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L'Enigma Di Harwa

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Catalogue of the exhibition "L'enigma di Harwa", Torino 2004.

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Page 1: L'Enigma Di Harwa
Page 2: L'Enigma Di Harwa

L’ENIGMA DI HARWAAlla scoperta di un capolavoro del Rinascimento Egizio

A cura di Silvia EinaudiFrancesco Tiradritti

Page 3: L'Enigma Di Harwa

PresidentePaolo Alessio

VicepresidenteAlberto Alessio

ConsigliereErnesto Alessio

DirettoreDaniela Magnetti

Responsabile organizzativoGiulia Zanasi

Segreteria organizzativa e LogisticaAngela BenottoDario Steffanone

Responsabile ufficio stampae comunicazione Vittoria Cibrario

Ufficio stampaMarilina Di Cataldo

Relazioni esterneMaurizio Ravidà

L’ENIGMA DI HARWAAlla scoperta di un capolavoro del Rinascimento Egizio

Progetto dell’allestimentoLaura EinaudiGiovanna Sepe

Fotografie Franco LoveraFrancesco Tiradritti

Planimetrie Diethelm Eigner

Filmato in mostraAlessandro D’Alessandro

Musiche del filmatoGiacomo Tiradritti

Consulenza informatica Marco NicolettiAntonio RaffoRoberto Ferrero

Catalogo a cura diSilvia EinaudiFrancesco TiradrittiAnthelios Edizioni - Garbagnate Mil.se

Progetto grafico del catalogoMichele Riboldi

Musei prestatoriMuseo Egizio, TorinoMusée du Louvre, ParigiMuseum of Fine Arts, BostonMuseo Civico agli Eremitani, Padova

Gli scavi dellaMissione Archeologica Italiana a Luxorpresso la tomba di Harwasono resi possibiligrazie al sostegno di:Compagnia di San Paolo,Ministero degli Affari Esteri,Galgano,Toro Assicurazioni,IMA Faraone S.p.A.,Dalmine,Alcatel.

I teli didascalici in mostrasono stampati da Tardivello Imaging ???

Crediti fotograficiCatalogo 1, 2, 6, 7, 10, 11, 12, 14© 2004 Musée du LouvreDépartement des antiquitéségyptiennes / Chuzeville,Christian Decamps,Georges Poncet

Catalogo 3, 4, 5, 16, 17© 2004 Museum of Fine Arts,Boston

Catalogo 8© 2004 Gabinetto FotograficoMusei Civici di Padova

Catalogo 9, 15© 2004 Museo Egiziodi Torino / Lovera

Enti promotori

Compagnia di San Paolo

Fondazione Palazzo Bricherasio

Associazione Culturale Harwa 2001

Mostra a cura di Silvia EinaudiFrancesco Tiradritti

Page 4: L'Enigma Di Harwa

La Compagnia di San Paolo è particolarmente lieta di presen-

tare una mostra che fa luce sulla civiltà egizia in Torino che è uno

dei più importanti centri mondiali di questa civiltà.

Con l’illustrazione delle campagne di scavo che dal 1995 si

susseguono per riportare alla luce la tomba del dignitario Harwa si

è inteso restituire, da un lato, l’immagine di un bene storico in fase

di recupero e, dall’altro, mostrare i primi risultati del lavoro di una

équipe di egittologi e di studenti che, grazie anche al sostegno della

Compagnia, ogni anno si ritrovano e affiancano l’esperienza pratica

alla preparazione teorica universitaria. La mostra è interessante

come testimonianza di un cantiere di formazione-scuola. Lo scavo

è esso stesso un elemento di grande suggestione e permette di im-

medesimarsi in chi produceva le opere e di comprendere il contesto

culturale e di costume che le hanno determinate.

Va espresso, infine, un significativo apprezzamento alla Fon-

dazione Palazzo Bricherasio che, con la guida di illustri studiosi,

ancora una volta offre a Torino l’opportunità di riflettere sulle di-

verse espressioni d’arte e di storia e apre i suoi spazi all’intelligente

confronto tra le forme e i segni delle avanguardie, nell’ambito della

manifestazione “Torino contemporanea”, e le testimonianze sugge-

stive di una antica civiltà quale la egizia.

Franzo Grande Stevens Presidente della Compagnia di San Paolo

Page 5: L'Enigma Di Harwa

La Compagnia di San Paolo è particolarmente lieta di presen-

tare una mostra che fa luce sulla civiltà egizia in Torino che è uno

dei più importanti centri mondiali di questa civiltà.

Con l’illustrazione delle campagne di scavo che dal 1995 si

susseguono per riportare alla luce la tomba del dignitario Harwa si

è inteso restituire, da un lato, l’immagine di un bene storico in fase

di recupero e, dall’altro, mostrare i primi risultati del lavoro di una

équipe di egittologi e di studenti che, grazie anche al sostegno della

Compagnia, ogni anno si ritrovano e affiancano l’esperienza pratica

alla preparazione teorica universitaria. La mostra è interessante

come testimonianza di un cantiere di formazione-scuola. Lo scavo

è esso stesso un elemento di grande suggestione e permette di im-

medesimarsi in chi produceva le opere e di comprendere il contesto

culturale e di costume che le hanno determinate.

Va espresso, infine, un significativo apprezzamento alla Fon-

dazione Palazzo Bricherasio che, con la guida di illustri studiosi,

ancora una volta offre a Torino l’opportunità di riflettere sulle di-

verse espressioni d’arte e di storia e apre i suoi spazi all’intelligente

confronto tra le forme e i segni delle avanguardie, nell’ambito della

manifestazione “Torino contemporanea”, e le testimonianze sugge-

stive di una antica civiltà quale la egizia.

Franzo Grande Stevens Presidente della Compagnia di San Paolo

Page 6: L'Enigma Di Harwa

La Compagnia di San Paolo è particolarmente lieta di presen-

tare una mostra che fa luce sulla civiltà egizia in Torino che è uno

dei più importanti centri mondiali di questa civiltà.

Con l’illustrazione delle campagne di scavo che dal 1995 si

susseguono per riportare alla luce la tomba del dignitario Harwa si

è inteso restituire, da un lato, l’immagine di un bene storico in fase

di recupero e, dall’altro, mostrare i primi risultati del lavoro di una

équipe di egittologi e di studenti che, grazie anche al sostegno della

Compagnia, ogni anno si ritrovano e affiancano l’esperienza pratica

alla preparazione teorica universitaria. La mostra è interessante

come testimonianza di un cantiere di formazione-scuola. Lo scavo

è esso stesso un elemento di grande suggestione e permette di im-

medesimarsi in chi produceva le opere e di comprendere il contesto

culturale e di costume che le hanno determinate.

Va espresso, infine, un significativo apprezzamento alla Fon-

dazione Palazzo Bricherasio che, con la guida di illustri studiosi,

ancora una volta offre a Torino l’opportunità di riflettere sulle di-

verse espressioni d’arte e di storia e apre i suoi spazi all’intelligente

confronto tra le forme e i segni delle avanguardie, nell’ambito della

manifestazione “Torino contemporanea”, e le testimonianze sugge-

stive di una antica civiltà quale la egizia.

Franzo Grande Stevens Presidente della Compagnia di San Paolo

Page 7: L'Enigma Di Harwa

La Fondazione Palazzo Bricherasio è lieta di ospitare nel-

l’elegante cornice delle Sale Storiche questo evento espositivo che,

ancora una volta, sottolinea la grande tradizione e la centralità della

città di Torino nella ricerca e nello studio delle Antichità egizie. La

mostra presenta al pubblico i risultati finora raggiunti dalla Missione

Archeologica italiana a Luxor, che dal 1995, porta avanti gli scavi

nella tomba di Harwa, potente governatore della XXV dinastia.

Frammenti di rilievo, ushabty, arredi funerari e immagini di divinità

introducono il visitatore nella suggestiva atmosfera della dimora

ultraterrena di Harwa, offendo al pubblico l’opportunità di ammi-

rare reperti provenienti da alcune delle più importanti collezioni

egizie del mondo, quali quella del Museo del Louvre di Parigi, del

Museum of Fine Arts di Boston, del Museo Egizio di Torino e del

Museo Archeologico di Padova. Un collegamento diretto via internet,

inoltre, permette al visitatore di seguire in tempo reale le attività

della campagna di scavo nel sito della tomba, introducendo così un

importante elemento innovativo nel percorso dell’esposizione.

Paolo Alessio Presidente della Fondazione Palazzo Bricherasio

Page 8: L'Enigma Di Harwa

La riscoperta del favoloso mondo faraonico abbraccia un

lunghissimo cammino, iniziato subito dopo il tramonto della civiltà

egizia e continuato nei secoli e nei millenni. Tra il 1800 e il 1900

ha conosciuto un periodo di particolare splendore, con Napoleone

prima e con studiosi di tutta Europa poi.

In questo filone di ricerca artistica e culturale s’inserisce l’impre-

sa archeologica della tomba di Harwa che, senza possedere la grandiosità

di altri ritrovamenti che rappresentano ormai veri avvenimenti storici,

si presenta per chi, come noi la segue sin dall’inizio, piena di fascino.

Osservare, vedere, anno dopo anno durante le campagne di

scavo, la tomba di questo notabile riprendere forma nel suo susseguir-

si di sale e corridoi. Ritrovare sotto incrostazioni accumulatesi nei

secoli splendidi bassorilievi. Scoprire oggetti e ushabty che dovevano

accompagnare Harwa nel lungo cammino che segue la vita terrena.

Tutte queste cose hanno costituito e costituiscono un’esperienza

entusiasmante, anche per chi, pur subendone tutto il suo fascino, si

avvicina all’egittologia da dilettante.

Tutti i soci di Harwa seguono da vicino e, possiamo dirlo,

con trepidazione, il gruppo di ricercatori che lavorano attorno a

Harwa: certi che, con il proseguire delle ricerche, la tomba diverrà

un’alta testimonianza della cultura faraonica che, per i suoi valori

artistici e storici, andrà ad aggiungersi ai monumenti sublimi che la

circondano sulla riva occidentale dell’eterno Nilo.

Marco Bianchi Presidente dell’Associazione Culturale “Harwa 2001” ONLUS

Page 9: L'Enigma Di Harwa

FINTO TESTO Quale può essere stato il tramite tra le due

culture? La presenza di elementi tratti dalla letteratura egizia all’in-

terno delle sacre scritture è documentato ed evidente nell’Antico

Testamento soprattutto per quanto riguarda il caso del Cantico de

Cantici, che in parte deriva dalla poesia amorosa egizia del Nuovo

Regno. È possibile che il concetto della protezione del debole, ben

presente anche nelle culture ebraica e mesopotamica, sia confluito

nel Vangelo di Matteo da dirette influenze orientali ed egizie nella

prima stesura di questo testo, scritto in Palestina o in Siria in lingua

aramaica attorno al 60 d.C, e che andò presto perduto. Sul materiale

di questa redazione si basa Vangelo tramandatosi, scritto in greco

verso l’80 d.C., di cui probabilmente non è però l’apostolo Matteo

l’autore.

Tuttavia è interessante notare che nell’autobiografia di Harwa

il portare aiuto al bisognoso è il vanto dell’uomo giusto che nel mo-

mento in cui intraprende il viaggio ultraterreno afferma con orgoglio

la propria buona condotta e il resoconto della sua vita esemplare,

cosicché sia di aiuto nel momento del giudizio divino. Il capitolo 125

del Libro dei morti (Raverta 04), che invece ha lo scopo di dichia-

rare esplicitamente l’innocenza del defunto davanti al tribunale di

Osiride, riunitosi per giudicarne la condotta, non fa però menzione

alcuna di questi concetti.

D’altro canto, il discorso di Gesù riportato da Matteo è legato

alla prospettiva del giudizio finale ultraterreno, e diviene il criterio

con gli uomini potranno entrare nel regno dei cieli.

Il tramite per queste concezioni potrebbe essere rappresentato

dalla filosofia greca: dalle fonti classiche sappiamo dell’abitudine

dell’élite intellettuale greca (tra cui si ricordano Pitagora, Solone,

Page 10: L'Enigma Di Harwa

Platone, Eudosso di Cnido) di visitare o completare i propri studi

nella Valle del Nilo, il paese che godeva della fama prestigiosa di

“terra dei sapienti”. Per quanto riguarda l’epoca della XXV dinastia

non abbiamo però traccia della trattazione di problematiche simili

legate all’aldilà negli scritti dei filosofi presocratici. Bisogna dire che

le loro ricerche erano più indirizzate verso l’indagine dei principi

primi dell’universo e che l’esiguo numero di testi conservatisi sono

assai frammentari. Nella filosofia pitagorica troviamo accenni alla

separazione tra il corpo e l’anima, ma la teoria di riferimento è quella

della metempsicosi, estranea alle concezioni egizie e derivante, con

tutta probabilità, da ambiti indoeuropei o sciamanici.

INDICE

Le origini delregno di KushRobert Morkot

La XXV dinastiaMaria Beatrice Galgano

Alcuni aspetti delRinascimento kushitaEdna R. Russmann

Tebe durantela XXV dinastiaChristopher Naunton

La Sposa Divina, la Divina Adoratricee il Clero di Amon durante la XXV dinastiaMariam Ayad

La necropoli dell’Assasiffino alla XXVI dinastiaSilva Einaudi

L’Egitto del VII secolo a.C.e il mondo greco contemporaneoFederica Raverta

La tomba di HarwaFrancesco Tiradritti

Schede reperti

Abbrevizioni, bibliografia generale

pag.

15

39

55

77

103

125

145

163

207

223

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Le origini delregno di Kush

Robert Morkot

Lettore e Coordinatore di Storia AnticaUniversity of Exeter

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Robert Morkot · Le origini del regno di Kush

Figura 1

Planimetria della parte centrale della necropoli

di El-Kurru

Per un periodo di quasi cinquecento anni, dal 1550 al 1075 a.C. cir-ca, i faraoni del Nuovo Regno (dalla XVIII alla XX dinastia) avevano governato la regione che va da Assuan sino alla quarta cateratta del Nilo e che i testi egizi menzionano con il termine di Kush1. Questa fase fu seguita da un periodo durante il quale l’Egitto fu dominato da dinastie di origine libica e infine suddiviso in quattro regni e numerosi feudi (dalla XXI alla XXIV dinastia).

Scarse sono le informazioni sugli avvenimenti che ebbero luogo a Kush in quest’epoca: solamente poche iscrizioni e una pic-cola quantità di materiale archeologico sembrano essersi conservati. Su queste scarse fonti è basta l’interpretazione storica del periodo2. Sebbene le testimonianze provenienti da Kush siano scarse, fu du-rante questo periodo, durato all’incirca trecento anni (secondo la cronologia consueta), che si sviluppò un regno kushita indipendente. Questo regno è noto come “regno di Kush”, “regno di Kurru” o perio-do o regno di “Napata”. Verso il 750 a.C. questo regno kushita risultò abbastanza potente da conquistare l’Egitto, che rimase sotto il dominio dei suoi sovrani per circa cento anni (molto in generale dal 750 al 650 a.C.): un arco di tempo noto agli egittologi come XXV dinastia3.

Le evidenze archeologiche e testuali relative alla comparsa del regno kushita comprendono poche iscrizioni, la maggior parte delle quali provenienti dai templi dedicati al dio Amon al Gebel Barkal, e i ritrovamenti effettuati dalla necropoli reale di el-Kurru4. Negli ultimi due decenni archeologi e storici hanno riesaminato con attenzione

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L’enigma di Harwa

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Robert Morkot · Le origini del regno di Kush

Figura 2

Una delle più antiche sepolture di El-Kurru

costituita da una fossa circolare e tumulo.

Sullo sfondo i resti della piramide di un sovrano

del IV secolo a.C. (Fotografia di Robert

Morkot)

questi materiali arrivando a sviluppare alcune nuove teorie circa la formazione del regno5. Su questo argomento c’è tuttavia poco accordo e alcune delle interpretazioni restano controverse. Scavi più recenti, in particolare quelli condotti da Irene Vincentelli, suggeriscono che vi sia altro materiale di quest’epoca ancora da scoprire e studiare.

Il principale documento scritto inerente alle prime fasi del regno kushita è la “Stele della Vittoria” di Piankhy, rinvenuta nel 1862 a Gebel Barkal insieme ad altre stele6. L’iscrizione fornisce un dettagliato resoconto sul conflitto tra Piankhy da un lato e Tefnakht, il sovrano di Sais nel Delta occidentale, e i suoi alleati dall’altro. Dal testo emerge chiaramente il fatto che Piankhy era già riconosciuto come sovrano di Tebe e dell’Alto Egitto ed aveva alcuni re vassalli anche più a nord: a Ermopoli ed Eracleopoli. Una seconda stele, meno ben conservata, fu portata alla luce nel 1916 da George Reisner a Gebel Barkal. Anche questa accenna al controllo di Tebe da parte di Piankhy e suggerisce che l’espansione kushita in Alto Egitto abbia avuto luogo durante il regno del suo predecessore Kashta7.

Poco si conosce su Kashta8. Ad esclusione di una sua stele fram-mentaria scoperta a Elefantina, la maggior parte delle altre iscrizioni che in Egitto riportano il suo nome sono di epoca più tarda. Sappiamo con certezza che a Tebe egli insediò la propria figlia Amenirdis I come

erede della principessa libica Shepenupet I che ricopriva l’importante incarico religioso di Sposa Divina di Amon. L’intervento di Kashta in Alto Egitto ebbe probabilmente luogo nel periodo 750-740 a.C..

A seguito dei suoi scavi nei templi di Gebel Barkal nel 1916, Reisner rivolse la propria attenzione alle piramidi della necropoli di Nuri sulla riva opposta del fiume. Qui egli trovò le sepolture di una serie di sovrani risalenti sino al 300 a.C. circa. Seppur in parte saccheggiate, le tombe contenevano ancora molti oggetti raffinati. Alcuni dei sovrani erano noti dai templi di Gebel Barkal e la piramide maggiore risultò essere quella di Taharqo, il più grande dei re kushiti, il cui regno della durata di 26 anni si data con precisione tra il 690 e il 664 a.C. Il regno di Taharqo è ben documentato e fu un periodo di grande attività costruttiva in Egitto e a Kush, con la produzione di opere scultoree di grande finezza, in particolare a Tebe9. In un primo tempo il regno fu pacifico e prospero, ma nei suoi ultimi anni Taharqo dovette fronteggiare diverse invasioni in Egitto da parte degli eserciti dei sovrani assiri Asharaddon e Assurbanipal.

Reisner non trovò le tombe dei predecessori di Taharqo (Kashta, Piankhy, Shabaqo e Shebitqo) a Nuri e fu con riluttanza che egli volse la propria attenzione ai “piccoli miserabili ammassi di rovine” di el-Kurru, pochi chilometri a nord di Gebel Barkal, vicino al principale punto di attraversamento del fiume.

La necropoli di el-Kurru è situata su una collina molto bassa ed è divisa in due parti da uno uadi poco profondo. Su un pendio vi sono cinque tombe, una delle quali ha una camera decorata che la identifica come il luogo di sepoltura della regina Qalhata, madre di Tanutamani, successore di Taharqo. Anche le altre tombe ap-partenevano a donne reali, mogli dei sovrani della XXV dinastia. Di fronte a questo gruppo di sepolture c’era una tomba a piramide apparentemente molto più tarda (comunemente datata al IV secolo a.C.). La tomba più imponente nella zona principale della necropoli era anch’essa una piramide, situata di fronte alle altre sepolture e contemporanea alla piramide costruita davanti alle tombe delle regine, quindi anch’essa datata al IV secolo a.C. Le altre tombe nella parte principale delle necropoli si dividevano grosso modo in tre gruppi. Nel punto più alto della bassa collina c’erano quattro sepolture, probabilmente a tumulo (numerati Ku. Tum. 1, 2, 4, 5).

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Robert Morkot · Le origini del regno di Kush

Figura 3

Una delle sovrastrutture di El-Kurru che George A. Reisner ha suggerito di identificare con una

mastaba. I lati quasi verticali potrebbero

indicare vi fosse una piattaforma su cui si

innalzava una piramide. (Fotografia di Robert

Morkot)

Di fronte a queste c’era una fila di nove tombe, tutte costituite da strutture quadrate all’interno di recinti (numerate Ku. 7-11, 13-14, 21, 23). Sulla base delle poche tracce rimaste delle loro sovrastrutture Reisner pensò che si trattasse di originarie sepolture a mastaba. Più di recente Timothy Kendall10 ha ipotizzato che esse fossero piramidi dai lati molto inclinati poste sulla sommità di basse mastaba (una forma architettonica non attestata altrove in Egitto né in Nubia). Due altre sepolture erano di diverso tipo: strutture circolari dalle pareti inclinate, all’interno di recinti a forma di ferro di cavallo (Ku. Tum 6 e Ku. 19). Esse assomigliano alle sepolture trovate nelle necropoli del “Gruppo C” in Bassa Nubia. Davanti a questa fila di tombe si trovavano tre altre sepolture ricostruite da Reisner (sulla base di scarsissime evidenze) come piramidi (Ku. 15-17). Una quarta tomba (Ku. 18) era stata costruita sul fianco della collina dietro la fila più lunga, ma più vicina ai tumuli originari.

Con grande sorpresa di Reisner le quattro “piramidi” di el-Kurru risultarono erano appartenute a Piankhy, Shabaqo, Shebitqo e Tanutamani: i tre predecessori e l’immediato successore di Taharqo. A causa della collocazione di queste tombe nella zona meno elevata della necropoli, Reisner giunse alla conclusione di aver trovato a el-Kurru i luoghi di sepoltura dei predecessori di questi sovrani e ritenne che il primo monarca in linea di successione fosse quello sepolto nella posizione più prominente. Questa interpretazione, del tutto logica, è stata generalmente accettata come valida.

Reisner però proseguì oltre. La consueta procedura archeo-logica esamina gli oggetti associati con le sepolture e li data di con-seguenza. Anziché pensare che le tombe rappresentassero una sola linea di dinasti, Reisner ipotizzò che la necropoli dovesse essere suddivisa in sei “generazioni” con due o tre sepolture da assegnare a ciascuna “generazione”. Dato che le tombe più recenti appartene-vano ai sovrani che governarono sull’Egitto e potevano quindi essere datate al tardo VIII secolo a.C., Reisner suppose che le sepolture più antiche risalissero alla metà del IX secolo a.C. La sua interpretazione non ha trovato praticamente critiche per sessanta anni.

Il risultato è stato che, comparando le informazioni sulle origini di Kush derivate dalle iscrizioni di Piankhy e dalla necropoli di el-Kurru con la cronologia egizia convenzionalmente accettata, è

emerso un “vuoto” temporale (una “età oscura”) tra il crollo della sovranità coloniale (1070 a.C. circa) e l’“emergere” del regno kushita verso la metà del IX secolo a.C. Questo “inquietante vuoto storico” è diventato un elemento accettato e incontestato della storia kushita11.

Un primo riesame del lavoro di Reisner fu compiuto da Ti-mothy Kendall in occasione di una mostra tenutasi a Brockton nel 1982. Kendall suggerì che Reisner avesse torto e che una parte del materiale proveniente dalle tombe risalisse al tardo Nuovo Regno, tra le fine della XVIII e la XX dinastia. Le teorie di Kendall furono accettate da altri studiosi e furono così elaborate alcune differenti interpretazioni del materiale venuto alla luce. Dopo aver espresso dubbi circa le teorie formulate da Reisner, Kendall12 cambiò poi la propria opinione annunciando che, secondo lui, l’idea originaria di Reisner era corretta! A sostegno di questo suo cambio di parere Kendall pubblicò molto più materiale proveniente dalle tombe più antiche di el-Kurru. Anche se gran parte di quei manufatti sembra ri-salire al tardo Nuovo Regno, Kendall lo ha interpretato come se fosse stato “ereditato” dalle generazioni precedenti o fosse stato realizzato volutamente in uno stile arcaicizzante per il mercato kushita.

In una serie di studi, László Török13 ha sostenuto che la parte principale della necropoli di el-Kurru appartenesse a una linea di

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Robert Morkot · Le origini del regno di Kush

Figura 4

Veduta del grande tempio di Amon-Ra di Napata dalla sommità

del Gebel Barkal. Il santuario fu costruito tra la XVIII e la XIX dinastia

e considerevolmente ampliato da Piankhy (Fotografia di Robert

Morkot)

sovrani e che le quattordici sepolture anteriori a quelle dei re noti si riferissero quindi a quattordici generazioni precedenti (secondo la “cro-nologia lunga”, come è stata da lui definita). Török data dunque la prima sepoltura al 1020 a.C. circa. Questa ricostruzione non spiega ancora la datazione dei manufatti che sembrano risalire al periodo compreso tra la tarda XVIII e la XX dinastia, e si deve presumere una continuità di stili abbastanza più lunga di quanto sia solitamente ritenuto.

Una spiegazione molto più radicale fu avanzata da Peter Ja-mes e da alcuni suoi colleghi in uno studio di carattere più generale sui problemi cronologici relativi all’archeologia di tutto il Vicino Oriente di questo periodo14. La loro conclusione fu che le date asse-gnate per convenzione al Nuovo Regno egizio sono effettivamente troppo alte e che dovrebbero essere abbassate di un lasso temporale compreso tra 150 e 230 anni. Tale soluzione collocherebbe la fine della XX dinastia verso l’840 a.C. Tale proposta è però stata respinta in generale dagli egittologi e dagli archeologi della regione15. Questa cronologia riveduta situerebbe le prime sepolture di el-Kurru agli inizi della XIX dinastia e i manufatti associati ad esse risulterebbe-ro quindi contemporanei, qualora venisse accettata la “cronologia lunga” della necropoli16.

Török17 ha rivolto la propria attenzione ad alcuni pezzi di ce-ramica insolita, associati alle prime sepolture di el-Kurru, che hanno stretti paralleli con la ceramica scavata nella necropoli 176 di Debeira in Bassa Nubia. Nelle sepolture di quella necropoli, datata dagli archeologi alla tarda XVIII dinastia, sono anche state trovate coppe di faïence e fiaschette del pellegrino dello stesso tipo trovato a el-Kurru.

Un altro problema cronologico emerge dalle testimonianze relative al rituale della “rottura dei vasi rossi” attestata in alcune delle più antiche tombe di el-Kurru. I vasi in questione sono decorati con scene dipinte di bianco realizzate, sorprendentemente, secondo lo stile del tardo Nuovo Regno. Questo rituale è attestato anche a Debeira, in un contesto del tardo Nuovo Regno. In Egitto il rituale venne meno alla fine del Nuovo Regno. A el-Kurru, però, sia secondo la cronologia “lunga” di Török, sia secondo quella “breve” di Kendall, il rituale comparirebbe molto più tardi e sia Török18, sia Kendall19 ipotizzano che esso sia una re-invenzione locale di quello egizio. Sulla base della cronologia rivista proposta da James e i suoi colleghi, il rito apparterrebbe alle sepolture della tarda XX dinastia20.

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L’enigma di Harwa

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Robert Morkot · Le origini del regno di Kush

Le questioni emerse con le scoperte di el-Kurru sono piutto-sto complicate. La necropoli ha una cronologia “lunga” o “breve”? I dati relativi alle vere tombe non risolvono il problema21 dal mo-mento che alcune, se non tutte, ospitarono inumazioni successive. L’identificazione del materiale scheletrico non è soddisfacente, con opinioni diverse circa il sesso delle persone sepolte. Priva di paralleli è anche la spiegazione secondo cui la grande quantità di manufatti che sembrano essere “troppo antichi” sarebbero da intendersi come beni di “eredità”. L’analisi della ceramica effettuata da Lisa Heidorn22 non è stata in grado di risolvere le questioni cronologiche. A parte il vasellame insolito simile a quello di Debeira, la maggior parte del materiale che aveva paralleli egizi faceva parte di tipologie attestate in Egitto durante il periodo libico e kushita. Frammenti di alcuni contenitori fenici per immagazzinamento, solitamente datati nel periodo compreso tra il 1050 e l’850 a.C., sono stati trovati nella tomba Ku. 19, datata da Kendall all’830-815 a.C.

La ragione principale per cui sorgono questi problemi è data dall’originaria interpretazione della cronologia interna della necro-poli fornita da Reisner. Nessuna ricostruzione dei dati venuti alla luce nella necropoli di el-Kurru è stata effettuata senza pregiudizi. Ciò si spiega con il fatto che la storia della necropoli termina con le sepolture di quattro sovrani della XXV dinastia (Piankhy, Shabaqo, Shebitqo e Tanutamani) che possono essere datati con precisione. È stato così pregiudicato il normale processo di datazione di una necro-poli esclusivamente sulla base degli oggetti rinvenuti nelle sepolture. Le ultime sepolture sono saldamente datate alla metà dell’VIII secolo a.C., ma l’intera questione delle origini kushite deve essere confron-tata con la cronologia egizia convenzionalmente accettata.

I primi egittologi che hanno preso in considerazione le ori-gini dello stato kushita, come Brugsch23 e Breasted24, non avevano ancora a disposizione i dati provenienti dalla necropoli di el-Kurru e si basavano solamente sul materiale scritto, come la “Stele della Vittoria” di Piankhy. Essi inquadrarono le proprie teorie nell’ambi-to di una serie di ipotesi circa l’Egitto, la Nubia e l’Africa che oggi sono ritenute imprecise e fondamentalmente razziste25. Essi però scrivevano anche in un’epoca in cui non c’era un’attività di ricerca archeologica in Nubia e nel nord del Sudan: di conseguenza l’unica

documentazione disponibile era costituita dalle fonti egizie, greche e romane, e dai monumenti esistenti, la maggior parte dei quali di redazione o di influsso egizio.

È stato George Reisner a cambiare radicalmente il modo di intendere il passato nubiano con una serie di scavi da Assuan, nel nord, sino a Meroe, nel sud. Effettivamente molta dell’attenzione di Reisner si focalizzò sulle grandi necropoli di piramidi, sui templi e sulle fortezze, ma scavò anche necropoli databili (in termini cronolo-gici egizi) dall’età predinastica sino al periodo bizantino. Nonostante tutti i suoi errori di interpretazione, Reisner pose le basi della ricerca archeologica nella valle del Nilo a sud dell’Egitto. Malgrado l’enorme quantità di lavoro archeologico effettuato nella regione da Assuan a Khartum, è però stato scoperto poco che getti ulteriore luce sulle origini del regno kushita nel I millennio a.C..

Allora, quali altre testimonianze ci potrebbero essere? Uno dei problemi è che, fin di recente, la maggior parte degli studiosi che hanno lavorato con il materiale kushita erano egittologi, che hanno affrontato la questione da una prospettiva egizia, accettando generalmente che la relativa cronologia egizia fosse corretta. Essi hanno supposto che con la fine dell’amministrazione coloniale capeggiata dal Viceré di Nubia, la valle del Nilo a sud dell’Egitto fosse “ritornata” a una sorta di società “tribale” che avrebbe lasciato poche testimonianze26. È anche stato ampiamente ipotizzato che la popolazione della Bassa Nubia (tra la prima e la seconda cateratta) fosse emigrata altrove, forse più a sud. Alcuni siti che avrebbero potuto essere significativi, come Kawa (l’antica Gematon) non sono stati scavati completamente, mentre le testimonianze provenienti da altre località, come quelle di el-Kurru, possono essere state mal interpretate. Accettare o mettere in dubbio la cronologia egizia con-venzionale ha anche importanti conseguenze sull’interpretazione dei dati esistenti.

La necropoli di el-Kurru sembra trovarsi in uno strano iso-lamento. Se questo fu il luogo di sepoltura di un potente principato o regno, dove si trovava il relativo insediamento? E dove erano le sepolture del resto della popolazione? Kendall27 ha scritto che i diari di Reisner contenevano inedite piante schematiche di un muro con un bastione, ora sotto il villaggio di el-Kurru, e di una porzione di

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Figura 5

Copia della stele del sovrano Usermaatra Ary trovata a Kawa, databile

agli inizi del regno kushita

mura con una porta. Queste testimonianze suggeriscono l’esistenza di una fortificazione, ma non vi è alcun dato archeologico che ne indichi la datazione.

Al di là del fiume rispetto a el-Kurru si trova il grande villag-gio moderno di Sanam, che sorge vicino al punto di attraversamento fluviale e nei pressi dello sbocco della principale strada desertica che porta a sud lungo il Uadi Abu Dom, verso la savana. Qui F. Ll. Griffith e i suoi collaboratori hanno scavato un tempio costruito da Taharqo, un’altra costruzione che hanno chiamato “il Tesoro” e un’enorme necropoli di 1550 tombe28. Gran parte della necropoli è tuttora da scavare, dal momento che si trova sotto il villaggio. Griffith ha sostenuto che le prime sepolture di Sanam risalgono al regno di Piankhy e che la necropoli fu frequentata per circa centocinquanta anni. Nessuna delle tombe ha preservato la propria sovrastruttura, quindi non è possibile alcun confronto con Kurru. L’interpretazione di Griffith sul materiale è condizionata da una serie di supposizioni. Egli osservò che esistevano alcuni elementi, relativi sia alle tombe sia ai reperti, tali da suggerire una datazione per la necropoli al Nuovo Regno, ma rifiutò questa ipotesi. È possibile che lì ci fossero un insediamento e una necropoli molto più antichi, considerata l’importanza del sito sulle strade lungo il Butana e in relazione al punto di attraversamento del fiume. La necropoli di Sanam costi-tuisce insomma un altro problema cronologico e il materiale deve essere riesaminato.

Sebbene nessuno di coloro che lavorano sulle origini del regno kushita neghi che el-Kurru è un sito chiave, diversi storici hanno so-stenuto che altre regioni non hanno ricevuto l’attenzione, archeologica o storica, che avrebbero meritato29. Le due zone chiave sono la savana meridionale, intorno a Meroe, che fu il fulcro delle ultime fasi storiche del potere kushita, e la regione di Dongola a nord, dove si trovava l’an-tico regno di Kerma. Anche se a Meroe vi sono alcune testimonianze archeologiche indicanti che la città e la necropoli sono anteriori al-l’epoca di Piankhy e dell’espansione kushita, qualsiasi teoria circa il fatto che la famiglia regnate o un determinato sovrano provenissero da questa regione resta puramente ipotetica30.

La regione di Dongola è la ricca terra a sud della terza ca-teratta. Questa zona fu il centro del più antico regno kushita la cui

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capitale era Kerma. Nel Secondo Periodo Intermedio questo stato divenne così potente da prendere il controllo delle fortezze egizie della Bassa Nubia sino a minacciare lo stesso Egitto. Sebbene Thabit H. Thabit31 abbia suggerito che il tardo regno kushita potrebbe essere disceso dai sovrani di Kerma32, questa idea ha avuto poco sostegno a causa della mancanza di testimonianze archeologiche o testuali di supporto, e a causa dell’enorme lasso di tempo tra i due regni (circa 800 anni secondo la cronologia convenzionale). Nonostante la nota importanza di Kerma e la ricchezza agricola della regione, ci sono state poche ricerche archeologiche nella regione di Dongola, sin di recente. Nel corso di numerose stagioni di scavo, Charles Bonnet e la sua missione congiunta sudanese-svizzera hanno notevolmente esteso le nostre conoscenze sul sito di Kerma e messo in dubbio molte delle interpretazioni basate sugli originari scavi effettuati là da Geor-ge Reisner. Tra i ritrovamenti molto significativi di Kerma, Bonnet ha scavato un palazzo del “periodo meroitico” e, più di recente, un nascondiglio contenente statue di Taharqo e altri sovrani kushiti. Queste nuove scoperte mostrano che Kerma continuò a essere un centro di primaria importanza durante il tardo regno kushita.

Poco più a sud di Kerma, a Kawa (l’antica Gematon) si trova un altro importante sito archeologico. Gematon fu il fulcro dell’at-tività costruttiva dei faraoni del Nuovo Regno e durante il regno di Taharqo vi fu innalzato un altro grande tempio che, insieme ad altri due più piccoli, fu scavato da Ll. Griffith, L.P. Kirwan e M.F.L. Macadam tra il 1929 e il 1936. Griffith non scavò le enormi colline di detriti contenenti i resti dell’antica città che circondano i templi. Proprio lì sono iniziate di recente attività di ricognizione e scavo da parte della Sudan Archaeological Research Society. Le testimonianze scritte provenienti da Kawa33 e dalle stele di Gebel Barkal rivelano che Gematon era una delle più importanti città kushite settentrionali.

Il tempio di Gematon, costruito durante il regno di Taharqo, era grande ed imponente34. Al suo interno sono state trovate numerose iscrizioni che ricordano la sua fondazione e le ragioni per cui il sovrano fece costruire il santuario, dedicato a una forma del dio Amon. Taharqo narra che quando era ancora un principe fu convocato in Egitto dal re Shebitqo e durante il suo viaggio verso nord si fermò a Gematon dove trovò il tempio coperto di sabbia. Taharqo racconta anche che fu

proprio quello il luogo in cui un precedente sovrano kushita, “il capo, il figlio di Ra” Alara aveva consacrato sua sorella al dio in qualità di suonatrice di sistro. Dai documenti sappiamo che la sorella di Alara era la nonna materna di Taharqo. Taharqo cita il discorso di Alara a Amon, che potrebbe essere una copia di un’iscrizione presente nel tempio più antico (forse incisa su una stele) e allude all’esistenza di un’opposizione all’autorità di Alara. In un’iscrizione più tarda di Kawa (VI secolo a.C.), il re Irike-Amanote implora Amon affinché gli possa concedere una vita lunga come quella di Alara, e anche il re Nastasen (IV secolo a.C.) fa riferimento ad Alara in un’iscrizione. La tradizione kushita considera quindi Alara come una figura di primo piano nella formazione del regno. È degno di nota il fatto che non vi siano indicazioni circa una sua sepoltura a el-Kurru: è possibile che Kawa fosse la sede del suo potere?

Durante gli scavi di Kawa Griffith ha portato alla luce due pic-coli templi adiacenti rivolti verso la via per le processioni che conduce al tempio principale di Taharqo. Uno dei due templi fu costruito da Tutankhamon nella XVIII dinastia, mentre è stato più difficile datare il secondo. Esso comprendeva una cappella in pietra con rilievi scol-piti, ma ormai priva di qualsiasi nome reale, a causa della distruzione delle parti superiori. Intorno alla cappella vi erano una serie di sale in mattoni crudi e un cortile con colonne in pietra che erano state nuova-mente scolpite per il re Harsiyotef (IV secolo a.C.). Nel tempio Griffith trovò una stele iscritta con i cartigli di un sovrano chiamato Ary. Nella sua pubblicazione degli scavi, M.F.L. Macadam35 ha affrontato il tema della datazione di questo re e di altri quattro che egli ritiene debbano essere associati con lui. Macadam ha denominato questi sovrani “neo-ramessidi” a causa dei loro nomi e della loro titolatura, li ha raggruppati insieme e ha suggerito che essi fossero stati sepolti in una serie di piramidi vicine al Gebel Barkal nel periodo 320-280 a.C.36. In effetti solamente due dei sovrani hanno nomi che potrebbero essere considerati “neo-ramessidi” e non vi è nulla che consenta di associare nessuno di loro con le piramidi di Gebel Barkal.

Il nome completo del re che lasciò la sua stele a Kawa era Usermaatra-setepenra Ary-mery-Amon, la cui prima parte (il nome di incoronazione) è chiaramente ripresa dal nome di Ramesse II. Questo sovrano assunse una titolatura reale egizia completa con cinque nomi

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Figura 6

Il tempio di Semna fu costruito da Hatshepsut

e Thutmosi III. Sulla facciata a sinistra della porta si intravedono il rilievo e l’iscrizione di

Karimala. (Fotografia di Robert Morkot)

e titoli, presentandosi come “figlio di Amon”. L’iscrizione, anche se scritta in geroglifici egizi, è molto difficile da tradurre, ma include un anno di regno, il ventinovesimo, che indica un regno piuttosto lungo. La scrittura del nome “Ary” è molto simile a quella usata per scrivere “Alara” nelle iscrizioni più tarde ed è possibile che i due debbano essere posti in relazione.

Tre monumenti possono essere ascritti all’altro sovrano definito da Macadam “neo-ramesside”. In origine tutti erano proba-bilmente consacrati al Gebel Barkal. Questo sovrano seguì Sety I e Ramesse XI nella scelta del proprio nome di incoronazione Menmaa-tra, con l’epiteto aggiuntivo di “prescelto di Amon”. Un’iscrizione frammentaria indica che anch’egli usò la titolatura completa com-posta da cinque nomi tipica di ogni sovrano egizio. Sfortunatamente la scrittura del suo nome personale è molto difficile da capire, ma esso è certamente kushita. Dows Dunham37 ha pubblicato il materiale scavato da Reisner nei templi di Gebel Barkal, compresi due fram-menti di un rilievo che raffigurava Menmaatra davanti a Amon con la testa di ariete. Commentando questo rilievo, Hans Goedicke38 ha suggerito che il re debba essere datato all’epoca della XXI dinastia piuttosto che al periodo tolemaico come aveva proposto Dunham seguendo la teoria di Macadam.

I nomi e i titoli, così come lo stile dei loro monumenti fram-mentari, indicano che Usermaatra Ary e Menmaatra potrebbero appartenere al periodo compreso tra la fine del dominio egizio e la comparsa del regno kushita. È sempre difficile argomentare basan-dosi esclusivamente su testimonianze storico-artistiche e testuali, e deve essere chiarito che non tutti coloro che hanno lavorato su questo periodo hanno accettato la teoria secondo cui questi sovrani risalirebbero a un’epoca così antica. C’è però un monumento che appartiene certamente a quest’epoca oscura della storia kushita: l’iscrizione di Karimala a Semna.

L’iscrizione di Karimala è incisa sulla facciata del tempio co-struito dal faraone della XVIII dinastia Thutmosi III nella fortezza di Semna, che controllava la seconda cateratta. Il rilievo è ben eseguito, ma l’iscrizione, come quella di Ary a Kawa, è scritta in geroglifici egizi ed è molto difficile da tradurre. L’analisi più approfondita del testo è stata effettuata da Ricardo Caminos39. In uno studio precedente

M.F.L. Macadam aveva suggerito che il nome scritto fosse Katimala e dovesse essere interpretato come “Kadimalo” che in lingua meroitica significherebbe “bella donna”. Caminos era però certo che il nome scritto fosse “Karimala”. L’iscrizione è scritta in geroglifici, ma da qualcuno la cui lingua nativa non era quella egizia, per cui la sua lettura risulta difficile. La lingua del testo ha somiglianze con altre lingue del periodo libico attestate in Egitto.

L’iscrizione di Karimala è datata al quattordicesimo anno di un sovrano non nominato. Karimala stessa è definita “la grande sposa reale, la figlia del re”. È raffigurata come una regina egizia, con la spoglia d’avvoltoio e le alte piume sul capo, porta un flagello ed è ritratta davanti a Iside. Il lungo testo fa diverse volte riferimento a un “incidente” di cui non si danno ulteriori spiegazioni: il culto di Amon era stato abbandonato e questa è una possibile spiegazione dei problemi; sembra inoltre che fosse stata condotta una politica di opposizione al sovrano da parte di qualcuno chiamato Makaresh. L’”incidente” fece sì che il sovrano si “inchinasse ad Amon” e rein-stallasse il suo culto; come conseguenza, i nemici furono sconfitti e il sovrano riacquistò la sua autorità. Dal momento che nessun re viene nominato specificatamente, basandosi sulla composizione dei

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Per un periodo di quasi cinquecento anni, dal 1550 al 1075 a.C. circa, i faraoni del Nuovo Regno (dalla XVIII alla XX dina-stia) avevano governato la regione che va da Assuan sino alla quarta cateratta del Nilo e che i testi egizi menzionano con il termine di Kush . Questa fase fu seguita da un periodo durante il quale l’Egitto fu dominato da dinastie di origine libica e infine suddiviso in quattro regni e numerosi feudi (dalla XXI alla XXIV dinastia).

Scarse sono le informazioni sugli avvenimenti che ebbero luogo a Kush in quest’epoca: solamente poche iscrizioni e una piccola quantità di materiale archeologico sembrano essersi conserva-ti. Su queste scarse fonti è basta l’interpretazione storica del periodo . Sebbene le testimonianze provenienti da Kush siano scarse, fu durante questo periodo, durato all’incirca trecento anni (secondo la cronologia consueta), che si sviluppò un re-gno kushita indipendente. Questo regno è noto come “regno di Kush”, “regno di Kurru” o periodo o regno di “Napata”. Verso il 750 a.C. questo regno kushita risultò abbastanza po-tente da conquistare l’Egitto, che rimase sotto il dominio dei suoi sovrani per circa cento anni (molto in generale dal 750 al 650 a.C.): un arco di tempo noto agli egittologi come XXV dinastia .

Le evidenze archeologiche e testuali relative alla comparsa del regno kushita comprendono poche iscrizioni, la maggior parte delle quali provenienti dai templi dedicati al dio Amon al Gebel Barkal, e i ritrovamenti effettuati dalla necropoli reale di el-Kurru . Negli ultimi due decenni archeologi e storici hanno riesaminato con attenzione questi materiali arrivando a sviluppare alcune nuove teorie circa la formazione del re-gno . Su questo argomento c’è tuttavia poco accordo e alcune delle interpretazioni restano controverse. Scavi più recenti, in particolare quelli condotti da Irene Vincentelli, suggeriscono

Figura 7

Disegno della scena incisa sulla facciata

del tempio di Semna: Karimala è ritratta di fronte alla dea Iside

titoli Caminos suggerì prudentemente che Karimala stessa fosse il sovrano in questione. Questa iscrizione pone una serie di problemi. In primo luogo la scelta del tempio di Semna è straordinaria visto che esso si trova lontano da ogni possibile centro di potere di quel-l’epoca. La dea Iside, che ha una posizione di primo piano nel rilievo, non è menzionata nel testo mentre Amon, che è nominato, non è raffigurato. Karimala è al tempo stesso moglie e figlia di sovrani, la cui identità è però sconosciuta.

