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Ricerca Ce.Mi.S.S. B5/AA L’immagine delle istituzioni della Repubblica italiana nelle comunità di immigrati Direttore di ricerca: Fabrizio Battistelli. Ricercatori: Lorenzo Striuli e Leonardo Giannini Consulenza: Andrea Coppi

L’immagine delle istituzioni della Repubblica Italiana ... · L’immagine delle istituzioni della Repubblica ... loro dinamiche con la nozione dello Stato-nazione, forma politica

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Ricerca Ce.Mi.S.S. B5/AA

L’immagine delle istituzioni della Repubblica italiana nelle comunità di immigrati

Direttore di ricerca: Fabrizio Battistelli. Ricercatori: Lorenzo Striuli e Leonardo Giannini

Consulenza: Andrea Coppi

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INDICE

Introduzione 3 Capitolo 1 – L’immigrazione in Italia

− 1.1 Migrazioni e minoranze nel mondo globalizzato 6 − 1.2 L’immigrazione in Italia: l’evoluzione degli ultimi 30 anni 12 − 1.3 Le comunità di immigrati in Italia 19 − 1.4 Le comunità musulmane in Italia: dimensioni, articolazione 31

organizzativa, processo di integrazione Capitolo 2 – L’immagine reciproca degli italiani e degli immigrati

- 2.1Gli immigrati nella rappresentazione degli italiani \ 42 - 2.2 L’immagine degli italiani nella rappresentazione degli immigrati 54 - 2.3 L’immagine degli italiani nella rappresentazione degli immigrati 64

di origine araba e religione musulmana Capitolo 3 – Le istituzioni della Repubblica Italiana nella percezione degli immigrati arabi e musulmani

− 3.1 Metodologia di ricerca 71 − 3.2 Analisi della rilevazione 74

Capitolo 4 – Osservazioni conclusive

– 4.1 Forze Armate plurali e immigrazione 94 – 4.2 Gli immigrati musulmani in Italia e le Forze Armate 96

Bibliografia 105 Appendice. Interviste 109 Fabrizio Battistelli è autore dell’Introduzione e del cap. 4. Leonardo Giannini è autore dei paragrafi 1.2 e 1.3 e del cap. 2; Lorenzo Striuli è autore del paragrafo 1.1. e del cap. 3; Andrea Coppi è autore del paragrafo 1.4.

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Introduzione

Avviandosi a conclusione il primo decennio del XXI secolo, l’attuale scenario strategico si conferma caratterizzato da minacce che fanno leva non tanto sulla potenza di singoli stati quanto sulla contrapposizione a base identitaria di gruppi etnici e religiosi. In un contesto nel quale si va attenuando il confine tra international security e homeland security, il ruolo degli immigrati emerge sempre più delicato e decisivo.

In riferimento al territorio e all’incolumità stessa di una popolazione, dunque, per tacere di altri importanti aspetti dei processi produttivi e della convivenza civile, le società occidentali non possono permettersi di trascurare l’associazione degli immigrati nella società in cui hanno scelto di vivere. Usiamo il termine associazione non a caso e in alternativa ad altri termini, corrispondenti a loro volta ad altri concetti. Sull’argomento è, scontato il rifiuto del concetto più antico di tutti, quello di assimilazione. Giudicato superato già nella tarda società industriale, esso appare improponibile in quella post-industriale, caratterizzata dalla spinta accentuazione della soggettività degli attori individuali e collettivi. Si tratta di un’evoluzione definitivamente incompatibile con l’idea stessa di assimilazione, una categoria che presuppone il riconoscimento da parte degli immigrati che la società di accoglienza costituisca un modello totalmente superiore da abbracciare, in contrapposizione a una società di provenienza che invece sia totalmente inferiore e da ripudiare.

Ma anche il concetto che lo ha sostituito – quello di integrazione – suscita oggi più di una riserva. Pur rispettando, a differenza dell’assimilazione, la pari dignità dei contraenti, l’integrazione conserva del modello sistemico (in senso parsonsiano) l’idea che una parte (gli immigrati) debba essere inserita, o comunque vada a inserirsi, in un insieme già esistente (la società di accoglienza), perfettamente funzionante e compiuto senza di loro. Applicato alla condizione dei migranti, al contrario, il concetto di associazione ci sembra doppiamente vantaggioso. Innanzitutto esso comprende non soltanto la dimensione strutturale, oggettiva, del processo, ma anche quella soggettiva in termini di un’adesione volontaria che è tale sul piano sia psicologico sia politico. In secondo (ma non meno importante) luogo, esso esprime la natura bilaterale del processo stesso. Associare un immigrato alla nostra società e, per l’immigrato, associarsi a quest’ultima non significa che in un sistema meccanico un ingranaggio si aggiunge e si sostituisce a un altro, bensì che due attori stipulano un patto.

Nella fattispecie ciò implica, naturalmente, l’inserimento degli immigrati nel tessuto economico e sociale del Paese ospite ma, anche e soprattutto, la condivisione

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dei valori fondamentali della convivenza civile, quale si è venuta elaborando nella storia della civiltà occidentale in genere e nella sua applicazione italiana in particolare. Come hanno mostrato con tragica evidenza gli attentati di Londra del luglio 2005, non sempre e necessariamente i due processi – l’inserimento economico-sociale e la condivisione dei valori – rappresentano un binomio scontato e l’esito immediato e automatico l’uno dell’altro. Piuttosto, essi costituiscono un obiettivo di lungo periodo da perseguire consapevolmente.

La consapevolezza, in un autentico processo di associazione, della complessità di quest’ultimo (direttamente proporzionale alla distanza di partenza tra le culture in gioco) in nessun modo presuppone l’antagonismo tra immigrati e società ospite e quindi l’impossibilità di un dialogo. Apparentemente drastica, l’idea della sostanziale “inutilizzabilità” civica degli immigrati (in particolare degli immigrati di religione musulmana) è in realtà un’idea rinunciataria. Essa infatti non considera il secondo ordine di aspetti collegati all’oggettivo dato di fatto costituito, nell’Italia del XXI secolo, dall’esistenza di ormai radicate minoranze di origine straniera, attualmente stimate nell’ordine di oltre tre milioni di individui, un terzo dei quali di religione islamica. A livello propositivo, dunque, gli immigrati in generale e tra loro quelli di religione e cultura islamica rappresentano un significativo segmento della popolazione ormai presente nel Paese, nella grande maggioranza dei casi destinata a restarvi anche acquisendo la cittadinanza italiana. Ove l’accennato processo di associazione sia coronato da successo, dagli elementi appartenenti a questa popolazione può provenire un contributo alla politica di pace, di stabilizzazione e di cooperazione internazionale cui si ispira – e c’è da augurarsi continui ad ispirarsi – la politica estera, strategica e di sicurezza del nostro Paese.

Come vedremo nel primo capitolo, nell’ultimo ventennio del XX secolo, l’Italia è stata rapidamente inclusa nei processi migratori Nord/Sud e da Est a Ovest, passando da paese di emigrazione a paesi di immigrazione. Alternando in rapida successione vari atteggiamenti – dalla sottovalutazione del fenomeno, alla sorpresa e talora all’opposizione e, infine, alla crescente consapevolezza – gli italiani hanno assistito alla nascita e allo sviluppo nel proprio territorio di comunità straniere sempre più numerose e diversificate.

Di questa alternanza di atteggiamenti daremo conto nel secondo capitolo, passando in rassegna gli studi che da diverse prospettive – sociologica, economica, giuridica etc. – hanno affrontato il rapporto popolazione autoctona/immigrati. Concentrandoci sulle ricerche sociologiche, nella grande maggioranza dei casi esse hanno avuto per oggetto le rappresentazioni sociali e gli atteggiamenti di settori della popolazione italiana nei confronti degli stranieri. È a partire dagli anni Duemila che cominciano ad apparire le prime ricerche che si relazionano agli immigrati non più soltanto come oggetto ma anche come soggetto chiamato a esprimere la propria opinione su determinati aspetti della società italiana (quali ad esempio il lavoro, le politiche migratorie, le esperienze personali etc.). Sono peraltro poche le ricerche che pongono al centro della propria attenzione l’atteggiamento degli immigrati nei

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confronti delle Istituzioni dello Stato nel quale hanno scelto di emigrare: un ritardo che appare tanto più serio se confrontato con le rilevazioni dedicate, realizzate sempre più spesso da altri paesi europei.

Facendo tesoro delle analisi che pure esistono, il terzo capitolo presenta i risultati di una ricerca sul campo mirata a ricostruire l’immagine che gli immigrati di religione islamica intrattengono delle Istituzioni della Repubblica italiana, con particolare riferimento alle Forze Armate. In particolare, la ricerca focalizza il grado di propensione e le circostanze concomitanti che potrebbero indurre un immigrato – tendenzialmente aspirante a diventare cittadino italiano – a considerare l’eventualità di arruolarsi ovvero a consigliare un proprio figlio di operare tale scelta. È intuitivo l’interesse di una verifica di tale propensione la quale, se prevedibilmente non è destinata ad assumere grandi proporzioni sul piano quantitativo, presenta rilevanti potenzialità sul piano qualitativo. Essa infatti, sarebbe in grado di fornire alle Forze Armate elementi preziosi nella mediazione linguistica e, soprattutto, culturale, in teatri operativi tra i più nevralgici del futuro.

Un’indagine come quella che presentiamo, avente per oggetto tematiche nuove, complesse e – riconosciamolo pure – politicamente “sensibili”, non può che avere un carattere esplorativo. Essa fa quindi ricorso a tecniche di rilevazione di natura qualitativa, che non attingono ad alcuna rappresentatività statistica, bensì si limitano a registrare idee che circolano e atmosfere che fungono da sfondo in determinati ambienti dell’immigrazione. Tale approccio non esclude – fornisce anzi una necessaria base di riferimento in vista di – futuri approfondimenti, eventualmente realizzabili con tecniche di rilevazione quantitative del tipo survey.

Nella presente ricerca sono state effettuate 20 interviste a immigrati di religione islamica appartenenti alle principali comunità nazionali presenti a Roma, diversificati per paese di origine, status giuridico (stranieri immigrati/cittadini italiani di origine straniera) occupazione (lavoratori/studenti) ed età (giovani/adulti). La griglia di intervista si è proposta di ricostruire gli atteggiamenti degli intervistati in merito al rapporto tra la civiltà del paese d’origine e quella del paese ospite, la rappresentazione dei valori di quest’ultimo (con particolare riferimento ai valori della democrazia, della legalità e della sicurezza), il grado di condivisione/contrapposizione tra questi e i valori della società di origine, la percezione del trattamento ricevuto dagli italiani. Uno specifico accento è stato posto sull’immagine delle Istituzioni pubbliche in genere e, specificamente, di quella militare. A quest’ultimo proposito sono state sondate le opinioni circa il ruolo e l’immagine delle Forze Armate italiane, consentendo una prima ricognizione dei vincoli e degli incentivi che sono in grado di ostacolare/favorire l’eventuale arruolamento.

Dalle risposte degli intervistati emerge un quadro che, senza pretesa di essere

esaustivo, fornisce interessanti spunti di riflessione per la predisposizione di una policy sull’argomento.

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CAPITOLO 1

L’immigrazione in Italia

1.1. Migrazione e minoranze nel mondo globalizzato Con il termine “immigrazione” ci si riferisce ai fenomeni relativi

all’insediamento, permanente o semipermanente, in un determinato Paese di persone provenienti da un altro Paese. Non si tratta di un fenomeno esclusivamente contemporaneo né unicamente riconducibile a ciò che oggi viene definito “globalizzazione”. Migrazioni di grandi gruppi umani sono sempre avvenute nella storia, e anzi rappresentano una costante della condizione umana, per non parlare delle altre specie viventi.

Pertanto, vi sono sempre state teorie storiografiche, demografiche, economiche,

sociologiche e finanche filosofiche che si sono occupate del fenomeno migratorio, nella duplice accezione dell’esodo da una società e da un territorio e dell’insediamento in un’altra società e in un altro territorio. Oggi le teorie generali delle migrazioni umane tendono a parlare di “fattori di espulsione” (push factors) e “fattori di attrazione” (pull factors). Fra i primi sono da ricondursi le cause che, relative a condizioni presenti nei Paesi di origine dei flussi migratori, determinano l’emigrazione di alcuni gruppi umani che altrimenti non avrebbero ragione di spostarsi. Fra i secondi sono da ricercare quei fattori di attrazione presenti nei Paesi destinatari di flussi migratori. Esempi connotativi dei due tipi di fattori sono illustrati nella tabella 1.1 (v.).

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Tabella 1.1: “Fattori di espulsione” e “fattori di attrazione” dei flussi migratori

Fattori di espulsione Fattori di attrazione

Economici Necessità di assicurare benessere a

familiari che rimangono nei Paesi di origine

Ricongiungimento familiare

Disoccupazione Opportunità di lavoro Difficoltà nella mobilità sociale e/o miglioramento/completamento del

proprio percorso formativo o professionale

Migliori condizioni per intraprendere percorsi di mobilità sociale e/o

miglioramento/completamento del proprio iter formativo o professionale

Infrastrutturali Precarie condizioni igienico-sanitarie Soddisfacenti condizioni igienico-

sanitarie Scarsità di infrastrutture

Accadimento di disastri naturali

Migliori condizioni di vita, welfare Politici

Instabilità e/o repressione politica Conflittualità, anche armata

Alto tasso di criminalità comune, organizzata o di Stato

Repressione etnica e/o religiosa

Condizioni di stabilità, sicurezza e

riconoscimento identitario

Criminali Esigenza di sfuggire alla giustizia del

proprio Paese Possibilità di trovare un safe heaven nel

Paese ospitante La peculiarità degli attuali fenomeni migratori risiede nelle connessioni delle

loro dinamiche con la nozione dello Stato-nazione, forma politica di convivenza associata che, pur mostrando oggi evidenti segni di crisi, non conosce ancora valide alternative. Lo Stato-nazione, infatti, porta con sé l’idea di cittadinanza, nel cui ambito è previsto il diritto inalienabile di residenza all’interno di un determinato Stato. Di conseguenza, ogni Stato prevede leggi sull’immigrazione mediante le quali regolarizza i flussi immigratori di altri gruppi umani non appartenenti alla sua popolazione di riferimento.

Quest’ultimo aspetto è acutizzato nei Paesi il cui senso di identità culturale (nella

quale confluiscono variamente fattori etnici, linguistici, religiosi etc.) si ricollega alla loro ragion d’essere come Stati. A differenza di società costituitesi fin dalle origini intorno a nuclei di immigrati (Stati americani, Australia etc.), quanto detto riguarda pressoché tutte le principali realtà del continente europeo. L’immigrazione può creare preoccupazione in popolazioni autoctone che presentano caratteri omogenei o

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comunque stabilizzati, e conseguenti forme di attrito con le nuove comunità; e l’intensità di tali forme di attrito è solitamente proporzionale al grado in cui i gruppi allogeni (“minoranze visibili”) sono riconoscibili come diversi, sulla base di fattori fisici o culturali.

Anche in Italia, così, nel corso dell’ultimo ventennio hanno preso corpo

coinvolgenti dibattiti attorno a tematiche quali il multiculturalismo, l’integrazione, l’assimilazione culturale e tanti altri concetti, una volta dominio del linguaggio antropologico e/o sociologico, ma oramai adottati nella quotidianità del discorso pubblico politico, intrapreso da esponenti del mondo religioso, giornalistico, culturale etc. Tali concetti un tempo erano confinati a tematiche relative al solo confronto con specifici gruppi etnici presenti all’interno di comunità più grandi, quali ad esempio nomadi o minoranze, risultato di processi storici precedenti che ne avevano portato all’inclusione. Attualmente essi si stanno dimostrando utili anche per le diverse categorie di gruppi migranti di varia provenienza che raggiungono l’Europa e che, per la loro rilevanza quantitativa, stanno divenendo vere e proprie nuove minoranze.

Oggigiorno, la quasi totalità dei Paesi del mondo è caratterizzata da una grande

diversità culturale: infatti, nei 194 Stati indipendenti e riconosciuti (dei quali 192 membri dell’ONU) vivono 600 gruppi linguistici e circa 5000 gruppi etnici. È evidente come gli Stati caratterizzati da un unico ceppo linguistico o una sola etnia rappresentino un’eccezione nel panorama mondiale. Come già accennato, ciò è oramai vero anche per il continente che storicamente ha visto la nascita e l’affermazione del concetto e della realtà dello Stato-nazione: l’Europa. Sono stati proprio i movimenti migratori, sia interni al Vecchio Continente sia esterni ad esso, a far sì che, oggi, una quota sempre più consistente di popolazione europea sia rappresentata da immigrati. Il fenomeno della migrazione ha dapprima riguardato paesi dal passato coloniale come la Francia o la Gran Bretagna, e da due-tre decenni, in misura via via maggiore, paesi come l’Italia o la Spagna, vere e proprie “terre di confine” di quello “Stato sovranazionale postmoderno” (secondo la controversa definizione di Cooper, 2000) rappresentato dall’Unione Europea. Le migrazioni, pertanto, hanno costituito per l’Europa un potente fattore di trasformazione economica e sociale, anche in virtù del fatto che tale fenomeno si è connesso nell’ultimo decennio in maniera determinante non solo con le crisi esterne al continente, ma anche con la spinta propulsiva della globalizzazione in atto.

Il dibattito sul multiculturalismo si è quindi sviluppato in Europa secondo

un’accezione volta a far sì che, tra orientamenti e atteggiamenti differenti (e in qualche caso anche opposti), determinati dalle diverse appartenenze culturali, si stabilisca un rapporto di coesistenza e di reciproca accettazione1. In questo senso, il multiculturalismo implica, da una parte, il mantenimento delle differenze

1 Non è così per altri contesti dove il multiculturalismo viene inteso quale r preservazione di culture diverse quasi fossero monadi isolate, interagenti fra di loro solo per quanto impone l’appartenenza ad un’unica realtà statuale.

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tradizionalmente radicate nelle culture che si incontrano e, dall’altra, il riconoscimento del “diritto d’esistenza” e del dovere di coesistenza di tali diversità.

Tutto ciò è valido solo in teoria perché, nella realtà dei fatti, le politiche di

integrazione hanno spesso conosciuto difficoltà di varia natura nella loro effettiva attuazione. È una realtà che i legislatori, i magistrati, le forze politiche rappresentative di realtà locali, le forze dell’ordine, gli operatori sociali, i mediatori culturali “in prima linea” e, certamente, anche molti semplici cittadini conoscono bene. È da tali difficoltà che scaturisce talora la convinzione secondo la quale la diversità riveste caratteri di irriducibilità, ad esempio a causa della presunta incapacità degli allogeni di “aderire alle regole” proprie dei contesti sociali ospitanti.

In realtà l’adesione alle regole è una condizione necessaria ma non sufficiente

per un’efficace politica di associazione. Altre condizioni vanno pertanto soddisfatte, a cominciare da quella relativa al bisogno di riconoscimento.

Tale bisogno, espresso in varia misura da tutte le culture, è uno dei fattori che

ispirano la controversia tra le posizioni di intellettuali come “liberali” vs. “comunitaristi”. Da una parte, vi è la visione universale dei diritti e dei doveri, storicamente di origine settecentesca e filosoficamente di impronta kantiana, che caratterizza tuttora le società liberal-democratiche occidentali; dall’altra, vi è il pensiero di quei comunitaristi come Taylor (1992, 1994), secondo cui tale logica non è più compatibile con le nuove esigenze sociali di una “politica della differenza”. Una tale politica è alternativa all’universalizzazione del diritto, il quale, a detta dei comunitaristi, non tiene in debito conto, e conseguentemente non tutela, i diritti e le esigenze delle individualità personali e collettive che costituiscono le singole culture. Pertanto, essi ritengono inevitabile, contrariamente alla visione del diritto liberale, l’esplicito riconoscimento di valori e culture distinte all’interno di uno stesso corpo sociale, fino a propugnare conseguenti differenziazioni normative.

In realtà, un conflitto uguaglianza vs. differenza è da considerarsi disfunzionale

per via delle tensioni che possono sorgere fra le varie politiche di integrazione culturale: da una parte, la prevenzione e il contrasto delle eventuali discriminazioni nei modi in cui cittadini, “nuovi” cittadini e immigrati si differenziano fra di loro; dall’altra, l’orientamento a fare alcune distinzioni e ad attuare trattamenti differenziati.

E di tale perniciosità sembra essersi accorto Habermas, che cerca una sorta di

“terza via” tra la posizione comunitarista e quella liberale (Taylor e Habermas, 1998). Secondo Habermas, il liberalismo democratico occidentale contiene tutte le possibilità di attuazione di una corretta politica delle differenze. Il contrasto tra le libertà universali e la salvaguardia delle identità collettive non ha pertanto alcun motivo di sussistere; infatti le distinte modalità espressive delle differenti culture conviventi in uno stesso ambito sociale possono essere reciprocamente garantite

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proprio attraverso le possibilità consentite dalle libertà individuali. Per Habermas, dunque, al contrario di quanto ritiene Taylor, nelle società moderne il diritto deve tendere alla maggiore neutralità possibile circa i valori etici e culturali in genere, e questo perché non esistono diritti collettivi “particolari”, in quanto la valorizzazione delle diversità deve sempre essere riferita ad una prassi fondata su criteri costituzionali universalistici e transculturali.

Tuttavia, privilegiando un’ottica centrata sui diritti individuali, Habermas

riconosce che non si può ignorare l’esistenza delle differenze e delle loro esigenze, anche se non si deve cadere in ciò che definisce “l’eccesso moralistico della proposta dei comunitaristi”. Egli piuttosto propone di “enucleare un universalismo estremamente sensibile alle differenze” (Taylor e Habermas, 1998, 84). In tale proposito è implicitamente contenuto il concetto di inclusione, non riconducibile a quello di assimilazione, che Habermas così spiega: “Inclusione non significa accaparramento assimilatorio, né chiusura contro il diverso. Inclusione dell’altro significa piuttosto che i confini della comunità sono aperti a tutti: anche, e soprattutto, a coloro che sono reciprocamente estranei e che estranei vogliono rimanere” (Habermas, 1998, 13).

Habermas in sostanza si domanda se il riconoscimento di tradizioni e forme di

vita marginalizzate dipenda dal tipo di diritti collettivi particolari che scardinano la classica idea dello Stato liberal-democratico di diritto, soffermandosi proprio sull’esigenza comunitarista di trovare dei “correttivi” al modello liberale.

Conclusioni almeno in parte riconducibili a quelle di Habermas sono state

sviluppate da Sartori (2000), che ha sottolineato come, tra il pluralismo e il multiculturalismo, quest’ultimo costituisce spesso un ostacolo alla piena realizzazione del primo elemento.

Quando parla di società pluralistica, Sartori ha popperianamente in mente una

“società aperta”, riconducibile ad una matrice essenzialmente liberale. Una società pluralistica si caratterizza con l’apertura alle differenze, che trovano spazio e riconoscimento entro una comune realtà socio-politica, strutturata intorno ad un dialogo interculturale e sorretta da principi di rispetto e tolleranza reciproci.

Muovendo da una visione del multiculturalismo inteso come politica di

promozione, a tratti forzata, delle differenze etniche e culturali, Sartori avverte che una società pluralistica può talvolta entrare in tensione con le istanze multiculturali, che possono produrre spinte centrifughe e orientate alla chiusura. Porre l’accento sulle differenze, infatti, contribuirebbe a marcare la divisione tra i diversi gruppi, ostacolando così di fatto quello scambio dialogico interculturale proprio del progetto pluralistico.

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All’interno di una simile prospettiva, ciò che garantirebbe unità e compattezza alla struttura sociale dei riconoscimenti sembra essere il requisito della reciprocità, che, nella visione di Sartori, si traduce in una disponibilità che vincola le parti sia all’apertura sia all’accettazione. In altri termini, un simile appello alla reciprocità dovrebbe essere inteso come un impegno all’apertura pluralistica, controbilanciato, tuttavia, da un eguale impegno all’accettazione delle regole della collettività ospitante. Quest’ultima precisazione appare fondamentale per comprendere in quale senso Sartori (2000, 56) sostiene che “il pluralismo raccomanda quel tanto di assimilazione che è necessario per creare integrazione”.

In sostanza Sartori polemizza contro quelle politiche della differenza che

propongono la concessione di diritti speciali, quasi a titolo di risarcimento per la loro intrinseca diversità, a culture tendenzialmente minoritarie, differenti da quella dominante: “la cosiddetta politica del riconoscimento non si limita a riconoscere; in realtà fabbrica e moltiplica differenze mettendocele in testa” (Sartori, 2000, 78). È evidente come egli si riferisca alla proposta multiculturale avanzata da Taylor relativamente alla concessione di diritti speciali a tutela delle minoranze culturali. Sartori nota, a questo proposito, come una simile politica conduca alla frammentazione del tessuto sociale e alla ghettizzazione di determinati gruppi, socialmente stigmatizzati.

