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1 Liceo classico “Jacopo Stellini” - Udine Una nuova Beatrice: salvezza e grazia per Dante Purgatorio XXXI

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Liceo classico “Jacopo Stellini” - Udine

Una nuova Beatrice:

salvezza e grazia per Dante

Purgatorio XXXI

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Introduzione

Dante, insieme con Virgilio e Stazio, è in cima alla montagna del Purgatorio, nel Paradiso Terrestre:

è un luogo meraviglioso, attraversato da un gradevole venticello, ornato di alberi rigogliosi e

allietato dalla presenza di uccellini che intonano un canto soave.

Dante segue Matelda lungo il fiume Lete, quando viene invitato dalla giovane donna a fermarsi e a

prestare attenzione a quello che sta per succedere: Frate mio, guarda e ascolta (Purg. XXIX 15).

All’improvviso un forte bagliore attraversa la foresta, mentre una melodia armoniosa si diffonde

nell’atmosfera luminosa: l’aria sottostante i verdi rami della foresta diviene tal qual un foco acceso

(Purg. XXX 34) e il dolce suono indistinto di poco prima è ormai riconoscibile come un coro di

voci.

A questo punto inizia una processione simbolica1, aperta da sette candelabri e chiusa da sette

vecchi: al centro c’è ―la sempre desiderata, smarrita e ritrovata Beatrice‖ (Boitani) su un carro

guidato dal grifone. Ventiquattro anziani seguono i candelabri cantando un inno a Maria: ―uno di

loro, che rappresenta il Cantico dei Cantici, intona tre volte il verso Veni, sponsa, de Libano,2 e gli

altri lo seguono quasi in rito gregoriano, immediatamente riecheggiati, come in polifonia, dai

moltissimi angeli presenti, che pronunciano Benedictus qui venis (Boitani). 3

Per immaginare tale spettacolo che si presenta di fronte agli occhi di Dante ci siamo affidati alle

illustrazioni della processione. Infatti da sempre la Commedia ha suscitato grande interesse

nell’animo di artisti appartenenti alle epoche più disparate, i quali hanno cercato di dare forma

attraverso l’arte figurativa ai versi danteschi. Ogni pittore, dai miniaturisti a Glaser, si è espresso in

un suo particolare linguaggio.

Nel MS. Holkham misc. 48 p. 108, ad esempio, l’abile miniaturista ha cercato di rendere l’intera

processione, fornendone un quadro generale e complessivo, una visione dall’alto, seppur molto

dettagliata e particolareggiata. La processione è aperta, a partire da destra verso sinistra, dai sette

candelabri, tre nella parte superiore e quattro in quella sottostante, seguiti da quindici anziani (in

luogo dei ventiquattro del testo dantesco), vestiti con un candido velo, alcuni con la testa cinta di

corone di candido giglio, altri reggendo nelle mani un libro aperto, rivolgendo tutti lo sguardo verso

l’alto, e intonando all’unisono l’inno celestiale. Spicca al centro della miniatura, alle spalle degli

anziani, il grifone, la doppia fiera- in cui sono ben visibili entrambe le nature, la testa e le ali di

aquila, il corpo di leone -, che trascina dietro a sé il carro e sul quale appare un angelo con un abito

di un viola molto acceso.

Alla destra del carro (ponendosi in qualità di spettatore dinnanzi ai candelabri, dallo stesso punto di

vista da cui lo stesso Dante osserva la processione) si trovano le tre virtù teologali, vestite dei

rispettivi colori; mentre, a sinistra, ci sono le quattro virtù cardinali, vestite di bianco. Ai quattro

angoli del pertrattato nodo ci sono gli Evangelisti, raffigurati per mezzo degli animali che li

caratterizzano: Marco, il leone, Matteo, l’angelo, Giovanni, un’aquila e Luca, un bue. Dietro al

carro (e non su di esso) troviamo Beatrice, vestita (diversamente dalla descrizione delle terzine del

poeta) di viola e col capo cinto di un velo bianco, che però non cela i tratti angelici del suo volto.

Alla destra della miniatura si conclude la processione: si identifica facilmente la figura di un

guerriero, con una spada in mano, simbolo delle Epistole Paoline.

Seguono poi gli ultimi seniori del corteo, che è rappresentato su fondo monocromo e avanza su un

terreno arido e brullo, dove qua e là cresce una scarsa vegetazione.

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A questa immagine ci piace accostare l’incisione raffigurante la processione di Gustave Dorè,

pittore e incisore francese (Strasburgo, 1832 – Parigi, 1883).

Questi è noto soprattutto per avere trasformato in immagini le celebri terzine del poema dantesco

(effettuate tra 1861 e 1868), anche se fu valente illustratore di numerosissime altre opere (tra cui per

esempio il Don Chisciotte di Cervantes, l’Orlando Furioso di Ariosto e il Paradise Lost di Milton).

La sua arte accosta un gusto tipicamente romantico ad una visione epica e drammatica della realtà,

contando su una salda preparazione tecnica, che rende le sue illustrazioni capolavori di grande

virtuosismo.

Nell’incisione riportata - che come in tutti i casi è stata effettuata su legno- in un’atmosfera

piuttosto cupa e per nulla rassicurante (non bisogna infatti dimenticare che Dante si trova ancora nel

Purgatorio e non in Paradiso), Dorè ha scelto di rappresentare la parte iniziale del corteo descritto

già a partire dal canto XXIX: visibili sono infatti i seniori, i quali, proprio come afferma il poeta, a

due a due avanzano solennemente, vestiti di bianco e cinti di corone di fiordaliso, simbolo di

purezza, esaltata davanti agli occhi dello spettatore anche grazie alla luce soffusa, che si diffonde

sulle loro figure e che contribuisce a creare un forte contrasto chiaroscurale con lo sfondo.

Alle loro spalle, in lontananza, si scorge l’imponente grifone, rappresentato quasi come un animale

feroce, con le ali spiegate e il capo rivolto verso l’alto e, dietro esso, seguono un leone e un’aquila,

simboli rispettivi degli Evangelisti Marco e Giovanni, che nella descrizione di Dante si trovano in

corrispondenza di due dei quattro angoli entro il quale è collocato il carro triunfale, simbolo della

Chiesa.

Il paesaggio è realistico: la processione emerge da un bosco fitto, oscuro e a tratti addirittura

inquietante- l’oscurità è infatti interrotta soltanto sullo sfondo, in cielo, grazie alla presenza di

numerose stelle sfavillanti- e avanza su un terreno brullo e privo di vegetazione, ma che tuttavia

testimonia che nel Purgatorio si ritorna alla dimensione dello spazio e del tempo perduta nel viaggio

nell’Inferno, il regno dei dannati.

A tal proposito notiamo altri particolari: alla sinistra della processione l’acqua del fiume Letè

incontra la riva, e si racchiude in un piccolo bacino dove cresce una rada vegetazione e in cui si

riflette la processione stessa.

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L’incisore non rappresenta quindi soltanto il testo di Dante, ma è in grado anche di trasmettere un

sentimento, lo stesso che Dante può provare nel vedere il corteo: stupore, meraviglia, ma anche

turbamento e paura.

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Diversa è l’interpretazione di Amos Nattini (1892-1985), autore tardo simbolista di gusto

dannunziano, che immortala l’arrivo di Beatrice raffigurandola ritta sul carro, trainato da un

candido grifone dalle ali dorate, che si staglia verticalmente su un cielo dalle tinte luminose,

circondato da un corteo danzante.

Ciò che cattura l'attenzione dell'osservatore è l'utilizzo di colori accesi e vivaci che caratterizzano

non soltanto le vesti delle fanciulle, ma anche l'intero paesaggio: verde, rosso e bianco dominano la

scena; il primo, simbolo di speranza, lo si ritrova anche nel manto erboso e nella chioma degli

alberi, il secondo, emblema di carità, è concentrato nel centro della composizione e il terzo,indice di

fede, aleggia come una nube alle spalle dell'animale, trasportandoci in una dimensione ultraterrena.

Amos Nattini, Purgatorio XXXI

Quando il settentrion del primo cielo

(Princeton Dante Project)

Fra canti angelici e avvolta in una nuvola di fiori 4 ―velata di bianco e incoronata d’ulivo‖

(Pasquini-Quaglio) appare sotto verde manto Vestita di color di fiamma viva (Purg. XXX 33)

Beatrice, la donna paradisiaca. 5

Dante, turbato, cerca l’aiuto e il sostegno di Virgilio, ma il poeta latino è scomparso: Ma Virgilio

n’avea lasciati scemi di sé, Virgilio dolcissimo patre, Virgilio a cui per mia salute die’mi (Purg.

XXX 48-50). Il suo posto ora è preso da Beatrice.

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Come sostiene Pasquini (Pasquini-Quaglio), sul piano allegorico non vi sono problemi: a Virgilio,

la ragione umana, succede la sapienza divina, Beatrice; ma ―per ciò che riguarda lo spessore

letterario del testo, le cose non sono così semplici‖.

Nell’apparizione della donna amata e nell’addio a Virgilio compaiono riferimenti alla Vita Nuova e

all’Eneide, infatti Dante, che per tanto tempo era rimasto senza provare lo sconvolgimento che gli

provocava la vista di Beatrice, riprende i motivi del turbamento amoroso più volte descritti nel

prosimetro, sottolineando il tremore dinanzi ai segni dell’antica fiamma, parole che traducono

quelle pronunciate da Didone (Eneide IV 23 Adgnosco veteris vestigia flammae: la regina

cartaginese rivela alla sorella Anna il proprio amore per Enea) e che ci preparano alla scena

culminante del poema (Boitani).

Stilnovo ed Eneide caricano la scomparsa di Virgilio di pathos a tal punto che Dante scoppia a

piangere, sporcando di nuovo le proprie guance pulite da un rito di purificazione prima di entrare

nel Purgatorio (Purg. I 121-129).

A fermare il suo spontaneo e naturale pianto interviene bruscamente Beatrice, autoritaria ed austera,

chiamandolo per nome: unica volta in tutta la Commedia6.

La sua è una presenza severa e imperiosa come quella di un ammiraglio che in poppa e in prora/

viene a vedere la gente che ministra/ per li altri legni, e a ben far l’incora (Purg. XXX 58-60).

Ed è la stessa Beatrice che, nelle terzine seguenti, con sarcasmo e ironia fa abbassare gli occhi di

Dante facendolo aspramente vergognare e provocando in suo favore l’intervento degli angeli che

intonano il salmo XXX (In te, Domine, speravi – Purg. XXX 83), quasi come a sostituire la voce

paralizzata del poeta, ―In te, Signore, ho sperato‖.

Nuovamente travolto dalla vergogna, Dante scoppia in pianto.

In risposta agli angeli, ma in realtà rivolta a lui seppur non direttamente, Beatrice espone infine le

colpe del poeta, il suo traviamento e il suo diessi altrui- l’amore per la donna gentile e lo studio

della filosofia, incapace di raggiungere e svelare la verità ultima- l’infedeltà a se stesso, privo di

fermezza morale, e la sua superbia intellettuale, temi sviluppati nella loro totalità nel canto

successivo, il XXXI.

Questo è il canto che abbiamo deciso di analizzare in quanto riteniamo che esso, nonostante formi

―un solido blocco con il precedente‖, rappresenti ―la resa dei conti di Dante con se stesso‖

(Pasquini) e chiarisca il ruolo di Beatrice.

Ancora una volta le immagini aiutano ad evocare l’incontro e ci rendono partecipi .

L'aspetto coloristico prevale indiscusso nel dipinto immaginifico di William Blake, artista e poeta

inglese preromantico, noto per il suo inconfondibile stile visionario (1757-1827) : "Beatrice si

rivolge a Dante dal carro", dove, ancora una volta, protagoniste sono le tonalità rosse e verdi con

cenni di bianco.

E' un trionfo di luce: i colori si mescolano tra loro in modo vorticoso, trasportando il pubblico nel

mondo del Purgatorio, una dimensione qui resa senza spazio né tempo.La scena sembra infatti

sospesa in un'atmosfera fantastica.

Suggestiva è dunque la resa dei versi 28-33: Così dentro una nuvola di fiori / che dalle mani

angeliche salive / e ricadeva in giù dentro e di fori, / sovra candido vel cinta d'uliva / donna

m'apparve, sotto verde manto / vestita di color di fiamma viva.

