la
consapevolezza di essere una persona diversa, di poterle offrire un me più completo.
Aspettai mezzora.
Aspettai un’ora.
Aspettai due ore.
Liliana non arrivò mai.
II secondo giorno mi presentai alla stessa ora nello stesso luogo.
Grilli e cicale, cicale e grilli, non sentivo null’altro.
Mi sentii come sull’altalena dei coriandoli. L’altalena perché tutto ciò era un turbinio di
emozioni continue, alte quando mi recavo sul luogo, basse quando non la vedevo, alte
quando sentivo un rumore, basse quando capivo che non era lei. Dei coriandoli perché
tutto era appeso ad un filo, tutto era cristallo.
Non arrivò nessuno e ritornai verso casa.
Il terzo giorno, imperterrito, arrivai puntuale alla stessa ora e nello stesso luogo.
Sentii male alla bocca dello stomaco. Ricordai che tutto questo il mio viaggio, concreto
ed interiore, era iniziato anche grazie a lei. Ripensai a tutto quello che mi aveva fatto
vivere. Da quando era “entrata” nella mia vita non mi sono mai annoiato, sono stato
molto bene, o molto male, ma comunque sono stato.
All’improvviso mi resi conto che ero pieno di quello che avevo vissuto, ma che in mano
non avevo niente, se non alcuni fogli di carta. Non l’avevo mai vista. Nessuno l’aveva
mai vista. Non ho prove concrete della sua esistenza materiale. Chi può dirmi che
Liliana non viveva solo nella mia immaginazione? Che era un mezzo per spingermi a
compiere questo percorso?
Per questo era tutto perfetto: la fragilità che sogno in una donna, la delicatezza, la
semplicità. Seduto ad un palo disperso nel prato del nulla, forse stavo avendo solo lì il
mio primo pensiero lucido. Magari la gente che mi conosceva diceva in giro che ero
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impazzito con una donna immaginaria nella testa. Ed io come potevo dimostrare il
contrario?!
Lei era un respiro, un’emozione, era confusione e chiarezza. Lei mi ha insegnato a
credere nei miei sogni, anche a rischio di diventare ridicolo, come in fondo ero in quel
momento.
Ridicolo.
Ma ridicolo con la pace nel cuore.
Arguto lettore, il flash forward allora incomprensibile che hai letto alla prima pagina si
rifà a questo punto della storia.
Ad un tratto notai che, incastrato nella fotografia della madre, vi era un biglietto piegato
in decine di parti tali da raggiungere dimensioni imperscrutabili. Lo aprii alla velocità
della luce:
“Segui il sentiero nel prato dorato. Il mio passato ti guiderà.
L.”
Oddio.
Oddio!
ODDIO!!!
Il cuore sembrava esplodermi. Lei c’era, lei aveva letto, lei aveva risposto, lei mi
invitava all’ennesima sfida al destino.
Iniziai a camminare sulla strada, non sapendo bene cosa. Effettivamente il biglietto era
sì poetico, ma non chiarissimo.
Sulla destra notai un sasso che teneva salda una foglia.
Non era una foglia, ma un foglio.
“23 febbraio 2004
Non so cosa sia, non è un diario, non è una lettera, ma non potevo tacere.
La scorsa notte, nella via adiacente alla mia, uno sregolato quanto geniale ragazzo ha
scritto sull’asfalto il testo di questa poesia
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Quando tu chiudi gli occhi
le tue palpebre sono aria.
Mi trascinano:
vado con te, dentro.
Non si vede nulla,
non si sente nulla.
Superflui gli occhi e le labbra,
in questo mondo tuo.
Per sentire te
non valgono i sensi consueti,
che si usano con gli altri.
Bisogna attenderne di nuovi.
Si cammina al tuo fianco
sordamente, al buio,
inciampando nei forse, nelle attese;
sprofondando verso l'alto
con gran peso di ali.
Quando tu riapri gli occhi
io torno fuori, ormai cieco,
inciampando ancora, senza vedere,
nemmeno qui.
Senza sapere più vivere
nè in quell'altro, nel tuo,
nè in questo mondo scolorito
dove io vivevo.
Incapace, indifeso
fra l'uno e l'altro.
Andando,venendo
dall'uno all'altro
quando tu vuoi,
quando apri, quando chiudi
le palpebre, gli occhi.
“Quando tu”, di Pedro Salinas. Il mio autore preferito. La poesia preferita del mio autore
preferito.
Come hai fatto, sregolato quanto geniale ragazzo, a entrare così tanto nei miei
pensieri?
Ma quanto freddo avrai preso a scrivere, di notte, di tutto questo testo?!
Ma soprattutto, quanto amore ti avrà donato lei per meritare tutto questo?”
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“28 febbraio 2004
Le giornate scorrono irrimediabilmente uguali. Non esiste domenica né fatica. Solo
grazie alla fatica puoi godere della pace del riposo.
Il trasferimento è stato come me lo aspettavo, inevitabilmente spiazzante. Ho perso il
mio mare, il mio lavoro, i miei sapori, i miei tramonti.
Mi sento in bilico, sospesa, né su, né giù. La mia mente è una giornata di nebbia, un
lunedì di lavoro, in cui speri disperatamente di avere la consapevolezza che qualcuno
in quell’istante ti stia pensando.
Stamane, mentre facevo una passeggiata, ho notato che tutto il quartiere era
tappezzato da fogli con incisa questa poesia:
A te si giunge solo
attraverso di te. Ti aspetto.
Io certo so dove sono,
la mia città, la strada, il nome
con cui tutti mi chiamano.
Ma non so dove sono stato
con te.
Lì mi hai portato tu.
Come potevo imparare il cammino
se non guardavo altro
che te, se il cammino erano i tuoi passi,
e il suo termine
l'istante che tu ti fermasti?
Cosa ancora poteva esserci
oltre Ma ora,
quale esilio, che assenza
essere dove si è!
Aspetto, passano treni,
il caso, gli sguardi.
Mi condurrebbero forse
dove mai sono stato.
Ma io non voglio i cieli nuovi.
Voglio stare dove sono già stato.
Con te, tornare.
Quale immensa novità
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tornare ancora,
ripetere, mai uguale,
quello stupore infinito! a te offerta, che mi guardavi?
Perché, sregolato quanto geniale ragazzo, ho l’impressione che sia ancora opera
tua?!”
“3 marzo 2004
Sregolato quanto geniale ragazzo, da oggi hai un nome…Andrea, un viso…puro,
e…una fidanzata, Claudia.
La finestra di camera mia dà su una via chiusa.
La via chiusa dà su una villetta.
La villetta dà su di te.
Tu dai su uno di quei fogli appesi per il quartiere.
Il foglio dà su di lei e ne rispecchia il suo sorriso, come un lago di Scozia riflette la
foresta in sé.
Sogno la tua sensibilità che si adagia su di me e mi protegge, calda coperta in una
notte invernale.”
Mi tremavano le mani, flashback assassino. Lei mi conosceva, o meglio mi seguiva,
quindi mi spiava??? Altro che estranea del pullman.
Non capivo se ero più arrabbiato per quella che era a tutti gli effetti una bugia, o più
affascinato da una ragazza che per due anni mi aveva aspettato, sognato,
accarezzando il mio viso senza posare mai la sua mano sul mio volto.
Sempre a distanza. Sempre fantasma.
Altri passi. Altri sassi. Altri sogni incisi.
“30 marzo 2004
Oggi ho assistito a una scena assurda. Tu sei arrivato da lei e le hai detto:
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- Ho una sorpresa per te – e hai tirato fuori una busta. Conteneva una poesia, scritta
da te, la tua prima poesia come da tua ammissione. Cinque righe, un gioiello, di
purezza, di semplicità.