Ma quanto può essere “aperta” la società, e quali sono i limiti di una società

pluralistica? Egli sostiene che l’idea di pluralismo era già implicita nello sviluppo del concetto settecentesco di “tolleranza”, e che i due termini sono diversi ma complementari. Il pluralismo presuppone la tolleranza e, a differenza del multiculturalismo che afferma un valore proprio e autoreferenziale, il secondo rispetta i valori altrui. È per questo che il pluralismo difende ma contemporaneamente frena la diversità e richiede l’assimilazione, mentre il multiculturalismo non fa che accentuare tali diversità mediante politiche di riconoscimento. Pertanto, secondo Sartori, con il multiculturalismo si arrivano a commettere grossolani equivoci quando si giunge ad affermare che il mancato riconoscimento provoca oppressione. In definitiva, il multiculturalismo minerebbe le basi della convivenza democratico-liberale, perché attraverso trattamenti diseguali esso consegue esiti diseguali. Qualsiasi tipo di fondamentalismo (da intendersi nell’accezione di difesa ad oltranza della propria identità collettiva) appare non integrabile all’interno di un progetto pluralistico; anzi, la presenza di posizioni estreme costituirebbe un concreto pericolo per qualsiasi progetto integrazionista. Il requisito fondamentale per qualsiasi politica di integrazione, dunque, è rappresentato quantomeno dalla disponibilità ad accettare compromessi circa le proprie pretese, quale punto di partenza per un dialogo finalizzato all’intesa.

Queste considerazioni rivestono notevole interesse, soprattutto se raffrontate alla

proposta tayloriana, che risente dei limiti intrinseci di ogni impostazione

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comunitarista, in cui le differenze culturali vengono portate all’estremo, a discapito dell’eguaglianza politica individuale.

A questo proposito, tuttavia, l’analisi sartoriana si scontra con quello che pare

essere un suo limite, ovvero l’identificazione della proposta multiculturale nel suo complesso con quella avanzata da Taylor. In realtà, il “fronte” dei multiculturalisti è ben più variegato del ristretto ambito, peraltro a sua volta eterogeneo, dei comunitaristi. Nei termini proposti da Habermas, ad esempio, il multiculturalismo non si sposa con la chiusura intraculturale, ma di converso con l’apertura interculturale, l’inclusione delle differenze, il riconoscimento politico delle identità e la stessa tolleranza. Si può, pertanto, riconoscere in una simile proposta qualcosa di molto simile all’idea di pluralismo sviluppata dallo stesso Sartori; un’idea che mira al superamento di quella opposizione tra istanze multiculturali e progetti pluralistici che il politologo rintraccia nella costruzione teorica tayloriana, e che determina la base delle critiche da lui rivolte al multiculturalismo nel suo complesso.

Sembrerebbe, quindi, opportuno riconcettualizzare le varie politiche di

integrazione interculturale secondo questi termini, ed osservare se si ottengono risultati migliori di quelli sperimentati in passato. Non si tratta solo di giungere a pur necessari “patti sociali” sull’osservazione o meno delle regole, ma di pervenire ad una reciproca comprensione della dignità di ogni cultura e delle opportunità offerte dagli interscambi collaborativi fra di esse.

1.2. L’immigrazione in Italia: l’evoluzione degli ultimi 30 anni

Il panorama dei flussi migratori internazionali ha conosciuto negli ultimi anni notevoli mutamenti, determinati dall’alta interdipendenza dell’attuale sistema internazionale. Due terzi dei migranti si sono spostati dal cosiddetto Sud del mondo, ma di questi solo un terzo ha raggiunto il ricco Nord. In quindici anni il numero complessivo dei migranti è aumentato del 23%. Per esempio, in Italia gli immigrati sono cresciuti dai circa 649.000 del 1991 ai circa 2,5 milioni riferiti dall’ONU per il 2005, che divengono oltre 3 milioni secondo le stime più articolate della Caritas (Caritas/Migrantes, 2007). La tabella 1.2 (v.) fornisce un riepilogo sinottico dei cittadini stranieri iscritti all’anagrafe secondo l’Istituto nazionale di statistica (Istat, 2007):

Tabella 1.2: Cittadini stranieri iscritti all’anagrafe al 1° gennaio 2007

Cittadini stranieri: 2.938.922

dei quali di sesso maschile: 1.473.073 dei quali di sesso femminile: 1.465.849

Variazione complessiva rispetto al 2006:

+ 268.408 (+10,1%)

Fonte: Istat, 2007.

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Secondo l’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico

(OCSE), tra il 2003 e il 2004 la presenza di immigrati nei 30 paesi di sua pertinenza sarebbe aumentata complessivamente di 3,5 milioni. In questi i maggiori tassi di flusso sono stati registrati negli USA (+34%), in l’Italia (+28%) e nel Regno Unito (+24%). Da diversi anni il principale motivo di ingresso di nuovi immigrati nei Paesi a Sviluppo Avanzato (PSA) risulta essere il ricongiungimento familiare (Caritas/Migrantes, 2006).

Alla fine del 2004, nei 25 Stati membri dell’Unione Europea i cittadini stranieri

(escludendo coloro che hanno già acquisito la cittadinanza) sono risultati circa 26 milioni e 61mila su una popolazione di circa 457 milioni di abitanti; il che si traduce in un’incidenza media di poco superiore al 5%, con punte del 9% in Germania e in Austria, dell’8% in Spagna, del 5% nel Regno Unito e in Francia e superiore al 4% in Italia (quota salita, secondo le stime della Caritas, al 5,2% l’anno successivo) (Caritas/Migrantes, 2006).

L’Unione Europea si presenta così come un’area ad alta concentrazione di

immigrati, la cui presenza si interseca con fenomeni di natura demografica. Nel 2050, infatti, si prevede che nel Vecchio Continente la popolazione nel suo complesso diminuisca di 7 milioni di unità, e di 52 milioni di unità la popolazione in età da lavoro. Tutto questo al netto di un’immigrazione prevista in 40 milioni di persone (Caritas/Migrantes, 2006).

Il numero degli immigrati regolari in Italia ha quasi raggiunto quello degli

emigrati italiani nel mondo. Secondo la stima della Caritas/Migrantes (2006), gli immigrati erano, alla fine del 2005, 3.035.000 unità: a questo risultato si perveniva tenendo conto dei dati registrati dal Ministero dell’Interno, del numero dei minori e di una quota di permessi di soggiorno in corso di rinnovo. L’aumento degli immigrati in Italia nel 2005 era dovuto sia ai nuovi arrivi (187.000) che alle nascite di figli di cittadini stranieri (52.000) (Caritas/Migrantes, 2006).

Partendo dalle 3.035.000 presenze regolari stimate a fine 2005 (stima vicina al

dato ipotizzato dall’Istat), sono stati aggiunti i nuovi nati nel 2006 (poco meno di 60.000) e le domande presentate per assumere lavoratori sulla base delle quote fissate nel 2006 (al posto delle 540.000 effettive, ne sono state conteggiate 486.000 per tenere conto di quelle non accettate; Caritas/Migrantes, 2007). Nel 2006, infatti, allo sforzo di raddoppiare le quote annuali di lavoratori provenienti dall’estero (portate a 170.000) ha fatto seguito un numero di domande di assunzione tre volte superiore (485.000 domande presentate nel mese di marzo 2006) alla cifra stabilita dal cosiddetto “decreto flussi” (Caritas/Migrantes, 2006), evidenziando le carenze dei meccanismi di incontro tra domanda e offerta. Le 540.000 domande di assunzione

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presentate nel 2006 hanno pertanto reso necessaria l’emanazione di un secondo decreto flussi2, che ha disposto ulteriori 350.000 ingressi (Caritas/Migrantes, 2007).

In aggiunta alle presenze regolari registrate a fine 2005, oltre ai nuovi nati nel 2006 e alle 486.000 domande di assunzione conteggiate dalla Caritas, nel XVII Dossier Caritas/Migrantes 2007 vengono stimati (decurtando ciascuna voce del 5% quale quota di quanti si presume possano essere nel frattempo usciti dall’Italia o non aver utilizzato il visto per entrare):

• i visti rilasciati per ricongiungimento familiare (82.330); • i visti rilasciati per studio universitario o comunque studio di una certa stabilità

in Italia (19.604); • i visti rilasciati per motivi religiosi (3.191); • i visti rilasciati per residenza elettiva (928).

Il risultato di questa stima è una presenza di 3.690.000 cittadini stranieri (comunitari e non comunitari) come ipotesi massima; da questa cifra si possono sottrarre all’incirca 100 mila unità, supponendo che un numero più elevato di domande di assunzione sia stato respinto e che abbia lasciato il Paese un numero maggiore delle 15.000 cancellazioni anagrafiche di cittadini stranieri registrate dall’Istat nel 2006 (Caritas/Migrantes, 2007).

L’incidenza della popolazione immigrata sulla popolazione totale italiana, alla

fine del 2006, è pari al 6,2%, a fronte del 5,2% registrato l’anno precedente allorché si contava 1 immigrato ogni 19 residenti (1 ogni 14 nel Centro e nel Nord-Est, 1 ogni 16 nel Nord, 1 ogni 15 nel Centro; Caritas/Migrantes, 2006). La ripartizione territoriale dei soggiornanti stranieri nel 2006, che vede 6 immigrati su 10 inseriti nel Settentrione, conta circa 1.250.000 presenze nel Nord-Ovest (pari al 33,7% del totale), quasi 1.000.000 nel Nord-Est (25,9%), una cifra di poco superiore nel Centro (26,6%) e più di 500.000 nelle regioni del Sud (13,8%) (Caritas/Migrantes, 2007).

Il tasso medio d’aumento dei soggiornanti regolari (+16,1%) è stato soggetto a limitati scostamenti: al di sotto, si collocano il Nord-Ovest e il Centro e, al di sopra, il Nord-Est e le Isole, mentre le regioni del Sud aumentano complessivamente del 21,0% (Caritas/Migrantes, 2007).

2 Ovvero il provvedimento della Presidenza del Consiglio dei Ministri che, a cadenza almeno annuale, fissa sia il tetto numerico massimo di ingressi in Italia (le cosiddette “quote”) da parte di cittadini extracomunitari per motivi di lavoro subordinato e autonomo, sia il numero di permessi di soggiorno per motivi di studio che possono essere convertiti in permessi di lavoro. Il decreto flussi cui si accennava, pubblicato nella Gazzetta ufficiale il 7 marzo 2006, prevedeva l’ingresso di 170.000 extracomunitari; le quote disponibili sono andate esaurite, come spesso è accaduto negli ultimi anni, in meno di un’ora. Tuttavia, in conseguenza all’eccessivo numero di domande presentate dai cittadini immigrati rispetto al numero delle quote disponibili, il Presidente del Consiglio dei Ministri aveva approvato un decreto flussi bis, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale del 7 dicembre 2006, che aumentava di 350.000 unità il numero di cittadini extracomunitari che potevano fare ingresso in Italia per motivi di lavoro (o convertire il permesso per studio). Rientravano nel decreto flussi bis le domande di nulla osta già presentate dai datori di lavoro dal 14 marzo al 21 luglio 2006.

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L’Italia si colloca, così, accanto ai grandi Paesi europei di immigrazione: Germania (7.287.980), Spagna (3.371.394), Francia (3.263.186) e Gran Bretagna (2.857.000).

La maggior parte dei permessi di soggiorno è a carattere stabile, per cui più di 9

immigrati su 10 sono presenti nel nostro Paese per lavoro (62,6%) e per motivi di vicinanza famigliare (29,3%) (Zincone, 2001). Questi dati vengono confermati anche dalle più recenti stime della Caritas, dove si registra che le presenze per lavoro e per ricongiungimento familiare (92,1% del totale) esercitano congiuntamente un peso molto elevato. La prevalenza di questi motivi sottolinea quanto siano diffusi i progetti migratori a lungo termine – probabilmente per lo più a carattere definitivo – tra la popolazione immigrata (Caritas/Migrantes, 2007). Ad essi si aggiungono altre motivazioni, anch’esse legate a una certa stabilità del soggiorno (motivi religiosi, residenza elettiva, corsi pluriennali di studio). Già un’analisi del 1998 sulle motivazioni esplicitate per la richiesta dei nuovi permessi di soggiorno indicava come i migranti provenienti da Paesi quali il Marocco, ad esempio, alimentassero un’immigrazione a carattere stabile, in quanto, per questa comunità, il motivo prevalente era costituito dal ricongiungimento alla famiglia (Zincone, 2001).

La diversità dei luoghi di origine determina la co-presenza tra gli immigrati in

Italia di una pluralità di religioni: cristiani (49,1%), musulmani (33,2%), religioni orientali (4,4%). Sono circa 1 milione e mezzo i cristiani provenienti da altri Paesi. La stabilità percentuale dei cristiani è dovuta agli ortodossi, aumentati questi ultimi, nel 2006, di 259.000 unità; in ragione di questo aumento, se nel 2005 la presenza ortodossa era pari a quella cattolica, l’anno successivo gli ortodossi sopravanzano i cattolici di 233.000 unità, essendo diventati oltre 918.000 a fronte di 685.000 cattolici (aumentati solo di 17.000 unità). I musulmani, secondo le ultime stime della Caritas, nel 2006 sarebbero aumentati di 103.000 unità, in gran parte a seguito dei ricongiungimenti familiari e delle nuove nascite. Il loro numero, nel 2006, ammonterebbe a 1.202.396 persone, mentre nel 2005 i musulmani erano circa 1 milione (Caritas/Migrantes, 2007)3. Ancora, induisti e buddisti si dividono tra le 50 e le 100 mila unità, mentre più di 350.000 persone vengono conteggiate fra non credenti o non classificabili nelle religioni prima menzionate (Caritas/Migrantes, 2006).

Dopo l’ingresso della Romania e della Bulgaria nell’UE, il numero di immigrati

comunitari costituisce ormai un quarto del totale della presenza immigrata nel nostro Paese. Il loro numero è aumentato in misura notevole a seguito del penultimo allargamento dell’Unione (1° maggio 2004) e di quello più recente (1° gennaio 2007): tra le prime dieci collettività di immigrati si inseriscono, appunto, la Romania (più di mezzo milione di soggiornanti) e la Polonia (poco meno di 100 mila) (Caritas/Migrantes, 2007).

3 Per stime più approfondite sulla consistenza dei musulmani in Italia, v. oltre par. 1.4.

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La stessa fonte rileva che la presenza straniera è costituita per la metà da europei: in particolare, quelli dell’Est Europa, dal 2000 al 2006, sono aumentati di 14 punti percentuali, mentre l’Africa ne ha persi 5 e l’Asia e l’America 2 ciascuna: tutte le aree, comunque, sono notevolmente cresciute numericamente. Oggi, in sintesi, ogni 10 presenze immigrate 5 sono europee, 4 suddivise tra africani e asiatici e 1 americana. Gli 880 mila immigrati provenienti dall’UE a 27 (25,9%) quasi si equivalgono con gli altri immigrati provenienti dai Balcani e dagli altri Paesi dell’Est Europa (25,3%) e denotano nell’insieme una forte presenza europea, come riportato nella tab. 1.3 (v.).

Tabella 1.3: Italia. Soggiornanti stranieri per continente di provenienza

(2006)

Continente Soggiornanti % Europa 1.829.982 49,6 Africa 822.191 22,3 Asia 662.748 18,0

America 356.144 9,7 Oceania 4.023 0,1

Apol./altri 14.964 0,3 Totale 3.690.052 100%

Rielaborazione da: Caritas/Migrantes, 2007. I gruppi nazionali più consistenti provengono dalla Romania (556.000 presenze;

Caritas/Migrantes, 2007), che sfiora un sesto del totale (15,1%) e distanzia di quasi cinque punti il Marocco (387.000) e l’Albania (381.000). Poco meno di 200.000 unità hanno l’Ucraina (195.000) e la Cina Popolare (186.000), entrambe con la percentuale del 5%. Le Filippine si attestano a quota 113.000, cifra dalla quale non sono lontane la Moldova, la Tunisia, l’India e la Polonia. Vi è quindi un gruppo compreso tra le 80.000 e le 50.000 unità provenienti da Serbia, Bangladesh, Perù, Egitto, Sri Lanka, Ecuador, Macedonia, Senegal, Pakistan e Stati Uniti.

In Italia, dal 1970 ad oggi, si è passati da circa 140 mila persone immigrate a

più di tre milioni, con un aumento di ben ventidue volte. Inizialmente, dunque, questa presenza era marginale nella società italiana, mentre ora ne è diventata uno dei fenomeni più rilevanti. Nel 1970 la posizione giuridica degli stranieri veniva regolata in larga misura con circolari ministeriali. Successivamente, invece, si è intervenuti con diversi interventi legislativi, in particolare negli anni 1986, 1990, 1995, 1998, 20024.

Le statistiche sui cittadini stranieri soggiornanti in Italia sono disponibili solo a

partire dal 1970. Secondo quanto riportato dalla Caritas, alla fine di quell’anno gli

4 Per i cui approfondimenti si veda: Caritas/Migrantes, 2005.

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stranieri risultavano 143.838, e solo nel 1979 venivano superate le 200.000 unità (Caritas/Migrantes, 2005).

Un’impennata dei flussi migratori verso il nostro Paese si ha tra il 1979 e il

1980, quando si è passati da 205.449 a 298.749 con un incremento del 45,4%. In realtà ciò che si è verificato in quel periodo è dovuto alla modifica del sistema di registrazione dei permessi di soggiorno. Fino al 1979, infatti, le statistiche riguardavano gli stranieri presenti in Italia con un permesso di soggiorno di durata superiore ai tre mesi, mentre dopo il 1980 le statistiche prendono in considerazione i dati riguardanti i permessi di soggiorno con durata superiore ad un mese. Peraltro, solo a partire da questo periodo si può cominciare a parlare propriamente di immigrazione (Caritas/Migrantes, 2005).

Negli anni ’80 seguono incrementi annuali contenuti che, benché inferiori al

10%, conducono a superare la soglia dei 400.000 soggiornanti nel 1984. Un altro forte aumento, questa volta effettivo, si ha nel 1987, quando da 450.277 si arriva a 572.103 soggiornanti (+27,1%). Questa variazione è dovuta alla prima di una serie di regolarizzazioni disposte dal legislatore e protrattesi negli anni 1986-1988 (Caritas/Migrantes, 2005).

Superato il mezzo milione di unità, “la gestione amministrativa dei permessi di

soggiorno diventa più complessa e i confronti meno attendibili” (Caritas/Migrantes 2005, 2). Da 645.423 permessi nel 1988 si scenderebbe inspiegabilmente a 490.388 nel 1989, con una diminuzione del numero dei regolarizzati nell’ipotesi, non realistica, che non a tutti loro fosse stato rinnovato il permesso di soggiorno. Nel 1990 interverrebbe un aumento eccezionale con 781.138 permessi, ai quali non si arriverebbe neppure conteggiando i 220.000 regolarizzati di quell’anno. Questi numeri, quindi, non offrono la base per confronti certi.

Le incongruenze dell’archivio dei permessi di soggiorno si spiegano, secondo la

Caritas, sia per la mancata soppressione dei permessi doppi o scaduti, sia per i casi di omonimia. Solo dal 1998 il Ministero dell’Interno ha adottato a regime un programma efficace per la ripulitura di questi dati (Caritas/Migrantes, 2005).

Negli anni ’90 il fenomeno diventa di massa e si assiste al raddoppio dei

soggiornanti, che passano da 649.000 a fine 1991 a 1.341.000 nel 2000. Nei primi anni ’90 si registra l’ingresso di persone provenienti dalla penisola balcanica, coinvolta nei conflitti scaturiti dalla dissoluzione della ex-Jugoslavia e dal suo frazionamento in diversi Stati. Successivamente, gli immigrati cominciano a provenire in maniera massiccia anche dagli altri Paesi dell’Europa dell’Est, che diventano i grandi protagonisti sullo scenario migratorio italiano. Così, al consistente aumento degli albanesi, fa riscontro successivamente quello dei romeni, dei polacchi, degli ucraini e di altre nazionalità (Caritas/Migrantes, 2005).

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A influire maggiormente sull’incremento della presenza immigrata in Italia sono tre fattori strettamente collegati: la collocazione geografica, con confini molto estesi, in un’area a forte pressione migratoria (esercitata dal continente africano e da quello asiatico, oltre che dall’Europa orientale); una programmazione dei flussi quantitativamente debole e operativamente inefficace; il recupero, attraverso le regolarizzazioni, degli immigrati sprovvisti di permesso di soggiorno ma già inseriti nell’area del lavoro nero.

All’inizio degli anni ’90 un terzo dei soggiornanti (su un totale di 649.000 a fine

1991) è costituito dalle 220.000 persone che hanno beneficiato della regolarizzazione dell’anno precedente, che coinvolge in prevalenza africani e asiatici e pone come condizione la semplice dimostrazione della presenza in Italia a prescindere da effettivi legami col mercato del lavoro. Il 1992, invece, è l’anno di una consistente diminuzione dei permessi, perché molti regolarizzati non riescono a trovare un lavoro. Il recupero di questa diminuzione e i successivi aumenti avvengono per effetto delle quote programmate (scarse e inclusive anche degli ingressi per lavoro stagionale) e dei ricongiungimenti familiari (sia dei coniugi che dei minori a carico). Questi aumenti sono solitamente contenuti e raggiungono al massimo le 60.000 unità annue, con un’incidenza percentuale sul totale dei precedenti soggiornanti che è del 10% nei primi anni ’90 per poi dimezzarsi a metà decennio, e diventano molto consistenti negli anni di regolarizzazione (Caritas/Migrantes, 2005).

Nel 1997 viene superato il milione di unità e vengono registrati 246.000

regolarizzati; poi, con la regolarizzazione del 1998 (215.000 lavoratori), si va abbondantemente oltre il milione (Caritas/Migrantes, 2005).

A differenza di quanto avvenuto in precedenza, i permessi rilasciati ai

regolarizzati del 1995 e del 1998 (che hanno validità biennale) dimostrano una maggiore tenuta quanto alla durata del soggiorno, infatti, ove sussistano le condizioni richieste, vengono rinnovati alla scadenza, confermando l’esigenza del mercato di disporre di forza lavoro aggiuntiva in maniera stabile (Caritas/Migrantes, 2005).

Al 1° gennaio 1999, la popolazione straniera in Italia con regolare permesso di

soggiorno veniva stimata dall’Istat in 1.090.820 persone (di cui circa 223.000 provenienti dai PSA e 868.000 dai cosiddetti “Paesi a forte pressione migratoria”, definizione adoperata dall’Istat che include i Paesi in Via di Sviluppo, o PVS, e i Paesi dell’Est europeo). I dati testimoniano che la popolazione straniera in possesso di un permesso di soggiorno fra il 1992 e il 1999 aumentava di 442.000 unità (in media di 63.126 all’anno) a un tasso medio annuo pari al 7,7% (Zincone, 2001).

La popolazione straniera iscritta in anagrafe, comunque, cresceva (sia pure in

parte solo formalmente) di 579.000 persone dal 1992 al 1999, mentre la popolazione di nazionalità italiana iscritta in anagrafe passava da circa 56.220.000 a 56.496.000,

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con un incremento quindi di circa 276.000 unità, ben inferiore a quello della popolazione straniera (Zincone, 2001).

Per quanto riguarda la componente legalmente presente sul territorio italiano, si

può notare che al 1999 il 79,5% dei permessi di soggiorno, cioè circa 868.000, sono attribuiti a stranieri provenienti da Paesi a forte pressione migratoria, un ammontare che può considerarsi piuttosto contenuto se confrontato in termini assoluti e relativi con quello che si riscontra negli altri grandi Paesi europei di immigrazione; il 20,5 per cento degli stranieri, cioè circa 223.000, proviene dai PSA. Nel 1992 questi ultimi erano proporzionalmente di più, ovvero il 26,8 per cento; infatti, pur essendo aumentati, negli otto anni considerati, di circa 49.000 unità, il loro peso sul complesso degli stranieri è diminuito perché l'incremento degli immigrati provenienti dai PVS è stato proporzionalmente più forte (Zincone, 2001).

Per il primo decennio del 2000 si può fare riferimento solo ai primi quattro anni

e, per giunta, i dati relativi ai permessi di soggiorno in vigore a fine 2003 non sono stati ancora verificati dall’Istat, e quelli relativi al 2004 sono frutto di una stima della Caritas basata sui visti rilasciati dal Ministero degli Affari Esteri per immigrazione di inserimento. Essi sono pari a 130.000, così ripartiti: 88.000 per ricongiungimento familiare o familiare al seguito, 29.000 per lavoro stabile, 7.000 per motivi religiosi, 5.000 per studio, circa 1.000 per residenza elettiva (Caritas/Migrantes, 2005).