Passando ora a altre testimonianze archeologiche, è certo che devono esserci tracce a noi tuttora sconosciute, probabilmente in grandi zone non scavate come la collina che ricopre l’antico inse-diamento di Kawa. Sono state però effettuate alcune recenti scoperte e riconsiderazioni che indicano quanto l’interpretazione comune di questo periodo come “età oscura” sia sbagliato. Come, per esempio, il sito di Qasr Ibrim, ora quasi sommerso dalle acque del lago Nas-ser, un importante centro religioso e fortificato tra l’Età Meroitica e il Periodo di Ballana (dal I secolo a.C. sino al V secolo d.C.). Qasr Ibrim si trova di fronte a Aniba (Miam), la città amministrativa del Nuovo Regno, e gli scavi dell’Egypt Exploration Society hanno qui portato a importanti scoperte nel corso di diversi decenni. È noto da tempo che Taharqo costruì qui una fortezza e alcuni templi, che facevano parte di quella rete di costruzioni che andava dal cuore della zona kushita sino al suo regno egizio. Vi è ora la prova dell’esi-stenza di porte e fortificazioni anteriori di molti decenni agli edifici di Taharqo40. Sappiamo che Aniba continuò ad essere occupata fino alla fine del regno di Ramesse XI e probabilmente anche oltre: forse Qasr Ibrim in quel periodo era già fortificata.

Un altro sito che può contenere importanti informazioni sullo sviluppo del regno kushita si trova tra el-Kurru e Gebel Barkal, a Illet el-Arab. Qui Irene Vincentelli41 ha scavato un certo numero di tombe che sembrano appartenere ai primi anni del regno kushita.

Nella sua pubblicazione inerente l’attività archeologica del-l’Oriental Institute di Chicago in Nubia negli anni Sessanta, Bruce Williams42 ha riesaminato numerose sepolture scavate da George Reisner e da altri archeologi molti decenni prima. Williams è giun-to alla conclusione che, contrariamente all’opinione generalmente accettata, vi siano prove dell’esistenza in tutta la Bassa Nubia di se-

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Figura 8

Infrastruttura della tomba di Piankhy

a El-Kurru (Ku 17). Quanto resta della sovrastruttura non

consente di stabilire se si trattasse di una

piramide o di una mastaba (Fotografia di

Robert Morkot)

polture che potrebbero genericamente essere definite “napatee”. Gli amuleti e l’altro materiale proveniente da alcune di queste sepolture, in particolare a Mirgissa, sono sorprendentemente simili a ciò che è stato scoperto a Sanam. Ricognizioni e scavi condotti da André Vila tra la Seconda Cateratta e Abri hanno portato alla luce tombe paragonabili a queste, dalle quali risulta evidente che alcune delle sepolture appartengono a un periodo anteriore alla “XXV dinastia”. Sembra quindi che la Nubia non fosse completamente spopolata, come affermerebbero studi precedenti.

Una questione chiave emerge dalle testimonianze estrema-mente complesse relative alla formazione del regno kushita: quale fu il ruolo giocato dall’Egitto in questi avvenimenti nel tardo Nuovo Regno e nel periodo libico? Le prime ricostruzioni degli avvenimenti, da parte di Brugsch e Breasted, supponevano che un ruolo cardine fosse stato ricoperto dal clero di Tebe43. Questa teoria è stata in se-guito respinta da un gruppo di studiosi che sosteneva invece l’idea di uno sviluppo indigeno.

Nel tardo Nuovo Regno Amon era il dio principale dell’Alta Nubia, con templi a Gebel Barkal, Kawa, Soleb (anche se probabilmente caduto in disuso), Sai, Amara, e forse anche in altre località. I dati che emergono dalla stele di Karimala indicano che il culto di Amon era stato abbandona-to. Kendall sostiene che le testimonianze archeologiche del Gebel Barkal hanno rivelato l’esistenza di un periodo in cui i templi rimasero inattivi anche in questa località. Il ripristino del culto di Amon sembrerebbe quin-di essere un’importante azione dei sovrani nubiani più antichi, ma non possiamo sapere se ciò sia stato in qualche modo stimolato dall’Egitto o abbia avuto un qualche altro intento politico. Se i sovrani Menmaatra e Usermaatra Ary appartengono a questo periodo, abbiamo un’ulteriore prova, oltre all’iscrizione di Karimala, dell’adozione di uno stile egizio da parte dei monarchi autoctoni per i loro monumenti ufficiali. Il riconnettersi all’Egitto attraverso manifestazioni artistiche e religiose potrebbero essere stati utilizzati per conferire una sorta di “legittimazione” ai nuovi sovra-ni; ciò non significa però che essi intendessero già conquistare il nord. È tuttavia chiaro che, all’epoca dell’espansione kushita in Egitto durante i regni di Kashta e Piankhy, il culto di Amon era diventato un’importante componente ideologica dello stato kushita e Piankhy si presentò come colui che agiva in nome di Amon.

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Per quel che riguarda la fine della sovranità egizia, abbiamo testimonianze che dimostrano l’ufficiale abbandono della Nubia a sud della Seconda Cateratta. Durante il Nuovo Regno gli egizi costruirono diverse postazioni fortificate e città con grandi templi tra le Seconda e la Terza cateratta. Una di queste, Amara, funse da centro ammini-strativo egizio durante la XIX e XX dinastia. Secondo gli archeologi impegnati negli scavi dei quartieri ufficiali, le testimonianze emerse avrebbero dimostrato che la città fu abbandonata dall’amministra-zione verso la fine della XX dinastia. Sappiamo però che le città e i centri fortificati della Bassa Nubia continuarono a rimanere in uso fino alla fine del regno di Ramesse XI.

Nel formulare un giudizio generale sui dati disponibili rela-tivi ai regni degli ultimi sovrani ramessidi, sembra abbastanza vero-simile che la frontiera della provincia egizia fosse stata ridisegnata all’altezza della Seconda Cateratta.

Sembra del tutto probabile che il regno kushita, che sarebbe in seguito riuscito a conquistare l’Egitto, sia da ritenere il risultato di guerre civili svoltesi alla fine del Nuovo Regno, conclusesi con la comparsa di diversi regni o feudi o singoli sovrani. Questi potevano avere basi di potere in Bassa Nubia e ancora più a sud, forse a Kawa e nella regione del Gebel Barkal o el-Kurru. Sembra verosimile che i contatti con l’Egitto, in particolare di tipo commerciale, siano continuati per tutto il periodo libico. Le testimonianze esistenti per interpretare la formazione del re-gno kushita sono estremamente complesse. Vi sono numerosi problemi relativi alla comprensione dei dati in nostro possesso ed è chiaro che noi conosciamo solamente una parte dell’intera storia.

Note

1 Trigger 1976; Morkot 2001.2 Arkell 1961; Adams 1964; Dixon 1964 Adams 1977.3 Morkot 2000 e il contributo di Galgano in questo catalogo.4 Reisner 1917, 1918, 1919A; Dunham 1955.5 Kendall 1999; Morkot 2000; O’Connor 1993; Török 1995B.6 Morkot 2000, pp. 167-196.7 Morkot 2000, pp. 179-180.8 Morkot 2000, pp. 157-166.

9 Morkot 2000, pp. 229-292 e il contributo di Russmann in questo catalogo.10 Kendall 1999.11 Morkot 1994.12 Kendall 1999.13 Török 1995A, 1995B, 1999A.14 James et alii 1991A.15 James et alii 1991A, 1992; Aston 1993.16 Morkot 1994, 1995, 1999.17 Török 1995A.18 Török 1995A.19 Kendall 1999.20 Morkot 2003, p. 166.21 Beck in Kendall 1999.22 Heidorn 1994.23 Brugsch 1877.24 Breasted 1905.25 Morkot 2003.26 Trigger 1976.27 Kendall 1999.28 Griffith 1922, 1923.29 Dafalla 1999; Morkot 1999, 2000.30 Priese 1970.31 Thabit 1959.32 Cfr. anche Dixon 1964; Dafalla 1999.33 Macadam 1949.34 Macadam 1955.35 Macadam 1949.36 Morkot in James et al., 1991A; Morkot 1992-1994; 1994; 1995; 2000, pp. 145-150)37 Dunham 1970.38 Goedicke 1972.39 Caminos 1994, 1998.40 Horton 1991.41 Vincentelli 1999.42 Williams 1990.43 Morkot 2003.

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Maria Beatrice Galgano

La XXV dinastia

Membro della Missione Archeologica Italiana a Luxor

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All’interno del quadro storico egiziano La XXV dinastia rappresenta un momento di transizione tra il Terzo Periodo Intermedio, convulso e confuso, e l’Epoca Tarda, che grazie all’ascesa della dinastia saita riporta la pace e la tranquillità nello stato egiziano. Dopo la fine del Nuovo Regno e la decadenza della XX dinastia, l’Egitto aveva attraversato, nel corso del Terzo Periodo Intermedio, una forte crisi del potere centrale e delle istituzioni. Il paese era ormai spezzato in due: a nord alcune dinastie di origine libica incapaci di assicurare la stabilità politica e di difendersi dalle minacce che provenivano dall’esterno e, a sud, il sacerdozio di Amon a Tebe che ormai, di fatto, governava l’Alto Egitto.

È in questo contesto storico che emerse la XXV dinastia, detta anche “nubiana” (o “etiope” dallo storico greco Manetone), le cui origini erano nella zona più meridionale della Nubia, il paese chiamato dagli egiziani “Kush”, l’odierno Sudan settentrionale. I sovrani kushiti approfittarono dell’instabilità politica dell’Egitto e della mancanza di un governo centrale per invaderlo e nominarsi faraoni. La Nubia era stata da sempre oggetto d’interesse e di conqui-sta per gli egizi. Confinando a sud con l’Egitto, essa rappresentava un’importante barriera difensiva contro le incursioni dei popoli più meridionali e una via d’accesso per gli scambi commerciali con l’Africa profonda da dove provenivano materie prime quali l’avorio, l’oro, l’incenso e le spezie. L’abbandono di questa regione da parte degli egizi dopo la XX dinastia (durante il Nuovo Regno essa era

Catalogo 2

Statuetta di Bastet a testa di leonessa a

nome di Piankhi, Parigi, Museo del Louvre, N

3915 (© 2004 Musée du Louvre Département

des Antiquités Égyptiennes)

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stata completamente sottomessa e governata dai faraoni mediante un funzionario che portava il titolo di “viceré di Kush”) aveva reso possibile, tra il IX e l’VIII secolo a.C., la nascita di una stato indi-pendente che aveva come capitale la città di Napata (l’odierno Gebel Barkal), città fondata da Thutmosi III a valle della Quarta Cataratta e importante luogo di culto di Amon.

Di questi primi anonimi sovrani kushiti conosciamo solo le loro sepolture nella necropoli a el-Kurru (località situata a non molta distanza da Napata).

I re della XXV dinastia, sebbene fossero stranieri, scelsero di farsi ritrarre come i loro predecessori egizi (anche se le loro effigi sono riconoscibili per un trattamento molto marcato dei lineamenti del volto) per i quali nutrivano un profondo rispet-to. Il loro periodo di governo risente fortemente dell’influenza degli antichi dominatori e, salendo al trono dell’Egitto, essi ne preservarono fedelmente la tradizione ideologica e religiosa. I documenti ufficiali della XXV dinastia sono redatti in lingua egiziana e scrittura geroglifica e sono datati seguendo la consue-tudine egizia di calcolare gli anni a partire dall’intronizzazione di ogni sovrano. I monarchi kushiti dimostrano inoltre un forte sentimento di pietà verso le divinità egizie, osservando con un rispetto rigoroso i riti e tabù.

La XXV dinastia trae la sua maggiore ispirazione dalle epoche quali l’Antico Regno e il Medio regno e si presenta come un’epoca caratterizzata da un forte arcaismo, nella lingua, nell’iconografia, nel-l’arte e nell’ideologia. Nonostante questa quasi totale egittizzazione, i sovrani kushiti restarono sempre profondamente legati alla loro terra d’origine, la Nubia, scegliendola come loro dimora per l’eternità.

Il primo re di questa dinastia di cui conosciamo il nome è Alara (775 – 765 ?), ma è solo con Kashta (765 – 745), suo fratello e successore, che abbiamo fonti storiche dirette. Kashta, dopo aver completato l’opera di riconquista della Bassa Nubia, iniziata molto probabilmente da Alara, riuscì a estendere il suo potere fino ad Assuan dove dedicò una stele al dio Khnum di Elefantina. Kashta cercò molto probabilmente di raggiungere anche Tebe, il centro più importante del culto di Amon, il dio adorato anche a Napata, ma a questo riguardo non vi sono testimonianze sicure.

Sarà Piankhy (745 – 713), successore e figlio di Kashta, il primo sovrano kushita che oltrepasserà l’Alto Egitto, conquistando tutto il paese. Piankhy resta ancora una figura problematica. Avendo cambiato più volte la propria titolatura, gli egittologi hanno inizial-mente creduto esistessero più sovrani con lo stesso nome. A questo va aggiunto il fatto che esistono pochi documenti databili al suo regno, il più importante dei quali è sicuramente la monumentale “Stele della vittoria”. Devoto al dio Amon, come Kashta, Piankhy si assicurò il pieno controllo di Tebe imponendo l’adozione di sua sorella Amenirdis come Divina Adoratrice di Amon a Shepenupet I che deteneva questa funzione. Amenirdis I sostituì poi Shepenupet I nel dodicesimo anno di regno di Piankhy.

La carica di Divina Adoratrice di Amon, attestata già nel Nuovo Regno, a partire dal regno di Osorkon III (788 – 760) acquistò sempre maggiore importanza. Fu Osorkon a imporre l’assunzione a questa carica della propria sorella Shepenupet I. Il suo tentativo era quello di limitare lo strapotere del Sommo Sacerdote di Amon esercitando un controllo indiretto sullo stato tebano proprio tramite la supervisione della Divina Adoratrice. Le Divine Adoratrici godevano di poteri regali e avevano il privilegio di scrivere i loro nomi dentro a cartigli.

Piankhy si dovette ben presto scontrare con Tefnakht (730 - 718), il principe di Sais, una città del Delta occidentale che, temendo la crescita del potere dei nubiani si coalizzò con i monarchi che regnavano nell’Egitto settentrionale e attaccò il sud dirigendosi verso Tebe. Il sovrano kushita bloccò e sconfisse Tefnakht e iniziò la sua campagna di conquista dell’intero paese. Dopo aver sottomesso i governatori locali del Medio Egitto, tra cui Namelot di Ermopoli e Pef-tjau-auy-Bastet di Eracleopoli, riuscì a conquistare Menfi e il Delta, costringendo alla sottomissione tutti i regni settentrionali. A Eliopoli Piankhy ricevette l’investitura da parte del clero di Ra e ripeté la sua cerimonia d’incoronazione. Una volta conquistato tutto l’Egitto il sovrano nubiano fece ritorno a Napata dove s’impegnò a celebrare le sue imprese attraverso opere monumentali e stele. Tra queste la famosissima “Stele della vittoria”, una stele di granito ritrovata nel 1862 da un ufficiale dell’esercito egiziano e oggi conservata al Museo del Cairo. Questo testo, redatto in lingua egiziana classica e scritto in geroglifico, è

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datato al ventunesimo anno di regno del re ed era collocato nel santuario principale di Amon a Napata. È un decreto che sancisce il potere del sovrano sull’Alto e Basso Egitto in seguito alle sue campagne militari, condotte a onore e gloria di Amon. Piankhy è ritratto davanti Amon e Mut e il suo nome è iscritto all’interno del cartiglio. Ciò testimonia la totale aderenza, iconografica e ideolo-gica, alla tradizione egizia da parte di questo sovrano della XXV dinastia. In altri documenti il re kushita sottolinea il suo ruolo di unificatore dell’Egitto, definendosi Horo Sema-taui “che ha riunito le due Terre”. La titolatura di Piankhy dimostra inoltre che i suoi modelli di ispirazione furono due tra i più grandi faraoni egizi, tra i più attivi e influenti in Nubia, Thutmosi III (1479 – 1425) e Ramesse II (1279 – 1212). Nel suo paese d’origine Piankhy ingrandì la capitale Napata e ne restaurò il tempio di Amon, fondato da Thutmosi III e in seguito ampliato e restaurato da Tutankhamon (1333 – 1323), Horemheb (1319 – 1291) e Ramesse II. Vi aggiunse anche due piloni e una nuova corte a peristilio trasformando in tal modo questo tempio nella copia di quello di Karnak a Tebe. Essendo un sovrano straniero Piankhy incontrò una forte ostilità da parte dei monarchi locali egiziani. Nonostante ciò, grazie alla sua pietà, al suo conservatorismo e alla sua salda fede nel culto del dio Amon riuscì a ottenere un sicuro controllo di Tebe. La sua tomba si trova nella necropoli di el-Kurru e molto probabilmente fu il primo sovrano a essere sepolto in una piramide che, per le ridotte dimensioni e la maggiore pendenza, sembrerebbe essere ispirata più a quelle egizie dei nobili del Nuovo Regno che a quelle dei faraoni dell’Antico e Medio Regno.

Il successore di Piankhy fu suo fratello Shabaqo (713 – 698) che scelse come nome d’incoronazione quello di Neferkara, utiliz-zato in precedenza da Pepi II (2246 – 2150) della VI dinastia e che si ritrova come parte iniziale di quello di Ramesse IX (1126 – 1108). Gli altri nomi della titolatura di Shabaqo sono tutti invariabilmente Se-beq-tauy, formazione lessicale che non trova corrispondenza alcuna e il cui significato resta ancora incerto. Nel secondo anno di regno, Shabaqo invase nuovamente l’Egitto ponendo termine all’egemonia di Boccori (Bakenrenef, 718 – 712), figlio e successore di Tefnakht, su tutta la parte settentrionale del paese. Shabaqo si assicurò anche il

Catalogo 3

Ushabty di Taharqo, Museum of Fine

Arts, Boston. Harvard University-Boston

Museum of Fine Arts Expedition, 20.231 (© 2004 Museum of Fine

Arts, Boston)

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Maria Beatrice Galgano · La XXV dinastia

dominio sulle oasi e sul deserto occidentale e molto probabilmente nominò un governatore kushita a Sais, ottenendo in questo modo il pieno controllo del nord dell’Egitto. Nel 712 a.C. circa accolse la richiesta di estradizione di Iamani, governatore di Ashdod, che, dopo essersi ribellato agli assiri, si era rifugiato in Egitto. Shabaqo consegnò il ribelle all’armata di Sargon II instaurando così un clima pacifico tra l’Egitto e l’Assiria. Grazie a sua sorella Amenirdis I, che manteneva a Tebe la carica di Divina Adoratrice, il sovrano kushita manteneva anche un saldo controllo sull’Alto Egitto. Per rafforzarlo ulteriormente egli promosse suo fratello Horemakhet alla carica di Sommo sacerdote di Amon e attribuì altri importanti incarichi a Tebe a dignitari kushiti.

Come Piankhy anche il regno di Shabaqo è caratterizzato da un marcato ritorno ai valori tradizionali più antichi degli egizi, ed è a partire da questo momento che nasce quello che viene chia-mato “Rinascimento nubiano” o “Rinascimento egizio”. In questo modo, i sovrani nubiani intendevano affermare la loro intenzione di governare sulla Valle del Nilo come ideali continuatori della più antica regalità egizia.

Anche dal punto di vista teologico Shabaqo dimostrò un forte attaccamento al passato ricollegandosi alla tradizione religiosa dell’Antico Regno, come dimostra la famosa “Teologia menfita”. L’iscrizione, rinvenuta a Menfi, è la copia su pietra di un’antica cosmogonia del dio Ptah che, iscritta su un rotolo di papiro o cuoio mangiato dai vermi, era stata trascritta su pietra per volontà del re in persona.

La qualità della produzione artistica di questo periodo è notevole e presenta numerosi tratti arcaicizzanti; i programmi de-corativi dei monumenti di Shabaqo traggono la propria ispirazione direttamente da quelli dei sovrani dell’Antico Regno. Nei rilievi e nella statuaria Shabaqo è rappresentato con i tratti forti e vigorosi e indossa il copricapo tipico che distingue i faraoni nubiani della XXV dinastia, una calotta stretta sulle tempie con il doppio ureo a simboleggiare la sovranità sull’Egitto e sullo stato kushita. Shabaqo si occupò della ricostruzione delle cinte murarie e delle entrate di molti templi tra cui quella del temenos di Medinet Habu. Qui, di fronte al tempio thutmoside fece innalzare un pilone con la tipica

rappresentazione del massacro dei nemici. All’interno del recinto di questo tempio sua sorella Amenirdis I edificò il proprio monumento funerario costituito da una tomba sopra la quale si innalzava una piccola cappella.

Testimonianze dell’opera costruttiva di Shabaqo sono ancora visibili soprattutto a Karnak dove fece costruire il cosiddetto “Teso-ro”, ingrandì l’ingresso del tempio di “Ptah resy-en-ienb-ef” e insieme alla Divina Adoratrice Amenirdis I dedicò una piccola cappella a Osiride “Signore di vita” nella parte sud della cinta di Montu.

A Menfi Shabaqo costruì invece una cappella in calcare a sud della cinta di Ptah e nel Serapeo di Saqqara sono state ritrovate tre iscrizioni con il suo nome. Shabaqo fece anche emettere numerosi scarabei iscritti con i suoi vari titoli, un’ulteriore testimonianza del gusto arcaicizzante dell’epoca. In Nubia sono state ritrovate sue iscrizioni nel tempio di Kawa, mentre la sua tomba sormontata da una piramide, oggi totalmente distrutta, si trova nella necropoli kushita di el-Kurru.

Quando Shabaqo morì nel 698n a.C. gli successe direttamen-te o dopo un breve periodo di coreggenza uno dei figli di Piankhy, Shebitqo (698 – 690).

Questo sovrano, pur continuando come i suoi predeces-sori a trarre ispirazione dalle titolature dei sovrani dell’Antico Regno (il suo nome d’incoronazione è Djedkaura, come quello di Isesi, 2388 – 2356, sovrano della fine della V dinastia al quale s’ispirò anche per il nome Horus: Djedkhau), sottoscrisse la sua ammirazione per Thutmosi III utilizzando in alcune iscrizioni i nomi del celeberrimo sovrano del Nuovo Regno. In politica estera Shebiqto adottò una politica più aggressiva. In occasione della successione al trono assiro di Sennacherib, la Palestina si ribellò e Shebitqo rispose alla richiesta d’aiuto del re Ezechia di Giuda mandando una spedizione militare capeggiata da suo fratello minore Taharqo che però venne sconfitta dall’esercito assiro. Le opere monumentali di Shebiqto sono scarse: dal tempio di Ptah a Menfi provengono alcune iscrizioni a suo nome. Del re è stata ritrovata anche una statua, la cui testa è andata purtroppo per-duta, che lo rappresenta nello stile tipico dell’Antico Regno. Nel tempio di Karnak a Tebe Shebitqo costruì una cappella nei pressi

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del Lago Sacro e ingrandì la cappella di Osiride heqa-djet insieme a Amenirdis I e alla madre adottiva di questa Shepenupet I. Egli intervenne anche nel tempio di Luxor dove sul muro meridionale esterno sostituì alcuni rilievi di Ramesse III con scene di adora-zione degli dei Amon, Hathor e Mut. È probabilmente nel corso del regno di Shebitqo che viene adottata la sorella Shepenupet II alla carica di Divina Adoratrice. Quando morì nel 690 a.C. anche Shebitqo scelse di farsi seppellire in una piramide, di cui restano oggi poche vestigia, nella necropoli nubiana di el-Kurru.

Gli succedette sul trono dell’Egitto e di Kush Taharqo (690 – 664), fratello minore di Shebitqo, il cui regno fu il più lungo e il più attivo della dinastia kushita. Taharqo fu incoronato a Menfi, città che divenne la sua residenza, con il nome d’incoronazione Nefertum-khuira, con chiaro riferimento a Nefertum, il giovane dio di Menfi. I nomi Horus e Nebty di Taharqo sono entrambi Qaikhau “esaltato di apparizioni”, mentre il nome Horus-d’oro scelto dal sovrano corrisponde a Khui-tauy “che protegge le Due terre”, un epiteto del dio Nefertum. La prima parte del regno di Taharqo fu pacifica e prospera, iscrizioni in vari luoghi d’Egitto e della Nubia commemorano nel suo sesto anno di regno (685 a.C.) una piena del Nilo eccezionalmente alta trasformatasi, grazie al favore divino, in un evento propizio che assicurò al paese un abbondante raccolto. Nei suoi primi dieci anni di regno Taharqo s’impegnò nel restauro del tempio nubiano di Kawa, un santuario fondato durante la XVIII dinastia da Amenofi III (1387 – 1350) di fronte a Dongola, restituendogli l’antico splendore. Taharqo utilizzò maestranze menfite che lo decorarono con rilievi copiati dai monumenti funerari dell’Antico Regno, soprattutto quelli di Satura (2458 – 2446), Niuserra (2416 – 2392) e Pepi II (2246 – 2150), continuando la tendenza arcaicizzante tipica della XXV dinastia. A Napata, oltre ad ampliare il tempio di Amon già esi-stente, ne costruì uno nuovo. Taharqo fu attivissimo anche nella regione tebana, soprattutto a Karnak dove è annoverabile come uno tra i suoi più grandi ricostruttori. Qui Taharqo eresse colon-nati nei quattro punti cardinali: uno monumentale nel grande cortile davanti al tempio di Amon a ovest, di dimensioni invece più modeste quelli a nord, davanti al tempio di Montu, a est, di

Catalogo 4

Ushabty di Taharqo, Museum of Fine

Arts, Boston. Harvard University-Boston

Museum of Fine Arts Expedition, 20.237 (© 2004 Museum of Fine

Arts, Boston)

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Maria Beatrice Galgano · La XXV dinastia

fronte al tempio orientale, e a sud, davanti al tempio di Khonsu. Dentro il recinto del tempio principale costruì un edificio a nord del lago Sacro e un chiosco nel primo cortile. Dedicò una cappella al dio Osiride insieme a Shepenupet I. Nel tempio di Luxor sono stati ritrovati i resti di una cappella che porta il nome di Tahar-qo. Sulla riva ovest di Tebe, a Medinet Habu, restaurò il muro di cinta del tempio thutmoside e portò a termine la decorazione del pilone iniziato da Shabaqo. I lavori a Tebe furono diretti da Montuemhat, “Principe della Città” e “Quarto Sacerdote di Amon”, un personaggio che andò acquistando sempre più potere fino a diventare l’indiscusso governatore della città. A Menfi le testimonianze di Taharqo sono più scarse e sono quasi tutte legate al culto del toro Api. Dopo questo iniziale periodo di pace del regno di Taharqo l’Egitto conobbe una grande instabilità a causa dell’invasione assira.

Nel 677 a.C. il re assiro Asarhaddon aveva sconfitto infatti il re di Sidone e una volta fronteggiate le invasioni di popolazioni straniere aveva rivolto la sua attenzione al paese che era diven-tato il più temibile avversario dell’impero assiro: l’Egitto che da tempo fomentava ostilità nei porti siriani. Asarhaddon invase la Valle del Nilo nel 674, ma venne sconfitto a causa di una scarsa conoscenza geografica del paese. Attaccò nuovamente nel 671 a.C. e questa volta riuscì a sconfiggere Taharqo e a raggiungere Menfi dove catturò i membri della famiglia reale. Il sovrano kushita fu così costretto a ripiegare a sud. Asarhaddon lasciò l’Egitto ponen-do il controllo della parte settentrionale del paese in mano a una dinastia di sovrani di Sais. Taharqo, approfittando della partenza di Asarhaddon, fomentò una serie di rivolte al nord che costrinsero il re assiro a un nuovo intervento, nel 699. Asarhaddon morì però mentre marciava verso l’Egitto e il trono passò a suo figlio Assur-banipal. Nel 667-666 Assurbanipal invase nuovamente l’Egitto, Taharqo cercò scampo a Tebe, ma venne raggiunto dal nemico che lo costrinse a ritirarsi a Kush. Ormai gli assiri dominavano tutta la regione tebana fino ad Assuan ed erano stati accettati anche dai funzionari del precedente governo nubiano, tra cui Montuemhat. La vittoria assira fu a questo punto totale e l’amministrazione del paese venne affidata, secondo le usanze dei vincitori, a collabora-

tori indigeni. Appena Assurbanipal lasciò il paese i governatori del Delta giunsero a un accordo con Taharqo. Assurbanipal fece subito arrestare e giustiziare i traditori, risparmiando solo Neko che promise lealtà e fu rinominato re di Sais; a suo figlio Psamme-tico, il futuro Psammetico I (664 – 610), venne assegnato l’antico regno di Athribi. Taharqo morì (664 a.C.) e durante il suo ultimo anno di regno associò al trono Tanutamani. Taharqo, a differenza dei suoi predecessori, scelse di farsi seppellire a Nuri, una località sulla riva meridionale del Nilo davanti al Gebel Barkal, in una piramide in cui sono stati trovati più di 1070 ushabty del sovrano. L’iconografia di Taharqo è molto ricca sia per quanto riguarda la statuaria sia per i rilievi, egli viene rappresentato con il tipico copricapo kushita e sulla fronte porta sempre il doppio ureo, a testimonianza della sua doppia sovranità, nubiana e egiziana.

L’ultimo faraone della XXV dinastia fu il nipote di Taharqo, Tanutamani (664 – 653) il cui nome d’incoronazione era Bakara e quello Horus Uah-merut “durevole d’amore”. Questo sovrano, che non figura in nessuna delle versioni dello storico Manetone sulla XXV dinastia, aveva come obiettivo principale quello di ri-conquistare l’Egitto. In una stele eretta nel tempio di Gebel Barkal (la cosiddetta “Stele del sogno di Tanutamani”) risalente al suo primo anno di regno egli racconta un sogno: l’apparizione di due serpenti, simbolo dei due urei che i sovrani kushiti portavano sulla fronte. L’interpretazione data dal faraone a questo sogno è quella di un’esortazione alla riconquista dell’Egitto. Così, dopo avere riconquistato Elefantina, Tebe e Menfi Tanutamani riuscì a raggiungere il Delta dove sconfisse Neko, il principale vassallo assiro, che morì in battaglia. In conseguenza di questo evento, alcuni governatori del Delta si sottomisero a Tanutamani. Assur-banipal mandò allora immediatamente una spedizione punitiva (664-663) che conquistò Menfi e saccheggiò Tebe. Tanutamani fu costretto a rifugiarsi a Kush, dove continuò a regnare, senza però più riuscire a tornare in Egitto.

Le testimonianze che ci restano di Tanutamani si trovano a Karnak, dove il ritrovamento di alcuni blocchi a suo nome potrebbero testimoniare l’esistenza di un suo edificio oggi scomparso. Nel tempio di Luxor invece numerose iscrizioni documentano l’installazione di

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sacerdoti durante il suo regno. In Nubia, oltre alla “Stele del sogno”, sono state ritrovate, nel grande tempio di Amon al Gebel Barkal, due statue in granito alte più di due metri ma purtroppo acefale. Tanutamani ritornò a farsi seppellire nella necropoli di el-Kurru con una piramide, oggi completamente distrutta, dentro la quale sono stati trovati numerosi ushabty che ci permettono di ricostruire i tratti fisici del sovrano.

Con lui la XXV dinastia giunse alla sua fine. I faraoni sai-tici della XXVI dinastia cercheranno di cancellarne l’esistenza e la memoria dei loro predecessori nubiani mediante il martel-lamento sistematico dei loro nomi e del doppio ureo dalle loro immagini.

Catalogo 5

Ushabty di Taharqo, Museum of Fine

Arts, Boston. Harvard University-Boston

Museum of Fine Arts Expedition, 20.2907

(© 2004 Museum of Fine Arts, Boston)

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Aspetti delrinascimento kushita

Brooklin Museum of ArtNew York

Edna R. Russmann

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Edna R, Russmann · Aspetti del Rinascimento kushita

Sotto la XXV dinastia kushita l’Antico Egitto conobbe una fioritura delle arti che, con alcune modifiche, continuò sotto la XXVI dinastia saitica. Questo “revival” è spesso stato defi-nito con l’abusato termine di “Rinascimento”. In questo caso, tuttavia, esso è più che appropriato. Il Rinascimento kushita, come quello omonimo italiano del XIV e XVI secolo d.C., fu infatti non solo ispirato dall’arte e dalla letteratura di un’epoca molto anteriore, ma proprio come in Italia, fu significativamente incoraggiato e plasmato da regnanti che videro nel movimento un efficace mezzo per propagandare le loro intenzioni politiche e la loro immagine.

Fonti del periodo libico

Molti aspetti della cultura kushita sono tuttavia una diretta continua-zione di quella dell’epoca che la precede, il Terzo Periodo Intermedio (spesso chiamato Periodo Libico) che va dalla XXI alla XXIII dinastia (1075 – 750). Tra le innovazioni di questi dinasti, i discendenti degli immigrati libici che da lungo tempo ormai risiedevano nel Delta, vi era la pratica di costruire le tombe reali all’interno del perimetro di un tempio ritenuto particolarmente sacro1. Così la Sposa Divina di Amon Shepenupet I, una principessa di origine libica, venne sepolta

Catalogo 6

Statua della dea Mut o di una regina. Parigi,

Museo del Louvre, E 25456 (© 2004 Musée du Louvre Département

des Antiquités Égyptiennes)

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Edna R, Russmann · Aspetti del Rinascimento kushita

Figura 9

Statuetta di Sposa Divina in bronzo (circa 760-656). Acquisto di

un donatore anonimo in memoria di Christos G. Bastis e Charles Edwin

Wilbour Fund, New York, Brooklyn Museum of

Art, 1999.110. (© 2004 Brooklyn Museum of Art,

New York)

al di sotto di una cappella funeraria eretta a non molta distanza dal tempio thutmoside di Medinet Habu. La kushita Amenirdis I, che le succedette, fece costruire il proprio monumento funerario accanto a quella della predecessora2.

Gli artigiani del Periodo Libico non sono gli inventori dell’ar-te metallurgica, ma va a loro il merito di averla portata a un grado di raffinatezza molto più elevato rispetto ai loro predecessori. Le belle sculture e gli altri oggetti in bronzo di questo periodo sono degni di nota per la loro sofisticata esecuzione, per la comparativamente am-pia scala di statue regali e private, e per gli effetti policromi ottenuti

con l’inserzione o la sovrapposizione di altri metalli. Come si può notare dalla figura stante della Sposa Divina di origine libica Karomama, conservata al Louvre, i risultati potevano essere spettacolari3.

Il grandissimo numero di statue regali kushite in bronzo a noi pervenute, di piccole dimensioni e di mediocre fattura, potrebbero suggerire un declino nella toreutica durante la XXV dinastia (figura 9). Una statuina molto dettagliata di Shabaqo (713 – 698) inginocchiato appare però in linea con la tradizione di superba abilità tecnica delle epoche precedenti4 e una statuina in bronzo di una donna della famiglia reale kushita splende con i suoi inserti in oro e argen-to5. L’elemento mancante nella toreutica kushita potrebbe sembrare a prima vista la scultura di grandi dimensioni. L’esempio di statuaria regale di maggiori dimensioni finora noto è rappresentato da un’altra figura inginocchiata, alta solo 33,2 centimetri6.

Tra le rovine del tempio greco arcaico di Hera sull’isola di Samo, gli

archeologi hanno ritrovato una serie di statuine e di ornamenti in bronzo di importazione, di raffinatissima fattura, della XXV e XXVI dinastia. Tra questi vi erano frammenti di una figura maschile stante con testa rasata e una veste di pelle di leopardo tipica dei sacerdoti. Questa scultura, quando era completa, doveva avere un’altezza di oltre sessanta centimetri7. Il busto della figura, dalle spalle ampie e di proporzioni atletiche, e la muscolatura della parte inferiore della gamba indicano oltre ogni dubbio che questa statua in bronzo di un sacerdote egizio, dalle dimensioni eccezionalmente grandi, fu prodotta durante l’epoca kushita.

L’arcaismo

I sovrani kushiti dell’Egitto erano ben lungi dall’essere i primi a ricercare l’ispirazione artistica nel passato. L’arcaismo, imitazione o emulazione di opere d’arte e stili di epoche precedenti, è espressio-ne tipica della reverenza che la cultura egizia, assai conservatrice, nutriva per il passato e dei suoi continui tentativi di conservare (o se necessario, di restaurare) gli antichi usi. Benché modalità e sfu-mature di emulazione variassero considerevolmente, l’arcaismo può essere riconosciuto in ogni periodo della storia dell’Antico Egitto8. È rilevabile in misura maggiore durante i periodi di cambiamento come, per esempio, al momento dell’ascesa di una nuova dinastia. Non ci si deve perciò stupire che rappresenti una componente fon-damentale nelle rappresentazioni regali nella scultura e nel rilievo dei dinasti libici della XXI-XXIII dinastia.

Il loro stile è notoriamente difficile da caratterizzare9. In larga parte, ciò accade perché il fine e persino i modelli delle rappresen-tazioni arcaicizzanti del Terzo Periodo Intermedio appaiono essi stessi scarsamente definiti. Quello che si può dire è che i prototipi possono essere fatti risalire tutti al Nuovo Regno (metà della XVIII dinastia e fine della XVIII dinastia e, soprattutto, regno di Ramesse II, 1279 - 1212). Senza dubbio le varie rappresentazioni di Ramesse II, che traggono ispirazione sia dalla metà che dalla fine della XVIII dinastia10, possono avere offerto i modelli di base per l’arcaismo del

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Edna R, Russmann · Aspetti del Rinascimento kushita

Terzo Periodo Intermedio. Benché Ramesse fosse un re dotato di im-menso potere, le sue immagini nelle sculture e nei rilievi manifestano ampie variazioni, non solo nello stile, ma anche nella qualità. Come i re deboli che gli succedettero (e in stridente contrasto con i dinasti kushiti) egli non sviluppò mai una metafora visiva che esprimesse convincentemente il suo potere regale, eccezion fatta, ovviamente, per la scala colossale dei suoi monumenti.

Con l’arrivo dei re kushiti dalla Nubia l’arcaismo fu con profitto applicato all’ambito regale. Questi regnanti sembrano es-sere stati molto chiari nel volersi far rappresentare come stranieri, fedeli ad Amon e agli altri dei egizi, dotati di così grande pietas che Amon li aveva posti a capo degli egizi come legittimi sovrani. La sofisticatezza e la sottigliezza con cui questo approccio fu espresso nel testo arcaicizzante del primo monumento kushita di una certa rilevanza, la Stele di Piankhy11, suggerisce che i temi principali del fondamento logico della regalità kushita erano già stati elaborati in Nubia, forse addirittura prima che Kashta dichiarasse per primo il suo diritto al trono egiziano.

Menfi

Durante la conquista dell’Egitto settentrionale da parte di Piankhy, così come viene descritta dalla sua stele, la ricompensa più grande è la conquista di Menfi. Non avrebbe potuto essere diversamente, perché, come sempre, la posizione strategica della città tra la Valle e il Delta la rendeva indispensabile per chiunque avesse voluto controllare l’intero paese. Menfi divenne la residenza dei re ku-shiti in Egitto. Questo è un fatto spesso trascurato, o addirittura negato, a causa della mancanza di testimonianze archeologiche tra le rovine di questo sito spettacolare. Poche sono anche le testimonianze della presenza kushita a Saqqara e, incredibil-mente, quasi inesistenti a Giza. Alle testimonianze raccolte da Zivie-Coche12, possiamo aggiungere soltanto pochi reperti, alcuni dei quali, tuttavia, possono risultare più significativi di quanto ritenuto. Proviene da Menfi una bella statua seduta di Shebitqo

(698 – 690), sfortunatamente priva di testa. Blocchi con nomi di re kushiti, riutilizzati all’interno del temenos del tempio di Ptah, indicano che essi vi costruirono piccoli edifici13.

L’interesse kushita per Menfi come sito religioso di grande antichità è dimostrato in modo indubbio dalla pietra di Shabaqo che pretende di volere riprodurre un testo religioso trovato su di un papiro molto antico e parzialmente preservato. L’enfasi che i ricer-catori hanno posto recentemente sulla possibilità che il copista si sia sbagliato nella datazione dell’originale o che, addirittura, abbia compiuto questa affermazione in un tentativo di deliberata falsifica-zione14, tende a mettere in ombra il fatto che la dinastia riteneva che simile materiale potesse essere trovato solo a Menfi, e che avesse il dovere di preservarlo e di “pubblicarlo”.

Ora si sa che un torso frammentario di Shabaqo, proveniente da Saqqara e conservato al Louvre, è stato scoperto da Mariette nel Serapeo15. Più recentemente, una piccola triade che ritrae Shabaqo e due dee è stata ritrovata nella tomba di Bakenrenef a Saqqara16. Ora che sappiamo che la griglia preparatoria (di cui parleremo oltre) di Epoca Tarda è un’innovazione della XXV dinastia, dovremmo in-dubbiamente rivedere il presupposto comunemente accettato che la griglia preparatoria tracciata sopra i rilievi del recinto della Piramide a Gradoni di Djoser dati alla XXVI dinastia17.

Alcuni prestiti kushiti dall’Antico Regno potrebbero derivare dalla regione menfita: i nomi dei sovrani dell’Antico Regno che essi adottarono, ad esempio, o l’idea di costruire piramidi al di sopra delle tombe nei cimiteri reali nubiani. L’Egitto era però pieno di piramidi di ogni forma e grandezza, incluse quelle di modeste dimensioni e dai lati rastremati delle tombe di privati del Nuovo Regno, che più assomigliano alla versione kushita. Come ò stato notato, un numero di tombe con piramide risalenti al Nuovo Regno fu costruito anche in Nubia. Se, come sembra più probabile, queste servirono come prototipi per le più tarde versioni regali, si potrebbe supporre che siano piuttosto queste a essere state utilizzate come modello per i costruttori e gli operai dei re nubiani.

Solo a Saqqara e nelle altre necropoli gli scultori kushiti avrebbero, tuttavia, potuto assimilare i dettagli delle statue regali e dei rilievi in modo così completo da amalgamarli insieme in uno stile

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Catalogo 7

Statua di Akhimenru. Parigi, Museo del

Louvre, E 13106 (© 2004 Musée du Louvre

Département des Antiquités Égyptiennes)

così preciso. Non solo la semplicità delle vesti e delle insegne regali, ma anche i dettagli dell’anatomia reale (il capo tondo e massiccio, il collo corto, il torso dalle spalle ampie, la vita sottile e i fianchi snelli e, tratto forse più distintivo, i muscoli potentemente modellati della parte inferiore delle gambe) furono tutti trasferiti nell’immagine dei sovrani kushiti.

Lo sviluppo di questo stile arcaicizzante può essere stato solo un processo deliberato e può essere stato condotto solo dietro espli-citi ordini (o, almeno, aperta approvazione) dei monarchi. In questo senso abbiamo la testimonianza dello stesso Taharqo, in un’iscrizione in cui afferma che egli inviò maestranze di scultori da Saqqara ad un tempio che stava costruendo a Kawa in Nubia, con lo scopo di riprodurre scene tratte dai templi funerari dell’Antico Regno. Que-sto compito venne portato a termine con così grande fedeltà che gli originali di Saqqara dei rilievi di Taharqa ancora esistenti possono essere tuttora facilmente riconosciuti.18

L’influenza menfita era così forte sulla rappresentazione regale kushita che ci si può chiedere se non ci siano state anche in-fluenze meno ovvie. Solo nell’Antico Regno, per esempio, i re egizi erano raffigurati a capo scoperto e rasato; tali immagini possono avere spinto quelli nubiani ad adottare la consuetudine di farsi ritrarre a capo scoperto19. Similmente, la rinuncia kushita alla Corona Azzur-ra, che aveva fatto la sua prima apparizione all’inizio della XVIII dinastia, potrebbe essere stata incoraggiata dalla sua mancanza nelle rappresentazioni dell’Antico Regno20.

Lungi dalla semplice imitazione delle raffigurazioni egizie, l’iconografia regale kushita incorporò anche elementi autoctoni: collane con amuleti a forma di teste di ariete, simbolo del culto nubiano di Amon, elaborati diademi e l’adozione del doppio ureo al posto di quello singolo comune agli altri sovrani egizi21. Fino ai Tolemei nessun altro re straniero d’Egitto si sarebbe permesso, anche solo di suggerire, di non essere di origine egiziana22. I re kushiti non solo ammettevano la propria provenienza straniera, ma la pubbli-cizzavano, in un programma unico e coerente di autopresentazione che testimonia un’attenzione particolare per l’arte regale, dal livello più alto al più basso, che può essere il fattore più importante nella nascita del Rinascimento kushita.

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Tebe

Benché Menfi fosse la loro residenza in Egitto, la città prediletta dai re kushiti era indubbiamente Tebe, l’originario e principale centro di culto di Amon, il loro dio dinastico. L’area tebana è anche la fonte di quasi tutte le testimonianze esistenti dell’arte della XXV dinastia (e anche della XXVI), sia regale che privata, sia per la statuaria che per il rilievo.

In forte contrasto con la regione menfita, l’arte pre-kushita a Tebe e nei suoi dintorni datava quasi interamente al Medio e Nuovo Regno. Essendo questa la situazione, è interessante notare quanto sia minima l’influenza di questi periodi riscontrabile nelle rappresenta-zioni tebane dei re kushiti. Una testa colossale di Shabaqo provenien-te da Karnak lo raffigura mentre indossa la doppia corona sul nemes, con un volto lungo e stretto e un naso che ricordano fortemente la metà della XVIII dinastia23. Questo tipo di rappresentazione, forse un esperimento iniziale, non sembrerebbe avere avuto seguito. Più fortuna, anche se in scala molto minore, ebbe la creazione di una distintiva ed elegante forma degli occhi (in genere piuttosto grandi, con sopracciglio arcuato e una linea di trucco sottile, appuntita e di media lunghezza) che sembra un riadattamento di elementi stilistici tratti dalla statuaria di epoca thutmoside e/o della fine della XVIII dinastia. Questo dettaglio appare frequentemente nella scultura e nel rilievo regali24, ed è anche presente sulle statue e sui rilievi dei privati, incluse le figure nella tomba di Harwa e dei suoi successori, fino alla XXVI dinastia inoltrata25.