Lei l’ha letta e ha esclamato: - Ah, ok. Ora mi dai la sorpresa?! –
Ho visto il tuo viso crollare come un aereo in picchiata libera. Ingenua ragazza, era
quella la sorpresa, e non sai quante persone (tra cui chiaramente io) darebbero un
rene per ricevere in dono una poesia, per di più scritta solo per te.
Vorrei rapirti, darti amore e pretenderlo da te perché tu potresti donarmelo, lo so, lo
vedo, lo sento.
Vedo la dedizione che dai al tuo amore, lo modelli come un artigiano custodisce
gelosamente la sua più preziosa scultura. Ogni sera tu passi a trovarla, ad ogni suo
esame tu preghi per lei, non è mai lei a venire da te, a desiderare te.
Perché fa così? Perché non capisce della fortuna che ha? E, soprattutto, perché tu fai
finta di nulla?!”
“28 giugno 2004
Estate di impalpabile gioia. È come essere ad una festa in cui tutti ballano swing e tu
adori il metal, tutti i sorrisi altrui ti sembrano così immotivati.
Tutto dà profumo di libertà: il sole sembra quasi non volerci abbandonare più, e la sera
ti saluta con rammarico; ma io non riesco ad amalgamarmi con questo contesto.
Voglio l’inverno, voglio la nebbia; nebbia che non scappi dalla mia mente.
Nebbia che offuschi e posticipi la rinascita.
Questa notte l’hai riaccompagnata a casa e avevi una faccia strana, insofferente.
Sei sceso dalla macchina e le hai come tirato addosso una serie di scomode verità che
tenevi dentro, forse, da troppo tempo.
Le finestre sono aperte e dalla mia ho potuto sentire tutto. Il silenzio della notte faceva
da spettatore al tuo sfogo.
Erano tutte le cose che ho scritto e pensato in precedenza, mi sono venuti i brividi. Era
come se una parte di me parlasse uscendo dal tuo corpo.
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E, una volta finito, lei era come indifferente. Ehiii sveglia! Ti ha appena detto che non
ce la fa più, che vorrebbe attenzione, sacrificio e tu?! Fai qualcosa, rispondigli, se hai
motivazioni dille, arrabbiati, discuti, bacialo, stringilo fino a scoppiare, scappa, amalo,
lascialo, no tu cosa fai? vai via come se nulla fosse!
La sensazione di sentirti ogni giorno sempre più intimo, sempre più parte di me ma io
ero, sono e sarò sempre e solo un’ estranea.
La finestra è il mio filtro tra la finzione e la realtà, la speranza e l’illusione, l’amore e la
solitudine.
Vorrei stringerti tra le stelle che ci cullano, mentre ti lascio lì, solo, ad attendere un suo
sacrifico che non avverrà mai.”
Non capivo più nulla. Il mio passato non era stato reale ed il ricordo del suo passato mi
stava conducendo verso il nostro futuro.
Dalla strada statale si diramava un sentiero sterrato. In fondo ad esso, un ultimo sasso.
Un ultimo foglio. Un ultima verità.
“15 ottobre 2005
L’autunno ha portato la tua solitudine. Vi siete lasciati.
Sappila gestire come un dono, non come una disfatta. Dopo aver donato il tuo cuore
per così tanto tempo, sei ora arido, spento.
Porta la tua anima a maggese. Maggese è riposo per rigenerare, per riemozionarti, per
riemozionare.
La sua scelta non mi stupisce. Ha saltato a piè pari l’inevitabile maggese, che poi è
inevitabile solo se prima di vero amore si trattava. Non ti curar di lei, le conseguenze di
questa sua scelta non arriveranno certo su di te.
Dalla mia finestra si vede la tua fermata del pullman, stamane a causa della tua solita
fretta, salendo, hai perso degli appunti.
Non ho resistito. Il mio primo contatto con te. Da quelle righe è iniziato il mio sogno.”
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Dopo quell’ultima lettera, il sentiero si perse in un lago di aghi di pino.
Profumo d’estate.
Profumo di sogno.
Due immensi alberi formavano tra loro un arco nel cielo, quasi come a condurmi, ad
invitarmi. Baciata dall’arco, vi era una piccola grotta artificiale fatta da sanpietrini, come
quelle che contengono le Madonne.
La parte coperta dalle pietre era quella davanti a me.
Il mio cuore, da quanto batteva, avrebbe potuto tenere in vita da solo tutti i miei cari.
O, chissà, in quel cuore battevano all’unisono tutti i cuori dei miei cari ritrovati.
Nella grotta un lenzuolo, bianco.
Sotto di questo, la sagoma di una persona.
“Quando non capisci più gli altri, quando gli altri non ti capiscono più…prendi un
lenzuolo bianco e rannicchiati sotto.
Ora sarai spettro agli occhi del mondo.
Ora sarai peccatore e redentore di te stesso.
Ora dovrai rendere conto solo alla tua felicità.
C’è la neve nei miei ricordi,
c’è sempre la neve,
e mi diventa bianco il cervello,
se non la smetto di ricordare.”
Eccoti.
Eccoti insicura.
Eccoti imponente.
Eccoti insperata.
Eccoti donatrice.
E’ inspiegabile descrivere come una persona che non avevo mai visto fosse già parte
di me. Liliana era il mio tassello mancante. I suoi occhi erano lo sguardo accogliente
dopo una mia sconfitta; il suo viso era il sorriso smagliante ad accompagnare la mia
vittoria. Le sue mani mi avrebbero curato nella malattia e chissà quante volte lo
avevano già fatto a distanza, premurose ma indiscrete.
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Ci abbracciammo talmente intensamente che credevo di scoppiare. Era un ri-
abbracciarsi, prima ci eravamo solo distratti un attimo.
All’unisono, dei timidi singhiozzi di entrambi diventarono sempre più forti.
Incominciammo a piangere, come due bambini. Il sale di quelle lacrime era la vita.
Il pianto congiunto cadde come la pioggia di San Francesco qualche giorno prima
facendo da pubblico al nostro bacio.
Non parlammo mai, nel silenzio di quella foresta parlavano già in troppi. Parlavano i
nostri occhi, ci applaudivano i sentieri, ci sussurravano la loro ninna nanna le stelle.
Le labbra erano unite nel nostro pianto, il quale era unito nei nostri corpi, che erano
uniti tra i pini protettori, che chiedevano spazio al cielo sornione.
Cielo che, davanti a quel miracolo di vita, si sentiva quasi indiscreto spettatore.
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Un natale a marzo con la voce di panna
Avete presente quando provate uno stato di serenità interiore così profondo che siete
coscienti di essere diffusori di amore?
Quando possono cambiare i contesti, potete essere nella più triste riunione del più
triste lunedì mattina condito dalla più triste pioggia moderata milanese ma voi vi sentite
fonti di amore? Parlate con gli altri e li tranquillizzate? Vi si pone un problema e lo
risolvete?
“Può essere sabato solo quando lo vuoi, può essere sabato solo quando lo vuoi” recita
una canzone.
Io mi sentivo esattamente cosi: ero innamorato, innamorato di me, dei miei genitori, dei
miei pensieri; ero innamorato della mai fuga, del profumo del caffè al risveglio, di
Liliana.
Scoprii la sua voce solo al risveglio, dopo dieci ore abbracciati in quella grotta e cullati
dal sogno più imprevedibile.
“Buongiorno, amore mio” furono le sue parole. Non erano parole dette al risveglio,
nessuno di due aveva chiuso occhio, era il buongiorno che mi offriva alla mia nuova
vita, alla sua nuova vita, alla nostra nuova vita.
La sua voce era panna, una vaschetta gelato alla panna mangiato nella più calda
giornata d’agosto: morbida, accogliente, dissetante, attesa, meritata.
Capii subito che Liliana aveva il mio stesso modo di ragionare, lo stream of
consciousness, ovvero la libera esternazione dei pensieri nell’ordine in cui nascono
dalla mente senza una riorganizzazione interna.