Anche per l’ultimo decennio vale la netta differenza tra gli anni “normali” e

quelli di regolarizzazione: in questi ultimi l’aumento è molto consistente. Nel 2003 vengono ampiamente superati i due milioni di presenze in seguito alla regolarizzazione disposta nell’anno precedente dalla legge Bossi-Fini, che totalizza ben 700.000 domande. Secondo la Caritas, ipotizzando che le stime dei permessi di soggiorno rappresentino l’effettivo numero di presenze straniere regolari, la popolazione straniera soggiornante legalmente a fine 2004 in Italia sarebbe stata di 2.730.000 unità (Caritas/Migrantes, 2005).

1.3. Le comunità di immigrati in Italia

Al 1° gennaio 2007, come riportato nella tab. 1.2, gli stranieri residenti in Italia sono 2.938.922 (1.473.073 maschi e 1.465.849 femmine); rispetto all’anno precedente gli iscritti all’anagrafe aumentano di 268.408 unità (+10,1%).

Tali dati, basati su fonti Istat (che considerano “residente” chi è registrato presso

le anagrafi comunali), inevitabilmente sottostimano la reale presenza di stranieri con permesso di soggiorno (dal momento che non tutti si iscrivono all'anagrafe) e non comprendono i clandestini (Istat, 2007).

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L’incremento dei residenti stranieri nel 2006 è inferiore a quello registrato nei tre anni precedenti, che era stato determinato in larga misura dagli ultimi provvedimenti di regolarizzazione (legge n. 189 del 30 luglio 2002, art. 33, e legge n. 222 del 9 ottobre 2002), grazie ai quali numerosi immigrati, già irregolarmente presenti in Italia, avevano potuto sanare la propria posizione e iscriversi successivamente all’anagrafe (Istat, 2006).

La crescita della popolazione straniera residente nel nostro Paese è dovuta anche

all’aumento dei nati di cittadinanza straniera (figli di genitori entrambi stranieri residenti in Italia), che nel 2005 si traduceva in un saldo naturale (differenza tra nascite e decessi) attivo di 48.838 unità, cresciuto a 54.318 unità nel 2006.

Il saldo, pur essendo nettamente inferiore rispetto a quello determinato dai flussi

migratori, è particolarmente significativo soprattutto se confrontato con il bilancio naturale della popolazione residente di cittadinanza italiana. Nel 2005, il saldo naturale della popolazione straniera, rispetto a quello dei cittadini italiani, risultava negativo per 62.120 unità, e per 52.200 unità nel 2006 (Istat, 2007).

Come già menzionato nel precedente paragrafo, altre fonti, come la Caritas, riportano che i

soggiornanti regolari in Italia sarebbero 3.690.0005. Secondo altri dati, riportati dal Dipartimento Politiche Migratorie della CISL, in base ad una stima effettuata nell’aprile 2006, i cittadini stranieri in Italia regolarizzati sarebbero 3.741.500, mentre gli irregolari e/o clandestini6 risulterebbero 750.000. Inoltre, il totale dei lavoratori stranieri in Italia, risultante dalla comparazione dei dati INPS e INAIL, sarebbe pari a 2.321.500 (CISL, 2006) (v. tab. 1.4).

5 Stime basate sui dati del Ministero dell’Interno (fine del 2006), sui nuovi ingressi e sulle nuove nascite. 6 Inclusi coloro che hanno fatto domanda di cui al d. l. sulle quote dei flussi del 7 marzo 2006.

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Tabella 1.4 – Popolazione e minorenni stranieri residenti – Bilancio demografico

degli anni 2002-2006

Fonte: Istat, 2007.

Nel complesso, la dinamica migratoria degli stranieri contribuisce alla crescita della popolazione residente in Italia – passata da 58.751.711 a 59.131.287 unità nel corso del 2006 – per oltre il 70,7%, cosicché l’incidenza percentuale degli stranieri sulla popolazione complessiva raggiunge, alla fine del 2006, il 5,0% rispetto al 4,5% dell’inizio dell’anno (Istat, 2007).

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Figura 1.1 – Bilancio della popolazione straniera residente in Italia. Anni 2002,

2003, 2004, 2005, 2006

Fonte: Istat, 2007.

Anche nel nostro Paese la dicotomia cittadino italiano/cittadino straniero non è

più sufficiente a distinguere la popolazione “italiana” dalla popolazione immigrata. Sono sempre più numerosi, infatti, gli immigrati che diventano italiani per acquisizione di cittadinanza. Si tratta di un fenomeno in crescita (35.266 nuovi cittadini italiani nel 2006, circa il 23% in più rispetto al 2005) anche se ancora relativamente limitato; infatti, dal 1996 (anno in cui è iniziata la rilevazione delle acquisizioni di cittadinanza nell’ambito dell’indagine anagrafica sulla popolazione straniera) tali “neocittadini” sono risultati essere complessivamente 182.000. Ancora oggi la maggior parte delle acquisizioni di cittadinanza italiana avviene per matrimonio e, poiché i matrimoni misti si celebrano prevalentemente fra donne straniere e uomini italiani, fra i nuovi cittadini italiani le donne sono più numerose. Le concessioni di cittadinanza per naturalizzazione (per le quali l’attuale legislazione pone come requisito almeno 10 anni di residenza continuativa) sono circa il 15% del totale (Istat, 2007).

Un altro gruppo importante per l’analisi della presenza straniera è costituito

dagli stranieri nati nel nostro Paese, che a rigore non possono essere definiti immigrati: si tratta di nati in Italia da genitori stranieri residenti e ammontavano a 57.765 nel 2006, pari al 10,3% del totale dei nati in Italia (+11,1% rispetto all’anno precedente, in cui erano 51.971; per dettagli v. tab. 1.4 e tab. 1.5).

I nati in Italia da genitori stranieri costituiscono una componente tutt’altro che

trascurabile dell’aumento dei minori di cittadinanza straniera, che rappresentano il

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22,6% (665.625 unità) del totale della popolazione straniera residente al 1° gennaio 2007 (v. tab. 4). Essi sono circa 80.000 in più rispetto al 1° gennaio 2006: oltre il 72,1% di tale aumento è dovuto proprio ai nuovi nati, mentre la parte rimanente è costituita dai minori giunti in Italia per ricongiungimento familiare. L’aumento dei minori va di pari passo con l’aumento della popolazione straniera, e in particolare della componente più stabile rappresentata da coloro (la grande maggioranza) che, oltre a essere regolarmente presenti, e quindi in possesso di un permesso di soggiorno valido, sono anche iscritti all’anagrafe (Istat, 2007).

L’insediamento della popolazione straniera nel nostro Paese interessa in modo

preponderante le regioni del Centro-Nord; il Mezzogiorno accoglie soltanto l’11,6% della popolazione straniera, mentre la parte restante è suddivisa fra il Nord-Ovest (36,3%), il Nord-Est (27,3%) e il Centro (24,8%). Si nota inoltre che un quarto degli stranieri residenti in Italia (il 24,8%) risiede in Lombardia e, in particolare, nella provincia di Milano (la cui quota, sempre rispetto al totale degli stranieri residenti in Italia, è pari al 10,8%). Nel Centro-Nord la popolazione straniera è distribuita piuttosto uniformemente in rapporto alla popolazione complessivamente residente: infatti l’incidenza è più elevata nelle regioni settentrionali (mediamente pari al 7%); il Centro segue a non molta distanza (6,3%), mentre nel Sud e nelle Isole la quota di stranieri è molto inferiore e pari, mediamente, all’1,6% (v. tab. 5 e tab. 6). Anche il numero dei minorenni conferma una tipologia di immigrazione particolarmente stabile e presumibilmente ben radicata nel territorio: l’incidenza dei minori, in rapporto alla popolazione straniera residente, è mediamente più alta nelle regioni settentrionali, dove raggiunge il 23,8%, a fronte del 22,6% rilevabile a livello nazionale. La quota di minorenni nelle regioni del Centro è pari al 21,2%. Infine, nel Mezzogiorno, la percentuale di minori è inferiore alla media, presentando dati riconducibili a un solo 18,6% (Istat, 2007).

Passando a esaminare coloro che si sono iscritti all’anagrafe dall’estero, vale a

dire gli stranieri iscrittisi dopo aver regolarizzato la loro presenza in Italia, si osserva che il relativo indicatore assume valori piuttosto diversificati nelle varie ripartizioni: il livello più elevato si registra nelle regioni del Sud (96,1 per mille stranieri residenti) e del Centro (87,5 per mille); è più basso nel Nord-Est (86,3 per mille), nelle Isole (86,7 per mille) e soprattutto nel Nord-Ovest (78,8 per mille). La mobilità interna dei cittadini stranieri, al contrario, conferma che le regioni più attrattive sono quelle del Nord. I trasferimenti di residenza dei cittadini stranieri, infatti, seguono una direttrice molto chiara dalle regioni meridionali a quelle settentrionali: nel 2006 il saldo migratorio interno per mille abitanti stranieri risultava positivo nelle regioni nord-occidentali (+10,2 per mille) e soprattutto in quelle nord-orientali (+9,9 per mille), mentre era fortemente negativo nel Sud (-19,2 per mille) e nelle Isole (-12,3 per mille). Si tratta di una tendenza che si era già manifestata negli anni precedenti e che si sovrappone agli spostamenti degli italiani che seguono anch’essi le medesime direttrici. È presumibile che le regioni del Sud rappresentino per gli stranieri un punto

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di approdo, dal quale poi raggiungono le regioni del Nord (Istat, 2007) (v. tabb. 1.5 e 1.6).

Tabella 1.5 – Popolazione straniera residente in Italia, per ripartizione –

Bilancio demografico 2006 (valori assoluti)

(a) A livello nazionale il numero di iscritti e

cancellati per l’interno generalmente non coincide. Fonte: Istat, 2007.

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Tabella 1.6 – Popolazione straniera residente in Italia, per ripartizione – Bilancio demografico 2006 (indicatori)

(a) Dato stimato

Fonte: Istat, 2007.

Al 1° gennaio 2007, nel quadro di un incremento generalizzato delle comunità provenienti dai vari Paesi europei, si registra un aumento considerevole di determinate cittadinanze dell’Europa centro-orientale che, in taluni casi, sono più che raddoppiate (ucraini +107,1%; moldavi +126,4%). Tra i paesi di recente adesione, invece, è da sottolineare la performance della comunità rumena, che ha conosciuto un incremento pari al 92,5% (v. tab. 1.7).

Se prendiamo in considerazione i dati relativi alla popolazione extraeuropea

residente in Italia, di provenienza asiatica e americana, si riscontrano incrementi del tutto analoghi a quelli delle comunità di origine europea (intorno al 50%), mentre più contenuto risulta il flusso migratorio dai paesi africani (+36,4%). In termini assoluti, infine, se le principali comunità straniere residenti in Italia – albanesi, marocchini, rumeni – consolidano la loro presenza, quella rumena ha conosciuto un tasso di incremento tale da raggiungere il peso numerico di quella marocchina (oltre 340.000 unità) (Istat, 2007).

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Tabella 1.7 – Popolazione straniera residente per area geografica e principali paesi di cittadinanza, 2004 e 2007

(a) Per un confronto omogeneo con l’ultimo anno, i 10 paesi che sono entrati a far parte della UE il 1° maggio 2004 (Repubblica Ceca, Slovacchia, Estonia, Lettonia, Lituania, Polonia, Slovenia, Ungheria, Cipro e Malta) e i 2 paesi che sono entrati il 1° gennaio 2007 (Romania e Bulgaria) sono stati considerati nell’Unione anche per il 2004. (b) Nei paesi dell'Europa centro-orientale non sono stati ricompresi i paesi che, pur appartenendo geograficamente a tale area, nel corso del tempo sono entrati a far parte dell'Unione Europea. Fonte: Istat, 2007.

Selezionando, per esigenza di sintesi, le 10 comunità più numerose a livello nazionale, ovvero fra quelle che rappresentano il 59% dei residenti stranieri, si possono esaminare alcune particolarità relative alla diversa importanza che in ciascuna regione ricoprono le singole cittadinanze (v. tab. 8). Albanesi, marocchini e rumeni sono presenti in modo significativo in quasi tutte le aree del Paese, seppure con intensità maggiori in alcune regioni. Scendendo nel dettaglio, si può constatare che gli albanesi costituiscono il 20,3% degli stranieri residenti in Lombardia ed oltre il 13% di quelli insediati in Toscana, seguiti dall’11,8% dell’Emilia-Romagna e dal 9,6% del Piemonte. Proviene dal Marocco, invece, il 24,4% degli immigrati residenti in Lombardia, oltre il 15% di quelli dimoranti in Emilia-Romagna ed oltre il 13% degli stranieri presenti in Piemonte e Veneto. I rumeni, infine, sono una quota

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consistente dei residenti stranieri nel Lazio (22,2%), mentre in Piemonte sono il 17,4%, in Lombardia il 16,5%, e in Veneto il 14,1%. Per le restanti cittadinanze si nota, in genere, che esse registrano una presenza significativa in più ristrette aree geografiche del Paese: gli ecuadoriani sono il 25,2% dei residenti stranieri in Liguria, mentre i tunisini evidenziano un’incidenza di quasi il 19% in Sicilia; gli ucraini sono rispettivamente il 27% e il 13% degli immigrati dimoranti in Campania ed in Calabria; presenze importanti (con quote intorno al 10%) appaiono, infine, quelle dei cittadini della Serbia-Montenegro in Friuli-Venezia Giulia, dei cinesi in Toscana, dei senegalesi in Sardegna, degli immigrati dello Sri Lanka in Sicilia (Istat, 2007) (v. tab. 1.8).

Tabella 1.8 – Principali comunità residenti per regione, al 1° gennaio 2007

(incidenza percentuale dei singoli Paesi, nonché del totale dei 10 Paesi, sul complesso dei residenti stranieri in ciascuna regione)

Fonte: Istat, 2007.

Come si è visto, l’immigrazione in Italia è in continua e rapida espansione. Se si prendono in considerazione le serie dei dati sui permessi di soggiorno, si nota che gli immigrati sono più che raddoppiati nel corso degli anni ’90, e ulteriormente aumentati di circa 1 milione di unità tra il 2000 e il 2004. Dunque, i permessi di soggiorno in Italia si attestano a quota 2.320.000 unità al 1° gennaio 2005, secondo

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una stima effettuata dall’Istat sui dati forniti dal Ministero dell’Interno, e illustrata nella figura 1.2 (v.).

Figura 1.2 – Permessi di soggiorno al 1° gennaio 1992, 2000, 2003, 2004,

2005 (dati assoluti e percentuali maschi)

Fonte: Istat, 2005, su dati del Ministero dell’Interno.

Una recente elaborazione Istat su dati del Ministero dell'Interno corregge per difetto il valore indicato per l'anno 2005 e aggiorna il numero dei permessi al 1° gennaio 2007, come riportato nella tabella 1.9 (v.).

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Tabella 1.9 – Permessi di soggiorno per motivo e sesso, al 1° gennaio degli anni 2005-2007

(a) La flessione tra il 2006 e il 2005 dei permessi per residenza elettiva e religione è conseguente alla revisione degli archivi da parte del Ministero dell’interno che ha portato alla cancellazione di molti vecchi permessi rilasciati perlopiù per detti motivi.

Fonte: Istat, 2007. La dinamica descritta nella fig. 1.2 è stata favorita da vari interventi legislativi

che hanno consentito l’ingresso nella legalità a numerosi lavoratori irregolari. Tali interventi hanno messo in luce consistenti flussi in entrata non autorizzati che si muovono paralleli a quelli programmati e, contemporaneamente, la capacità del mercato del lavoro di assorbirli in larga misura. Infatti, i 649.000 permessi di soggiorno registrati al 1° gennaio 1992 sono costituiti per più di un terzo dai permessi rilasciati a seguito della l. 39/90, con la quale si puntava ad una gestione più organica del fenomeno migratorio e a farne emergere la componente sommersa. Oltre il 60% dell’incremento registrato tra il 1992 ed il 2000 (1.341.000 permessi al 1° gennaio 2000, +692.000 rispetto al 1992) è ascrivibile a stranieri che si sono avvalsi della regolarizzazione prevista con il d.l. 489/95 e a quelli che hanno beneficiato della successiva regolarizzazione avviata con il d.p.c.m. del 16 ottobre 1998. Infine, il forte aumento dei permessi al 1° gennaio 2004 (2.228.000 permessi, +724.000 rispetto all’anno precedente) risente degli effetti prodotti dalle leggi 189/02 e 222/02, con le quali sono state regolarizzate circa 650.000 posizioni lavorative.

Le regolarizzazioni sono state, quindi, un fattore determinante della crescita

della popolazione straniera, che tende a divenire un segmento sempre più significativo di quella complessiva. Gli effetti, avvertiti fin da subito per la componente adulta della popolazione, si sono poi riflessi su quella più giovane con l’arrivo di numerosi minorenni, in conseguenza sia dell’intensificarsi dei ricongiungimenti familiari, sia dell’aumento della natalità, a seguito di un nuovo impulso alla formazione delle coppie e al consolidamento di quelle già esistenti. Nell’arco di dieci anni, dagli 8.000 nati rilevati nel 1994, si è passati ai 49.000 del 2004, con un saldo naturale (differenze tra nascite e decessi) positivo (+45.994 unità),

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in grado di compensare quello negativo della popolazione di cittadinanza italiana (-30.053) (Istat, 2005).

L’approvazione della l. 189/02 (nota come legge “Bossi-Fini”), che ha portato a

oltre 700.000 nuove domande di regolarizzazione, può essere definita come la maggiore sanatoria finora effettuata in Italia: in poco più di un anno sono stati concessi circa 650.000 permessi di soggiorno, numero di poco inferiore a quelli complessivamente rilasciati (circa 680.000) in occasione dei tre precedenti analoghi provvedimenti susseguitisi a partire dal 1990 (Istat, 2005).

La l. 39/90 (legge “Martelli”) aveva fatto emergere dalla clandestinità circa 218.000 individui, soprattutto africani e asiatici (pari, rispettivamente, al 58,4% e al 21,6% del totale), la cui presenza sul territorio era prevalente anche tra i regolari. Rispetto alle regolarizzazioni che seguiranno, con la legge Martelli si è evidenziato il maggior numero di irregolari in rapporto alla componente legale, con 120,9 sanati ogni 100 stranieri regolari, limitando il confronto agli immigrati provenienti da Paesi a forte pressione migratoria che rivestono un ruolo di assoluto protagonismo tra i regolarizzati. La circostanza era stata in parte favorita dalla facilità di accesso ai benefici della sanatoria, per usufruire della quale era sufficiente dimostrare di essere già in Italia alla data del 31 dicembre 1989, rimandando al momento del rinnovo l’obbligo di documentare un’attività lavorativa in corso (Istat, 2005).

In occasione delle regolarizzazioni avviate con il d.l. 489/95 (decreto “Dini”) e con il d.p.c.m. del 16 ottobre 1998, il tasso di irregolarità è apparso in diminuzione, anche per un maggior rigore nei criteri selettivi delle istanze, evidenziando, in successione, 45,9 e 24,9 immigrati ricondotti nella legalità ogni 100 stranieri da Paesi a forte pressione migratoria già regolarmente presenti. Su tale flessione, soprattutto per quella registrata a seguito dell’attuazione del d.p.c.m. del 1998, ha inoltre inciso il fatto che la popolazione regolare di riferimento è aumentata anche in funzione delle stesse sanatorie, mentre il numero dei regolarizzati ha continuato a mantenersi al di sotto delle 250.000 unità (Istat, 2005).

Dei due provvedimenti ha usufruito una quota sempre maggiore di cittadini

dell’Europa orientale (pari, nell’ordine, al 25,2% ed al 37,3% dei beneficiari) a causa dell’accrescersi dei flussi illegali provenienti specialmente dall’Albania e dalla Romania. Viceversa, la presenza irregolare si è via via ridotta tra gli africani, in particolare tra i marocchini. Per le altre provenienze, va segnalata la larga partecipazione di cinesi, mentre filippini e peruviani, fra i quali va evidenziata la prevalenza di donne occupate presso le famiglie italiane, sono usciti allo scoperto in misura cospicua con la regolarizzazione varata dal governo Dini; in quella del 1998, invece, hanno mostrato un più contenuto coinvolgimento (Istat, 2005) (v. tab. 1.10).

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Tabella 1.10 – La regolarizzazione degli anni ’90 e la legge Bossi-Fini

Fonte: Istat, 2005. 1.4 Le comunità musulmane in Italia: dimensioni, articolazione organizzativa, processo di integrazione

A conclusione dell’analisi sull’immigrazione in Italia è opportuno riservare una

particolare attenzione agli immigrati di fede musulmana, che costituiscono una quota rilevante del fenomeno studiato. Occorre premettere che non è agevole stimare il numero dei musulmani immigrati, poiché la tendenza a far coincidere appartenenza nazionale ed appartenenza religiosa, spesso implicita quando si tratta di descrivere l’immigrazione proveniente dai Paesi islamici, trascura il fatto che a una determinata cittadinanza non necessariamente corrisponde una determinata appartenenza religiosa. Pertanto, quando si cerca di stimare il numero dei musulmani in Italia (immigrati, quindi non tenendo conto degli italiani convertiti all’islam), sarebbe opportuno applicare la percentuale di musulmani presente nel Paese di provenienza dell’immigrato al totale degli immigrati da quel Paese. Anche tale procedura comporta limiti evidenti ai fini di un’accurata misurazione del fenomeno, resa ancor più approssimativa dalla difficoltà di quantificare il numero degli immigrati

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clandestini o irregolari7 e degli immigrati regolari che hanno acquisito la cittadinanza italiana.

Fatta questa premessa, se consideriamo il numero di immigrati provenienti dai Paesi islamici e, per ragioni di praticità, supponiamo che tutti professino la fede islamica, in Italia i musulmani sarebbero passati da 912.492 (33% del totale di immigrati) registrati al 31.12.2004, a 1.009.023 (33,2%) registrati al 31.12.2005 (v. tab. 11), con un aumento di 89.531 unità in un anno (pari al 10%). Per capire questo andamento bisogna tener conto che il 2005 è stato l’anno in cui il numero più alto di ingressi si è verificato per ricongiungimento familiare, di cui si è avvantaggiato, per quanto riguarda gli stranieri di religione islamica, il Marocco. Secondo le ultime stime della Caritas, nel 2006 i musulmani sarebbero aumentati di 103.000 unità, in gran parte a seguito dei ricongiungimenti familiari e delle nuove nascite. Il loro numero, nel 2006, ammonterebbe a 1.202.396. Di conseguenza, i musulmani sono di gran lunga la prima comunità religiosa, dopo quella cristiana, ad essere presente nel territorio nazionale italiano (Caritas/Migrantes, 2007).

A livello regionale i musulmani risultano la maggioranza assoluta in Valle d’Aosta (50,6%) e superano il 40% in Emilia Romagna, Puglia e Sicilia (v. tab. 1.11).

Tabella 1.11 - Stranieri di religione musulmana regolarmente soggiornanti in

Italia per regione (stima 31.12.2005)

Musulmani Totale

immigrati % Totale

Valle d’Aosta 5.334 50,6 2.700

Piemonte 238.161 36,4 86.590

Lombardia 711.059 37,7 268.137

Liguria 78.706 31,9 25.074

Trentino A. A. 61.811 31,9 19.716

Veneto 315.747 32,9 103.987

Friuli V. G. 83.441 23,4 19.557

Emilia R. 312.123 43,0 134.262

Nord ovest 1.033.260 37,0 382.501

7 Il termine “clandestini” indica coloro che sono entrati clandestinamente nel paese, o continuano a rimanervi nonostante l’ingiunzione a lasciarlo». Il termine “irregolari”, invece, comprende coloro che hanno un permesso di soggiorno scaduto e non, o non ancora, rinnovato (gli overstayers) e che continuano a trattenersi, nonché coloro che si trovano nel paese per motivi non corrispondenti a quelli dichiarati per il visto di ingresso o per il permesso di soggiorno (Pugliese, 2006).

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Nord est 773.122 35,9 277.521

NORD 1.806.383 36,5 660.022

Toscana 244.671 31,9 78.063

Marche 94.916 38,0 36.080

Umbria 62.141 33,2 20.621

Lazio 418.823 16,7 70.035

CENTRO 820.551 25,0 204.798

Abruzzo 46.360 30,9 14.303

Campania 136.359 22,0 29.994

Molise 4.875 28,5 1.387

Basilicata 7.676 38,1 2.925

Puglia 60.152 48,1 28.907

Calabria 42.599 36,4 15.496SUD 298.021 31,2 93.012Sicilia 90.235 45,4 40.956Sardegna 19.955 34,9 6.970ISOLE 110.190 43,5 47.927ITALIA 3.035.144 33,2 1.009.023

Fonte: Caritas/Migrantes, 2006, su stime compiute in base a dati del Ministero degli Interni. Il panorama multireligioso italiano, alla fine del 2006, non risulta molto

modificato rispetto all’anno precedente: i cristiani restano quasi la metà del totale e i musulmani circa un terzo della popolazione immigrata. Da menzionare, tuttavia, che il numero degli stranieri provenienti da Paesi di origine musulmana, in particolare da regioni quali il Medio-Oriente, il Nord-Africa e l’Asia Minore, si attesta a 673.729 unità, come mostra la tabella 1.12 (v.).