Se nella prima illustrazione Beatrice ci appare già un'entità celeste, è evidente come in quest'opera

Blake voglia ricordare il lato più femminile e umano della donna: la veste rossa lascia infatti

scorgere le fattezze della splendida fanciulla che, come sottolinea Dante stesso nel canto XXXI ai

versi 82-84 Sotto 'l suo velo e oltre la rivera / vincer pariemi più se stessa antica, / vincer che l'altre

qui, quand'ella c'era, appare agli occhi del poeta ancor più bella di quando era viva.

Originale è l'interpretazione del maestro inglese, il quale ha lasciato un'impronta indelebile nella

tradizione pittorica di rielaborazione del testo dantesco.

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William Blake, Beatrice mostra la via a Dante (it.wikipedia.org/wiki/William_Blake)

Particolare anche l’interpretazione di Alberto Martini (Oderzo, 1876- Milano 1954).

Egli, disegnatore, illustratore e pittore, simbolista e precursore del surrealismo, a partire dal 1901

sceglie di curare un’edizione illustrata della Divina Commedia.

Nel 1937 realizza Beatrice (Purgatorio XXX), guazzo colorato su cartoncino, nel quale sceglie di

rappresentare la donna amata durante la sua epifania davanti agli occhi del poeta. Ciò che colpisce

maggiormente è sicuramente la vivacità delle tinte dell’abito, tesa a risaltare la bellezza divina della

donna che venne sulla terra a miracol mostrare. Il rosso è simbolo di carità, ma qui inevitabilmente

rimanda anche alla sfera della passione e dell’amore; Beatrice indossa un manto verde, la speranza,

mentre è sovra candido – manto che, anche se alla sua apparizione nel canto XXX la donna appare

col viso celato, qui non nasconde la sua bellezza- cinta d’uliva, simbolo di pace e di giustizia.

Gli angeli non la ricoprono di fiori e neppure viene rappresentato il corteo che la precede, proprio

perché qui tutto si concentra sulla figura di Beatrice e la sua bellezza.

Particolare rilievo hanno infatti i tratti del volto, evidenziati da tratti precisi e studiati, che mettono

in risalto le sue due bellezze: gli occhi, i suoi smeraldi, che sono quasi come degli specchi, e la sua

bocca che non fa cenno ad alcun sorriso.

Come riporta Martini stesso nella sua rappresentazione, quasi ammiraglio in su la sponda del carro

vidi la donna: Beatrice è quindi austera e severa, pronta ad ammonire il Poeta in quanto errante e

peccatore.

Ella siede su una struttura simile a quella di un trono - richiamando la tipica iconografia cristiana

della Vergine con il Bambino assisa in trono - e al posto del carro troviamo qui un edificio che

probabilmente rappresenta la Chiesa stessa, di cui il pertrattato nodo è infatti allegoria.

Alle spalle della chiesa appare il capo del grifone, di cui qui tuttavia si fa risaltare soltanto la parte

umana, il leone. L’opera quindi da un lato esalta la bellezza di Beatrice, dall’altro ha un pregnante

significato simbolico-allegorico, comprensibile soltanto dopo un’attenta lettura del Canto.

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Alberto Martini, Beatrice

Anche Milton Glaser, designer newyorkese contemporaneo, ha regalato ai lettori del testo dantesco

un’interpretazione originale, dalla quale è possibile afferrare l’amore che egli nutre per l’Italia (in

cui soggiornò negli anni ’50, studiando incisione con Giorgio Morandi). Da questa passione

nascono indimenticabili rappresentazioni dedicate non soltanto al poeta fiorentino, ma anche a Piero

della Francesca e Giorgione.

L’illustratore dunque adatta il suo stile accattivante ai canti del Purgatorio, confrontandosi con la

tradizione dei grandi maestri Botticelli, Blake, Dorè. A differenza di questi ultimi l’artista predilige

le forme compatte, ponendo la sua attenzione su due aspetti fondamentali: il colore e l’iconografia

del mondo del Purgatorio.

Nella raffigurazione dedicata a Beatrice, Glaser, preferendo la sintesi alla dettagliata descrizione del

soggetto, assegna ai pochi elementi, che dominano il disegno, i colori protagonisti del canto XXIX:

il rosso, il verde, il bianco non sono soltanto ritrovabili infatti nella figura della fanciulla

(evidenziando le virtù che la caratterizzano), ma anche in quella del grifone, non più candido come

nell’opera di Nattini, ma immortalato con le tre tinte sopra citate, che qui si stemperano.

Il blu intenso regna nello sfondo donando un’atmosfera indefinita all’immagine e privando la scena

di una reale collocazione spazio-temporale (a differenza delle illustrazioni di Waterhouse e Nattini

in cui il paesaggio è ripreso con cura del dettaglio).

Degna di nota è la simbologia ripresa dal designer. Sul capo di Beatrice aleggia vibrante la corona

d’ulivo, elemento presente nell’iconografia dantesca. Il volto della fanciulla è inoltre coperto da un

velo stilizzato, dalla forma geometrica, che ne cela la bellezza travolgente.

Come Blake, anche Glaser mette in risalto le sensuali fattezze femminili apprezzabili dalla veste

semitrasparente, da cui spicca la mano sinistra, sollevata, in guisa di richiamo e ammonimento: il

gesto sottolinea così l’autorità morale e il ruolo di guida spirituale di cui si fa ora portatrice l’eroina

della Divina Commedia.

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Milton Glaser, Beatrice

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Analisi del canto XXXI

Dal punto di vista della struttura esterna il canto è suddivisibile in quattro sequenze (Pasquini 4-5):

vv. 1-63: Beatrice si rivolge direttamente a Dante aggravando i rimproveri. Qui avviene la

confessione, dopo la memoria del traviamento;

vv. 64-90: Dante sviene per il rimorso, dopo essere stato invitato a guardare la sua nuova

bellezza: un tramortimento che suggella la rievocazione dell’amore giovanile;

vv. 91-117: ripresi i sensi, Dante viene immerso da Matelda nel Lete e poi affidato alle Virtù

cardinali;

vv. 118-145: per intercessione delle Virtù teologali, Beatrice disvela interamente il suo

volto: di qui l’estasi del suo fedele.

Mazzoni ritiene invece che il canto debba essere diviso in tre parti: 1) vv.1-75, continuazione dei

rimproveri di Beatrice; 2) vv. 76-111, contemplazione della ―figura‖ di Cristo da parte di Beatrice,

pentimento di Dante e rituale liturgico; 3) vv. 112-145, passaggio dall’azione alla contemplazione:

Dante osserva in Beatrice-specchio le metamorfosi del Grifone, affidandosi infine nel volto divino

di lei.

Hollander suddivide, invece, il canto seguendo i tre momenti del rituale della confessione: vv.1-42

confessio oris; vv. 43-90 contritio cordis; vv. 90-145 satisfactio operis; esse sono le fasi

corrispondenti ai tre gradini della soglia attraverso cui Dante aveva fatto il suo ingresso ―rituale‖ nel

secondo regno (IX, 14 ss.): alla cui apertura (per il rito del giunco e della rugiada) si richiama

inoltre il lavacro di penitenza nel Lete.

Noi preferiamo la proposta di Pasquini perché pensiamo rispecchi meglio il susseguirsi delle

vicende con Dante come protagonista, mentre gli altri critici seguono il ritmo del rituale liturgico.

Pasquini dunque pone l’accento sull’azione drammatica, sul drama e in questo modo ci permette di

seguire più da vicino il viaggio del poeta.

SEQUENZA I

vv. 1-63

"O tu che se’ di là dal fiume sacro",

volgendo suo parlare a me per punta,

3 che pur per taglio m’era paruto acro,

ricominciò, seguendo sanza cunta,

"dì, dì se questo è vero; a tanta accusa

6 tua confession conviene esser congiunta".

Era la mia virtù tanto confusa,

che la voce si mosse, e pria si spense

9 che da li organi suoi fosse dischiusa.

Poco sofferse; poi disse: "Che pense?

Rispondi a me; ché le memorie triste

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12 in te non sono ancor da l’acqua offense".

Confusione e paura insieme miste

mi pinsero un tal "sì" fuor de la bocca,

15 al quale intender fuor mestier le viste.

Come balestro frange, quando scocca

da troppa tesa la sua corda e l’arco,

18 e con men foga l’asta il segno tocca,

sì scoppia’ io sottesso grave carco,

fuori sgorgando lagrime e sospiri,

21 e la voce allentò per lo suo varco.

Ond’ella a me: "Per entro i mie’ disiri,

che ti menavano ad amar lo bene

24 di là dal qual non è a che s’aspiri,

quai fossi attraversati o quai catene

trovasti, per che del passare innanzi

27 dovessiti così spogliar la spene?

E quali agevolezze o quali avanzi

ne la fronte de li altri si mostraro,

30 per che dovessi lor passeggiare anzi?".

Dopo la tratta d’un sospiro amaro,

a pena ebbi la voce che rispuose,

33 e le labbra a fatica la formaro.

Piangendo dissi: "Le presenti cose

col falso lor piacer volser miei passi,

36 tosto che ’l vostro viso si nascose".

Ed ella: "Se tacessi o se negassi

ciò che confessi, non fora men nota

39 la colpa tua: da tal giudice sassi!

Ma quando scoppia de la propria gota

l’accusa del peccato, in nostra corte

42 rivolge sé contra ’l taglio la rota.

Tuttavia, perché mo vergogna porte

del tuo errore, e perché altra volta,

45 udendo le serene, sie più forte,

pon giù il seme del piangere e ascolta:

sì udirai come in contraria parte

48 mover dovieti mia carne sepolta.

Mai non t’appresentò natura o arte

piacer, quanto le belle membra in ch’io

51 rinchiusa fui, e che so’ ’n terra sparte;

e se ’l sommo piacer sì ti fallio

per la mia morte, qual cosa mortale

54 dovea poi trarre te nel suo disio?

Ben ti dovevi, per lo primo strale

de le cose fallaci, levar suso

57 di retro a me che non era più tale.

Non ti dovea gravar le penne in giuso,

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ad aspettar più colpo, o pargoletta

60 o altra vanità con sì breve uso.

Novo augelletto due o tre aspetta;

ma dinanzi da li occhi d’i pennuti

63 rete si spiega indarno o si saetta".

Innanzitutto è opportuno precisare che il XXXI esordisce ex abrupto, come Inf. XVII, canto

importante nella strategia itinerale del poema.

Beatrice qui interpella Dante e questo espediente contribuisce a saldare tono e materia di questo

canto al precedente.

Hollander 1 nota che ―Beatrice’s words, perhaps reminiscent of Virgil’s to the cowering, hiding

Dante in Inf. XXXI 88-90, call his (and our) attention to the fact that he has not yet crossed Lethe,

i.e., he still has his sins in mind, as will be hammered home by vv. 11-12‖.

Secondo quanto sostiene Bosco (Bosco-Reggio) ―tale apertura ottiene l’effetto di preparare il lettore

alla confessione del poeta che è come il culmine rituale di tutta l’azione espiatoria di Dante‖. Infatti

a questo punto Beatrice chiede a Dante di intraprendere la sua confessione.

Si tratta di un colloquio-contrasto personale con la donna amata: nel canto XXX Beatrice si era

rivolta agli angeli per rimproverarlo (cfr. vv. 103-145), definendolo colui che di là piagne, adesso si

rivolge direttamente a lui.

E’ un momento carico di intensità, ben rappresentato nella miniatura in MS Egerton 943 della

British Library.

Su uno sfondo policromo – quasi come se avanzasse sullo stesso fiume Lete - procede maestoso il

grifone, creatura mitica, trascinando alle sue spalle il carro, su cui siedono Beatrice e tre donne alle

sue spalle (forse personificazione delle virtù teologali, quasi come se fossero le ancelle della donna

tanto amata dal poeta, che nel canto XXXI la invitano a disgelare il suo volto per mostrare a Dante

la sua straordinaria e ineffabile bellezza, ormai non più terrena).

Beatrice è facilmente identificabile in quanto ha il capo cinto d’un velo bianco, che tuttavia già non

le nasconde più il volto, e la sua mano destra accenna a un gesto di ammonimento nei confronti del

Poeta, il quale, a sua volta, guarda verso il carro triunfale con un’espressione corrucciata al di là del

fiume, quasi con fare malinconico - o forse vergognandosi per i rimproveri che la donna gli sta

rivolgendo.

Il paesaggio è irreale e gli unici riferimenti ad una dimensione terrena sono i quattro alberi che si

alternano sullo sfondo e interrompono la monotonia da cui esso è caratterizzato.