In sostanza è come aprire infinite parentesi di una espressione numerica senza
chiuderne alcuna, perché ogni termine riconduce a nuovi pensieri.
Vi assicuro però che quando è solo uno dei due interlocutori a ragionare così, si riesce
a mantenere una certa logica, ma quando sono due su due, la conversazione
raggiunge punti di puro dilemma.
Risultava infatti inconcepibile come, partendo da una discussione sull’inquinamento
delle imbarcazioni turistiche sulla costa garganica, si arrivasse a parlare della
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decisione di Lino Banfi di non schierare Aristotales nella finale de “L’allenatore del
pallone”.
Non parlammo mai del suo inseguimento nei due anni precedenti, se io lo avessi
ritenuto un gesto di amore od un atto adolescenziale.
Rimaneva il nostro “non detto”, in un rapporto, un qualsiasi rapporto, credo debba
esistere sempre un “non detto”, un qualcosa che sai che andrebbe trattata ma rimarrà
sempre taciuta.
Deve esistere per immaginarsi che “non ci siamo ancora detti tutto”, frase che troppo
spesso riecheggia nelle menti delle coppie, che ci sarà sempre un’ultima rivelazione.
Non dormimmo mai nella stessa casa in quei giorni. Ci piaceva l’idea di corteggiarci, di
prepararci prima di uscire, di attenderla in auto sotto casa sua e spalancare il mio
sorriso quando la vedevo arrivare pura, splendida, viva.
Ho sempre discusso con certi miei amici su tale argomento, amici che ricercavano la
convivenza appena possibile. Io ho sempre preferito il metodo “Storia alla Max
Pezzali”, ovvero:
“gli anni d'oro del grande real
gli anni di Happy Days e di Ralph Malph
gli anni delle immense compagnie
gli anni in motorino sempre in due
gli anni di - che belli erano i films -
gli anni dei Roy Rogers come jeans
gli anni di qualsiasi cosa fai
gli anni del - tranquillo, siam qui noi!-“
Non la reputo una “non voglia di crescere”, so che la convivenza significa maturità,
condivisione dei problemi più banali, ma vorrei che quando accadrà, stupido illuso,
fosse per sempre.
Non per una morale pseudoreligiosa o per passare come il grande sognatore, ma per
un fatto puramente egoistico.
Si, egoistico. Sono infatti la persona più attaccata al mondo al ricordo, dal ricordo
ricavo dolore, dal dolore malinconia. Anche solo vivendo una storia “ognuno a casa
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sua”, una volta finita, non riesco più a tornare nelle stesse città, negli stessi locali,
cinema, ristoranti. Non riesco, è più forte di me.
La stessa “goccia dei film” è per me straziante.
La goccia dei film è un gioco autolesionista che ho immaginato parecchi anni fa. Adoro
andare al cinema e ho sempre trovato compagne con questa stessa passione. La
storia che va bene è come lo scorrere incessante di una doccia bollente dopo una
giornata di lavoro massacrante in inverno. Quando la storia finisce, la doccia si spegne;
la mia doccia ha un problema ad un rubinetto tale da far si che non si spegne di colpo
ma l’acqua passa da 10 gocce, a 8, a 4, via via fino a spegnersi del tutto. Le gocce
calanti sono il percorso cinematografico/televisivo che fanno gli ultimi film che hai visto
con lei.
L’abbracciavi dolcemente mentre guardavi “La casa sul lago del tempo” al cinema. Poi
la vostra storia finisce; una sera tornando da lavoro ti fermi a fare la spesa da single e
nel reparto “nuovi arrivi” scopri che “La casa sul lago del tempo” è uscito in dvd (10
gocce al silenzio).
Il mese successivo passeggi da solo per il centro, in un anonimo sabato pomeriggio, e
scopri che “La casa sul lago del tempo” è ora disponibile in noleggio (8 gocce al
silenzio).
Tre mesi dopo torni a casa da lavoro, lunedì sera, la testa pare quasi richiedere più
centimetri da quanto scoppia. Ti stendi sul divano senza cenare e accendi Sky.
“Incredibile, questa sera vi presentiamo in anteprima assoluta tv –La casa sul lago del
tempo- buona visione” (4 gocce al silenzio).
Una calda sera d’estate, finestra aperta e rumore della televisione del vicino come al
solito troppo alta. Tu abbracci il tuo nuovo amore, in lontananza tra il rumore dei grilli la
televisione del tuo vicino ti annuncia “E a seguire, per il ciclo - I bellissimi di rete4 – in
prima tv assoluta su reti non digitali vi presentiamo – La casa sul lago del tempo – “.
Tu accenni un sorriso sarcastico, il rumore delle gocce nella tua testa è finalmente
scomparso.
Solo ora, realmente, silenzio.
La morale di questa discutibile metafora è: se, quando i film che vedevi al cinema con
la tua ex arrivano in tv, tu sei ancora single...c’è qualche cosa che non va.
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Se una cosa così indifferente ai più (ho ripreso il discorso del condividere nella stessa
casa...emm scusate…ecco un chiaro esempio di stream of consciousness) crea in me
tale scompiglio, immaginatevi vivere nella stessa casa, che è la tua casa. È facile,
infatti, come fanno diverse mie amiche, stabilirsi a casa altrui; ma quando la casa è la
tua e se la storia finisce tu devi a ragion di logica continuare a viverci (a meno che tu
sia miliardario e ti trasferisca nell’altra residenza a Saint Moritz).
Non riuscirei a sopportarlo.
Alla colazione penserei che quella era la tazzina che usava sempre lei.
Da quel pianoforte le dedicai la mia prima canzone d’amore. Su quel pc scrivemmo
assieme il nostro primo monologo, all’alba di una mattina dopo aver passato la notte a
leggerci a vicenda poesia su quell’altro divano, a destra del pianoforte.
Le candele sulla mensola le aveva comprate lei, e le accendeva sempre prima di
guardare assieme i film, accovacciati sotto il plaid che ora è sulla scrivania in camera
da letto.
No, assolutamente no. Non riuscirei umanamente a sopportarlo.
Molto meglio Max Pezzali e le notti in motorino sempre in due.
Nella nostra convivenza separata era dolce l’attesa prima di ogni incontro. Un
pomeriggio mi disse di passare a prenderla alle sette, avrebbe organizzato tutto lei.
Mentre scendevo dalla collina su cui risiede la mia casa, musica jazz usciva dalle
casse dell’autoradio, ma musica jazz usciva anche dalla mia mente.
La vita mi sorrideva, le onde del mare risalivano gli scogli come se si riposassero dopo
una giornata di incessante movimento. Realizzai che per la prima volta nella mia vita
non usavo una storia per essere felice, ma ero felice a prescindere e donavo alla mia
storia tutta la mia serenità interiore. Quando Claudia, nel periodo di esami universitari,
studiava e non poteva uscire, io spesso il sabato pomeriggio andavo al cinema da solo.
Tutti i miei amici mi chiedevano se ci fosse qualche problema, io al contrario mi
vantavo dicendo che vivevo una storia ma allo stesso tempo stavo bene da solo con
me stesso. Beh, una volta lasciati, un sabato pomeriggio provai ad andare al cinema
da solo, a metà strada mi sentii talmente triste e stupido che tornai indietro. In
quell’istante capii che la mia precedente felicità nei miei momenti solitari era solo
effimera. Perché sapevo comunque di avere lei.
Ecco, nella mia situazione attuale, sarei riuscito ad andare al cinema, il sabato
pomeriggio, da solo, senza vivere una storia ed essere estremamente sereno.
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Da un campo adiacente alla statale, raccolsi dei gelsomini da donare a Liliana.