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Tabella 1.12 - Soggiornanti stranieri in Italia provenienti da paesi a religione islamica (31.12.2006)

PAESE TOTALE TOTALE % Marocco 387.000 57,4 Tunisia 94.861 14,1 Egitto 73.747 10,9

Pakistan 56.949 8,5 Algeria 22.029 3,3 Turchia 15.512 2,3

Iran 7.952 1,2 Libano 4.362 0,6 Siria 3.754 0,5

Giordania 2.510 0,4 Iraq 1.731 0,3

Afghanistan 1.310 0,2 Libia 1.217 0,2

Palestina 358 0,1 Arabia Saudita 194 0,0

Yemen 102 0,0 Kuwait 52 0,0 Oman 10 0,0

Emirati Arabi Uniti 7 0,0 Qatar 2 0,0

TOTALE ZONE 673.729 100,0

Fonte: Caritas/Migrantes, 2007, su stime compiute in base a dati del Ministero degli Interni. Bisogna tener presente che la tab. 1.12 prende in considerazione solamente

coloro che provengono dai Paesi islamici e omette dal computo gli immigrati dai Paesi che, pur non potendo essere definiti islamici, annoverano cospicue minoranze di musulmani che, talora, assumono dimensioni maggioritarie, come nel caso dell’Albania. Nella sua stima dei musulmani in Italia, Spreafico (Spreafico e Coppi, 2006) ha adottato la quota del 70% come dato ufficiale della componente musulmana tra gli albanesi, utilizzando le percentuali delle appartenenze religiose nei singoli Paesi di provenienza indicate nel Calendario Atlante dell’Istituto Geografico De Agostini.

Per rendersi conto dello scarto tra le stime e i dati reali e della diversità di cifre

che può derivare da differenti criteri di calcolo, basti pensare al valore cui perviene Spreafico muovendo dal numero dei permessi di soggiorno in Italia al 31.12.2003

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(2.193.999; Caritas/Migrantes 2004). Ai dati relativi al numero dei soggiornanti regolari, considerati per nazione di provenienza, sono state applicate le citate percentuali dell’appartenenza religiosa per estrarne la componente musulmana. Senza contare i minori non titolari di un proprio permesso di soggiorno, i musulmani regolarmente soggiornanti risultavano 722.572 al 31.12.2003 (Spreafico e Coppi, 2006, 76), un dato approssimativo che, però, risulta superiore ai 673.729 immigrati dai (soli) Paesi islamici indicati dal rapporto Caritas/Migrantes 2007 (v. tab. 1.12).

Dietro questi numeri si cela una realtà associativa che si intende descrivere per fornire un quadro, seppur sintetico, delle modalità organizzative e partecipative dei musulmani in Italia.

Risale al 1937 il primo organismo associativo tra seguaci dell’islam creato in

Italia, l’Associazione musulmana del littorio, che aveva come scopo «garantire i servizi religiosi essenziali ai musulmani dell’impero presenti nella penisola, curando anche l’applicazione del diritto coranico in campo civile e familiare» (Stefanini, 2004, 110) e che venne sciolto con la caduta del fascismo. Nel 1947 un piccolo gruppo di albanesi musulmani in fuga dal comunismo fondò a Roma quella che sarebbe poi divenuta l’Unione islamica in Occidente (Uio), che fino al 1966 – quando fu costituito ufficialmente il Centro islamico culturale d’Italia (riconosciuto ente morale nel 19748) – rimarrà la sola organizzazione islamica presente in Italia. L’Uio si occupa ora «dell’insegnamento in arabo per i figli di diplomatici e ricchi commercianti, e della diffusione della lingua e della cultura islamica, attraverso corsi e, sotto la dizione di Accademia della cultura islamica, editando un’elegante rivista culturale in Italiano, “Islam. Storia e civiltà”» (Allievi, 2003, 91).

Ma in Italia, a differenza che nel resto d’Europa (dove i protagonisti sono stati i

lavoratori), sono stati gli studenti musulmani immigrati a organizzare per primi veramente l’islam, con l’istituzione dell’Unione degli studenti musulmani in Italia (Usmi) nel 1971, all’Università per stranieri di Perugia. Qui si sono formati molti dei dirigenti islamici, d’origine araba, soprattutto mediorientale e palestinese e ora con cittadinanza italiana. A parte la sala di preghiera che ha preceduto l’attuale grande moschea di Monte Antenne a Roma (inaugurata nel 1995), il primo luogo di preghiera islamico in Italia in tempi moderni può essere considerato proprio Perugia, dove nel 1971 la stessa Usmi fondò anche la moschea.

Oggi vi sono in Italia più di 200 sale di preghiera islamiche e circa 130

moschee/centri islamici. Nel 2001 Allam contava almeno 214 luoghi di culto islamici distinti in quattro tipi: 1) le moschee vere e proprie, costituite con una specificità architettonica e dotate di minareto, sono tre: quella di Roma, costruita grazie al finanziamento dell’Arabia Saudita; quella di Catania, inaugurata nel 1980 grazie a un

8 Si tratta dell’unico organismo islamico in Italia cui è stato accordato tale status, e quindi sarebbe l’unico dal punto di vista

giuridico a poter avanzare una richiesta di Intesa con lo Stato italiano prevista nell’articolo 8 della Costituzione; tuttavia, il fatto che il Centro islamico sia espressione degli interessi degli Stati esteri più che rappresentativo della comunità musulmana in Italia, rende poco praticabile un’ipotesi del genere.

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finanziamento della Libia; quella di Segrate a Milano, realizzata nel 1988 da immigrati e convertiti musulmani e legata al Centro islamico di Milano e Lombardia. 2) I centri culturali islamici, che oltre all’attività cultuale offrono iniziative culturali, informative, sociali, assistenziali e di mediazione istituzionale, sono circa una trentina. 3) I centri islamici, che oltre all’attività cultuale organizzano corsi di apprendimento del Corano e di approfondimento religioso, sono un’ottantina. 4) I luoghi di culto semplici, con spazi ed organizzazione limitati, sono un numero difficile da stimare che comunque supera il centinaio. Questi dati erano sottostimati poiché in molti piccoli comuni o frazioni sorgono luoghi di culto islamici improvvisati e non censibili, soprattutto nelle zone agricole del Sud, dove l’islam bracciantile, lontano dalle organizzazioni transnazionali dell’islam politico, privo di contatti e di finanziamenti esteri, organizza “moschee di campagna” isolate e sconosciute (Allievi, 2003). La distribuzione territoriale dei luoghi di culto islamici segue all’incirca la distribuzione territoriale dei musulmani regolari in Italia, con una netta maggioranza al Nord, soprattutto in Lombardia, anche se vi è una presenza diffusa in tutto il paese, in città grandi, medie ed in campagna.

La diffusione di organismi e associazioni di matrice islamica in Italia ha

raggiunto il culmine nel corso degli anni Novanta, quale segnale del processo di radicamento dell’immigrazione musulmana in Italia. Tre sono gli attori principali di questo universo plurale: l’“islam degli Stati” o “diplomatico-statuale”, in cui proprio gli Stati stessi tendono a promuovere l’islam ufficiale da essi sostenuto in patria; un islam organizzato in maniera autonoma dall’influenza degli Stati e, anzi, in contrapposizione ad essi; i movimenti islamici, che uniscono la dimensione religiosa a quella socio-politica e spesso mirano a instaurare la pratica dell’islam nella società e nello Stato, pur non disponendo generalmente di una rappresentanza stabile e organizzata nel territorio italiano.

L’esempio più evidente del primo gruppo è il Centro culturale islamico d’Italia,

che gestisce la Grande moschea di Roma e nel cui consiglio d’amministrazione siedono gli ambasciatori dei principali paesi musulmani accreditati presso lo Stato italiano e lo Stato del Vaticano (Arabia Saudita, Marocco, Egitto, Bangladesh, Indonesia, Pakistan, Senegal, Turchia, Malaysia, Oman e così via). Il Centro, sostenuto dalla Lega del mondo islamico ed in particolare dal suo membro egemone, l’Arabia Saudita (la cui presenza immigrata in Italia è minima), e dal Marocco, che invece è il paese musulmano con il maggior numero di immigrati in Italia, esprime una dialettica interna che rispecchia il contrasto ideologico e politico tra i due paesi: «sul piano ideologico l’Arabia Saudita è favorevole a un’intesa con l’Ucoii così come su un piano più generale è favorevole a un’intesa con i Fratelli Musulmani9, visti come un argine alla diffusione dei movimenti laici, socialisti, comunisti e delle

9 I Fratelli musulmani sono un’organizzazione politico-religiosa fondata nel 1928 da un maestro elementare egiziano, che

mira a islamizzare dal basso la società, «facendo leva sul controllo delle istituzioni religiose, scolastiche, culturali e sociali. Si tratta di un’attività svolta formalmente nel rispetto delle leggi vigenti, anche se in ultima istanza l’obiettivo dichiarato è la costituzione di uno Stato islamico» (Gritti e Allam, 2001, 54).

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organizzazioni islamiche sciite. Per contro, il Marocco si oppone a questa strategia perché teme la contaminazione dell’ideologia integralista tra i suoi numerosi immigrati così come all’interno del paese combatte i movimenti legati ai Fratelli Musulmani» (Gritti e Allam, 2001, 57). In generale, Egitto, Marocco e Tunisia vorrebbero promuovere tra gli immigrati in Italia un islam non integralista e non troppo conservatore, che non si ripercuota sulle prudenti iniziative di democratizzazione nei Paesi d’origine. Gli immigrati, tuttavia, spesso non gradiscono il controllo invasivo delle ambasciate e sono lontani dalle strategie geopolitiche e religiose dei Paesi di provenienza, per questo cominciano a creare autonomamente dal basso piccole moschee locali in cui si sviluppa un islam popolare molto sentito, diverso da quello delle moschee controllate dagli Stati.

Capofila del secondo gruppo di attori è il Centro islamico di Milano e

Lombardia (Ciml), attivo dal 1977 per iniziativa dell’Usmi, che ha teso poi a contrapporsi all’islam statuale-diplomatico nelle sue differenti forme, in nome di un’interpretazione radicale e unificante dell’islam. Dopo essersi proposto come rappresentante unico, il Ciml ha poi finito per delegare l’Ucoii – che ha contribuito a fondare insieme all’Usmi – a proporsi come soggetto per un’eventuale Intesa con lo Stato italiano. All’interno dell’articolata presenza musulmana a Milano si trovano soggetti di rilievo come l’Istituto culturale islamico di viale Jenner, nato nel 1988 da una scissione del Ciml e divenuto un punto di riferimento per le forze islamiche radicali, tanto da attirare in diverse occasioni l’attenzione delle forze dell’ordine.

L’Unione delle comunità e delle organizzazioni islamiche in Italia (Ucoii) è nata

ad Ancona nel 1990, ereditando la classe dirigente siro-giordano-palestinese e le strutture dell’Usmi. Si tratta dell’organizzazione musulmana più diffusa sul territorio, e può contare su un maggior numero di aderenti rispetto alle altre. All’inizio aveva l’ambizione di rappresentare il complesso dell’islam in vista di un’Intesa, ma il progetto si è rivelato impossibile. Dall’Usmi ha ereditato in parte anche legami con i Fratelli Musulmani e la tendenza al separatismo e alla comunitarizzazione. Nella pratica dell’Ucoii l’emigrazione avviene «costruendo socialmente una comunità che nega l’integrazione individuale e negozia collettivamente […] uno statuto derogatorio di cittadinanza che consenta il riconoscimento più ampio possibile del corpus delle regole giuridiche islamiche e stabilisca il grado di autoesclusione necessario alla riproduzione della propria separatezza» (Guolo, 2000, 71); in altri termini, come suggerisce Spreafico, si può parlare di integrazione esternalizzata, cioè integrazione economica e sociale ma non culturale-religiosa della comunità (Spreafico e Coppi, 2006, 114-115).

Un’altra organizzazione che ha buona visibilità ma dimensioni piuttosto ridotte è

la Comunità religiosa islamica (Coreis) fondata a Milano nel 1993. La Coreis è l’espressione di un piccolo gruppo di convertiti italiani che si richiama al sufismo della confraternita Ahmadiya Idrissiya e all’esoterismo islamico, è molto attiva sul piano culturale (organizza convegni, corsi, seminari) e nel 1998 ha presentato una

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bozza d’Intesa con lo Stato italiano; dal 1999, inoltre, è divenuta la sezione italiana della World Islamic Call Society (Wics), che è sostenuta dalla Libia.

L’ultimo gruppo di attori è costituito dai movimenti islamici, i cui militanti

spesso frequentano i centri islamici in cui si sentono più liberi, senza però identificarsi con nessuno di questi. In generale è possibile ricordare i già segnalati Fratelli Musulmani, il Milli Gorus turco, i più radicali Fis algerino, gli egiziani al-Jama’a al-Islamiyya e al-Jihad, la Jama’at al-Islami pakistana. Troviamo anche sezioni italiane di movimenti islamisti come Hamas, oppure movimenti religiosi transnazionali come la Jama’at al-Dawa wal Tabligh (Organizzazione dell’Appello e dell’Annuncio), di origine indiana, cui tuttavia aderiscono soprattutto maghrebini e pakistani nonché alcuni convertiti. Si ricordano ancora l’organizzazione panislamica Al Takfir wal Hijra (Anatema ed Esodo), cui aderiscono prevalentemente alcuni militanti tunisini ed algerini, che mira a destabilizzare la realtà islamica organizzata e si considera in guerra santa contro l’Occidente. Tra le correnti radicali troviamo anche l’associazione panislamica Hizb al Tahrir al Islami e organizzazioni transnazionali indagate come Ansar al Islam.

Tra i gruppi nazionali più attivi sotto il fronte dell’associazionismo, accanto ai

marocchini, si distinguono i senegalesi, che hanno propri luoghi di culto in cui esercitare la preghiera collettiva (si tratta delle da’ira: particolarmente attive quelle di Milano, Brescia, Quercianella, Genova, ma anche quelle di Torino, Roma, Napoli, Riccione e Cagliari) e propri riti e momenti di incontro, secondo un proprio calendario religioso che configura quello senegalese come islam etnico, in cui l’identità nazionale sembra prevalere su quella religiosa. Diversi gruppi senegalesi si organizzano nel Coordinamento delle associazioni senegalesi in Italia (Casi) che, privilegiando l’appartenenza etnonazionale piuttosto che quella confessionale, agiscono nella sfera pubblica non in quanto musulmani, ma come membri che intervengono sui temi generali dell’immigrazione, propugnando un concetto allargato di cittadinanza (Guolo, 2000, 80).

Tra le associazioni di rilevanza nazionale non possono poi essere dimenticati i

Giovani Musulmani in Italia (Gmi), rappresentanti delle seconde generazioni, spesso marocchini, inizialmente legati all’Ucoii, da cui hanno acquisito però una certa autonomia in vista della proposta di un islam integrato e aperto alle istanze di modernizzazione. Sono giovani di buon livello culturale, nati in Italia e che hanno nell’Italia – di cui, spesso a differenza dei padri, conoscono bene la lingua e la società – il loro orizzonte di riferimento. Vi sono poi anche le associazioni femminili, tra cui spicca, legata alla precedente, l’Associazione donne musulmane in Italia (Admi), punta di diamante di un associazionismo femminile sempre più diffuso anche se ancora poco incisivo. Di minore importanza sono l’Associazione musulmani italiani (Ami), che ha un ruolo piuttosto defilato e si rivolge ai soli italiani (gli stranieri possono essere solo aderenti, ma non possono accedere alle cariche direttive né hanno diritto di voto), e l’Unione musulmani d’Italia (Umi), una sorta di partito fantasma,

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guidato dal convertito polemista anticristiano mediatizzato Adel Smith. Più interessante è, infine, l’Associazione islamica Ahl al Bait (Genti della casa), parte dell’omonima associazione mondiale, che è il principale riferimento organizzato degli sciiti in Italia, raggruppa più di 200 convertiti italiani di livello culturale medio-alto sparsi per l’Italia e intrattiene un rapporto privilegiato con l’Iran.

Nel complesso, dunque, è possibile rilevare una grande varietà di forme di

appartenenza all’islam: «anche nel caso dell’islam, l’appartenenza religiosa passa attraverso una scelta e un’adesione individuale la cui espressione presenta un’ampia gamma di differenziazioni. Si passa, infatti, da un’appartenenza puramente culturale, non poco diffusa tra tunisini e algerini, pesantemente influenzata da un forte processo di secolarizzazione che la rende talora assai superficiale, come nel caso degli albanesi, a forme di pratica individuale o familiare priva di collegamenti stabili con organismi istituzionalizzati, alla pratica religiosa assidua che include forme di frequenza alle moschee – queste due ultime tipologie sono frequenti tra i marocchini, specie in presenza di nuclei familiari –, fino all’impegno attivo nell’associazionismo religioso comunitario e alla militanza politico-religiosa» (Pacini, 2000, 46).

Da questa concisa rassegna delle organizzazioni musulmane è possibile trarre

alcune considerazioni circa il carattere plurale della realtà studiata e il prevalente orientamento laico che la contraddistingue. L’insieme delle associazioni qui descritte, tuttavia, rappresentano «solo una parte minoritaria dell’islam presente in Italia: che, se credente, si accontenta spesso di ritrovarsi nelle moschee, senza interessi di rappresentanza più larga. E va tenuto conto che vi è una vasta maggioranza silenziosa di musulmani (o meglio, di provenienti da paesi musulmani) che, per impossibilità logistica (le moschee sono ancora poche e spesso distanti, e il venerdì è comunque giorno lavorativo), ma ancora di più per scelta, non frequenta il mondo delle moschee e dell’associazionismo, e non si sente da esso rappresentata. Essa costituisce una realtà […] che di fatto sta fuori dai giochi dell’islam organizzato. Si tratta di un fatto sociale fondamentale, perché i processi dell’integrazione passano evidentemente, in maniera significativa, attraverso questi musulmani» (Allievi, 2004, 103).

Il dato numerico e l’elemento organizzativo, pur significativi nell’esprimere la

dimensione assunta dalla presenza musulmana in Italia, non sono sufficienti a descrivere l’evoluzione del processo di integrazione degli immigrati musulmani.

Il primo aspetto da considerare, comune ai Paesi dell’Europa occidentale, è la situazione di minoranza in cui si trova la comunità musulmana che in Italia però, diversamente dal contesto europeo, trae origine da un ciclo migratorio più recente, caratterizzato da un’ampia diversificazione dei paesi di provenienza, dalla presenza estremamente ridotta di immigrati provenienti da ex-colonie, dalla maggiore velocità di ingresso e di inserimento, dalla più diffusa condizione di irregolarità e dalla più ampia dispersione lavorativa e residenziale (Spreafico e Coppi, 2006, 123).

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Un altro elemento da valutare nell’analisi dell’“islam d’Italia” è costituito dal fenomeno delle seconde generazioni e dalle sue implicazioni in termini di possibilità di integrazione. In tutte le comunità di immigrati interessate dal passaggio generazionale, si assiste a una separazione tra i padri e i figli innescata dal processo di socializzazione che si compie in una realtà non islamica: formatesi in scuole e davanti a televisori italiani, le seconde generazioni hanno interessi e stili di vita che ricalcano quelli dei coetanei autoctoni, e difficilmente considereranno accettabili le modalità di integrazione subalterna sperimentate dai genitori, così come i lavori duri svolti da questi ultimi (Spreafico e Coppi, 2006, 125). L’irruzione di una nuova generazione nell’ambito delle comunità immigrate rappresenta un momento decisivo per la presa di coscienza del proprio status di minoranze ormai entrate a far parte di un contesto diverso da quello della società d’origine. Ciò è dimostrato dall’erompere in Europa della questione islamica al momento della «crescita delle seconde generazioni, quando l’istanza della trasmissione dell’identità culturale è divenuta centrale, stimolando domande di spazi per il culto collettivo e pubblico, anche sui luoghi di lavoro, di regimi alimentari appropriati nelle mense scolastiche, di opportunità per impartire un’educazione religiosa ai minori anche nella scuola pubblica, di riconoscimento di pratiche educative considerate conformi ai precetti coranici, talvolta di rivendicazioni dell’osservanza di regole comportamentali peculiari» (Ambrosini, 2004, 2-3).

I segni della presenza islamica sono ormai evidenti anche nelle città italiane, a

testimoniare un insediamento consolidato: le moschee che, oltre ad essere luogo di culto, sono centri di attività associative, solidaristiche, educative, commerciali; le scuole coraniche (madrase), che accompagnano le prime generazioni e svolgono l’importante ruolo di tramandare la lingua d’origine a quelle successive; le macellerie halal10 e i mattatoi per la macellazione rituale; le librerie islamiche e la stampa islamica giovanile in italiano; le frequenze radio arabe; gli hammam. Da ricordare, infine, i cimiteri, in riferimento ai quali non sono poche le resistenze opposte da diverse amministrazioni comunali alla rivendicazione di terreni cimiteriali riservati o di spazi caratterizzati islamicamente nei cimiteri comuni. A tale proposito va sottolineato come l’abitudine di dare sepoltura ai morti in Italia anziché rimpatriare le salme, come usava fare la prima generazione, possa essere interpretata come una forma di integrazione post mortem (Spreafico e Coppi, 2006, 128-129).

Da ultimo, non può essere taciuta la crescente visibilità acquisita dai musulmani

in seguito a iniziative di rilevanza pubblica, quali la partecipazione alla mobilitazione contro la guerra in Iraq e la mediazione da loro offerta in occasione del rapimento di cittadini italiani durante il conflitto. Tali episodi testimoniano e al contempo favoriscono l’interazione tra gruppi diversi, trascendendo le differenze di natura religiosa o politica e agendo come fattori di promozione del processo di integrazione

10 Halal vuol dire lecito, permesso; la carne halal è quella di cui è lecita la consumazione in quanto macellata secondo i

principi islamici.

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o, come noi preferiamo dire, di associazione dei gruppi allogeni nel sistema sociale italiano.

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CAPITOLO 2

L’immagine reciproca degli italiani e degli immigrati

2.1 . Gli immigrati nella rappresentazione degli italiani Come per tutti i fenomeni sociali, gli atteggiamenti e i comportamenti degli

individui dipendono fortemente dal modo in cui vengono collettivamente definiti e interpretati. Nelle società contemporanee, un ruolo rilevante nell’elaborazione di questi quadri interpretativi è svolto dai mass-media.

Comprendere come si parla dell’immigrazione sui mass-media è quindi un modo

per capire quali quadri interpretativi vengono elaborati per dare un significato a un fenomeno sociale, quali simboli e stereotipi riescono ad acquisire un significato più generale. Questi quadri concettuali, tuttavia, non sono scolpiti nella pietra. Essi cambiano ed evolvono in molti modi, talvolta anche piuttosto rapidamente. Per tale ragione, in questo ambito appare interessante evidenziare non tanto quello che i media rivelano, ma quello che i fruitori della notizia interpretano. I fruitori della notizia sono naturalmente esposti ai quadri concettuali veicolati dai mass-media, ma se ne appropriano selettivamente sulla base dei loro valori di riferimento, dei loro interessi e delle loro valutazioni del fenomeno. Di conseguenza, in questo capitolo si cercherà di analizzare le fonti che consentono di esplorare i cambiamenti dei modi coi quali il fenomeno immigrazione viene interpretato nel nostro Paese: quello che i sondaggi e le ricerche sociologiche registrano delle opinioni degli intervistati sul tema dei flussi migratori in Italia.

Che cosa sappiamo delle idee dei cittadini italiani riguardo all’immigrazione? E

quali sono gli aspetti del fenomeno migratorio che attirano maggiormente l’attenzione dell’opinione pubblica italiana? Per rispondere a questi interrogativi, i sondaggi d’opinione rappresentano una fonte indispensabile. Come vedremo, un’analisi attenta dei sondaggi e delle ricerche degli ultimi anni ci consentirà di comprendere come gli italiani percepiscono le comunità immigrate presenti nel nostro Paese.

Il fenomeno migratorio ha comportato profondi e radicali mutamenti nella

società italiana. Essi hanno interessato molti aspetti della vita sociale, culturale, economica e politica.

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Nell’opinione pubblica italiana, la valutazione dei vantaggi e degli svantaggi dell’immigrazione sembra variare ciclicamente, a seconda del clima sociale. In questi ultimi anni, il tema dell’immigrazione nel dibattito pubblico ha assunto maggiore importanza rispetto al passato. Non solo perché il fenomeno continua ad avere proporzioni ampie, ma anche perché alcuni avvenimenti, in ambito nazionale e internazionale, hanno contribuito ad attribuirgli significati diversi, ma comunque critici. Tuttavia, l’atteggiamento prevalente nella popolazione italiana in questi ultimi anni risulta sì critico, ma anche lungi dal delineare una tendenza crescente ed irreversibile verso la chiusura.