Nella cappella di Osiride Signore di Vita a Karnak, che fu iniziata nel Periodo Libico e ampliata sotto Shebitqo, la Sposa Divina di Amon Amenirdis I è ritratta con acconciature e altre caratteristi-che ispirate alle raffigurazioni delle sue predecessori libiche nelle stanze attigue26. Altrove, tuttavia, molte rappresentazioni delle Spose Divine kushite, a differenza di quelle dei sovrani loro parenti (o di regine kushite che risiedevano in Egitto e ivi erano state sepolte27) le raffigurano in stile egizio28. Le loro figure snelle ma dai fianchi pieni derivano dall’ideale femminile del Medio Regno. Anche le loro

Catalogo 14

Statua di coppia della XXV dinastia. Parigi,

Museo del Louvre, A 89 (© 2004 Musée du

Louvre Département des Antiquités Égyptiennes)

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vesti semplici e tradizionali e le parrucche tripartite, sormontate dal copricapo a forma di spoglia di avvoltoio caratteristico delle regine e da un’acconciatura con alte piume, evocano le immagini delle regine del Medio e del Nuovo Regno, o quelle di divinità29.

La scultura privata

La scultura privata tebana del Periodo Kushita varia da figure a gran-dezza naturale a quella alte circa la metà ed è invariabilmente di alta qualità (come, in verità, era stato il caso nel precedente Terzo Periodo

Intermedio). Bernard V. Bothmer, che fu il primo a studiare sistematicamente la scultura egizia dell’Epoca Tarda, ha di-scusso molti aspetti della statuaria nella XXV dinastia30.

Le statue di sacerdoti e ufficiali della XXV dinastia hanno spesso visi con tratti che, benché difficili da descri-vere, li rendono riconoscibili e databili a questo periodo. Questi volti “generici” (aperti, con guance ampie e piatte, nasi piuttosto grossi e occhi leggermente ri-dotti31) sembrano avere poco in comune con le rappresentazioni regali contempo-ranee ed è possibile che possano derivare dalle rappresentazioni dei kushiti che abitavano in Egitto32.

Tutta la scultura non regale della XXV dinastia è arcaicizzante. Molti esem-pi includono una commistione di elemen-ti del Medio e Nuovo regno33. Perciò una statua di scriba eseguita sotto Shabaqo mostra una versione del Medio Regno della posa a gambe incrociate, in cui il sog-getto ha le gambe coperte da un gonnellino

lungo, ma indossa una parrucca degli inizi del Nuovo Regno34. Una famosa statua stante del notabile Montuemhat (figura 10) (un contem-poraneo poco più giovane di Harwa) lo rappresenta, stranamente, con l’anatomia e il gonnellino corto dell’Antico Regno, certamente derivati dall’imitazione dei modelli regali kushiti. La sua parrucca, tuttavia, è del Nuovo Regno e il suo volto, anche se esibisce “generiche” caratte-ristiche tebano/kushite (occhi più stretti, naso grosso e guance larghe e piatte), è caratterizzato dal pesante modellato dei tradizionali segni egizi dell’età avanzata, e da un’espressione accigliata35.

Questa stessa espressione è comune ad altre statue di privati della XXV dinastia, una di Harwa compresa36, ed era intesa sottolineare il potere e l’autorità che derivavano al soggetto dalla sua alta carica. Un recente parere sul fatto che la statua stante di Montuemhat intenda esprimere, in questo modo, il suo desiderio di diventare re37, dimostra la moderna convinzione che un volto individualizzato rifletta le emozioni personali del soggetto. Nel caso dell’arte egizia, questa considerazione si rivela però sempre errata, in quanto l’espressione facciale era piuttosto intesa a riprodurre l’atteggiamento appropriato alla carica di ciascuno, o a esprimere il temperamento culturale dominante dell’epoca in cui

il soggetto viveva38.La questione del ritratto

(nel senso di somiglianza spe-cifica individuale) nelle rap-presentazioni non regali tebane della XXV dinastia è complicata. L’esempio migliore di tale so-miglianza può essere quello di Harwa che, in alcune statue e almeno in un rilievo della tomba, è raffigurato come spiccatamente obeso, e il cui volto è assai largo nelle immagini che lo ritraggono da giovane e carnoso in quelle che lo ritraggono da vecchio. A parte il suo addome prominente, Harwa non ha però tratti davvero caratterizzanti (figura 11).

Figura 10

Statua di Montuemhat. Museo Egizio del Cairo,

CG 42236 (Fotografia di Francesco Tiradritti)

Figura 11

Statua di Harwa seduto da Karnak.

Museo della Civiltà Nubiana di Assuan, JE

37386 (Fotografia di Francesco Tiradritti)

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Anche Montuemhat, il cui volto venne svariate volte raffigura-to con tratti assai individualizzanti, è ritratto su un numero maggiore di statue e rilievi con caratteristiche generiche, che spesso sembrano essere basate sullo stile delle fonti arcaicizzanti consoni alla veste e/o alla parrucca di quella particolare immagine. Perciò, benché sia asso-lutamente possibile che tratti peculiari fossero considerati adatti per certe rappresentazioni, si può concludere che, allo stesso modo, fosse apprezzata una certa gamma di variazioni nella propria immagine. Nell’arte arcaicizzante della XXV dinastia questo avrebbe incoraggiato l’utilizzo di una varietà di prototipi differenti.

Le tombe tebane

Una delle innovazioni più interessanti nella rappresentazione di figure bidimensionali nell’Epoca Tarda è la modifica della griglia che veniva utilizzata per i disegni preliminari come guida per disegnare figure dalle proporzioni corrette: da di diciotto quadrati in altezza, utilizzata nella maggiore parte dei periodi precedenti, a una di ventuno. Queste griglie sono state spiegate e discusse da Gay Robins39. La studiosa ha notato che l’esistenza della griglia di Epoca Tarda nella XXV dinastia può essere dedotta da una figura di Amenirdis I nella sua cappella funeraria. Anche le tombe dei privati contenenti le più antiche testimonianze di questo tipo di griglia, datate dalla Robins alla XXVI dinastia, sono ora datate all’inizio della XXV40. Persino prima di Harwa, perciò, esistono segni di uno spirito di innovazione nell’aspetto delle tombe tebane.

Harwa stesso deve essere considerato il più grande innovatore nelle necropoli tebane per l’Epoca Tarda, perché fu il primo a costrui-re una tomba di grandi dimensioni, in cui un vestibolo dà accesso ad un ampio cortile a cielo aperto scavato sotto il livello del suolo, dal quale si passa a un complesso di camere sotterranee, dalle quali, tramite un pozzo funerario, si raggiunge la camera funeraria.

Nessuna delle tombe di quest’epoca è esattamente uguale alle altre: almeno due sono persino più grandi di quella di Harwa. Tutte includono però le caratteristiche generali indicate sopra41. Il significato e il simbolismo di queste tombe, in termini di dimensioni e

Catalogo 15

Statua-cubo di Merenptah, Museo

Egizio di Torino, Cat. 3036 (© 2004 Museo

Egizio di Torino)

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L’enigma di Harwa

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componenti, è ancora lungi dall’essere chiaro42, anche perché alcune ancora devono essere scavate. In queste circostanze, alcuni paragoni, come quelli con le tombe regali del Nuovo Regno nella Valle dei Re, sollevano il sospetto che la teoria abbia oltrepassato i fatti. Un fatto che appare certo, tuttavia, è che la tomba di Harwa, e le due tombe più vicine ad essa quanto a datazione, abbiano ciascuna almeno un caratteristica unica. Nella tomba di Harwa, è il corridoio ambulatorio sotterraneo che (almeno sulla pianta) ricorda il “cenotafio” di Osi-ride nella tomba nubiana del re di Harwa, Taharqo. Nella tomba di Petamenofi è rappresentato dal “massiccio” sotterraneo con nicchie43. La decorazione principale nel primo dei due cortili di Montuemhat ricorda invece un sarcofago alla rovescia di dimensioni gigantesche44. Dal momento che queste tombe continuarono ad essere costruite durante la XXVI dinastia, divennero più standardizzate, seguendo quella che era, all’epoca, una tradizione locale della necropoli.

Dalla prima all’ultima, tutte queste tombe furono riccamente decorate. Anche qui Harwa ha stabilito il modello. Molti dei suoi rilievi sono tra i più belli dell’intero gruppo. Di particolare interesse sono le scene di vita quotidiana sul muro sud del cortile, che reintro-ducono soggetti come l’agricoltura, l’allevamento, e le attività nelle paludi ricche di papiri. Queste scene, e molti dei loro dettagli, hanno un gusto che risale decisamente all’Antico Regno; come nei rilievi delle tombe menfite, per esempio, dove la conduzione delle greggi ha luogo nelle paludi (Catalogo 16), e non, come nella versione tebana del Nuovo Regno di questa attività, sul suolo asciutto45.

Ciò che rende uniche le scene di vita quotidiana di Harwa, tuttavia, è il loro stile. Da ogni lato, dai dettagli dei volti e delle fi-gure, al modo in cui le superfici sono modellate, questi rilievi sono così simili a quelli dell’Antico Regno di Saqqara che devono essere stati eseguiti da scultori che avessero una conoscenza diretta degli originali46. Questa impressione è rafforzata dalle curiose disparità di scala tra certe vignette, soprattutto nel registro di scene palustri, dove un trio di uomini con gli arpioni in piedi ha la stessa altezza degli uomini inginocchiati sulle barche vicine che, a loro volta, risultano piccoli rispetto alla figura sproporzionatamente grande di un uccello che nidifica. La spiegazione più plausibile per discrepanze di questo tipo, nelle mani di scultori di rilievi così abili, è che essi stessero

Catalogo 16

Frammento di rilievo con scena palustre

dalla parete meridionale del cortile della tomba

di Harwa (TT 37). Museum of Fine Arts,

Boston. Hay Collection. Gift of C. Granville

Way, 72.692 (© 2004 Museum of Fine Arts,

Boston)

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Edna R, Russmann · Aspetti del Rinascimento kushita

lavorando su “libri di modelli”, che avevano con sé47. Gli scultori che Taharqa inviò da Saqqara a Kawa48 dovevano avere simili modelli disegnati. Dal momento che questi uomini erano quasi certamente passati per Tebe nei loro lunghi viaggi da e verso la Nubia, avrebbero potuto interrompere il loro viaggio godendo dell’ospitalità di Harwa e ripagandolo con la realizzazione di questi superbi rilievi.

Nella tomba di Montuemhat, un poco più tarda, è ripreso il tema della vita quotidiana, con simili dettagli risalenti all’Antico Regno49. Le fonti dei rilievi della tomba arcaicizzante di Montuemhat stavano già iniziando a variare e l’ispirazione appare più legata ai mo-numenti tebani più recenti che si trovavano nelle vicinanze (le tombe della XVIII dinastia e i rilievi nel tempio funerario di Hatshepsut). Questo cambiamento è dimostrato in modo evidente da alcune scene agricole di cui si conservano anche gli originali da cui sono state copiate50. L’ispirazione tebana si riflette anche nello stile di questi ed altri rilievi Montuemhat, che emulano quelli della XVIII e perfino dell’XI dinastia51. Data la grandezza della sua tomba e l’importanza di Montuemhat come funzionario52 non ci si deve sorprendere che il monumento funerario abbia da solo costituito il riferimento più importante per le tombe kushito-saite successive.

Nello spazio di una o due generazioni, con lo sviluppo della necropoli, quest’influenza diventa ancora più forte. Gli scavi e di una

mezza dozzina di tombe della XXVI dinastia e la loro succes-siva pubblicazione indicano una crescente coerenza della pianta, così come dei temi e degli stili utilizzati nella deco-razione a rilievo (sebbene con una considerevole gamma di variazioni). Gli elementi arcai-cizzanti possono ancora essere riconosciuti in queste tombe più tarde; ma in molti casi, sono ascrivibili alle tombe dei loro predecessori oppure a monu-menti di epoche precedenti.

Note

1 L’opera fondamentale a riguardo rimane sempre Stadelmann 1971.2 Arnold 1999, pp. 49-50; Aston 2003, p. 145.3 Hill 2004, p. 29 e nota 24 (bibliografia), tav. 13. La scultura è molto bene illustrata in Leclant

1980, figg. 105, 108, 176. Per la statuaria regale in bronzo di questo periodo, si veda Hill 2004, pp. 23-49, specialmente pp. 45-46. Per la parte superiore di una grande scultura non regale (British Museum EA 22784), si veda Russmann at alii 2001, cat. 117, pp. 219-221.

4 Museo Archeologico di Atene, ANE 632; altezza cm 16; Hill 2004, pp. 53-54, cat. 17, pp. 158-159, tav. 29. La discussione di Hill sulla scultura regale in bronzo di epoca kushita (pp. 51-74) è ora l’opera definitiva a riguardo.

5 British Museum EA 54388: Russmann et alii 2001, cat. 115, pp. 117-118. Ancora più ricco di colori è un piccolo cofanetto rettangolare con una iscrizione della Sposa Divina Shepenupet II, decorato in oro e argento: Leclant 1980, fig. 149.

6 Museo Archeologico di Atene, ANE 624: Hill 2004, pp. 60-62, cat. 36, pp. 168-169, tav. 41. Hill afferma plausibilmente che, come molte altre immagini regali kushite, la figura sia stata usurpata da Psammetico [II], di cui porta tuttora il nome.

7 Jantzen 1972, p. 7, tavv. 1-4.8 Per una discussione generale del fenomeno, si veda Russmann et alii 2001, pp. 40-45.9 Si veda, recentemente, Hill 2004, pp. 21-26, che cita il lavoro di Richard Fazzini (1988).10 Cfr. Russmann et alii 2001, p. 43.11 Grimal 1981 rimane lo studio basilare per il testo della stele.12 Zivie-Coche 1991, pp. 82-83.13 La statua è Museo del Cairo CG 655: Russmann 1974, cat. 6, p. 47. Esempi di blocchi con

iscrizioni in Leclant 1981, Berlandini 1984 – 1985.14 British Museum EA 498: Taylor 1990, con bibliografia.15 Louvre N 2541. Si veda Russmann 1974, cat. 4, p. 46. Per la provenienza, si veda Ziegler 1981,

p. 30 e nota 5bis . 16 Bresciani 1980, p. 16, tav. 15. 17 Robins 1994, pp. 169-170.18 Arnold 1999, p. 59, con bibliografia alla nota 58.19 Molti egittologi ancora insistono nel definirlo “cuffia kushita”. Bisogna notare, tuttavia, che molti

egittologi rifiutano anche di riconoscere che i re dell’Antico Regno erano talvolta raffigurati a capo scoperto. La scoperta di una statua di un re della V dinastia con capelli neri e rasati ha però dimostrato questo assioma senza ombra di dubbio e non ha lasciato loro altra scelta: Museo del Cairo, JE 98171 (Saleh e Sourouzian 1987, cat. 38).

20 Sui kushiti e la Corona Azzurra, si veda Russmann 1995B. Molti studiosi pensano che la ragione principale per questa mancanza possa essere data dal fatto che i kushiti associassero la corona ai regnanti libici.

21 Si veda il capitolo sull’abbigliamento in Russmann 1974, pp. 24-44.22 Faccio riferimento alle rappresentazioni delle acconciature greche e ai tratti ellenistici dei re e

delle regine tolemaiche. Per alcuni esempi, si veda Stanwick 2002.23 Museo del Cairo CG 42010: Russmann 1974, cat. 1, p. 45, fig. 4. (La testa è completamente

ascrivibile alla XXV dinastia e non, come proponevo in quella pubblicazione, usurpata.) 24 Scultura: testa di un re, probabilmente Shebitqo, Museo del Cairo CG 1291(Russmann 1974, cat.

29, p. 53, fig. 7, Russmann 1989, cat. 76, pp. 166-168, 220). Rilievi: testa di Shebitqo (Russmann

Figura 12

Statua di Petamenofi come scriba. Museo

Egizio del Cairo, JE 37341 (Fotografia di Francesco Tiradritti)

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Edna R, Russmann · Aspetti del Rinascimento kushita

1989, fig. 6, Mysliwiec 1988, tav. 34); Amenirdis I and Shepenupet II (Russmann 1989, tavv. 36-37).

25 Harwa: Russmann 1983, p. 145, fig. 4; Montuemhat: Mysliwiec 1988, tav. 41b-c.26 Ancora manca la pubblicazione, da tempo attesa, di questa cappella, cfr. Mysliwiec 1988, tavv.

26-27.27 Si veda, per esempio, Leahy 1994 e, anche, Russmann 1997. La più formosa di queste figure è

ugualmente molto più snella delle rappresentazioni della regina Karomama di epoca libica, che introduce per la prima volta nell’Egitto faraonico la pienezza delle forme come ideale della bellezza femminile; cfr. Richard Fazzini in Russmann et alii 2001, p. 215 con fig. 53.

28 Le immagini variano sufficientemente da rendere difficile stabilire quale significato, se ne esiste uno, debba essere attribuito all’occasionale statua di una Sposa Divina con volto rotondo e guance paffute, o ai rilievi con profilo pieno.

29 Russmann 1997; cfr. Russmann 2002. 30 Si veda, tra gli altri, Bothmer 1960, pp. xxxii-xxxix e catt. 1-18; e, in seguito, Bothmer 1994.31 Si veda, ad esempio, la statua dello scriba Pas-shuper,datata al regno di Shabaqo (British Museum EA

1514): Russmann et alii 2001, cat. 122, pp. 228-229. Altri esempi: Bothmer 1994, p. 62, figg. 1-4. 32 Bisogna però ammettere che le due statue di personaggi di chiara origine kushita ritrovate a

Tebe hanno pochi di questi tratti: il Sommo Sacerdote di Amon, Horemakhet (Museo del Cairo CG 42202, Russmann 1989, cat. 80, pp. 175-177, 220-221) e Iriketakana (Museo del Cairo JE 38018: ibid., Russmann 1989, pp. 175, 178, 221).

33 Una sorprendente eccezione è rappresentata da una statua di scriba, una delle molte scolpite per il contemporaneo di Harwa Petamenofi in cui ogni dettaglio della posa, del gonnellino, delle proporzioni e forma delle gambe e i capelli rasati con attaccatura alta, echeggiano le versioni dell’Antico Regno (Museo del Cairo JE 37341), a cui recentemente è stato assegnato un numero CG: Josephson e Eldamaty 1999, pp. 31-35 (dove il numero è 84615), 114 (col numero di 48615), tav. 15 (col numero di 486015).

34 British Museum 1514: si veda sopra la nota 29.35 Museo del Cairo CG 42236: ben illustrata in Russmann 1989, cat. 78, pp. 170-172, 220.36 Per un terzo esempio, Museo del Cairo JE 38018, si veda la nota 30.37 Josephson 2002.38 Per una discussione su questa percezione errata, con riferimento alle rappresentazioni dei re della

tarda XII dinastia, si veda Russmann 2002, pp. 35-36, pp. 101-104.39 Robins 1994. 40 TT 223: Robins 1994, pp. 160-161, con fig. 7.2.41 Nonostante gli studi recenti sulle singole tombe, l’opera di riferimento sulla loro architettura resta

quella di Eigner 1984. Le due tombe più grandi, appartenute a Petamenofi (TT 33) e Montuemhat (TT 34), sono le due più antiche, dopo quella di Harwa.

42 Le più recenti discussioni sulle tombe le caratterizzano con termini assai differenti: “palazzo funerario” (Arnold 1999, p. 45; cfr. il termine tedesco largamente impiegato di “Grabpalast.”) oppure “tombe-tempio” (Aston 2003, p. 146).

43 Eigner 1984, pp. 178-180, 182-185 (Harwa); p. 180, tav. 50A (Petamenofi).44 Russmann 1995A.45 Altri dettagli dell’Antico Regno: Russmann 1983, p. 138.46 Su questo stile, si veda Russmann 1983, p. 139.47 Molti storici dell’arte egizia concordano sull’esistenza degli schizzi preparatori, sebbene ne siano

sopravvissuti pochissimi esempi. Questo potrebbe indicare che molti erano tracciati su fogli di papiro relativamente fragili, invece che su scaglie di pietra o ostraca, meno costosi ma anche

meno trasportabili.48 Si veda sopra la nota 17.49 Ora si sa che questi rilievi furono scolpiti sui muri ovest e nord del secondo cortile, che (a differenza

della parte più orientale della tomba) venne decorato sotto la XXV dinastia. La descrizione più dettagliata delle scene si trova ancora in Russmann 1994.

50 Il più noto esempio è un frammento che mostra una donna che allatta (Museum of Arts di Brooklyn 48.74) discusso e illustrato insieme al suo prototipo nella tomba di Menna (TT 60) in Fazzini 1972, p. 60, figg. 26, 27.

51 Per un tentativo di descrivere questo stile, si veda Russmann 1983, p. 139.52 Montumehat ricoprì la sua carica per quasi vent’anni grazie anche alla sottomissione di Tebe, di

cui egli fu probabilmente uno degli artefici, ai sovrani della XXVI dinastia.

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Christopher Naunton

Tebe durantela XXV dinastia

Egypt Exploration SocietyLondra

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Christopher Naunton · Tebe durante la XXV dinastia

In nessun altro luogo come nell’area circostante l’antica città di Tebe sono attestate così tante testimonianze della cultura egizia. Sul sito si trovano soprattutto monumenti del Nuovo Regno e, nonostante i secoli compresi tra la fine di quella grande epoca e l’inizio del Periodo Tolemaico siano in tutta la Valle del Nilo poveri di testimo-nianze monumentali, i faraoni kushiti della XXV dinastia lasciarono un’impronta visibile sul paesaggio tebano. La relativa povertà di monumenti di grandi dimensioni costruiti dopo il Nuovo Regno è in parte dovuta a una perdita di potere da parte dei sovrani che regnarono nelle epoche successive. La sede della regalità si trasferì al nord, nel Delta. Qui, nei secoli immediatamente precedenti alla XXV dinastia, stirpi di governatori locali, spesso di origine libica, la cui effettiva influenza era ristretta a regni di limitata estensione, si proclamarono re dell’Egitto intero. Dai reperti archeologici e dalle testimonianze scritte risulta così che, in questo periodo, sulla Valle del Nilo abbiano regnato molti più “sovrani” di quelli effettivamente riportati dallo storico Manetone, i cui elenchi forniscono il punto di riferimento per il sistema di suddivisione della cronologia egizia in dinastie e lo schema su cui è basata l’attuale conoscenza della storia del paese. Oggi è noto che le dinastie XXII, XXIII e XXV sono da considerare in parte contemporanee e che, nello stesso lasso di tempo, esistevano governatori locali in tutto l’Egitto, fino a sud di Tebe, detentori di autorità assoluta su aree circoscritte del paese. La loro esistenza è testimoniata dai ritrovamenti archeologici, al pari di

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L’enigma di Harwa

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Christopher Naunton · Tebe durante la XXV dinastia

quella dei sovrani citati da Manetone1. Alcuni di questi alti funzionari giocarono un ruolo di primo piano nelle vicende dello stato tebano durante la XXV dinastia e i loro monumenti (in particolare le loro magnifiche tombe) insieme alle opere volute dai sovrani kushiti di questo periodo a Tebe uno dei capitoli più spettacolari ed emozio-nanti della storia e dell’archeologia dell’antico Egitto.

Il carattere distintivo di tutto il periodo è rappresentato dagli stessi faraoni della XXV dinastia. Erano di origine africana, venivano dal regno di Kush in Nubia, la cui capitale era Napata, città situata molto a sud dell’Egitto in prossimità alla Quarta cataratta del Nilo. I kushiti compaiono tra i nemici tradizionali dell’Egitto e, tranne per qualche breve periodo, gli egizi erano, fino a questo momento, riusciti a imporre il loro dominio sulla regione meridionale2. La civiltà kushita/napatea si era però note-volmente sviluppata e rafforzata nei secoli successivi al Nuovo Regno e, intorno alla metà dell’VIII secolo, era stata in grado di rivolgere la propria attenzione a nord, riuscendo a espandere la propria influenza fino a Tebe. La frammentarietà politica dell’Egit-to durante questo periodo è tale che la XXV dinastia si sovrappone ad altre dinastie di governanti ed è perciò pressoché impossibile fissare il momento preciso in cui i sovrani kushiti cominciarono a regnare davvero sui territori settentrionali. All’interno della stessa sequenza dinastica dei faraoni kushiti esistono ancora al-cuni problemi. La loro successione e i loro nomi sono noti grazie a riferimenti incrociati con testimonianze provenienti da altre regioni nell’antico Vicino Oriente. Attraverso queste è possibile però assegnare datazioni assolute soltanto ai regni degli ultimi sovrani3 che, a loro volta forniscono durate, soltanto probabili, per i regni dei monarchi precedenti.

Questo capitolo descrive la situazione a Tebe durante il periodo della dominazione kushita e concentrandosi sui funzionari che detenevano l’autorità nella città, molti dei quali probabilmente dovevano il proprio potere all’appoggio dei faraoni nubiani. Parti-colare attenzione è anche rivolta ai monumenti costruiti durante questo periodo in città.

Alara (775 – 765) e Kashta (765 – 745)

Il primo tra sovrani i kushiti ad avere lasciato testimonianze in Egitto è quello considerato da molti il secondo della XXV dinastia, Kashta, succeduto al padre Alara con il quale si suole far iniziare la stirpe dei monarchi nubiani. Anche se Kashta non invase mai davvero l’Egitto, così come fecero i suoi successori, esistono alcune prove sulla sua conquista di Tebe, dove fu forse anche incoronato faraone4. È Kashta il responsabile dell’importantissima nomina della figlia Amenirdis (I) a erede della Sposa Divina di Amon, Shepenupet I5. Shepenupet vi era stata insediata dal padre Osorkon III (788 – 760), sovrano tebano che, durante il suo regno, aveva dato nuova vita e importanza a questa carica religiosa femminile, inaugurando una consuetudine che si sarebbe protratta per tutta la XXV dinastia. È da questo momento in poi che le Spose Divine cominciarono a so-stituire il Sommo Sacerdote come figura più importante all’interno del clero di Amon a Karnak.

Non è chiaro quale fosse la situazione politica a Tebe al momento dell’incursione di Kashta e della nomina di Amenirdis I. Gli studiosi attualmente postulano l’esistenza di una XXIII dina-stia tebana che includerebbe Osorkon III e che avrebbe governato su tutto l’Egitto meridionale6. I fautori di questa teoria sostengono che Osorkon III debba essere identificato con il Sommo Sacerdote di Amon Osorkon, la cui “cronaca”, che documenta un periodo di grande instabilità politica, è inscritta sul ‘Portale bubastidÈ a Kar-nak7. Osorkon passò la carica di Sommo Sacerdote al figlio Takelot, che in seguito sarebbe diventato Takelot III (765 – 756) e avrebbe prima governato insieme al padre per poi rimanere sovrano unico. Takelot III sarebbe però morto prematuramente e, forse perché i suoi figli erano troppo piccoli per assumere il comando, il trono passò al fratello Rudamon. Rudamon stesso probabilmente regnò solo per pochi anni e non è chiaro poi chi gli succedette. Un’ipotesi è che il suo successore sia stato il genero Pef-tjau-auy-Bastet e che la sede della dinastia tebana si fosse trasferita a Eracleopoli, città di cui Pef-tjau-auy-Bastet era governatore. Questo evento avrebbe avuto luogo durante il suo ‘regno’ (o poco prima) e fu forse motivato dalle

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Christopher Naunton · Tebe durante la XXV dinastia

incursioni di Kashta8. Malgrado quanto sia realmente accaduto sia ancora fonte di dibattito, appare sicuro che, a un certo punto, nella regione tebana si verificò un passaggio di potere dalla XXIII dinastia tebana a quella kushita. Lo proverebbero il trasferimento della XXIII dinastia a Eracleopoli e la nomina di Amenirdis a Sposa Divina.

È possibile che in concomitanza con questi eventi, o poco dopo, i kushiti abbiano rafforzato il loro controllo sulla regione mediante l’insediamento, in una carica di rango elevato, di un loro funzionario: Kelbasken (fig. 1), Il cui nome dichiara chiaramente l’ori-gine kushita del personaggio. Kelbasken ottenne la carica di Quarto Sacerdote di Amon e di Governatore della Città, una combinazione di titoli che, durante la seconda parte della XXV e per tutta la XXVI dinastia, è indice di grande influenza a Tebe. La ritroviamo attribuita a Montuemhat, personaggio il cui potere su tutta la regione tebana è attestato da varie fonti (vedi oltre)9. L’importanza di Kelbasken è confermata dalla sua tomba rupestre, situata ad ovest del Ramesseo, in un’area oggi denominata “Assasif meridionale”10. Anche se è im-possibile datare la sua carriera in modo preciso, pare che Kelbasken detenesse le sue cariche già all’inizio dell’epoca kushita11. Se così fosse, la sua tomba sarebbe la prima della serie di monumenti rea-lizzate tra il periodo kushita e l’Epoca Tarda nell’Assasif e quindi anche la prima di una nuova serie di monumenti privati costruiti nell’area. Nonostante la tomba sia quasi completamente priva di decorazioni, la sua importanza è notevole perché si configurerebbe come il primo monumento del Rinascimento artistico e culturale che caratterizzo l’Epoca Tarda.

Piankhy (745 – 713)

A Kashta succedette il figlio, Piankhy12. Le testimonianze di mo-numenti di Piankhy a Tebe sono abbastanza scarse. Gli eventi relativi alla sua presenza in Egitto sono noti grazie al ritrovamen-to di un documento di grande rilevanza storica. Si tratta della celeberrima “Stele della vittoria” in cui Piankhy narra che, nel

Figura 13

Tomba di Kelbasken (TT 391). Ingresso

(Fotografia di Chris H. Naunton)

ventesimo anno di regno, avrebbe invaso l’Egitto spingendosi fino al Delta per annientare una coalizione di monarchi capeggiati da Tefnakht di Sais. Con uno stile trionfalistico e in perfetta linea con la propaganda reale egizia delle epoche precedenti, Piankhy racconta di essersi proclamato re dell’Egitto unito. Nella parte superiore della stele è rappresentato in piedi di fronte ad Amon mentre i suoi nemici sono accucciati al suolo in atto di riverenza e sottomissione. Nessuna menzione è fatta di alcun sovrano tebano, suggerendoci che i kushiti avessero il completo controllo dell’area già prima del regno di Piankhy. Il sovrano nubiano non richiese alcun tributo o cessione di proprietà a Eracleopoli, governata da

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Pef-tjau-auy-Bastet, come invece accadde per gli altri monarchi sconfitti, suggerendo che il trasferimento di autorità da una città all’altra fosse avvenuto in modo pacifico.

Nonostante fosse riuscito a sconfiggere la coalizione e dimo-strasse una notevole riverenza per la tradizione egiziana, Piankhy fece immediatamente ritorno in patria e pare non si sia più mosso da lì fino alla sua morte13. La situazione a Tebe rimase relativamente stabile. Un egiziano, Khaemhor (A), probabilmente imparentato con i kushiti mediante matrimonio, ereditò l’importante titolo di Visir dell’Alto Egitto dal fratello e la carica di Governatore della città da Kelbasken, al momento della morte di questo14. Anche se vi era già Amenirdis come erede della Sposa Divina di Amon Shepenupet I, Piankhy fece adottare una sua figlia, Shepenupet (II), come erede in attesa, assicurando la continuità della presenza kushita a Tebe per molti anni.

Shabaqo (713 – 698)

Con la successione del fratello di Piankhy Shabaqo, i monarchi del Delta si ribellarono all’autorità kushita fomentando disordini. Al seguito di questo episodio Shabaqo non tardò molto a emulare i predecessori e invase l’Egitto. Questa volta riuscì però a scon-figgere definitivamente i riottosi governatori locali e, a differenza di Kashta e Piankhy, si stabilì in Egitto, scegliendo Menfi come sua capitale.

Shabaqo continuò la politica dei predecessori nominando funzionari fedeli alla causa kushita alle cariche più prestigiose dello stato tebano. La posizione di Sommo Sacerdote di Amon era rimasta vacante dalla morte di Takelot III, a causa dell’aumentata importanza attribuita alla Sposa Divina. Shabaqo ripristinò la carica nominando il figlio Horemakhet, di cui una bellissima statua di quarzite rossa è ora esposta nel Museo della Nubia ad Assuan. Il fatto che esistano poche testimonianza riguardo a Horemakhet confermerebbe la per-

dita d’importanza che aveva subito questa carica. L’investitura di Horemakhet fu molto probabilmente simbolica e derivata dall’impos-sibilità di Shabaqo di nominare una propria figlia quale erede della Sposa Divina, essendoci già due principesse in attesa di succedere a Shepenupet.

Durante il regno di Shabaqo anche il titolo di Quarto Sacer-dote di Amon passò a un funzionario fedele ai kushiti, Nakhtefmut, un egiziano nominato a questa carica alla morte di Kelbasken. Alcuni documenti scoperti di recente hanno rivelato l’esistenza di un altro Quarto Sacerdote: Udjahor, che si fregiava anche del titolo di “Grande Sovrintendente della Città” e la cui sepoltura ebbe luogo nel decimo anno di regno di Shabaqo15. Si è pensato che questo titolo dovesse essere associato con quello di “Governatore della città”16, facendo così supporre che Udjahor svolgesse un ruolo simile a quello di Kelbasken, un’ipotesi rafforzata dalla possibilità che Udjahor fosse imparentato ai kushiti mediante matrimonio.

Il regno Di Shabaqo vide anche l’inizio di un imponente programma di rinnovamento, abbellimento e costruzione che in-teressò molti templi tebani. Per la prima volta la presenza kushita a Tebe si manifestava attraverso monumenti che attribuirono una nuova immagine alla città. A Karnak i lavori si concentrarono prin-cipalmente nel settore nord del recinto sacro di Amon. Una ‘Casa dell’oro’ fu costruita a nord dell’Akhmenu e un porticato ipostilo fu eretto nell’entrata settentrionale del tempio principale tra il terzo e il quarto pilone. Nessuna di queste costruzioni è sopravvissuta. Solo l’“Ingresso del Giubileo”, aggiunto da Shabaqo al piccolo tempio di Ptah, situato nell’angolo nordest del recinto sacro di Amon, è ancora oggi visibile (figura 14)17.

Davanti al tempio di Luxor fu costruita un’entrata ipostila intorno agli obelischi e alle statue colossali di Ramesse II e lo spessore del primo pilone fu inciso con nuovi rilievi18. A Medinet Habu il piccolo tempio di epoca Thutmoside dedicato ad Amon fu ampliato con un cortile, formato da una doppia fila di colonne collegate da muri divisori, e con un nuovo pilone d’entrata de-dicato a Kashta19.

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Figura 14

Karnak, recinto sacro di Amon-Ra. Portale di Shabaqo davanti al tempietto di Ptah

(Fotografia di Chris H. Naunton)

Shebitqo (698 – 690)

A Shabaqo succedette Shebitqo, uno dei figli di Piankhy. Nono-stante vi siano alcune testimonianze che contrastano con quanto normalmente supposto e che anticiperebbero di molto la sua ascesa al potere20, la data di regno di Shebitqo più alta attestata è il terzo anno. Di lui rimangono pochi monumenti a Tebe21. Per tale motivo gli studiosi hanno concluso che il suo regno non può essere iniziato molto prima del 693 a.C., basando questa affermazione sulla data “ancora” dell’ascesa al trono di Taharqo, il 690 a.C., suo immediato successore, il cui regno segna l’apice della dinastia kushita in Egitto, ma anche l’inizio della sua fine.

Taharqo (690 – 664)

Quando Taharqo divenne faraone l’Egitto era stabile come non lo era stato da secoli e l’egemonia kushita era salda. Le ultime tracce della XXIII dinastia tebana erano sparite quando, durante il regno di Shebitqo, Shepenupet I era morta e le era succeduta Amenirdis22. Si trattava di un momento importante per i kushiti e fu associato alla nomina di un egiziano di modeste origini a una nuova carica che avrebbe avuto grande rilievo durante i due secoli successivi: il Grande Maggiordomo della Divina Adoratrice. Il primo a portare questo titolo fu Harwa.

Harwa è da lungo tempo noto agli egittologi grazie alle sue otto statue e la sua tomba labirintica, TT37, situata nell’Assasif e tra le più grandi di tutto l’Egitto. Il sepolcro fu il primo tra quelli sot-terranei dell’Assasif e fonte d’ispirazione per quelli che seguirono. Le dimensioni e la magnificenza dei monumenti di Harwa testimo-niano la sua ricchezza. Questa doveva derivare da una sua notevole influenza all’interno del clero di Amon, il cui tesoro (senza dubbio aumentato dai faraoni nubiani) doveva essere la fonte del suo patri-monio, e dal fatto di esercitare un peso rilevante nel governo della regione. A giudicare dai suoi monumenti non vi era stato sicuramente

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Figura 15

Karnak, tempio di Amon-Ra. Chiosco di Taharqo, davanti al secondo pilone

(Fotografia di Chris H. Naunton)

un individuo più ricco di Harwa fino a questo momento. Il fatto che la sua nomina a Grande Maggiordomo sia probabilmente coincisa con l’ascesa di Amenirdis fa supporre che alle sue spalle ci fossero i sovrani kushiti. Questi avrebbero creato deliberatamente la nuova carica per rafforzare ulteriormente la posizione di Amenirdis.

L’ascesa di Amenirdis lasciò anche un posto vacante nell’ha-rem di Amon con Shepenupet II ora erede. Taharqo ne approfittò per designare una delle proprie figlie, Amenirdis (II) quale erede in attesa, poco dopo l’inizio del suo regno. Fu probabilmente anche in quest’epoca che egli diede a suo figlio Nesshutefnut il titolo di Secondo Sacerdote di Amon.

Il regno di Taharqo può essere suddiviso in due parti. La prima (c. 690 a.C. – 671 a.C.) corrisponde al momento di massimo splendore della dinastia nubiana: ai membri della famiglia kushita e ai dignitari fedeli alla causa nubiana furono assegnate posizioni di rilievo in tutta Tebe, ebbe inizio il cosiddetto “Rinascimento egizio” con la prima di una serie di enormi tombe nell’Assasif (quella di Harwa) e con le opere di rinnovamento cui furono sottoposti i prin-cipali templi, su una scala mai più vista dal Nuovo Regno.

Il più grandioso e ambizioso di questi progetti fu il ‘chiosco’ che Taharqo (figura 15) fece costruire di fronte al secondo pilone a Karnak e che dotava il tempio di un’entrata spettacolare. Formato da dieci colonne colossali, di cui una sola rimane ancora oggi in piedi, il chiosco aveva un’altezza di diciannove metri, con capitelli di quasi cinque metri di diametro.

Un’altra grande opera costruttiva realizzata a Karnak, è rappre-sentata da un’enigmatica struttura a nord del lago sacro. È molto difficile avere un’idea precisa riguardo alla vera funzione di questo edificio a causa del suo pessimo stato di conservazione. Sembra però che fosse dedicato al culto congiunto del sole e del sovrano, che vi riceveva deificazione23. Anche il complesso templare dedicato alla dea Mut fu oggetto di un’intensa attività costruttiva durante questo periodo. Taharqo aggiunse una nuova sezione, tra il secondo cortile e l’area del santuario, che comprendeva una sala ipostila con otto colonne hathoriche, in linea con quelle del Nuovo Regno disposte su tre lati del secondo cortile. Le nuove strutture vennero anche dotate di un portico d’ingresso composto da quattro colonne collegate da muri separatori decorati con rilievi che rappresentano Piankhy e una flotta di navi di ritorno da Karnak, con Tefnakht, comandante delle truppe di Eracleopoli24. L’adiacente tempio ramesside di Khonsupakhered (figura 17) ristrutturato. Questa costru-zione, pur incorporando gran parte di quelle preesistenti, rappresenta l’unico santuario interamente edificato ex-novo dai faraoni kushiti in tutto l’Egitto25.

Oltre al chiosco di fronte al tempio di Amon a Karnak, portici d’entrata furono aggiunti al tempio di Khonsu, al tempio di Amon-Ra-Harakhty a est del tempio di Amon (figura 16), alla fac-

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Figura 16

Tempio di Ra-Horakhty a est del tempio di Amon-Ra a Karnak

(Fotografia di Chris H. Naunton)

ciata settentrionale del tempio di Amon-Ra-Montu a Karnak-Nord, al tempio di Mut e forse anche nel tempio di Hatshepsut di Deir el-Bahri, dove il porticato d’entrata del santuario ha una pianta tipicamente kushita26.

Nonostante l’impossibilità di datare questi monumenti in modo preciso, sembra probabile che la maggior parte dell’attività costruttiva abbia avuto luogo durante la prima parte del regno di Taharqo. La seconda fu infatti caratterizzata da una serie di attac-chi al paese da parte dell’esercito assiro che condussero alla fine del regno kushita. Pare che Asarhaddon abbia tentato di invadere

Figura 17

Karnak, recinto sacro di Mut. Tempio di Khonsu-pakhered (Fotografia di

Chris H. Naunton)

l’Egitto nel 674, le armate assire sarebbero però state respinte con successo da quelle di Taharqo27. Asarhaddon si riorganizzò e tornò ad attaccare l’Egitto con la ferma intenzione di includere la Valle del Nilo tra i domini dell’impero assiro. Riuscì in questa impresa nel 671 a.C. Non soddisfatto di avere sconfitto il faraone nel suo stesso paese, Asarhaddon impose sue proprie leggi: venne stabilito un tributo annuale e furono promulgate istruzioni per le offerte da compiere regolarmente agli dei assiri nei templi egiziani. Asarhad-don confermò l’autorità dei governatori locali egiziani che lui con-siderava degni della sua fiducia e ne installò di assiri nelle regioni in cui ritenne fosse necessario. I nomi di questi alti funzionari sono elencati nel testo del Cilindro di Rassam, un documento assiro da-tabile all’inizio del regno del suo successore Assurbanipal28. Come la stele di Piankhy, il Cilindro di Rassam fornisce “istantanee” sulla situazione politica dell’Egitto in un momento ben preciso. È impossibile però sapere quanto i governatori assiri restarono in carica, soprattutto perché Taharqo riuscì a riconquistare l’Egitto fino a Menfi e a restaurare il governo kushita.

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Figura 18

Tomba di Montuemhat (TT 34). Cortile

(Fotografia: Chris H. Naunton)

Molti dei governatori citati dal Cilindro di Rassam non erano assiri, bensì egiziani a cui era stato attribuita la gestione di una particolare località. Il paese era dunque ampiamente governato attraverso unità amministrative locali. L’uomo di fiducia a Tebe era Montuemhat, che mantenne questa posizione quando i kushiti tor-narono in possesso del paese, poi durante le successive incursioni assire e oltre. Montuemhat è ampiamente conosciuto grazie ai suoi monumenti: le sue statue, l’enorme tomba nell’Assasif (figura 18), situata subito a ovest di quella Harwa, e una serie di iscrizioni da lui lasciate nel tempio di Mut a Karnak29.

I titoli principali di Montuemhat erano quelli di Quarto Sa-cerdote di Amon e Governatore della città, la stessa combinazione attestata per Kelbasken prima di lui. L’ultimo titolo era appartenuto a membri della famiglia di Montuemhat per due generazioni aven-dolo portato il nonno Khaemhor (A) e il padre Nesptah (A). Il primo deteneva anche l’importante carica di Visir dell’Egitto Meridionale, che dopo la sua morte era passata al figlio Pahor/Horsiesi (G) e, in seguito, a un altro figlio, Nesmin per poi essere trasferita alla fami-glia di Nespakashuty (C). Quest’ultimo passaggio è stato interpretato come una rimozione deliberata della carica dalla famiglia di Mon-tuemhat per diminuirne il potere30. Questa mossa poteva essere stata compiuta solo dagli stessi sovrani kushiti. È probabile dunque che durante quest’epoca, probabilmente l’inizio del regno di Taharqo, i kushiti fossero pienamente coscienti della possibilità che individui con grande influenza a livello locale potessero acquisire una loro indipendenza. Il fatto che Montuemhat fosse alleato con i kushiti è fuori dubbio. Egli era in carica prima e dopo la sconfitta di Taharqo del 671 a.C. e fu il responsabile del programma costruttivo a Tebe come è egli stesso a dichiarare in un’iscrizione nel tempio di Mut a Karnak. Una delle sue tre mogli, Udjaresne, era inoltre un membro della famiglia reale kushita. Nel 671 anche il detentore della carica di Visir aveva una notevole influenza: il Cilindro Rassam cita il Visir Nespamedu, succeduto al padre Nespakashuty (C), come governatore di Thinis nel Medio Egitto. Montuemhat era anche “Sovrintendente dell’Alto Egitto’ ed era stato il primo a detenere tale carica dall’epoca di Nespaqashuty (A), vissuto quasi un secolo prima sotto Sheshonq

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III31. Assurbanipal rivendicò di avere confermato la carica alle perso-ne citate nel Cilindro Rassam a due anni di distanza dalla loro nomina da parte di Asarhaddon. Montuemhat è citato come detentore del potere su Tebe anche nel corso del successivo governo kushita.

Taharqo avrebbe recuperato il controllo del paese, ma subì ancora una pesante sconfitta a Memfi nel 664 a.C., questa volta per mano di Assurbanipal che lo costrinse a una nuova ritirata a sud. Taharqo trovò morte nel corso della sua fuga. A lui succedette un figlio di Shabaqo, Tanutamani32.

Tanutamani (664 – 653)

Dopo aver stabilito la sua autorità su Kush, Tanutamani marciò verso nord e raggiunse il Delta dove ingaggiò battaglia contro gli alleati degli assiri. Nonostante fosse risultato vittorioso, il trionfo di Tanutamani fu di breve durata: nel 663 Assurbanipal marciò nuo-vamente sull’Egitto. Tanutamani fu costretto a rifugiarsi a Menfi e fu poi inseguito lungo tutto il corso del Nilo fino a Tebe. Gli eserciti assiri entrarono nella città che fu saccheggiata per le prima volta nella sua storia secolare. Gli assiri portarono via un cospicuo botti-no e senza dubbio danneggiarono in modo grave i monumenti che i faraoni kushiti si erano tanto preoccupati di riportare al loro antico splendore. In assenza di una vera alternativa, Tanutamani continuò a essere menzionato a Tebe, nei testi che commemoravano la nomina di sacerdoti, fino al suo ottavo anno di regno33.