Nonostante questo ero in clamoroso anticipo, così mi fermai al porto a guardare la
nostra barca. Da grande appassionato di barche, mio padre ha sempre fatto sacrifici
per poterne acquistare una. Dato che il proprietario del molo era un nostro amico, ci
aveva fatto un prezzo di favore per tenerla ormeggiata tutto l’anno, senza portarla al
deposito ogni fine estate. Quando la vidi è come se mi si aprì un baule di ricordi. Io in
quella barca passavo le mie estati, le gite alle isole Tremiti, la traversata in Croazia col
mare in tempesta, le prime notti a dormirci da solo appena ero più grande e mia madre
me lo concedeva.
La vita del porto mi ha sempre affascinato, nonostante non sia del tutto comoda con le
docce fredde e gli spazi ridotti ma lo svegliarsi al mattino col tintinnio delle vele, il
rumore delle onde ed il profumo di salsedine credo sia qualcosa di impagabile.
Nel porto vige anche un grande rispetto reciproco, è una sorta di comunità, ci si
scambia opinioni, ricordi, viaggi. Ho parlato per ore e sentito centinaia di storie
affascinanti da persone di cui non conoscevo nemmeno il nome.
Ma il porto è così: è condivisione di un sogno chiamato libertà.
Accostai la macchina sotto il portone della casa di Liliana ed attesi, quasi già
dipendente dalla sua bellezza proprio come un cane è dipendente dal suo padrone
prima del solito giro serale nel quartiere.
Scese dolce, scese bella, scese donna. Il vestitino a fiori le donava così tanta
leggerezza da aver paura che ad un certo punto volasse via, come una farfalla in un
campo di girasoli.
“Benvenuto alla tua serata, segui la statale per Peschici” – mi disse.
Stavo ricevendo quello che per anni avevo sempre e solo creato: una sorpresa. È
stupefacente come la visione da un piano diverso di una stessa situazione regali
sensazioni radicalmente opposte.
Ripensai al viaggio in taxi verso Malpensa, ora finalmente anch’io stavo vivendo il
brivido che Claudia aveva provato durante quel tragitto.
Parcheggiammo la macchina su un promontorio e scendemmo a piedi per un sentiero
sconnesso; scendemmo talmente tanto fino ad arrivare alla scogliera adiacente al
mare.
Lì, imprevedibile come un fiore cresciuto tra la pietra, sorgeva un ristorante, il
“Trabucco”.
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Il trabucco è un antico sistema di pesca completamente in legno che sorregge delle
grosse reti. La leggenda narra che in questo ristorante si mangi solo il pesce pescato
attraverso l’adiacente trabucco. Delle assi di legno a mò di palafitta danno un minimo di
stabilità ai tavoli che, di fatto, sono poggiati sugli scogli.
Un trio jazz, composto da batterista, chitarrista e pianista, suonava solo per noi. Quelle
note erano talmente frizzanti che parevan voler scappare in mare e ballare a braccetto
con le onde.
Il locale era completamente vuoto e notai subito una cosa alquanto strana: il tavolo al
quale il cameriere ci fece accomodare era completamente addobbato di rosso.
Candele, tovaglia rossa, piccole pepite finto oro sparse sul tavolo e pungitopo a
decorazione floreale.
Sopra il camino alla destra del tavolo uno stupendo presepe completamente illuminato.
Non capivo.
“Questo è il tuo Natale, Andrea, il nostro Natale. Lo so, sono un po’ in ritardo, è marzo
e ci sono 20 gradi, ma quel che conta è sentire quel brivido di quella notte magica. Tu
lo senti, Andrea?”
La mia anima fu più rapida della mia mente; prima che potessi costruire qualsiasi tipo
di risposta i miei occhi si inzupparono di lacrime e la strinsi talmente forte che credevo
di esplodere.
Nessuno aveva mai fatto nulla di tutto ciò per me, mi sentivo quasi “in debito”, in
imbarazzo davanti a cotanta dedizione.
“Perché?” fu l’unica parola che riuscii a dire.
“Perché sei il sospiro di vita, che si è posato su di me, mi ha avvolto, mi ha protetto nel
silenzio della distanza e mi ha spinto a rialzarmi” rispose.
“Stringimi” dissero i miei occhi, senza parlare.
Lei si alzò e mi abbraccio forte.
Intangibile sintonia.
La cena fu un’abbuffata di specialità pugliesi: le pettole, panzarotti fritti, aprirono la
strada ad una spaghettata allo scoglio divina; poi la zuppetta san severese, vini, dolci,
tutto era curato alla perfezione.
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In quegli istanti capii che volevo lì accanto la mia famiglia, per festeggiare il nostro
Natale. Ero però cosciente che mancava poco, che quel momento sarebbe presto
arrivato.
“Dai, sbrigati, che se no facciamo tardi” disse Liliana.
“Ma? Tardi per cosa?”
Come al solito, non rispose. Lei era attimo di vita, misterioso, impulsivo, spiazzante.
“Ma il conto? Non paghiamo?!” dissi allibito.
“Il proprietario è mio zio, è il suo regalo di Natale per noi due”.
“Wow, ma almeno presentamelo”.
“Zio, Andrea; Andrea, zio Salvo” ci disse trascinandomi per una mano verso il
parcheggio mentre mi scontrai praticamente con un uomo sulla cinquantina.
“Salve…Salvo” dissi quasi imbarazzato per il gioco di parole.
“Ciao Andrea, e buon Natale” fece lui con un sorriso accogliente.
“Andre, segui per Vieste, e schiaccia che siamo in mega ritardassimo”.
“Sposami” dissero i miei occhi.
“Don Antonio non ama i ritardatari” fece lei.
“Mah???!!! Come hai fatto? Mi hai letto ancora gli occhi?”
“Cosa?!”
“Mi hai letto ancora negli occhi. Ti hanno appena chiesto di sposarmi e tu hai già
avvisato il prete!?”
“Ah…emm…no…cioè si, il prete è avvisato, ma non per sposarci, ma lo voglio! Wow,
sono la prima donna al mondo ad aver ricevuto una proposta di matrimonio implicita
dagli occhi!”
Parcheggiammo ed arrivammo a piedi a San Francesco. Ebbi un brivido, ripensando a
ciò che era successo pochi giorni prima, proprio lì, in quel luogo.
Entrammo in chiesa. Mentre si faceva il segno della croce, sottovoce mi sussurrò
“Sorpresa numero due, la tua messa di Natale”. Mi mise in faccia il suo orologio:
mezzanotte spaccata.
Ripensai all’ultima vera messa di Natale, in cui ero lì con il corpo ma non certo con
l’anima.
La chiesetta era deserta, Don Antonio era un omino basso, rotondo, che sprizzava
bontà solo a guardarlo. Sapeva di pane caldo appena sfornato, di caffé all’alba, di un
abbraccio atteso da tanto. Sapeva di buono.
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L’omelia sembrò un discorso fatto apposta per me. Capii subito dallo sguardo di intesa
fra lui e Liliana che lei le aveva descritto tutta la mia situazione, il mio percorso. Ancora
un incontro con una persona sconosciuta che credevo invece di conoscere da anni e
che pareva conoscermi da altrettanti. Come con il pescatore, come con Liliana. Ancora
quella magia. Come se io in realtà conoscessi già il mondo, il mio mondo, ma prima lo
guardavo da una visione distorta, tale da sembrarmi estraneo.
Don Antonio parlò della bellezza della semplicità ma di quanto questo società faccia di
tutto per renderci ciechi davanti a questi valori, di quanto oggi si faccia fatica ad
accettare il basilare. Mi venne un brivido, era la cosa che avevo imparato a Pistoia, ma
questo né Liliana né conseguentemente lui potevano saperlo; con lei non avevo mai
parlato di quello che era accaduto nel mio viaggio, un altro “non detto”.
Ci disse che per superare questi ostacoli vi era paradossalmente bisogno di grande
lucidità e dedizione nel vivere l’emotività; ci voleva lucidità nel vivere la gioia di una
cena con i propri genitori, perché ad oggi la cena coi genitori è un “tempo rapido” da
scorrere perché sta iniziando il nuovo reality show alla tv da non perdere.