Del tutto assente in questa rappresentazione la processione che accompagna la visione simbolica di

Dante, e totalmente omesse sono anche le figure di Stazio e di Matelda.

MS Egerton 943 - British Library.

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Il surrealista Salvador Dalì, da sempre affascinato dalle grandi opere classiche quali la Bibbia, gli

scritti di Boccaccio, Shakespeare e Cervantes, ha anche lasciato un'importante testimonianza di sè

nelle illustrazioni del mondo dantesco tramite le sue xilografie.

In una di questa l’artista ritrae l'immediato turbamento che assale Dante dopo il passo

precedentemente citato, raffigurandolo prostrato a terra, sofferente, visto di spalle, quasi a celarne la

vergogna, in atto di portare la mano sinistra alla fronte, ponderando sulle false illusioni terrene che

lo hanno traviato in vita.

Infatti l'uso di tinte terrose esprime l'afflizione provocata dalla facile caducità terrena: Li occhi mi

cadder giù nel chiaro fonte; / ma veggendomi in esso,i trassi a l'erba, / tanta vergogna mi gravò la

fronte./ Così la madre al figlio par superba, / com'ella parve a me; perchè d'amaro / sente il sapor

de la pietade acerba.(Purg. XXX 76-81).

Salvator Dalì, Dante turbato

Questo approccio diretto è sottolineato efficacemente dall’uso di un ―repertorio bellico o

cittadinesco‖ (Pasquini) nella metafora della spada: prima per taglio, quando Beatrice parla rivolta

agli angeli, e poi per punta, ossia quando indirizza le sue parole personalmente a Dante.

L’anafora del dì (v. 5) indica l’eccitazione e l’emozione dell’intervento di Beatrice che, quasi con

tono di ammonimento, invita il suo amato alla confessione dei peccati.

Secondo Corti a questo punto ―la narrazione assume un andamento sempre più concitato, il

monologo diventa dialogo e quasi processo, il culmine dell’incontro, con la confessione di Dante, si

annuncia vicino‖.

Invece, attraverso il dipinto di John William Waterhouse (1849-1917), pittore operante in età

vittoriana ed appartenente al filone simbolista, emerge il distacco tra Dante e Beatrice che va

progressivamente a prender forma a partire da questo momento.

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Sembra di poter legger sulle labbra della donna l'apostrofe, rivolta in tono di rimprovero: O tu che

se' di là dal fiume sacro...dì, dì se questo è vero; a tanta accusa / tua confession conviene esser

congiunta.

Il poeta appare qui genuflesso, con le mani congiunte in segno di preghiera, timoroso di incontrare

lo sguardo dell'amata. L'immagine è dominata da tinte fosche, contrastanti col candore dell'abito

della fanciulla.

Tale contrapposizione è indice dell'opposizione tra il peccato di cui si è macchiato il protagonista e

la purezza della donna. L'antitesi dei due è accentuata dalla natura simmetrica del dipinto,

determinata dal letto del fiume Lete; se nella metà sinistra spicca la figura di Beatrice incorniciata

da una vegetazione di fiori bianchi, quella destra è contraddistinta da colori più cupi, a indicare lo

stato d'animo dell'autore qui ritratto.

John William Waterhouse, Dante and Beatrice (www.jwwaterhouse.com)

Nella similitudine militaresca che segue (vv. 16-21) la bocca del poeta è paragonata ad una balestra,

che spezza la sua corda e l’arco quando lascia partire il colpo da una corda troppo tesa e la freccia

giunge al bersaglio colpendolo con minor impeto (chiaro esempio di correlativo oggettivo). Lo

―spezzarsi‖ del poeta consiste qui nello scoppio in lagrime e sospiri.

Pasquini sottolinea che ―almeno un incrocio di rime e il timbro stesso di due terzine (vv. 7-12) ci

riportano ad altra eco, interna al sistema ritmico-timbrico dantesco. Sotto la soglia della coscienza,

riemerge la pausa che sottolineava il turbamento di Dante dopo le prime rivelazioni di Francesca:

scandita dalle stesse parole in rima, sia pure in ordine lievemente diverso (spense: che pense:

offense) di fronte al precedente schema (spense: offense: che pense), e dalla medesima intonazione

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(sintomatico l’interrogativo dopo pense, nell’Inferno rivolto a Dante da Virgilio, qui allo stesso

personaggio-poeta da Beatrice)‖.

Hollander aggiunge che ―it is perhaps not coincidental that Dante’s first two guides, in scenes that

are confessional in nature, both prod him to consider the conflicting natures of lust and charity with

the same question‖.

Vengono qui rievocati i disiri, che nel lessico della lirica amorosa del Duecento, e in particolare nel

repertorio di quella stilnovista, rappresentano l’acceso desiderio d’amore.

Corti fa notare che Dante aveva già usato questo termine tecnico nel V canto dell’Inferno (v. 120),

nell’episodio di Francesca, quando aveva rievocato, per condannarli, gli effetti negativi della

letteratura d’amore del suo tempo. Là disiri rimava, come qui, con sospiri, ma anche con martiri; in

questi versi invece l’ultima parola del sistema di rime collegato con disiri è aspiri, voce del verbo

aspirare che indica la tensione verso l’alto, verso la perfezione.

Riaccade nuovamente anche nell’Aldilà l’esperienza che spesso Dante aveva descritto nella Vita

Nuova: dinnanzi alla donna amata, anche solo guardandola, il poeta avverte la schiacciante forza

dell’amore e si sente mancare (come anche Purg. XXX 34-39, quando Dante vede una donna sul

carro, ma non sa che si tratta proprio di Beatrice, da lui tanto lodata e amata).

Assistiamo quindi ad un coinvolgente dialogo tra due personaggi che desiderano ristabilire un

equilibrio infranto dieci anni prima, perché con la flebile risposta del poeta il brano si trasforma in

una scena teatrale dove lo sfondo perde di valore.

Hollander nota che ―Dante’s fearful inability to speak with clarity may remind us of his similar

difficulty as he was about to take his ride on Geryon’s back (Inf. XVII 92-93)‖.

A partire dal verso 21 Beatrice rimprovera Dante di avere trascurato, dopo la sua morte, avvenuta

nel 1290, l’amore per lei: ovvero il sommo bene e conseguentemente l’amore per Dio, concetto

ripreso dalle teorie stilnoviste espresse in precedenza.

Non bisogna infatti dimenticare che ella è colei che venne in terra a miracol mostrare.

Dante con il suo traviamento perde la speme, la speranza, e inizia a passeggiare anzi (Purg. XXIX

30): si tratta di un riferimento all’abitudine degli innamorati di passeggiare davanti alla casa della

donna amata per farsi notare e per renderle omaggio) per le comodità e per gli avanzi (Purg. XXIX

28, termine mercantile).

Beatrice, in termini chiari e con dura ironia, colloca il poeta traviato tra i mercanti alla ricerca di

agevolezze, di avanzi e di guadagni validi per fini diversi da quelli da lei offerti, che gli apparvero

sul suo cammino.

Non bisogna tuttavia intendere questo ―vagheggiare‖, come afferma Mazzoni, «ridotto unicamente

in termini di volubilità erotico-sentimentale, né i rimproveri di Beatrice possono essere commisurati

alla psicologia di un’innamorata gelosa».

Il termine tratta (sostantivo derivato da trarre, nel senso di ―emettere con impeto‖) ben suggerisce

il senso di fatica che Dante deve superare per rispondere alla domanda-accusa della donna.

Inizia quindi al verso 34 la confessio oris: rilevante in modo particolare è la contrapposizione tra le

presenti cose e il si nascose riferito al viso di Beatrice, scomparso alla sua morte.

Il traviamento di Dante per la perdita di Beatrice come propone Marti ―non è solo amoroso, né solo

religioso, o intellettuale o morale o stilistico, ma più che una precisa cronaca biograficamente

rintracciabile, è il giudizio a posteriori che Dante emette sulla propria vita‖.

Falso lor piacer indica la bellezza ingannatrice delle cose terrene, e ricorre come bellezza in Inf. V

104 e sempre in questi canti.

Dal verso 37 Beatrice rivolge nuovi rimproveri a Dante, invitandolo a confessare i propri peccati

perché, anche se già noti alla corte celeste - agli angeli e a lei stessa – la confessio giova comunque

al penitente perché mitiga l’ira di Dio e lo rende misericordioso (Bosco).

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Dante è dolorosamente tornato con la memoria a quel traviamento gravido di negative conseguenze:

la selva oscura, con cui inizia il poema, per uscire dalla quale ha compiuto il viaggio-

pellegrinaggio- visione che sta raccontando in versi.

Anche in questa confessione, il linguaggio amoroso si mescola con quello di argomento morale: al

v. 35, piacer è la bellezza nella sua componente di fascino, che condusse all’innamoramento e alla

dannazione Francesca (Inf. V 104); ma in questo caso è la bellezza metaforica delle presenti cose

del v. 34, cioè di una situazione terrena transitoria alla quale Dante attribuì eccessivo valore,

ponendola sullo stesso piano del bene supremo che gli indicava Beatrice.

Dante si rivolge a lei con il ―voi‖, mentre la donna gli ha sempre dato del ―tu‖. Soltanto in seguito e

alla sua stessa altezza (Par. XXXI 79 sgg.) Dante si rivolgerà a Beatrice con il ―tu‖.

A partire dal verso 43 si evince che Beatrice ha del tutto deposto l’iniziale atteggiamento di giudice,

ma appare come figura - dominante nel Paradiso - di guida affettuosa, sapiente ed illuminante,

come maestra che risolve dubbi e chiarifica, piuttosto che come compagna amata ed amante.

Serene al v. 45 è il segnale linguistico del fatto che il traviamento di Dante non consiste in una

banale avventura amorosa: l’immagine della sirena, che da mostro qual è in realtà si trasforma in

donna bella e affascinante, è il simbolo dell’ingannevole allettamento della filosofia 7

.

Un altro segnale del carattere intellettuale del peccato dantesco si incontra qui ai vv. 55-63, con la

metafora del volo, altra figura retorica diffusa al tempo e da lui già usata in punti importanti della

Commedia, che allude a un’ambiziosa impresa intellettuale in grado, se positiva, di elevare l’animo

umano.

In questo discorso di Beatrice, le due metafore, quella del naufragio o della rotta sbagliata, eventi

causati dalle sirene, e quella del volo compaiono unite, a simboleggiare la sostanza del peccato

dantesco.

Nella figura di Beatrice al tempo della Vita Nuova si compenetravano natura e arte nella loro

perfezione, essendo una donna bellissima e un supremo simbolo poetico. I due sostantivi natura e

arte sono fusi insieme al v.49, tanto che il verbo t’appresentò è al singolare, come se fosse

concordato con un solo soggetto.

Ben altra è la felicità che deriva dal levar suso, vale a dire spiccare il volo verso Dio.

Va infatti sottolineata qui la presenza di altri elementi della metafora del volo, questa volta in una

direzione negativa, rivolto verso il basso: specialmente al v. 58, con il rimprovero Non ti dovea

gravar le penne in giuso, Dante vuole alludere ancora una volta al folle volo, gravissimo peccato di

superbia intellettuale (alla quale l’intero canto si oppone), che ha portato al naufragio, cioè alla

condanna da parte della Chiesa e alla dannazione, proprio gli aristotelici radicali, simboleggiati

dalla tragica figura di Ulisse (Inf. XXVI 125).

Il fatto che egli si trovi nel Paradiso terrestre a confessare il suo temporaneo traviamento è una

prova che Dante è riuscito a scampare da questo naufragio grazie alla mediazione di Beatrice8.

Da notare ai vv. 40 e seguenti la ―metafora tolta dalla mola dell’arrotino, che, se si volge contro il

taglio del coltello, ne smussa il filo. La confessione ottunde quindi la spada della giustizia‖ (Bosco).

Il seme del piangere è la confusione e la paura suscitate nell’animo del poeta dall’apparizione di

Beatrice e dalle sue parole, ed è perciò anche un’allusione alla difficoltà nell’interpretare il ruolo

della donna nell’intero poema.

Beatrice evidenzia la vanità del corpo, della sua summa pulchritudo, che pure nei testi teologici,

come ricorda Mazzoni, indica sempre la suprema bellezza divina; continua quindi l’ambivalenza

della figura di Beatrice, che incarna le ―belle membra‖- le quali non potevano non ispirare il

Petrarca elegiaco della canzone CCCLIX- ma che è allo stesso tempo allegoria della teologia e della

scienza divina.