Da quel momento in poi i faraoni della XXV furono sostituiti da quelli della XXVI, che governavano tutta la Valle del Nilo da Sais nel Delta. Il primo di questa stirpe fu Psammetico I (664 – 610). Neko I, padre di Psammetico era stato un alleato degli assiri. Malgrado Psammetico avesse cominciato a datare il proprio regno come faraone a partire dal 664 a.C., anno corrispondente alla seconda sconfitta di Taharqo a Menfi, il paese e Tebe non furono governati dalla dinastia saita fino a qualche tempo dopo. La conferma del controllo della

regione tebana avvenne, anche in questo caso, con la nomina della figlia di Psammetico I Nitocri a erede in attesa della Sposa Divina di Amon. Si ha qui un sorprendente parallelo con quanto aveva fatto Kashta, settanta o ottanta anni prima all’inizio della XXVI dinastia. Vari dignitari del governo kushita dimostrarono la loro fedeltà a Ni-tocri offrendo doni in derrate alimentari. Tra questi compare ancora Montuemhat in compagnia del figlio Nesptah, della moglie Udjaresne e di Horemkhebyt, figlio di Horemakhet, Sommo Sacerdote di Amon e nipote di Shabaqo34.

Le Spose Divine di Amon, inclusa Shepenupet II, soprav-vissero alla fine della dinastia kushita. Psammetico si dimostrò esplicitamente rispettoso nei confronti di questa istituzione religiosa nella stele che commemora la nomina di Nitocri. In questo testo il sovrano afferma che Amenirdis II non sarebbe stata esclusa della successione35. Shepenupet II era intanto succeduta a Amenirdis I come Sposa Divina poco dopo l’inizio del regno di Taharqo. Non vi è alcuna testimonianza che associ Harwa, il suo Grande Maggiordomo con altre Spose Divine, facendo quin-di supporre che, alla morte di Amenirdis I egli abbia cessato di occupare questa funzione o, più probabilmente, sia morto nello stesso periodo. Dopo Harwa fu Akhimenru a detenere il titolo di Grande Maggiordomo. Quest’ultimo personaggio è noto grazie a otto statue e una tomba (TT 404) costruita riutilizzando una parte incompiuta di quella di Harwa: l’entrata è praticata nel muro occidentale del cortile della tomba del suo predecessore. Il nome di Akhimenru è associato a un faraone soltanto una volta: il nome di Tanutamani appare scritto sulla spalla di una delle statue del Grande Maggiordomo36. Le testimonianze genealogiche indurrebbero a ipotizzare che Akhimenru non fu investito della carica di Grande Maggiordomo fino alla fine del regno di Tahar-qo. Le sue statue e la sua tomba, di minori dimensioni rispetto a quella di Harwa, sembrano invece provare che egli mantenne la sua posizione anche qualche tempo dopo la morte di Taharqo. Poiché Akhimenru non è attestato nella “stele dell’adozione” di Nitocris del 656 a.C., è più prudente presumere che la sua carriera sia iniziata durante il regno di Taharqo.

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Tra tutte le opere costruttive del periodo kushita a Tebe, spic-cano due gruppi di edifici innalzati nel nome delle Spose Divine di Amon. Si tratta delle cappelle dedicate alle diverse forme di Osiride nel settore settentrionale del recinto sacro di Amon a Karnak. La cappella di Osiride Onnofri “nel mezzo dell’albero persea” fu eretta da Shepenupet I e quella di Osiride Signore di Vita da Amenirdis I, entrambe durante il regno di Shabaqo. Quella di Osiride Gover-natore dell’Eternità, costruita da Osorkon III, fu ingrandita durante il regno di Shebitqo. Le cappelle di Osiride Signore di Vita, a nord del terzo pilone, e quella di Osiride-Ptah Signore di Vita, a sud del decimo pilone, furono invece costruite dalle Spose Divine durante il regno di Taharqo, così come un piccolo tempio di Shepenupet II e Amenirdis II a Karnak-Nord37.

Il secondo gruppo di edifici è invece costituito delle cap-pelle soprastanti alle tombe delle Spose Divine, costruite davanti al tempio di Ramesse III a Medinet Habu leggermente a sud-est del primo pilone. Amenirdis I aveva imitato Shepenupet I facendosi erigere una cappella in mattoni crudi. Questa struttura fu in seguito ricostruita in pietra da Shepenupet II. La cappella è formata da una facciata che imita un pilone, seguita da un cortile a quattro colonne e un santuario. Durante la XXVI dinastia questa cappella servirà da modello per quelle di Shepenupet II, Nitocri e della madre di Nitocri, Mehetenusekhet.

Si è supposto che Harwa fosse il precursore di Montuemhat e sicuramente l’evidenza delle loro tombe potrebbe far supporre che il monumento del primo sia servito da modello per il celebrato Sovrintendente dell’Alto Egitto38. Il Cilindro di Rassam rivela che Montuemhat era il funzionario detentore del potere a Tebe dal 671 a.C. (e forse anche prima, dato che gli assiri avevano sempli-cemente confermato il suo potere). La stele d’adozione di Nitocri (656 a.C.) e il ‘Papiro dell’oracolo saita’ (651 a.C.)39 confermano che Montuemhat mantenne questa posizione di prestigio ben oltre l’inizio della XXVI dinastia. Se, come è lecito supporre, le carriere di Harwa e Montuemhat non si sovrapposero di molto, ne consegue che Harwa avrebbe potuto benissimo essere anche il precursore di

Montuemhat in quanto governatore di Tebe40. Questo nonostante essi postassero titoli diversi. La conoscenza della prosopografia dell’epoca, lungi dall’essere completa, fa infatti supporre che non vi sia una precisa relazione tra i titoli e il reale potere detenuto dal funzionario41. È allora possibile che Harwa abbia avuto una simile autorità e influenza.

Le notizie sulla situazione politica precedente alla suprema-zia nubiana indicano che il paese fosse in quel periodo governato non da un’autorità centrale ma da governatori locali. Quanto è noto di Montuemhat e dei sovrani di altre parti d’Egitto indurrebbe a supporre che questo potrebbe essere rimasto lo status quo durante tutto il periodo kushita nonostante la propaganda reale sostenesse vi fosse stato un ritorno all’Egitto unificato. La strategia kushita di installare funzionari fedeli in posizioni chiave imita la politica della XXII dinastia e conferma che esistesse una forte spinta centripeta al decentramento del potere. È perciò plausibile cercare di identi-ficare una linea di governatori tebani che gestivano il potere nella regione con il beneplacito dei sovrani kushiti, secondo la quale a Kelbasken sarebbero succeduti prima Harwa e poi Montuemhat. Montuemhat si sarebbe poi affrancato dalla necessità dell’approva-zione dei faraoni nubiani, essendosi il suo potere accresciuto come conseguenza dell’indebolimento del loro. Una dettagliata analisi dei documenti relativi a questi funzionari dimostra che è possibile utilizzare le testimonianze provenienti da Tebe come un indicatore dell’evoluzione della situazione politica nel corso della dinastia ku-shita in tutto l’Egitto. All’inizio i membri più importanti del vecchio governo erano stati rimossi, in modo relativamente veloce, e sostituiti da un numero di funzionari kushiti e dai loro alleati. Nel momento di maggiore potere dei nubiani (il periodo che va dalle invasioni di Piankhy e Shabaqo ai primi gloriosi anni di Taharqo) la supremazia su Tebe fu consolidata attraverso la nomina di altri funzionari fedeli alla casa regnante. Nonostante ciò, durante gli ultimi anni del regno di Taharqo e sicuramente verso la fine della dinastia, i dignitari egi-ziani e, in particolar modo Montuemhat, si sarebbero affrancati dal controllo della casa regnante.

Che Tebe funga da modello in questo periodo non è sorpren-dente. Questa città era ancora il centro dell’amministrazione, della

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religione e della ricchezza dell’Alto Egitto, sede del culto di Amon dio amato dai kushiti, ed era geograficamente più vicina a Kush ri-spetto a Menfi o agli altri insediamenti del Delta. Per questi motivi Tebe era stata teatro del primo atto politico compiuto dai sovrani kushiti: la nomina di Amenirdis I a erede della Sposa Divina di Amon. A Tebe i monarchi della XXV dinastia realizzarono anche il più vasto programma costruttivo intrapreso a partire dalla fine del Nuovo Regno. Le opere architettoniche volute dai sovrani e i mo-numenti funerari dei dignitari che, indubbiamente, beneficiarono delle ricchezze conservate nel tesoro di Amon e del mecenatismo kushita nei confronti della regione, sono tra le prime manifestazioni del Rinascimento che interessò la cultura egizia di Epoca Tarda.

Tebe fu saccheggiata quando era ancora nominalmente sotto il dominio kushita. La sua importanza e quella delle sue istituzioni religiose non per questo diminuì. L’autorità di Psammetico I su tutto il paese fu confermata attraverso la nomina della figlia Nitocri a erede in attesa della Sposa Divina di Amon.

Tebe tra la XXV e la XXVI dinastia appare in tutta la sua grandezza rispetto agli altri centri della Valle del Nilo, la cui impor-tanza sembra ormai essere per sempre declinata. Questa immagine potrebbe non corrispondere alla realtà. Le testimonianze provenienti da altre parti dell’Egitto, in particolare modo da Menfi o dal Delta, non sono così doviziose come per Tebe. Questo periodo è inoltre scarsamente studiato rispetto ad altre epoche della storia egizia. Le nuove scoperte potrebbero equilibrare questo quadro e chiarire la reale situazione a Tebe e nelle altre città dell’Egitto durante la dinastia kushita. Nonostante ciò, qualora si tenga in considerazione soltanto le testimonianze provenienti da Tebe, non vi è alcun dubbio che, durante la XXV dinastia, questa città assunse nuovamente un ruolo egemone, tornando agli splendori del glorioso Nuovo Regno.

Note

1 Le testimonianze archeologiche e testuali per i periodi sono analizzate molto dettagliatamente in Kitchen 1995. Una teoria alternativa è elaborata in Leahy 1990.

2 Esistono molti studi sulle relazioni tra gli egiziani e nubiani. Tra i più importanti Adams 1977 e O’Connor 1993.

3 Cfr. Kitchen 1995. Per l’anno di ascesa al trono di Taharqo come prima data fissa nella cronologia egiziana, si veda Parker 1960.

4 Un utile riassunto di queste avvenimenti e un approfondito esame delle testimonianze si trovano in Morkot 2000, pp. 157 – 161.

5 Malgrado alcuni studiosi abbiano attribuito a Piankhy, il successore di Kashta, la nomina di Amenirdis a Sposa Divina, le successive tre eredi furono tutte poste in questa carica dal padre. Si preferisce perciò mantenere l’attribuzione a Kashta. Su questo, si veda Naunton 2000, p. 31.

6 Leahy 1990.7 Nonostante si tratti di una vecchia teoria, è stata recentemente proposta, in particolare, da Aston

(1989, pp. 140 – 144). La ‘Cronaca del Principe Osorkon’ è stata pubblicata da Caminos 1958.8 Cfr. Naunton 2000, pp. 32 – 34.9 Per l’importanza di questi titoli cfr. Payraudeau 2003 e Naunton 2000, pp. 20 – 25, 51 - 60.10 Eigner 198411 Naunton 2000, p. 21. Per una data alternativa cfr. Payraudeau 2003, p. 147, n. 89.12 Le modalità nella successione dei re nubiani non sono state ancora comprese appieno. Per un’analisi

completa della questione cfr. Morkot 1999.13 Alcune studiosi hanno proposto quaranta anni come durata del regno di Piankhy. Altri hanno

avanzato l’ipotesi che la sua invasione dell’Egitto sia avvenuta molto prima di quanto normalmente presunto (negli anni 3 o 4 invece dell’anno 20; cfr. Morkot 2000, pp. 170 – 174 ). Sembra però più probabile che Piankhy sia morto solo quattro anni dopo questo avvenimento e questo gli attribuirebbe un regno di ventiquattro anni e confermerebbe la data del ventesimo anno per la campagna in Egitto.

14 Naunton 2000, pp. 52 e sgg.15 Strudwick 1995.16 Payraudeau 2003.17 Arnold 1999, p. 47.18 PM II, p. 305.19 Arnold 1999, p. 47.20 Nuove testimonianze ricavate da un’iscrizione assira scoperta a Tang-I Var hanno fatto supporre

che Shebitqo detenesse il potere a Kush già nel 705 a.C. Cfr. Redford 1999 e Naunton 2000, pp. 70 – 74 e, in risposta, Kahn 2001.

21 Arnold 1999, p. 50.22 Naunton 2000, p. 37.23 Arnold 1999, pp. 53 – 54.24 Arnold 1999, p. 55 e fig. 27. Sui rilievi di Piankhy, cfr. PM II, p. 257.25 Arnold 1999, pp. 55 - 57.26 Arnold 1999, pp. 57 - 58.27 Morkot 2000, p. 26428 Morkot 2000, pp. 273 - 275 e Leahy 1979.29 Per una descrizione dettagliata dei suoi monumenti e della sua carriera cfr. Leclant 1961; un breve

riassunto lo si trova anche in Leclant 2000.30 Bierbrier 1975, p. 105. Cfr. anche Naunton 2000, p. 55.31 Kitchen 1995, p. 597.32 Leahy 1984.

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102

L’enigma di Harwa

33 Morkot 2000, p. 297.34 Morkot 2000, p. 300.35 Caminos 1964, pp. 78 - 79.36 Leclant 1954, p. 156.37 Arnold 1999, pp. 47 – 55.38 Russmann 1983.39 Cfr. Parker 1962.40 Questa ipotesi è già stata avanzata da Tiradritti 1998.41 Ciò è ben illustrato dal Capo dei Sacerdoti Lettori Petamenofi che, nonostante non avesse altro

titolo prestigioso, era il proprietario di numerose statue e di un’enorme tomba nell’Assasif (TT 33), più grande di quelle di Montuemhat (TT 34) e Harwa (TT 33). Per una visione sommaria della sua carriera e dei suoi monumenti cfr. Thomas 2000.

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La Sposa Divina,la Divina Adoratricee il Clero di Amondurante la XXV dinastia

Mariam Ayad Ph.D.

Vice Direttore dell’Istituto di Arte e Archeologia EgizieUniversità di Memphis, Memphis, TN 38152-3200

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Mariam Ayad · La Sposa Divina, la Divina Adoratrice e il Clero di Amon durante la XXV dinastia

Nonostante le nostre conoscenze al riguardo siano ancora piuttosto lacunose, risulta tuttavia evidente che le detentrici del titolo di Sposa Divina di Amon raggiunsero uno status senza precedenti durante la XXV dinastia.

Oltre ad assumere le insegne regali, come una vera regina, la Sposa Divina di Amon aveva il titolo di nebet-tauy, cioè “Signora delle Due Terre”, e al momento della sua nomina acquisiva, proprio come un sovrano, un “nome di incoronazione”. Sia il suo nome di nascita sia quello di incoronazione erano scritti all’interno del car-tiglio reale. La Sposa Divina di Amon, inoltre, veniva regolarmente raffigurata in scene che in precedenza erano riservate esclusivamente al faraone, quali la celebrazione di riti regali inerenti la consacrazione delle offerte e la presentazione di Maat agli dei. Le Spose Divine di Amon eressero imponenti monumenti funerari sulla riva occidentale di Tebe, nel sito di Medinet Habu, e dedicarono cappelle a Osiride sulla sponda orientale del Nilo, all’interno del santuario di Karnak1. Oltre ad avere un legame con la vasta tenuta del tempio di Amon a Karnak (che potevano supervisionare), le spose divine erano provvi-ste anche di propri possedimenti collocati sia all’interno sia all’ester-no dell’area tebana2. Come conseguenza di ciò fu creata una nuova categoria di funzionari il cui compito era quello di svolgere mansioni giornaliere connesse con l’amministrazione delle proprietà della Sposa Divina3. Al vertice c’era il mer per ur duat-netjer o “Grande Maggiordomo della Divina Adoratrice”, un titolo che fu assunto per

Catalogo 9

Statuina di Amon-Ra. Torino, Museo Egizio,

Cat. 88 (© 2004 Museo Egizio di Torino)

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L’enigma di Harwa

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primo da Harwa le cui statue e la cui tomba all’Assasif testimoniano la sua grande ricchezza e il suo straordinario potere4.

L’importanza della Sposa Divina di Amon può essersi af-fermata a scapito della figura del Sommo Sacerdote di Amon il cui ruolo sembra privo di un effettivo potere durante il dominio dei faraoni nubiani. Nel corso della XXV dinastia il vero potere era infatti concentrato nelle mani di funzionari come Harwa, legati alla gestione delle proprietà della Sposa Divina, o di sacerdoti minori di Amon, come Montuemhat, che nonostante fosse solamente un “Quarto Sacerdote di Amon” controllava la città di Tebe ed era go-vernatore dell’Alto Egitto. Si può quindi ritenere che gli eventi che determinarono la conquista nubiana dell’Egitto abbiano portato a un intenzionale rovesciamento nella struttura del potere a Tebe.

Anche se le prime testimonianze sull’esistenza di una Sposa Divina risalgono al Medio Regno, il titolo non compare nella sua for-ma completa (hemet-netjer en Imen) fino agli inizi del Nuovo Regno quando è conferito a Ahmose-Nefertari5, moglie di Ahmosi (1550 – 1525), fondatore della XVIII dinastia, che, con grande generosità, attribuì alla carica di Sposa Divina una sua tenuta indipendente. Questa speciale donazione accordò così alla detentrice del titolo una grande indipendenza finanziaria. Nel Nuovo Regno il titolo di Sposa Divina era una prerogativa regale, detenuto nella maggior parte dei casi dalla principale moglie del sovrano o, meno frequentemente, da una delle sue figlie.

Dal momento che il titolo di hemet-netjer en Imen era ini-zialmente associato alla sposa principale del sovrano, si è pensato che esso riflettesse l’idea di un’unione coniugale tra il supremo dio Amon-Ra e una donna mortale, evocando in questo modo il concetto mitologico del concepimento divino del faraone regnante6. Questo concepimento divino, tuttavia, non veniva evocato regolarmente. Nel ciclo figurativo riguardante la nascita di Amenofi III (1387 – 1350), per esempio, Amon visita gli appartamenti della madre del sovrano ed è in seguito a questa sua visita che il re viene concepito. Ma in questo caso la madre del sovrano non ha il titolo di Sposa Divina di Amon7. Due altri titoli erano comunemente associati con la Sposa Divina di Amon: duat-netjer (“Divina Adoratrice”) e djeret-netjer (“mano divina”)8. Mentre il primo si riferisce al ruolo della Sposa

Catalogo 10

Ushabty in pietra a nome di Shepenupet.

Parigi, Museo del Louvre, E 11159 (©

2004 Musée du Louvre Département des

Antiquités Égyptiennes)

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L’enigma di Harwa

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Divina come principale adoratrice di Amon, il secondo sembra en-fatizzare il suo ruolo sessuale in rapporto al dio creatore che usò la propria mano per generare da se stesso, tramite masturbazione, la prima coppia divina: Shu e Tefnut9. La precoce associazione di una Sposa Divina con il culto del dio itifallico Min dà ulteriore credito all’interpretazione sessuale del titolo di Sposa Divina10, il cui ruolo è così stato definito nel senso di “stimolare” o “risvegliare” la ses-sualità del dio affinché egli ripeta in eterno l’originario atto della creazione.

È però l’aspetto politico, più che i ruoli sessuali o rituali della Sposa Divina, che nel Terzo Periodo Intermedio ne aumentò il presti-gio sino a uno status senza precedenti. Con la fine del Nuovo Regno si era assistito a un’incredibile crescita di potere dei Sommi Sacerdoti di Amon: Herihor controllava l’esercito dell’Alto Egitto e si fece rappre-sentare come re dell’Alto e del Basso Egitto nei rilievi conservati nel tempio di Khonsu a Karnak. Herihor diede l’avvio a una nuova epoca di “Rinascita” (uhem-mesut) in Egitto, sulla base della quale egli datava il proprio “regno”, e mandò all’estero alcuni inviati per stipulare affari con sovrani stranieri11. Più tardi, durante la XXII e XXIII dinastia, I Sommi Sacerdoti erano spesso figli del sovrano regnante e arrivarono spesso a rivendicare per sé il trono dell’Egitto.

Man mano che l’autorità del sovrano d’Egitto declinava a fronte del sempre più potente clero di Amon a Tebe, il ruolo della Sposa Divina di Amon ricevette nuova importanza e fu utilizzato per sostenere le rivendicazioni della monarchia sull’area tebana12. Anziché una regina, la Sposa Divina di Amon era ora una figlia nubile del sovrano regnante13. La riscoperta del titolo di Sposa Divina fu dunque dettata dalla necessità politica. L’imposizione del nubilato alla Sposa Divina garantiva la sua lealtà al sovrano regnante dal mo-mento che le impediva di dar vita a una sua propria dinastia rivale14. La successione nell’incarico avveniva tramite adozione. Anche se la tradizione del nubilato connessa con questa funzione può esser fatta risalire a Aset, figlia di Ramesse VI (1143 – 1135), che fu anche la prima a detenere sia il titolo di Sposa Divina sia quello di Divina Adoratrice15, la piena efficacia politica di questa istituzione non si affermò prima della XXIII dinastia, quando Osorkon III (788 – 760) nominò sua figlia Shepenupet I Sposa Divina.

Catalogo 12

Ushabty in pietra di Amenirdis. Parigi,

Museo del Louvre, N 647 (© 2004 Musée

du Louvre Département des Antiquités Égyptiennes)

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L’enigma di Harwa

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Mariam Ayad · La Sposa Divina, la Divina Adoratrice e il Clero di Amon durante la XXV dinastia

Con la nomina di Shepenupet I, Osorkon III, debole sovrano che regnava dal nord, ottenne così un controllo, seppur indiretto, sull’area tebana. I sovrani libici dell’Egitto avevano regolarmente nominato membri della loro famiglia in posizioni religiose chiave. Alcuni principi erano stati investiti del titolo di governatore dell’Alto Egitto a el-Hiba e di alto sacerdote di Amon-Ra a Tebe. Osorkon III della XXIII dinastia fu però il primo sovrano a nominare la propria figlia Sposa Divina di Amon.

I nubiani trassero ben presto vantaggio dall’istituzione dell’incarico della Sposa Divina per sostenere le loro pretese su

Tebe. Essi fecero “adottare” in questa funzione Amenirdis I, figlia di Kashta (765 – 745) (fgura 19), persino prima di aver completato la loro invasione dell’Egitto16. Infatti non fu prima del regno di Shabaqo (713 – 698) che giunse a conclusione la conquista nubiana del-l’Egitto, iniziata alcuni anni prima sotto Kashta17. Pochi anni dopo Amenirdis I adottò Shepenupet II, figlia di Piankhy (745 – 713). Più tardi, probabilmente dopo la morte di Amenirdis I, Shepe-nupet II adottò Amenirdis II, figlia di Taharqo, come sua “erede legittima”.

Kashta (765 – 745) estese la sua influenza su tutta la Bassa Nubia fino ai confini meridionali dell’Egitto dove il suo nome è attestato su una stele di donazione nel tempio di Khnum ad Assuan. Su questa stele Kashta si pro-clama re dell’Alto e del Basso Egitto, ma rimane tuttora da chiarire se Kashta abbia effettivamente esteso la sua in-fluenza sino alla Tebaide.

Intorno al 745 a.C., il figlio di Kashta, Piankhy, fu incoronato a Napata

Figura 19

Statua di Amenirdis I, Museo Egizio del Cairo,

CG 565 (Fotografia di Francesco Tiradritti)

dove “egli si dichiarò… sovrano d’Egitto e signore supremo di tutti i re, i capi e i principi del suo regno”18. La politica egizia di Piankhy fu più aggressiva di quella del padre e, nel quarto anno di regno, egli marciò con il suo esercito su Tebe. Il suo ingresso nella città sembra sia stato pacifico e avesse l’intento principale di prender parte alla Festa Opet e di offrire molti doni a Amon-Ra19. La visita di Piankhy può però nascondere ragioni sia di ordine politico sia di natura religiosa20. Rendendo omaggio a Amon, Piankhy rafforzò senza dubbio i suoi legami con l’élite tebana e promosse la sua immagine di tradizionalista religioso. È sorprendente il fatto che nessun alto sacerdote tebano sembra aver accolto Piankhy in questa occasione, né 15 anni dopo circa (ventunesimo anno di regno)21, quando egli diede inizio a una vera e propria campagna militare22. Piankhy può essere stato in grado di trarre profitto dalle relazioni stabilitesi (o sviluppatesi) durante la sua prima visita. La narrazione degli eventi riportata sulla sua Stele della Vittoria suggerisce che il successo della campagna fu largamente dovuto al sostegno e alla lealtà della comunità tebana23. Ancora una volta Piankhy fece coincidere la campagna con un momento che gli consentisse di poter partecipare alle cerimonie religiose che avevano luogo in quel periodo a Tebe (la Festa di Opet e la Bella Festa della Valle), prima di unirsi al suo esercito nel suo cammino verso nord, alla caccia del dinasti egizi, o “ribelli” come Piankhy li chiamava.

Amenirdis I, figlia di Kashta e di sua moglie Pebatma, nonché sorella dei sovrani Piankhy e Shabaqo24, fu la prima donna nubiana a detenere il titolo di Sposa Divina di Amon. Alcune testimonianze suggeriscono che sia la madre sia la sorella la accompagnarono da Napata a Tebe e ciò può indicare che Amenirdis I fosse ancora una bambina quando le fu affidato questo incarico25. Anche se la data esatta della sua nomina non può essere stabilita con precisione26, non mancano teorie circa l’identità di colui che ne sostenne l’inve-stitura. Sulla base di alcune analogie con il sistema di successione dei sovrani nubiani, Kitchen ha avanzato l’ipotesi che Amenirdis I sia stata nominata nel suo incarico dal fratello Piankhy27. Török sup-pone invece che, al pari di tutte le altre spose divine di Amon, Ame-nirdis I sia stata investita del titolo dal padre Kashta28. Dal momento

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Mariam Ayad · La Sposa Divina, la Divina Adoratrice e il Clero di Amon durante la XXV dinastia

che sopravvisse a Kashta a Piankhy e a Shabaqo, e forse persino al ni-pote Shebitqo (698 – 690), Amenirdis I deve aver ricoperto l’incarico per almeno trenta o quarant’anni29. Collocare quindi la sua adozione nel regno di Kashta allungherebbe la durata del suo incarico di circa 10 anni. Così, ipotizzare che sia stato Piankhy il responsabile della sua adozione sembra essere la teoria più prudente. Piankhy potrebbe aver preparato l’insediamento in carica di Amenirdis I durante la sua prima visita a Tebe nel suo quarto anno di regno.

Probabilmente a causa della minaccia rappresentata dai Sommi Sacerdoti di Amon nei confronti del sovrano regnante du-

rante la prima parte del Terzo Perio-do Intermedio (XXI-XXIII dinastia), i Nubiani lasciarono volutamente vacante questa carica durante i pri-mi cinquant’anni del loro governo in Egitto. Nessun Sommo Sacerdote sembra avere accolto Piankhy quando questi entrò a Tebe nel suo ventune-simo anno di regno. Analogamente, quando Shabaqo assegnò al figlio maggiore l’alto sacerdozio di Amon, l’incarico appare ormai privo di qualsiasi effettivo potere. Il Sommo sacerdote di Amon non era più potere militare né aveva una qualsivoglia autorità amministrativa su Tebe o l’Alto Egitto. Per esempio, una statua del Sommo Sacerdote Horemakhet, proveniente dal tempio di Mut a Karnak (figura 20), porta solamente titoli sacerdotali: “Sommo Sacerdote di Amon, che vede Amon in tutte le sue forme sacre” (hem-netjer tepy en Imen maa Imen tiut-ef djeseru) e “Soprastante dei sacerdoti di Tebe” (mer hemu-netjer en Uaset). I suoi titoli non religiosi sono però limitati a

Figura 20

Statua di Horemakhet. Museo della Civiltà

Nubiana, Assuan (Fotografia di Mariam

Ayad)

una serie che comprende cariche onorifiche e formali associate con i membri dell’élite dominante30.

Le fonti iconografiche ritraggono la Sposa Divina e non il Sommo Sacerdote nell’atto di officiare al cospetto degli dei e di partecipare ai riti connessi con la protezione degli dei e del cosmo31. Uno di questi prevedeva che fosse dato fuoco ad alcuni ventagli con l’immagine dei nemici dell’Egitto. Sin dalla XVIII dinastia nella Cappella Rossa di Hatshepsut a Karnak32, la Sposa Divina veniva raffigurata a fianco di un sacerdote con il titolo di “padre divino” (it-netjer) nell’atto di partecipare a questo rito. Bruciare l’immagine dei nemici dell’Egitto simboleggiava la loro “distruzione sulla terra e nell’aldilà”33.

Nella XXV dinastia la Sposa Divina prendeva ancora parte ai riti di protezione, ma questa volta è raffigurata a fianco del sovrano e non di un sacerdote. Nella stanza “E” dell’Edificio di Taharqo presso il lago sacro a Karnak, sia il sovrano sia la Sposa Divina partecipano ai “riti di protezione presso il cenotafio”34. Il faraone lancia quattro sfere; la Sposa Divina tira invece frecce contro quattro oggetti ro-tondi35. I testi che accompagnano la scena indicano che questi riti avevano un valore cosmico o universale. Le quattro sfere utilizzati nel rituale simboleggiano i quattro punti cardinali36. I due riti così manifestano un tentativo di stabilire l’autorità di Amon sulle “quat-tro estremità del mondo”37. Il lancio rituale delle sfere era stretta-mente connesso con altri riti magici celebrati nel tempio, ciascuno dei quali era destinato “al beneficio degli dei e del cosmo”38. Nella stessa stanza la Sposa Divina, e non il Sommo Sacerdote, è anche raffigurata nell’atto di innalzare sul supporto-tjeset Dedun, Soped, Sobek e Horus39. Queste quattro divinità erano associate ai quattro punti cardinali e possono aver rappresentato diverse manifestazioni geografiche del “dio universale Amon”40.

I riti rappresentati nell’Edifico di Taharqo sono stati in-terpretati come espressione della “dominazione regale e divina… tesa ad allontanare qualsiasi forza maligna dal cammino o dalla processione di un dio…”41. Nella cappella di Osiride Signore di Vita, Shepenupet II aiuta a mantenere l’“ordine cosmico” offren-do Maat a Amon e Mut42. Nel cortile della cappella funeraria di Amenirdis I a Medinet Habu, Shepenupet II è raffigurata nell’atto

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L’enigma di Harwa

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Mariam Ayad · La Sposa Divina, la Divina Adoratrice e il Clero di Amon durante la XXV dinastia

di condurre i quattro vitelli al cospetto di Osiride, Horus e Iside (figura 21). Questa cerimonia, nota con il nome di hut-behesu43, è strettamente connessa con il rito della consacrazione delle casse-meret44. Un esempio di quest’ultimo sopravvive anche sulla parete orientale del cortile della cappella funeraria di Amenirdis I45. Le due cerimonie erano correlate tra loro ed erano spesso celebrate insieme “durante le processioni in occasione di numerose e im-portanti feste templari”46. Entrambi i rituali avevano connotazioni mitiche e socio-politiche che, attraverso vari riferimenti indiretti al mito di Osiride, simboleggiavano il dominio del sovrano su tutto l’Egitto47. Come di consueto, solamente il sovrano d’Egitto poteva partecipare a questi riti. Tuttavia le Spose Divine della XXV dinastia sono solitamente raffigurate in scene che enfatizza-no il loro stretto rapporto con Amon e lo stretto legame che esse avevano con altre divinità48.

La Sposa Divina era inoltre regolarmente raffigurata nella stessa scala degli dei che le offrivano la vita, la abbracciavano in senso protettivo, la purificavano, la allattavano e persino la incoronavano49. Tali scene abbondano soprattutto nelle cappelle di Osiride a Karnak, costruite o dedicate dalle spose divine di Amon.

Figura 21

Medinet Habu, cappella funeraria di Amenirdis

I. La Sposa divina di Amon Amenirdis tiene

al lazo quattro vitelli davanti alla triade divina

di Abido (Fotografia di Mariam Ayad)

Il potere e l’influenza della Sposa Divina raggiunse il culmi-ne sotto Shepenupet II, figlia di Piankhy. Fu questa che smantellò la cappella in mattoni crudi della madre adottiva Amenirdis I per erigerle un nuovo “monumento per l’eternità” in pietra. Shepenupet II innalzò la propria cappella funeraria vicino a quella di sua madre adottiva. La pianta della sua cappella in seguito fu però modificata, per ospitare la nuova Sposa Divina di epoca saitica, Nitocri, la cui nomina venne promossa da suo padre Psammetico I nel 664 a.C.

La manovra politica servì per assicurare ancora un altro “tran-quillo” passaggio di potere nell’area tebana50. Per commemorare la sua nomina, a Nitocri furono donati possedimenti nell’area tebana, nel Medio e nel Basso Egitto51. La dimensione della dotazione che Psam-metico I concesse alla figlia testimonia la ricchezza, e di conseguenza l’influenza, di cui la Sposa Divina di Amon continuava a godere.

Il fatto che i sovrani nubiani usassero l’incarico di Sposa Divina per trarre vantaggi politici nell’area tebana è ormai un fatto ben attestato. Secondo una recente ipotesi, la nomina della figlia del sovrano al ruolo

Figura 22

Papiro dell’oracolo saita. Particolare dei

sacerdoti che assistono alla cerimonia:

Montuemhat apre la fila a sinistra, Horemakhbyt

è il personaggio più scuro al centro (da

Parker 1962)

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L’enigma di Harwa

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Mariam Ayad · La Sposa Divina, la Divina Adoratrice e il Clero di Amon durante la XXV dinastia

di Sposa Divina serviva a legittimare l’autorità del sovrano regnante. Anche se questa teoria non può essere dimostrata, è stato analogamente suggerito che la rinascita dell’alto sacerdozio sotto Shabaqo (713 – 698) e la nomina di suo figlio Horemakhet come Sommo Sacerdote siano serviti al proposito di legittimare il regno dello stesso sovrano52. Inoltre, secondo questa teoria, Shabaqo avrebbe fatto ricorso all’alto sacerdozio in quanto non poteva assegnare a una figlia il titolo di Sposa Divina dal momento che c’erano già due spose divine (Shepenupet II in carica e Amenirdis II come “erede legittima”). Sebbene questa teoria possa risultare attraente per alcuni, le fonti iconografiche indicano che le Spose Divine prendevano parte ai riti regali per legittimare il proprio potere53.

Sia come sia, una cosa è certa: durante la XXV dinastia avven-ne un drastico rovesciamento di potere nell’ambito dell’aristocrazia tebana. Per secoli le più alte cariche sacerdotali di Amon erano stati

Figura 23

Papiro dell’oracolo saita. Particolare dei

sacerdoti che portano la statua del dio Amon-Ra

in processione (da Parker 1962)

numerati dal primo (tepy: il Som-mo Sacerdote) al quarto. Mentre questo sistema di classificazione in precedenza poteva indicare la relativa importanza di ogni sa-cerdote, sotto i Nubiani fu Mon-tuemhat, Quarto Sacerdote di Amon, a detenere il reale potere a Tebe. Oltre alla sua posizione sa-cerdotale, Montuemhat era anche “Sovrintendente dell’Alto Egitto” (mer Shemau). Montuemhat e i membri della sua famiglia forni-rono in seguito alla nuova Sposa Divina di Amon di origine saitica, Nitocri, enormi quantità di prov-viste giornaliere. Montuemhat e la sua famiglia detengono anche un ruolo di primo piano sulla “Stele dell’adozione di Nitocri”, dove sono registrate nel dettaglio le provviste quotidiane che essi le offrono54.

Anche nelle scene e nei testi presenti sul “Papiro dell’oracolo saitico” (figura 23), Mon-tuemhat risulta avere maggior importanza rispetto al Sommo Sacer-dote di Amon. Nella scena che raffigura la processione, egli appare davanti al Sommo Sacerdote Horemakhbyt, figlio di Horemakhet e nipote di Shabaqo (figura 22). Analogamente, mentre il nome del Sommo Sacerdote compare soltanto una volta nella lista dei testimo-ni alla presenza dei quali fu documentato l’avvenimento, quello di Montuemhat è menzionato due volte: la prima subito dopo la firma dello scriba che ha redatto il documento55.

La lista dei testimoni del “Papiro dell’oracolo saitico” fornisce ulteriori dettagli circa l’organizzazione del sacerdozio di Amon nella fase di passaggio tra la XXV e la XXVI dinastia. Continua la divisio-

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L’enigma di Harwa

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ne del sacerdozio in 4 philay, ognuna delle quali aveva il proprio “Sovrintendente al rito” (mer set-a), un “Lesonis” (mer shen), un “Sovrintendente della scuola della tenuta di Amon” (mer seba en per-Imen) e uno “Scriba dei [documenti] divini sigillati della tenuta di Amon” (seh khetemet-netjer en per-Imen). Inoltre, il “Deputato della tenuta di Amon” (idenu per-Imen), il “Sacerdote-uab incarica-to dei segreti della tenuta di Amon” (uab (hery) sesheta per-Imen), il “Tesoriere della tenuta di Amon” (mer per-hedj en per Imen), il “Generale dell’esercito della tenuta di Amon” (mer mesha en per-Imen) e lo “Scriba degli oracoli della tenuta di Amon” (seh biayt en per-Imen) erano tutti presenti alla firma del documento.

Nel 586 a.C. circa Ankhenesneferibra, figlia di Psammetico II (595 – 589), successe a Nitocri come Sposa Divina di Amon e diven-ne l’ultima donna a ricoprire questo incarico56. In qualità di “erede legittima” Ankhenesneferibra fu anche la prima donna ad assumere il titolo e i doveri di Sommo Sacerdote di Amon57. Il fatto che Ankhene-sneferibra sia sopravvissuta abbastanza a lungo per essere testimone della conquista persiana dell’Egitto nella primavera del 525 a.C., risulta evidente da alcune vestigia di Karnak58. Poco dopo l’invasione persiana Ankhenesneferibra muore e con la sua morte scompare la carica di Sposa Divina, destinata a non ricomparire mai più. Anche se la sua figlia adottiva Nitori B era definita Sommo Sacerdote di Amon, ella non conseguì mai lo status di Sposa Divina59.

L’improvvisa scomparsa del titolo di Sposa Divina probabil-mente ebbe più a che fare con il ruolo delle donne persiane nella società, che con le dinamiche interne della teocrazia tebana60. Perché la carica sopravvivesse sotto il dominio persiano, Nitocri B o una delle figlie di Dario I (521 – 486) avrebbe dovuto diventare Sposa Divina di Amon. Il fatto che Nitori B non potesse più detenere il titolo sotto i Persiani era un effetto indiretto della politica statale achemenide, che richiedeva l’aggiunta di “un livello di …. funzionari [persiani] al di sopra della categoria più alta di funzionari egizia-ni…”61. Così nessun egiziano poteva più occupare una posizione di supremo significato economico o politico. La Sposa Divina di Amon non costituiva un’eccezione.

Allo stesso modo una principessa achemenide non poteva diventare Sposa Divina. Nella corte persiana le figlie del re erano in

Catalogo 13

Testa di ariete, collezione privata

(Fotografia Giacomo Lovera)

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122123

Mariam Ayad · La Sposa Divina, la Divina Adoratrice e il Clero di Amon durante la XXV dinastia

primo luogo utilizzate nella “politica matrimoniale del sovrano”62. Non era previsto che esse detenessero una posizione di così grande indipendenza politica, né erano istruite per farlo. Dal punto di vista archeologico le figlie reali persiane sono invisibili63. Analogamente, fra tutte le classi della società persiana solo le donne non sono rap-presentate nei rilievi di palazzo a Persepoli64.

Anche qualora una regina rappresentasse per il proprio figlio l’unico legame con il fondatore della dinastia, i documenti ineren-ti l’ascesa al trono di questo sovrano avrebbero evitato qualsiasi riferimento a lei65. Alle donne reali achemenidi non era concessa l’indipendenza di cui godevano le quelle egizie. Presso la corte achemenide le alleanze matrimoniali attraverso le principesse, e non il loro nubilato, rispondevano al meglio alle esigenze politiche del sovrano. Si può quindi ritenere che è proprio a causa dell’elevato status raggiunto dalle Spose Divine di Amon durante la XXV e XXVI dinastia che scomparve quest’incarico. Una principessa persiana non avrebbe mai potuto ricoprire un tale ruolo.

Note

1 PM II, pp. 476 sgg.; Hölscher 1954, pp. 17 segg. Per le cappelle di Karnak, cfr. Leclant 1965, pp. 47 sgg., Legrain 1900 e 1902.

2 Per una lista dei possedimenti dati a Nitocri, cfr. Caminos 1964, pp. 100-101.3 Cfr. Graefe 1981, Graefe 1994; Bietak, Reiser-Haslauer 1978.4 Kitchen 1995, p. 370. Cfr. anche il contributo di Chris Naunton in questo catalogo.5 Cfr. Gitton 1975.6 Cfr., per esempio, Blackman 1921, p. 17. Troy 1986, pp. 97–99 porta a conferma di questa

teoria l’iconografia della “Stele della donazione” di Ahmose-Nefertari. Qui Ahmose-Nefertari ha l’epiteto “colei che dice tutte le cose ed esse sono fatte per lei”, che si ritiene fosse stato portato esclusivamente dalle regine principali dell’Antico Regno. Un’ulteriore evidenza deriva dal fatto che Ahmose-Nefertari è raffigurata dietro la figura del figlio, effigiato come un bambino.

7 Robins 1983, p. 70.8 Blackman 1921, pp. 12–13; Robins 1993, pp. 149, 153 e Troy 1986, pp. 91–92, 94–95.9 Blackman 1921, p. 13; Gitton 1984, p. 6; Troy 1986, p. 96; Robins 1993, p. 153.10 Troy 1986, pp. 91–92, 96.11 Cfr. “The Report of Wenamun” in: Lichtheim 1980, p. 224–230.12 Trigger, Kemp, O’Connor, Lloyd 1983, p. 241. Sul ruolo politico e politicizzato della Sposa Divina

di Amon, cfr. Robins 1983; G. Robins 1993, pp. 156 sgg.13 Apparentemente Aset, figlia di Ramesse VI, fu la prima donna a essere consacrata solamente al

ruolo di Sposa Divina di Amon. Bács 1995 p. 10 suggerisce che Aset abbia ricoperto l’incarico

Catalogo 11

Cono funerario a nome di Amenirdis I. Parigi, Museo del Louvre, E

863 (© 2004 Musée du Louvre Département

des Antiquités Égyptiennes)

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L’enigma di Harwa

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Mariam Ayad · La Sposa Divina, la Divina Adoratrice e il Clero di Amon durante la XXV dinastia

per circa venticinque anni, vivendo così sino al regno di Ramesse IX (1126 – 1108).14 Cfr. Teeter 1999. Mentre Teeter sostiene che le prove per il nubilato sono piuttosto scarse, vorrei far

notare che non esistono prove a dimostrazione del fatto che le spose divine fossero sposate o in ogni caso cercassero di generare una discendenza propria. Le evidenze iconografiche e archeologiche indicano che esse erano donne nubili. La mia opinione è che questa carica fosse sin dall’inizio un’istituzione essenzialmente politica e non religiosa. Concordo quindi con l’affermazione di Teeter secondo cui a queste donne era richiesto di non sposarsi per ragioni di ordine politico.

15 Krauss 1980; Robins 1993, pp. 153–54.16 Grimal 1992, p. 335.17 Kitchen 1995, p. 378.18 Török 1997, p. 155.19 Török 1997, p. 155.20 Per la Festa di Opet intesa come celebrazione finalizzata a legittimare la sovranità, cfr. Bell 1997.21 Datazione basata su Török 1997, p. 155.22 Kitchen 1995, p. 201.23 Per il testo della Stele della Vittoria, cfr. Lichtheim 1980, pp. 68–80; Grimal 1981.24 Per i rapporti di parentela della dinastia nubiana cfr. Kitchen 1995, pp. 149–150, 478.25 Leahy1994; Wenig 1990, p. 345.26 Per una discussione sull’iscrizione del Wadi Gasus cfr. Kitchen 1995, pp. 175 – 179, soprattutto

pag. 179 dove la data della nomina di Amenirdis viene data per “sconosciuta”.27 Kitchen 1995, pp. 151, 359.28 Török 1997, pp. 148 – 150. Qui Török segue la teoria avanzata da von Zeissl 1955, p. 68, e

accettata da Alan Gardiner (1964, p. 343).29 Kitchen 1995, pp. 478, 480.30 Lefébure 1925.31 Ritner 1993, pp. 207 – 212.32 Robins 1993, p. 112, figg. 41, 42 (relative, rispettivamente, ai blocchi 37 e 292 della Cappella

Rossa). Questa scena è stata studiata da Gitton 1976, 40 – 41; Naguib 1990, pp. 215 – 217 e Grimm 1988.

33 Ritner 1993, p. 158.34 Parker, Leclant, Goyon 1979, tav. 25; Leclant 1965, tav. xlvii e Fazzini 1988, 23 e pl. xxvi. Per il

rito del lancio delle quattro sfere come rituale osiriaco, cfr. anche Étienne 2000, pp. 36 – 39.35 Fazzini (1988, 23) identifica erroneamente la figura che lancia le sfere come una sposa divina.

Cfr. Parker, Leclant, Goyon 1979, tav. 2536 Goyon 1975.37 Parker, Leclant, Goyon 1979, p. 69.38 Ritner 1993, p. 207. Altri riti comprendevano “riti basilari di purificazione, il rituale di Apopi, il

rito contro Seth, [e] i riti di Sokar-Osiride”.39 Parker, Leclant, Goyon 1979, pp. 65 – 69 e tav. 26; e Leclant 1965, tav. xlviii.40 Parker, Leclant, Goyon 1979, p. 69.41 Fazzini 1988, p. 23.42 Leclant 1965, fig. 6 a p. 31 e tavv. ix, xxiv. Per una lista di scene raffiguranti una sposa divina

nell’atto di offrire Maat, cfr. Teeter 1997, pp. 113 – 115.