Pensiero identico a quello avuto mentre ricordavo le mie scale di chitarra in estate.
Lucidità.
Lucida razionalità per vivere una vera emotività.
In quell’istante mi astrassi, mi/ci guardai dall’alto, noi tre, nella casa di Cristo circondata
dal mare notturno che vegliava su di noi. Pensai che in quello stesso contesto, una
notte, in quella chiesetta, a mezzanotte, con Don Antonio a celebrare, Liliana sarebbe
diventata mia moglie.
Doveva essere tutto così. Come avrei fatto a portare tutti da Milano? Non era un
problema, anzi una prova: chi sarebbe venuto, mi avrebbe dimostrato il suo amore. So
già che Daniele sarebbe venuto al volo, col suo sorriso che era stato il vero faro di luce
nella mia impenetrabile nebbia. Pablo sarebbe venuto sicuramente, con la gioia
incancellabile nei suoi occhi. La mia famiglia e zio Stefano, con i suoi baffi che passano
serenità allo stato puro. Sugli altri amici, pseudo amici, amici di favore, “grande Andre
che mi fai entrare gratis ai concerti”, metto una mano sul fuoco che non sarebbero
venuti e, sinceramente, sarebbe stato meglio così.
Non erano degni di quella magia.
Lucidità nell’emotività. Bloccare l’attimo. Davanti alla luna. Per renderlo eterno.
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Salutammo Don Antonio ringraziandolo infinitamente. Rientrando verso l’auto, vidi che
Liliana si indirizzò verso il posto di guida. Nell’istante in cui realizzavo, toccandomi la
tasca, che avevo perso le chiavi della macchina lei era già salita e messa in moto.
“Mah?! Oh maga Silvan, ma come hai fatto?”.
“Disattento” disse lei, facendomi una linguaccia.
“Ok ok, bel gioco, ma ora scendi”.
“Neanche per sogno”
“No, toglimi tutto, ma non la mia auto”
“Non il tuo Brail?” altra linguaccia.
Ma come si faceva a litigare con una persona così?!
Sorrisi e la lasciai partire. Ho sempre avuto una mia teoria sulla guida femminile. Chi
guida in modo troppo accorto è una donna che non si lascia andare nella vita. Una mia
ex ragazza guidava con 4 cinture di sicurezza, sedile a un centimetro dal volante, radio
a volume impercettibile perché distrae, specchietti retrovisori sistemati ogni dieci
secondi, frenata imperiosa venti metri prima di ogni stop, incapacità cronica di buttarsi
nelle rotonde.
La rotonda l’ho sempre vista come una metafora della vita; nel nostro paese vi è una
mega rotonda costruita da un urbanista che deve avere il quoziente intellettivo di topo
Gigio, se non inferiore, dato che in essa si condensano in ordine: un’autostrada, una
tangenziale, un paese e i due centri commerciali più grandi d’Italia. Se attendi che ti
diano la precedenza che ti spetta, fai prima a portarti un cuscino per la notte. Non
passa chi ne ha diritto, passa chi ha spirito d’iniziativa e velata prepotenza.
Nella vita quasi sempre non emerge chi ha diritto, ma chi ha altrettanto spirito
d’iniziativa e velata prepotenza. La rotonda vorticosa ed incessante è il mondo d’oggi,
se ne vuoi entrare a far parte non puoi aspettare che ti lascino passare, devi buttarti.
Liliana guidò sportiva fino ad un’insenatura che collegava due baie. Vi ero già stato
molti anni prima per un falò con la mia “Kumpa marina”, ma quella serata era talmente
magica da lasciarmi a bocca aperta.
L’insenatura tra le due baie creava una sorta di piscina naturale circondata dalle rocce,
la luna creava un’autostrada di luce che portava dritta a noi.
L’ambiente era quasi astratto: gli alberi che lottavano contro ogni forma di gravità
crescendo sulla roccia verticale ricordavano di essere nel Gargano, ma il mare
immobile e la sabbia quasi rosa davano uno spettro lagunare.
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Come la canzone nella pizzeria di Napoli, ecco una nuova conferma della mia
rinascita: davo valore ad ogni particolare ed ora, di colpo, eccoci in una laguna
africana.
Ci sedemmo sul bagnasciuga, i piedi a sfiorare l’acqua.
Neanche me ne accorsi quando mi trovai le sue mani sopra gli occhi e la sua voce
sussurrarmi ad un orecchio: “Terza sorpresa, buon Natale Andrea”.
In quell’istante partii con uno dei miei soliti viaggi mentali e notai come Liliana non
usava quasi mai parole come “amore, tesoro” o similari, anche in situazioni calzanti
come questa, di notte e in una spiaggia deserta. Io adoravo questa scelta, la
condividevo e ne conoscevo anche i motivi: quanto al giorno d’oggi queste parole sono
inflazionate? In passato mi veniva detto “ti amo” al termine di ogni messaggio, al posto
di dirmi “ciao”.
Mi veniva detto talmente tante volte che alla fine io non ci credevo più. Per fortuna la
rarità riesce ancora, anche nei giorni nostri, a creare magia. Avremmo lasciato quelle
parole a momenti futuri, sognandone sempre di migliori. Ancora un “non detto”, ancora
un mistero, ancora una via inesplorata da percorrere assieme.
Nelle mie mani risiedeva un braccialetto di piccolissime conchiglie.
“L’ho fatto io, con le conchiglie di Vieste” – partì lei come al solito in uno dei suoi
inaspettati monologhi – “Vieste rappresenta la tua rinascita ed il mio dolore, è l’unione
del nostro male e del nostro bene; è il nostro tao: la guerra e la pace interiore.
Non esiste il male senza il bene né, ahimè, viceversa.
Per questo un giorno vorrei vivere qui con te. Perché quella luna è il nostro sorriso e
questa pioggia la nostra lacrima.
Noi siamo nati dalle emozioni di questo luogo.
Noi siamo questo luogo”
“Sposami” dissero i miei occhi. E la baciai.
Liliana prese dalla tasca del giubbotto una candela rossa. Scavò una piccola fossa
proprio al confine tra la sabbia bagnata e quella asciutta, tra la vita e la morte.
L’accese, mi abbraccio da dietro, una stella cadente svanì sopra di noi.
“Buon Natale, mamma” disse mentre una sua lacrima mi bagnò l’orecchio.
In quell’istante, per la prima volta in assoluto nella mia vita, mi sentii unico essere con
un’altra persona.
In quell’istante, per la prima volta in assoluto nella mia vita, io amai.
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L’acqua schietta ed il sole intimorito
Quella notte dormimmo abbracciati sulla spiaggia. Seppure fosse già marzo, di notte la
temperatura calava molto ed era bello ricevere calore dal suo abbraccio.
Verso le sei mi svegliai e, mentre sorgeva l'alba, stavo per svegliarla per guardarla
insieme, ma come facevo a svegliare un angelo cosi?! Mi sembrava di interrompere
una danza perfetta. Si dice che quando due persone respirano con lo stesso tempo di
inspirazione ed espirazione, in quell’istante, siano in unione l’uno con l’altra. Aspettai la
sua espirazione e iniziai a respirare al suo ritmo. Unione totale.
Ad un certo punto mi ricordai di Tonino, noo.
Tonino era un pastore che aveva un pascolo nelle colline su cui sorgeva casa nostra.
Lo conoscevo da 20 anni ed era una sorta di padrino per me; da piccolo passavo interi
pomeriggi a giocare a pallone contro il muro della sua imponente casa rossa. Da solo,
contro quel muro. Si dice che affini la tecnica. Con me non accadde.
“Andrè, vienn a bascè” mi diceva, per poi prepararmi la bruschetta con i pomodorini
coltivati da lui ed il suo olio. Assetato, mi andavo poi a prendere l’acqua dal suo pozzo.