Ella contrappone poi natura e arte, ossia bellezza naturale e bellezza artistica ed evidenzia quanto il

corpo non debba essere considerato fonte di un piacere che in realtà si rivela sempre fallace,

deviante e accecante per l’animo umano, ma una vera e propria prigione (Purg. XXIX 51 da notare

l’espressione rinchiusa fui).

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Beatrice rimprovera Dante di non avere schivato lo primo strale, il primo colpo (da osservare la

metonimia, ossia la causa per l’effetto) de le cose fallaci: secondo Bosco-Reggio ―è allusione

evidente alla morte di Beatrice, la cui bellezza, che lo aveva innamorato di sé, appunto perché in

creatura mortale, gli era venuta meno‖.

Nei versi successivi pargoletta (che appare anche nelle Rime Pargolette LXXXVII e LXXXIX,

dove il poeta canta il suo amore per una ragazza) indica, in forma indeterminata, altri amori, e

nonostante i tentativi di individuarla siano molteplici, risultano tutti ipotetici.

Il traviamento cui -qui come altrove- si fa riferimento dovette avere lo spessore di un fatto filosofico

e di conseguenza anche l’antitesi Beatrice-pargoletta non può essere ridotta nuovamente soltanto ad

una questione erotico-sentimentale, per cui Beatrice apparirebbe agli occhi del lettore come una

donna gelosa che fa una scenata dinnanzi all’innamorato infedele; si deve intendere la pargoletta

come una delle tante forze negative da cui l’animo del poeta si lasciò sedurre e accecare.

Del termine novità al verso 60 esiste anche la lezione alternativa vanità non nell’interpretazione

proposta dal Petrocchi di ―giovanile esperienza‖, ma come "cosa non conosciuta ma che si desidera

conoscere‖. Tuttavia secondo Bosco entrambe le lezioni risultano valide.

Da un lato si allude al diessi altrui, all’esperienza amorosa ed erotica di Dante, magari con la stessa

pargoletta o con la donna gentile, dall’altro si fa riferimento, anche se indirettamente, alla poesia

amorosa, parafrasando quindi l’espressione come ―esperienza e correzione della poetica giovanile‖.

La sequenza si conclude con un’immagine di ricalco biblico (Proverbi I 17), ma che trovava

riscontro nella quotidianità: la caccia per gli uccelli era esperienza comune per un medievale.

La conclusione di Beatrice è diretta e molto forte: Dante non è più un novellino, novo augelletto, e

come un uccello adulto si deve comportare, sebbene dinanzi (…)/ rete si spiega indamo o si saetta.

Lo stesso concetto, eco da Epist. VI 21, è espresso senza immagine metaforiche ai versi 64-69.

SEQUENZA II

vv. 64-90

Quali fanciulli, vergognando, muti

con li occhi a terra stannosi, ascoltando

66 e sé riconoscendo e ripentuti,

tal mi stav’io; ed ella disse: "Quando

per udir se’ dolente, alza la barba,

69 e prenderai più doglia riguardando".

Con men di resistenza si dibarba

robusto cerro, o vero al nostral vento

72 o vero a quel de la terra di Iarba,

ch’io non levai al suo comando il mento;

e quando per la barba il viso chiese,

75 ben conobbi il velen de l’argomento.

E come la mia faccia si distese,

posarsi quelle prime creature

78 da loro aspersion l’occhio comprese;

e le mie luci, ancor poco sicure,

vider Beatrice volta in su la fiera

81 ch’è sola una persona in due nature.

Sotto ’l suo velo e oltre la rivera

vincer pariemi più sé stessa antica,

84 vincer che l’altre qui, quand’ella c’era.

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Di penter sì mi punse ivi l’ortica,

che di tutte altre cose qual mi torse

87 più nel suo amor, più mi si fé nemica.

Tanta riconoscenza il cor mi morse,

ch’io caddi vinto; e quale allora femmi,

90 salsi colei che la cagion mi porse.

Non è certo l’atteggiamento degno di un uomo stare a testa bassa; e a proposito della barba come

segno dell’età adulta e della pienezza della mascolinità in un uomo, nel Convivio (I, XII 8) si legge:

ogni bontade propria in alcuna cosa, è amabile in quella: sì come ne la maschiezza esser ben

barbuto.

E’ anche possibile secondo alcuni che Dante avesse realmente la barba; oppure che il sostantivo

barba usato sia qui un settentrionalismo per ―mento‖ (Mazzoni) o per estensione significhi ―viso‖,

come indicato già a partire dal 1910 da A. Sepulcri.

Qualsiasi sia l’interpretazione del termine, chiaro è che il parlare di Beatrice è fortemente ironico,

come rivelano i sostantivi velen e argomento, ―argomento verbale‖, al v. 75, e la dura esortazione a

comportarsi con dignità.

Dante a stento solleva il suo viso, come un cerro quando si dibarba (verbo che è un hapax in Dante

ma presente in testi del periodo) col vento che soffia dall’Africa, il vento di Iarba. Proprio Iarba,

leggendario re di Numidia, pretendente di Didone, compare anche in Virglio, Aen. IV 196 ss. 9

Subito dopo gli occhi del Poeta vedono gli angeli spargere fiori (da notare ai vv.77-78 la

costruzione latineggiante dell’accusativo con l’infinito: posarsi quelle prime creature/ (…)l’occhio

comprese) e Beatrice rivolta verso la fiera che è in due nature. Il grifone è infatti simbolo di Cristo,

la cui parte umana rappresentata dal leone (il corpo), e quella divina dall’aquila (testa e ali: non a

caso la prima è sede dell’intelletto, guidato da Dio; le seconde permettono l’avvicinamento alle

sfere celesti e quindi al divino). ―Tutto il verso (Purg. XXIX 81) ricalca la definizione teologica del

Cristo‖ (Sapegno).

Hollander ricorda che ―even veiled she seems to surpass her former mortal self more than that self

surpassed all mortal women‖. Infatti Beatrice appare trasfigurata: prima era umana, nonostante la

sua durezza di accusatrice; adesso è una creatura miracolosa, si avverte che fa parte del mondo

eterno. E’ al culmine del suo trionfo, come appare dall’elegante (ai quei tempi) anafora del verbo

vincer- a causa della quale si sacrifica tuttavia la scioltezza del periodo- ai versi 83-84: mai era stata

così bella, nemmeno quando nel mondo terreno superava in bellezza tutte le altre. Ma non era

neppure mai stata da lui così lontana.

Penter, al v. 85, è infinito sostantivato; nello stesso verso si ha la metafora del bruciore provocato

del pentimento, che realisticamente viene evocato dagli effetti urticanti dell’ortica.

Il sostantivo riconoscenza del verso 88, ―riconoscimento‖, ―consapevolezza‖, è stato interpretato

per la prima volta da uno dei più antichi commentatori, Benvenuto da Imola, col valore del latino

recognitio erroris. Esso ―ha questa unica occorrenza nell’opera di Dante‖ (Bosco).

E’ lo stesso Dante che, nei versi 45-47 della canzone 46, Così nel mio parlare voglio esser aspro,

una delle sue Rime Petrose, descrive i malefici effetti fisici che la passione esercita su di lui: e’ l

sangue, ch’ è per le vene disperso,/fuggendo corre verso/lo cor, che’ l chiama; ond’ io rimango

bianco.

Dante, dopo aver riconosciuto Beatrice, sviene. Come sottolinea Bosco ―lo svenimento ha un

evidente valore simbolico: esso è la morte mistica, che è la liberazione dal peccato (Pietrobono)‖.

Il poeta era già svenuto in Inf. III 136, per la prima volta, sulle rive dell’Acheronte, poi una seconda

volta con Francesca in Inf. V 142. In entrambi i casi però lo perdita immediata dei sensi ha

principalmente funzione letteraria di espediente narrativo e non come qui di passaggio da uno stato

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di peccato ad uno di purificazione, raggiunto con l’immersione nel Lete operata da Matelda alla fine

del canto.

La radice della parola ―rimorso‖, con il suo senso anche di pungolo interiore, rovello, sofferenza

provocata dalla consapevolezza delle proprie colpe, è nel verbo morse, al v. 88.

Così, alla fine, Dante cade: il suo è qualcosa di più di un nuovo svenimento, è una morte simbolica,

che sarà seguita dalla rinascita del risveglio – che avviene in maniera conforme alla fisiologia

medievale: durante i deliqui o le forti emozioni, il sangue defluendo dai vasi periferici confluisce

nel cuore; a partire da questo si spiega l’immobilità degli organi esterni, dei sensi. Questi cenni di

fisiologia e di psicologia fanno parte del patrimonio culturale degli stilnovisti, caro al poeta – e dal

nuovo battesimo dell’immersione nel Lete. Dante è un uomo nuovo, purificato: ha visto il fondo in

cui era precipitato, è risalito con fatica e sofferenza, ha provato il dolore del rimorso e ora

finalmente può guardare al Cielo, con la nuova forza interiore che ha conquistato.

Hollander sostiene che ―Dante’s contrition is complete as he hates what once he wrongly loved.‖

SEQUENZA III

vv.91-117

Poi, quando il cor virtù di fuor rendemmi,

la donna ch’io avea trovata sola

93 sopra me vidi, e dicea: "Tiemmi, tiemmi!".

Tratto m’avea nel fiume infin la gola,

e tirandosi me dietro sen giva

96 sovresso l’acqua lieve come scola.

Quando fui presso a la beata riva,

"Asperges me" sì dolcemente udissi,

99 che nol so rimembrar, non ch’io lo scriva.

La bella donna ne le braccia aprissi;

abbracciommi la testa e mi sommerse

102 ove convenne ch’io l’acqua inghiottissi.

Indi mi tolse, e bagnato m’offerse

dentro a la danza de le quattro belle;

105 e ciascuna del braccio mi coperse.

"Noi siam qui ninfe e nel ciel siamo stelle;

pria che Beatrice discendesse al mondo,

108 fummo ordinate a lei per sue ancelle.

Merrenti a li occhi suoi; ma nel giocondo

lume ch’è dentro aguzzeranno i tuoi

111 le tre di là, che miran più profondo".

Così cantando cominciaro; e poi

al petto del grifon seco menarmi,

114 ove Beatrice stava volta a noi.

Disser: "Fa che le viste non risparmi;

posto t’avem dinanzi a li smeraldi

117 ond’Amor già ti trasse le sue armi".

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Ci troviamo ora al terzo momento del percorso di pentimento di Dante, quando il poeta si ritrova

assieme a Matelda.

La perifrasi del v. 92 definisce questa come la donna ch’io avea trovata sola e riprende il v. 40 del

canto XXVIII, in cui Matelda appare per la prima volta agli occhi del pellegrino, appunto come una

donna sola soletta.

Tratto al verso 94 vale ―immerso‖: Bosco precisa che ―il rito è evidente ricordo del battesimo per

immersione, che si praticava ancora a Firenze ai tempi del poeta‖.

Da notare che il termine scola al v.96 vale ―gondola‖ o ―barca leggera e piatta‖, secondo il

Mazzoni, è ―spia dell’attenzione di Dante per l’ambiente veneto che lo circondava‖ ma ha anche

una sua ascendenza lirica in Guittone (cfr. a questo proposito la canzone Tuttor, s’eo veglio o

dormo).

Dante poi, attraversato il fiume, giunge alla beata riva, ossia alla riva opposta a quella sulla quale si

trovava. L’utilizzo dell’aggettivo beata al v.97 è il corrispettivo, per quanto riguarda il Paradiso

terrestre, dell’aggettivo ―malvagio‖ (ad esempio, riva malvagia di Inf. III 107) riferito agli elementi

del paesaggio infernale: il poeta segnala un aspetto caratterizzante di ciascun regno dell’Aldilà.

Tralasciando le interpretazioni del termine proposte dai critici, Buti- che intende la riva ―al da là

della quale stanno li beati‖- e Pietrobono- che lo motiva con il fatto che ci troviamo all’ingresso del

regno della beatitudine-, ritenute entrambe ugualmente inesatte, l’ipotesi di Scartazzini, secondo cui

la beata riva segnala l’inizio di un Antiparadiso, la cui esistenza si spiega per analogia con

l’Antinferno e l’Antipurgatorio, è del tutto gratuita.