43 Blackman, Fairman 1949 e Blackman, Fairman 1950.44 Egberts 1995, pp. 246, 333 (per il testo che accompagna la scena), tav. 120.45 Egberts 1995, pp. 46, 171 (per il testo che accompagna la scena), tav. 73.46 Egberts 1995, p. 440.47 Egberts 1995, pp. 436 – 441.48 Cfr. Leclant 1965, tavv. xviii–xix, dove sia Amenirdis sia Shepenuepet abbracciano il dio Amon

(dalla cappella di Osiride-Onnofri).49 Cfr. Schwaller de Lubicz 1999, pp. 645 – 647, tavv. 234, 237, e 239; Leclant 1965, fig. 3 a p. 28

e tavv. xxvii–xxviii.50 Trigger, Kemp, O’Connor, Lloyd 1983, p. 335.51 Cfr. le tavole in Caminos 1964, pp. 100-101.52 Török 1997, p. 168.53 Ayad 2004.54 Cfr. le tavole in Caminos 1964, pp. 100-101.55 Parker 1962, p. 1.56 Gardiner 1964, p. 354; Leahy 1996, p. 160. Leahy osserva inoltre (1996, pp. 146, 158) che nella

sua stele dell’adozione Ankhenesneferibra è definita Sommo Sacerdote di Amon (hem tepy en Imen) ancora prima della cerimonia ufficiale della sua nomina” (linea 8 della stele). Apparentemente ella deteneva il titolo di Sommo Sacerdote di Amon in quanto “figlia adottiva di Nitocri I”. Questo può indicare che a quell’epoca la posizione di Sommo Sacerdote non era così importante come quella di Sposa Divina. Leahy sostiene inoltre (1996, p. 162) che sebbene Nitocri B fosse la sua erede designata, sembra che l’avvicendamento tra le due donne non abbia mai avuto luogo. La stele fu pubblicata la prima volta da G. Maspero (1904).

57 Gardiner 1964, 354.58 De Meulenaere 1968, p. 187; cfr. anche Barguet 1962, pp. 6, e 14 dove il suo nome è associato

a quello di Psammetico III.59 Leahy 1996, p. 162. Per quel che concerne Nitocri B come Sommo Sacerdote di Amon, cfr.

Vittmann 1978, p. 63. Si osservi che solamente qui viene fornita la data della sua nomina. Poco altro si conosce circa l’alto sacerdozio e la teocrazia tebana sotto il dominio persiano.

60 Quanto segue è la sintesi di una ricerca che ho pubblicato: Ayad 2001.61 Johnson 1994, p. 150.62 Brosius 1996, p. 189.63 Non avendo proprie tombe, è stato suggerito che le figlie reali venissero sepolte dentro le tombe

dei loro padri. Per i complessi funerari di Dario I e dei suoi successori a Naqshi Rustam/Persepoli, cfr. Root 1979, p. 72. Per l’ipotesi secondo cui queste donne potrebbero essere state sepolte con i loro mariti, cfr. Brosius 1996, p. 102.

64 Root 1980, p. 5. La loro assenza, comunque, è stata spiegata come un’estensione della tradizione assira di non raffigurare le donne. Ciò resta tuttavia indicativo del loro status nella società.

65 Per esempio Serse, i cui documenti inerenti la sua ascesa al trono non fanno alcun riferimento a sua madre Atossa, nonostante il fatto che costei fosse la figlia di Ciro, fondatore della dinastia. Cfr. Sancisi-Weerdenburg 1983, pp. 25–26.

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La necropolidell’Assasiffino allaXXVI dinastia

Silvia Einaudi

Membro della Missione Archeologica Italiana a Luxor

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Silvia Einaudi · La necropoli dell’Assasif fino alla XXVI dinastia

Figura 24

Carta dell’Assasif, da: D. Eigner, Die

Monumentalen Grabbauten der Spätzeit

in der Thebanischen Nekropole

Con il toponimo “Assasif” si indica la vasta piana antistante i templi di Deir el-Bahri, sulla riva occidentale del Nilo, nei pressi della moderna cittadina di Luxor (figura 24). La zona, protetta da montagne rocciose che formano uno spettacolare anfiteatro naturale, si estende oltre il limite della fertile terra coltivata, ai margini del deserto pietroso, dove il paesaggio assume, a seconda delle ore del giorno, varie sfumature di colori che vanno dal rosa intenso al bianco abbacinante.

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L’enigma di Harwa

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Silvia Einaudi · La necropoli dell’Assasif fino alla XXVI dinastia

L’Assasif non è che una delle aree in cui si suddivide, con-venzionalmente, la grande necropoli tebana dove gli antichi Egizi inumarono in epoche successive i propri morti. Le altre zone di sepoltura limitrofe sono designate con diversi nomi di origine araba: el-Tarif, Dra Abu el-Naga, el-Khokha, Sheikh Abd-el-Qurna, Qurnet Murrai, e a esse vanno aggiunte le tombe del villaggio operaio di Deir el-Medina e le celeberrime necropoli regali delle Valli dei Re e delle Regine. Tutte queste aree di inumazione ricoprono, nel loro insieme, un territorio molto vasto, la cui connotazione funeraria è legata alla sua stessa collocazione geografica sulla sponda occidentale del Nilo, tradizionalmente identificata, nel pensiero egizio, con il regno dei morti dove ogni notte il sole “muore” e si inabissa nel tenebroso aldilà, prima di rinascere a nuova vita il giorno seguente. Collocare le tombe verso occidente aveva quindi per gli antichi egizi un forte valore simbolico, che si manifestò sin dall’Antico Regno nella realiz-zazione di molte altre necropoli disseminate lungo la Valle, a ovest del Nilo (dalla zona menfita sino ad Assuan, passando per il Fayum e il Medio Egitto). Il Nilo era l’elemento che fungeva da separatore chiaro e tangibile tra i due mondi, lontani ma complementari: l’ovest inteso come terra dei morti, l’est destinato ai vivi.

Anche a Tebe la riva occidentale del grande fiume fu quindi scelta come luogo ideale per seppellire i defunti, oltre a essere la sede di numerosi templi funerari destinati al culto postumo di diversi sovrani. Tutta la zona, con le sue valli, le propaggini dell’altopiano libico e le gole inaccessibili, si mostrò particolarmente adatta a ospitare le tombe, sia quelle monumentali e ben visibili, sia quelle occultate e nascoste per ragioni di sicurezza.

La vita della necropoli tebana, una delle più vaste e importanti del mondo antico, fu particolarmente lunga: essa fu sfruttata, a fasi al-terne, sin dall’Antico Regno, arrivando a ospitare centinaia di tombe, in parte ancora da scoprire. Proprio il suo utilizzo prolungato, con la scelta privilegiata di alcune zone rispetto ad altre a seconda delle epoche, non consente un discorso in termini generali, rendendo necessaria una sua suddivisione in piccole aree al cui interno le tombe mostrano caratteristi-che cronologiche, architettoniche e stilistiche più omogenee. Di queste zone di sepoltura sviluppatesi sulla riva occidentale dell’antica Tebe una delle più complesse e vaste è appunto la necropoli dell’Assasif.

Frequentata sin dall’Antico Regno, la piana dell’Assasif incominciò a ospitare le prime tombe tra la fine del Primo Periodo Intermedio e l’inizio del Medio Regno, andando incontro a un utilizzo discontinuo che si sarebbe fatto particolarmente intenso in epoca tarda. Fu certamente la costruzione del tempio funerario di Men-tuhotep II (fine XI dinastia, 2065 – 2014) a Deir el-Bahri a stimolare la nascita della antistante necropoli dell’Assasif, dove i privati di alta condizione sociale scelsero di essere sepolti per essere vicini al luogo di culto e di sepoltura del sovrano che aveva ricostituito l’unità nazionale ed era ritenuto l’iniziatore della regalità tebana. Questi primi ipogei furono realizzati sul pendio collinare che deli-mita l’area verso nord1, o sulla spianata prospiciente il tempio stesso2 dove vennero poi in gran parte obliterati da costruzioni successive, in particolare dalla lunga via di accesso ai templi di Hatshepsut e di Tuthmosi III (XVIII dinastia,1479 – 1425) innalzati a ridosso della falesia rocciosa di Deir el-Bahri.

Proprio in quest’epoca, e più in generale nel Nuovo Regno, la necropoli dell’Assasif visse una fase di minor sfruttamento a favore di altre zone limitrofe, soprattutto di Sheikh Abd el-Qurna che conobbe allora un notevole incremento. Questo fenomeno è stato spiegato con la vicinanza stessa dei templi di Deir el-Bahri e in particolare con lo svol-gimento della Bella Festa della Valle, un’importante cerimonia religiosa che aveva nel santuario di Hatshepsut una delle principali stazioni di sosta per la barca divina del dio Amon, durante il suo pellegrinaggio sulla sponda occidentale di Tebe. Secondo questa teoria, la forte conno-tazione sacra dell’intera zona dell’Assasif potrebbe aver rappresentato in quel periodo un freno verso la costruzione di nuove sepolture3.

I pochi ipogei dell’Assasif risalenti alla XVIII dinastia sono disposti lungo il margine meridionale della spianata, a ridosso della vicina zona di el-Khokha. Qui sono state portate alla luce le tombe di Puimra (TT4 39), vissuto sotto Hatshepsut e Tuthmosi III, di Kheruef (TT 192), del visir dell’Alto Egitto Amenhotep (s.n.)5 e di Parenefer (TT 188), queste ultime tre databili al periodo compreso tra i regni di Amenofi III e IV (prima metà del XIV secolo a.C.). Tra questi ipogei, particolarmente degno di nota è quello del Grande Maggiordomo della regina Teye Kheruef che, seppur non ultimato, contiene un repertorio iconografico straordinariamente vivace e raffinato, le cui

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Silvia Einaudi · La necropoli dell’Assasif fino alla XXVI dinastia

scene in rilievo costituiscono un eccellente esempio della classica ed elegante produzione artistica dell’epoca.

I dintorni di questa tomba e la zona immediatamente a est di essa continuarono a essere utilizzati come luogo di sepoltura in età ramesside6, quando tuttavia le zone delle necropoli tebane più fre-quentate furono quelle di el-Khokha e di Dra Abu el-Naga. Gli ipogei ramessidi, talora usurpati in epoca saitica, restarono concentrati nel settore meridionale dell’Assasif, in un’area relativamente ristretta molto vicino alla via di accesso al tempio di Mentuhotep II (intorno all’attuale casa del Metropolitan Museum od Art di New York).

Alla fine del Nuovo Regno quindi la zona dell’Assasif aveva già vissuto diverse fasi di utilizzo e di riutilizzo, più o meno intense, che lasciavano però ancora molti spazi da sfruttare a scopo funerario, a differenza di altre zone limitrofe dove le tombe si erano fatte sempre più numerose e fitte. In particolare risultava in gran parte inutilizzata la vasta spianata antistante i templi di Deir el-Bahri, dove sorgevano ancora le lunghe vie di accesso ai complessi monumentali costruiti a ridosso della montagna. Con l’inizio del Terzo Periodo Intermedio, se non prima, i due templi di Mentuhotep II e di Tuthmosi III7 furo-no però progressivamente abbandonati e ciò determinò certamente una serie di cambiamenti nella piana dell’Assasif, dove solamente il tempio di Hatshepsut e la sua via di accesso furono risparmiati dalla distruzione8.

L’interesse per quest’area come luogo di inumazione rimase scarso anche nel periodo post-ramesside, dalla XXI sino alla XXIV dinastia, quando numerose sepolture di privati furono concentrate nelle immediate vicinanze dei templi di Deir el-Bahri o vicino al Ramesseo. Le uniche sporadiche testimonianze di costruzione di quell’epoca nell’Assasif sono rappresentate da resti murari della XXII-XXIII dinastia, rinvenuti a ridosso di tombe più tarde. L’Assasif si presentava quindi, agli inizi della XXV dinastia, come una zona ricca di potenzialità e praticamente inutilizzata in molti settori, per-ciò particolarmente adatta alle esigenze di una nuova classe sociale emergente, desiderosa di sottolineare, anche attraverso l’architettura funeraria, la propria autorità, il proprio prestigio e il proprio legame con le antiche tradizioni. È proprio in quel periodo, che va sotto il nome di “Rinascimento egizio” (XXV-XXVI dinastia), che l’Assasif

divenne la principale necropoli tebana, protagonista di uno sviluppo tanto rapido quanto monumentale. Questa nuova e straordinaria fase edilizia si inserisce in un contesto storico che ne spiega, sotto molti aspetti, la nascita e l’evoluzione. La XXV dinastia rappresentò infatti per l’Egitto un profondo cambiamento socio-politico. Dopo che per anni il paese era stato governato da dinastie originarie del nord (le cui capitali e necropoli regali si trovavano nel Delta), si assiste a un repentino cambio di tendenza. Nella seconda metà dell’VIII secolo a.C. l’Egitto venne conquistato dai sovrani nubiani e Tebe, all’epoca importante luogo di culto del dio Amon, tornò a essere un centro politico di primo piano, dove i funzionari locali nominati dai nuovi conquistatori gestivano di fatto il potere sull’Egitto meridionale. La nuova aristocrazia locale, costituita da personaggi che univano ca-riche di tipo istituzionale ad altre di natura religiosa, scelse quindi come sede per la propria necropoli l’Assasif, un luogo vasto, protetto da colline e montagne, vicino agli antichi templi di Deir el-Bahri che, seppur in gran parte in rovina, mantenevano la loro aura di sacralità. In particolare dovevano conservare un profondo valore simbolico sia i resti del tempio funerario di Mentuhotep II, sia il tempio di Hatshepsut. In questa spianata i funzionari di Tebe pote-rono dar libero sfogo al proprio desiderio di grandezza e alle proprie ambizioni architettoniche, sottolineando la novità e il netto distacco dalle epoche immediatamente precedenti. Nel fare ciò essi furono certamente favoriti dalla politica dei nuovi sovrani conquistatori, già imbevuti di cultura “egittizzante” e desiderosi di apparire agli occhi dei sudditi come difensori e garanti della millenaria tradizione loca-le. La piana dell’Assasif iniziò così a riempirsi di imponenti tombe sotterranee, fornite nella maggior parte dei casi di sovrastrutture in mattoni crudi. Con la XXV dinastia, dopo più di tre secoli durante i quali nella necropoli tebana ci si era limitati a seppellire i defunti entro antiche tombe usurpate o in semplici ipogei collettivi disadorni, tornò in auge un tipo di costruzione funeraria monumentale che fece rivivere alla Tebaide i passati splendori.

Harwa, Grande Maggiordomo9 della Divina Adoratrice Amenirdis I la cui attività si colloca tra il 700 e il 680, fu il primo a optare in epoca tarda per questa zona della necropoli tebana come luogo per la propria sepoltura (TT 37). La sua scelta, intesa come

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Silvia Einaudi · La necropoli dell’Assasif fino alla XXVI dinastia

un evidente segno di rinnovamento, fu ben presto seguita da altri e segnò così l’inizio di una nuova e solenne tradizione nell’architettura funeraria egizia. La tomba di Harwa, costruita vicino ad alcune tombe più antiche, soprattutto della XVIII dinastia e di epoca ramesside, si trova esattamente in direzione del tempio funerario di Mentuhotep II, al di sotto della sua antica via di accesso, che fu in gran parte smantellata proprio in occasione della costruzione del sepolcro, quando il tempio era ormai in disuso10. Nonostante la condizione di rovina in cui versava il santuario, è probabile che all’epoca di Harwa la figura di Mentuhotep II avesse ancora un forte significato storico-politico e ciò spiegherebbe la scelta del funzionario che, pur avendo a disposizione una vasta area vergine nella zona centrale dell’Assasif, fece edificare la propria tomba nel settore meridionale della spianata, già in parte sfruttato nella XVIII dinastia e in epoca ramesside, affinché essa fosse perfettamente allineata con il tempio del faraone. La presenza di alcuni ipogei più antichi rese necessari alcuni cambiamenti nella pianta della tomba, in particolare per quel che riguarda la conformazione della parte meridionale del corridoio che circonda l’ipogeo, il cui andamento fu modificato durante i lavori proprio per evitare di imbattersi in tombe preesistenti.

La tomba di Harwa rappresenta nel suo genere un nuovo pro-totipo nella costruzione dei sepolcri tebani: non solamente la zona dell’Assasif divenne, a partire da Harwa, il luogo di sepoltura pre-diletto dagli alti funzionari locali, bensì alcuni aspetti architettonici e artistici della tomba furono riprodotti, come vedremo, negli ipogei limitrofi che occuparono, poco a poco, l’intera spianata, a sud della via di accesso di Hatshepsut. La rampa che conduceva al tempio della regina rimase infatti a segnare il limite settentrionale della necropoli, essendo ancora in epoca tarda un luogo deputato per lo svolgimento della Bella Festa della Valle. In quest’epoca quindi, a differenza di quanto ipotizzato per il Nuovo Regno, la sacralità della spianata non doveva più rappresentare un’inibizione per la realizzazione di tombe private, bensì era divenuto un motivo di attrazione.

Nel giro di circa due secoli l’Assasif divenne un crogiolo di tombe, costruite le une a ridosso delle altre, sin verso la Valle del Nilo. Tale intensa fase di sfruttamento edilizio influì certamente sull’orientamento e sulle dimensioni delle singole tombe che tra-

sformarono il sottosuolo dell’Assasif in una succedersi continuo di ambienti scavati su più livelli nella roccia calcarea, cosicché spesso nella realizzazione di un sepolcro si arrivò a sfiorare quello vicino. L’intenso sviluppo dell’Assasif risulta tuttora percepibile anche a livello del suolo, dove le tombe sono caratterizzate nella maggior parte dei casi da sovrastrutture in mattoni crudi la cui funzione era quella di delimitare in superficie l’area di sviluppo sotterranea della tomba, oltre a indicarne l’accesso, talora per mezzo di massicci piloni. Proprio a questo proposito la tomba di Harwa rappresenta però un’eccezione, in quanto è una delle poche (l’unica tra quelle di maggiori dimensioni) a essere priva di una sovrastruttura in muratura e ad avere l’ingresso orientato verso sud, contrariamente all’abitudine di rivolgere l’accesso degli ipogei verso nord, in direzione della via di accesso del tempio di Hatshepsut.

Nel costruire le proprie tombe gli immediati successori di Harwa non si allontanarono dal sepolcro del loro ideale capostipite: Akhimenru, che ricoprì il ruolo di Grande Maggiordomo della Divina Adoratrice subito dopo Harwa, sfruttò addirittura, modificandola in parte, la porzione settentrionale del corridoio perimetrale di questa tomba per ricavarvi i propri ambienti funerari (TT 404). Nel volgere di poco più di un secolo l’ipogeo di Harwa venne così a essere circon-dato da una serie di costruzioni funerarie addossate a esso e disposte a raggiera lungo i suoi lati. Le prime a essere edificate furono le due tombe maggiori dell’intera necropoli dell’Assasif: a ovest la tomba di Montuemhat (TT 34), Quarto Sacerdote di Amon e Governatore di Tebe nel periodo compreso tra i regni di Taharqo (690 – 664) e Psammetico I (664 – 610), e a est la tomba di poco successiva del Sacerdote Lettore Petamenofi (TT 33), seguite poi a nord da quelle più piccole di Pabasa (TT 279, regno di Psammetico I) e Padineith (TT197, regno di Amasi, 570 – 526), entrambi detentori del titolo di Grande Maggiordomo della Divina Adoratrice. A eccezione della sovrastruttura in mattoni crudi che costituisce una novità, queste tombe mostrano alcuni elementi comuni già presenti nell’ipogeo di Harwa: un cortile a cielo aperto sotto il livello del suolo (talora por-ticato su due lati), e una o più sale ipostile sotterranee con ambienti laterali, oltre le quali si sviluppano, su diversi livelli, il gli ambienti che conducono alla camera funeraria.

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Silvia Einaudi · La necropoli dell’Assasif fino alla XXVI dinastia

A livello architettonico la tomba di Montuemhat è certa-mente una delle più impressionanti dell’intera necropoli, la prima, insieme a quella di poco successiva Petamenofi, a essere provvista di un’imponente cinta muraria con pilone d’accesso, che di lì in avanti diventerà una costante. Il ruolo di questo monumento come modello di riferimento per un nuovo tipo di costruzione funeraria nell’Assasif è stato però talora sopravvalutato, dal momento che alcuni elementi architettonici e artistici peculiari si ritrovano già, come sottolineato, nella tomba di Harwa prima di essere ripresi, e talora reinterpretati con leggere varianti, nei sepolcri vicini. È Harwa quindi che deve essere considerato come il vero iniziatore di quel-la nuova tendenza stilistica che caratterizza le tombe dell’Assasif della XXV-XXVI dinastia, contraddistinte da un’evidente riscoperta delle origini e delle tradizioni antiche, a iniziare dalla scelta delle iscrizioni funerarie, molto spesso tratte dai Testi delle Piramidi, e delle scene figurate che richiamano in molti casi il tipico repertorio iconografico e stilistico dell’Antico Regno.

Emblematiche sono a questo proposito le immagini riprodotte in finissimo rilievo sulle pareti del cortile della tomba di Harwa: teo-rie di animali al pascolo, scene di danza, figure di portatori di offerte che tradiscono evidenti legami con l’antica arte menfita. Da questo punto di vista la tomba di Harwa è quindi il primo chiaro esempio, nella necropoli tebana, di quel fenomeno di rivisitazione delle antiche espressioni artistiche tipico del cosiddetto “Rinascimento egizio”. Il ruolo paradigmatico della tomba di Harwa, considerata dai funzionari tebani immediatamente seguenti come un modello da imitare, è particolarmente evidente nel caso dell’ipogeo di Pabasa. La sua tomba, seppur di dimensioni molto ridotte rispetto a quella vicina di Harwa, trasse da essa evidente ispirazione soprattutto a livello decorativo, come è riscontrabile in alcune scene riprodotte sul lato orientale del cortile colonnato (scena di pesca), nei testi che ornano i pilastri e le pareti della sala ipostila (Rituale delle Ore del Giorno e della Notte, Testi delle Piramidi), e nella scena del trapasso del defunto accompagnato nell’aldilà da Anubi (sulla pa-rete della porta che conduce agli ambienti secondari a sud-est della sala ipostila). In tutti questi casi i decoratori copiarono fedelmente immagini e iscrizioni dalla vicina tomba di Harwa che funse da

modello, prima di andare in rovina. Nell’ambito del nostro lavoro di ricomposizione epigrafica relativo alla tomba di Harwa, l’antico e fedele lavoro di copiatura operato nella tomba di Pabasa rappre-senta quindi un aiuto fondamentale e insperato che ci consente di ricomporre (e ricollocare nella sua corretta posizione) l’originario corpus testuale e iconografico originariamente iscritto su pilastri e pareti andati in frantumi.

Immediatamente a est rispetto alla tomba di Harwa sorge l’ipogeo di Petamenofi, il più grande dell’intera necropoli dell’Assa-sif, poi parzialmente sfruttato per altre sepolture di epoca successiva

(TT 388, TT 242). Con questa co-struzione molto estesa, orientata verso nord-est come la di poco anteriore tomba di Montuemhat, gli spazi dispo-nibili per ulte-riori inumazioni a ridosso della tomba di Harwa si ridussero dra-sticamente, con la conseguenza che si iniziò a sfruttare la zona immediatamen-te più orientale dell’Assasif, in direzione della Valle del Nilo, dove sono sta-te trovate una serie di piccole sovrastrutture

Figura 25

Pianta della tomba di Harwa, da: D. Eigner,

Die Monumentalen Grabbauten der Spätzeit

in der Thebanischen Nekropole

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Silvia Einaudi · La necropoli dell’Assasif fino alla XXVI dinastia

databili alla XXV e XXVI dinastia, oltre a tre tombe appartenute ad altrettanti personaggi vissuti all’epoca di Psammetico I: il Sindaco di Tebe Basa (TT 389), e i due funzionari al servizio della Divina Adoratrice Psammetico-dierneheh (TT 411) e Mutirdis (TT 410). Che la tomba di Harwa continuasse tuttavia a essere un importante fulcro di attrazione, catalizzando intorno a sé altre sepolture anche durante la XXVI dinastia, risulta evidente dal fatto che quasi tutti i Grandi Maggiordomi delle Divine Adoratrici vissuti dopo di lui si fecero seppellire il più possibile vicino alla sua tomba, adattando le proprie costruzioni funerarie ai pochi spazi rimasti vuoti. Così fecero Ibi (TT 36, regno di Psammetico I)11, la cui tomba ha una sovrastruttura con andamento irregolare influenzata dalla presenza della vicina tomba di Petamenofi; poi Pabasa, che arrivò a sfiorare con i suoi ambienti funerari il corridoio settentrionale della tomba di Harwa, quindi Padihorresne (TT 196), sepolto a ridosso della tomba di Ibi, e infine Padineith, che fece costruire la propria tomba nell’ul-timo spazio rimasto libero verso nord, inserendosi tra le costruzioni

Figura 26

Immagine della tomba di Osiride, da un

sarcofago del Museo di Marsiglia

preesistenti e finendo per ricoprire con la propria sovrastruttura una parte del corridoio perimetrale di Harwa e alcune camere funerarie di Akhimenru. Anche a sud della tomba di Harwa, nelle pochissime zone ancora da sfruttare, riuscirono a insinuarsi tre piccole sepoltu-re: quella del Ciambellano della Divina Adoratrice Bintenduanetjer (TT 407), risalente alla fine della XXV dinastia, e quelle della XXVI dinastia appartenute rispettivamente a Wahibra Nebpehety (TT 191), anch’egli Ciambellano della Divina Adoratrice, e al Sindaco di Tebe Pemu (TT 243), che usurpò una precedente tomba ramesside. Tutta questa serie di ipogei posti a corona della tomba di Harwa rappresenta un tangibile riconoscimento dell’autorità e del prestigio di cui godette questo personaggio sino in epoca saitica, soprattutto tra coloro che ricoprirono dopo di lui lo stesso incarico. Il sovraffollamento venuto-si a creare nelle immediate vicinanze del sepolcro di Harwa indusse tuttavia Ankhhor (TT 414)12 e Sheshonq (TT 27)13, entrambi Grandi Maggiordomi della Divina Adoratrice vissuti nella XXVI dinastia, a scostarsi con le loro tombe dall’ipogeo di Harwa, preferendo il settore più orientale dell’Assasif, ancora meno sfruttato14. In particolare la tomba di Sheshonq rappresenta il limite estremo della necropoli di epoca tarda verso est, essendo la costruzione funeraria più vicina alla terra coltivata15. Questo allontanamento non fu però un fenomeno definitivo, dal momento che l’immediato successore di Sheshonq, Padineith, scelse, come si è visto, di essere sepolto vicino alla tomba di Harwa, concludendo così la stagione degli ipogei monumentali dell’Assasif là dove essa era iniziata circa due secoli prima.

Alla fine della XXVI dinastia la spianata dell’Assasif, sottopo-sta sino ad allora a un intenso sfruttamento che ormai non lasciava più grandi spazi edificabili, venne quindi abbandonata.

Da quanto detto sinora, emerge quindi che la necropoli del-l’Assasif, nella sua fase di maggior utilizzo durante la XXV-XXVI di-nastia, rimase strettamente legata alla tomba di Harwa, considerata un indiscusso punto di riferimento e una sorta di prototipo da imitare, non solo per quel che riguarda alcuni elementi architettonici della pianta, ma anche per il tipo di decorazione. A questo proposito è degna di nota una particolare componente dell’ipogeo che fu ripresa, seppur con alcune varianti, anche in molte altre costruzioni funerarie

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Silvia Einaudi · La necropoli dell’Assasif fino alla XXVI dinastia

limitrofe sopra citate, ovvero il simbolismo osiriaco16. L’ipogeo di Harwa, con il corridoio che isola (non solo mate-

rialmente, ma anche metaforicamente) gli ambienti del primo livello sotterraneo dallo spazio circostante, appare infatti come una sorta di riproduzione della mitica tomba di Osiride, nota nell’immagina-rio collettivo degli antichi Egizi come un tumulo alberato posto su un’isola (figura 25)17. Il legame della tomba di Harwa con Osiride è sottolineato ulteriormente dalla presenza di una figura in altorilievo del dio posta su una piccola scala addossata alla parete di fondo del primo livello sotterraneo della tomba, in direzione dell’occidente, sede del mondo ultraterreno, verso cui si dirige il ka di Harwa.

Figura 27

Pianta degli ambienti funerari della tomba

di Montuemhat, da: D. Eigner, Die

Monumentalen Grabbauten der Spätzeit

in der Thebanischen Nekropole

Osiride appare quindi come custode dell’aldilà e come tramite per accedere al regno dei morti, ruolo che sembra evidenziato dal fatto che al di sotto di questa statua, e quindi idealmente protetta da essa, si trova la presunta camera funeraria di Harwa (figura 26).

Assimilare la propria tomba a quella di Osiride aveva un profondo significato religioso e nell’ispirarsi a essa Harwa fu pro-babilmente influenzato da due cenotafi regali di epoche precedenti: quello assai vicino di Mentuhotep II a Deir el-Bahri (Bab el-Hossan18), permeato di una chiara connotazione osiriaca, e il celebre Osireion di Abido19 (XIX dinastia), l’edificio che più di ogni altro sembra es-sere una evidente riproduzione dell’ideale sepolcro divino e la cui pianta mostra alcune analogie con la tomba di Harwa (TT 37)20. La componente osiriaca della tomba di Harwa costituisce certamente una novità sostanziale nel panorama dell’architettura funeraria pri-vata. Harwa risulta infatti il primo funzionario ad avere utilizzato una serie di elementi tipici del sepolcro di Osiride, rimasti fino a quel momento prerogativa, seppur sporadica, dei sovrani. Questa scelta fu certamente determinata da una concomitanza di fattori che caratterizzarono il contesto storico della XXV dinastia: la crescita di potere dei Grandi Maggiordomi delle Divine Adoratrici favorita dalla lontananza dei sovrani nubiani, oltre alla riscoperta di antiche

Figura 28

Pianta degli ambienti funerari della tomba

di Petamenofi, da: D. Eigner, Die

Monumentalen Grabbauten der Spätzeit

in der Thebanischen Nekropole

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Silvia Einaudi · La necropoli dell’Assasif fino alla XXVI dinastia

tradizioni culturali, artistiche e religiose che si manifestò anche nella particolare fioritura del culto di Osiride in ambito tebano21.

Gli aspetti osiriaci della tomba di Harwa influirono sicura-mente nella costruzione di altri sepolcri dell’Assasif risalenti alla XXV-XXVI dinastia, che riprendono, nella loro struttura architetto-nica, isolati aspetti del sepolcro del dio. Anche da questo punto di vista Harwa appare dunque come precursore e sperimentatore di nuove tendenze che egli contribuì a diffondere nella necropoli.

Nel caso di Montuemhat (TT 34) le originarie componenti osiria-che sono almeno due: la camera funeraria si trova sullo stesso asse ideale est-ovest rispetto a due nicchie destinate ad accogliere verosimilmente altrettante statue di Osiride22, ed era sormontata da una struttura muraria in superficie che evocava, con la sua forma di recinto quadrato chiuso, il tumulo posto al di sopra della tomba del dio (figura 27)23. La presenza delle due presunte statue di Osiride, poste verso occidente, costituisce un evidente richiamo alla tomba di Harwa e sottolinea anche in questo caso il ruolo del dio come nume tutelare dell’aldilà.

Gli ambienti funerari di Petamenofi (TT 33) richiamano invece più da vicino la tomba di Harwa (e l’Osireion) per via del corridoio sotterraneo che delimita regolarmente su quattro lati un

Figura 29

Pianta degli ambienti funerari della tomba di

Ankh-hor, da: D. Eigner, Die Monumentalen

Grabbauten der Spätzeit in der Thebanischen

Nekropole

nucleo centrale di roccia naturale, a pianta quadrata, sovrastante la camera del sarcofago. Questo blocco di roccia può essere interpretato come immagine del tumulo-isola primordiale posto al di sopra della camera funeraria del dio, la cui presenza è evocata da una piccola cappella consacrata al culto di Osiride-Hemag lungo il lato nord-occidentale del corridoio (figura 28).

Meno evidente, almeno dal punto di vista architettonico, appare il legame con Osiride nella tomba di Ibi (TT 36), dove la simbologia osiriaca è comunque sottolineata dalla presenza di due vasche destinate originariamente a contenere piante, scavate nel suolo del cortile al di sopra della camera funeraria. In questo modo si è voluta rappresentare la nascita della vita (sotto forma di vegeta-zione) dal sarcofago del defunto sottostante, che appare assimilato al mitico sepolcro divino, spesso raffigurato nell’antica iconografia egizia come un tumulo da cui nascono gli alberi.

L’influsso di Harwa nella diffusione di elementi architettonici di ispirazione osiriaca all’interno degli ipogei dell’Assasif durò fin verso la fine della XXVI dinastia, come ben dimostra la tomba di Ankhhor (TT 414). Qui la camera funeraria sotterranea è sommariamente circondata da un corridoio irregolare non ultimato, che nelle intenzioni dei proget-tisti avrebbe dovuto isolare e proteggere il luogo di sepoltura assimilan-dolo a un’isola, secondo il modello osiriaco. Questa stanza sotterranea si trova inoltre in asse verticale rispetto al sovrastante luogo di culto con la statua di Osiride e tutti gli ambienti funerari sono delimitati, in superficie, da un recinto in muratura chiuso e inaccessibile, simile a quello di Montuemhat, che può simboleggiare la collina primordiale e il tumulo di Osiride (figura 29).

Una vaga componente osiriaca sembra infine trovarsi anche nella tomba di Sheshonq (TT 27), una delle ultime a essere costruita nella necropoli dell’Assasif. In questo caso il nesso con Osiride emer-ge da un testo inciso sul fondo della prima sala ipostila, intorno a una nicchia destinata a contenere una statua (di Osiride?). L’iscrizione, che termina sul semipilastro contiguo, riporta il capitolo 146w del Libro dei Morti in cui si menziona il luogo di morte e sepoltura del dio (Nedit) al quale il defunto è assimilato nel suo cammino verso la camera funeraria (raggiungibile attraverso il pozzo antistante il semipilastro) e, più in generale, verso l’aldilà24. Tale era del resto

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Silvia Einaudi · La necropoli dell’Assasif fino alla XXVI dinastia

l’aspirazione massima di ogni defunto egizio: condividere con Osi-ride il suo destino di rinascita post mortem.

Monumentalità architettonica, riscoperta dell’antico, simbo-lismo osiriaco, sono dunque gli elementi che caratterizzano la fase di maggior splendore dell’Assasif, tra la XXV e la XXVI dinastia, quando la necropoli divenne un importante luogo di sperimenta-zione per nuove soluzioni architettoniche e dove il fenomeno del Rinascimento egizio trovò concreta espressione. E in tutto questo il ruolo di Harwa, con le sue scelte innovative e per certi aspetti ardite, fu indubbiamente decisivo.

Note

1 Tombe TT 240 e 310-316 (la tomba 312 della XI dinastia fu poi usurpata in epoca saitica).2 La tomba TT 366 è scavata presso il limite meridionale della spianata, mentre la tomba TT 386 si

trova nella parte centrale. 3 Strudwick, Strudwick 1999, p. 141; Bietak., Reiser-Haslauer 1978, p. 27. Per quel che riguarda

invece le tombe dell’Assasif della XI e XXVI dinastia Bietak e Reiser-Haslauer ne (1978, pp. 20, 24, 27, 37)giustificano la costruzione proprio con la volontà dei privati di essere vicino al luogo in cui si svolgeva la Bella Festa della Valle, per cui si ipotizza una celebrazione, a fasi alterne, sin dalla XI dinastia.

4 Tomba Tebana.5 Eigner 1983. 6 Le tombe di epoca ramesside sono le seguenti (in ordine cronologico): TT 244, 189, 190, 193-195,

406, 364, 26, 387, 25, 28, 408, 409, 49, 187, 207 e 208. Le ultime due sono localizzate ora a el-Khokha in PM I,1, pp. 306 e 477. Kampp 1996, pp. 492 e 494 le colloca invece nell’Assasif.

7 Il tempio di Tuthmosi III fu distrutto verso la fine della XX dinastia da una frana e dal collasso del terrapieno su cui era stato edificato. Non sottoposto a restauro, fu poi fu sfruttato come cava di pietre e di esso si persero completamente le tracce sino agli scavi archeologici del secolo scorso.

8 Probabilmente nel Terzo Periodo Intermedio, e con certezza in epoca tarda, continuava a essere celebrata (o era stata ripristinata dopo una fase di interruzione) la Bella Festa della Valle strettamente connessa, come si è visto, con il tempio di Hatshepsut.

9 Titolo di grande prestigio politico attribuito ad alti funzionari tebani della XXV e XXVI dinastia, nominalmente subordinati alla figura della Divina Adoratrice: un’importante carica sacerdotale femminile nell’ambito del clero di Amon-Ra, per mezzo della quale i faraoni del Terzo Periodo Intermedio e dell’epoca tarda tentarono di esercitare un controllo sulla teocrazia tebana, di fatto svincolata dall’autorità centrale. Le Divine Adoratrici avevano una nutrita schiera di funzionari al loro servizio, tra i quali i Grandi Maggiordomi, personaggi che potevano avere accesso alle ricchezze del tempio di Amon-Ra e godevano talora di grande potere, come nel caso di Harwa la cui attività, seppur nominalmente subordinata alla “divina adoratrice” e in ultimo al faraone stesso, può tuttavia essere equiparata a quella di un governatore locale, cosa che spiegherebbe la sua capacità di farsi costruire una tomba particolarmente imponente.

10 Durante le campagne di scavo della Missione Archeologica Italiana a Luxor nella Tomba di Harwa sono venuti alla luce alcuni resti in mattoni crudi della pavimentazione e del muro di sostegno di tale rampa, nella zona posta al di sopra del vestibolo della tomba di Harwa e in un’area soprastante

al lato nord del cortile. 11 Kuhlmann, Schenkel 1983. 12 Bietak., Reiser-Haslauer 1978 e 1982.13 AAVV 1993.14 Nella zona compresa tra queste due tombe sono venute alla luce alcune piccole sovrastrutture e

ipogei minori della XXV e XXVI dinastia. 15 Le altre tombe a nord, sud ed est rispetto alla costruzione di Sheshonq si datano tutte al periodo

tolemaico. 16 L’analisi della componente osiriaca di molte tombe dell’Assasif costituisce una parte della mia

Tesi di Specializzazione dal titolo: La tomba di Osiride in Egitto nella tradizione scritta, iconogra-fica e architettonica, discussa il 21 aprile 2004 alla Scuola di Specializzazione in Archeologia dell’Università di Torino.

17 Cfr. Hugonot 1989, p. 207, figg. alle pp. 209-210 ; Koemoth 1994. 18 Arnold, pp. 51 segg.19 Frankfort 1933.20 In particolare il corridoio della tomba di Harwa sembra ispirato al canale d’acqua dell’Osireion che

delimita l’isola centrale, il cui aspetto (con massicci pilastri e camere laterali) richiama quello della prima sala ipostila di Harwa, inoltre la scala davanti alla statua di Osiride nella tomba di Harwa intende forse evocare le rampe di gradini che conducono sulla piattaforma dell’Osireion, dove si trovano due cavità scavate nel pavimento, simbolicamente connesse con il sepolcro del dio.

21 Evidenze archeologiche e documentarie testimoniano l’influsso che ebbe il culto di Osiride nel corso della XXV dinastia e in particolare durante il regno di Taharqo, contemporaneo di Harwa. Questo faraone fece costruire all’interno del tempio di Karnak due cappelle dedicate al dio (la cappella di Osiride Neb-djet e quella di Osiride Neb-ankh), inoltre la sua stessa tomba (o cenotafio) a Nuri (Nubia) presenta una pianta evidentemente ispirata alla tomba di Osiride, come dimostra soprattutto il corridoio che isola la parte centrale. Al regno di Taharqo risale anche una serie di epiteti in cui Osiride è associato a Djeme, la collinetta nei pressi di Medinet Habu sotto la quale si pensava che fosse sepolto il dio. L’importanza di Osiride durante la XXV dinastia è testimoniata altresì dall’interesse dei sovrani nubiani e delle Divine Adoratrici per la zona a nord-est del grande tempio di Karnak, dove vennero erette o ri-erette alcune cappelle dedicate al suo culto. In particolare sembra ormai dimostrato che la cappella di Osiride Coptita di età tolemaica, vicino alla necropoli osiriaca, fu costruita al di sopra di un precedente edificio risalente alla XXV dinastia.

22 Le due nicchie si trovano rispettivamente al termine del primo livello sotterraneo della tomba (come nel caso di Harwa) e sulla parete di fondo (ovest) della stanza da cui scende il pozzo che conduce alla camera funeraria. Nel primo caso la presenza di una statua di Osiride al suo interno è ipotetica, mentre nel secondo è stata accertata (Habachi 1947, pp. 277-278, tav. XXXII).

23 Questo recinto in muratura non si è conservato. Di esso sono ravvisabili solamente alcune tracce a livello del suolo.

24 Tiradritti1993.

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L’Egittodel VII secolo a.C.e il mondo grecocontemporaneo

Federica Raverta

Membro della Missione Archeologica Italiana a

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Federica Raverta · L’Egitto del VII secolo a.C. e il mondo greco contemporaneo

Figura 30

Tomba di Harwa (TT 37), seconda sala

ipostila (Fotografia di Giacomo Lovera)

Tebe dalle cento porte

L’obiettivo di questo intervento è di indagare in quale modo la Gre-cia, che tra l’VIII e il VII secolo a.C. si prepara a divenire il paese egemone nel bacino del Mediterraneo orientale, percepisse la cultura dell’Egitto contemporaneo.

La testimonianza più autorevole per quest’orizzonte tempo-rale è rappresentata da Omero che, nell’Iliade, e in misura minore nell’Odissea, cita la città di Tebe d’Egitto. Nel IX libro dell’Iliade compare la descrizione più completa:

“Anche se dieci, venti volte di più mi donasse / di quanto ora possiede, e se altro guadagni, / quanto affluisce a Orcòmeno, o quanto a Tebe / egizia, ove son nelle case ricchezze infinite, / Tebe che ha cento porte, e per ognuna duecento / armati passano, con carri e cavalli; / …”1.

Gli stessi concetti vengono ribaditi nel IV libro dell’Odissea:

“Filò portò un cesto d’argento, che a lei diede / Alcandre, la moglie di Polibo, il quale abitava a Tebe / d’Egitto, dove in casa vi sono infinite ricchezze: / a Mene-lao egli diede due vasche d’argento, / due tripodi e dieci talenti di oro” 2.

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Federica Raverta · L’Egitto del VII secolo a.C. e il mondo greco contemporaneo

La prima parte della descrizione è uno di quei versi formulari che spesso si ritrovano in Omero con la funzione sia di caratteriz-zare un personaggio, conferendogli un epiteto significativo, sia di facilitare il compito mnemonico all’aedo3. Che proprio per Tebe il cantore abbia coniato un verso formulare, impiegato sia nell’Iliade sia nell’Odissea (quando ciò non accade né per la Tebe in Beozia4, né tanto meno per la Tebe Ipoplacia5), è un indizio piuttosto im-portante per comprendere la fama di cui doveva godere la città egizia. Le “cento porte” potrebbero essere un riferimento poetico motivato dal numero di piloni del tempio di Karnak, che già dalla XXI dinastia raggiungevano l’attuale numero di dieci e che, per un greco, dovevano costituire uno spettacolo tanto inusuale quanto impressionante, perché profondamente differente dall’architettura templare cui era abituato.

La Tebe egizia dell’VIII secolo viene presentata come l’El-dorado, la città in cui esistono ricchezze favolose, così comuni e generalizzate tanto da trovarsi nelle case dei privati e non solo nei palazzi regali. Questa visione iperbolica della ricchezza della città egizia, sicuramente alimentata dal gusto per il fiabesco e dal desiderio di stupire l’uditorio, riflette l’eco amplificata delle descrizioni della vera Tebe, i cui templi di Amon all’epoca omerica avevano raggiunto quasi il massimo della loro estensione e del loro splendore6.

Che la descrizione di Tebe egizia non sia mero frutto della fantasia dell’aedo, ma poggi su basi veritiere, lo si può verificare se si mettono a confronto le parole con cui Omero ci narra della Tebe in Beozia. Dall’IX libro dell’Odissea7 sappiamo che questa città possiede sette porte8, dato poi verificato dall’archeologia, e che è una rocca fortificata con mura e torri di guardia9 e riassume in sé dunque tutti caratteri dell’astu greca.

Di tutt’altro tenore la descrizione di Tebe egizia. Per compren-derne però appieno il valore è importante fare riferimento al contesto in cui essa è collocata. A parlare è Achille, che ha appena ascoltato le cospicue offerte di riappacificazione dell’ambasceria mandatagli da Agamennone e, sdegnoso, le rifiuta. Bisogna considerare le sue parole in rapporto al discorso con cui sta ribattendo a Odisseo: l’eroe afferma di non potere essere convinto a partecipare alla guerra

nemmeno se gli venissero offerte le maggiori ricchezze dell’epoca, ed enfaticamente le descrive magnificandone le caratteristiche, fino a sfiorare con le sue parole la figura retorica dell’adynaton. È forse per destare maggior impressione in Odisseo che l’eroe attribuisce a Tebe cento porte, da ognuna delle quali immagina di vedere uscire divisioni dell’esercito con fanti e carri. Quest’ultimo dettaglio non è affatto secondario: innanzitutto possediamo numerose informazioni sul ruolo e l’impiego dei carri nell’esercito egiziano grazie alle im-magini propagandistiche scolpite sui templi dai faraoni nel Nuovo Regno, che confermano le parole di Achille. In secondo luogo, la menzione dei carri, che possono uscire dalle porte di una città che sorge in pianura, e non certo da una rocca in territorio collinoso, dimostra un certo grado di verosimiglianza nella sua descrizione, che dunque non è frutto di pura invenzione poetica.