Quali sono i motivi di contrarietà nei confronti della presenza straniera? Che

cosa rende una quota significativa dell’opinione pubblica preoccupata della prospettiva di nuovi ingressi?

Nell’opinione pubblica, la contrarietà nei confronti dell’immigrazione è in

minima parte riconducibile al timore per la concorrenza essa può esercitare nel mercato del lavoro, mentre in massima parte lo è al timore che essa possa aggravare le dimensioni del crimine.

È, questo, un aspetto che si rileva anche dalle indagini condotte precedentemente

agli attacchi terroristici del 2001, i quali hanno contribuito ad alimentare (pre)giudizi negativi nei confronti degli immigrati, specialmente di fede islamica. Come dimostra lo studio di Cotesta, effettuato nel 2000, la necessità di avere nel nostro Paese una quota di lavoratori stranieri, benché condivisa dalla quasi totalità di un campione di 1.200 italiani, era accompagnata dalla sensazione che essi fossero “troppi”, anche perché percepiti in relazione con la criminalità. Nel complesso le rappresentazioni negative degli immigrati (54%) prevalevano rispetto a quelle positive (46%); tuttavia la maggioranza degli intervistati considerava l’immigrazione uno strumento utile a favorire gli scambi culturali e riteneva giusto il diritto degli immigrati ad avere i loro luoghi di preghiera in Italia e a conservare le proprie tradizioni.

A conferma di quanto è stato osservato a proposito del rapporto immigrazione-

occupazione, inoltre, la preoccupazione generata dalla concorrenza straniera nel mondo del lavoro era in parte smentita dalla considerazione che gli immigrati sono in genere bravi lavoratori, indispensabili per i lavori rifiutati dagli italiani, anche se il favore nei loro confronti diminuiva se percepiti come concorrenti per gli stessi impieghi. Emergeva, infine, la tendenza degli italiani a considerarsi un popolo ospitale con gli stranieri: più della metà degli intervistati, infatti, si dichiarava favorevole alla concessione del diritto di voto agli immigrati (44% per politiche ed amministrative, 9% solo per le amministrative). Tuttavia, a conferma delle distinzioni ogni volta operate dagli intervistati, la tendenziale apertura alla concessione della cittadinanza agli immigrati si coniugava con un 75% che avrebbe aperto le porte agli stranieri solo per motivi di lavoro, mentre solo il 20% lo avrebbe consentito per motivi politici, religiosi, umanitari e culturali (Cotesta, 2002).

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Dopo i ricordati attentati a Washington e New York e quelli a Madrid (2004) e Londra (2005), uno dei principali oggetti di indagine, anche in Italia, è rappresentato dalla percezione della pericolosità degli immigrati di religione musulmana.

Una ricerca che tiene conto di come i tragici eventi terroristici possono influire

sugli atteggiamenti della collettività italiana nei confronti dei flussi migratori si è svolta fra il 7 e il 14 dicembre 2001 per conto della Fondazione Nord Est e avendo per oggetto 93 imprenditori (Marini, 2001).

L’obiettivo della ricerca era quello di constatare se il mercato italiano, dopo l’11

settembre 2001, fosse destinata a subire un calo delle esportazioni. Di conseguenza, sono state valutate le opinioni di un gruppo di testimoni privilegiati individuati fra gli imprenditori del Nord-Est. Si è trattato di un esercizio esplorativo per cercare di comprendere quali potessero essere gli umori e le sensazioni fra alcuni titolari d’impresa particolarmente esposti ai processi di internazionalizzazione dell’economia. È stata perciò proposta agli intervistati una serie di questioni rilevando valutazioni di carattere previsionale sia sulle economie, sia sulla gestione del personale immigrato, con particolare riferimento a quello di religione musulmana.

La presenza di lavoratori immigrati nei contesti delle imprese del Nord-Est ha

infatti assunto nel tempo una consistenza significativa. Non sono stati pochi, anche prima dei tragici eventi dell’11 settembre 2001, gli esempi di imprese che hanno concesso a tali lavoratori opportunità di esercitare la preghiera (anche in azienda), periodi di ferie durante il Ramadan e così via.

Analizzando le risposte degli imprenditori, troviamo che oltre un quarto di essi

(28,9%) riteneva che l’11 settembre avesse generato qualche problema di gestione del personale, anche se ciò non si è poi tradotto in nulla di particolarmente grave; quasi due su cinque (39,8%) non escludevano l’insorgere di situazioni problematiche nei confronti degli immigrati di fede musulmana nell’immediato futuro, a fronte di un 30,1% che escludeva il verificarsi di tale ipotesi anche in un avvenire più lontano, mentre solo l’1,2% prevedeva rilevanti ripercussioni ai danni dei musulmani immigrati nel breve periodo.

Come si evince dai risultati di questa indagine, nella maggioranza dei casi la

percezione degli imprenditori veneti nei confronti dei lavoratori-immigrati di fede islamica continuava ad essere positiva. Tuttavia, non mancavano le perplessità per il futuro.

In base ai principali risultati di un sondaggio condotto da Eurisko nel 2002 per

conto del quotidiano La Repubblica11 su un ampio campione di italiani, sono stati registrati segnali ambivalenti sul fenomeno immigrazione.

11 Disponibile in: http//www.stranieriinitalia.it.

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Infatti è emerso che oltre 1/3 degli intervistati (35%) considera gli immigrati un pericolo per la sicurezza e l’ordine pubblico. Il 28% li percepisce come una minaccia per la propria occupazione, e all’incirca altrettanti come un pericolo per la propria cultura e identità. Accanto a questi risultati, tuttavia, affiorano atteggiamenti di apertura nei confronti della popolazione immigrata: il 48% li giudica una risorsa per l’economia, con valori ancora più elevati in alcune categorie (imprenditori in primis) e con riferimento a determinate aree del Paese (il Nord-Est); una quota analoga, inoltre, ritiene che la loro presenza favorirebbe la loro apertura culturale. Un altro dato rilevante è rappresentato dall’ampia disponibilità alla concessione dei diritti di cittadinanza: 3 intervistati su 4 (77%) sono favorevoli a concedere agli immigrati regolarizzati, il dritto di voto alle elezioni amministrative.

Per quanto concerne la rilevazione delle impronte digitali di tutti gli immigrati,

prevista dalla l. 189/02, il 33% si è detto d’accordo con questa norma, sottoscrivendo l’affermazione secondo la quale “bisogna avere certezze su tutti gli stranieri”. La parte restante del campione si è mostrata, invece, meno convinta riguardo a quest’ultimo provvedimento: il 20% si è trovata d’accordo con l’affermazione secondo la quale “le impronte digitali devono essere prese ai soli clandestini”, mentre per il 24% le impronte devono essere rilevate a tutti, compresi gli italiani. L’11%, infine, ritenendolo un intervento restrittivo della libertà individuale, ha manifestato la sua totale contrarietà a questo provvedimento.

Se da questo sondaggio il legame tra immigrazione e devianza sociale non

appare esasperato, non mancano altre fonti di inquietudine. Infatti, i timori connessi alla sicurezza personale vengono espressi dal 55% del campione in esame. In un quadro segnato da crescenti paure, i cittadini hanno mostrato la loro disponibilità nel riconsiderare parte della propria libertà in favore di maggiori garanzie sulla sicurezza. Infatti, una quota significativa del campione, cioè 8 persone su 10, si è dichiarata favorevole ad aumentare la sorveglianza con più frequenti telecamere su strade e luoghi pubblici. Infine, il 71% costringerebbe gli stranieri a portare con sé un peculiare documento d’identità che ne attesti la condizione di immigrato.

Un’altra indagine che rivela la percezione degli italiani sui flussi migratori nel

nostro Paese è stata condotta nel 2002 dall’Istituto di Ricerche sulla Popolazione e le Politiche Sociali del Consiglio Nazionale delle Ricerche (Bonifazi, 2006). È stato intervistato telefonicamente un campione di 3000 persone di età compresa tra i 20 e i 69 anni (delle quali 1908 tra 20 e 49 anni) rappresentativo della popolazione italiana per sesso, classe di età e ripartizione geografica (Nord-Ovest, Nord-Est, Centro e Mezzogiorno), prendendo in esame quattro aree problematiche: la percezione del fenomeno da parte dell’opinione pubblica italiana, l’inserimento sociale degli immigrati nella società italiana, il mercato del lavoro e le politiche migratorie del nostro Paese.

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Riassumendo, il 39,8% degli intervistati giudicava l’informazione dei mass-media sull’immigrazione poco adeguata a formare un’opinione completa sul fenomeno; il 35,4% pensava invece che essa fosse abbastanza completa, mentre il 14% la considerava del tutto negativa e solo l’8,2% la valutava in modo totalmente positivo. La metà degli intervistati (50,5%) riteneva di non poter quantificare il numero di immigrati presenti in Italia, mentre il 16,2% indicava una cifra compresa tra uno e due milioni e il 10,3% optava per un valore fra 500 mila e un milione di unità. Il 62,4% riteneva che gli immigrati fossero troppi, e il 32,8% pensava che non fossero né troppi né pochi. Quasi il 90% del campione sosteneva, inoltre, che le dimensioni del fenomeno sarebbero cresciute nei prossimi dieci anni. Il 37,3% giudicava negativamente la funzione di contrasto del calo demografico svolta dall’immigrazione, valutata positivamente dal 26,7% del campione, mentre il 33,6% non considerava questa dinamica né in modo positivo né negativo. La quasi totalità degli intervistati attribuiva il fenomeno immigratorio a ragioni di tipo economico, con una prevalenza dei motivi collegati al lavoro (48,9%) rispetto ai fattori espulsivi connessi alla povertà dei Paesi di provenienza (35,7%), pur non essendo ambedue le motivazioni per forza di cose antitetiche.

La maggioranza degli intervistati valutava positivamente l’immigrazione perché

permette il confronto con altre culture (60,2%). Inoltre, risultava elevata la percentuale (84,8%) di quanti si dichiaravano in disaccordo con l’affermazione che “l’Italia è degli italiani e non c’è posto per gli immigrati”. Tuttavia, il campione in esame riteneva che siano le condizioni di vita degli immigrati a favorire comportamenti illegali (61,4%) e pensava che la crescita del fenomeno fosse foriero del diffondersi di terrorismo e criminalità (56,4%).

Per più della metà degli intervistati (52,3%), l’atteggiamento degli italiani verso

gli immigrati era classificato come diffidente; il 46,6%, invece, riteneva diffidente l’atteggiamento degli immigrati verso gli italiani. Per l’85,5% del campione alcuni immigrati creavano problemi, che venivano identificati prevalentemente nelle attività illegali (64%) e nella prostituzione (13,5%), mentre la nazionalità più indicata tra quelle ritenute problematiche era l’albanese (54,3%).

Per il 73% degli intervistati l’inserimento degli immigrati nel nostro Paese è

difficile. La maggioranza del campione pensava che gli immigrati dovessero adeguarsi in genere agli usi e ai costumi italiani (58%) e un 36,6% riteneva che dovessero farlo solo in riferimento alle necessità più importanti. Il 41% non giudicava né positivamente né negativamente l’abitudine degli immigrati di ritrovarsi in alcuni specifici punti di aggregazione, mentre il 35,6% valutava questa aggregazione positivamente e solo il 20,9% valutava questo comportamento negativamente. Quest’ultimo giudizio era, per il 51,1% dei casi, basato sull’idea che questa abitudine non favorisse l’integrazione e, secondo il 22,4%, che queste abitudini potessero essere un rischio per l’ordine pubblico.

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Il 78,4% degli intervistati non avrebbe avuto alcun problema ad avere una famiglia di immigrati arabi come vicina di casa. Una percentuale che scendeva leggermente (72,3%) nell’ipotesi che il proprio figlio o la propria figlia avesse dovuto scegliere un coetaneo o una coetanea albanese come conoscente. Il 70,5% non avrebbe avuto alcun problema a stabilire un rapporto di amicizia con gli immigrati arabi, mentre il 53,1% rispondeva favorevolmente all’ipotesi di un fidanzamento con immigrati. Il 44,6% degli intervistati non giudicava né positivamente né negativamente i matrimoni misti tra italiani e immigrati, mentre il 23,5% li valutava abbastanza positivamente e il 13,9% abbastanza negativamente. Più dei tre quarti del campione dichiarava di conoscere personalmente un immigrato: se nel 44,9% dei casi si trattava di una conoscenza occasionale, per il 32,4% era legata a motivi di studio o lavoro, mentre per il 19,4% a rapporti di amicizia e per il 3,3% a legami di parentela.

L’84,6% degli intervistati viveva in una zona connotata dalla presenza di lavoratori immigrati. Il 45,4% di questi vedeva in tale presenza sia vantaggi che inconvenienti per l’economia della zona, mentre per il 36% vi erano solo vantaggi. Della parte del campione che viveva in zone non caratterizzate dalla presenza di lavoratori immigrati, il 55,3% riteneva che questi determinino sia vantaggi e che svantaggi per l’economia nazionale. Il 20,4, invece, reputava l’immigrazione negativa per l’economia della zona.

I settori di maggiore inserimento del lavoro straniero erano, secondo gli

intervistati, l’agricoltura (36%), il lavoro domestico (22,1%), l’industria (15,4%) e le costruzioni (14,9%). Per il 77,8% degli intervistati, gli immigrati lavorano senza un contratto regolare. La maggioranza del campione (63,3%) riteneva che gli immigrati fossero “necessari per fare i lavori che gli italiani non vogliono più fare” ed era in disaccordo sia con l’idea che togliessero il lavoro ai nostri concittadini (75,3%) che con l‘introduzione di salari differenziati (95,6%). Infine, gli intervistati si ripartivano in maniera pressoché identica tra favorevoli e contrari all’introduzione di norme che facilitassero l’immigrazione altamente qualificata.

Per quanto concerne le norme di politica migratoria, il 78,1% degli intervistati

affermava che i ricongiungimenti familiari dovrebbero avvenire solo se l’immigrato ha un lavoro regolare.

La nuova legge sull’immigrazione (la n. 189 del 2002), con la conseguente

regolarizzazione degli immigrati clandestini, veniva giudicata positivamente dal 35,5% degli intervistati, negativamente dal 28,1%, e né positivamente né negativamente dal 26,3%. La maggioranza degli italiani (57,8%) era in disaccordo con l’introduzione di regole particolari per l’ingresso e il soggiorno dei lavoratori domestici e delle persone che si occupano di cura e di assistenza dei bambini e degli anziani.

Da questa ricerca emergeva un altro dato interessante. Rilevante, infatti,

risultava la quota maggioritaria del campione favorevole alla regolarizzazione dei

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clandestini privi di permesso di soggiorno nel momento in cui questi trovino un lavoro (81,9%). Mentre, in percentuale decisamente minore (52,8%), gli intervistati avrebbero voluto l’espulsione immediata per i clandestini anche in assenza di reati. Infine, la quota del campione a favore diventava più elevata quando si considerava la concessione del diritto di voto alle elezioni comunali (56,9%) e l’ottenimento della cittadinanza dopo cinque anni di residenza senza aver commesso crimini (71,7%).

Secondo un’altra ricerca (European Migration Network, 2004), sempre nel 2002, la quota degli italiani che considerava gli immigrati un pericolo per la propria cultura identitaria corrispondeva al 23,9% degli intervistati. Il 29,2% degli intervistati considerava gli immigrati una minaccia per l’occupazione, mentre il 39,7% riteneva che l’immigrazione fosse una minaccia per l’ordine pubblico e la sicurezza delle persone.

Nel mese di marzo 2003 è stata svolta un’altra indagine demoscopica, condotta

per conto della Fondazione Debenedetti12. A un campione di 1.000 individui sono state poste diverse domande sulla loro percezione del fenomeno migratorio, sulle loro opinioni circa le possibilità e modalità di accesso ai servizi sociali da parte degli immigrati, e sulla loro disponibilità a contribuire direttamente per il finanziamento di tali servizi.

Per quanto concerne la percezione generale della presenza immigrata, il 36%

degli italiani ha dichiarato che l’immigrazione ha avuto nel lungo periodo degli effetti negativi; per il 35%, invece, l’immigrazione ha prodotto alla lunga effetti positivi.

Per quanto riguarda l’opportunità di offrire servizi agli immigrati, il 73% degli intervistati riteneva opportuno che la Pubblica Amministrazione fornisse loro servizi per facilitarne l’inserimento. Fra i servizi considerati più utili a tal fine, erano presi in considerazione innanzitutto i corsi di lingua italiana e di educazione civica. Soltanto il 6% degli intervistati affermava che nessuno dei servizi potesse essere fruito gratuitamente dagli immigrati. Meno del 20% degli intervistati riteneva utile offrire agli immigrati dei corsi di qualificazione professionale. Questa percentuale si riduceva notevolmente per operai, agricoltori, commercianti, quadri intermedi e disoccupati in cerca di prima occupazione.

Un altro indicatore importante fornito da questa indagine riguardava la

percezione degli immigrati in base al livello d’istruzione degli intervistati. Come prevedibile, analizzando il livello di istruzione degli intervistati, i meno favorevoli ad offrire corsi di qualificazione professionale agli immigrati sono coloro che dispongono soltanto della licenza elementare, nonché i residenti nelle regioni del Sud (e, a livello minore nel Nord-Est). Alla domanda “quanto sarebbe disposto a pagare in più di tasse per fornire questi servizi agli immigrati?”, il 45% degli intervistati rispondeva “niente”, mentre circa il 22% sarebbe stato disposto a pagare solo 10 euro in più. In media, il contributo che gli intervistati sarebbero stati disposti a versare 12 Una presentazione dei dati salienti di questa ricerca può essere rinvenuta in: http://www.frdb.org/images/customer/riepilogo_risultati.pdf.

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ammontava a 31 euro. Le regioni più generose erano quelle del Centro-Sud, dove la percentuale dei favorevoli alla fornitura di servizi agli immigrati risultava superiore alla media. Elevata invece la percentuale di risposte “dipende” (intorno al 10%) nelle regioni del Nord.

Per quanto riguarda le caratteristiche degli immigrati che dovrebbero avere il

diritto all’assistenza sociale, sanità e istruzione, oltre il 36% degli intervistati risultava favorevole ad elargire “per tutti gli immigrati, senza condizioni”, i diritti all’assistenza. Se invece l’alternativa riguardava gli immigrati dotati di un permesso di soggiorno e di un lavoro regolare, la percentuale dei favorevoli ai servizi di welfare saliva al 93% (per l’86% anche solo a coloro che possedevano un permesso di soggiorno) mentre il 76% degli intervistati avrebbe concesso i diritti agli immigrati volenterosi che “cercano attivamente un lavoro e accettano anche lavori saltuari o irregolari”.

Una successiva ricerca (Diamanti, Bordignon, 2005) ha illustrato il grado di

preoccupazione suscitato dagli immigrati. Già allineato alla media dei paesi della UE fra il 1999 e il 2002, negli ultimi anni esso sembra tornato a crescere fino ad apparire decisamente elevato, soprattutto se si guarda ai timori concernenti la sicurezza e l’ordine pubblico.

Questa indagine suggerisce come lo straniero susciti sentimenti contrapposti

nella popolazione italiana: da una parte gli immigrati vengono percepiti come elementi di disordine e di devianza sociale (39,2% degli intervistati); dall’altra si ha la consapevolezza che l’incremento della presenza straniera è oramai un fenomeno stutturale, oggettivamente utile all’economia del nostro e degli altri Paesi europei (lo pensa il 46,9% degli intervistati).

La paura nei confronti della “ondata migratoria” spinge la gente a chiedere che

gli stranieri vengano integrati con la cultura occidentale e rispettino i valori dominanti della nostra società. È per questo che convivono, nell’opinione pubblica, due sentimenti contrastanti: se è vero che in Italia il 39% della popolazione pensa che gli stranieri siano una minaccia per l’ordine pubblico e la sicurezza delle persone, un buon 73% ritiene giusto che, se regolari, anche gli stranieri abbiano il diritto di votare alle elezioni comunali, mentre addirittura il 97,1% non ha dubbi che essi debbano poter usufruire dell’assistenza sanitaria per se e per i propri familiari. Stessa cosa si può dedurre da altre considerazioni emerse da questa ricerca. Come risulta dai dati, infatti, le piccole città di provincia sembrano quelle più spaventate dallo straniero rispetto alle metropoli, dove pure la presenza degli immigrati è più forte. Le zone che maggiormente soffrono delle angosce nei confronti dello straniero, sono i comuni di piccole dimensioni, in cui la presenza straniera è meno radicata e i cui abitanti si fanno influenzare dai media rimanendo colpiti da eventi eclatanti seppur isolati, come, per esempio, le rapine nelle ville e nei negozi. Determinate tipologie di crimini, apparentemente commesse più da particolari nazionalità straniere che da

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italiani, creano nell’abitante di provincia un notevole allarme sociale legato all’isolamento e alla difficoltà di conoscere e affrontare il fenomeno con altri strumenti cognitivi, determinando una diffidenza generalizzata nei confronti dell’immigrazione, di particolare clandestina.

Meno spaventati sono gli abitanti delle grandi metropoli, dove il contatto con gli

stranieri è all’ordine del giorno e, nonostante i problemi di coabitazione che il fenomeno talora crea, il rapporto di convivenza è ridimensionato e viene visto come una questione di integrazione e non di ordine pubblico. La percentuale di persone preoccupate per l’immigrazione passa da un 34,6% nei Comuni con meno di 2000 abitanti al 27,5% di quelli con più di 500 mila. Si può dedurre da questi dati che la conoscenza del fenomeno e la convivenza quotidiana con esso diminuiscano la paura che a volte può suscitare.

Concentrandoci sul tema della percezione dell’immigrazione specificamente

araba e/o musulmana da parte dell’opinione pubblica italiana, citiamo un’indagine condotta nel 2006 dalla Camera di Commercio di Milano attraverso la Cedcamera in cinque grandi città italiane (Milano, Bologna, Roma, Napoli e Palermo)13. Scopo della ricerca è stato quello di indagare come i residenti di queste cinque metropoli si pongano nei confronti dei cittadini arabi presenti in Italia.

In base a dati raccolti dall’indagine a campione condotta nel giugno 2005 dalla

stessa Cedcamera, risulta che per circa un terzo degli intervistati gli immigrati dei Paesi arabi dovrebbero adeguarsi alle tradizioni del nostro Paese, mentre per poco meno dei due terzi del campione è giusto che gli immigrati mantengano le loro tradizioni. A questo proposito è interessante menzionare che per il 69% degli intervistati i simboli religiosi vanno tollerati: tutti i simboli naturalmente, e non solo quelli cristiani o quelli musulmani; vi è, invece, chi, alla francese, li toglierebbe tutti.

Per quanto concerne l’adesione all’integrazione degli immigrati nel nostro Paese, un dato rilevante riguarda la formazione di coppie miste, per le quali il 72,9% degli intervistati si mostra favorevole. Quasi la stessa consistenza ha chi è abbastanza o molto favorevole all’apertura di una moschea nella sua città (61,4%, più di 10 punti in più rispetto al 2004), motivata come disponibilità verso le altre religioni nell’ottica di una reciproca integrazione e anche nell’ottica di spingere i Paesi di origine alla reciprocità.

Il 12% degli intervistati del 2006 ha maggiore diffidenza nei confronti degli

immigrati rispetto al 2004, il 14,4% pensa che gli immigrati possano influire negativamente nella propria città, e il 35% si sente meno sicuro di prima.

Se si confrontano i risultati dell’indagine della Cedcamera raccolti nel 2005 con

quelli del 2006, si può notare che le opinioni sui cittadini arabi nelle cinque metropoli 13 La ricerca, che costituisce un aggiornamento di indagini condotte negli anni precedenti, è disponibile in: http//www.stranieriinitalia.it.

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italiane non sono cambiate di molto; il 79% degli intervistati ha dichiarato di non aver cambiato atteggiamento verso gli immigrati rispetto all’anno precedente. Rispetto al 2005, però, gli intervistati che ritengono positiva per la propria vita la presenza di immigrati nella propria città sono passati dal 22,2% al 39,6%. In particolare, per quel che riguarda gli arabi, il 45,2% frequenta abitualmente esercizi commerciali da loro gestiti, soprattutto ristoranti (36,5%), ma anche pizzerie (18,6%) e negozi di generi alimentari (12%). Più l’immigrato si integra, più aumenta la fiducia degli intervistati, per cui cresce il numero di favorevoli: alle coppie miste (68%); alla concessione del diritto di voto agli immigrati in Italia da oltre dieci anni (51,7%); all’apertura di una moschea nella propria città (50%); all’accettazione di simboli religiosi (67,8%) e di usanze e tradizioni di altri contesti (59,8%). Napoli e Palermo si confermano le città più tolleranti. Tuttavia, ma in generale, rispetto al 2005 il 54,5% del totale degli intervistati si sente meno sicuro nei luoghi pubblici, soprattutto nelle stazioni ferroviarie, la metropolitana e i centri commerciali, per paura di possibili attacchi terroristici.