Più articolata l’interpretrazione di Chimenz: “Beata forse anche per la presenza di Beatrice e delle

altre cose del cielo, ma certo anche perché, varcato il Lete, può dirsi che incominci il regno della

beatitudine‖.

Si affaccia qui, già al v. 99 il tema dell’ineffabilità, di origine mistica, che sarà dominante nel

Paradiso: l’autore dichiara la propria incapacità di raccontare a parole un’esperienza soprannaturale.

La musica sacra ha accompagnato molti avvenimenti fondamentali della visita al Purgatorio: qui, al

v. 98, è citato il versetto 9 del salmo L, il Miserere, uno dei salmi penitenziali, che recita: ―Mi

aspergerai con l’issopo e sarò netto; mi laverai e sarò più bianco della neve‖. Presso gli Ebrei e poi

tra i Cristiani era infatti un canto espiatorio, che accompagnava la liturgia della purificazione con

l’acqua santa. Ed è proprio l’acqua, elemento del battesimo, che rende solenne questo momento di

purificazione.

Matelda allarga le braccia con la più ampia apertura possibile verso Dante, segno rituale d’amore

ma anche di misericordia: si tratta del gesto tipico delle Madonne onorate in Toscana dalle varie

congregazioni e confraternite della Misericordia.

Ne le braccia del verso 100 vale come complemento di relazione, ―per ciò che riguarda le braccia‖.

La scena è stata illustrata da Dorè e rappresenta Matelda nell’atto di immergere Dante all’interno

delle acque del Letè, il fiume che fa dimenticare i peccati e quindi rende possibile che questi

vengano cancellati dall’animo di colui che li ha commessi.

L’attenzione dello spettatore si concentra sulle figure di Matelda e di Dante in quanto lo sfondo è

indefinito, incerto, avvolto in una densa vegetazione che rimanda all’annebbiamento del peccato, il

quale non solo rende la mente cieca dell’uomo, offuscandola, ma richiama allo stesso tempo ad una

visione onirica, ad un misterioso miracolo.

L’atto che si sta compiendo infatti è carico di solennità ma anche di emotività: lo sguardo di

Matelda è quello di una madre protettiva e rassicurante, che guarda il proprio amato figlio e non

desidera altro che il suo bene, la sua salvezza.

Dante è immerso nell’acqua non solo infin la gola, ma addirittura fino a metà del suo volto, lo

sguardo appare pentito e questo suo atteggiamento inevitabilmente suscita nello spettatore un

sentimento di tenerezza nei confronti del poeta che, dopo aver tanto sofferto, aver perso ogni

speranza, con questo rito si prepara ad entrare nel regno della Beatitudine.

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Matelda trascina Dante lungo le rive del fiume cingendogli il capo con la mano sinistra: se da un

lato la flessuosità del suo corpo, esaltata dal lungo vestito che ne cela la forme, e le lunghe chiome

che ricadono sulle spalle rimandano ad un’immagine pagana, quella di un’allettante e suadente

sirena, distesa sulle sponde di un fiume o sulle coste del mare; dall’altro il gesto che la donna sta

compiendo sembra quasi richiamare l’iconografia cristiana del compianto sul Cristo morto a alle

numerose pietà, opere nelle quali la madre cinge il proprio figlio ormai esangue e lo spettatore è

reso partecipe di una scena intima e profonda.

Anche qui infatti sembra che l’osservatore spii la scena attraverso un varco nella vegetazione (in

primo piano c’è infatti della vegetazione palustre) e rimanga nascosto ai due protagonisti.

Anche se il momento rappresentato è positivo, in quanto testimonia concretamente la purificazione,

la scena conferisce in colui che la guarda un certo senso di inquietudine e di solitudine.

A questo punto (v.103 e successivi) Dante viene a trovarsi in mezzo alle quattro donne10

che,

continuando la danza in cerchio tenendosi per mano, lo coprono con le loro braccia distese le une

sulle altre a forma di croce, come in una struttura a baldacchino.

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L’intera frase ha significato allegorico e valore simbolico: le virtù cardinali esistevano prima della

verità rivelata, simboleggiata da Beatrice. Esse sono le virtù perdute dall’umanità col peccato

originale e riconquistabili da ciascuno con il singolo battesimo, con cui sono ―infuse‖nel Cristiano,

e appaiono in forma di stelle sovrastanti l’emisfero australe, perciò viste solo da Adamo ed Eva, in

Purg I 22-24.

Hollander sostiene che ―Botticelli-like (as in his Primavera, surely shaped by this scene), four

dancing maidens make a composite sign of the cross with their upraised arms, which join over

Dante’s head. All redeemed sinners leave the garden of Eden on their way to glory in the moral

condition that marked the creation of the first humans, before the Fall: primal innocence‖.

Botticelli, Primavera (particolare)

L’immagine delle stelle come forze da un lato illuminanti e dall’altro guide indicative della strada

del bene deriva dalla navigazione ed è ricorrente in Dante come anche in altri scrittori del suo

tempo.

Alla destra del carro danzano le virtù teologali, necessarie per indagare nel profondità delle cose:

esse infatti miran più profondo (v.111).

Beatrice si trova rivolta verso il grifone divino: ha cambiato posizione sul carro, rispetto a quella

che aveva mentre rimproverava Dante. Il poeta perciò, trovandosi al petto del grifon ha in faccia

Beatrice.

Le sette virtù invitano pressantemente Dante a contemplare, senza risparmiare gli sguardi, Beatrice

e la sua bellezza di cui gli occhi, verde smeraldo, sono il momento più alto e sintetico. Lo smeraldo

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nei lapidari medievali era indicato come atto ad ispirare senso di purezza in chi lo possedeva ma era

anche simbolo di giustizia.

Vi sono numerose interpretazioni sul significato da attribuire alla metafora degli smeraldi, al v. 116.

C’è chi ritiene che gli occhi di Beatrice sono così definiti non per il colore ma per il loro bagliore

(Casini- Barbi); dello stesso parere è anche la studiosa Bertolucci Pizzorusso, la quale ritiene che

Dante volesse dare un’indicazione precisa sulla loro lucentezza. Ricorda infatti che lo smeraldo

aveva funzione di specchio, e proprio a quest'oggetto sono paragonati gli occhi di Beatrice (vv.119-

122) appunto perché qui cominciano ad assumere la loro funzione di specchi teologici della verità.

Anche secondo Pasquini - Quaglio si tratta di una perifrasi per indicare gli occhi rilucenti della

donna. Ma sicuramente gli smeraldi sono stati scelti dall’autore per rappresentare le qualità degli

occhi di Beatrice, sia estetiche che simboliche: infatti come ricorda Corti, Brunetto Latini (nel

Tresor III 13,16), il ―maestro‖ di Dante – e quindi sua fonte diretta-, cita il colore verde degli occhi

come un attributo di bellezza.

Al centro della situazione si pongono ancora gli occhi di Beatrice, stelle polari, punto di

convergenza e di un incontro di un mistero che va da Dante al Grifone.

Da un lato c’è il Grifone con i suoi penetrantissimi occhi nei quali si legge l’infinito, al centro si

trova Beatrice, verità rivelata, attraverso la quale Dante si accosta alla creatura dalla duplice natura:

in questo sublime gioco di occhi c’è in sintesi tutta la vicenda cristiana, tutta la trama che lega

l’uomo a Dio e vede Dio partecipe di tutta la storia degli uomini.

SEQUENZA IV

vv. 118-145

Mille disiri più che fiamma caldi

strinsermi li occhi a li occhi rilucenti,

120 che pur sopra ’l grifone stavan saldi.

Come in lo specchio il sol, non altrimenti

la doppia fiera dentro vi raggiava,

123 or con altri, or con altri reggimenti.

Pensa, lettor, s’io mi maravigliava,

quando vedea la cosa in sé star queta,

126 e ne l’idolo suo si trasmutava.

Mentre che piena di stupore e lieta

l’anima mia gustava di quel cibo

129 che, saziando di sé, di sé asseta,

sé dimostrando di più alto tribo

ne li atti, l’altre tre si fero avanti,

132 danzando al loro angelico caribo.

"Volgi, Beatrice, volgi li occhi santi",

era la sua canzone, "al tuo fedele

135 che, per vederti, ha mossi passi tanti!

Per grazia fa noi grazia che disvele

a lui la bocca tua, sì che discerna

138 la seconda bellezza che tu cele".

O isplendor di viva luce etterna,

chi palido si fece sotto l’ombra

141 sì di Parnaso, o bevve in sua cisterna,

che non paresse aver la mente ingombra,

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tentando a render te qual tu paresti

144 là dove armonizzando il ciel t’adombra,

quando ne l’aere aperto ti solvesti?

Si noti inoltre che l’intero verso 117 ond’Amor già ti trasse le sue armi è espressione chiave della

lirica amorosa e appare poi di nuovo la parola-chiave disiri al v. 118, già appartenente a tale

repertorio e riapparsa al v. 22 di questo stesso canto: qui si accompagna alla metafora della fiamma,

a sua volta amorosa e sensuale, a conferma che l’autore rinnova il bagaglio lessicale stilnovistico,

adattandolo al clima di beatitudine del Paradiso.

E questa è una situazione già paradisiaca: la scena è immobile, come già parte della dimensione

dell’eterno; l’avverbio pur, al v.120, vale ―sempre‖, e l’aggettivo saldi, ―immobili‖.

E’ anticipato il rapporto che legherà Dante a Beatrice nella terza cantica. Gli occhi di lei saranno per

Dante specchio della luce divina. E non a caso in come in lo specchio il sol (v.121) si suol citare

Ovidio (Met. IV 347 ss), che aveva riferito l’espressione agli occhi della ninfa Salmace.

Il v.123 or con altri, or con altri reggimenti ha una costruzione sintattica latineggiante che rimanda

alla correlazione alii… alii e descrive la trasfigurazione che Dante vede avvenire negli occhi di

Beatrice, in quanto il grifone appare ora nell’atteggiamento (reggimenti) di aquila, ora in quello di

leone. Secondo Bosco, ―questa riflessione alterna può forse significare che gli uomini non possono

che intendere distinte le due nature, che in Cristo sono invece un essere solo (Sapegno), come la

teologia spiega‖. Corti sottolinea infatti che ―nella dimensione umana, attraverso la mediazione

della teologia, sapienza divina rivelata, è però possibile almeno percepirne la natura composita,

anche se una sola parte alla volta‖.

Ai vv.124-126 vi è un appello al lettore, già incontrato nei passi di maggiore tensione narrativa del

poema, come richiesta di attenzione.

L’idolo (figura, immagine) del verso 126 conserva il suo valore etimologico, dal greco èidolon, ed è

ricavato da qualche lessico medievale, o probabilmente da Isidoro di Siviglia.

Ai vv. 127-132 torna la metafora della verità divina, assoluta, che non si può attingere coi mezzi

razionali e relativi della mente, già apparsa in Purg. XXX 142-145 (dove Beatrice, l’aveva chiamata

vivanda). Corti evidenzia che ―la contemplazione di Dio, cibo divino, al tempo stesso sazia e non

sazia mai: infatti dona la conoscenza assoluta, ma non permette mai di stancarsi di essa‖.

E’ per questo che l’anima di Dante è gia lieta apprendendo la verità dagli occhi della donna amata.

Inoltre si tratta di un ennesimo ricordo biblico (Eccli. XXIV 29 e Ioann. IV, 6-15).

Le virtù teologali, che nella processione danzano alla destra del carro, appaiono di più alto tribo

(dal latino tribus, tribù), di condizione più elevata rispetto alle quattro virtù cardinali. A differenza

di queste, immerse nell’ambito umano, sono proiettate verso la dimensione divina. Corti aggiunge

infatti che ―la loro musica, il ritmo che accompagna la loro danza è definito angelico, già parte della

dimensione celeste‖. Il pronome possessivo sua, al v.134, è riferito a caribo, canzone da ballo di

origine provenzale; il canto delle tre donne è modulato sull’aria che ne accompagna la danza.

Esse pregano Beatrice di svelarsi: togliendosi il velo si mostrerà completamente a Dante, il suo

fedele che ha attraversato Inferno e Purgatorio per raggiungerla.‖ (Corti).

Si noti che fedele (v.134): è parola tecnica, propria della retorica e del sentire stilnovista. Si trova in

Vita Nuova III 9: ―propuosi di fare uno sonetto, ne lo quale io salutasse tutti li fedeli d’Amore…‖,

ma qui con più profonda connotazione religiosa.