Dio mio quanto era buona quell’acqua, fresca, schietta, pura. Quanto mi mancava
quell’acqua, quando mi mancava quella semplicità.
Nel mio ultimo soggiorno avevo stretto con Tonino un patto di ferro: la guardia forestale
aveva chiuso vari terreni per non si sa quale motivo, cosicché io gli permettevo di far
pascolare il suo gregge nel nostro terreno e lui mi riforniva di olio, olive e pomodori tutti
categoricamente di sua produzione.
Uno scambio irrinunciabile, direi.
Ma la sera precedente, prima di andare a prendere Liliana, avevo chiuso il cancello,
non conscio che avrei passato la notte fuori casa. Dovevo andare assolutamente ad
aprire quel cancello, in questo paese infatti ogni gesto viene portato subito ad una
considerazione morale.
“Ho trovato il cancello chiuso, Andrè, potevi dirlo subbbito se recavo disturbo” già mi
immaginavo le sue parole. Parlai a lungo a Liliana di questo soggetto, lei concluse
dicendo che il patto concordato constatava solamente la mia voracità nel mangiare
qualsiasi cosa, in qualsiasi quantità, a qualsiasi ora.
Dovevo tornare a casa subito. Liliana dormiva. Lei doveva tornare a casa sua per un
impegno. La macchina era una sola. Mi sentivo Christian De Sica quando in ogni film di
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Natale si ripete inesorabilmente la solita scena in cui lui nello stesso ristorante ritrova
sia la moglie che l’amante e non sa cosa fare.
Scelta estrema: presi una coperta dalla macchina, coprii Liliana. Carta, penna e lasciai
le mie chiavi della macchina sul suo petto.
“Scusami, non sto certo scappando!
Lo sai com’è poi Tonino, si offende – Io sono come un padre per te – etc…e poi non ci
dà più le olive!
Tieni tu la macchina, guida sportiva se no poi il motore si insospettisce che ci sia un
estraneo alla guida :-). Riportamela pure nel pomeriggio.
Andrea
P.s. Voglio vivere con te. Qui. Per sempre”
La “laguna” era proprio sotto la collina che ospitava casa nostra quindi, in pochi, minuti
arrivai a piedi al cancello del nostro terreno.
Tonino, puntuale, più di un orologio svizzero era già li ad attendermi.
“No, Andrè, perché stavo pensavo che sto recccando disturbo, bla, bla, bla, bla”.
“No, Tonino, no!”
“E non mi segui a bascc?”
“No, Tonino, prima passo da casa tua”
“A ccas mia?! E a cu affà?”
“A bermi l’acqua schietta del tuo pozzo” dissi ghignando beffardo.
Quando tornai a casa realizzai che ero palesemente distrutto. Mi feci una doccia con
l’intenzione di ributtarmi a letto. Mentre mi immergevo sotto il getto bollente ripensai a
tutte le volte che in piena notte mio padre urlava per la doccia. Che ridere.
Erano le classiche giornate binomio: lavoro + concerto. Uscivo al mattino per andare a
lavoro, alla sera mi recavo al locale o palazzetto che fosse. Concerto, conclusione
concerto. Casa. Ore 3:00. Ero fuori esattamente da diciannovedicodicannove ore, una
doccia mi sembrava il minimo premio che mi spettasse.
Gli orari di mio padre erano leggermente diversi, dato che da lì a tre ore dopo si
sarebbe dovuto alzare per affrontare un’altra giornata lavorativa.
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Quindi all’aprirsi del getto era immancabile il suo urlo, ormai mi stupivo del contrario.
Quell'insignificante momento spesso mi fece pensare che era giunta l’ora di andare via
di casa, impegni diversi, orari diversissimi, umori diversi.
Chiaramente non ne avevo le possibilità economiche per permettermi tutto ciò, quindi
per il momento mi limitavo a godere delle docce notturne senza contorno di urla
durante i concerti fuori Milano, con camera di hotel annessa.
Dormii tutta la mattina, mi svegliò un fascio di sole accecante che filtrava dalla finestra
semiaperta.
Sentii un rumore di macchina salire dalla strada sconnessa. Questa zona è talmente
poco battuta, che da piccoli io e i miei cugini ci divertivamo a riconoscere dal suono il
proprietario dell’auto. Il gioco prese talmente piede che partì un giro clandestino di
scommesse ad ampissimo raggio. Non ci si parlava neanche più, bastava uno sguardo
d’intesa all’arrivo di un auto. Si esclamava solo la scommessa e il nome dell’auto.
Ricordo che una mattina salì un’auto, guardai mio cugino Luca e gridai: “Mangiare dieci
buondì in mezzora senza bere tutta la mattina / zio Stefano”
“Accetto / zio Nino”
Ahah....un urlo satanico riecheggiò nella mia mente, già vedevo mio cugino soffrire e
implorarmi un bicchiere d’acqua, io che gli avvicinavo una bottiglia da due litri di the
freddo per poi toglierla mestamente dalle mani.
Era zio Stefano, era lui, non poteva essere altrimenti, avrei riconosciuto quel motore
della sua Alfetta tra altre mille.
Dalla salita apparve il muso dell’auto di zio...Nino.
Nooo, mio cugino in un'estasi concitata che neanche le bestie di Satana, corse in
cucina a prendere un pacco intero di Buondì ed ordinò a mia madre di non darmi da
bere fino a pranzo.
Voi non avete idea di quanto siano gnuccosi i Bondì.
Da allora sono passati ventidue anni ed io, appena rivedo quell’ammasso di glassa e
plastica, ricerco all’istante una qualsiasi forma di sostanza liquida.
Mi stiracchiai. L’auto che stava salendo era l’auto di Liliana, ovvero la mia auto. Dietro
riconobbi l’auto di mio padre. Avrei dovuto preparare il pranzo per tutti, apparecchiare,
andare nello sgabuzzino a prendere le bibite, tagliare il pan…..COSAAA???!!! L’AUTO
DI MIO PADRE!!!???
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La mia stupida mente come al solito non era riuscita a distinguere l’ordinario dallo
straordinario.
Schizzai sul piazzale e questa volta i Buondì li avrei evitati: era l’auto di mio padre
veramente.
Scesero ad uno ad uno come un pacco scartato lentamente vi erano: mio padre, mia
madre, mia sorella Sara, Pablo e Dani!!! Pablo mi saltò addosso che a momenti mi
spezzava, ripensai al suo entusiasmo ritrovato ogni santissima sera anche con una
bottiglia di plastica vuota tra i denti. Capii che, nel mio piccolo, anche io avevo ritrovato
il suo amore verso le piccole cose.
Su quella macchina vi erano tutte le persone che desideravo avere accanto, con me,
tra gli ulivi ed i grilli della mia terra. Prima che mi rendessi conto di quello che stavo
facendo, mi buttai in ginocchio al centro di quel piazzale e scoppiai a piangere.
Piangere di gioia.
Piangere di vita.
Crisi mia, ti avevo riconosciuta, affrontata, fronteggiata e sconfitta. E quello era il giorno
di celebrazione della mia vittoria.
“Auguri” fù la prima parola che mia madre mi rivolse.
“Auguri?!” dissi dubbioso.
“Oggi è il tuo compleanno!”
Che stupido, era il quindici marzo, il mio compleanno. Come spesso mi accade in
vacanza, avevo perso completamente la cognizione del tempo.
“Ha organizzato tutto lei” disse indicando Liliana.
“Quarta sorpresa, auguri” fece lei.
“E come diavolo hai fatto?”
“Il numero di casa tua l’ho trovato da internet. È stata un po’ dura spiegare tutta la
storia, tua madre mi stava scambiando per una pazza, ma alla fine ce l’ho fatta. E gli
ho convinti a scendere per questa festa”.
“E Dani?! Come diavolo hai fatto con Dani?!”