Da un sondaggio Ap-Ipsos, condotto fra il 1° e il 22 maggio 2006 in otto Paesi

occidentali su un campione di 1.000 adulti per nazione14, emerge come gli intervistati italiani considerino i cittadini immigrati dei gran lavoratori. Il sondaggio evidenzia che la tendenza generale degli italiani è favorevole verso l’immigrazione, oggi più che in passato. Per il 45% del campione italiano, infatti, gli immigrati rappresentano una presenza positiva. Quasi equivalente (il 40%) è la percentuale di chi la pensa esattamente al contrario. Solo per il 10%, inoltre, gli immigrati giovano alla comunità in cui si insediano, mentre il 22% tende a pensare che creino nuovi problemi. Ancora, sul fronte del lavoro il 40% pensa che gli immigrati lavorino più duramente degli italiani, mentre il 45% pensa che lavorino almeno quanto i cittadini del Paese ospitante. Infine, sono molti gli italiani (il 41%) che ritengono gli immigrati coinvolti in attività criminose in misura maggiore rispetto ai propri connazionali, mentre solo il 14% pensa il contrario.

Differenti appaiono, invece, i dati che emergono da un recente sondaggio,

eseguito su un campione adulto di 773 casi e pubblicato sul quotidiano Il Giornale (che lo ha commissionato) il 29 dicembre 200615. L’indagine “Sull’Islam in Italia” mostra che il 67,9% degli italiani, contro il 21,9% dei poco e per nulla d’accordo, ritiene veritiera l’affermazione secondo la quale “In generale, gli immigrati islamici hanno poca voglia d’integrarsi”. Un altro dato interessante è rappresentato dall’opinione degli intervistati sul tema del rapporto tra tradizioni islamiche e leggi italiane. Alla domanda “Prima delle sue tradizioni, un islamico in Italia deve rispettare le leggi del nostro Paese?”, il 97,3% ha risposto favorevolmente, contro l’1,2%. Il 63,1% (contro 31,6%) del campione, alla domanda “In Italia, le autorità dovrebbero agire con fermezza contro l’utilizzo del velo islamico che nasconde il 14 Gli otto paesi sono: Australia, Canada, Francia, Germania, Gran Bretagna, Italia, Spagna, Stati Uniti. Il sondaggio è disponibile in: http//www.stranieriinitalia.it. 15 Disponibile in: http//www.stranieriinitalia.it.

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viso?”, si è dichiarato d’accordo. Infine, quando agli intervistati è stato chiesto il loro parere relativamente all’affermazione secondo la quale “L’Italia dovrebbe impedire la costruzione di moschee, fino a quando non si potrà professare liberamente la religione cristiana anche nei paesi musulmani”, il 56,0% ha mostrato il proprio assenso, mentre il 38,3% si è dichiarato contrario a questa affermazione.

A conclusione di questa rassegna è opportuno considerare la corposa rilevazione

realizzata dalla “Makno&consulting”, su commissione del Ministero dell’Interno. La ricerca, condotta nei primi mesi del 2007, consta di due distinte indagini, l’una volta a cogliere la percezione del fenomeno immigrazione attraverso l’esperienza degli italiani, l’altra orientata a fornire un quadro esaustivo della condizione degli immigrati in Italia16.

Il sondaggio ha coinvolto un campione di 1.000 unità, rappresentativo della

popolazione italiana in età superiore ai 15 anni, pari a circa 49 milioni di individui. In ordine al sesso il campione era composto dal 52,5% di femmine e dal 47,5% di maschi; la provenienza per area geografica è stata determinata come segue: 26,8% di interviste effettuate nell’area Nord-Ovest, 18,8% nell’area Nord-Est, 19,5% nel Centro e 35,0% nel Sud-Isole. Il campione comprendeva un numero di laureati pari al 10,6%, una quota prevalente con un titolo di istruzione superiore (38,5%), circa un terzo in possesso della licenza media (31,8%), 16,7% fornito di licenza elementare e una percentuale marginale (2,4%) senza alcun titolo di studio.

Il primo dato che emerge dal sondaggio è la scarsa rilevanza del fenomeno

considerato nell’agenda delle priorità. Rispetto ai problemi connessi al lavoro (disoccupazione e precarietà) e alle condizioni economiche delle famiglie (caro prezzi, crisi economica, basse pensioni), o legati alla sicurezza dei cittadini (delinquenza e grande criminalità organizzata), la questione del controllo/riduzione dell’immigrazione si colloca all’ottavo posto tra le priorità dei cittadini, con l’8% circa delle indicazioni. Tenendo conto dei cittadini interessati a migliorare le condizioni di accoglienza (2,8%), la questione dell’immigrazione arriverebbe a coinvolgere circa l’11% dei cittadini, salendo dall’8° al 7° posto.

Il crescente disagio prodotto negli ultimi anni dall’immigrazione è innegabile,

ma deve essere messo in relazione non tanto con il razzismo, quanto con la preoccupazione relativa alla distribuzione delle risorse, percepite come limitate, e con

16 I documenti della Ricerca sociale sull’immigrazione, relativi alla Indagine estensiva sugli italiani e alla Indagine estensiva sugli immigrati sono reperibili, rispettivamente, ai seguenti indirizzi: http://www.interno.it/mininterno/export/sites/default/it/assets/files/14/0654_Rapporto_italiani_e_immigrazione4.pdf; http://www.interno.it/mininterno/export/sites/default/it/assets/files/14/0653_Rapporto_Immigrati_Ricercasociale6.pdf.

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l’allarme sicurezza, provocato dall’idea che ai nostri delinquenti si sono aggiunti quelli provenienti dagli altri paesi.

Anche la copertura mediatica, spesso appiattita sul sensazionalismo, contribuisce

a diffondere immagini ed esempi negativi, rafforzando la relazione immigrazione-criminalità. Non a caso sono numerosi gli italiani intervistati che collegano la propria ostilità nei confronti dell'immigrazione alle notizie apprese dai telegiornali, dai quotidiani o dai siti internet, mentre sono pochi coloro che hanno una conoscenza diretta dell’immigrato, non veicolata dai mezzi di informazione. Significativamente è proprio tra questi soggetti che prevalgono le considerazioni positive sugli immigrati. Complessivamente, comunque, gli italiani pensano che gli immigrati siano una risorsa per il mercato del lavoro anche se, accettando compensi e incarichi sottopagati, abbassano i livelli salariali di tutti gli altri.

A conferma della scarsa conoscenza del fenomeno, dall’indagine emerge che

circa i due terzi degli italiani (65,3%) non hanno idea di quanti siano gli immigrati presenti oggi sul territorio nazionale, e solo una minoranza (il 5%) ha fornito una risposta (“circa 3 milioni”) corrispondente al dato reale.

Gli atteggiamenti nei confronti degli immigrati, percepiti generalmente come

lavoratori, sono stati testati con riguardo a 6 proposizioni emblematiche: agli intervistati è stato chiesto di esprimere il proprio grado di accordo/disaccordo nei confronti di ciascuna di tali proposizioni utilizzando una scala da 1 a 10. È stata registrata un’ampia concordanza sul fatto che gli immigrati siano utili perché assistono gli anziani, così come c'è un consenso maggioritario sul fatto che gli immigrati siano una risorsa economica per l’Italia perché aiutano ad attenuare la carenza di manodopera delle imprese. Tuttavia, la maggior parte degli intervistati ritiene che gli immigrati rappresentino un costo perché utilizzano i servizi sociali spesso senza averne diritto in quanto non pagano le tasse. Si verifica, inoltre, una sostanziale polarizzazione sul tema se gli immigrati rappresentino o meno una minaccia per i lavoratori italiani, accettando bassi salari e condizioni di lavoro peggiori. Pur dissentendo per lo più dall’idea che gli immigrati ringiovaniscano l’Italia e portino nuovi modi di vedere le cose e nuove idee, l’ampia maggioranza degli intervistati ritiene che gli immigrati non rappresentino una minaccia per l’identità sociale e culturale del paese.

I sentimenti nei confronti degli immigrati variano dalla comprensione alla

preoccupazione. Volendo schematizzare, le risposte degli intervistati sono aggregabili in tre gruppi: sentimenti di apertura (comprensione, disponibilità, compassione, solidarietà e fiducia); sentimenti di chiusura (indifferenza, preoccupazione, diffidenza, fastidio, paura, disagio, insicurezza e rabbia); razionalità/estraneità (niente in particolare). Il primo gruppo ha raccolto il 42% delle risposte, il secondo il 33% ed il terzo il 25%. In altri termini, la maggior parte degli italiani parrebbe vivere in termini di apertura la presenza degli stranieri, un terzo prova sentimenti di

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chiusura/preoccupazione, mentre la parte rimanente mantiene un atteggiamento distaccato.

Questa rassegna dei principali sondaggi condotti negli ultimi anni mostra come

sul tema dell’immigrazione l’opinione pubblica italiana non possa essere descritta come succube né di tendenze xenofobe né di atteggiamenti “buonisti”.

La questione lavoro non sembra costituire un elemento conflittuale, dal

momento che la grande maggioranza degli intervistati, nelle varie indagini, ha dichiarato che gli stranieri fanno il “lavoro rifiutato dagli italiani”. La criminalità rimane la maggiore preoccupazione degli italiani. E non solo di questi ultimi, visto che anche gli stranieri regolarmente soggiornanti nel nostro Paese – come vedremo nel prossimo paragrafo – individuano nelle varie forme di attività criminale perpetrate dai connazionali un serio ostacolo per la propria integrazione.

2.2. L’immagine degli italiani presso gli immigrati L’esito di una interazione dipende molto dalle rispettive immagini degli attori

coinvolti. Un’immagine negativa veicola comportamenti improntati all’antipatia e al conflitto, mentre una positiva si avvale di atteggiamenti di simpatia e comportamenti collaborativi. Nel caso dell’immigrazione in Italia, questa comprende tanto il modo in cui noi guardiamo loro (gli immigrati), quanto il modo in cui loro guardano noi. Tuttavia, assai più rare sono le indagini per sondare in presa diretta i sentimenti degli immigrati nei confronti della popolazione italiana. Prevedibilmente, nei contributi di ricerca finora apparsi in Italia sul fenomeno immigratorio, maggiore attenzione è stata posta sulla costruzione dell’immagine degli immigrati da parte degli italiani.

In questo secondo paragrafo, invece, ci si propone di ricostruire la percezione

che gli immigrati hanno degli italiani. Ovviamente, come per il precedente paragrafo, in questo caso si tratterà di una costruzione sociale dell’immagine dell’altro, ovvero di una “parziale” rappresentazione. A partire da questo approccio, quella che segue è una rassegna delle ricerche sociologiche e dei sondaggi di opinione degli immigrati in Italia che espongono il modo in cui gli immigrati vedono e rappresentano gli italiani. I lavori qui raccolti, naturalmente, non esauriscono le ricerche sul fenomeno immigratorio. Essi sono solo una selezione di tutte quelle che hanno come oggetto, parziale o totale, l’immagine degli italiani da parte degli immigrati. Per la scelta delle ricerche si è operata una prima schedatura di tutti i lavori sul fenomeno immigratorio, quindi si sono scelti solo quelli che, tra le interviste riportate, fornivano indicazioni sull’oggetto di indagine.

In una ricerca diretta da Vittorio Cotesta e sponsorizzata dalla Presidenza del

Consiglio dei Ministri (Associazione Next, 2001), sono state approfondite le opinioni di alcuni immigrati allo scopo di comprendere la loro percezione del sistema-Italia.

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Questa ricerca, durata complessivamente dieci mesi (da febbraio a dicembre 2000), si è svolta in due fasi. Nella prima, sono state effettuate interviste strutturate a testimoni qualificati del mondo dell'immigrazione. Nella seconda, sono state effettuate interviste ad un campione di immigrati costruito mediante quote rappresentative sia della presenza per nazionalità, sia della loro distribuzione tra le diverse regioni italiane.

Gli immigrati intervistati in questa ricerca sono stati 399, così distribuiti tra le

quattro ripartizioni classiche del territorio nazionale italiano: il 30,6% nel Nord-Ovest, il 17,5% nel Nord-Est, il 33,8% nel Centro e il rimanente 18,0% nel Sud e nelle Isole. Di questi, il 60,7% (242) è di genere maschile e il rimanente 39,3% (157) è di genere femminile. La loro età media si aggirava intorno ai 32 anni (con quella modale di 29 anni), mentre, tra le classi di età maggiormente rappresentate, si trovavano quella dei 25-29enni e quella dei 30-34enni, con circa il 31% di ricorrenza. Si trattava, quindi, di una popolazione prevalentemente giovane (circa i due terzi di loro aveva tra i 25 e i 34 anni).

Per quanto riguarda la provenienza degli intervistati, la metà di loro arrivava

dall’Africa (48,9%), con una leggera preminenza del Nord (26,1%) rispetto al resto del continente (22,8%). In particolare, la nazionalità più numerosa era quella marocchina, con il 17,5% del totale (70 casi). Una quota simile di immigrati giungeva invece dall’Asia e dai Balcani (entrambe con percentuali collocate tra il 15 e il 17%). Solo una piccola parte degli intervistati, infine, era di provenienza americana meridionale e centrale (10,0%), o europea dell’Est (8,5%).

La provenienza di questi immigrati incideva fortemente sulla fede religiosa

degli intervistati. Infatti, nella maggior parte dei casi si conteggiavano musulmani (46,6%), mentre minore era la quota dei cristiani (40,5%), prevalentemente di confessione cattolica (28,7%). Quasi del tutto assenti erano gli esponenti di altre religioni. Da segnalare la quota di coloro (8%) che affermavano di non avere una fede religiosa.

Il titolo di studio di questi immigrati era per lo più il diploma di scuola media

superiore (38,9%). Solo un quinto di loro possedeva una laurea (21,1%), mentre il rimanente 40% non possedeva alcun titolo di studio (7,9%) oppure questo era di livello basso (32,1%).

In sostanza, il profilo comune a molti degli intervistati in questa ricerca era

quello di un insieme di persone piuttosto stabilizzate nel loro progetto migratorio: giovani, in prevalenza maschi, con media scolarizzazione, provenienti per lo più dall’Africa settentrionale (specialmente dal Marocco), di religione musulmana, giunti perché richiamati da qualcuno in Italia, abbastanza soddisfatti di quanto realizzato e abbastanza inclusi nel mondo del lavoro.

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Analizzando nel dettaglio i dati emersi da tale ricerca, troviamo che gli immigrati sembrano consapevoli di essere utili e insieme considerano utile l’Italia per realizzare i propri fini: “è più facile trovare lavoro nel mio Paese che in Italia” trova ampio disaccordo (67%), mentre “dell’Italia amo soprattutto la possibilità di trovare lavoro” trova ampio accordo (63%), così come “l’immigrato fa il lavoro che agli italiani non piace” (92,7%) e “gli italiani non vogliono fare i lavori faticosi” (72,6%). Da questo rapporto, emerge che gli immigrati rilevano notevoli differenze tra i comportamenti propri e quelli degli italiani: questi ultimi sono poco religiosi, fanno comandare le donne, hanno legami familiari deboli, viziano i bambini e non rispettano i vecchi, e sono consumisti.

È una costellazione di opinioni tradizionaliste, che si confronta con un mondo,

nel bene e nel male, più ricco e moderno. Però la differenza viene percepita come non incolmabile, se è vero che gli immigrati sono meno diffidenti nei confronti di matrimoni con italiani, sia per sé che per i propri figli. Infatti, il 56,3% del campione si dice disposto a sposare un italiano o una italiana; il 35,9% è invece contrario e solo il 7,8%, pur guardando con favore a tale eventualità, è d’accordo sull’esistenza di ostacoli culturali. Gli intervistati contrari ad un eventuale matrimonio di un proprio figlio con un cittadino italiano sono il 22,8%; il 44,9%, invece, non vede ragione di contrarietà, e il 32,2% pensa che la decisione spetti ai figli stessi.

Riguardo ai rapporti di solidarietà (esaminando i due vettori più netti:

“Abbastanza d’accordo” + “Molto d’accordo vs. “Per niente d’accordo” + “Poco d’accordo”), gli immigrati intervistati vedono spesso la società italiana come composta da persone che pensano prevalentemente a se stesse, formali, e poco solidali tra di loro, a parte quando si tratta di discriminare gli stranieri, che infatti si sentono indesiderati. Nonostante queste considerazioni, però, nel complesso, prevale la percezione degli italiani come gente solidale con gli immigrati: il 37,6% dei casi (“Abbastanza d’accordo” + “Molto d’accordo”) ritiene gli italiani solidali con gli immigrati (contro il 31,9% di “Per niente d’accordo” + “Poco d’accordo”), e il restante 30,4% si dichiara “Più d’accordo che in disaccordo” con questa stessa affermazione. Inoltre, tra gli intervistati predomina anche la percezione della Chiesa come un’istituzione solidale con gli immigrati: il 47,8% degli intervistati (“Abbastanza d’accordo” + “Molto d’accordo”) apprezza l’aiuto fornito dalla Chiesa (contro il 23,7% di “Per niente d’accordo” + “Poco d’accordo”).

I rapporti tra connazionali residenti in Italia sono però più solidali di quelli tra

italiani ed immigrati. Infatti, l’affermazione secondo la quale tra immigrati c’è scarsa solidarietà è poco condivisa (26,7% di “Abbastanza d’accordo” + “Molto d’accordo”, contro il 52,9% di “Per niente d’accordo” + “Poco d’accordo”). Tra i due vettori semantici prevale dunque di molto quello della solidarietà. Tuttavia gli stranieri che risiedono in Italia da più tempo sono visti come persone che già si sentono superiori a chi è arrivato da poco, come se tra gli immigrati si fosse formata una gerarchia basata sulla durata della permanenza. L’affermazione secondo la quale, infatti, chi è in Italia

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da un tempo più lungo si sente “superiore” ai nuovi arrivati è condivisa dal 42,6% (“Abbastanza d’accordo” + “Molto d’accordo”), contro il 28,3% (“Per niente d’accordo” + “Poco d’accordo”). I valori, però, non sono così netti da far pensare ad una struttura ormai cristallizzata. Il problema tuttavia esiste e gli intervistati se ne rendono conto.

In questa ricerca emerge anche una rappresentazione ambigua degli italiani:

vengono visti come amici, ma non si sa quanto sinceri, pur essendo percepiti come un popolo un po’ migliore di altri. Infatti, l’accordo su quanto gli italiani siano “buoni amici” (43,4% di “Abbastanza d’accordo” + “Molto d’accordo”) supera il disaccordo (25,9 di “Per niente d’accordo” + “Poco d’accordo”). Più forte è, invece, la condivisione dell’immagine dell’italiano come persona poco “franca” (53,9% di “Abbastanza d’accordo” + “Molto d’accordo”, contro il 20,7% di “Per niente d’accordo” + “Poco d’accordo”). Un’altra divisione si rileva dal giudizio sull’affermazione: “Gli italiani sono brave persone, meglio di altri popoli” (33,1% di “Abbastanza d’accordo” + “Molto d’accordo”, contro il 31,3% di “Per niente d’accordo” + “Poco d’accordo”). Qui, sembra che l’ipotesi dello stereotipo “italiani brava gente” non venga confermato, almeno nella sua pienezza. Infatti, emerge da quest’ultimo dato una ripartizione degli immigrati in due blocchi quasi uguali, con una prevalenza positiva molto lieve.

Nella stessa indagine, inoltre, vengono analizzate le rappresentazioni che gli

immigrati hanno del sistema politico-normativo italiano. Si tratta di tutto ciò che riguarda la legge, i diritti e i doveri a cui sono soggetti tanto gli immigrati quanto gli italiani e, in particolare, le opinioni degli stranieri su alcune istituzioni del Paese e sui valori fondamentali di ogni democrazia occidentale.

Un primo blocco di domande è dedicato al sistema normativo. Questo, nel complesso, si riferisce a quell’insieme di comportamenti, in genere rivelatori del senso civico di una nazione, che fanno di un popolo una comunità. In questo caso, gli indicatori del senso civico degli italiani, presi in considerazione in questa indagine, sono tre comportamenti: pagare le tasse, agire secondo la legge, tolleranza nei confronti dei criminali. Normalmente, essere un “buon cittadino” significa non rifiutare il proprio contributo economico, comportarsi secondo la legge ed infine operare per recuperare, per quanto è possibile, i criminali.

All’affermazione “Gli italiani rispettano le leggi”, gli immigrati intervistati

sembrano avere idee discordanti in proposito, e tuttavia più tendenti verso il disaccordo che non per l’accordo. Infatti, anche se un terzo di loro si colloca a metà della scala, quindi in una posizione di leggero accordo con l’affermazione citata (32,7%), quasi 4 immigrati su 10 sono convinti della scarsa osservanza delle leggi da parte degli italiani (28,3% di “Per niente d’accordo” + “Poco d’accordo”). Pertanto, anche se siamo di fronte a un risultato intermedio, l’impressione è che gli immigrati hanno degli italiani l’immagine di un popolo non propriamente civico.

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Come seconda domanda, agli immigrati viene chiesto di esprimersi sull’evasione fiscale degli italiani. L’affermazione è la seguente: “Tanti italiani non pagano le tasse”. Qui, l’opinione negativa si rafforza decisamente. La quota di coloro che sono fermamente convinti che gli italiani non assolvano ai loro obblighi fiscali (46,3% di “Abbastanza d’accordo” + “Molto d’accordo”) sfiora la metà degli intervistati, mentre quella degli incerti rimane ferma al terzo del totale e scende quella dei contrari (19,9% di “Per niente d’accordo” + “Poco d’accordo”).

L'immagine critica del comportamento degli italiani tocca il suo apice

nell’ultima domanda di questo blocco tematico. Per gli immigrati, “La giustizia italiana è troppo tollerante con i criminali”. Lo dichiarano i due terzi del totale (65,3% di “Abbastanza d’accordo” + “Molto d’accordo”), con pochissimi casi di immigrati che si trovano in disaccordo con questa opinione. In questo caso il risultato sembra piuttosto chiaro: per gli immigrati intervistati, in Italia occorrerebbe più fermezza nel punire i trasgressori e più rigore per chi non rispetta le regole.

Se si considera, infine, il diverso grado di inclusione raggiunto nel mondo del

lavoro, gli inclusi (coloro cioè che possono dire di aver realizzato o di essere in procinto di realizzare il proprio progetto lavorativo in Italia), ritengono gli italiani più rispettosi della legge e meno evasori fiscali (“Gli italiani rispettano le leggi”, 70,4%; “Tanti italiani non pagano le tasse”, 69,2%; “La giustizia italiana è troppo tollerante verso i criminali”, 91,5%); gli altri, quelli meno inclusi, la pensano al contrario. La stessa cosa si rileva quando gli intervistati si considerano musulmani dal punto di vista della pratica o meno della loro religione. I praticanti sembrano avere un’immagine degli italiani relativamente più positiva rispetto a quella dei non praticanti: “Gli italiani rispettano le leggi”, 64,7%; “Tanti italiani non pagano le tasse”, 76,1%; “La giustizia italiana è troppo tollerante verso i criminali”, 89,2%.

Un secondo blocco di analisi è invece dedicato all’immagine che gli immigrati hanno della burocrazia italiana. Questa sottoarea del sistema politico-normativo chiama in causa direttamente l’esperienza di vita di molte di queste persone. Spesso, infatti, gli immigrati devono fare i conti con l’amministrazione pubblica, quando per esempio devono occuparsi del loro permesso di soggiorno o delle loro istanze sociali e sanitarie, sperimentando così in prima persona quella che da molti degli stessi italiani è considerata una delle maggiori deficienze del Paese.

Per quanto riguarda una prima affermazione, secondo la quale “La burocrazia

italiana è troppo lenta”, la condivisione con questa valutazione negativa è decisamente marcata. Ben tre quarti dei rispondenti è d’accordo (74,9% di “Abbastanza d’accordo” + “Molto d’accordo”) con il giudizio sulla lentezza della burocrazia italiana, e solo una minima parte ha invece un’opinione contraria (7,9% di “Per niente d’accordo” + “Poco d’accordo”).

Anche relativamente alla successiva affermazione, “Negli uffici pubblici ci

trattano diversamente rispetto agli italiani”, il giudizio è critico: circa due terzi degli

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intervistati sono d’accordo (62,4% di “Abbastanza d’accordo” + “Molto d’accordo”) con l’affermazione che la burocrazia italiana discrimina.