Il termine fedele vuole indicare tutti coloro che, attraverso la donna amata, hanno scoperto le

ragioni del loro esistere. Mazzoni vede nella presenza di questo aggettivo un ―manifesto riannodarsi

anche nel linguaggio, alla ragione di principio di tutto il poema (si ricordi Inf. II 98) ma insieme pur

anche anticipo, nella situazione e nel dato concreto della poesia, di quanto avverrà all’atto della

suprema finale fruizione‖.

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Momigliano fa notare che con una simile espressione Maria si è rivolta a Lucia in modo da aiutare

Dante, in Inf., II 97-99: Questa chiese Lucia in suo dimando/e disse:-Or ha bisogno il tuo fedele/di

te, e io a te lo raccomando-.

Finora gli occhi di Beatrice erano visibili anche se sotto il velo, grazie al loro eccezionale splendore

(vv.109,116 e 118-123). La sua bocca però non è così luminosa e non si può vedere se non

togliendo il velo.

Corti nota che ―il sintagma seconda bellezza si riferisce al sorriso di Beatrice, e riprende la

definizione del Conv., III, VIII 8‖. Si discosta leggermente da questa interpretazione Mazzoni,

secondo il quale il sintagma ―altro non indica che quel secondo aspetto che da Beatrice irradia e

riflette; cioè a dire, appunto, il piacere etterno: la bellezza divina partecipata faccia a faccia‖.

Secondo Corti ―è chiaro il senso allegorico di questo svelamento: le virtù teologali ottengono che la

sapienza divina si riveli nel suo pieno splendore, che il viso di Beatrice qui rappresenta nelle due

parti in cui si manifesta, sguardo e sorriso‖. Quindi il pellegrino prima aveva visto la trasformazione

della doppia fiera negli occhi di Beatrice ed era lieto e grato di questo. Ora raggiunge la somma

beatitudine, inesprimibile perché già paradisiaca, quando gli si svela il volto dell’angelica donna

nella sua interezza.

L’atto è raffigurato ne "L'incontro di Dante e Beatrice in Paradiso" da Dante Gabriel Rossetti,

pittore e poeta preraffaellita, il quale ritrae Beatrice in procinto di liberare il viso dal velo tenuto

fermo da una corona d'ulivo per mostrarsi allo scrittore, su invito delle due virtù teologali, che nel

testo dantesco sono tre.

Tale istante riprende anche i vv. 31-33 del canto XXX: Sovra candido vel, cinta d'uliva / donna

m'apparve sotto verde manto / vestita di color di fiamma viva. Inusuale è qui l'aspetto del

personaggio femminile rappresentato con una fluente chioma fulva, secondo i canoni di bellezza

ideale elaborati dal gruppo preraffaellita. Tale beltà provoca immenso stupore nel Poeta il quale,

portando le mani al volto, esprime tutta la sua devota ammirazione.

Dante Gabriel Rossetti, L’incontro di Dante e Beatrice in Paradiso

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Il canto termina con ―il culmine del trionfo di Beatrice: la donna non è più una figura umana, ma

una presenza di pura luce, una manifestazione dello splendore stesso di Dio.‖ Corti aggiunge anche

che il Poeta, dopo essersi dichiarato incapace di rappresentarla, ―usa l’artificio retorico

dell’apostrofe a questa viva luce etterna , personificata.‖ Anche nel Paradiso poi, come sostiene

Ferrante, ―Dante tenta l’impossibile e riesce ad ottenerlo. Egli descrive un’esperienza che resta al di

sopra delle capacità del linguaggio umano‖.

Maria Corti, inoltre, sostiene che queste ―terzine conclusive del canto anticipano l’atmosfera della

terza cantica anche attraverso la complessità quasi illeggibile dell’impianto retorico, che ha creato

problemi di interpretazione‖. Si indica il poeta, affaticato e pallido in viso, con una perifrasi al

v.140 e al v. successivo si fa riferimento alla fonte Castalia, che zampilla sul Parnaso a meno che,

come riporta Bosco, ― Dante, confondendo Parnaso con Elicona, intende le fonti Aganippe e

Ippocrene che appunto da questo sgorgano‖.

Dante ribadisce poi il concetto dell’ineffabilità, definendosi inadeguato a esporre in versi

un’esperienza di rivelazione divina.

Secondo la studiosa il sintagma del verso finale quando ne l’aere aperto ti solvesti? può avere come

fonte il v.587 del primo libro dell’Eneide (scindit se nube set in aethera purgat apertum).

Altri invece sostengono che aperto ha valore di avverbio, accentuando così il senso di liberazione

del verbo ti solvesti.

La descrizione sembra quasi interrompersi sul più bello lasciandoci stupiti e sospesi, ―proprio come

Dante nell’atto di contemplare lo splendore finalmente svelato della sua Beatrice‖(Corti).

Particolare il fatto che il canto XXXI si concluda con un’interrogativa, quasi a lasciare il clima

sospeso nell’attesa dell’arrivo definitivo nel Paradiso terrestre e nella sua celebrazione.

―Il finire questo canto con l’interrogazione, cioè quasi in sospeso, come un motivo musicale, che

non si chiuda sulla tonica, dà un non so che di infinito che aumenta l’effetto della stupenda chiusa‖

(Porena).

E’ possibile avere una chiara visione delle ultime azioni descritte nel canto nella miniatura MS

Holkham misc. 48, p.107, della Bodleian Library, University of Oxford.

Tre momenti diversi si trovano qui rappresentati in successione.

Sulla sinistra Matelda, vestita con un lungo abito viola e con un candido velo attorno al capo, china

su Dante, cingendolo con le braccia in modo quasi amorevole, lo immerge nelle acque purificatrici

del fiume Lete: pare quasi che la donna stia pronunciando le parole “Tiemmi, tiemmi! (Purg. XXXI

93).

Nella seconda parte della miniatura Dante, alla cui spalle rimane Matelda protettiva e rassicurante, è

consegnato alle quattro virtù cardinali, le quattro belle - giustizia, fortezza, prudenza e temperanza

- che, tradendo il testo della Commedia, non sono vestite di porpora ma con abiti dove si alternano i

colori bianco, rosso e blu, non coprono Dante ciascuna del braccio, come a formare una struttura a

baldacchino sopra di lui, ma poggiano affettuosamente le loro mani su di lui e non danzano ma

appaiono del tutto ferme.

Infine, sulla destra, le tre virtù teologali, fede (bianco), speranza (verde) e carità (rosso),

abbracciano il Poeta e il colore delle loro vesti è in forte contrasto con il blu intenso del suo abito;

Beatrice è accanto Dante e col volto già svelato - come nelle terzine finali del Canto- e sono

fedelmente riprodotti i colori con cui è descritta la donna, l’abito rosso, il mantello verde, il velo

candido e la corona d’ulivo, da intendersi come simbolo di pace oppure di sapienza; il grifone viene

a trovarsi accanto a Dante e alla donna da lui amata, quasi come se il Poeta incontrasse direttamente

il Cristo con la sua confessione, testimoniata dalle mani incrociate sul petto, non per una chiusura

verso l’ambiente esterno, ma in segno di solenne e profondo pentimento.

Beatrice si rivolge verso Dante e non fissa l’animale dalla doppia natura. La rappresentazione

quindi, pur non del tutto fedele al testo, rende chiaramente evidenti numerosi simbolismi – per

esempio ad ogni colore delle vesti delle donne è associata una virtù. A questo contribuisce anche il

fatto che le figure spiccano su uno sfondo monocromo, del tutto neutro, vuoto. A livello metaforico

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l’aridità del terreno, non propria di un locus amoenus, quale è il Purgatorio descrittoci da Dante,

rispecchia forse l’animo del Poeta: egli è sul cammino della purificazione e ogni peccato deve

essere raso al suolo, in vista dell’accesso al Paradiso, per lasciare spazio alla beatitudine.

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Commento

―Quando Beatrice compare sulla vetta del Purgatorio in quella imponente e splendida processione

che è il suo trionfo, l’accompagnano segni ed indizi infallibili, a proclamare che la sua venuta deve

essere considerata un Avvento‖. Così Charles Singleton interpreta l’apparizione di Beatrice: infatti

prima del suo arrivo vi sono grida, invocazioni e altri segnali che sembrano precedere e aprire la

strada a Cristo, quasi come se ad accoglierla ci fosse una folla festante e desiderosa di conoscere la

parola di Dio. L’attesa si fa quindi ambigua. Ma poi la possibilità che Beatrice stessa rappresenti

Cristo, che ci sia una identificazione tra donna amata dal Poeta-figlio del Creatore del mondo, si

allontana dai nostri pensieri perché è il Grifone ad essere simbolo di Cristo.

D’altra parte Singleton sostiene che Beatrice non sia Cristo, ma analogia di Costui, infatti ―nel

momento stesso in cui finalmente lei appare sul carro trionfale al centro della processione,

risolvendo con la sua presenza l’ambiguità che era stata tenuta viva nell’attesa, la sua analogia con

Cristo è quanto più energicamente affermata‖ 11

. Vi è quindi un’analogia tra Cristo e la donna, che il

poeta paragona al nascere del sole in un cielo sereno la cui luminosità accecante è temperata da

vapori (Purg. XXX 22-23), tipica immagine della venuta del Salvatore.

Il critico prosegue poi facendo riferimento al Giudizio Universale (Purg. XXX 13-18), in cui le

anime dei beati usciranno dal sepolcro, glorificando Dio per la resurrezione dei corpi, poiché nello

stesso modo dal carro un gran numero di beati risponde all’invito di uno dei seniori che aveva

intonato l’invocazione Veni, sponsa, de Libano. Così l’avvento di Beatrice ricorda il giorno del

Giudizio Universale, concetto ribadito dal fatto che, severa e intransigente, si ergerà a giudicare il

suo fedele, quasi ammiraglio in su la sponda del carro.

Singleton sottolinea poi come ci sia un’ulteriore somiglianza con Cristo, che conferma l’analogia

ipotizzata in precedenza: nella Vita Nuova si narra che ―ella fosse stata vista morire circondata da

segni che non potevano non far ricordare la morte di Cristo, e salire poi al Cielo accompagnata dagli

angeli e dal grido di Osanna, in un’ascensione molto simile a quella di Lui‖. Il poema è quindi da

leggere in chiave allegorica e simbolica e analogica; tutte queste dimensioni esprimono quindi

qualcos’altro rispetto al significato letterale: insieme ci permettono di vedere ciò che per Dante fu

un vero e proprio viaggio. Ma non soltanto il viaggio di un unico uomo, neppure il viaggio di un

individuo ―traviato‖. Infatti il poeta riassume in sé il viaggio dell'intera umanità, dal peccato alla

salvezza. Dante lo racconta perché vuole che tutti gli uomini si impegnino ad intraprenderlo.

Secondo il mito della caverna di Platone, lo schiavo liberato che ha visto la luce si sente in dovere

di comunicare la sua scoperta ai suoi vecchi compagni di prigione che giacciono ancora

nell’oscurità: Dante sente forte dentro di sé la responsabilità di comunicare agli altri la sua

esperienza, il suo vissuto. A tal proposito Auerbach ritiene che l’intera Commedia vada letta in

chiave figurale, proprio come la Bibbia, in quanto si propone di veicolare un messaggio importante.

Infatti la vita terrena dei beati e dei dannati è solo una prefigurazione di quella che sarà la loro vita

dopo la morte. Le anime sono così concrete, così reali: si picchiano, si sorridono, parlano con

Dante, ricordano il loro passato; è un mondo dell'aldilà che sembra più reale del nostro, proprio

perché quella è la vera vita dell'uomo. Il mondo terreno è solo una preparazione a ciò che verrà, ma

tuttavia all’uomo in vita viene data la possibilità di cogliere alcuni aspetti di quella vera vita che

sarà. Noi siamo convinti di vivere nella realtà, ma, citando Cicerone, tota vita commentatio mortis

est (Tusc. I 75): vivendo ci prepariamo a morire perché proprio dopo la morte vivremo per davvero.

Pertanto l'incontro con Beatrice diventa il punto di svolta della maturazione umana e poetica di

Dante, la cui vita è rinnovata dall'amore in seguito a quel fatto. La sua immagine è però viva e

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presente in tutto il poema; è come il fondo luminoso che dà risalto alle tenebrose creazioni della

prima cantica; come uno zeffiro mattutino che fa dolcemente tremolare le aure della seconda; come

un raggio d'aurora, che va mano a mano crescendo e che arriva a un diffuso meriggio, a cui il poeta,

e dietro a lui il lettore, si dirige incessantemente con esemplare costanza d'innamorato.