Questa argomentazione, ben lungi dall’affermare che l’autore (o gli autori) dei poemi omerici avesse una conoscenza diretta della città egizia, vuole suggerire la possibilità che nelle cerchie dei palazzi le notizie relative all’Egitto dell’VIII secolo a.C. fossero più precise e circostanziate di quanto ammesso in passato, essendo il frutto di quei contatti commerciali con il mondo egizio che trovano conferma nei ritrovamenti archeologici10.

I culti misterici e l’Egitto

Un altro aspetto della cultura greca che sembra avere alcuni punti di contatto con quella egizia è rappresentato dai culti misterici e, nella fattispecie, dal rituale eleusino. Questo è il più antico (la sua genesi sembrerebbe potersi collocare tra l’VIII e il VII secolo a.C.) e quello che più di tutti mantenne un carattere di “grecità”, con regole che impedivano le iniziazioni ai non greci e la creazione di altre sedi di iniziazione al di fuori di Eleusi.

Il santuario di Eleusi, autonomo all’inizio della sua storia, si trovò integrato nello Stato ateniese alla fine del VII secolo a.C. o al principio del VI 11. Anche i santuari delle Due Dee (Demetra e Kore) e i misteri che vi avevano luogo passarono sotto il controllo

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dell’arconte basileus ateniese che sovrintendeva ai culti. La funzione religiosa continuò però a essere materialmente gestita, come in pas-sato, dalle famiglie dei Cerici e degli Eumolpidi, che per tradizione si tramandavano la carica di sacerdote12. Apollodoro13, nel narrare la vicenda di Eumolpo, capostipite della famiglia dello ierofante e fondatore dei misteri14, ci fornisce un’informazione interessante: egli era stato allevato in Etiopia15, nome con cui gli antichi greci designavano la regione a sud dell’Egitto, e che per gli egizi era la Nubia, patria della XXV dinastia egizia (775 - 653). Nella figura del mitico cantore Eumolpo16 allora si potrebbe ravvisare un’influenza egizia che in terra greca sarebbe stata prodotta da contatti tra l’VIII e il VII secolo a.C.17, che avrebbero portato a Eleusi tradizioni che, fondendosi con quelle autoctone, avrebbero costituito una compo-nente dei misteri.

La centralità del canto, e l’accento posto sul linguaggio e la parola, che riscontriamo anche nella figura di Orfeo, un altro celebre cantore e istitutore di misteri, sono un elemento ben radicato nella cultura del Vicino Oriente e dell’Egitto soprattutto in ambito magico-religioso, dove è largamente attestata la presenza di sacerdoti lettori e di cantori del dio. I discendenti di “Eumolpo” a Eleusi si sarebbero integrati, diventando i custodi e gli officianti del culto avito, affiancati in seguito da una famiglia di origine ateniese18, quando l’influenza della città attica iniziò a manifestarsi, ma avrebbero mantenuto sempre il controllo sulla carica sacerdotale principale.

Questi suggerimenti su possibili contatti con la religione egizia, che non hanno la pretesa di attribuire in toto l’origine dei mi-steri al culto funerario egizio, indicano piuttosto la possibilità di un contatto culturale esterno che avrebbe influito su un culto autoctono già esistente, conferendogli alcuni tratti estranei alla religiosità greca di tipo olimpico19.

I misteri, aperti a tutti gli uomini greci le cui mani non si fossero macchiate di delitti, venivano celebrati in due periodi dell’anno. In primavera, nel mese di Antesterione, si celebravano i Piccoli Misteri, primo grado dell’iniziazione. Gli iniziandi si prepa-ravano all’evento con una serie di pratiche di purificazione, di ritiri e di digiuni; l’abluzione rituale aveva luogo nelle acque dell’Ilisso, ad Agrae nei pressi di Atene, e si concludeva con un sacrificio alle

Due Dee officiato all’arconte basileus. In autunno, nel mese di Boe-dromione, avevano luogo i Grandi Misteri che si protraevano per dieci giorni. Gli oggetti sacri venivano trasportati in contenitori da Eleusi all’Eleusinion di Atene; il giorno seguente, con la luna piena, si dava inizio alla cerimonia solenne con la riunione degli iniziandi, che dopo essersi purificati potevano accedere all’Eleusinion. Il terzo giorno, gli iniziandi in processione scendevano verso la riva del mare e sacrificavano un maiale, animale sacro a Demetra; dopo l’abluzione in mare, indossate nuove vesti e una corona di mirto, facevano ri-torno in città. La centralità dell’acqua e della purezza, naturalmente presenti anche nella religiosità olimpica20, trovano un parallelo con il mondo sacerdotale egizio, in cui le abluzioni e il cambio di vesti sono la base del rituale giornaliero del tempio21. È proprio il loro ruolo rilevante all’interno del rituale misterico che spinge a chiedersi se la tradizione greca qui non risenta di un’influenza egizia.

Dopo il sacrificio, gli oggetti sacri tornavano a Eleusi con una processione solenne cui prendevano parte le autorità, i sacerdoti, gli iniziandi e la cittadinanza. Venivano infine collocati nel telesterion, edificio dove avvenivano i misteri propriamente detti. La pianta di questo edificio (figura 31) è piuttosto singolare per l’architettura greca: in epoca micenea è una semplice sala a megaron, che viene trasformata e ampliata tra la fine del VII e l’ inizio del VI secolo a.C. in una a pianta quadrangolare il cui soffitto è sorretto da file di co-lonne, evidenziando un’analogia più stretta con le sale ipostile dei templi egizi che con le strutture cultuali del mondo greco. Se, come si dirà in seguito, il climax dell’iniziazione consisteva nel vedere

Figura 31

Lo sviluppo del Telesterion di Eleusi: A) epoca di Pisistrato; B)

inizio del V secolo a.C.; C) progetto di Ictino; D)

fine del V secolo a.C.

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degli oggetti sacri, la presenza di colonne risulta ancora più enig-matica, dal momento che pare ostacolare, piuttosto che favorire, la visione degli iniziandi. La struttura stessa della sala non evidenzia certo un centro verso cui possa confluire l’attenzione degli astanti, che sedevano sulle gradinate intorno al telesterion. Forse, come nel caso delle sale ipostile egizie (fgura 32), la presenza di fitte colonne ha più a che vedere con questioni simboliche e rituali che con pro-blemi di statica e di funzionalità.

Per tre giorni nel telesterion avevano luogo le cerimonie sacre, aperte da un sacrificio a Demetra e Kore a cui partecipavano gli iniziati dell’anno precedente e gli iniziandi. Dal momento che

Figura 32

Particolare della pianta del tempio di

Amon-Ra a Karnak. In blu sono evidenziate

le strutture della grande sala ipostila

portata a termine da Sety I e Ramesse II (Rielaborazione

informatica da PM II)

vigeva il più assoluto divieto di divulgare i riti eleusini, possiamo solo fare congetture sulla natura dei riti. Clemente Alessandrino22, riportando la formula pronunciata dagli iniziandi nel varcare la soglia del telesterion, scrive: “Ho digiunato, ho bevuto il ciceone; ho preso (qualcosa) dal canestro coperto e, dopo averlo lavorato23, l’ho messo nel cesto alto, l’ho ripreso dal cesto alto e l’ho rimesso nel canestro coperto.” Il ciceone era la bevanda di orzo e acqua che il mito vuole sia stata bevuta da Demetra alla corte del re Celeo; il resto della frase sembra accennare alla macinatura del grano o essere connesso con la rappresentazione del mito della ricerca di Demetra. Il culmine del rito era però l’epoptea, cioè la visione degli oggetti sacri custoditi nell’anaktoron, il sacrario del telesterion. Sulla natura di questi sono state fatte varie ipotesi, dalle statue lignee alle spighe di grano, ma il segreto è rimasto tale.

È però nel senso e nella finalità dei misteri che sembra di poter ravvisare alcune similitudini con le credenze egizie. Nell’inno a Demetra troviamo questa conclusione: “Felice tra gli uomini della terra colui che ha visto questi misteri. Colui che non è iniziato ai riti sacri e che non vi partecipa non ha un destino simile, dopo morto, nelle tenebre.” L’insegnamento dei misteri consisteva in una parte visiva e in una di insegnamento orale, che insieme erano aporrheta, cioè non rivelabili a nessuno. Attraverso questa esperienza, che è una trasformazione interiore e non un insegnamento dogmatico, l’iniziato diventa il beneficiario di un destino post mortem più felice rispetto ai comuni mortali, come l’uomo egizio che credeva in un aldilà in cui, superate numerose prove, veniva giudicato da Osiride e, se meritevole, vivere felice alla presenza degli dei.

La finalità del culto eleusino è sorprendentemente vicina alla religiosità che sarà caratteristica dell’epoca ellenistica e so-prattutto che sta alla base dei culti misterici orientali in occidente: Iside, Mitra, Magna Mater, Dioniso, Cibele. Questa sensibilità, che prepara il terreno alla setta religiosa che avrà la fortuna e il seguito più duraturi, il cristianesimo, e che in parte ne mutuerà i caratteri, si diffonde però nel mondo antico soltanto a partire dal III secolo a.C., quindi ben più tardi rispetto all’attività del santuario di Eleusi. Questi caratteri sarebbe allora ascrivibili a un’influenza culturale “orientale”, intervenuta nella creazione dei misteri della dea au-

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toctona Demetra, come già affermato da Burkert24. Gli elementi di analogia con la cultura egizia sopra evidenziati, benché abbiano più il carattere di sottili suggerimenti che non di prove inconfutabili, sembrano portare in direzione dell’Egitto come luogo di irradiazione, e della XXV dinastia come possibile orizzonte temporale.

Anche il legame tra Iside e Demetra, ben documentato in epoca ellenistica fino a divenire sincretismo25, potrebbe avere radi-ci più antiche: nell’Inno a Demetra infatti si racconta come la dea, giunta a Eleusi, avesse posto tra le fiamme il figlio della regina, per donargli l’immortalità. Interrotta dal sopraggiungere della madre del piccolo, rivelò la propria identità e istituì i misteri. Un racconto che ha qualche somiglianza con questo, e che vede come protagonista la dea Iside, si trova sulla “Stele Metternich”26, che risale alla XXX dinastia e perciò posteriore all’Inno omerico a Demetra, che contiene però rituali di epoca più antica rispetto a quella della sua redazione. In questo testo magico uno degli scorpioni che accompagnano la dea Iside punge il figlio di una donna che non accolto la dea con gioia nella propria casa, in cui scoppia un incendio. Iside, impietosita, fa cessare il fuoco e cura il bimbo dalla puntura di scorpione. È interes-sante notare come la medesima vicenda narrata nell’Inno omerico a Demetra, sia attribuita da Plutarco nell’Iside e Osiride alla dea Iside durante la permanenza nella città di Biblo27.

La centralità che le tre tappe di vita, morte e rinascita hanno nel rituale funerario reale fin da epoche remote e, a partire dal Primo Periodo Intermedio (2150 - 1994), anche in quello dei comuni cittadini, e che ritroviamo perfettamente espresse nella tomba di Harwa28, costituisce uno dei tratti fondamentali della religione dell’Antico Egitto. Questo, insieme alla crescente popo-larità della dea Iside nell’Epoca Tarda può forse avere portato nel mondo greco un contributo all’elaborazione, a partire dall’VIII-VII secolo, del rituale misterico, parallelo al culto cittadino, ma di tutt’altra finalità, riservato a chi ne faceva richiesta e incentrato sulla speranza di garantirsi una vita oltremondana29. Le tracce dell’influenza della millenaria religione egizia, ben riconoscibili sull’occidente romano e sul cristianesimo, sono tuttavia molto meno evidenti per l’epoca arcaica e devono spingerci a considerare queste ipotesi con la necessaria cautela.

Una nuova sensibilità

Un monumento significativo per lo studio della continuità di concetti legati alla cultura e alla mentalità egizia nelle epoche successive è la tomba di Harwa (TT 37), in cui sono presenti due temi che avranno uno sviluppo molto fecondo e diverranno concetti fondamentali nella religione cristiana: da un lato abbiamo l’accenno, nell’autobio-grafia del funzionario, alla necessità di dover soccorrere l’affamato e l’ignudo, e dall’altro, evidenziata dalla struttura architettonica della tomba, la divisione tra il corpo e l’anima, che seguono percorsi differenziati.

L’autobiografia di Harwa si trova sulla parete meridionale del passaggio che dal cortile conduce nella prima sala ipostila (figura 33). Nel testo si legge:

“Ho dato pane all’affamato e un vestito all’ignudo. (…) Ho dato protezione a colui che aveva paura” (coll. 4-5)30.

Queste parole, intese a dimostrare la condotta pia e rispettosa del defunto, sono uno degli aspetti che caratterizzano la vita idea-le che ogni buon egiziano avrebbe dovuto condurre31. I medesimi precetti per una retta condotta di vita si trovano espressi, secoli più tardi, nel Nuovo Testamento:

“Poiché: ebbi fame e mi deste da mangiare, ebbi sete e mi deste da bere, ero pellegrino e mi ospitaste, nudo e mi copriste (…)”32.

Quale può essere stato il tramite tra le due culture? La pre-senza di elementi tratti dalla letteratura egizia all’interno delle sacre scritture è documentato ed evidente nell’Antico Testamento soprat-tutto per quanto riguarda il caso del Cantico de Cantici, che in parte deriva dalla poesia amorosa egizia del Nuovo Regno33. È possibile che il concetto della protezione del debole, ben presente anche nelle culture ebraica e mesopotamica34, sia confluito nel Vangelo di Matteo da dirette influenze orientali ed egizie nella prima stesura di questo testo, scritto in Palestina o in Siria in lingua aramaica attorno al 60 d.C, e che andò presto perduto. Sul materiale di questa redazione si

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Figura 33

Tomba di Harwa (TT 37), ingresso

della prima ipostila. Autobiografia di

Harwa (Fotografia di Francesco Tiradritti)

basa Vangelo tramandatosi, scritto in greco verso l’80 d.C., di cui probabilmente non è però l’apostolo Matteo l’autore.

Tuttavia è interessante notare che nell’autobiografia di Harwa il portare aiuto al bisognoso è il vanto dell’uomo giusto che nel mo-mento in cui intraprende il viaggio ultraterreno afferma con orgoglio la propria buona condotta e il resoconto della sua vita esemplare, cosicché sia di aiuto nel momento del giudizio divino35. Il capitolo 125 del Libro dei morti (figura 34), che invece ha lo scopo di dichia-rare esplicitamente l’innocenza del defunto davanti al tribunale di Osiride, riunitosi per giudicarne la condotta, non fa però menzione alcuna di questi concetti.

D’altro canto, il discorso di Gesù riportato da Matteo è legato alla prospettiva del giudizio finale ultraterreno, e diviene il criterio con gli uomini potranno entrare nel regno dei cieli36.

Il tramite per queste concezioni potrebbe essere rap-presentato dalla filosofia greca: dalle fonti classiche sappiamo dell’abitudine dell’élite intellettuale greca (tra cui si ricordano Pitagora, Solone37, Platone, Eudosso di Cnido) di visitare o completare i propri studi nella Valle del Nilo, il paese che go-deva della fama prestigiosa di “terra dei sapienti”. Per quanto riguarda l’epoca della XXV dinastia non abbiamo però traccia della trattazione di problematiche simili legate all’aldilà negli scritti dei filosofi38 presocratici. Bisogna dire che le loro ricer-che erano più indirizzate verso l’indagine dei principi primi dell’universo e che l’esiguo numero di testi conservatisi sono assai frammentari. Nella filosofia pitagorica troviamo accenni alla separazione tra il corpo e l’anima, ma la teoria di riferi-mento è quella della metempsicosi, estranea alle concezioni egizie e derivante, con tutta probabilità, da ambiti indoeuropei o sciamanici39.

Il filosofo che appare più influenzato dalla cultura reli-giosa e dalle istituzioni egizie è Platone, che si sarebbe recato in Egitto attorno al 390 a.C.40. Nonostante i riferimenti al dio Thoth nel Fedro, nel Filebo e nell’Epinomide41, e la creazione di una società ideale nella Repubblica42, i cui caratteri sembrano prendere a modello quella egizia, non abbiamo altri elementi per affermare che questo filosofo abbia potuto costituire un

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tramite verso il Cristianesimo. È quasi certamente non prima dell’epoca ellenistica che il sincretismo religioso espande i con-fini delle credenze religiose egizie, stemperandole e fondendole ai riti misterici e ai culti dell’area vicino orientale, che sono il retroterra culturale in cui nasce il Cristianesimo; tuttavia, le argomentazioni qui presentate concorrono a far ipotizzare che la Grecia già nell’VIII secolo a.C. possa aver tratto materia di ispirazione per la formazione di credenze e riti dall’Egitto contemporaneo, anticipando di alcuni secoli il movimento di koinè culturale seguito alle conquiste macedoni.

Figura 34

Tomba di Neferrenpet Qenro (TT 178), XIX

dinastia, Scena con il giudizio del defunto dal Capitolo 125 del Libro

dei Morti.

Note1 Iliade IX, 381-383 (traduzione di R. Calzecchi Onesti).2 Odissea IV, 126 (traduzione di G.A. Privitera).3 Per la problematica filologica legata alla formularità in Omero vedi Parry 1971.4 Tebe in Beozia viene semplicemente citata in Iliade V, 804; VI, 223; X, 286; XIV, 114, 323; XXIII,

679. In Odissea XI 275, è descritta come “Tebe amabile” e in XV, 247 è solo citata. Viene descritta, ma senza l’impiego di versi formulari, in Iliade IV, 378 e 416; XIX, 99; in Odissea XI, 262-265. In Odissea 275, è “Tebe amabile”, mentre in XV, 247 è solo citata.

5 Tebe in Cilicia viene citata solo in Iliade I, 366; II, 691; VI, 397, 416, dove è descritta come “Tebe dalle alte porte”; XXII, 479.

6 Vedi Donadoni, 1999, p. 48.7 Odissea XI, 262-265: “… / e generò due figli, Anione e Zeto, / che per primi fondarono la città di

Tebe con sette porte, / e turrita la fecero, perché senza mura non potevano / vivere a Tebe spaziosa, benché fossero forti.”

8 Odissea XI, 262-265; il dato viene ribadito in Iliade IV, 406.9 Le mura vengono citate anche in Iliade IV, 378 e XIX, 99.10 Per un catalogo degli oggetti egizi o egittizzanti ritrovati in Grecia, si veda Burnet Brown 1975-1977.

Di estremo rilievo è l’importante scoperta della statua di una scimmia in faïence, con il nome di Amenofi II, rinvenuta a Micene. (Vercoutter 1956, p.400).

11 Da questo momento in poi il culto misterico viene integrato in quello della polis, e ne diventa una prerogativa: come la democrazia, anche l’iniziazione misterica resta circoscritta al mondo greco e, nello svolgimento, patrimonio esclusivo di Atene.

12 Il sacerdote più importante, lo ierofante, apparteneva alla famiglia degli Eumolpidi e aveva il compito di aprire le cerimonie, di officiare i momenti più solenni e soprattutto di celebrare l’apice dell’iniziazione, quando venivano svelati gli oggetti sacri. Alla famiglia dei Cerici appartenevano il daduco, che reggeva la fiaccola sacra a Demetra e affiancava lo ierofante, e lo hierokeryx (sa-cerdote dell’altare), una carica secondaria. Ai riti presenziava anche la sacerdotessa di Demetra, che godeva dello stesso prestigio dello ierofante. Tutte queste cariche erano vitalizie.

13 Apollodoro (Biblioteca III, 15) afferma che Eumolpo era figlio di Poseidone e di Chione, che lo avrebbe gettato in mare per nascondere la gravidanza al legittimo consorte. Il dio però lo trasse in salvo e lo portò in Etiopia, dove lo affidò alla figlia Bentecisima. Esiliato dall’Etiopia, Eumolpo riparò in Tracia e successivamente a Eleusi.

14 L’Inno omerico a Demetra, 270 - 274 attribuisce invece la loro creazione alla dea che li fece conoscere alla corte del re eleusino Celeo.

15 Benché Clinton (2003) sostenga che l’origine etiope del cantore Eumolpo sia da considerare un’aggiunta del V secolo a.C., finalizzata a instaurare un parallelo tra il cantore e l’omonimo re tracio che aveva condotto gli eleusini contro gli ateniesi, e a cui si attribuivano origini etiopi.

16 L’etimologia deriva dal verbo eu-mélpo, “cantare bene”, e significa dunque “colui che ha un bel canto”; questo verbo è privo di etimologia (GEW, s.v. “mélpo”), e dunque potrebbe essere esso stesso di origine non greca. Nella figura di Eumolpo il mito potrebbe aver sintetizzato e tramandato il ricordo dell’influenza religiosa egizia, trasmessa dai sacerdoti, la cui reale origine era all’epoca dimenticata oppure, non essendo greca, viene volutamente grecizzata e inserita in questo modo nel patrimonio culturale autoctono.

17 Austin 1970, p. 13 e note relative, nella serie di indicazioni sui ritrovamenti egizi in Grecia segnala la presenza di reperti ad Atene, in epoca geometrica, e a Eleusi in epoca geometrica e sotto la XXVI dinastia (664 – 525 a.C.); e pone in evidenza il fatto la presenza di oggetti egizi non implichi necessariamente che vi siano stati contatti diretti, soprattutto nel caso di amuleti e scarabei, che facilmente viaggiano di proprietario in proprietario coprendo lunghe distanze.

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18 Anche l’etimologia di Kérykes, derivante da kéryx “araldo”, ha in comune con quella degli Eumolpidi la medesima idea di “cantare, proclamare da alta voce” che potrebbe rimandare alla funzione magico-sacrale della parola diffusa in Egitto e nel Vicino Oriente antico.

19 Erodoto tuttavia in Storie II, 171.2-3 afferma: “Ed anche riguardo alla celebrazione dei misteri di Demetra, che i Greci chiamano Tesmoforie, io dirò soltanto quanto è lecito. Le figlie di Danao furono quelle che portarono questa cerimonia sacra dall’Egitto e la insegnarono alle donne pelagiche; (…)”. Questa teoria è discussa in Bernal 1997, p. 119 e sgg.

20 Abitualmente la costruzione di un tempio veniva decisa sia in base alle caratteristiche paesaggi-stiche, per esempio la presenza di un bosco ritenuto sacro, sia, e soprattutto, all’esistenza di una o più fonti d’acqua necessarie per l’espletamento delle funzioni cultuali.

21 Si veda Pernigotti 1990, in cui viene data una panoramica delle funzioni e del ruolo del sacerdote in Egitto; e Erodoto, Storie II, 37, 2-5: “I sacerdoti radono tutto il corpo ogni tre giorni, affinché né un pidocchio né altra impurità sia su di loro mentre servono gli dei. I sacerdoti indossano solo una veste di lino e sandali di papiro: (…). Si lavano due volte il giorno e due volte la notte con acqua fredda, (…)”.

22 Clemente Alessandrino, Protrettico 21, 2.23 Sembra, ma resta una congettura non confermata, che questa operazione si riferisca alla macinatura

del grano, che secondo Teofrasto (citato da Porfirio, De abstinentia 2, 6) veniva mantenuta segreta. In Austin 1970, p. 35 e sgg., si fa menzione delle importazioni greche di grano egizio, documentate dal V secolo a.C., e che potrebbero essere anche alla base della fondazione dell’emporion greco di Naukrati in Egitto, alla fine del VII secolo a.C.

24 Si veda Burkert 1991, p.32. Lo studioso ipotizza un influsso egiziano sul culto eleusino in epoca un posteriore, ponendolo all’inizio del VI secolo a.C.. Fuorviato dal carattere della Stele Metternich, che riporta un rituale di guarigione egizio, pone questo in relazione con i riti di Eleusi (che non hanno alcuna finalità di risanare chi vi partecipa), senza tenere conto della possibilità che il rituale eleusino possa aver attinto dal culto di Iside, ma non necessariamente dalla forma di religiosità pratica indicata dalla Stele Metternich.

25 Malaise 1997, pp. 88 (e le schede III.21 e 22), 108.26 Si veda Sanders-Hansen 1956, pp. 35-43, v. 48 e segg., e Klasens 1952, pp. 52 e sgg., 64-

78.27 Si veda Plutarco, Iside e Osiride, 357 bc; secondo Richardson 1974, p. 238, la tradizione originale

sarebbe quella greca.28 Si veda Tiradritti 1999C, p. 19 e sgg.29 Di questo parere Rohde 1901, che afferma: “Il misticismo era una goccia di sangue straniero nel

sangue greco”.30 Il testo, ancora inedito, non è una creazione letteraria della XXV dinastia, ma è il frutto di una

tradizione che risale al Primo Periodo Intermedio.31 Un’altra serie di precetti di vita ideale, questa volta espressa in forma negativa, si trova nel Capitolo

125 del Libro dei Morti, il cui rotolo di papiro abitualmente veniva posto tra le gambe del defunto all’interno del sarcofago. In questa dichiarazione il defunto si trova ad affermare, davanti a ciascuno dei quarantadue dèi che formano il tribunale di Osiride, di non aver compiuto le più varie azioni nefande, che spaziano dall’ambito religioso fino a quello economico e sociale.

32 Matteo 25, 35-3633 Vedi il volume dedicato all’argomento di Fox 1985.34 L’accenno alla condizione disagiata della vedova e dell’orfano e la sua tutela da parte della società

e della legge religiosa è discussa ampiamente in Tavares 1987, pp. 155 – 162.35 Non a caso il testo è collocato nella parte della tomba che segna il passaggio tra il cortile, in

cui vengono raffigurate scene di vita quotidiana nei possedimenti del funzionario (vedi Tiradritti 1999C, p.21), e la prima sala ipostila, in cui inizia il viaggio ultraterreno di Harwa.

36 Questo passo di Matteo è alla base della codifica da parte della Chiesa delle sette opere di misericordia corporale: dar da mangiare agli affamati; dar da bere agli assetati; vestire gli ignudi; alloggiare i pellegrini; visitare gli infermi; visitare i carcerati; seppellire i morti. Sebbene risalgano agli inizi della storia della Chiesa, questi precetti sono entrati a far parte del catechismo cristiano solo con Pio X.

37 In Platone, Timeo, 21-22. 38 Per un’edizione dei frammenti dei filosofi presocratici, si veda Lami 1991. Curiosamente, la prima

menzione del termine philosophìa compare in Isocrate (Busiride, 28) in cui l’autore sostiene che avrebbe potuto nascere solo in Egitto, e in cui, a proposito di Pitagora, si legge: “Nel corso di una sua visita in Egitto divenne studioso della religione di quel popolo e fu il primo a recare ai Greci la filosofia”.

39 Una discussione sugli aspetti sciamanici delle dottrine di alcuni filosofi e iatromanti nel mondo classico è proposta da Couliano 1989.

40 Contrario a questa tesi Hopfner (1940 – 1941). Davis (1979, p.122) sostiene invece che le fonti classiche non la contraddicano.

41 Fedro, 247D, Filebo 16C, Epinomide 986E – 987A42 Il filosofo Crantore, vissuto nel IV secolo a.C. e seguace di Platone, arrivava ad affermare (la cita-

zione appare in Proclo, In Timeo, LXXVI) che i contemporanei lo prendessero in giro sostenendo che il tipo di società immaginato nella Repubblica fosse una vera e propria copia delle istituzioni egizie.

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La tombadi Harwa

Francesco Tiradritti

Cattedra di Storia dell’Arte “Dorothy K. Hohenberg”

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Francesco Tiradritti · La tomba di Harwa

La Missione Archeologica Italiana a Luxor1 è attiva a Luxor dal 1995, anno in cui, grazie a una concessione accordata dal Consiglio Supre-mo delle Antichità egiziano, è iniziata l’esplorazione del Complesso funerario di Harwa (TT 37) e Akhimeru (TT 404)2.

Nel1995 è stata compiuta una breve ricognizione dei due sepolcri. Il 1996 ha invece segnato l’inizio degli scavi nella Tomba di Harwa. Fino all’estate del 2004 sono state effettuate tredici campagne con durata e scopi diversi. L’esplorazione archeologica di questo complesso funerario è di così vasta portata che, alle permanenze sul sito dedicate allo scavo se ne sono alternate alcune finalizzate allo studio e al restauro del monumento e all’analisi dei ritrovamenti. Per il momento le attività della squadra di studiosi ed esperti che vi lavorano si sono concentrate quasi esclusivamente sulla Tomba di Harwa. L’esplorazione archeologica della tomba di Akhimenru, che succedette a Harwa nella carica di Grande Maggiordomo della Divina Adoratrice, è prevista al termine dello scavo delle parti del complesso funerario pertinenti al sepolcro del predecessore.

Il tomba di Harwa è scavata nella roccia calcarea della piana dell’Assasif, sulla riva occidentale di Luxor, e si sviluppa su un’area di circa 4500 metri quadrati. Il periodo di attività di Harwa si colloca all’inizio del VII secolo a.C., quando l’Egitto era saldamente in mano ai sovrani di origine nubiana della XXV dinastia. Riprendendo una tradizione millenaria, interrotta per oltre trecento anni a causa della

Catalogo 1

Statua-cubo di Harwa. Parigi, Museo del

Louvre, A84 = N 85 (© 2004 Musée du Louvre Département

des Antiquités Égyptiennes)

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Francesco Tiradritti · La tomba di Harwa

grave crisi istituzionale che aveva funestato l’Egitto a partire dalla fine del Nuovo Regno (1075 a.C.), Harwa decise la realizzazione di una tomba riccamente decorata e di vaste proporzioni. Scelse l’area delle necropoli tebane antistante al tempio funerario di Mentuhotep II (2065 – 2014), le cui rovine si ergono ancora oggi contro la parete rocciosa dell’anfiteatro naturale di Deir el-Bahri. Immediatamente a nord del santuario del sovrano la regina Hatshepsut (1479 – 1458) aveva fatto erigere il proprio3. All’epoca di Harwa il tempio funerario della sovrana era ancora utilizzato come stazione per la processione in cui culminava la Bella Festa della Valle, una delle più importanti celebrazioni religiose della regione. La statua di Amon, il dio prin-cipale di Tebe veniva trasportata dal tempio di Karnak sulla riva occidentale per farle visitare i luoghi di culto che ivi vi sorgevano. All’inizio del VII secolo il santuario di Mentuhotep II versava invece in uno stato di abbandono e Harwa fece scavare il proprio sepolcro in un’area in cui un tempo passava la rampa in mattoni crudi che ne costituiva l’accesso. I lavori della tomba non furono mai portati a termine e una parte del corridoio che circonda il primo livello sotterraneo della sua tomba fu utilizzata da Akhimenru per realiz-zare la propria4.

Monumenti e vita di Harwa

Al momento di intraprendere gli scavi della tomba di Harwa nume-rosi suoi monumenti si trovavano già nelle collezioni egizie pubbli-che e private di tutto il mondo. Alcuni provengono sicuramente dal sepolcro, come è il caso di due frammenti di decorazione conservati al Museum of Fine Arts di Boston5 e al Metropolitan Museum of Arts di New York6. Un blocco con iscrizione in geroglifico, conservato nel magazzino “Sheikh Labib” a Karnak, è stato recentemente riportato all’interno della tomba7.

Di Harwa sono noti una tavola per offerte ritrovata nella cappella dedicata a Hathor da Sety I a Deir el-Medina8, un graffito a Naga el-Sheikh (Assuan)9 e un certo numero di ushabty in pietra (completi o frammentari10) la cui provenienza dalla tomba è soltanto

ipotizzabile. Alcuni sono infatti stati riportati alla luce a Medamud11 e a Medinet Habu12 e indurrebbero a ritenere che Harwa abbia uti-lizzato gli ushabty come segno della propria presenza in località connesse con la Divina Adoratrice (Medinet Habu)13 e con il culto di Amon (Medamud).

Le poche informazioni relative a Harwa derivano dalle otto statue che sono a lui ascrivibili14 (catalogo 01). È da queste che possono essere ricavate notizie sulla sua famiglia e gli inizi della sua carriera. Harwa è ritratto in mezzo al padre Padimut e la madre Nestauret in un gruppo statuario inedito (Museo del Cairo JE 37377), dove porta il titolo di imy-khent, una carica di secondaria importanza all’interno del clero tebano. Le iscrizioni delle altre statue affermano che Padimut era figlio di Ankhefenamon: entrambi sono menzionati con titoli sacerdotali di scarsa importanza. Le origini di Harwa si rivelano perciò abbastanza modeste e non è chiaro per quali vie egli sia arrivato ad occupare la carica di Grande Maggiordomo della Divi-na Adoratrice (o Sposa Divina15), una tra le più influenti all’interno dell’amministrazione dello stato teocratico di Tebe.

Determinare con precisione il periodo di attività di Harwa presenta numerosi problemi. Appare chiaro che la sua accessione ai vertici della gerarchia tebana avvenne con il consenso dei sovrani nubiani, in un momento in cui questi impostarono un controllo più diretto sull’Egitto. Questo mutato atteggiamento può essere fatto corrispondere al regno di Shebitqo (698 – 690), quando sarebbe avvenuta anche l’effettiva assunzione di Amenirdis I, figlia del sovrano nubiano Kashta (765 – 745), a Sposa Divina. L’avveni-mento dovrebbe essersi verificato come conseguenza della morte di Shepenupet I, figlia del sovrano libico Osorkon III (788 – 760). È probabile che Harwa sia stato nominato Grande Maggiordomo proprio in questo momento16.

La carica di Sposa Divina era stata utilizzata dai sovrani libici come metodo per mantenere il controllo sullo stato teocratico di Tebe e diminuire così l’influenza politica dei Sommi Sacerdoti di Amon. Proprio Lo strapotere del clero tebano era stato una delle cause che, nell’XI secolo a.C., aveva condotto a una divisione del paese. Da quel momento in poi il nord si era ulteriormente frazionato in una serie di stati governati da sovrani o governatori di origine

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Francesco Tiradritti · La tomba di Harwa

libica, mentre il sud era rimasto saldamente nelle mani del clero tebano. Osorkon III era riuscito a ristabilire un controllo indiretto sulla parte meridionale del paese facendo promuovere alla carica di Divina Adoratrice di Amon la figlia Shepenupet I. I monarchi della XXV dinastia avevano seguito la via da lui tracciata e avevano fatto adottare Amenirdis I a Shepenupet I.

Non è chiaro quando Harwa iniziò a preparare il proprio sepolcro ma, visto lo stato di incompiutezza in cui versa l’intera struttura, è possibile ipotizzare che i lavori fossero ancora in corso al sopraggiungere della morte del funzionario17. Sulla base di queste considerazioni, è possibile attribuire a Harwa un periodo convenzio-nale di attività che copre il ventennio che va dal 700 al 68018.

La tomba di Harwa

Con i suoi 4500 metri di sviluppo su più livelli sotterranei la tomba di Harwa è una delle più vaste mai realizzate da un privato cittadino nel corso della storia egizia (figura 35). L’entrata si trova a sud. Una rampa conduce a un portico che immette in un vestibolo, disposto su un asse sud-nord. Da questo di passa a un cortile a cielo aperto delimitato da portici a pilastri lungo il lato meridionale e settentrionale. L’accesso alla parte sotterranea della tomba si apre al centro del lato occidentale del cortile e conduce a un cambiamento nell’asse di sviluppo del monumento che gira di novanta gradi verso ovest. L’ingresso ha un soffitto a volta; una rampa consentiva di superare il dislivello (circa ottanta centimetri) tra il cortile e la soglia della prima sala ipostila. Questa ha il pavimento in leggera pendenza verso il fondo ed era divisa in tre navate da due file di quattro pilastri; cinque stanze se-condarie si aprono lungo il lato meridionale e quello settentrionale della sala. Un breve passaggio immetteva nella seconda sala ipostila, di dimensioni ridotte rispetto alla precedente e dalla pianta presso-ché quadrata; qui sopravvivono quasi intatti tre dei quattro pilastri che un tempo vi s’innalzavano. Un ultimo breve passaggio immette in una cella al fondo della quale si trovano i resti di un’immagine di Osiride, il re dei morti, scolpita in altorilievo. La scultura è in-

corniciata da una decorazione che imita la forma del tempio primitivo del dio. Una scali-nata di dimensioni ridotte precede la statua. Nell’angolo nord-ovest della cella si apre una nicchia nella qua-le si trovava una statua di Harwa seduto, scolpita nella roccia.

Dalle estre-mità occidentali dei due portici del cortile si accede a un corridoio che circonda tut-to il primo livello sotterraneo della

tomba. Il corridoio era stato progettato per avere uno sviluppo pressoché quadrato19. Il lato meridionale fu però deviato verso nord prima di continuare nuovamente in direzione ovest per evitare alcu-ne tombe di epoca ramesside. La parte settentrionale del corridoio non fu portata a termine da Harwa e fu ampliata da Akhimenru per ricavarvi il proprio sepolcro.

Un pozzo che si apre in corrispondenza dell’angolo nord-oc-cidentale della seconda sala ipostila consente l’accesso a una serie di ambienti sotterranei che si sviluppano su tre livelli. Un corridoio conduce in una sala le cui pareti sono decorate con quattro false porte. In corrispondenza dell’angolo sud-ovest una rampa di scale conduce a un vasto ambiente con soffitto centinato. Lungo il lato settentrionale della sala si apre un ultimo pozzo che conduce a due ambienti: il maggiore si sviluppa verso est, il minore verso sud.

Figura 35

Pianta della tomba di Harwa: 1) rampa;

2) cava; 3) portico d’entrata; 4) vestibolo; 5) cortile; 6) ingresso

della prima sala ipostila: 7) prima sala

ipostila; 8) ingresso della seconda sala

ipostila; 9) seconda sala ipostila; 10)

ingresso della cella; 11) cella; 12) accesso agli

ambienti sotterranei; 13) corridoio; 14)

tomba di Akhimenru (elaborazione grafica di Silvia Bertolini da disegni di Diethelm

Eigner)

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Significato della tomba di Harwa

La tomba di Harwa può essere considerata un monumento semantico, ovverosia progettato in modo da trovarsi investito di precisi significati20. L’intera struttura è infatti pensata non soltanto come un semplice sepolcro, ma come una sorta di ipertesto in grado di descrivere e raccontare determinati concetti relativi all’esisten-za umana e al divino, alla morte e alla rinascita eterna21. Questo è percepibile già nello sviluppo della pianta, concepita a imitazione di un tempio di cui traspone i tratti essenziali in forma sotterranea. Il decrescere in dimensione degli ambienti e la successione cortile, sale ipostile e cella finale sono caratteristiche che la tomba di Harwa condivide con il classico impianto del santuario egizio.

Al termine della successione degli ambienti del primo livello sotterraneo si trova una statua di Osiride e il fatto che la tomba di Harwa sia fortemente influenzata dal desiderio di identificazione con il re dei morti è esplicitato soprattutto attraverso il corridoio che circonda la parte centrale della tomba (catalogo 18). Ha lo scopo di isolare il nucleo del sepolcro dal terreno circostante e proporre così un chiaro riferimento al mito osiriaco, secondo il quale Iside aveva dato sepoltura al corpo dello sposo proprio su un’isola 22. L’archi-tetto che disegnò la tomba di Harwa trasse sicuramente ispirazione dall’Osireion, il cenotafio che Sety I (1289 – 1278) aveva fatto realiz-zare ad Abido per riprodurre il luogo di sepoltura del re dei morti. Nell’Osireion l’idea dell’isola è esplicitata nell’ambiente sotterraneo principale, al centro del quale si trova una piattaforma circondata da un fossato in cui una condotta portava le acque del Nilo. A metà strada tra la tomba di Harwa e l’Osireion si trova la camera funeraria di Taharqo, scavata sotto la sua piramide a Nuri (Sudan), intorno alla quale gira un corridoio.

I più importanti concetti relativi all’esistenza umana sono espressi nella tomba di Harwa attraverso i testi e le figurazioni dell’asse centrale del primo livello sotterraneo. In questo caso, più che citare, il sepolcro racconta. La narrazione si sviluppa toccando, nei passaggi tra i vari ambienti, le tre tappe fondamen-tali di quello che abbiamo definito “Il cammino di Harwa”: vita, morte e rinascita.

Catalogo 18

Bronzetto di Osiride. Collezione

privata

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Francesco Tiradritti · La tomba di Harwa

Il racconto inizia sulla parete meridionale dell’ingresso alla prima sala ipostila, dove è inciso un testo (purtroppo assai mutilo) che racconta la vita ideale di Harwa. L’iscrizione ricalca lo stile autobiografico del cosiddetto “Appello ai viventi”, composizione largamente attestata in tutta la storia egizia e concepita come se fosse il proprietario del monumento a rivolgersi a quanti si trovino a passare davanti all’iscrizione.

Dopo avere richiamato l’attenzione su quello che sta per dire, Harwa passa a enumerare le buone azioni da lui compiute sulla terra. Nella porzione di testo conservatasi risaltano le frasi “ho dato pane all’affamato, vesti all’ignudo” (c. 4) e “ho dato protezione a colui che aveva paura” (c. 5). Si tratta di frasi stereotipe, che Harwa riprende dai testi autobiografici del Primo Periodo Intermedio (2150 – 1994) e che hanno lo scopo di descrivere una vita ideale, in cui il defunto compie soltanto azioni meritevoli di lode.

I tre lati dei pilastri della prima sala ipostila rivolti verso la navata centrale recavano un tempo testi relativi al Rituale delle Ore del Giorno e della Notte23. Nella fila settentrionale è iscritto il Rituale delle Ore del Giorno, che si sviluppa da est verso ovest. In quella meridionale si trova invece il Rituale delle Ore della Notte, il cui andamento è invece da ovest a est. Risulta chiaro che la na-vata centrale della prima ipostila era intesa descrivere una giornata attraverso il percorso del sole nel cielo diurno (fila settentrionale) e nell’Oltretomba (fila settentrionale), dove il sole era ritenuto trascor-rere la notte24. I testi si trovavano così a formare un cerchio in cui il perpetuo sorgere e tramontare del sole scandivano il trascorrere del tempo25. La prima ipostila della tomba di Harwa era stata perciò concepita come una macchina del tempo virtuale che consente alla narrazione del Cammino di Harwa di compiere un ulteriore passo.

Si giunge così alla descrizione della morte, richiamata attra-verso un’allegoria per immagini sulla parete meridionale dell’ingres-so alla seconda sala ipostila (figura 36). Sebbene il delicato rilievo ritragga Harwa con un viso dai tratti idealizzati, il corpo mostra i segni di un’età avanzata: doppio mento, seno cadente e ventre prominente. Lo precede Anubi, cui spettava il compito di accompagnare i morti nell’oltretomba. Il dio stringe la mano dell’uomo con sicurezza, Harwa tiene invece le dita ben distese, come si volesse sottrarre alla presa.

Su questo gesto si concentra la drammaticità del momento. L’uomo si trova confrontato da-vanti al proprio ineluttabile de-stino e vorrebbe fuggire. Questo sentimento, la paura davanti alla morte, è nuovo per la decorazione fu-neraria egizia. Nelle tombe di epoca prece-dente il mede-simo passaggio è r ip rodot to senza questa connotazione di angoscia, sug-gerita in modo

così toccante dalla stretta di mano tra Anubi e Harwa. L’allegoria della morte è incisa anche in un punto estremamente significativo dal punto di vista architettonico. La parete meridionale dell’ingresso alla seconda ipostila è anche l’ultima a essere toccata dal riverbero del sole che arriva fino a qui, riflesso come in uno specchio, dal pavimento in calcare del cortile. Si crea così una situazione di pe-nombra che rinforza ancora di più il concetto del passaggio dalla vita alla morte. Oltre questo punto il cammino di Harwa prosegue nell’oscurità quasi totale.

Le pareti della seconda ipostila sono invece decorate con il Rituale dell’Apertura della bocca che aveva svolgimento al mo-mento del funerale. Harwa è morto e i sacerdoti funerari toccano i

Figura 36

Tomba di Harwa (TT 37), ingresso della seconda

sala ipostila. Rilievo con l’allegoria della morte

(Fotografia di Giacomo Lovera)

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Francesco Tiradritti · La tomba di Harwa

suoi occhi, il suo naso, la sua bocca e le sue orecchie pronunciando formule che dovevano conferire una nuova vita alla mummia del defunto. Anche qui, però il risultato è diverso da quello tradizionale. Il rituale dell’Apertura della bocca conduce il cammino di Harwa a una biforcazione.

Il pozzo nell’angolo nord-occidentale della sala immette n una serie di ambienti che culminano, a venticinque metri di pro-fondità, in due camere sotterranee. La più grande delle due (che significativamente è orientata verso oriente e, perciò, verso il sorge-re del sole) rappresenta, almeno simbolicamente, l’ultima dimora dei resti mortali di Harwa. Prima di raggiungerla il corpo doveva attraversare una sala con il soffitto a botte. Ne sopravvivono i resti della decorazione originaria: profili neri di esseri demoniaci e divi-nità su imbarcazioni sulle pareti, Nut la dea del cielo allungata sul soffitto con la testa a ovest, pronta a ingollare il sole al tramonto, e con i piedi a est, per partorire l’astro al suo nuovo sorgere. Si tratta della descrizione degli inferi egizi in cui il sole trascorreva la notte e attraverso cui Harwa si trovava a passare.

Il corpo era così destinato a scendere nelle profondità della terra. L’essenza vitale, libera da vincoli fisici, poteva invece prose-guire verso la rinascita eterna. Questo momento è riprodotto sulla parete meridionale dell’ingresso alla cella posta alla fine del primo livello sotterraneo. La scena è molto simile a quella dell’allegoria della morte. Anubi26 torna a stringere la mano di Harwa che è però rappresentato con il fisico prestante di un giovane. La separazione dal corpo ha dato nuova vita ed eterna giovinezza all’essenza vitale di Harwa.

Il cammino verso la rinascita termina nella cella. Sul muro di fondo è riprodotta in altorilievo la figura del dio Osiride ed è verso questa che si dirige Harwa (figura 38). La sua essenza vitale doveva prendere posto nella statua, scolpita nella roccia della nicchia che si apre nell’angolo nord-ovest della cella. Da qui Harwa poteva con-templare il re dei morti e condividerne l’eternità.