“Lì è stata un po’ più casuale, ricordi l’altra sera, in pizzeria, quando sei andato a
pagare il conto?! Ti giuro, lo so che è una cosa da bambini, e lo sai che non sono
così…ma me lo sono trovato davanti il nome, è così equivoco…”
“Equivoco? Il nome? Non capisco”
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“Andre il nome su cellulare – intervenne Daniele – ti ricordo che sul tuo cellulare io
sono memorizzato come “Amore patatone” e che solo io e te sappiamo che non sei
gay. Così Liliana si è insospettita del fatto che tu potessi avere già un’amante solo tre
giorni dopo che vi eravate fidanzati, si è segnata il numero, mi ha chiamato, ha
scoperto questa voce tenebrosa, affascinante, azzarderei sexy quale è la mia. Le ho
garantito che non sei gay ed abbiamo organizzato la trasferta”.
“Wow – dissi stupito come un bambino davanti al gioco più desiderato – e con Pablo
come hai fatto?!”
“Con lui è stata un po’ più dura, ma alla fine ha si è convinto” disse beffarda mentre si
inginocchiava ad abbracciarlo e lui la riempiva come a suo solito di zampate,
sbausciate ed affetto puro.
Non c’era bisogno di parole con mia madre, di quello che era successo forse sapeva
tutto, forse non sapeva nulla, ma più cosa importava?!
L’importante era il nostro sguardo, ritornato vivo;
il nostro dialogo, ritornato vivo;
la nostra voglia di crescere assieme, ritornata viva.
Volevo solo vivermi quella felicità perché la sentivo conquistata, sudata, meritata.
Andarono tutti a rinfrescarsi, dato che il viaggio era stato molto lungo.
Rimanemmo soli io e lei, in quel piazzale che mi aveva visto bambino, poi ragazzo, poi
uomo, poi abbandonato ed ora forse ancora bambino.
Mi sembrava di rivedere, attorno a noi due, tutti i miei “io” che mi salutavano, quando
un pallone ti salvava un pomeriggio. Si dice che quando una persona ha 10 anni…ha
10 anni. Ma quando una persona ha 20 anni…non ne ha dentro di sé solo 20, ne ha 20
ma ne ha anche 10, anche 16, anche 5. Io avevo riscoperto, con questo viaggio, ogni
età che i miei 23 anni contenevano. Un pallone era tornato a salvarmi un pomeriggio,
ma avevo anche voglia di lei; un tramonto mi donava i brividi, ma avevo anche voglia di
viaggiare per il mondo.
“Lo sai che sarò sempre in debito con te, vero?”
“Eh lo so si, mi hai lasciato da sola in una spiaggia deserta” fece lei da finta arrabbiata.
“Eh ma l’olio, Tonino, Cumpà se recco disturbo…”
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“Liliana?”
“Si?”
“Io ti amo”
“Andrea?”
“Si?”
“Io ti amo”
Io baciai lei, e il sole baciò noi, quasi intimorito da quanto quella nostra prima
dichiarazione brillasse nel cielo più di lui.
82
Il sole che ci inghiottiva
Mia madre si distese sul letto per riposarsi dal viaggio.
Mio padre mi disse: “Preparo due spaghetti per tutti?”. Mi venne il magone a quella
frase, da quanto tempo mio padre non cucinava per me.
“Ok, ti aiuto io” dissi con le lacrime agli occhi.
Preparammo un onestissimo pomodoro fresco e basilico, che fa sempre la sua porca
figura e riscosse infatti il consenso di tutti.
Mentre sparecchiavamo presi da parte mio padre e gli dissi: “Pà, volevo chiederti un
favore, anche se so che non sarà facile.”
“Dimmi, Andrea”
“Questa sera, al tramonto, possiamo andare tutti insieme a fare un giro in barca al
tramonto?”
“Mmm, non lo so…l’assicurazione in questi mesi non ci copre, non ricordo se ho qui le
chiavi dei motori e prima di uscire bisogna sempre far fare la manutenzione. Non si
può, Andrea, mi dispiace”.
Ore 18:00
Aiutai Pablo a salire dalla scaletta. Povero, era un misto di agitazione, paura e felicità.
“Daniii, l’hai presa la macchina fotografica?”
“Si, amo!”
I gabbiani ci diedero il benvenuto.
Si accesero i motori.
Quando sono insistente, so diventare talmente logorroico che la gente, per
disperazione, cede.
A nessuno avevo detto perché volessi tanto fare quell’uscita, ma si vede che dai miei
occhi ne avevano capito l’importanza.
Costeggiammo Vieste, proseguendo poi per l’isolotto, Mattinata, baia delle Zaghere e
Pugnochiuso.
Mentre ci godevamo il paesaggio da quella visione privilegiata, mi avvicinai a mia
madre.
La mia scelta stava per esserle comunicata. Avevo paura. Ma dovevo dirlo.
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“Mamma?”
“Si, Andrea?”
“Io avrei deciso…ecco si, diciamo, per ora non è definitivo, però…”
“Di rimanere qui.”
“Mah…tu…come fai a saperlo? Hai parlato con Liliana?”
“No, qui Liliana non centra, l’ho capito…perché sono tua madre, l’ho capito dai tuoi
occhi, da come ammiri quel piazzale, da come hai tenuto in ordine le piante in queste
settimane. L’ho capito dalla gioia dei tuoi occhi.”
“E a te non ti dispiace?”
“Sarei un’ipocrita a dire di no. Mi dispiace, ma tu hai ritrovato qui la tua felicità e qui la
devi tutelare. Non pensare che sia tutto risolto, Andrea. La vita ti metterà sempre
davanti ad ostacoli, sempre più impervi. Ma tu ora sei felice e quando lo sei tu, lo
divento anch'io.”
“Grazie” le dissero i miei occhi.
“E di cosa ti occuperai?”
“Ti ricordi -Il trabucco-, quel ristorante sugli scogli a Peschici in cui eri andata con papà
la sera in cui io non potevo venire?”
“Si, ricordo”.
“Il proprietario è lo zio di Liliana. È un ristoratore atipico, un amante dell’arte e della
musica jazz. Ma dato che lui è troppo preso dalla gestione del ristorante, sta cercando
un “consulente musico-gastronomico” per fare il marketing, la pubblicità del ristorante e
la programmazione musicale. Liliana le ha parlato dei miei studi e del mio lavoro e lui
mi ha proposto subito l’assunzione”.
“Bene! Sono proprio contenta per te, e poi ora, con i voli low cost...una volta possiamo
scendere noi, una volta salire voi”.
“Grazie, mamma!” E l’abbracciai. E lei capì che io avevo capito. Avevo capito che lei
aveva accettato Liliana. Lei sa bene della mia caratteristica di non lasciare scontato
nulla in un dialogo, tale da farmi sempre questo giochetto. Con quel “Voi” lei intendeva
me e Liliana, intendeva che era una brava ragazza, che ci avrebbe volentieri preparato
la cena anche se il nostro volo fosse arrivato a Milano a mezzanotte e che avevo fatto
la scelta giusta.
Intendeva tutto questo ma per dirmelo usò una parolina di tre lettere nascosta in una
frase che parlava di un altro argomento.
La magica intesa, mai svanita, con la mia mamma.
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Mi avvicinai a mio padre e gli presi il volante dalle mani. Le nostre dita per un attimo si
sfiorarono. Non accadeva da anni. Guardavo le nostre mani stringersi per un solo
istante.
In quell’attimo lui mi passava il testimone, la sua esperienza ma anche la sua fatica. La
barca era il nostro unico mezzo per poter galleggiare in una vita che sognavamo libera
come il mare.
Ripensai a Napoli, a quel porto da cui iniziò il mio viaggio. Ora quella barca non mi
faceva più paura, era diventata la mia alleata per guidare tutte le persone che più
amavo verso il mare della libertà.
Volevo quell’uscita, per donare a loro anche un solo attimo della libertà che sgorgava
dentro di me.