Durante questo faticoso ma indispensabile cammino, Beatrice educa Dante a correggere il suo

desiderio di perdersi nei suoi occhi, sostenendo che lei è segno di Qualcosa di più grande.

A questo proposito Rilke sostiene che due persone ―solo nell’orizzonte di un Amore più grande non

si divorano nella pretesa, né si rassegnano, ma camminano insieme verso la pienezza di cui l’altro è

segno‖. Per questo Beatrice esorta Dante a non soffermarsi sulla sua bellezza, ma a guardare nella

stessa direzione in cui ella rivolge lo sguardo. E solo quando Dante riesce a comprendere ciò e non

assolutizza il sentimento che prova, allora ogni sua aspettativa è pienamente realizzata, perché

totalmente corrispondente alla volontà dell’amore di Dio.

L'amore acquista qui un significato nuovo e diverso, libero da ogni aggancio con la realtà terrena,

stimolo ad una profonda introspezione umana e morale, e proiezione verso Dio.

In questa nuova dimensione il miracolo che Beatrice, incarnazione della rivelazione divina, aveva

rappresentato per Dante acquista un nuovo significato ed una nuova pienezza.

Il compito del Poeta è quello di indicare all'intera umanità la via per giungere alla salvezza, al

Paradiso e alla contemplazione di Dio: il miracolo che era avvenuto per Dante diventa così il

miracolo di tutta l'umanità.

Nel sonetto ―Tanto gentile e tanto onesta pare‖, Dante definisce Beatrice in un modo straordinario,

cioè come una cosa venuta / di cielo in terra a miracol mostrare. Cosa è causa di sensazioni e

impressioni (Contini) e le parole di Dante indicano che Beatrice fu, insieme, una donna realmente

vissuta, una creatura celeste, un riflesso dell'ansia di ascesa spirituale e di purificazione del poeta.

Salvator Dalì, L’abbraccio tra Dante e Beatrice

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Singolare nella sua modernità è l'interpretazione dell’amore tra Dante e Beatrice offerta dall’autore

surrealista Salvador Dalì. Una rappresentazione davvero originale e innovativa è infatti

riscontrabile nel mistico abbraccio fra Dante e Beatrice che suggella il loro antico amore.

La scena appare sospesa in una dimensione atemporale, a indicare la potenza eterna del loro

legame, non soltanto affettivo e dunque terreno, ma anche spirituale e quindi celestiale.

E' proprio sul piano ultrasensibile che si concentra lo studio coloristico e della luce del pittore

catalano, una luce non riscontrabile in natura, che attraversa i corpi rendendoli traslucidi.

Essa viene infatti definita metafisica (come sostenuto dallo storico Barilli nel saggio dedicato

all’argomento) in quanto associabile alla deflagrazione nucleare, che accende una luminosità

superiore a quella proveniente dalla sfera fisica.

Anche il colore contribuisce a quest'effetto sovrannaturale, utilizzato dall'artista con una notevole

purezza, oscillando fra l'azzurro pervinca, giallo sulfureo, tinte violacee e rosate.

Le pennellate rapide, sintetiche, delineano i due in modo quasi stilizzato: non si scorgono infatti le

fattezze dei volti, ma ciò su cui è rivolto lo sguardo dell'osservatore è proprio il gesto che li

coinvolge.

Nuovamente Dalì ci propone un’immagine fortemente suggestiva: Beatrice, donna amata, sperata e

quasi divinizzata, è baciata dai raggi del sole che ne mettono in risalto la bellezza angelica.

Dante, non potendo sostenere la luminosità accecante emanata dalla stella infuocata, rivolge il suo

sguardo verso l'amata e appare in penombra, avvolto da un azzurro pervinca contrastante con il

fulgore surreale che trasporta il pubblico degli osservatori in una nuova dimensione: il cielo di

Venere.

Salvator Dalì, Beatrice

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L’antica vicenda d’amore sfocia nel palcoscenico di una rappresentazione sacra con recupero dello

Stilnovo (con al centro Beatrice) nell’assunzione della donna amata come figura salvifica e insieme

nella metanoia del personaggio- poeta. Beatrice è quindi figura di Cristo, ma nello stesso tempo

resta madonna Bice Portinari senza mai cessare di essere la Verità rivelata. Incontro risolutivo per il

dramma personale di Dante.

Beatrice è tutto.

Grazie all’amore, gratuito e che non chiede nulla in cambio, che prova Dante per Beatrice, il Poeta

si avvicina sempre più a Dio ed è educato in questo, è accompagnato passo dopo passo proprio dalla

sua stessa donna amata. Il suo è un desiderio di infinito che troverà compimento solo alla fine del

suo viaggio, quando ritrova l’immagine vera di sé, coincidente con l’immagine di Dio.

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Note

Nota 1): A partire dal verso 82, si snoda la processione davanti agli occhi sorpresi di Dante, aperta da sette candelabri,

che si muovono lentamente lasciando alle loro spalle strisce luminose, corrispondenti ai sette doni dello spirito santo: la

sapienza, l’intelletto, il consiglio, la fortezza, la scienza, la pietà e il timore di Dio. Essi hanno evidente valore

allegorico: sono, infatti, a capo del corteo proprio perché queste qualità, proprie dell’animo ispirato da Dio, dovrebbero

guidare l’intera umanità. Tutto il corteo ha valore simbolico: seguono nell’ordine ventiquattro seniori (anziani), ―a due a

due‖ che rappresentano i libri dell’Antico Testamento, coronati di fiordaliso proprio perché il giglio indica la purezza

della dottrina di fede, e quattro animali ―coronati ciascun di verde fronda‖ e ―ognuno pennuto di sei ali‖, provviste di

occhi, simili a quelli di Argo, che indicano invece gli evangelisti provvisti della speranza insita nella buona novella dei

Vangeli. Nello spazio racchiuso tra queste quattro figure, disposte a quadrato, è collocato un carro, in su due rote,

trïunfale, /ch’al collo d’un grifon tirato venne, trainato quindi dal leggendario animale con testa e ali di aquila e corpo

di leone. L’ambivalenza di quest’animale fantastico è atta a rappresentare la doppia natura di Cristo, quella umana e

quella divina. La scena che ci appare è quasi festante: alla destra del carro danzano tre donne, le virtù teologali, la prima

vestita di rosso -la carità-, la seconda verde -la speranza- e l’ultima tutta di bianco –la fede- (vv. 121-129 in particolare

l'una tanto rossa/ ch'a pena fora dentro al foco nota; / l'altr'era come se le carni e l'ossa/ fossero state di smeraldo

fatte; / la terza parea neve testé mossa), accanto alla ruota sinistra invece camminano altre quattro fanciulle, vestite di

porpora, le virtù cardinali, fortezza giustizia prudenza e temperanza (vv.130-132 Da la sinistra quattro facean festa, / in

porpore vestite, dietro al modo/ d'una di lor ch'avea tre occhi in testa). Dietro all’intero carro, che il Sommo Poeta

definisce ―il pertrattato nodo‖, appaiono due vecchi, il primo somigliante ad un medico, simbolo degli Atti degli

Apostoli (Luca era infatti medico, cfr. alcun de’ famigliari/ di quel sommo Ipocrite) e l’altro, nelle sembianze di un

guerriero, con una spada in mano, simbolo delle Epistole Paoline. Dietro a questi due anziani appaiono altre quattro

figure, di umile aspetto (dal verso 142 in poi), che rappresentano rispettivamente le Epistole di Pietro, le Epistole di

Giovanni, le Epistole di Giacomo e le Epistole di Giuda, seguite da un solo vecchio, l’Apocalisse (cfr. vv. 143 e 144 e

di retro da tutti un vecchio solo/ venir, dormendo, con la faccia arguta), immerso nel sonno perché è assorto nella sua

visione apocalittica, arguto perché riesce a penetrare nel mistero della sua visione. Questi ultimi sette personaggi sono

vestiti anch’essi di bianco, coronati di rose e di altri fiori vermigli. L’intera processione, che si ferma davanti a Dante

non appena si ode un tuono, simboleggia la preparazione, la fondazione e la diffusione della Chiesa Cattolica.

Nota 2): il verso è tratto dal Cantico dei Cantici di Salomone IV, 8, nel quale tradizionalmente si identifica la sponsa

con la Chiesa. L’invocazione sembra ispirata dal cielo e vale sia come appello di Cristo alla Chiesa sia come appello di

Dante a Beatrice.

Nota 3): Benedictus qui venis! sono le parole che nel Nuovo Testamento gli ebrei rivolgono a Gesù quando costui

accede in Gerusalemme (Matteo XXI, 9) - dove l’uso del maschile, lasciato intatto, dimostra il carattere rituale

dell’apparizione stessa e dei canti che l’accompagnano (Bosco-Reggio ).

Nota 4): I fiori gettati su Beatrice sono accompagnati dalle parole Manibus, o date, lilia plenis, citazione dall'Eneide VI

883, dove viene celebrato Marcello, l’erede di Augusto, morto prematuramente.

Nota 5): Denso di significato è il legame tra l’apparizione di Beatrice e il sorgere del giorno: come l’alba, momento di

rinascita e speranza, se velata da vapori che ne temperano la luce, rende possibile all’occhio di sostenerne la vista, così

Beatrice appare velata da una nuvola di fiori gettata sopra e intorno al carro da figure angeliche (immagine che ricorda

la Vita Nuova, XXIII, 7), vestita d’un abito rosso fuoco, di fiamma viva (la carità), coperta da un mantello verde (la

speranza) e provvista di un velo candido ( la fede- evidente qui il riferimento alle tre virtù teologali), cinta da una

corona di ulivo, interpretato come simbolo di pace oppure, come pianta sacra alla dea Minerva, e quindi immagine di

sapienza. Dante non può ancora vederla, ma già ne sente la potenza .

Nota 6): l’eccezionalità del fatto è sottolineata da Dante stesso: quando mi volsi al suon del nome mio,/ che di necessità

qui si registra. Si tratta quindi di un hapax.

Nota 7): Giorgio Caproni (Livorno 1912- Roma 1990) fu maestro elementare di professione, fine critico letterario e

traduttore. Il suo stile è inconfondibilmente personale e incline ad una difficile conciliazione di opposti: musicalità e

dissonanza, semplice e schietta quotidianità e allegoria, chiarezza di linguaggio e complessità psicologica. Ci ha colpito

poiché egli si avvicina alla Commedia (danteschi saranno i titoli di Il seme del piangere e Il muro della terra) attraverso

le dispense dell’opera comprate dal padre in edicola, nell’edizione Nerbini di Firenze. Queste erano arricchite dalle

splendidi incisioni di Gustave Doré, che rimangono impresse a Caproni e lo portano ad accostarsi ai versi del poeta

fiorentino. Egli, nell’Ultima preghiera posta in chiusura dei Versi livornesi (Il seme del piangere, 1959) sostiene che la

necessità dell’incontro sognato nasce dal pianto e dal rimorso. La poesia è dunque un dono di riparazione alla memoria

della madre, frutto di un pentimento. Il titolo del libro (come già detto) e l’epigrafe che lo apre (―…udendo le sirene sie

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più forte,/pon giù il seme del piangere ed ascolta…‖) provengono proprio da un’esortazione al pentimento, che Beatrice

rivolge a Dante ai vv. 45-46.

Nota 8): E’ interessante anche notare il riferimento al canto Purg. XIX 19-33 dove Dante sogna la femmina balba: ―essa

viene descritta come una donna bellissima e affascinante, da cui inizialmente egli si lascia incantare, come già era

accaduto ad Ulisse, il quale però l’aveva sconfitta grazie alla propria astuzia. Come spiegherà Virgilio ai vv. 58-59, essa

è l’antica strega che, al pari della sirena del mito classico, col suo dolcissimo canto seduce gli uomini e gli attrae

fatalmente a sé fino a perderli, come ella stessa ricorda (vv. 19-24)‖ (Merlanti—Prandi).

Nota 9): Protinus ad regem cursus detorquet Iarban/ incenditque animum dictis atque aggerat iras, ―Subito si dirige dal

re Iarba e infiamma il (suo) animo con le parole e accumula ire‖.