L’immagine di Osiride poteva essere vista anche dall’ingresso della prima sala ipostila, da una distanza di circa sessanta metri. Il bassorilievo è di dimensioni ridotte rispetto al naturale e posto al termine di una scalinata, anch’essa in miniatura. La figura di Osiride

viene così a trovarsi al centro di un vero e proprio trompe-l’oeil, un effetto ottico ottenuto attraverso un accurato studio architettonico27. L’immagine del dio sembra così più distante di quello che è in real-tà. L’allontanamento virtuale del dio ribadisce la paura dell’uomo di fronte al mistero ultimo: l’unico modo per raggiungere Osiride è infatti quello di passare attraverso la morte.

La tomba di Harwa, attraverso la descrizione del cammino dell’individuo verso la rinascita eterna si trova così a essere concepita come uno strumento che dilata il tempo in modo virtuale. Nonostante rendano esplicita la paura dell’uomo, la decorazione e l’architettura del monumento trasformano la morte da fine a momento di passaggio verso la resurrezione eterna.

Le osservazioni di Edna Russmann in questo stesso cata-logo28 inducono a un’osservazione finale sulla decorazione dei passaggi tra gli ambienti. Nell’allegoria della morte, dietro Harwa si trovava un’immagine del toro Api, manifestazione terrena del dio Ptah di Menfi, ritratto come se stesse uscendo da una monta-gna. Questa porzione del rilievo risulta completamente mancante,

Figura 38

Tomba di Harwa (TT 37), cella. Immagine

in altorilievo di Osiride all’interno del suo santuario primitivo

(Fotografia di Giacomo Lovera)

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Francesco Tiradritti · La tomba di Harwa

ma la presenza della divinità è resa certa dai resti dell’iscrizione e dal parallelo con la vicina tomba di Petamenofi (TT 33) dove la scena di Harwa risulta copiata. A parte queste due occorrenze, il toro Api è da considerare alieno all’universo religioso della regione tebana29 e, a prima vista, sfugge il significato della sua rap-presentazione. Una soluzione può forse essere proposta ponendo ancora una volta a confronto l’allegoria della morte con la scena della rinascita. In quest’ultima, dietro Harwa si trova l’immagine di Imenetet, la dea dell’Occidente. Entrambe le figure, qualora poste in correlazione tra loro, mostrano una forte connotazione geografica30. Imenetet simboleggia la necropoli tebana, il toro Api il Serapeo di Menfi e, di conseguenza, la necropoli di Saqqara. Sono inserite all’interno di un percorso (il cammino di Harwa) e appare perciò giustificabile interpretare anche le due immagini divine in un simile contesto.

L’ipotesi di Edna Russmann (corroborata soprattutto dallo stile dei rilievi nel cortile della Tomba di Harwa) che vedrebbe nella decorazione del monumento un intervento di maestranze di origine menfita potrebbe fornire il legame tra la tomba di Harwa e la necropoli di Saqqara e giustificare così la presenza di Api. L’immagine della divinità indicherebbe Menfi, e forse proprio il Serapeo, come punto di partenza31 del viaggio che i decoratori della tomba avrebbero in-trapreso per giungere nella necropoli tebana (la dea Imenetet) dove avrebbero lavorato alla decorazione della tomba di Harwa.

L’interpolazione delle due scene potrebbe avere un tono iro-nico. Non è possibile stabilire se questo sia intenzionale o derivato semplicemente dalla lettura a posteriori delle figurazioni. Il toro Api è inserito nell’allegoria della morte, Imenetet nella scena della rina-scita. Si tratta di una scelta voluta degli artisti con la quale avrebbero voluto significare il loro apprezzamento per il fatto di essere stati chiamati a Tebe (soprattutto se, nel frattempo, avevano trascorso mesi alla decorazione del tempio di Kawa in Sudan)?

A posteriori, che il tragitto da Menfi a Tebe si ponga lungo il cammino dalla morte alla rinascita acquista un significato ulteriore e che, con tutta probabilità, non sfiorò mai le menti degli artisti che realizzarono la decorazione. L’arrivo di queste maestranze condusse veramente a una rinascita, di stampo però culturale:

lavorando alla tomba di Harwa i decoratori menfiti diedero nuovo impulso all’arte della regione e contribuirono alla formazione di una nuova scuola tebana che avrebbe trasfuso la lezione ricevuta nella realizzazione di monumenti di inestimabile valore quali la tomba di Montuemhat (TT 34) e Petamenofi (TT 33) di poco successive a quelle di Harwa.

Scavi nella tomba di Harwa

L’area di fronte all’entrata principale

L’entrata principale della tomba di Harwa si trova a sud. Nell’area antistante si è cominciato a scavare nel 2000, riprendendo i lavori nella primavera del 2001, nel 2002 e nell’estate del 2004. Lo scopo principale era quello di rimuovere almeno parzialmente l’enorme accumulo di detriti che gravavano sopra la parte orientale del portico d’entrata, il cui soffitto era già crollato in due punti. L’intento era anche quello di mettere in luce la rampa di accesso il cui sviluppo, all’inizio dei lavori destava alcune perplessità: sulla base di quanto visibile sembrava che terminasse contro il cortile della tomba di Kheruef Senaa32. Gli scavi hanno invece rivelato che la rampa compie un angolo e si dirige verso est. I rilievi topografici della situazione messa in luce hanno mostrato che presenta un forte scarto rispetto all’asse principale del portico di accesso della tomba.

La rampa è una caratteristica architettonica comune a tutte le altre tombe dell’Assasif, nelle quali è però invariabilmente orientata verso nord, dove passa la via di accesso al tempio di Hatshepsut, ed è perfettamente in asse con il sepolcro. Harwa, essendo stato il primo ad avere utilizzato quella parte della piana dell’Assasif come luogo di sepoltura avrebbe anche lui avuto la possibilità di orientare la rampa verso nord. È probabile che questa fosse la sua prima intenzione e che, in un secondo momento, per una ragione che ancora oggi non è dato conoscere sia stato costretto a cambiare il progetto originale e a dovere incastrare la rampa a sud, tra il cortile della propria tomba e quello di Kheruef.

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Francesco Tiradritti · La tomba di Harwa

La scoperta di una piccola cava nel corso degli scavi del 2000 (figura 39), tagliata nel suo limite occidentale dal portico d’accesso apparirebbe corroborare l’ipotesi che quest’area fosse stata considerata, in un primo momento, di secondaria impor-tanza. È stato possibile datare la cava alla XXV dinastia, e perciò accertarne la contemporaneità con la tomba di Harwa, sulla base del ritrovamento di una giara appoggiata contro la parete di roccia orientale. La giara era priva della parte superiore e al suo interno vi sono tracce di intonaco su cui rimangono le impronte delle dita di una mano. Doveva essere stata utilizzata da uno degli operai di Harwa per suturare le connessioni tra un blocco e l’altro durante la loro posa in opera.

La parte meridionale della cava è ingombra di grossi blocchi di pietra calcarea, alcuni dei quali con tracce di lavorazione. Si tratta sicuramente di quanto scartato e dimostrano che la cava sarebbe stata sfruttata da sud a nord. I blocchi ricavati furono utilizzati per suturare le fessure naturali della roccia calcarea in varie parti della tomba e per rivestire la rampa di accesso. La giara sembrerebbe indicare un abbandono repentino dei lavori, testimoniato anche dallo stato di incompiutezza della decorazione del cortile.

Nel corso degli scavi in quest’area è stato riportato in luce un troncone del muro in mattoni crudi della rampa che condu-ceva al tempio di Mentuhotep II. Nella realizzazione del portico di ingresso alla tomba di Harwa gli operai rimossero parte della massicciata su cui era costruito il muro. Questa appare composta da materiale calcareo di consistenza argillosa, identico alla roccia messa a nudo in corrispondenza della tomba di Djar (TT 366), a sud-ovest di quella di Harwa, databile anch’essa all’XI dinastia. Un’altra porzione della rampa in mattoni crudi del tempio di Mentuhotep II è stata scoperta a nord del cortile della tomba di Harwa nel corso della rimozione dell’accumulo di detriti che gravavano su questa parte del monumento.

Gli scavi nell’area della rampa hanno riportato alla scoperta di altro interessante materiale. Nel corso della campagna primaverile del 2000, durante la rimozione dello strato superficiale di detriti davanti al portico, sono stati ritrovati numerosi frammenti di sfere in faïence azzurra con spicchi dipinti in nero. Queste possono esse-re associati a un rituale di tipo magico33, anche se la loro posizione di ritrovamento non consente di stabilire a quale epoca possano essere riferite, a meno di metterle in relazione con i frammenti di giara, ritrovati nel 2004 nel cumulo di detriti che gravava sulla parte orientale dell’area, a circa un metro di profondità.

Non è stato possibile recuperare tutti i pezzi della grande giara, che per forma e per consistenza della ceramica può anch’essa essere datata alla XXV dinastia, sulla quale risultano tracciate varie iscrizioni in ieratico. Una di queste è in inchiostro rosso, il colore utilizzato nei testi magici o di esecrazione. Una lettura preliminare ha rivelato che si tratta di un elenco di nomi di persone (tra i quali è citato anche Harwa) e di divinità dell’area tebana. Potrebbe anche questo fare parte di un rituale (forse di consacrazione della tomba)34.

Sempre nel cumulo dei detriti sono stati recuperati alcuni ostraca e pezzi di calcare lavorati e frammenti di papiro. Uno degli ostraca reca due linee d’iscrizione con “L’insegnamento di un uomo al proprio figlio”; un secondo una linea di testo in ieratico ripetuta da una mano diversa nello spazio sottostante, e tre ulteriori linee con un nome. Un terzo ostracon presenta som-mariamente inciso un capitello a forma di fiore di papiro aperto.

Figura 39

Tomba di Harwa (TT 37), cava (Fotografia di

Giacomo Lovera)

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Francesco Tiradritti · La tomba di Harwa

Questi ritrovamenti sono stati, per il momento, interpretati come testimonianze di un’attività scolastica che avrebbe avuto luogo nell’area. L’esame paleografico dei documenti indica una data posteriore alla fine del Nuovo Regno.

Il vestibolo

Il vestibolo era stato utilizzato dalla Missione Archeologica del Me-tropolitan Museum of Arts di New York (MMA) per immagazzinare un buon numero di reperti ritrovati nel corso degli scavi effettuati tra il 1916 e il 1920 a Malqata, a Deir el-Bahri e nell’Assasif. Gli archeologi americani avevano bloccato l’entrata sud dell’ambiente con un muro in pietra e quella nord con una porta in legno inserita in una cornice di mattoni crudi intonacati. A questa il Servizio delle Antichità egiziano ne aveva aggiunta una seconda in ferro35.

La prima ricognizione del vestibolo risale al 2002. In que-st’occasione è stato possibile costatare che la decorazione originale versa in pessimo stato di conservazione. La parte superiore delle pareti est e ovest è quasi completamente mancante, quella inferiore ha sofferto a causa del ristagno d’acqua al seguito di rari, ma violenti, nubifragi (l’ultimo si è abbattuto sull’area della necropoli tebana nel 1994). Sopravvive gran parte delle due figure di Harwa seduto che si trovavano all’estremità nord delle due pareti (figura 40). I danni subiti dalle due immagini sono da imputare al passaggio di tombaroli che hanno asportato le teste dei personaggi.

L’inventario dei reperti del vestibolo è cominciato nella prima-vera del 2004 e si è concluso nel giugno successivo. È stato così possi-bile trasportare il contenuto del vestibolo nel magazzino del Consiglio Supremo delle Antichità egiziano accanto alla Casa di Carter.

Tra gli oggetti degni di nota che si trovavano nel vestibolo sono da segnalare alcuni frammenti di intonaco dipinto, e una serie di tappi in argilla con impronta di sigillo provenienti dal palazzo di Amenofi III a Malqata36. Insieme a questi si trovavano anche numerosi frammenti di una statua di Amon37. Parti di sfingi in arenaria dipinta di Hatshepsut e porzioni della decorazione di tombe dell’Assasif

costituivano il resto del contenuto del vestibolo, insieme a vasi di varie dimensioni e alcune serie di ushabty.

Un frammento in arenaria con linee d’iscrizione in geroglifico si unisce perfettamente con altri simili che menzionano Pabasa e che probabilmente vengono dalla tomba di questo personaggio (TT 297), situata immediatamente a nord di quello di Harwa. Questi ultimi giacevano, all’inizio degli scavi, nella parte occidentale del cortile della tomba di Harwa, insieme a parti di statue in arenaria dipinta di Mentuhotep II, provenienti dal suo tempio. Un ulteriore frammento di una di queste statue è stato recuperato nel corso del 2003 all’in-terno di una fossa davanti alla parete orientale del cortile da dove si accede tutt’ora alla tomba. Doveva essere caduto al suo interno al momento del trasporto dei monumenti e lì abbandonato.

Il cortile

Dopo un sondaggio effettuato nel 1998 davanti alla falsa porta in-cisa sulla parete orientale, gli scavi del cortile si sono protratti in tre stagioni non consecutive (1999, autunno 2001 e 2003). In questa

Figura 40

Tomba di Harwa (TT 37), vestibolo.

Immagine di Harwa incisa sulla parete

occidentale (Fotografia di Francesco Tiradritti)

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Francesco Tiradritti · La tomba di Harwa

parte della tomba è stato possibile applicare un rigoroso metodo di scavo stratigrafico. All’inizio si è optato per l’apertura di due settori di scavo, lungo il lato settentrionale e quello meridionale del cortile, lasciando intatta la striscia centrale dell’accumulo di detriti.

La rimozione dello strato superficiale ha rivelato una situa-zione di crollo in entrambi i settori. Nella parte settentrionale è stato riportato in luce un ampio fronte di frammenti di roccia calcare de-rivante dal crollo del portico, mentre in quello meridionale è stato rinvenuto un ampio strato di mattoni crudi derivanti dal parziale scivolamento del muro della rampa del tempio di Mentuhotep II.

Uno dei primi strati rimossi nel 1999 si è rivelato formato quasi esclusivamente da pezzi di mummia e bende. L’andamento, in leggera salita all’angolo sud-ovest verso il centro del cortile, indicava che doveva corrispondere a una delle tante azioni di saccheggio cui è andata sottoposta la tomba di Harwa fino alla Seconda Guerra Mon-diale. Si trattava del risultato dello bendaggio frettoloso di mummie recuperate negli ambienti che, da quest’angolo del cortile, immetto-no nella porzione meridionale del corridoio sotterraneo. In questo contesto sono stati recuperati tre frammenti del ritratto funerario di un personaggio maschile databile al II secolo d.C.38 e frammenti di cartonnage ascrivibili ai primi secoli della nostra era. Allo scopo di appurare la loro provenienza, nella seconda parte della stagione, si è passati a scavare gli ambienti posti tra la porta del cortile e il corridoio. Frammenti di cartonnage simili a quelli del cortile sono stati recuperati nel vasto ambiente con soffitto a volta (XA) subito dopo la porta e nel pozzo (YI) che si apre nella piccola stanza XD. In quest’occasione è stato svuotato anche il pozzo YJ.

In quest’ultimo sono stati recuperati i resti del corredo fu-nerario di un certo Pef-tjau-auy-khonsu. I frammenti di sarcofago ritrovati indicherebbero una datazione alla XXVI dinastia. La sepol-tura dovrebbe corrispondere a uno dei primi riutilizzi della tomba di Harwa come luogo di sepoltura da parte di altre persone. Il pozzo era già stato visitato dai tombaroli che avevano avuto però cura di riempirlo nuovamente. Contro la parete di fondo della camera di modeste dimensioni scavata al fondo del pozzo avevano lasciato un teschio (con l’occhio perforato in un macabro segno d’intesa, probabilmente appartenente proprio a Pef-tjau-auy-khonsu) come

segno del loro passaggio. Scavata nel pavimento di XA, proprio di fronte all’entrata del cortile, è stata riportata alla luce una singolare struttura. Questa è costituita da una depressione centrale circonda-ta da una fossa circolare semicircolare che termina in uno spazio, riempito con limo del Nilo. È probabile che al centro fosse posta una giara da cui traspirava l’acqua che doveva mantenere umido il limo. Questa istallazione che, a mia conoscenza, non trova un esatto parallelo nella necropoli tebana, potrebbe essere una rivisitazione della cosiddette figure di “Osiride vegetante”, poste all’interno di una sepoltura come simbolo di rinascita eterna per il defunto.

Nel 1999 i lavori lungo il settore meridionale hanno con-dotto alla scoperta di nuove porzioni decorate del muro di fondo del portico, parzialmente già visibili39. È stata anche messa in luce una trincea, scavata da tombaroli che visitarono la tomba durante la Seconda Guerra Mondiale o negli anni immediatamente successivi per asportare parti della decorazione.

Durante le ricerche è stato possibile appurare il metodo da loro utilizzato per asportare i blocchi. La porzione di muro prescelta veniva circoscritta, probabilmente da chi dirigeva le operazioni, con una linea incisa e, successivamente ricoperta con gesso. Questa pro-cedura serviva a tenere insieme la superficie decorata che si sarebbe sicuramente frammentata nel corso delle successive operazioni. Una volta essiccatosi il gesso, si passava a staccare la parte utilizzando piccozze e piedi di porco. Il passo finale consisteva nell’immergere il frammento in una cornice di cemento che consentiva di rimuovere il gesso senza che la pietra andasse in frantumi.

Molti frammenti della decorazione sono stati recuperati nel corso degli scavi, dimostrando che la parete aveva subito già numerosi guasti in epoche precedenti alle visite dei tombaroli40. Per alcuni di essi è già stato possibile individuare l’esatto punto di provenienza.

Il muro di fondo di quello che un tempo era il portico me-ridionale era decorato con scene in delicato bassorilievo di attività quotidiane. Si tratta di quanto avveniva nelle proprietà di Harwa la cui figura è incisa in grandi proporzioni all’estremità occidentale della parete. Il funzionario è ritratto come se stesse osservando quanto si sta svolgendo davanti ai suoi occhi, la sua figura è incedente e

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Francesco Tiradritti · La tomba di Harwa

stringe nella mano destra un bastone. Davanti ai suoi piedi si trova un personaggio di dimensioni ridotte, raffigurato nudo nella tipica iconografia della fanciullezza. La sua testa è stata asportata dai tom-baroli e sopravvive soltanto parte dell’iscrizione in geroglifico che lo identificava. La posizione che occupa è identica a quella che, spetta all’erede, normalmente il figlio maggiore del defunto, nelle tombe dell’Antico Regno. In questo caso, quanto rimane del testo indica che debba trattarsi del “figlio di suo fratello…”. Di Harwa non è noto alcun fratello ed è verosimile che il termine sen sia qui da intendere nella sua accezione più ampia di “amico fraterno”. Questo dato è di estremo interesse, perché sembrerebbe suggerire che i possedimenti di Harwa, alla sua morte, non sarebbero rimasti nell’ambito della famiglia41 (catalogo 8).

Le scene che riguardano le attività quotidiane spaziano dalla descrizione dei lavori nei campi, all’allevamento, alla pesca e alla caccia nella palude. Il registro inferiore, ancora parzialmente coperto dai detriti e estremamente rovinato dal vandalismo dei tombaroli mostra invece figurazioni di diverso genere. Interessante è la scena che riproduce alcuni scultori al lavoro, intenti a rifinire una statua in tutto simile a quella in alabastro di Amenirdis I conservata al Museo Egizio del Cairo42.

Nella figurazione del portico meridionale del cortile è rileva-bile un dettaglio che non appare avere riscontro in altre tombe egizie. I pilastri recavano decorazioni realizzate in rilievo a incavo. I lati che perpendicolari alla parete di fondo recano altre scene relative ad attività quotidiane. Sul lato orientale del pilastro centrale ovest sopravvive la parte inferiore di una scena in cui un uomo è intento a pulire il pesce. Questa figurazione può essere posta in relazione con la scena di pesca incisa sulla parete di fondo in un gioco prospettico accuratamente studiato. Di questa seconda scena sopravvivono tre pescatori (di un quarto è rimasta soltanto la parte inferiore). Quello all’estrema sinistra della scena è in procinto di arrivare al corso d’ac-qua dove gli altri due stanno già pescando (figura 41). I personaggi hanno dimensioni minori rispetto a quello raffigurato sul pilastro. A un osservatore che guardi verso il portico meridionale dal centro del cortile l’uomo intento alla pulizia del pesce appare perciò in primo piano, come si trovasse sulla riva del corso d’acqua, inciso

sulla parete, in cui gli altri personaggi sono ancora intenti a pescare. Il senso di prospettiva deriva da una lettura sincronica delle due figurazioni che risultano però legate da un movimento diacronico il cui punto di partenza è dato dal pescatore in procinto di avvicinarsi al corso d’acqua. In presa con il modo di riprodurre il movimento in antico Egitto, è come se l’artista avesse voluto ritrarre un unico individuo in fasi diverse di una medesima azione, dando così vita a un breve racconto dal tono fumettistico: un pescatore va a pescare (personaggio che si avvicina, sulla parete) pesca (primo pescatore, sulla parete), continua a pescare (secondo e terzo pescatore, sulla parete) e, alla fine, raggiunge la riva dove si mette a preparare il pesce per essiccarlo sotto gli occhi vigili di un sovrintendente.

Gli scavi nel cortile sono proseguiti nel 2001 e nel 2003. Durante la prima campagna è stata rimossa la striscia di terreno centrale, arrivando così a rimettere in fase l’intero cortile. In queste due campagne è stato ulteriormente approfondito lo scavo in corri-spondenza del portico settentrionale. La parete di fondo, al contrario di quella meridionale, risultava priva di decorazione, a eccezione dei resti di alcune colonne con geroglifici di grandi dimensioni all’estremità occidentale43. Alcuni graffiti erano stati tracciati sulla

Figura 41

Tomba di Harwa (TT 37), parete meridionale

del cortile. Scena di pesca (Fotografia di

Giacomo Lovera)

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L’enigma di Harwa

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superficie della parete e, tra questi, è stata identificata la firma del poeta francese Arthur Rimbaud44.

L’approfondimento degli scavi ha portato alla scoperta di tre registri di rilievi sovrapposti, incisi in delicato bassorilievo. In quello superiore le scene appaiono complete o molto prossime a essere terminate. All’estremità orientale dei due sottostanti le figure sono rimaste a livello di disegno preparatorio, semplicemente trac-ciate con inchiostro rosso (in alcuni casi il profilo delle teste appare inciso in modo molto approssimativo). L’incompletezza dei rilievi in questa parte del monumento funerario fornisce una spiegazione alla mancanza di decorazione nella parte superiore della parete. I lavori dovettero essere stati abbandonati repentinamente; in quel momento alcuni decoratori stava lavorando alla figurazione in cor-rispondenza dell’angolo nord-est del cortile; altri, sicuramente con una diversa specializzazione, avevano appena cominciato a incidere l’iscrizione in colonne di geroglifico nell’angolo nord-ovest che, una volta completata, avrebbe dovuto occupare tutta la parte superiore della parete.

Il registro superiore dei rilievi, in buone condizioni di con-servazione in quasi tutta la metà orientale del portico, reca una fila di portatori di offerte, ritratti come se si dirigessero verso l’interno della tomba. Le figure risentono di una chiara influenza dell’arte menfita dell’Antico Regno e sono simili alle miriadi di immagini che affollano le mastaba dei nobili della IV-VI dinastia a Giza e a Saqqara. Le figure di Harwa hanno però qualcosa di sostanzialmente diverso. Sono libere dalla ripetitività e dal conformismo che governa l’ordine spaziale delle scene dei monumenti più antichi. L’immagine di ogni portatore nella tomba di Harwa vive in un suo proprio spazio ed è diversa da tutte le altre. Il ritmo figurativo è allegro, festante; quest’atmosfera è ancor maggiormente sottolineata dai fiori di papiro o loto con cui alcuni portatori hanno cinto le parrucche.

Un tema caro da sempre agli artisti di tutte le epoche dell’an-tico Egitto è individuabile nella figura del portatore con il vitellino sulle spalle (figura 42). Il braccio sinistro del personaggio ha una tor-sione anomala che pone in maggiore risalto la figura dell’animale. Il vitello è rivolto all’indietro e sul suo muso è rilevabile un’espressione corrucciata. L’artista ha così voluto riprodurre il tema della nostal-

Catalogo 8

Sarcofago di Meritamon. Padova, Museo Civico degli Eremitani, inv. 141

(© 2004 Gabinetto Fotografico Musei Civici

di Padova)

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Francesco Tiradritti · La tomba di Harwa

gia e del distacco senza ritorno45. La testa dell’animale sin oppone al mo-vimento di tutta la scena e guar-da verso il punto dove origina la fila di portatori, da dove viene e dove sa che non potrà più tornare.

Il registro centrale è molto mal conservato. Per il momento sono state poste in luce le porzioni di alcune scene dipinte in inchio-stro rosso in corri-

spondenza dell’estremità orientale del portico. Si intravedono alcuni personaggi intenti in attività lavorative delle quali non è stata ancora accertata la natura.

Del registro inferiore rimangono alcune scene, soltanto dipin-te, nell’estremità orientale e una buona porzione realizzata in bassori-lievo in corrispondenza di quella occidentale del portico. In entrambi i casi si tratta di figurazioni relative alla cosiddetta danza-tjeref: un ballo di coppia attestato nel contesto dello svolgimento delle ceri-monie funebri46. La scena di Harwa trova un esatto parallelo nella tomba di Iy-mery a Giza (G 6020), databile alla seconda metà della V dinastia (XXIV secolo a.C.)47. Anche in questo caso la figurazione di Harwa possiede qualcosa di diverso rispetto all’originale. I bal-lerini sono ritratti in momenti diversi, e probabilmente progressivi, della danza. Al mutare delle posizioni delle gambe la muscolatura è trattata in modo diverso, come se alla base della figurazione vi fosse un reale, anche se primitivo, studio anatomico.

Figura 42

Tomba di Harwa (TT 37), parete

settentrionale del cortile. Portatore con

vitellino (Fotografia di Giacomo Lovera)

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L’enigma di Harwa

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Francesco Tiradritti · La tomba di Harwa

Scavi nella tomba di Harwa: la prima sala ipostila

La prima sala ipostila e i dieci annessi che si aprono lungo i suoi lati settentrionale e meridionale sono stati scavati nel corso del-le campagne 1997 e 199848. L’ambiente è stato diviso in quadrati tenendo come punti di riferimento virtuale il centro dei pilastri. Non è stato possibile impostare uno scavo stratigrafico più accurato poiché l’accumulo di detriti non è avvenuto per fasi successive, ma in momenti contigui impossibili da differenziare. La situazione archeologica si presentava come un accumulo di blocchi caduti dal soffitto e dalle pareti, circa un quarto dei quali conservava ancora tracce di decorazione. In alcuni punti della sala, sotto ai detriti e a diretto contatto del pavimento, sono stati riportati alla luce ampi ac-cumuli di calce, all’interno dei quali sono stati recuperati resti ossei malamente conservati. Sembrerebbe trattarsi di sepolture comuni la cui datazione può essere fatta corrispondere a una delle epidemie che avrebbero funestato l’Egitto nei secoli della tarda antichità. A livello di pavimento sono stati recuperati vasetti e balsami in vetro, in alcuni casi in associazione tra loro, probabilmente quanto resta di modeste sepolture, databili tra il I e II secolo d.C.49. Questi ritro-vamenti indicano che la tomba di Harwa fu utilizzata come cimitero a partire dal I secolo d.C. circa fino a tutto il IV.

Al centro della sala, a circa quattro metri di distanza dalla porta dell’ingresso alla seconda ipostila è stata riportata alla luce una base in arenaria. A non molta distanza, tra i detriti, sono stati rinve-nuti altri frammenti lavorati della stessa pietra sulla cui superficie sono incisi in bassorilievo pani e vasi. Questi blocchi sono risultati appartenere a una tavola per offerte per la quale si è subito ipotizzato che dovesse poggiare sulla base. Le misure però non coincidevano. La soluzione di questo problema si è presentata quando, nel corso degli scavi al centro di cortile, è stata scoperta una tavola per offerte in arenaria, utilizzata per solidificare il terreno sottostante a uno dei cerchi di limo con i quali erano stati prodotti i mattoni crudi con cui era stato chiuso il vestibolo. La tavola si adatta perfettamente alla base e la sua superficie superiore ha dimensioni tali per appoggiarvi i blocchi con i pani e i vasi. Il risultato è una tavola per offerte tripartita costituita da base, ripiano e offerte. Sebbene di fattura insolita, può

essere datata all’epoca tolemaica, epoca in cui la tomba di Harwa fu trasformata in un santuario, con tutta probabilità dedicato a Osiri-de. Il cambio d’uso è testimoniato dal ritrovamento di un notevole quantitativo di coppe votive di epoca tolemaica in uno degli annessi settentrionale (N3). Nello stesso ambiente è stato recuperato anche lo stampo in terra refrattaria per la produzione di statuine di Osiride (HRW 1997, R 237). Un secondo stampo (HRW 1998, R 283), di cui si conserva soltanto la parte superiore, è stato invece ritrovato tra i detriti della navata meridionale della sala ipostila. La trasformazione in un santuario dedicato a Osiride deve essere stata facilitata dalla struttura stessa della tomba, simile a quella di un tempio, e dal fatto che nella cella fosse scolpita l’immagine del dio.

Nell’angolo nord-occidentale della sala ipostila sono stati rinvenuti numerosi frammenti di un Libro dei Morti in geroglifico corsivo e con vignette che inducono a datarlo all’epoca tolemaica. Le modalità di ritrovamento (quasi in superficie e su un’area di circa due metri quadrati) induce a ipotizzare che il Libro dei Morti sia stato estratto da qualche tombarolo dalla camera funeraria ricavata nell’annesso all’estremità occidentale (N5). I frammenti sarebbero il risultato del tentativo di manipolazione (o di apertura) del papiro nel luogo dove sono stati ritrovati.

Nel corso della campagna 1997, all’interno di uno dei cumuli di calce che coprivano il centro della sala ipostila sono stati riportai alla luce la parte superiore di un ushabty in serpentino (HRW 1997, R 199) e un secondo ushabty in calcare spezzato in due parti (HRW 1997, R 200) di Harwa (figura 43). Il luogo di ritrovamento è inusuale, visto che le statuine del defunto erano di regola poste nelle vicinanze della mummia. L’unica spiegazione possibile è che siano scivolati di mano a qualcuno che li aveva prelevati dalla camera funeraria e, affondati nella finissima polvere di calce, non sarebbero stati più recuperati50. Anche questo evento è da ascrivere a una delle azioni di saccheggio perpetuate nella tomba.

La parte superiore dell’ushabty in serpentino presenta un modellato del viso delicato, ispirato ai canoni artistici della scultura dell’Antico Regno. L’esemplare in calcare, seppure di squisita fattura, ha caratteristiche così particolari che lo rendono di vitale importanza per la ricostruzione della storia di Harwa e del periodo in cui visse.

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Figura 43

Ushabty in calcare di Harwa con in mano le insegne della regalità

faraonica, HRW 1997, R 200 (Fotografia di

Giacomo Lovera)

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Francesco Tiradritti · La tomba di Harwa

privata più grande di tutto l’Egitto55, nonostante la maggior parte dei suoi monumenti lo ricordino semplicemente con il titolo di Capo Sacerdote Ritualista (come Pa-di-amon-neb-nesut-tauy).

Alla luce di queste informazioni sembrerebbe che almeno quattro personaggi o abbiano avuto le risorse (Harwa, Montuemhat, Petamenofi) che potevano essere a disposizione soltanto del go-vernatore di uno stato, oppure hanno agito come se lo fossero (Pa-di-amon-neb-nesut-tauy), o siano stati considerati come tali (Montuemhat) oppure abbiano, più semplicemente, preteso di esserlo (Harwa). Questi quattro nomi possono essere posti in suc-cessione e dare vita a quella che potrebbe essere considerata una vera e propria dinastia di funzionari nelle cui mani si sarebbero trovate le sorti di Tebe per circa un secolo, dal tramonto del potere libico sulla città (metà VIII secolo a.C.) all’avvento della XXVI dina-stia (VII secolo a.C.). Una tale ricostruzione si scontra però contro un’aporia che potrebbe apparire, a prima vista, insormontabile: Pa-di-amon-neb-nesut-tauy, Harwa, Montuemhat e Petamenofi possono avere governato in questa successione, ma appartengono a quattro famiglie ben distinte e non sono legati da parentela alcuna tra loro. Per risolvere questo problema può essere utile tornare alla figura di Harwa incisa all’estremità occidentale del muro di fondo del portico meridionale del cortile. Davanti alle sue gambe si trova l’erede di tutte le sue proprietà che però non è suo figlio, quanto piuttosto “il figlio di suo fratello (da intendere come “amico fra-terno”). L’iscrizione è mutila e non è possibile accertare l’identità del personaggio. Potrebbe trattarsi di Montuemhat, ma potrebbe benissimo anche essere un altro personaggio, al quale Harwa aveva intenzione di passare l’effettivo potere (mentre il titolo di Grande Maggiordomo sarebbe toccato ad Akhimenru) e che fu invece sop-piantato da Montuemhat. L’importante non è tanto l’identità del personaggio raffigurato davanti a Harwa, quanto piuttosto il fatto che le sue proprietà, e perciò le risorse che ne derivavano, erano destinate a passare in mano a qualcuno che non era suo figlio. È assai verosimile che sulla promozione di colui che doveva gestire lo stato di Tebe e dell’Alto Egitto gravasse la lunga mano dei sovrani libici prima e nubiani poi. Questo spiegherebbe perché sarebbero stati scelti funzionari non imparentati tra di loro. Al momento di

Al posto delle abituali zappe la statuina stringe infatti il flagello e lo scettro, i simboli della regalità faraonica. Il nome di Harwa, nel Capi-tolo VI del Libro dei Morti iscritto sull’ushabty, è inoltre preceduto dal titolo ur-uru (“Grande dei Grandi”) utilizzato normalmente per designare i sovrani o i governatori dei paesi stranieri. Al momento della scoperta, questa statuina rappresentava un unico per la storia della civiltà faraonica. Soltanto nel 200351, con la pubblicazione della foto della parte superiore dell’ushabty conservata al Museum of Fine Arts di Boston (catalogo 17), si è potuto appurare l’esistenza di un secondo esemplare. Le due statuine funerarie di Harwa sono le uniche che ritraggono un personaggio che non sia il sovrano con in mano le insegne della regalità.

Questi elementi hanno indotto a una riflessione sul vero ruolo detenuto da Harwa e sulle modalità della sua gestione all’inizio del VII secolo a.C.

In quest’epoca l’Egitto meridionale era ormai da tempo saldamente in mano dei sovrani della XXV dinastia ed è opinione comune che il controllo della regione avvenisse attraverso la carica religiosa della Sposa Divina. Nella documentazione contempora-nea e in quella di poco precedente vi è però la menzione di alti funzionari tebani che appaiono agire come se fossero stati i veri governatori della regione e dell’Alto Egitto. Il primo è Pa-di-amon-neb-nesut-tauy, ricordato nella Stele di Piankhy con il semplice ti-tolo di Capo Sacerdote Ritualista52, una funzione religiosa di ambito soprattutto funerario, al quale viene affidato il compito (insieme al generale Pulem) di ricevere la resa di Teknakht, il sovrano a capo della coalizione di principi libici che si erano opposti all’avanzata degli eserciti nubiani. Saltando l’epoca di Harwa, troviamo Mon-tuemhat, Quarto Sacerdote di Amon e Governatore della città, la cui importanza in ambito amministrativo doveva essere immensa. Questo è testimoniato dalle dimensioni della sua tomba, ma anche da altri documenti come gli annali di Assurbanipal II trascritti sul Cilindro di Rassam53, dove è nominato come sharru (“sovrano”) di Tebe, e il Papiro dell’Oracolo saita54. Anche Petamenofi, la cui carriera deve collocarsi nell’epoca immediatamente successiva a quella di Montuemhat, doveva detenere un notevole potere se fu in grado di prepararsi nell’Assasif quella che è considerata la tomba

Catalogo 17

Pagina precedenteFrammento superiore di ushabty di Harwa.

Museum of Fine Arts, Boston. Hay Collection.

Gift of C. Granville Way, 72.745 (© 2004 Museum of Fine Arts,

Boston)

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Francesco Tiradritti · La tomba di Harwa

assumere il controllo il dignitario prescelto manteneva i propri titoli, assumendo però prerogative che lo investivano dell’effettivo governo e che, almeno agli occhi degli Assiri, lo facevano apparire come uno sharru a tutti gli effetti. Questo dovette essere anche quello che pensava Harwa quando fece incidere su uno dei suoi ushabty il titolo ur-uru.

A partire dal 1999 è iniziato lo studio dei blocchi, recanti tracce di iscrizioni o figurazioni, recuperati nel corso degli scavi della prima sala ipostila. Durante le campagne 2001 e 2002 i pi-lastri dell’ambiente sono stati ricostruiti in compensato, rispet-tando le dimensioni di quelli originali. Questo ha consentito di avere a disposizioni superfici su cui attaccare le copie in scala uno a uno dei frammenti identificati. Dopo essere stati catalogati, i blocchi sono stati fotografati in digitale in modo da effettuare foto-mosaici rivelatisi di estrema utilità per la ricostruzione della decorazione (figura 44).

I maggiori risultati sono stati ottenuti grazie al confronto con la decorazione della tomba di Pabasa che, almeno per quanto riguarda la prima ipostila e il cortile, risulta essere stata copiata direttamente

da quella di Harwa. Al termine della campagna 2003 è stata comple-tata la catalogazione e lo studio preliminare dei blocchi della parte meridionale della prima ipostila. Oltre al riconoscimento di molti frammenti provenienti dai pilastri e dalle pareti, questo ha consentito la ricostruzione fino al 40-60% delle porte degli annessi meridionali che, all’inizio degli scavi, risultavano completamente crollate.

È stato così possibile appurare che la decorazione degli architravi prevedeva scene a carattere offertorio. Di particolare interesse si è dimostrata quella dell’annesso posto all’estremità sud-occidentale (S5). La scena ritrae Harwa davanti al padre Padimut e alla madre Nestaureret. La stanza ha soffitto a botte e al fondo si apre un pozzo funerario. La scena suggerirebbe che potrebbe trattarsi del luogo di sepoltura preparato per accogliere le salme dei genitori di Harwa.

La seconda sala ipostila

La seconda sala ipostila si è preservata in condizioni migliori della prima. Le sue dimensioni ridotte hanno indotto a iniziare da qui gli scavi nella tomba. È stato così possibile sperimentare le modalità di intervento in seguito utilizzate nelle parti restanti del monumento.

Lo scarso accumulo di detriti ha consentito di completarne la rimozione già al termine della breve campagna del 1996. La situa-zione appariva molto disturbata e, a livello di pavimento, sono stati recuperati balsamari in vetro e vasetti simili a quelli che sarebbero stati successivamente rinvenuti nella prima sala ipostila, senza però riuscire ad accertare se erano associabili a sepolture oppure proveni-vano dall’ambiente contiguo (ipotesi più probabile) ed erano arrivati qui in modo intrusivo.

Il problema maggiore era costituito dalle pareti che, sebbene conservatesi in migliore condizioni di quelle della prima sala ipostila, risultavano in alcuni punti in procinto di crollare ed erano unifor-memente ricoperte da uno strato di guano di pipistrello.

Sempre durante la campagna 1996 sono stati sperimentati di-versi metodi di pulizia. Le prove, compiute su porzioni limitate della

Figura 44

Foto-mosaico con la ricostruzione della

porzione di una scena dalla decorazione della

prima sala ipostila della tomba di Harwa

(Fotografia Carlos de la Fuente)

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Francesco Tiradritti · La tomba di Harwa

pareti e su frammenti dipinti di piccole dimensioni, hanno consentito di accertare che i pigmenti utilizzati risultavano resistenti all’acqua e, sulla base di questo risultato, è stato elaborato un procedimento utilizzato poi in larga scala. Sulle superfici sono stati stesi fazzolettini di carta, imbevuti d’acqua e coperti con una pellicola d’alluminio. Quest’ultima serviva a impedire la rapida evaporazione e, perciò, la risalita in superficie dei sali presenti nella roccia che, altrimenti, avrebbero potuto provocare la spaccatura della stessa. Questo meto-do ha consentito di completare la pulizia dalle pareti alla fine della campagna 1998. Purtroppo l’acidità del guano, in alcuni punti, ha condotto alla parziale corrosione di figure e iscrizioni geroglifiche che, però, sono ancora leggibili nella loro quasi totalità.

La cella

La cella al fondo del primo livello sotterraneo è stata scavata com-pletamente nel 1998. La rimozione dei detriti ha riportato alla luce la piccola rampa di scale scavata nella roccia davanti alla figura di Osiride e numerosi frammenti della decorazione che riproduce il santuario primitivo del dio. A eccezione di un frammento di barba, non è stato possibile recuperare alcune parti della figura del dio o della statua di Harwa seduto, scolpita nella nicchia che si apre all’estremità nord-ovest della cella.

Gli ambienti sotterranei

Gli ambienti cui si accede dall’ampio pozzo che si apre nell’an-golo nord-ovest della seconda ipostila sono stati scavati nel corso delle campagne 2001 e 2002. Si riteneva che la sala più profonda di maggiori dimensioni potesse essere identificata con la camera funeraria di Harwa.

Il corridoio d’ingresso agli ambienti presentava un ac-cumulo di detriti che costituiva quanto restava della chiusura

dell’estremità orientale. Quasi in superficie sono state recuperate due statuine di uccello-ba, in legno dipinto (HRW 2001, R 131 e 132), simili a quelle che si trovano inseriti sopra i sarcofagi di epoca romana56. La prima è stata recuperata lungo la parete set-tentrionale e la seconda lungo quella meridionale: questo lascia supporre che si trovassero montate sui lati del sarcofago. Sareb-bero cadute nel corridoio durante una delle azioni di saccheggio della tomba. A causa dello spazio limitato, i tombaroli avrebbero urtato il coperchio del sarcofago contro il soffitto del corridoio causando il distacco delle due statuine.

La completa rimozione del cumulo di detriti ha condotto al recupero, a livello di pavimento, di blocchi decorati provenienti dalla sala ipostila e dal cortile. Questi hanno consentito di stabilire che la chiusura del corridoio avvenne in un momento in cui i pilastri della prima ipostila erano già parzialmente crollati e il cortile non era ancora ricoperto di detriti57.

Lo svuotamento delle due stanze più profonde ha portato al recupero di molti frammenti di ushabty in pietra e in faïence di Harwa, confermando che nell’ambiente di dimensioni maggiori fosse stato previsto di collocare il sarcofago di Harwa. La sala era piena di detriti fino a circa metà della sua altezza. Nel corso delle operazioni di rimozione sono state recuperate numerose tracce di un suo riutilizzo successivo.

In entrambi gli ambienti e al fondo del pozzo sono stati re-cuperati numerosi blocchi di calcare, di qualità migliore e diversa da quello della roccia circostante, iscritti con il nome e i titoli di Harwa. Ritenuti in un primo momento provenire dal sarcofago, si sono dimostrati, al termine dei lavori di scavo, appartenere a un ta-bernacolo, molto simile a quelli dove venivano poste e statue delle divinità nelle celle dei templi.

Il problema che pone un tale ritrovamento è quella della funzione di un tale monumento in quella che era stata concepita per essere la camera funeraria di Harwa, come dimostrato dagli innumerevoli frammenti di ushabty ivi recuperati. L’unica ipotesi possibile, in mancanza di ulteriori dati, è che questo ambiente fosse inteso essere un cenotafio e che Harwa sia stato sepolto altrove.

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Francesco Tiradritti · La tomba di Harwa

Conclusioni

A dieci anni di distanza dall’inizio di attività nel complesso funera-rio di Harwa e Akhimenru e con ancora un numero imprecisato di campagne prima di giungere alla fine dei lavori di scavo, di restauro e studio è possibile trarre alcuni conclusioni sull’oggetto delle nostre ricerche.

La tomba di Harwa si presenta come un monumento chiave per la conoscenza della storia e della cultura dell’Egitto del VII secolo a.C. Quello che appare più evidente è la sua natura “rinasci-mentale”. Nella decorazione della tomba il passato viene ripreso, copiato e rielaborato in forme nuove che appaiono adattarsi a una civiltà egizia che sta cambiando. È possibile anche rilevare un sentimento nuovo di fronte alla morte, un sentimento dove la rinascita ulteriore è sentita come la méta finale di un percorso che, in ultima analisi, è solo un modo per superare la paura della morte, per rassicurare l’individuo che tutto non ha termine con la fine dell’esistenza terrena.

La tomba di Harwa può fornire anche risposte, che al momento appare soltanto suggerire, sull’anello mancante tra civiltà egizia e mondo mediterraneo. La “Tebe dalle cento porte” descritta da Omero non è quella del Nuovo Regno, come spesso si è voluto affermare, ma quella dell’VIII-VII secolo a.C. a lui con-temporanea, che conosce un nuovo momento di splendore grazie alla XXV dinastia. I greci si affacciano sulla Valle del Nilo proprio in quest’epoca e la tomba di Harwa presenta caratteristiche di pensiero che, di lì a poco, si troveranno riflesse nei misteri58 e in altre manifestazioni del loro pensiero59. Dare il pane dell’affamato e i vestiti all’ignudo per avere diritto alla rinascita e trascorrere l’eternità in contemplazione del dio sono concezioni che trovano un corrispondente già nel primo giudaismo cristiano60. Quanto suggerisce la tomba di Harwa è da tempo risaputo, ovverosia che la nostra cultura ha origini profondamente radicate nella civiltà faraonica. L’importanza di questo immenso monumento è che fornisce la chiave di lettura per capire le modalità di questo passaggio e illuminare uno dei periodi più oscuri della storia dell’Egitto faraonico.

Note

1 “Missione delle Civiche Raccolte Archeologiche di Milano in Egitto” fino al 2002. 2 TT = Tomba Tebana. Tebe è il nome con cui i greci indicavano Luxor (chiamata Uaset “la Vittoriosa”

in egiziano antico).3 Per una descrizione dettagliata dell’area e, in particolari della necropoli dell’Assasif, si veda il

contributo di Silvia Einaudi in questo catalogo. 4 L’attribuzione di questa parte della tomba ad Akhimenru fu fatta per primo da Jean Leclant nel corso

di una sua visita al monumento (Leclant 1954). Per questo personaggio e dei suoi monumenti resta sempre un riferimento lo studio di Miriam Lichtheim (1948).