Il giudizio piuttosto negativo sul funzionamento della burocrazia e sulla

discriminazione operata dai burocrati non è molto diverso se consideriamo le variabili economiche e religiose. Nell’approfondire l’analisi si rileva una situazione interessante. Gli immigrati mostrano infatti atteggiamenti alquanto differenti nei confronti delle due dimensioni della burocrazia italiana a seconda di quanto siano inclusi nel sistema economico italiano. Fermo restando che il giudizio generale su queste dimensioni è comunque abbastanza chiaro e deciso, chi è incluso mostra un atteggiamento meno denigratorio verso l’efficienza funzionale della burocrazia e al contempo una insoddisfazione maggiore per il modo in cui si sentono trattati dagli impiegati negli uffici pubblici (“La burocrazia italiana è troppo lenta”, 90,4%; “Negli uffici pubblici ci trattano diversamente rispetto agli italiani, 87,8%); viceversa, gli esclusi sono più severi quando si esprimono sulla lentezza della burocrazia italiana, ma più clementi sull’atteggiamento degli impiegati nei loro confronti (“La burocrazia italiana è troppo lenta”, 93,8%; “Negli uffici pubblici ci trattano diversamente rispetto agli italiani”, 82,6%).

Passando all’altra variabile, quella religiosa, tra i cristiani praticanti il giudizio

critico sulla burocrazia e sui suoi dipendenti è meno marcato che non tra i musulmani praticanti (Cristiani praticanti: “La burocrazia italiana è troppo lenta”, 89,9%; “Negli uffici pubblici ci trattano diversamente rispetto agli italiani”, 78,8%. Musulmani praticanti: “La burocrazia italiana è troppo lenta”, 90,9%; “Negli uffici pubblici ci trattano diversamente rispetto agli italiani”, 86,7%).

L’ultimo blocco di analisi chiama in causa esplicitamente la politica italiana e

l’Italia come sistema-Paese dal punto di vista istituzionale. In questa sottoarea vengono prese in considerazione alcune affermazioni che riguardano la democrazia e la libertà, ma anche il governo italiano e la facilità di accesso nel nostro Paese.

Che gli immigrati non giungano in Italia solo perché vi è democrazia o la libertà

sembra scontato. Ciò infatti non discrimina il nostro Paese da altri Stati occidentali. Tuttavia, una quota significativamente alta degli immigrati intervistati appare d’accordo (58,3% di “Abbastanza d’accordo” + “Molto d’accordo”) sull’opinione che la democrazia italiana sia una delle cose migliori del nostro patrimonio nazionale. Molto più bassa è la quota dei contrari, (12,6%). Da qui l’opinione tutto sommato positiva che gli immigrati hanno della democrazia in Italia. La stessa cosa vale per quanto espresso per il concetto di “libertà”, dove appare anzi qualche grado di preferenza in più. Quasi 7 immigrati su 10 (69,2% di “Abbastanza d’accordo” + “Molto d’accordo”) esprimono un’opinione positiva verso la caratterizzazione della società italiana come libera, mentre una quota esigua di intervistati si colloca su posizioni opposte (7,4% di “Per niente d’accordo” + “Poco d’accordo”).

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Gli immigrati intervistati non pensano tuttavia che la democrazia e la libertà vigenti in Italia facilitino l’ottenimento del permesso di soggiorno. La quota di coloro che condividono l’affermazione “Si sceglie l’Italia perché qui è più facile ottenere il permesso di soggiorno rispetto ad altri Paesi europei” prevale significativamente (53,9% di “Abbastanza d’accordo” + “Molto d’accordo”), su quella degli opponenti (27,8% di “Per niente d’accordo” + “Poco d’accordo”).

Quanto alla percezione delle nostre istituzioni politiche, l’affermazione secondo

la quale “I governi qui sono troppo deboli”, riscuote la maggioranza relativa dei giudizi degli immigrati (28,6% di “Per niente d’accordo” + “Poco d’accordo”, contro il 41,3% di “Abbastanza d’accordo” + “Molto d’accordo”).

Infine, convinti assertori della democraticità e della forza dell’esecutivo italiano,

con motivazioni probabilmente diverse, si mostrano sia i cristiani non praticanti (89,6%), sia i musulmani praticanti (87,5%). Vi è però una differenza di valutazione a proposito della libertà e della scelta dell’Italia come paese di immigrazione per motivi strumentali (facilità con cui ottenere il permesso di soggiorno): i musulmani sembrano apprezzare più dei cristiani la libertà (i musulmani praticanti che si dichiarano a favore dell’affermazione “Dell’Italia amo soprattutto la libertà” sono il 92,6%; i musulmani non praticanti a favore della stessa affermazione sono il 93,3%). I musulmani, più dei cristiani, dicono di aver scelto l’Italia particolarmente per motivi legati al permesso di soggiorno (i musulmani praticanti che si dichiarano a favore dell’affermazione “Si sceglie l’Italia perché qui è più facile ottenere il permesso di soggiorno rispetto ad altri Paesi europei” sono il 76,6%; i musulmani non praticanti a favore della stessa affermazione sono il 68,9%).

Nella stessa indagine sono state prese in considerazione le rappresentazioni che

gli immigrati si sono fatti del nostro sistema culturale, dei comportamenti degli italiani e delle opinioni che, a loro modo di vedere, gli italiani hanno di loro. Per schematizzare l’analisi dei dati, si è ritenuto opportuno costituire delle sottoaree: l’etichettamento degli immigrati, la diffusione degli stereotipi, la religione e le abitudini degli italiani.

Si è quindi utilizzata la seguente affermazione, di carattere relazionale: “Gli italiani hanno un po’ paura di noi, paura di avvicinarci, di conoscerci, anzi non vogliono neanche conoscerci”. Il giudizio degli intervistati è tendenzialmente di accordo. Con il 75,1% del totale, le risposte “Più d’accordo che in disaccordo”, “Abbastanza d’accordo” (27,8%) e “Molto d’accordo” (15,7%) prevalgono su quelle di “Per nulla d’accordo” (4,3%) e “Poco d’accordo” (20,7%).

Riguardo alle opinioni che, a modo di vedere degli immigrati, gli italiani hanno

di loro, sono state utilizzate affermazioni volutamente stereotipate. Così, in riferimento all’enunciato secondo il quale “Per gli italiani, l’immigrato è un morto di fame”, i due terzi degli immigrati ascoltati hanno espresso opinioni concordi (gli “Abbastanza d’accordo” sono il 35,7%, mentre i “Molto d’accordo” risultano il

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33,2%), cui vanno aggiunti il 19,8% che si dichiara “Più d’accordo che in disaccordo”. Pochi sono di opinione contraria (l’11,3 % di “Per niente d’accordo” + “Poco d’accordo”) e anche coloro che presentano un’idea solo leggermente concorde a questa affermazione.

Ulteriore interesse hanno evidenziato due successive affermazioni: 1) “Per gli

italiani gli immigrati vengono solo per rubare”; 2) “Molti pensano che noi siamo venuti qui per portare via il lavoro agli italiani”. Nel primo caso il giudizio degli immigrati è di generale accordo con lo stereotipo (58,2% di “Abbastanza d’accordo” + “Molto d’accordo”); anche nel secondo caso gli intervistati confermano di percepire che gli italiani ritengono gli immigrati degli usurpatori di posti di lavoro (70,8% di “Abbastanza d’accordo” + “Molto d’accordo”).

Da sottolineare come gli inclusi nel mondo del lavoro, da parte loro, lamentino

più degli esclusi questa percezione negativa. Per gli inclusi, inequivocabilmente, l’italiano ha paura di loro (78,8%), li crede dei morti di fame (87,4%) e soprattutto pensa che gli immigrati siano venuti in Italia per portar via il lavoro (85,3%), se non addirittura per rubare (92,9%). È probabile che questa percezione degli immigrati dipenda dalla loro maggiore vicinanza con gli italiani e che, proprio per questo, si produca in loro maggior frustrazione per il mancato riconoscimento del loro contributo all'economia italiana e per le conseguenze che ciò comporta per loro. Lo stesso dicasi per i musulmani non praticanti: l’80,0% di essi reputa che l’italiano abbia paura di loro; il 93,3% è convinto che gli italiani li consideri dei morti di fame; l’84,4% pensa che l’italiano veda l’immigrato come un ladro; infine, il 93,3% crede all’affermazione secondo la quale “Molti pensano che noi siamo venuti qui per portare via il lavoro agli italiani.

Come è stato più volte rilevato, nella produzione e nella diffusione delle

immagini i media hanno un ruolo notevole. Un altro aspetto importante analizzato nella ricerca in questione è relativo alla costruzione degli stereotipi mediante i cosiddetti processi di generalizzazione. Pertanto, circa l’affermazione secondo la quale “Se un extra-comunitario ruba, per gli italiani tutti gli extra-comunitari sono ladri”, tre quarti degli intervistati (76,4% di “Abbastanza d’accordo” + “Molto d’accordo”) ritiene che gli italiani ragionino in questo modo. Lo stesso vale per l’affermazione secondo la quale “Quando succede qualcosa agli stranieri diventa una cosa grande, mentre se lo fanno gli italiani non accade nulla” dove, ancora una volta, i tre quarti (74,9% di “Abbastanza d’accordo” + “Molto d’accordo”) del totale si sente vittima di una ingiustizia derivante dall’iniquità di giudizio. Ancora più negativo è il giudizio che gli immigrati attribuiscono all’operato dei mass media italiani. Ben 8 immigrati su 10 sono chiaramente d’accordo sull’affermazione secondo la quale “I mass media danno una cattiva immagine degli immigrati” (80,6% di “Abbastanza d’accordo” + “Molto d’accordo”).

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Anche per questo genere di affermazioni si sono registrate differenze sulla base di variabili economiche, religiose e culturali, come ad esempio il più alto valore di accordo ottenuto dagli inclusi nel modo del lavoro (91,4%) per l’enunciato secondo il quale “Quando succede qualcosa agli stranieri diventa una cosa grande, mentre se lo fanno gli italiani non accade nulla”. Un accordo pressoché plebiscitario viene espresso anche dai musulmani non praticanti su tutte e tre le seguenti affermazioni: “Se un extra-comunitario ruba, per gli italiani tutti gli extra-comunitari sono ladri”, 95,6%; “Quando succede qualcosa agli stranieri diventa una cosa grande, mentre se lo fanno gli italiani non accade nulla”, 95,6%; “I mass media danno una cattiva immagine degli immigrati”, 97,8% .

Un’altra indagine (Merelli, Ruggerini, 2001)17, rivolta a capire l’evoluzione del

senso di insicurezza da parte degli immigrati, conferma i risultati della ricerca appena passata in rassegna. In essa emergono atti di razzismo da parte di italiani (oltre il 47% degli immigrati intervistati ha dichiarato di essere stato osservato con ostilità, mentre al 35,1% degli uomini e al 28,4% delle donne è capitato di essere stati insultati), oltre che soprusi e minacce da parte della criminalità immigrata (il 9,8% dei maschi e l’8,3% delle femmine ha subìto aggressioni da parte di altri immigrati, mentre il 15,3% degli uomini e il 28,1% delle donne ha subito scippi e furti ad opera di altri stranieri). Da notare come sia emersa anche una certa paura da parte degli immigrati per le notizie mediatiche di comportamenti criminali ad opera degli stessi stranieri. Essi infatti sono convinti che queste notizie provochino, da parte degli italiani, reazioni di generale intolleranza nei confronti dell’immigrazione. Pertanto, il 75,4% degli immigrati maschi intervistati e il 68,1% delle femmine si sono dichiarati spaventati dalle notizie date sull’immigrazione alla TV. Inoltre, dagli intervistati è stata avanzata la richiesta di maggiore repressione della criminalità immigrata (il 39,7% del campione auspica maggiore severità per i reati di spaccio e quelli legati alla prostituzione). Un elemento che emerge da queste ricerche, dunque, sembra costituito dalla concordanza tra immigrati e italiani sulla necessità di combattere il crimine, con particolare riferimento a quello connesso all’immigrazione.

Da ultimo, riportiamo i risultati della citata “Indagine estensiva sugli immigrati”,

presentata dalla “Makno&consulting” nel maggio 2007. Al campione, costituito da 2.000 casi, è stato sottoposto un questionario allo scopo di rilevare l’immagini che gli immigrati hanno degli italiani e degli altri immigrati18.

17 Disponibile in: http://www.cestim.it 18 Le interviste sono state ripartite proporzionalmente alla distribuzione degli immigrati per aree geografiche di residenza, secondo le risultanze anagrafiche ISTAT al 1° gennaio 2005, e concentrate nelle province italiane che registrano le presenze più consistenti: 700 interviste nell’area Nord-Ovest (dove risiedeva al 1° gennaio 2005 il 34,0% della popolazione immigrata), 500 nell’area Nord-Est (25,3%), altrettante nel Centro (27,1%), e 300 nel Sud-Isole (13,6%). In relazione ai macro-territori di provenienza, invece, il campione è stato selezionato prevedendo le seguenti quote, modificate rispetto a quelle teoriche assegnate sulla base delle risultanze anagrafiche ISTAT al 1° gennaio 2005, a vantaggio degli immigrati originari dell’Africa e dell’Asia rispetto a quelli dell’Europa Centro-Orientale: 40% di intervistati provenienti dall’Europa Centro-Orientale, 30% dall’Africa, 20% dall’Asia e 10% dall’America Latina.

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Le 11 nazionalità più numerose sono: albanesi, rumeni, marocchini, filippini, ucraini, tunisini, senegalesi, cinesi, indiani, egiziani e polacchi. Esse rappresentano complessivamente circa i due terzi dell’intero campione, in linea con il loro “peso” teorico sul totale della popolazione immigrata. Rispetto alle risultanze ISTAT, tra gli intervistati ci sono proporzionalmente meno albanesi e marocchini, e relativamente più filippini, ucraini, tunisini e senegalesi.

Dal sondaggio emerge un generale apprezzamento relativo al soggiorno in Italia:

oltre l’85% degli intervistati dichiara di trovarsi bene in Italia; a un 61,6% che esprime un gradimento moderato (“abbastanza bene”) si aggiunge un 24,3% che dice di trovarsi “molto bene”. Quelli che non si trovano bene sono un’esigua minoranza (4%), mentre il 9,9% esprime un giudizio intermedio tra la soddisfazione e l’insoddisfazione. Il motivo principale per cui piace l’Italia è il fatto che “c’è lavoro”, che è l’opzione indicata dal 44,1% di coloro che si trovano bene (85,9% del campione), seguono “la gente” (28,3%), “il modo di vivere” (26,7%), “la libertà” (24,0%) e “un po’ tutto l’insieme” (23,1%) . I motivi principali per cui una piccola minoranza (4%) non si trova bene in Italia risiedono nella sensazione di non sentirsi accettati (45,2%), il non riuscire a trovare un lavoro (38,7%) e la nostalgia del proprio Paese (30,1%).

Per quanto riguarda il giudizio sugli autoctoni, si riscontra un consenso quasi

unanime sulle asserzioni “Gli italiani in generale sono brava gente” (92,3% di “del tutto” + “abbastanza d’accordo”), “Se capiscono che sei sincero ti aiutano” (82,2%) e “In Italia uomini e donne hanno gli stessi diritti” (80,5%); un consenso maggioritario sulle dimensioni “Sono molto attenti alla educazione dei figli” (66,1%), “In generale sono rispettosi degli immigrati” (64,9%), “Sono rispettosi degli anziani” (64,5%), ma anche "Pensano soprattutto a fare soldi” (61,0%) e “Non capiscono la cultura e le tradizioni del mio popolo” (55,6%); un dissenso maggioritario nei riguardi delle affermazioni “In fondo, in fondo sono razzisti" (53,9% di “del tutto”+”abbastanza disaccordo”) e anche “Tengono a distanza gli immigrati” (50,6% in disaccordo); da non trascurare, infine, una prevalenza di dissensi a proposito dell'affermazione “Non si capisce in che cosa credono veramente” (45,4% contro un 38,6 d'accordo). Hanno determinato, invece, una sostanziale polarizzazione tra consenzienti e dissenzienti le frasi “Accettano gli immigrati solo perché gli conviene” e “Agli italiani interessa molto la religione”, che evidentemente coinvolgono due tra le questioni più controverse.

Da considerare, infine, la percezione che gli immigrati hanno di se stessi.

Procedendo secondo lo schema sopra adottato, che somma in un’unica categoria i due diversi gradi di “accordo” (“del tutto”+“abbastanza”) e lo stesso criterio adotta per la categoria “disaccordo”, si registra un ampio consenso sulle proposizioni “Gli immigrati, in generale, preferiscono stare tra gente dello stesso Paese/Nazione” (80,4% di pareri concordi), “Tra gli immigrati ci sono anche persone che non hanno voglia di lavorare e che non meritano di stare in Italia” (77,1%), “In generale gli

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immigrati si impegnano molto a imparare la lingua italiana” (75,9%), “Alla grande maggioranza degli immigrati piacerebbe poter ottenere la cittadinanza italiana” (75,7%), “Molti immigrati non capiscono che bisogna conoscere e rispettare le leggi italiane” (71,6%), ma anche “Spesso gli immigrati vengono accusati di colpe che non sono loro” (67,5%). Si registra poi un consenso maggioritario sulle asserzioni “Per gli immigrati è facile fare amicizia con gli italiani” (53,4%) e “Agli immigrati piacerebbe diventare come gli italiani” (50,2%). Infine, una prevalenza di consensi sull’espressione “In Italia molti immigrati sono costretti a comportamenti disonesti per poter mangiare” (49,9%). Per quanto riguarda il dissenso, si registrano le punte massime a proposito della frase “Ai miei connazionali non interessa poter ottenere la cittadinanza italiana” (57,5% di pareri contrari) e una prevalenza sull’affermazione “Molti immigrati in Italia perdono i valori del loro Paese” (49,7%).

2.3. L’immagine degli italiani nella rappresentazione degli immigrati di origine araba e religione musulmana

Dopo aver presentato il punto di vista degli immigrati in genere, in questo paragrafo tratteremo le ricerche specificamente dedicate alle comunità immigrate di religione musulmana.

Ulteriori informazioni su tale presenza in Italia possono essere desunte dalle

ricerche sociologiche e dalle indagini demoscopiche effettuate negli ultimi anni. Si tratta a volte di ricerche pionieristiche che, seppure necessiterebbero oggi di ulteriori sforzi di approfondimento e di aggiornamento, sono preziose per la comprensione delle questioni riguardanti l’immigrazione musulmana (Guolo, 2003).

Può essere utile prendere in considerazione anche indagini svolte

precedentemente al 2001, in quanto alcuni studi condotti all’indomani di eventi criminosi di natura fondamentalista non sono del tutto affidabili proprio perché troppo “a caldo” e quindi connotati da forte emotività, per non parlare di “inchieste” che utilizzano tecniche non del tutto appropriate (ad esempio scale di atteggiamenti costruite con affermazioni dal tenore quasi scandalistico etc.).

Una ricerca locale sui musulmani effettuata a Torino alla vigilia degli attacchi

alle Torri Gemelle (2000), curata da Garelli e qui presentata nella ricostruzione di Allievi (2003), aveva per oggetto un aggregato che rispecchiava la popolazione di riferimento a livello nazionale: 48% di coniugati, un buon livello d’istruzione (maggiore tra gli uomini che tra donne), prevalenza di lavoratori dipendenti, in gran parte manuali (operai, muratori, facchini, colf, cuochi, meccanici).

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Secondo i musulmani intervistati a Torino, un buon musulmano si distingue per alcuni comportamenti. Innanzitutto perché rispetta la shari’a19 (19,4%), perché non fa del male a nessuno ed è uomo di pace (18,9%), perché legge ed impara a memoria il Corano (Qur’ân20) (15,9%), perché trasmette la religione islamica ai figli (12,5%); perché frequenta la moschea (9,4%), e così via fino a solo un 2,4% che dice “perché diffonde e fa conoscere l’islam” ai non musulmani, dato quest’ultimo che, nella sua esiguità smentisce il forte proselitismo che normalmente viene attribuito ai musulmani. Per quanto riguarda l’osservanza dei precetti religiosi, un 33% dichiarava di non pregare affatto, una quota analoga a quella di coloro che non erano soliti recarsi alla moschea (il 36%) o la frequentavano solo in occasione di alcune feste (41%), mentre risultava diffusamente osservato il digiuno del ramadan. Inoltre, se solo un quarto degli intervistati affermava di riuscire a rispettare con relativa facilità le prescrizioni islamiche nell’emigrazione, appena il 6,3% riteneva difficile restare buoni musulmani in Italia.

Per concludere, è opportuno ricordare che l’affermazione, maggioritaria tra gli

intervistati, di trovarsi meglio in Italia che nel Paese di origine lasciava intendere una prevalente volontà di integrazione, sebbene una certa delusione trasparisse da coloro che avevano un livello di scolarità più alto. Un ulteriore fattore favorevole al processo integrativo emergeva dal modo, tutto sommato laico, in cui il campione viveva la religione: sebbene l’82% dichiarasse che l’islam incideva molto nella loro vita, la metà degli intervistati considerava la fede di appartenenza come una sorta di eredità dei genitori o la conseguenza di essere nati in un determinato paese, e solo per il 38,3% si configurava più come una scelta (Allievi, 2003).

Un sondaggio successivo, realizzato nel marzo 2001 per Famiglia Cristiana da

People-SWG e Angelo Costa, dal titolo “Noi visti da loro. Come ci giudicano gli immigrati musulmani in Italia”21, prende in esame un campione costituito da 400 immigrati musulmani tra i 18 e i 64 anni residenti in 19 città italiane. Pur rilevando negli italiani, specie inizialmente, sospetto e prudenza, gli intervistati giudicano nel complesso positiva l’ospitalità dell’Italia (60%). Sono emigrati per lavoro, continuano ad essere attenti alle tradizioni della loro cultura d’origine, pur essendo incuriositi dagli italiani e dallo stile di vita del nostro Paese, del quale però faticano ad accettare i ritmi quotidiani. Nel complesso risulta molto spinta la domanda di inserimento nel nostro contesto socio-culturale, tanto da meritare alcune rinunce: riadattare, ad esempio, abitudini alimentari e tradizioni.

Le difficoltà incontrate nel rapporto con le amministrazioni pubbliche e con gli

organi di polizia sono in parte attenuate dall’aiuto delle organizzazioni cattoliche e di

19 Il diritto religioso islamico, «che però, a differenza di ciò che si pensa in Occidente, dove la si associa all’obbedienza a una legge divina, per il credente musulmano evoca il ‘seguire la retta via’, un codice morale dunque» (Allievi 2003, 243-244) 20 Letteralmente “recitazione”. 21 Disponibile in: http//www.stranieriinitalia.it

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volontariato, verso le quali gli immigrati musulmani in Italia manifestano apprezzamento. La richiesta più urgente rivolta dagli immigrati ai poteri pubblici è relativa al sostegno nella ricerca di una casa (49%), di un lavoro (45%) e nella concessione di un permesso di soggiorno (54%). Appena giunti in Italia, nel 35% dei casi il primo contatto lo hanno avuto con la Questura/Polizia e, nel 32% dei casi, con il Consolato o l’Ambasciata del proprio Paese. La Questura/Polizia sono, comunque, per il 44% del campione le istituzioni con cui hanno avuto le maggiori difficoltà. Caritas e associazioni di volontariato sono, al contrario, gli enti dai quali il 24% degli intervistati ha ricevuto il maggiore aiuto.

Oltre 8 intervistati su 10 hanno lasciato il proprio Paese d’origine per motivi di

lavoro. Una volta giunti sul nostro territorio, gli immigrati si sono stabiliti prevalentemente al Nord. I più giovani e le donne dichiarano relativamente più spesso di essersi trasferiti per motivi di studio (8%).

Quasi 1/4 del campione dichiara che l’Italia è stata una meta consigliata da altri,

solitamente immigrati ben integrati nel nostro Paese (22%). Dall’analisi delle disaggregazioni emerge, inoltre, che le persone residenti in Italia da più tempo hanno compiuto questa scelta per via della vicinanza al paese di origine (18%), o perché hanno potuto ottenere più facilmente il permesso di soggiorno (14%).

Le difficoltà maggiori riscontrate dagli intervistati al loro arrivo in Italia

sembrano riguardare principalmente la ricerca di un lavoro (30%) e di un alloggio (25%). Tali problemi presentano un carattere di trasversalità rispetto alle disaggregazioni analizzate, ma caratterizzano maggiormente chi ha scelto di stabilirsi al Centro-Sud e nelle Isole. Le donne e i più giovani lamentano soprattutto il fatto di aver faticato ad instaurare relazioni interpersonali con italiani (13%), forse a causa delle differenze culturali. Circa 7 soggetti su 10 dichiarano di socializzare soprattutto con persone originarie del proprio Paese. Le donne, le persone ad alto profilo scolare, chi si è stabilito al Centro-Sud/Isole e chi risiede nelle nostre città da più anni e quindi ha avuto modo di inserirsi meglio nel contesto sociale, affermano con maggior frequenza di aver instaurato legami anche con gli italiani (31%). Da notare che i giovani (18-34 anni) e i residenti nelle città del Nord-Est sembrano più propensi allo scambio interculturale perché hanno più amici tra persone di diverse etnie (17%).