Nota 10): Il sostantivo ―ninfa‖ (cfr v.106), che Dante riferisce alle quattro donne, proveniente dalla cultura pagana e in

relazione con l’ambiente, un bosco, indica genericamente un personaggio femminile di bell’aspetto. Anche Matelda era

stata paragonata ad una ninfa (Purg XXIX 4-6).

Nota 11): Singleton cita S. Bernardo, il quale aveva affermato che l’Avvento di Nostro Signore è triplex e che bisogna

quindi affermare e distinguere tre avventi di Cristo. Due di loro sono ben noti e manifesti a tutti: la sua prima venuta e

l’ultima che avverrà con il Giudizio Universale. Vi è pero un secondo avvento intermedio che, essendo spiritualis et

occultus, esige una particolare ricognizione. Egli è attento a tener sempre fissa l’attenzione dei suoi confratelli rispetto a

questa seconda venuta di Cristo, che avviene in mentem, venuta identificata nella Grazia Santificante (S. Tommaso la

chiama invece Sapientia). Seguendo questo schema l’apparizione di Beatrice può rivelare una somiglianza con i tre

avventi di Cristo. A tal proposito Singleton sostiene che ―Beatrice viene come venne Cristo; di ciò vi sono segni

infallibili. Beatrice viene come verrà Cristo- in gloria, a giudicare; anche qui è indubitabilmente chiara l’intenzione del

poeta che l’avvento di lei riveli tale somiglianza.‖ Ma a questo punto, sapendo che l’Avvento è triplex, bisogna

ricercarne anche un terzo! Ma quando Beatrice viene anche come viene Cristo? Si può forse trovare nell’anima del

cristiano, essendo spirituale e segreto? S. Bernardo aveva rivelato che quest’avvento intermedio doveva verificarsi nel

presente e non una sola volta, ma molte; quando la giustizia prevale nell’anima preparata di un cristiano. Ma Cristo

nella sua seconda venuta assume altri nomi (Gratia e Sapientia): siamo quindi condotti a scorgere, la sua analogia anche

con la seconda venuta di Cristo perché Beatrice è grazia e sapienza.

Nota 12) Parafrasi

―O tu che sei al di là del fiume sacro‖, rivolgendo a me direttamente le sue parole, che mi erano apparse aspre, anche

solo quando parlava di me e contro di me indirettamente, rispose Beatrice, seguitando a parlare senza indugio: ―dì, dì

pure se questi fatti sono veri; a così grave accusa che ti è stata rivolta, è necessario che si accompagni la tua conferma‖.

Le mie facoltà intellettuali erano a tal punto sconvolte, che la voce, che pur si era mossa per rispondere, si spense del

tutto prima che fosse emessa dalla bocca.

Per poco stette in paziente attesa che io aprissi bocca; poi, riprendendo la parola, disse: ―A che cosa pensi? Rispondimi

con sollecitudine; perché in te i tristi ricordi, non sono stati ancora cancellati dall’acqua del Letè‖.

Il turbamento e la paura, operando insieme, mi fecero uscire un sì talmente fioco, che per intenderlo non bastò l’udito,

ma fu necessario usare gli occhi.‖ Come la balestra, quando lascia partire il colpo da una corda eccessivamente tesa,

spezza la sua corda e l’arco, e di conseguenza la freccia giunge al bersaglio e colpisce con minor impeto, così io sotto il

grande peso della confusione e della paura, scoppiai e ruppi in lacrime e sospiri, e per questo fatto la mia voce si

affievolì uscendo attraverso la bocca.

Sicché lei riprese e mi disse: ―Attraverso i desideri di me, i quali ti conducevano ad amare Dio, il bene supremo oltre il

quale non c’è cosa alcuna cui si possa aspirare, quali fossi o catene, posti di traverso a sbarrare la strada trovasti alla tua

via, perché tu dovessi abbandonare la speranza di poter progredire verso la salvezza e la prospettiva oltremondana? E

quali facilitazioni o quali vantaggi ti si presentarono nell’aspetto degli altri beni, perché tu li lasciassi indurre a

desiderarli?‖

Tratto dal petto con fatica un sospiro amaro, a stento trovai la voce per rispondere e le labbra con difficoltà le

articolarono in parole.

E tra le lacrime e il pianto così potei dirle: ―I miei beni terreni con le loro apparenti seduzioni avviarono i miei passi

verso il male, non appena il vostro volto si nascose a me, con la vostra morte‖.

E lei: ―Anche se tu avessi confessato o negato la tua colpa, essa non sarebbe per questo meno palese: da un tale giudice

è conosciuta (cioè da Dio)!

Ma quando la confessione della propria colpa prorompe con impeto dalla bocca stessa del peccatore, nel tribunale del

cielo la giustizia divina non affila la spada.

Ciò nonostante, e perché ora tu avverta vergogna per i tuoi errori, e perché un’altra volta, ascoltando le voci seducenti

delle sirene, tu sia più forte, deponi i due sentimenti di confusione e di paura, che sono stati causa del tuo pianto, ed

ascolta: così udirai e comprenderai come la mia morte avrebbe dovuto spingerti in direzione opposta a quella da te

seguita.

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Mai la natura o l’arte offrirono alla tua contemplazione una bellezza pari o comparabile a quella delle membra umane in

cui fui rinchiusa nel mondo e che ora sono sepolte in terra; e se la bellezza più grande, massima fra tutte quelle prodotte,

espresse dalla natura o dall’arte e da te conosciute, quella del mio corpo, ti venne meno e scomparve in terra come ogni

altra cosa segnata dal tempo in conseguenza della mia morte, quale cosa mortale doveva poi attirarti a desiderarla?

Proprio in conseguenza e in rapporto al primo colpo ricevuto dalla realtà fallace del mondo per la mia morte, avresti

piuttosto dovuto sollevarti alle cose celesti seguendo me, che non ero più cosa precaria, ma vera ed eterna.

Non avrebbero dovuto farti battere in basso le ali, ad aspettare, così, nuove e più forti delusioni, né l’amore di una

giovane donna, né quello di altre giovanili esperienze o passioni, che si possono godere per così breve durata.

L’uccellino nato da poco, ancora privo d’ali, aspetta due o tre colpi; ma invano si tendono reti o si lanciano frecce agli

uccelli già pennuti (adulti e quindi ricchi di esperienza)‖.

Come i bambini, vergognandosi di cosa commessa, se ne stanno muti con gli occhi a terra, ascoltando quelli che li

rimproverano e riconoscendosi colpevoli e del tutto pentiti, così me ne stavo io; e lei mi disse: ―Dal momento che ti

affliggi soltanto ascoltandomi, solleva la faccia, e la tua sofferenza diverrà maggiore guardandomi‖. Un robusto cerro si

sradica sia esposto a i colpi del vento di tramontana sia a quelli del vento australe dell’Africa, di quanto non dovetti

impiegarne io per sollevare il mento al suo ordine e quando mi chiese di alzare il viso indicandolo con la parola barba,

capii benissimo il veleno implicito in quel modo di esprimersi. E appena il mio volto si levò, i miei occhi videro che gli

angeli avevano smesso di spargere fiori; e i miei occhi, ancora incerti, videro Beatrice volta a guardare il Grifone che è

una sola persona in due nature. Pur velata e pur stando al di là del fiume, mi pareva che vincesse in bellezza la Beatrice

antica, quand’era viva in terra, più di quanto questa, quand’era ancora creatura terrena non superasse in bellezza ai miei

occhi tutte le altre donne. L’amara puntura del pentimento in quel momento, allora mi trafisse così in profondità che di

tutti gli oggetti, quello che più mi aveva attirato nel suo piacere, più mi divenne odioso. Il mio cuore ebbe un così

grande rimorso, che io caddi sopraffatto; e quale io divenni allora, lo sa colei che fu la causa del mio svenimento. Poi, quando il cuore restituì ai miei sensi la loro forza vitale, vidi china su di me Matelda, la donna da me incontrata

tutta sola nell’Eden, e diceva: ―Tienti stretto a me, tienti stretto!‖

Mi aveva immerso nel fiume fino alla gola, e trascinandosi dietro me se ne andava camminando, sfiorando la superficie

dell’acqua, leggera come una barchetta.

Quando fui giunto vicino alla sponda beata del Letè, si udì cantare ―Mi aspergerai‖ così dolcemente che non solo non

riesco a ricordarmelo, ma tanto meno a descriverlo con le mie parole.

La bella donna aprì le braccia e con esse mi cinse la testa e m’immerse nel fiume, per cui fui costretto ad inghiottire

dell’acqua.

Dopo la donna mi fece uscire, ed ancora bagnato mi avviò dentro il cerchio formato dalle quattro belle donne che

danzavano e ciascuna mi coprì la testa tenendo alto il braccio.

Noi, qui ci presentiamo come ninfe dei boschi e nel cielo come stelle; prima che Beatrice apparisse nel mondo, fummo

destinate da Dio ad essere le sue ancelle.

Ti condurremo davanti ai suoi occhi; ma nella gioiosa luce che splende negli occhi di lei, i tuoi saranno resi capaci di

penetrare dentro dalle altre virtù che si trovano di là, le quali vedono più a fondo.

Così si avviarono, cominciarono cantando; e poi mi guidarono davanti al petto del grifone, dove Beatrice si trovava,

volta verso di noi.

E dissero: ―Cerca di guardare più attentamente che ti è possibile, aguzzando gli occhi: ti abbiamo posto davanti agli

occhi di Beatrice splendenti come smeraldi, da cui un tempo Amore trasse e lanciò le sue frecce contro di te‖.

Mille, infiniti desideri più ardenti di una fiamma, costrinsero i miei occhi a fissarsi in quelli sfavillanti di Beatrice, che a

loro volta continuavano ad essere rivolti con immobile intensità al grifone.

Come il sole si riflette in uno specchio, non diversamente il grifone dalle due nature si rifletteva dentro gli occhi di

Beatrice ora con gli atteggiamenti caratteristici della natura umana, ora con quelli di quella divina.

Pensa, o lettore, se io non mi meravigliavo, nel vedere il grifone restare sempre identico a se stesso e immobile, mentre

nell’immagine speculare, negli occhi di Beatrice si offriva diverso ora facendo vedere la natura umana ora quella divina.

Mentre l’anima mia colma di stupore e lieta gustava il cibo della verità soprannaturale che, se da un lato ci sazia con la

sua forza chiarificatrice ed ordinatrice, dall’altro la rende sempre desiderosa di sé, le altre tre ninfe, le virtù teologali,

mostrando attraverso i loro atteggiamenti e gesti di appartenere ad un ordine gerarchico superiore, entrarono danzando

nel ritmo del loro angelico canto.

―Volgi, Beatrice, volgi i tuoi santi occhi verso il tuo fedele‖ – erano queste le parole del canto –―il quale, per vederti, si

è impegnato in un così lungo e rischioso viaggio.

Per tua concessione fa a noi la grazia di svelare a lui il tuo viso e la tua bocca in modo che egli possa chiaramente

vedere la tua seconda bellezza che tieni ancora nascosta dietro il velo.‖ O tu, Beatrice, sei lo specchio in cui si riflette la viva luce eterna di Dio, quale poeta, anche se si è consumato con tanto

impegno nello studio assiduo della poesia e abbia bevuto alla fonte Castalia del monte Parnaso, non sembrerebbe aver la

mente impedita, se tentasse di rappresentare, di riprodurre te, o Beatrice, quale apparisti là, nell’Eden, dove solo il cielo

con la sua armonia rende un’immagine adeguata delle tue bellezze divine, quando ti mostrasti nella tua piena bellezza,

libera da ogni velo, nell’aria libera?

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Questo lavoro è stato realizzato da:

Gaia Leschiutta, Anna Valente e Monica Zappalà

allieve della classe II C del Liceo Classico ―J. Stellini‖ di Udine.

Un grazie particolare alla nostra professoressa di Italiano, Antonella Rotolo, per la collaborazione e

la disponibilità dimostrateci, e alla nostra insegnante di Storia dell’Arte, Francesca Venuto.

Un grazie anche a Caterina Mozzanti e Laura Semprini, allieve frequentanti la classe III C presso

il nostro stesso Istituto, per l’importante contribuito all’analisi critica delle opere d’arte. Hanno

curato con consapevolezza ed eleganza la lettura delle fonti iconografiche dal Settecento ai giorni

nostri.

Si ricorda anche la partecipazione di Nicole Ceschia e Giovanni Tonutti (classe I C), che si sono

occupati del legame tra l’episodio analizzato e la Vita Nuova.