Invertii la rotta e puntai verso il mare aperto.
Accelerai e misi la prua verso il sole calante che tramontava sul confine tra cielo e
terra, tra vita e morte, tra gioia e dolore. Sembrava così accogliente che pareva
volesse inghiottirci nella sua pace eterna.
“IO VI SFIDO, STELLEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEE!!!” urlai più forte che potevo,
alzando le braccia al cielo e chiudendo gli occhi, con gli schizzi di acqua salata che
erano portati via dal mio viso dal vento della velocità.
“Andrea nella tua vita è mai esistito un momento in cui hai realizzato, magari anche per
un solo istante, di essere veramente felice?” mi chiese Liliana.
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“Si.
Ora,
amore mio,
ora”.
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Per l’istante
Stai apparecchiando l’ultimo tavolo.
Immensa nella tua semplicità.
Non devo più usare il passato remoto nei verbi, non più.
Siamo ad ora, presente, istante.
Zio Salvo è talmente contento di come sta andando l’attività che, a poco a poco, la sta
lasciando totalmente a noi. Quanto sono distanti le mail, i sorrisi di facciata, le finte
strette di mano, i mal di testa lancinanti.
Qui la vita è schietta, nel bene e nel male.
La fede che porti al dito fa un gioco di luce col sole che si riflette nel mare.
Il nostro matrimonio è stato come lo avevamo sognato: a San Francesco a
mezzanotte, celebrato da Don Antonio, sospesi tra un giorno e l’altro, iniziato il sabato
e concluso la domenica. Così avremo due anniversari da festeggiare!
Come previsto, pochi intimi, ma quelli bastavano.
Daniele chiaramente mio testimone.
“Liliana, siediti, finisco io. Ricordi cosa ti ha detto il medico? Non devi affaticarti”.
Da quattro mesi Liliana porta in grembo il sogno della mia vita.
Tra pochi mesi saremo in tre.
Provo paura, emozione, agitazione, esaltazione. Esattamente come Pablo prima di
salire in barca ma, in fondo, anche per me si tratta di una prima volta.
La vita è piena zeppa di prime volte.
Come ogni sera, sono seduto sugli scogli a gustarmi il tramonto.
Ti stai avvicinando con lo sguardo mai banale di chi sta chiedendo una cosa mai
banale.
“Andrea, secondo te sarà per sempre?”
“Liliana, facendomi questa domanda è come se mi servissi un assist a porta vuota. Ma
è troppo scontato per me segnare. Potrei dirti di si, come farebbe chiunque altro, ed
abbracciarti davanti a questo immenso.
Ma sarei ingiusto.
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Io non posso sapere se sarà per sempre. La vita è una matassa così imprevedibile. Hai
visto con noi cosa ha riservato, te lo saresti immaginata mai tre anni fa di essere in
questa situazione?!
Io non ti posso dire che sarà per sempre, ma ti prego di non rimanere delusa da questa
mia frase, perché dicendoti il contrario mancherei di rispetto al nostro amore,
promettendoti una cosa che non posso sapere.
Io ti dico che sarà per l’istante, non per sempre, ma per l’istante.
Ovvero, in ogni istante lotterò per noi, con noi, attraverso noi. Sperando che l’infinita
somma dei miei -per l’istante- porti al -per sempre- che ti aspettavi io dicessi.”
“Andrea”
“Si?”
“Per l’istante è la risposta che sognavo mi dessi”
“Liliana”
“Si?”
“Noi, immensi, per l’istante”
“Andrea”
“Si?”
“Noi, immensi, per l’istante”
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Leggi Roma al contrario
Ora questa è realtà. Non domani, non ieri, ma ora.
Ora, il nostro tempo.
Luna e sole della nostra terra ci proteggono, mentre paiono così distanti ai nostri occhi
ma così vicini nei loro intenti.
Avete presente quando alla fine di alcuni film fanno scorrere tutto all’indietro alla
velocità della luce per riportarvi ad un fatto? E farvi capire, solo ora, che in realtà avete
già avuto ai vostri occhi quell’anello mancante senza la quale prima non tornavano i
conti?
Solitamente avviene nei gialli. Qui non ci sono omicidi, ma forse ci sono dei moventi,
delle mancanze e delle risoluzioni.
Questa infatti è la storia di una persona che stava male ed ha fatto tutto un giro, nella
sua mente o nell’Italia poco cambia, per stare bene. E ora sta bene. Punto.
E’affascinante quanto le cose possano essere così maledettamente complicate e cosi
tremendamente semplici allo stesso tempo.
Basta cambiarne l’angolo di lettura.
Basta cambiarne lo spirito di lettura.
Basta cambiarne la lettura.
Bene, rimandate indietro le immagini che vi siete creati in queste pagine alla velocità
della luce.
Ci sono io, sdraiato su una poltrona. Il mio migliore amico ha il pollice attaccato al
citofono per convincermi ad uscire.
Ci sono io che non voglio uscire perché per me uscire o non uscire non fa alcuna
differenza. Mangiare carne o pesce quella sera non fa alcuna differenza. Impegnare a
costruirmi un angolo di felicità o deprimermi non fa alcuna differenza.
Ma il fondo esiste e quando lo tocchi il tuo corpo, meno male per Dio, ti dà un allarme;
e un allarme è figlio di un pericolo. Qui il pericolo è di non sapere più cosa sei, dove
vai, ma soprattutto se dove vai sia la direzione giusta.
Si procede a tentoni, si guida al buio.
Tu aspetti al semaforo, in mezzo ad altre persone. Le noti e ti accorgi che non c’è più
differenza tra i loro vestiti ed i tuoi, ma non c’è più differenza nemmeno tra i loro sogni
e i tuoi. Tu sei ognuno di loro, ma ognuno di loro è te.
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Scatta il verde, corri senza ricordare più nemmeno dove devi andare, né perché stai
correndo.
Alzi gli occhi, vedi il cielo che sembra volerti domandare qualcosa.
In quel preciso istante tu capisci che non sai più chi sei.
Bene, ora invece c’è un uomo, che poi sarei ancora io, seduto su una poltrona, che
potrebbe essere la stessa di prima.
Davanti a sé non ha più come prima un televisore quarantaquattro pollici, ma una
scogliera. Addosso non ha una camicia da centoottanta euro ma una maglietta della
Lazio non originale comprata da un ambulante in spiaggia e con dietro il nome del suo
idolo: Fernando Couto, uno che tra la caviglia ed il pallone sceglieva sempre la prima.
Quella persona è sulla stessa poltrona, in meno ha molti beni materiali, in più ha molta
voglia di vivere.
Qual è l’anello mancate di cui parlavamo prima che ha cambiato i giochi?
Non lo so. Giuro, non lo so.
Io vi ho raccontato una storia, ma non sono in grado e non sta a me spiegarvi perché
sia andata così. Il fatto che poi la storia fosse la mia, non fa alcuna differenza.
Facciamo così: scopritelo voi.
Scopritelo voi nelle facce di chi aspetta il verde al semaforo di Lunedì mattina, ma non
sa più chi è.
Scopritelo voi negli occhi di chi lascia un lavoro sicuro per seguire la sua passione, ma
proprio lì capisce chi è.
Scopritelo voi e poi venite qui al Trabucco a spiegarmelo. Tranquilli, offro io!
“Vorrei fare un viaggio” mi dice una voce ovattata come se la sentissi da sott’acqua.
E’ Liliana, che mi fa uscire dall’ennesimo viaggio mentale in cui mi ero immerso.
“Dove vorresti andare?”
“Roma” fa lei secca e decisa.
“Roma, come mai?”
“Perché a volte per essere stupiti basta ripensare ad una cosa di sempre e cambiarne
l’angolo di lettura.
Basta cambiarne lo spirito di lettura.
Basta cambiarne la lettura.
Leggi Roma al contrario”.