5 Si tratta del frammento di una scena con paesaggio palustre proveniente dal cortile, pubblicato in questo catalogo (n. 16), la cui prima segnalazione si deve a Ann Russmann (1983, fig. 3).

6 Metropolitan Museum of Art of New York, 14.1.397B. Il frammento ritrae Harwa seduto e fa parte della decorazione della prima sala ipostila. Una foto è pubblicata in Russmann 1983, fig. 4.

7 Il blocco era in vendita in uno dei negozi di antichità di Luxor agli inizi degli anni Cinquanta. In seguito alla chiusura di tutte queste attività fu confiscato e trasportato nei magazzini di Karnak. Qui è stato individuato da Laurent Coulon che ha avuto la cortesia di segnalarmene l’esistenza. Un sentito ringraziamento va a lui e a tutte le autorità del Consiglio Supremo delle Antichità di Luxor che hanno acconsentito al trasferimento nella tomba di Harwa. Già in precedenza, sulla base delle fotografie, ne era stata accertata l’esatta provenienza. Fa parte del testo offertorio iscritto sulla porzione meridionale della parete est della prima ipostila.

8 Ritrovata nel corso degli scavi di Bernard Bruyère sul sito (Bruyère 1948, p. 25 e 1952, p. 28-29, fig. 95). La tavola per offerte si trova attualmente conservata nel magazzino del Consiglio Superiore delle Antichità presso la Casa di Carter sulla riva ovest di Luxor. Notizia fornitami da Nadine Cherpion, che ringrazio. Ringrazio anche le autorità del Consiglio Superiore delle Antichità della Riva Ovest di Luxor che mi hanno consentito di esaminare la tavola per offerte nel gennaio 2004.

9 Pubblicato in de Morgan et alii 1894, n. 164, p. 38.10 Non esiste un censimento degli ushabty relativi a Harwa conservati nelle collezioni pubbliche e

private del mondo. Alcuni risultano già pubblicati: frammento superiore di ushabty 72.745 presso il Museum of Fine Arts di Boston (T. Kendall in Barcellona 2003, p. 165, n. 76 e presente catalogo n. 17); ushabty CG 47715 al Museo del Cairo (CG 46530-48575); ushabty in collezione privata francese (Aubert, Aubert 1974, p. 199); ushabty LH 1725 presso il Liebieghaus – Museum Alter Plastik di Francoforte, (Schlick-Nolte, von Droste zu Hulshoff 1984, pp. 2, 77-79, B. Schlick-Nolte in Droste zu Hulshoff, et alii 1991, pp. 89-93, n° 30); frammento superiore di ushabty F 1949/2.3 presso il Rijkmuseum van Oudheden di Leida, (Schneider 1977 II, p. 154 (5.2.1.1), tav. 118; III, tav. 57; fig. 31); un ushabty UC 10681 e ushabty privo della parte inferiore delle gambe UC 30151al Petrie Museum di Londra (per UC 10681, v. Petrie 1935, n. 540, tav. XII, e XLI, dove come luogo di provenienza è indicata la tomba di Harwa); ushabty Eg. 253, presso il Museo Etnografico di Neuchâtel. Di un frammento di ushabty di Harwa conservato nel Museo Nazionale di Praga ho invece avuto notizia grazie a una comunicazione personale di Pavel Onderka.

11 Per gli ushabty di Harwa ritrovati a Medamud, si veda Clère 1934.12 Il frammento della porzione mediana di un ushabty in pietra di Harwa è stato riportato alla luce

dalla Missione Archeologica dell’Università di Chicago a Luxor nel corso delle recenti ricerche archeologiche presso il tempio thutmoside di Medinet Habu. Comunicazione personale del Direttore della Missione Dottor W. Raymond Johnson.

13 Il tempio thutmoside di Medinet Habu dista poco più di venti metri dalle cappelle delle Divine Adoratrici.

14 Cfr. Gunn, Engelbach 1931, pp. 791-815. Nel novero delle statue menzionate nell’articolo escluderei Museo del Cairo CG 902 (numero IV in Gunn, Engelbach 1931, p. 792, 800, tav. III). Si tratta di una statua acefala e mancante della parte inferiore delle gambe. Nonostante i titoli

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Francesco Tiradritti · La tomba di Harwa

iscritti sulla gonna siano simili a quelli di Harwa e l’aspetto pingue del corpo ricordi soprattutto due sue statue al Museo del Cairo e quella nel Museo della Nubia ad Assuan (JE 36711, 36930 e 37386), non si può escludere che la scultura possa rappresentare un altro funzionario vissuto nel corso della XXV dinastia (si veda, per esempio, la statua di Iriketakana, citata in Kuentz 1934, p. 143-144, pl. I et II, che porta gli stessi titoli incisi su CG 902). Al novero delle sculture citate in Gunn, Engelbach 1931, va inoltre aggiunto il gruppo statuario Museo del Cairo JE 37377 (inedito, ma citato in De Meulenaere 1977). Ho avuto modo di esaminare questa scultura nel corso di una mia visita al Museo del Cairo grazie alla gentilezza dell’allora direttore dell’istituzione, Dottor Mamduh Eldamaty al quale desidero qui esprimere la mia riconoscenza.

15 Harwa porta sia il titolo di mer-per ur en Duat-netjer (“Grande Maggiordomo della Divina Ado-ratrice”) sia quello di mer-per ur en hemet-netjer (“Grande Maggiordomo della Sposa Divina”). Entrambi appaiono essere riferiti alla figura di Amenirdis I. Un’analisi preliminare delle attestazioni del titolo nella tomba di Harwa sembrerebbe indicare che la variante con “Divina Adoratrice” pre-domini negli ambienti sotterranei della tomba, mentre quella con “Sposa Divina” compaia quasi esclusivamente nel cortile e sugli ushabty. Questo dato, qualora confermato dal proseguimento delle ricerche sul sito, potrebbe indicare che le due forme del titolo non siano da considerare alternative, ma corrispondano a due fasi successive della carriera di Harwa. Gli ushabty e la decorazione del cortile furono sicuramente realizzati in un momento successivo rispetto agli ambienti sotterranei della tomba. Il cambiamento nella titolatura di Harwa si troverebbe così a riflettere quello della posizione di Amenirdis I che, in quanto erede sarebbe stata insignita del titolo di Divina Adoratrice (duat-netjer) prima di assumere, a pieno diritto, quello di Sposa Divina (hemet-netjer). Questa possibilità è stata discussa con la Dottoressa Mariam Ayad che ringrazio per le preziose informazioni. Per un ulteriore studio sulla figura della Sposa Divina/Divina Adoratrice in quest’epoca, si veda il suo contributo in questo catalogo.

16 Se risultasse vero quanto ipotizzato alla nota 15, la nomina di Harwa a Grande Maggiordomo andrebbe collocata in un momento precedente a questo evento, ovverosia a quando Amenirdis I fu nominata erede della Sposa Divina. Per datare con precisione quest’avvenimento i documenti sono scarsi e poco informativi. A causa di questo non c’è un reale accordo tra gli studiosi sull’identità del sovrano responsabile di questo atto. Si vedano, per esempio, in questo stesso catalogo, i contributi di Morkot e Naunton (Kashta) e quelli di Ayad e Galgano (Piankhy).

17 Ann Russmann, in questo stesso catalogo, ha espresso l’affascinante idea che le maestranze menfite chiamate a decorare il tempio di Kawa da Taharqo (690 – 664) siano state le medesime che avrebbero lavorato nella tomba di Harwa. Questo concorderebbe con la differente qualità dei rilievi rispetto alle altre tombe dell’Assasif, la maggiore ispirazione al repertorio figurativo delle tombe dell’Antico Regno di Giza e Saqqara e, da ultimo, con la presenza dell’anomala figura del Toro Api, un tempo incisa nel passaggio tra la prima e la seconda sala ipostila, divinità comple-tamente estranea ai culti della regione tebana, ma che a Menfi, proprio sotto i sovrani nubiani, stava conoscendo un nuovo momento di fortuna. Secondo questa ipotesi la tomba potrebbe essere stata in una fase avanzata di realizzazione o addirittura cominciata quando le maestranze menfite si sarebbero fermate a Tebe, probabilmente sulla via del ritorno da Kawa. Qualora questa ipotesi ricevesse conferma, il termine dei lavori nel tempio di Kawa (settimo o decimo anno di Taharqo; per le iscrizioni relativi a questi eventi, v. Macadam 1949, pp. 1 - 92) potrebbe servire da termine post quem per la datazione della tomba di Harwa, che sarebbe perciò stata in corso di preparazione intorno al 680 a.C. Nella prospettiva di un collegamento di Harwa con Menfi assume estrema importanza lo scarabeo inedito Museo Egizio del Cairo, JE 45742. L’iscrizione sulla base reca i nomi di Harwa e di Taharqo; il Journal d’Entrée del museo afferma che proviene da una sepoltura di Saqqara.

18 Come dimostra, tra gli altri documenti, la statua-cubo (Louvre A84 = N 85, scheda 1 di questo catalogo), dove il nome di Amenirdis I è seguito dall’epiteto maa-kheru (“giustificata” = “defun-ta”), Harwa doveva essere ancora in vita alla morte della Sposa Divina. Sebbene non sia possibile stabilire una data per questo evento, appare assai probabile che la morte di Amenirdis I sia da porre in correlazione con la nomina di Amenirdis II alla carica di erede della Sposa Divina, ovverosia nel corso del regno di Taharqo. La contemporaneità tra Taharqo e Harwa è, d’altro canto, comprovata dallo scarabeo Museo del Cairo, JE 45742 (v. nota 17).

19 Eigner 1984, fig. 42.

20 Eigner 1984, pp. 37, 178-180.21 Per l’analisi della tomba di Harwa come testo, si veda Tiradritti 1999A.22 Per una più approfondita discussione sugli elementi osiriaci nella tomba di Harwa si veda Einaudi

2004 e il contributo della stessa in questo catalogo.23 I lati dei pilastri orientati verso le navate laterali della sala recano capitoli del Libro dei Morti che,

sebbene assimilabili per contenuto al Rituale delle Ore del Giorno e della Notte, contrariamente a quanto supposto in precedenza (così come traspare in Graefe 1993), devono essere analizzati in connessione con i lunghi estratti dei Testi delle Piramidi iscritti sulla parete settentrionale e meridionale della prima ipostila. Lo studio di queste composizioni è ancora in corso e ne sfugge perciò il significato nell’economia generale dell’interpretazione semantica della tomba.

24 L’Oltretomba era concepito dagli egizi come un universo opposto a quello reale ed è proprio in ragione di questo motivo che il sorgere è posto a ovest e il tramonto a est.

25 La circolarità del trascorrere del tempo è espressa in Egitto dal termine djet, scritto con il gero-glifico del serpente. In epoca greco-romana questa stessa parola sarà scritta in forma pittografica attraverso l’immagine di un serpente che avvolge la mummia di Osiride (Frammento di papiro, Milano, Civiche Raccolte Archeologiche, E 0.9.40134). Questa figura passerà poi nel mondo romano e diventerà l’iconografia per la figura del Chronocrator (si veda, per esempio, Arslan 1997, pp. 231 e 234) e, da ultimo, servirà da spunto per la figura dell’Ouroboros, di epoca medievale, il serpente che si morde la coda allegoria del tempo infinito.

26 Anubi appare qui rappresentato con due teste. Si tratta di un errore: all’inizio il dio doveva essere ritratto con la testa rivolta all’indietro verso Harwa; in un secondo momento era invece stato deciso altrimenti. Il cambiamento intendeva sicuramente attribuire un maggiore parallelismo tra questa scena e l’allegoria della morte. La testa del dio errata doveva essere coperta da una mano d’intonaco, parzialmente già caduto quando Pabasa, qualche decina di anni più tardi, fece realizzare la propria tomba. La scena della rinascita si trova infatti anche in questo sepolcro dove, davanti al muso di Anubi, è incisa una linea curva corrispondente alla parrucca relativa alla testa del dio rivolta all’indietro nella tomba di Harwa. Questo particolare dimostra che gli artisti di Pabasa copiarono la scena direttamente dall’originale, senza però capire che la linea curva era da considerare un errore.

27 Asimmetrie finalizzate a correggere la visione complessiva della sala ipostila sono rilevabili nel portale che incornicia il passaggio al termine dell’ambiente.

28 Vedi sopra, nota 17.29 Anche in ragione dell’esistenza del popolare culto dedicato al toro Buchi ad Armant, situata a venti

chilometri a sud di Luxor.30 Per altre immagini divine riprodotte con l’intento di indicare località geografiche in monumenti

databili all’epoca di Ramesse IV, si veda Tiradritti 2002, pp. 108 – 111. 31 Il fatto che il Toro Api sia raffigurato come se uscisse da una montagna potrebbe ulteriormente

rafforzare il significato di punto di partenza attribuito all’immagine. La montagna, quando non è utilizzata per indicare la conformazione della località geografica in cui risiede una determinata divinità (come nel caso delle immagini della giovenca simboleggiante la Hathor della montagna tebana o l’Amon adorato in Sudan ai piedi della collina del Gebel Barkal) serve a connotare il luogo da cui il dio ha origine, come nel caso dell’iconografia delle sorgenti del Nilo.

32 TT 192. Kheruef Senaa era Grande Maggiordomo della regina Teye, sposa di Amenofi III (1387 – 1350).

33 Si veda la nota 34 del contributo di Ayad in questo catalogo.34 I resti della giara sono stati recuperati in due punti del cumulo di detriti, distanti l’uno dall’altro

circa dieci metri e a due diversi livelli. È possibile che il proseguire degli scavi consenta di riportare alla luce ulteriori frammenti. Uno di quelli recuperati presenta le impronte delle dita di una mano sporca di intonaco. È possibile che un operaio abbia raccolto un pezzo del vaso e gettato lontano dal punto dove lo aveva trovato. Questo potrebbe spiegare perché il ritrovamento dei frammenti della giara sia avvenuto in punti così distanti l’uno dall’altro.

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35 Nel corso degli scavi del 2001 e del 2004, nell’area del cortile prospiciente al vestibolo, sono rilevate le tracce dei lavori di chiusura compiuti dagli archeologi del MMA. Sono stati riportati alla luce due cerchi in argilla utilizzati per la fabbricazione del muro in mattoni crudi e l’impronta del percorso scavato dal passaggio delle persone che, dall’accesso al cortile lungo la parete orientale dello stesso, si dirigevano verso il vestibolo.

36 La maggior parte di questi ritrovamenti erano stati segnalati e pubblicati in Hayes 1951 che li dava come dispersi.

37 Della statua di Amon fa quasi sicuramente parte la mano della statua di una divinità recuperata nel corso degli scavi a nord del cortile della tomba di Harwa nel 2003. Le dimensioni, superiori al naturale, e la pietra sono le stesse dei frammenti del vestibolo. La mano è stata recuperata in prossimità del sentiero che porta dallo spazio antistante al tempio di Hatshepsut alla tomba di Harwa. È assai probabile che sia caduta nel corso delle operazioni di trasporto dei ritrovamenti della missione del MMA nel vestibolo.

38 Una datazione più precisa sarà data nella pubblicazione dei tre frammenti del ritratto a cura di Lorelei H. Corcoran, di prossima uscita.

39 Per una pubblicazione preliminare della scena con il paesaggio paludoso si veda Russmann 1983.

40 I tre frammenti conservati al Museum of Fine Arts di Boston (Dono di C. Granville Way 72.692 e, in questo catalogo, scheda 16), per esempio, furono sicuramente raccolti e non staccati dalla parete nella seconda metà del XIX secolo.

41 Per il momento le figurazioni della tomba rendono sicuro che Harwa avesse almeno tre figli. Le iscrizioni consentono l’identificazione soltanto per due: Padimut, che portava il nome del nonno ed è forse da considerare il maggiore, e Padimaat. L’esistenza di una figlia è invece testimoniata dal sarcofago della Cantatrice di Amon Merytamon, conservato nel Museo degli Eremitani di Padova (inv. 141; n. 8 di questo catalogo) le cui iscrizioni affermano essere “figlia del principe, del nobile” Harwa. Il sarcofago rientra nella tipologia della prima XXVI dinastia e sebbene siano attestati circa trenta personaggi con il nome di Harwa (Leahy 1980), l’unico a essere accompagnato da questi titoli è proprio il proprietario della TT 37. A proposito della famiglia di Harwa è interessante notare come nella tomba e negli altri monumenti sia assente ogni menzione a qualsiasi sposa del funzio-nario. Una rapida analisi dei monumenti funerari degli altri Maggiordomi della Divina Adoratrice (o Sposa Divina) dimostra che, questo risulta vero anche in altri casi (Ibi, TT 36 e Pabasa, TT 279 fanno eccezione). È possibile che questa sia da considerare una prova ab silentio riguardo l’esistenza di una sorta di tabù che impediva ai Maggiordomi, in quanto strettamente legati a una sacerdotessa, di riprodurre le immagini delle spose sui propri monumenti. Sono necessarie però ulteriori e approfondite indagini per arrivare a capire se questo sia veramente il caso o se vi sia un’altra ragione per l’assenza della menzione delle mogli.

42 Cairo CG 565.43 L’iscrizione non fu mai portata a termine, come dimostrano le due colonne all’estrema destra per

le quali era stata tracciata soltanto la quadrettatura preparatoria in rosso. 44 Il nonno di Rimbaud aveva fatto parte della spedizione di Bonaparte e aveva lasciato il proprio nome

su alcuni monumenti dell’Egitto, tra cui il tempio di Karnak. L’attribuzione ad Arthur Rimbaud del graffito scoperto nella tomba di Harwa è stata compiuta sulla base di un confronto con firme del poeta su lettere e manoscritti. Rimbaud deve avere sostato nella tomba di Harwa in uno dei suoi viaggi tra l’Europa e Aden, quando trafficava in armi, alle fine degli anni Ottanta del XIX secolo.

45 La volontà di riprodurre un tale tema attraverso la torsione della testa di un animale è riconosciuta per la prima volta da Donadoni (1959) nell’analisi della cosiddetta “Tavolozza del tributo libico” (CG 14238); è rilevabile anche nella scena del guado della tomba di Ty a Saqqara, ripetuta in altre mastaba della stessa necropoli e dalla quale è probabile che sia derivata l’ispirazione per la figurazione di Harwa.

46 Brunner-Traut 1958, pp. 21-22.47 PM III.12, p. 172, Brunner-Traut 1958, fig. 6. 48 Lo scavo dei primi due annessi meridionali a partire dall’entrata della sala ipostila era già avvenuto

negli ultimi giorni della campagna 1996.49 Questa datazione si basa soprattutto sui balsamari in vetro ossidiano (dalla colorazione nera ricavata

dalla polvere di ossidiana) che, sebbene rari, sono attestati nel mondo romano intorno alla metà del II secolo a.C. I vasetti corrispondono invece a tipologie databili in epoca immediatamente precedente.

50 Altri frammenti di ushabty in pietra di Harwa sono stati trovati lungo l’asse principale del primo livello sotterraneo, nella prima, nella seconda sala ipostila e nel passaggio di comunicazione tra i due ambienti.

51 T. Kendall in Barcellona 2003, p. 165, n° 76.52 Stele di Piankhy, l. 140 (URK III, 52.4). 53 Pritchard 1969, p. 294.54 Parker 1962.55 TT 33. La porzione occidentale del muro in mattoni crudi che circonda la tomba di Petamenofi

passa sopra l’angolo nord-est del cortile di quella di Harwa.56 Si veda, per esempio, il sarcofago di Soter (British Museum EA 6705).57 Tra i blocchi decorati recuperati, uno proviene dalla sommità di uno dei pilastri e due, contigui,

dal registro più basso di rilievi incisi sul muro meridionale del cortile.58 L’iniziazione ai misteri prevedeva passaggi equivalenti a quelli dalla vita alla morte e dalla morte

alla vita, espressi nel “Cammino di Harwa”. 59 La filosofia presocratica, così come è giunta fino ai giorni nostri, appare incentrata su problematiche

di ordine cosmogonico che trovano precisi riscontri nei miti egizi ed è possibile che i pensatori greci, per alcuni dei quali è attribuito un soggiorno in Egitto (si veda il contributo di Raverta in questo catalogo), abbiano tratto da questi fonte di ispirazione.

60 I testi copiati da Harwa risalgono all’inizio del II millennio a.C. e questi traevano ispirazione da una morale diffusa già all’epoca in tutto il Vicino Oriente. È però un grave errore affermare che questi concetti abbiano trovato via diretta nel giudaismo e, infine, nel cristianesimo, senza cercare di rintracciare i tramiti. La tomba di Harwa è la manifestazione di una civiltà, quella dell’Egitto del VI secolo a.C., che è da considerare il vero anello di questa catena culturale. Le testimonianze fornite indicano nella Grecia il successivo.

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Schedereperti

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Schede reperti

1 · pag. 164

Statua cubo di Harwa

Diorite Altezza cm 57; larghezza cm 34; profondità cm 38,5Provenienza ignota (Luxor) XXV dinastia (690 – 680)Musée du Louvre, Département des Antiquités Égyptiennes,A84 = N 85 (Collezione Salt)

La statua entrò a far parte della collezione egizia del Louvre insieme agli altri reperti appartenuti al console inglese Henry Salt e acquistati dal sovrano francese Carlo X nel 1826, su suggerimento di Champollion.Harwa appare seduto per terra, con le gambe piegate contro il petto e le braccia conserte sopra le ginocchia, secondo la tipologia delle cosiddette “statue cubo”, comparse nella produzione scultorea egizia del Medio Regno e ben attestate anche nel corso della XXV dinastia. Il volto, dai lineamenti arrotondati, è cinto da una parrucca che imita modelli più antichi e sembra emergere dal blocco cubico che costituisce il corpo. Le superfici della statua sono ricoperte di iscrizioni geroglifiche che riportano il nome e i titoli di Harwa, nonché il nome della Sposa Divina Amenirdis I di cui Harwa era Grande Maggiordomo. I testi, che si rifanno a un repertorio ben attestato sin dalle epoche più antiche, comprendono “L’appello ai viventi” (un discorso rivolto ai membri del clero del dio Amon di Karnak affinché essi recitino una richiesta di offerte per il defunto), oltre a un elenco delle qualità morali di Harwa e delle buone azioni che egli ha compiuto conformemente a Maat (la dea simbolo della giustizia e dell’ordine cosmico). Bibliografia: Forgeau 1997, p. 122, fig. 33; Tiradritti 1999D, pp. 18, 160; Tiradritti 2000, pp. 10, 11, 19 n. 15, 27 n. 24; Ziegler, Rutschowscaya 2002, pp. 74-75.

(Silvia Einaudi)

2 · pag. 208

Statuetta di Bastet a nome di Piankhy

Bronzo con incrostazioniAltezza cm 24,3Provenienza ignota (Luxor)XXV dinastiaMusée du Louvre,Département des Antiquités Égyptiennes, N 3915

Questa piccola statua, acquistata dal Museo del Louvre nel 1864, raffigura Bastet, divinità venerata principalmente a Bubasti nel Delta.

La dea è raffigurata stante, con le braccia distese lungo il corpo dalle sembianze femminili, il cui modellato pieno traspare sotto una tunica aderente. Il volto è quello di una leonessa, cinto da una massiccia criniera che assume, nella parte inferiore, l’aspetto di una tipica parrucca tripartita. Nell’arte egizia sono molto frequenti le immagini divine composite, in cui le parti antropomorfe si uniscono a quelle zoomorfe, proprie dell’animale sacro alla divinità raffigurata. Nel caso di Bastet l’animale che compare più spesso associato al suo culto è il gatto, anche se nelle epoche più antiche la dea era effigiata soprattutto con la testa di leonessa (come in questo esemplare). La leonessa e il gatto non sono altro che due diversi aspetti (più aggressivo il primo, più mansueto il secondo) della stessa divinità felina impersonata da Bastet. Sul pilastro dorsale e sulla base della statuetta sono incisi, entro cartigli, i nomi di Piankhy, il faraone nubiano che completò la conquista dell’Egitto, e della sposa reale Kenensat.Bibliografia: Leclant 1962, pp. 203-207, tavv. LXVIII, LXIX.

(Silvia Einaudi)

3 · pag. 38

Ushabty di Taharqo

SieniteAltezza cm 30Nuri (Sudan), Piramide I, TaharqoXXV dinastia, regno di Taharqo (690 -664)Museum of Fine Arts, Boston. Harvard University-Boston Museum of Fine Arts Expedition, 20.231(Courtesy, Museum of Fine Arts, Boston)

4 · pag. 49

Ushabty di Taharqo

Sienite Altezza cm 20, larghezza cm 10; profondità cm 6Nuri (Sudan), Piramide I, TaharqoXXV dinastia, regno di Taharqo (690 -664)Museum of Fine Arts, Boston. Harvard University-Boston Museum of Fine Arts Expedition, 20.237(Courtesy, Museum of Fine Arts, Boston)

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L’enigma di Harwa

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Schede reperti

5 · pag. 53

Ushabty di Taharqo

Travertino (Alabastro egiziano)Altezza cm 33,6Nuri (Sudan), Piramide I, TaharqoXXV dinastia, regno di Taharqo (690 -664)Museum of Fine Arts, Boston. Harvard University-Boston Museum of Fine Arts Expedition, 20.2907(Courtesy, Museum of Fine Arts, Boston)

I tre ushabty fanno parte degli oltre mille riportati alla luce da George A. Reisner durante gli scavi della Piramide I di Nuri (Sudan). Grazie proprio al loro ritrovamento e a quello di altri elementi iscritti del corredo funerario, è stato possibile ascrivere il monumento funerario a Taharqo. Gli ushabty si trovavano accumulati all’interno della camere funeraria. Sono realizzati in varie pietre (alabastro egiziano, granito, sienite e serpentino) e sono caratterizzati in modo diverso, sebbene ognuno di essi rechi un modellato volutamente “arcaicizzante”, in presa con il gusto e lo stile dell’epoca. Uno dei tre ushabty (catalogo 3) deve essere considerato impersonare un capo-squadra, visto che, al posto delle tradizionali zappe, stringe tra le mani il flagello e lo scettro. Le due statuine in sienite (il caratteristico granito di colorazione rossa della regione di Assuan) hanno lineamenti del viso marcati e l’ovale pieno. In quella in travertino questi stessi tratti risultano molto più fini, anche se il modellato della figura restituisce un voluto senso di incompiutezza. L’ushabty con le insegne della regalità appare quello di migliore qualità artistica, negli altri due è immediatamente percepibile una sproporzione tra parte superiore e inferiore. È possibile che, seguendo una tradizione almeno millenaria, alcune delle statuine del corredo funerario di Taharqo siano state realizzate per conto di funzionari e cortigiani. Depositando un ushabty nel sepolcro del sovrano, questi avrebbero voluto manifestare il loro desiderio di continuare a servirlo nell’aldilà.Bibliografia: Duhnam 1951.

(Francesco Tiradritti)

6 · pag. 56

Statua di Mut o di una regina

Diorite Altezza cm 64,5, larghezza cm 15; profondità cm 8,5 Provenienza ignotaXXV dinastia (?)Musée du Louvre,Département des Antiquités Égyptiennes, E 25456

L’identificazione di questa statua non può essere del tutto certa per il fatto che essa è anepigrafe. In mancanza di un’iscrizione che consenta di attribuire un’identità a questa figura femminile, si possono solamente avanzare ipotesi sulla base dell’iconografia. La statua, purtroppo frammentaria (priva del braccio sinistro e della parte inferiore delle gambe), raffigura una donna dal corpo pieno vestita con un abito aderente che sottolinea le rotondità delle sue forme. Il volto è cinto da una parrucca tripartita, con tre urei sulla fronte, e coperta da una spoglia di un avvoltoio. Sopra le testa svetta la Doppia Corona, simbolo della sovranità sull’intero Egitto. Questi elementi sono, al tempo stesso, emblemi di regalità e di divinità, e da essi deriva la doppia interpretazione di questa statua come immagine di una regina anonima o della dea Mut, venerata nel grande tempio di Karnak come consorte di Amon. Bibliografia: PM VIII.2, p. 1106; Vandier 1961, p. 247-254, fig. 5, 7 ; Stanwick 1999, p. 107, n. 267.

(Silvia Einaudi)

7 · pag. 63

Statua di Akhimenru

Granito nerocm. 46,5 x 11,5Provenienza ignotaXXV dinastia (post 680 a.C.)Musée du Louvre,Département des Antiquités Égyptiennes, E 13106

Akhimenru ricoprì l’incarico di Grande Maggiordomo della Divina Adoratrice subito dopo Harwa, nel periodo in cui il titolo religioso femminile era detenuto da Shepenupet II. Nella realizzazione della propria tomba Akhimenru sfruttò una porzione del corridoio perimetrale della tomba di Harwa, sottoponendolo a una serie di modifiche e ampliamenti per adattarlo allo scopo. Di Akhimenru sono note almeno sette statue, tra le quali questa che lo raffigura stante, addossato a un largo pilastro dorsale e vestito con un lungo gonnellino. Il volto, dall’espressione seria, è cinto da una parrucca liscia e voluminosa; il petto nudo è decorato con un’immagine incisa del dio Osiride, il cui culto godette di un nuovo e particolare favore a Tebe proprio durante la XXV dinastia. Le iscrizioni geroglifiche incise sul pilastro dorsale contengono formule d’offerta in favore di Akhimenru, di cui sono riportati il nome, i titoli e la genealogia anche sulla parte anteriore del gonnellino. Bibliografia: Lichtheim 1948, p. 167, pl. XII.

(Silvia Einaudi)

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L’enigma di Harwa

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Schede reperti

8 · pagg. 187,188

Sarcofago di Meritamon

Legno ricoperto di tela gessata e dipinta Altezza cm 186; larghezza cm 56Provenienza ignotaMetà del VII secolo a.C.Musei Civici, Museo Archeologico di Padova, inv. 141

Uno dei reperti di maggiore importanza del Museo agli Eremitani può essere direttamente collegato con Harwa e la sua famiglia. Si tratta del sarcofago della cantatrice di Amon Meritamon, che fu portato in Italia e donato alla città di Padova da Gaetano Rossi alla metà del XIX secolo. Il sarcofago può essere datato tra la metà e la fine del VII secolo a.C. e le iscrizioni affermano che Meritamon era figlia “del nobile, del principe Harwa”. Sebbene esistano altri personaggi con lo stesso nome, i titoli possono essere riferiti soltanto al proprietario della tomba TT 37. Tale indizio appare ulteriormente rafforzato dalla datazione del sarcofago, che lo porrebbe in un’epoca contemporanea o di poco posteriore a quella in cui visse Harwa. Il sarcofago di Meritamon si pone così come un ulteriore e importante tassello per la ricostruzione della storia e del personaggio di Harwa a cui le iscrizioni nella tomba attribuiscono almeno tre figli maschi, senza però fare alcun accenno né a una sposa, né a una figlia. Bibliografia: Dolzani 1968; Padova 1981, pp. 3-11; Siliotti 1987, pp. 109-110; Zampieri 1994, pp. 167-168.

(Beniamino Lavarone)

9 · pag. 104

Bronzetto del dio Amon-Ra

Bronzo Altezza cm. 16Provenienza ignotaTerzo Periodo IntermedioMuseo Egizio di Torino, Cat. 88

Il bronzetto fa parte di una serie di statuine simili raffiguranti la stessa divinità, acquisite dal Museo torinese nel corso degli anni. Il dio, con indosso un gonnellino, è effigiato in posizione incedente, con il braccio destro disteso lungo il fianco e quello sinistro piegato in avanti. Il capo è cinto dal modio (un copricapo cilindrico) su sui svettano le due alte piume

impreziosite dal disco solare. Tali elementi consentono di individuare in questa immagine Amon-Ra, la principale divinità tebana alla quale era stato consacrato il grande santuario di Karnak. Amon-Ra nasce dall’assimilazione di due diversi dei: Amon e Ra. Il primo era diventato, con l’avvento del Medio Regno, il patrono della provincia di Tebe sino ad assurgere, nel Nuovo Regno, a dio nazionale; il secondo invece è l’antico dio-sole già venerato nell’Antico Regno. Dalla loro unione nacque quindi una nuova divinità suprema, i cui sacerdoti arrivarono a detenere un eccezionale potere sull’Egitto meridionale durante il Terzo Periodo Intermedio e l’epoca tarda. Il culto di Amon fu seguito anche dai sovrani nubiani della XXV dinastia, i quali ritenevano che la vera sede del dio fosse la montagna nubiana del Gebel Barkal, che sovrastava l’antica città di Napata da cui essi provenivano.

(Silvia Einaudi)

10 · pag. 107

Ushabty di Shepenupet II

Pietra nera Altezza cm 10,67; larghezza cm 6,83; profondità cm 4,7Provenienza ignotaXXV dinastiaMusée du Louvre,Département des Antiquités Égyptiennes, E 11159

L’incarico di Divina Adoratrice veniva trasmesso tramite adozione, dal momento che il requisito fondamentale per le donne che ricoprivano questo alto incarico sacerdotale era l’osservanza del nubilato, con la conseguente mancanza di una discendenza diretta. Con l’avvento della XXV dinastia il titolo fu assegnato a principesse della famiglia reale nubiana, la prima delle quali fu Amenirdis I, che adottò poi come sue erede Shespenupet II, figlia del sovrano Piankhy. I cartigli con i nomi di questi ultimi due personaggi compaiono sul corpo di questo ushabty frammentario appartenuto alla Divina Adoratrice Shepenupet II, sotto la quale l’incarico religioso raggiunse il massimo grado di importanza e potenza. Bibliografia: Aubert, Aubert, 1974, p. 197 ; Boreux 1932.II, pp. 324, 353.

(Silvia Einaudi)

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L’enigma di Harwa

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Schede reperti

11 · pag. 120

Cono funerario di Amenirdis I

Argilla Diametro cm 8; lunghezza cm 16Provenienza ignotaXXV dinastiaMusée du Louvre,Département des Antiquités Égyptiennes, E 863

Questo particolare tipo di oggetto, di destinazione funeraria, fece la sua comparsa in Egitto durante l’XI dinastia ed è attestato sino all’epoca tarda. Nella necropoli tebana sono stati rinvenuti migliaia di coni simili a questo, realizzati in terracotta, con la superficie tonda iscritta. I testi ivi riportati contengono solitamente il nome e i titoli del defunto al quale apparteneva ciascun cono funerario, la cui funzione era principalmente decorativa. Con ogni probabilità i vari coni erano infatti inseriti, nel senso della lunghezza, nell’intonaco al di sopra della porta di accesso alla tomba, in modo da formare un fregio continuo di dischi iscritti, con lo scopo di identificare inequivocabilmente il proprietario del monumento funebre. Questo esemplare riporta sulla superficie circolare l’immagine di un uomo inginocchiato con le braccia sollevate in atto di adorazione di fronte a due cartigli, contenenti rispettivamente i nomi di Amenirdis e Kashta. Amenirdis I era la divina adoratrice sotto la quale Harwa prestò servizio come Grande Maggiordomo, mentre Kashta era il di lei padre, nonché il sovrano nubiano che diede l’avvio alla conquista della Nubia, a seguito della quale i suoi diretti discendenti sarebbero arrivati a estendere il dominio su tutto l’Egitto. Bibliografia: Pierret 1873, scheda n. 445; Davies, Macadam 1957, n. 584.

(Silvia Einaudi)

12 · pag. 109

Ushabty di Amenirdis (I ?)

Pietra Altezza cm 21; larghezza cm 6,4; profondità cm 4,26Provenienza ignotaXXV dinastiaMusée du Louvre,Département des Antiquités Égyptiennes, N 647

Gli ushabty costituiscono una delle componenti più tipiche e ricorrenti di ogni corredo funerario egizio sin dal Medio Regno. Destinati ad

accompagnare il defunto nella sua vita postuma come fedeli e indefessi servitori, gli ushabty erano tenuti a svolgere i lavori nei campi dell’aldilà (semina, irrigazione, raccolto) per garantire la sopravvivenza ultraterrena del loro proprietario. La funzione di lavoratori agricoli è ben sottolineata dalla presenza del cestino per rimuovere la terra e delle zappe, che queste statuine impugnano solitamente nelle mani. L’ushabty faceva parte del corredo funerario della divina adoratrice Amenirdis (I ?), il cui nome compare scritto dentro un cartiglio sul corpo della figura, all’interno della consueta formula che specifica la funzione di questi piccoli servitori. Bibliografia: Champollion 1827, scheda D 5; Pierret 1873, scheda n. 223; Aubert, Aubert 1974, p. 196.

(Silvia Einaudi)

13 · pag. 119

Testa di ariete in calcare

Nuovo Regno o XXV dinastiaCalcareAltezza cm 13Provenienza ignota (Luxor)Collezione privata

La scultura presenta un tipo di lavorazione che ne impedisce una precisa datazione, sebbene possano essere rilevate similitudini con le sfingi criocefale della fine del Nuovo Regno che bordeggiano i viali di accesso al tempio di Amon a Karnak. Il muso è reso in modo assai accurato. Tra le corna vi è un foro in cui doveva trovare alloggiamento un disco solare realizzato in altro materiale (probabilmente bronzo). Questo rende certo che si tratti di una rappresentazione di Amon nella sua forma di ariete. Il collo risulta lavorato in modo approssimativo. La testa poteva essere inserita in un corpo ferino realizzato separatamente oppure, ed è l’ipotesi più probabile date le dimensioni e il materiale, doveva fare parte della statua di un privato inginocchiato dietro l’emblema di Amon-Ra, una tipologia largamente attestata soprattutto in epoca ramesside. La lavorazione del collo potrebbe essere stata eseguita quando la testa era stata messa in vendita sul mercato dell’antiquariato ed era intesa rendere il frammento completo e valevole di per se stesso.Bibliografia: F. Tiradritti in Pamplona 1997, p. 38; F. Tiradritti in Tiradritti 1999D, cat. 19, pp. 33, 162.

(Francesco Tiradritti)

Page 112: L'Enigma Di Harwa

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L’enigma di Harwa

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Schede reperti

14 · pag. 54

Statua di coppia stante

Basalto Altezza cm 48,9; larghezza cm 26,8; profondità cm 16,9Provenienza ignotaXXV-XXVI dinastiaMusée du Louvre, Département des Antiquités Égyptiennes, A 89

Questa statua doppia appartiene all’ambito privato. Raffigura due coniugi stanti, secondo un’iconografia piuttosto diffusa nella tradizione scultorea dell’antico Egitto, dove le immagini di coppie, con o senza figli, servivano a perpetuare nella memoria dei posteri profondi e antichi sentimenti di amore famigliare. La donna appare stante, mentre il marito è in posizione incedente. I loro corpi sono ben modellati in modo da mettere in risalto la muscolatura e le forme arrotondate, con particolare attenzione ai volti, incorniciati da massicce parrucche. Le due figure sembrano emergere dalla lastra posteriore che serve da supporto e sulla quale sono incise alcune iscrizioni geroglifiche che trasmettono i nomi dei due coniugi: Untel, cancelliere del re del Basso Egitto, e sua moglie Hathor. La tipologia della scultura tradisce evidenti legami con la produzione artistica dell’Antico Regno, mostrando, in particolare, analogie con le celebri triadi del faraone Macerino. Questa statua può quindi essere ritenuta un chiaro esempio di arte “rinascimentale” egizia. Bibliografia: Bothmer et alii 1960, p. 8; Bothmer 1970, p. 44, fig. 18, tav. 11 (documento X);Capel, Markoe 1997, p. 207, n. 9.

(Silvia Einaudi)

15 · pag. 69

Statua cubo di Merenptah

Pietra silicea con venature Altezza cm 40; larghezza cm 20; profondità cm 25Provenienza ignotaXXV dinastiaMuseo Egizio di Torino, Cat. 3063

Questa scultura rientra nella tipologia delle “state cubo” che, comparse durante il Medio Regno, furono oggetto di una particolare diffusione durante la XXV dinastia, come dimostrano anche i diversi esemplari appartenuti a Harwa. La statua raffigura un sacerdote di nome Merenptah seduto con le gambe piegate e le braccia incrociate sopra le ginocchia. A differenza delle coeve statue cubo di Harwa, caratterizzate da volumi più astratti,

qui i piedi sono ben visibili e le gambe risultano modellate lateralmente, a dimostrazione di una maggior ricerca di realismo, ulteriormente sottolineata dalla scelta del materiale che, con le sue striature, contribuisce ad accentuare la plasticità dell’intera figura. La voluminosa parrucca liscia inquadra un volto caratterizzato da lineamenti molto marcati con i quali si sono voluti rendere i tratti fisionomici del personaggio. Il nome e i titoli di Merenptah sono contenuti nell’iscrizione geroglifica incisa su più linee sulla superficie anteriore della statua, che sembra riprodurre una gonna aderente lunga sino alle caviglie.

(Silvia Einaudi)

16 · pag. 71

Frammento di rilievo

Pietra calcareaAltezza cm 15,8; larghezza cm 25,1Provenienza ignota(Riva ovest di Luxor, Tomba di Harwa, TT 37)XXV dinastia (700 - 680)Museum of Fine Arts, Boston. Hay Collection.Gift of C. Granville Way, 72.692(Courtesy, Museum of Fine Arts, Boston)

Si tratta di tre frammenti contigui e restaurati provenienti dalla scena con paesaggio palustre incisa sulla parete meridionale del cortile della tomba di Harwa. Vi sono riprodotti tre personaggi, quello centrale pressoché completo, su un’imbarcazione. Sullo sfondo si intravedono gli steli e un fiore di papiro. Il trattamento dell’ambiente, con gli steli che si dispongono su linee verticali parallele, ricorda l’arte dell’Antico Regno in cui prevale una marcata ricerca di geometria e astrazione. Nei rilievi di Harwa la superficie bidimensionale è suddivisa in quattro piani diversi (visibili qui nel braccio sinistro del personaggio centrale che stringe il remo) che attribuiscono maggiore profondità e movimento alla figurazione. Anche il remo, che si dispone su una linea obliqua rispetto agli steli del papiro contribuisce ad attribuire questo senso di movimento.I tre frammenti facevano parte della collezione di Robert Hay (1836). Furono donati al MFA da C. Granville Way, il cui padre aveva acquistato parte delle antichità egizie di Hay presso un antiquario londinese. Quando entrarono in museo non erano ancora stati restaurati. Bibliografia: Smith 1949, p. 25, fig. 7; Russmann 1983.

(Francesco Tiradritti)

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L’enigma di Harwa

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Schede reperti

17 · pag. 193

Frammento superiore di ushabty di Harwa

GranitoAltezza cm 12; larghezza cm 7,6Provenienza ignota (Riva ovest di Luxor, Tomba di Harwa, TT 37)XXV dinastia (700 - 680)Museum of Fine Arts, Boston. Hay Collection.Gift of C. Granville Way, 72.745(Courtesy, Museum of Fine Arts, Boston)

Il frammento è spezzato poco sotto le braccia. Il volto è pieno e lineamenti del viso, incorniciato dalla classica parrucca tripartita e dalla barba posticcia, sono estremamente marcati. Le braccia sono conserte: la mano destra stringe lo scettro, la sinistra il flagello, le insegne della regalità faraonica. Si tratta, naturalmente, di un capo-squadra. Di regola questa tipologia è riprodotta con due fruste. Il fatto che si sia scelto qui di sostituirle con il flagello e lo scettro, trova risconto soltanto nei corredi funerari dei sovrani (cfr., per esempio, Catalogo 3) e in un secondo ushabty di Harwa, riportato alla luce durante gli scavi della tomba (HRW 1997 R 200). Non sono attestati altri esempi provenienti da sepolture di privati. Al di sotto della braccia si conservano due linee di geroglifici con l’inizio del Capitolo VI del libro dei morti: “O questo ushabty, quando il Conoscente del Sovrano Harwa verrà chiamato a svolgere i lavori…”La statuina entrò a far parte della collezione di Robert Hay nel 1836. La sua provenienza dalla tomba di Harwa (TT 37), sebbene sia verosimile, è perciò soltanto ipotizzabile. È stato donato al MFA da C. Granville Way, il cui padre aveva acquistato parte delle antichità egizie di Hay presso un antiquario londinese.Bibliografia: T. Kendall in Barcellona 2003, p. 165, n° 76.

(Francesco Tiradritti)

18 · pag. 171

Statuetta votiva del dio Osiride

Bronzo a fusione piena, mancante della parte inferioreAltezza cm 14,5; larghezza cm 5,8; profondità cm 5,5Provenienza ignotaEpoca tarda (600 – 300 a.C.)Collezione privata

La statuina rappresenta il dio Osiride seduto secondo la tipica iconografia che vuole il suo corpo completamente avvolto nelle bende. Ha le braccia conserte e stringe nelle mani il flagello e lo scettro. Indossa la corona- atef

formata dalla corona bianca fiancheggiata da due piume. Ben visibile è l’ureo, simbolo di regalità, che serpeggia al centro della corona. Il viso, modellato in maniera raffinata e dal sorriso enigmatico, è caratterizzato da due occhi allungati (di cui uno ha conservato l’incrostazione in argento), un naso sottile e ben delineato, due labbra carnose e una barba posticcia. Il dio era collegato alla fertilità della terra, e rappresentava la vegetazione che muore e risorge in un eterno ciclo vitale. Garante della sopravvivenza umana era ritenuto sovrano dei defunti e re dell’aldilà.Queste statuette votive furono prodotte in gran quantità durante la XXV-XXVI dinastia secondo un programma di recupero di modelli antichi da parte dei sovrani nubiani e saitici.Molte di esse fanno parte di collezioni museali e private di tutto il mondo.

(Solange Zanni)

Page 114: L'Enigma Di Harwa

223

Bibliografia generale

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BSFE = Bulletin de la Société Française d’Égyptologie (Paris).

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Page 115: L'Enigma Di Harwa

224

L’enigma di Harwa

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VA = Varia Aegyptiaca (San Antonio).

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L’enigma di Harwa

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L’enigma di HarwaAlla scoperta di un capolavorodel Rinascimento Egizio

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