Per meglio integrarsi nel nostro Paese, la maggioranza relativa degli intervistati

ha dichiarato che rinuncerebbe innanzitutto alle proprie abitudini alimentari (41%), mentre il 13% abbandonerebbe, addirittura, la propria fede religiosa. Questi dati rappresentano più frequentemente chi vive nel Nord-Est. I giovani, tra i 18 e i 34 anni, dichiarano più spesso di essere disposti anche a rinunciare alle tradizioni del proprio paese di origine (20%); i soggetti che vivono in Italia da diversi anni ritengono con più frequenza di poter cambiare le abitudini relazionali con l’altro sesso, ovvero il tipo di rapporto che hanno con le donne (15%).

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Per la maggioranza relativa degli intervistati, alla domanda “Cosa ti è stato più difficile accettare dell'Italia?” il 37% ha risposto “i ritmi di vita italiani”, mentre per il 35% dei casi risulta particolarmente difficile accettare i rapporti umani. Inoltre, risulta difficoltoso accettare, per il 25% del campione, le condizioni climatiche del nostro Paese. Questo dato caratterizza più spesso chi abita nelle città del Nord.

I musulmani che vivono in Italia sentono soprattutto nostalgia dei propri cari

(43%). Più di 6 intervistati su 10 lamentano l’assenza di centri di aggregazione/luoghi di culto. I soggetti che abitano nel nostro Paese da meno tempo, i residenti a Nord-Est e le donne richiedono maggiormente corsi di italiano per stranieri (33%).

Particolarmente interessante è poi un ampio sondaggio effettuato a livello

nazionale nell’agosto-settembre 2000 ed i cui risultati sono illustrati da Magdi Allam e Roberto Gritti (2001). Sono stati intervistati 479 immigrati musulmani regolari ed irregolari, prevalentemente uomini (in linea con la maggiore presenza maschile degli immigrati islamici rispetto alla media degli immigrati regolari in generale) con un’età media di 33,5 anni e, per poco più della metà, coniugati con figli. Le conclusioni spesso contraddicono gli stereotipi diffusi sui musulmani in Italia.

Come emerge da questa ricerca, infatti, secondo le opinioni degli immigrati

musulmani, la precarietà del posto di lavoro e la carenza di abitazioni sono le cause che rendono più difficile l’inserimento costruttivo in seno alla società italiana; infatti, tra le persone più ostili, secondo quanto dichiarato dagli immigrati, vengono indicati sia i datori di lavoro sia i proprietari di alloggi (che spesso, lamentano gli stranieri, non affittano agli immigrati).

Il 99,4% dei musulmani intervistati si dichiara religioso, anche se il 28,6% non

è praticante. Solo il 10,2% afferma di non volersi integrare nella società italiana, di non condividere i suoi valori e di voler vivere esclusivamente nel rispetto della propria identità religiosa e culturale. Ancor meno (4,2%) sono coloro che non soltanto non vogliono integrarsi ma addirittura desiderano cambiare la società italiana sulla base dei propri valori religiosi e culturali. La grande maggioranza (73,9%), invece, vuole integrarsi nella società italiana accettando alcuni suoi valori pur mantenendo la propria identità religiosa e culturale; ad essi bisogna poi aggiungere un 7,5% di musulmani che vogliono assimilarsi accettando tutti i valori per diventare italiani come gli altri. I fautori di una società islamica risultano una minoranza: solo il 12,1%, infatti, auspica per l’Italia un modello di società religiosa ispirata dalla fede in Dio e nei dogmi divini; vi è poi un 24,6% che preferirebbe una società multietnica in cui ogni comunità mantenga la propria autonomia identitaria (proprie scuole, abbigliamento tradizionale etc.). Buona parte del campione (42,6%), invece, si è espresso a favore di una società interculturale in cui la popolazione italiana e le comunità immigrate possano dar vita a una nuova identità cosmopolita. Vi è, infine, un 6,5% che auspica una società in cui tutti condividano l’identità nazionale italiana.

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Particolarmente interessante è il fatto che solo il 12,9% degli intervistati ritiene che la sua identità risieda nella sua fede religiosa; una buona maggioranza (42,8%), invece, lega la sua identità con il Paese di origine e con l’appartenenza nazionale (come dire: “prima di essere musulmano io sono in primo luogo marocchino, o albanese, o...”); vi è poi un 15,9% che si sente per metà del suo Paese di origine e per metà italiano, un 17,7% che si ritiene cittadino del mondo, un 1,7% che si sente italiano (il 2,1% degli intervistati ha la cittadinanza italiana) e un 4,8% che sta vivendo una crisi d’identità. Tra i motivi più citati per spiegare l’emigrazione verso l’Italia vi sono: la ricerca di una vita migliore; la fuga dalla povertà; la fuga dalla guerra; la ricerca della realizzazione personale; lo studio; la fuga dalla repressione politica; il desiderio di conoscere ed imparare cose nuove.

Risulta dalle interviste che il 43% della popolazione immigrata ha scelto l’Italia

autonomamente, allo scopo di costruirsi una vita e rimanerci per sempre (solo il 7,3% ha già deciso che tornerà presto in patria). La libertà di parola e di associazione è il valore della società italiana più apprezzato dagli immigrati musulmani intervistati, seguito dalla libertà di praticare la propria religione e dalla democrazia. Il 51,5% è almeno sufficientemente soddisfatto della sua vita in Italia.

Solo il 4,8% non desidera frequentare e non frequenta italiani (la frequentazione

si limita all’ambito lavorativo), ed il 57% si trova a suo agio con tutti, indipendentemente dalle nazionalità (vi è poi un 10,6% che si trova a suo agio con gli italiani e un 25,5%, invece, con i propri connazionali). La percezione degli italiani è complessivamente positiva (sono prevalentemente considerati “brava gente” e “simpatici”), anche se vengono considerati un po’ razzisti soprattutto a causa dell’ignoranza relativa alla realtà di altri popoli o a causa degli allarmismi e delle distorsioni prodotte dai media, che enfatizzano la criminalità immigrata (che pure esiste).

I programmi più visti nella televisione italiana sono il telegiornale e lo sport. Il

gradimento dei personaggi politici si orienta verso quelli percepiti come più propensi a trattare italiani ed immigrati allo stesso modo e più favorevoli ai diritti degli immigrati. La fiducia nei politici italiani in genere è bassa. Alla domanda per quale coalizione voterebbe se avesse il diritto di voto in Italia, le risposte sono: Centro-sinistra 43,6%; Centro-destra 11,3%; nessuno 14%; non so 28,8%; non risponde 2,3%. Il 63,9% degli intervistati, però, ha dichiarato che voterebbe un partito degli immigrati, se esistesse. Per il 40,5% esso dovrebbe rappresentare tutti gli immigrati e gli italiani favorevoli ai loro diritti, per un altro 36,7% tutti gli immigrati, solo per il 3,3% gli immigrati del loro specifico Paese e per il 5% solo gli immigrati musulmani. I diritti da rivendicare sono il permesso di soggiorno per tutti e la cittadinanza italiana più facilmente e più velocemente (i clandestini vanno aiutati per la maggioranza degli intervistati).

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Per quanto riguarda il matrimonio con italiani, vi è un 43,6% di favorevoli e un 28,2% di contrari; allo stesso tempo però vi è un 51,5% che ritiene che un matrimonio riesca meglio tra connazionali o correligionari e un 37,4% che non è d’accordo. Il 12,8% degli intervistati convive (sposato o meno) con un/una partner italiano/a. Per il 45,5% la poligamia è lecita e chi la pratica non dovrebbe essere perseguito dalla legge italiana, per un altro 12,9% la poligamia è lecita a certe condizioni, mentre solo il 24,5% si dichiara contrario. Comunque, gli immigrati musulmani effettivamente poligami sono solo l’1,5%, percentuale simile a quella effettivamente esistente nei Paesi musulmani.

Nella religione islamica è previsto che l’educazione della prole spetti al padre

musulmano, che deve garantire una certa prosecuzione religiosa e culturale dell’islam ai figli anche se questi ultimi sono nati in Italia da una moglie italiana. Su questo principio, il 39,9% del campione si detto è d’accordo, il 16,7% d’accordo qualora la moglie acconsenta, il 31,9% si è detto contrario poiché l’educazione dei figli spetta a entrambi i genitori. Ancora, in caso di fallimento di una coppia mista, il 40,5% degli intervistati è favorevole al fatto che il marito o la moglie immigrati abbiano il diritto di trasferire i figli nati in Italia nel proprio Paese d’origine per assicurare loro un’educazione diversa, anche qualora il partner non acconsenta; il 3,5% è invece favorevole qualora il/la partner italiano/a non sia in grado di occuparsi dei figli, mentre il 36,1% è assolutamente contrario.

Un altro tema molto rilevante che emerge da questa indagine è la questione del

velo. Per il 59,7% una ragazza musulmana che normalmente lo indossa ha il diritto di metterlo anche a scuola; anche un altro 11,5% è d’accordo con quest’affermazione, ma a condizione che le studentesse musulmane contrarie non siano obbligate a portarlo. Il 13,4% è invece contrario all’hijab perché in contrasto con la laicità della scuola pubblica o perché rischia di essere oggetto di strumentalizzazione da parte di integralisti islamici.

Un altro risultato interessante riguarda l’associazionismo. In un quadro caratterizzato da un basso livello di associazionismo e da un certo disinteresse alla questione (molti non hanno risposto alla domanda), prevale l’iscrizione ad associazioni di immigrati, seguite nell’ordine da organizzazioni religiose, sindacati di categoria22, organizzazioni umanitarie e circoli culturali.

Infine, vi è un ultimo dato relativo al tifo sportivo, che può essere considerato

come un sia pur circoscritto indicatore dell’integrazione degli immigrati musulmani: dalla rilevazione del tifo per squadre sportive è emerso che il 60,3% degli intervistati ha dichiarato di sostenere una squadra italiana locale.

L’ultima ricerca esaminata in questa sede, riguardante le opinioni della

popolazione immigrata, si è svolta a Catania e nel suo hinterland nel 2003 (D’Amico, 22 Al 31.12.2005, in Italia gli immigrati (di tutte le religioni) iscritti ai tre sindacati confederali erano 526.320 di cui 200.417 alla CGIL, 213.022 alla CISL, 112.881 alla UIL (Caritas/Migrantes, 2006).

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2004). I musulmani intervistati sono stati 178, di cui solo il 5,1% donne e con una prevalenza di senegalesi ed algerini, in gran parte commercianti tra i 21 ed i 42 anni. La maggioranza di essi dichiara importante il ruolo della religione nella vita dell’uomo, e pensa che applicare i principi islamici significhi rispettare valori comuni a tutte le religioni come l’altruismo, la distinzione tra bene e male, il rispetto reciproco, la correttezza dei comportamenti.

Gli intervistati si sentono integrati nel contesto locale, sono aperti alla libertà di

ognuno nella scelta della religione da professare, ritengono la famiglia una delle principali agenzie educative nonché il fattore di maggiore soddisfazione nella vita. Gli uomini risultano più conservatori delle seppur poche donne intervistate sui temi del rapporto tra i sessi, della distribuzione dei ruoli in famiglia e sulle questioni etiche. Inoltre, il 79% di tutti i musulmani intervistati ritiene che l’uomo sia libero di scegliere la propria vita e sia personalmente responsabile di essa e di tutte le azioni commesse lungo il suo svolgimento. Il 63% è convinto della natura buona dell’uomo. La maggioranza preferisce la sicurezza del posto di lavoro anche rispetto a lavori con guadagni più elevati ma non altrettanto sicuri, ed è favorevole a garantire il pluralismo e la tutela delle minoranze, ma gradisce il rispetto della tradizione.

Infine, se il 90% è favorevole all’intervento pubblico per risolvere le situazioni

di maggiore povertà che affliggono le minoranze etno-religiose, il 65% si esprime a favore anche del principio di competizione.

In conclusione, il profilo dei musulmani immigrati presenti in Italia che emerge

dall’analisi delle ricerche prese in esame è quello di una comunità plurale e, allo stesso tempo, abbastanza compatibile con la realtà italiana: la maggioranza dei musulmani, infatti, appare sostanzialmente laica, pur considerando l’islam un basilare punto di riferimento identitario, e desidera integrarsi e rispettare le leggi italiane, pur salvaguardando i propri valori ed auspicando una società interculturale da realizzare insieme agli autoctoni.

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CAPITOLO 3

Le istituzioni della Repubblica Italiana nella percezione degli immigrati arabi e musulmani

3.1 - Metodologia di ricerca La metodologia che ci si è proposti per la presente indagine è di tipo

qualitativo, e la scelta del campione degli intervistati è riconducibile alla tecnica cosiddetta snow ball (Bailey, 1991). Mediante tale tecnica ci si propone di compiere un primo approccio con alcuni esponenti del gruppo oggetto di studio, per poi entrare in contatto, tramite questi, con altri soggetti di interesse. Essa è particolarmente idonea per le ricerche sugli immigrati, in quanto, come nel nostro caso, non sempre si conoscono tutte le caratteristiche dell’universo, e, pertanto, sarebbe difficile applicare una metodologia campionaria in senso statistico.

Nella fase di messa a punto della nostra indagine ci si è proposti di

intervistare un certo numero di immigrati di religione musulmana e/o originari di Paesi mediorientali, di sesso maschile, sia non regolari che regolari sulla base di permesso di soggiorno, cittadinanza acquisita etc. Ritenevamo che, nel caso, anche i figli nati in Italia di immigrati fossero significativi ai fini del presente lavoro. Si è trattato insomma di una tipica ricerca di scouting su un tema poco noto e poco esplorato, che aveva l’obiettivo di registrare il grado di distanza sociale fra immigrati appartenenti alle categorie appena citate e le Istituzioni della Repubblica italiana, in modo da trarne spunti utili per eventuali policy di reclutamento nelle Forze Armate.

Come noto, la psicologia sociale intende per “distanza sociale” la

disponibilità dei membri di un gruppo ad avere contatti sociali con persone di un altro gruppo. Invece, nella prospettiva sociologica che qui abbracciamo, il principale interesse è rivestito dalle diverse modalità di relazione e interazione tra culture, in termini di pregiudizi, stereotipi, capacità adattive nei confronti di un diverso contesto socio-economico-culturale, nonché di grado di adesione alle norme che regolano sia la vita quotidiana che i valori fondativi di tale contesto.

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Gli intervistati sono stati da noi contattati avvalendosi di associazioni di immigrati o enti per l’assistenza agli immigrati, di categoria, e religiose. Cominciata la ricerca, ci si è immediatamente trovati ad affrontare diverse problematiche. Alcune delle associazioni sembravano non esistere, mentre altre, sebbene ad una iniziale presa di contatto dichiarassero la propria disponibilità a collaborare nell’individuazione di soggetti da intervistare, hanno successivamente mostrato difficoltà, nel dare seguito a tali promesse, non senza che, in taluni casi, venissero manifestate forme di diffidenza. Solamente un sindacato di lavoratori edili si è mostrato in grado di mantenere l’impegno preso, peraltro non senza difficoltà nel reperimento di un numero sufficiente di persone disposte ad aderire alla campagna di interviste. Questi aspetti vanno sottolineati perché indicativi, in un’eventuale policy di reclutamento, del modesto apporto che, presumibilmente, sarebbero in grado di fornire enti ed associazioni nel sostegno di campagne comunicative.

Si è quindi scelta la strada di contattare esponenti nelle comunità straniere,

quali giornalisti, intellettuali, quadri sindacali impegnati nelle problematiche dell’immigrazione. Questa strategia ha fornito alcuni risultati, successivamente integrati da contatti diretti con possibili intervistati in luoghi di ritrovo quali ristoranti, negozi di artigianato etnico, etc. Prima di trovare persone disponibili a farsi intervistare si è riscontrata una diffusa resistenza. Probabilmente, la ridondanza mediatica su tematiche scottanti quali il terrorismo può aver determinato un certa disaffezione nei confronti di ricerche riguardanti l’immigrazione, soprattutto rivolte alla popolazione musulmana che è soggetta a continue attenzioni da parte dei mezzi di comunicazione di massa. Questo filone mediatico, in una parte degli immigrati musulmani, può aver generato un atteggiamento di totale riluttanza pure nei riguardi di ricerche sociologiche, anch’esse percepite come possibile fonte di problemi. Inoltre, è da rilevare una specifica resistenza verso la tematica in questione, indubbiamente delicata nel momento in cui espone gli intervistati a prendere posizioni su teorie psicologicamente e politicamente sensibili; anche la registrazione di un tale atteggiamento, del resto, costituisce un risultato del nostro lavoro23.

Per la maggior parte delle interviste, infine, si è resa necessaria una certa

opera di persuasione. In un paio di casi, si è dovuto trascrivere le risposte a mano, perché gli intervistati non hanno autorizzato l’uso del registratore. Si è optato per la tecnica dell’intervista focalizzata a domande aperte, da compiersi in modalità face-to-face. La traccia delle domande (rinvenibile in allegato 1) è articolata nelle seguenti sezioni:

23 La rilevazione è stata realizzata nel periodo maggio-novembre 2007. Il tasso di rifiuto alle proposte di intervista è stimabile intorno al 50%.

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• Sezione 1 – Dati generali = in essa si chiedono essenzialmente i basilari dati anagrafici e personali atti a consentire, in fase di elaborazione finale, categorizzazioni per classi di età, sesso, provenienza geografica, scolarizzazione, stato civile e livello di conoscenza della lingua italiana. Tale conoscenza viene valutata dall’intervistare in base al grado di difficoltà della conversazione, secondo gli item: “scarsa”, “discreta”, “buona”, “ottima”;

• Sezione 2 – Breve storia di vita = in essa si ricostruisce brevemente la vicenda umana dell’intervistato con particolare riferimento alle motivazioni della sua presenza nel nostro Paese. È parso altresì importante soffermarsi: sulla data di ingresso in Italia; sullo status attuale (permesso di soggiorno, rifugiato, asilo politico, etc.). Si è optato per intervistare anche coloro che già godono dei diritti di cittadinanza, al fine di osservare se vi siano discrasie nelle risposte fra chi aspira alla cittadinanza italiana e chi già ne beneficia. Sull’attuale posizione lavorativa; sul suo titolo di studio; sull’eventuale aiuto nel regolarizzare la propria posizione ricevuto da datori di lavoro, associazioni di mutua assistenza, etc.; e sulla sua attuale situazione locativa;

• Sezione 3 – Percezione immagine del proprio Paese d’origine = in essa ci si propone di rilevare il grado di “attaccamento” il tipo di giudizio che l’intervistato ha rispetto al proprio Paese d’origine, al fine di approfondire il grado di distanza e/o vicinanza che percepisce verso i peculiari aspetti socio-culturali;

• Sezione 4 – Percezione e immagine dell’Italia = in essa ci si propone di indagare l’opinione dell’intervistato rispetto al contesto nazionale che lo accoglie, alle sue istituzioni, e a ciò che egli percepisce dell’atteggiamento degli italiani verso di lui in quanto immigrato. Per questa sezione sono state messe a punto alcune scale di misurazione di distanza sociale;

• Sezione 5 – Descrizione della propria situazione esistenziale = in essa ci si sofferma sugli aspetti religiosi della vita dell’intervistato, sulla sua condizione familiare, e su come questa sia influenzata o meno dalla religione;

• Sezione 6 – Opinioni sul servizio militare e su un eventuale arruolamento nelle Forze Armate italiane aperto anche agli stranieri = in essa ci si pone l’obiettivo di misurare come la promozione di una tale opportunità possa essere accolta da parte degli immigrati. Oltre al loro atteggiamento in proposito, sono state poste domande anche in relazione ad eventuali esperienze di servizio militare nel proprio Paese d’origine, nonché a caratteristiche della maggior parte delle forze armate occidentali (presenza di personale femminile, servizio all-voluntary). Si è ritenuto difatti che questi aspetti molto possano dire in relazione al grado di

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distanza/vicinanza percettiva di soggetti provenienti da contesti significativamente differenti da quello italiano. Le domande della traccia si sono rivelate pienamente idonee e comprensibili, e solo problemi di imperfetta conoscenza della lingua italiana hanno talvolta costretto i ricercatori a soffermarsi in spiegazioni ed esempi.

3.2 - Analisi della rilevazione

Procederemo ora con la presentazione dei dati raccolti nella campagna di interviste seguendo l’ordine delle sezioni in cui abbiamo suddiviso le tracce d’intervista.

• Sezione 1 – Dati generali = Fra gli intervistati (tutti di sesso maschile) abbiamo un albanese, due tunisini, due siriani, due marocchini, un palestinese, un giordano, otto egiziani, un libico, un cittadino italiano di origine palestinese nato in Italia e un cittadino italiano di origine siriana nato in Italia. La loro età spazia dai 17 ai 52 anni, distribuita in maniera non troppo difforme fra tutte le varie classi d’età che abbiamo scelto di individuare (nove fra i 17 e i 29 anni; quattro fra i 29 e i 39 anni; e sette fra i 39 e i 52 anni). Gli intervistati presentano una padronanza della lingua italiana valutata come discreta in quattro casi, buona in cinque casi, e ottima in undici. Riteniamo che già questo aspetto fornisca una prima indicazione di come si sia trattato di soggetti abbastanza ben integrati nella vita socio-relazionale italiana, probabilmente esposti ai media nazionali e ai rispettivi messaggi valoriali e culturali.

• Sezione 2 – Breve storia di vita = L’aspetto linguistico appena indicato trova conferma nel fatto che si è trattato di soggetti risiedenti stabilmente nel nostro Paese da un minimo di cinque anni a un massimo di ventitré. Quanto ai motivi, la maggior parte degli intervistati è in Italia per sfuggire alla disoccupazione e alle difficoltà economiche nel Paese d’origine. A parte coloro che sono venuti nel nostro Paese per motivi di studio, altri dichiarano motivazioni che sostanzialmente rappresentano una variante delle precedenti, quali la migliore immagine che avevano della nostra way of life rispetto a quanto offerto dal loro contesto nazionale. Affermano in proposto due immigrati egiziani:

Mi piacevano molto i turisti che venivano in Egitto. Erano [persone] molto <<burine>> [sbruffoni], ma molto allegre. Ero incuriosito dalla loro contentezza. Nonostante in Egitto io avessi tutto, non ero mai contento. Perciò, mi sono chiesto mentalmente: <<Perché loro hanno questa felicità, e noi no?>>. Incuriosito da questa loro felicità, ho deciso di partire [Intervista n. 10].

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Sono venuto in Italia per trovare una sistemazione migliore per la mia vita, per un futuro migliore. Per aiutare la mia famiglia, i miei genitori, i miei fratellini piccoli. Per un futuro migliore, come quello che si aspettano i giovani che vengono in Europa a 20 anni. Io sentivo in televisione: <<in Europa c’è la democrazia>>. Che la vita è migliore in Europa. Per questo sono venuto qua, per cercare una vita migliore [Intervista n. 16].

Riguardo al profilo culturale degli intervistati, si tratta di soggetti nella maggior parte dei casi (con l’eccezione di tre individui) in possesso di titolo di studio di livello medio-alto (scuole secondarie superiori o titoli universitari), spesso ottenuti nei Paesi d’origine e altre volte invece nel nostro Paese.

Ciò non impedisce che la maggior parte degli intervistati si sia trovata (ed eventualmente si trovi tutt’ora) a svolgere in Italia lavori dequalificati, cosa che in qualche caso non ha mancato di suscitare veri e propri traumi esistenziali. Interessante, in proposito la testimonianza di un immigrato egiziano, la cui esperienza è emblematica per il successo lavorativo ottenuto nel campo della ristorazione, e conseguito dopo molte “tribolazioni”,: Per pagare l’affitto ho lavorato due, o tre, settimane al semaforo. Per me era un trauma, era aldilà della mia volontà! Però, ho tenuto duro, meglio di andare a fare l’elemosina. Poi, quando sono arrivato qua avevo 400 $. [In Egitto] facevo il dottore commercialista. Lavoravo in Banca. Se gli stipendi, all’epoca, fossero stati gli stessi di oggi, sarei rimasto in Egitto. Gli stipendi nostri erano bassi, anche per uno che aveva già la casa erano bassi. Se ti volevi costruire una famiglia, avere una casa, etc. ci volevano anni e anni di sacrifici. Io […] volevo accelerare i tempi. Perciò sono andato via. […] Poi, ho fatto il manovale, facevo dei lavoretti in casa come muratore, poi col fatto che non parlavo italiano mi facevano lavorare per 5. Poi, sono andato a Latina, ho lavorato con mio cugino, per un mesetto, a vendere i fiori. Dopo, sono tornato a Roma e ho cominciato a lavorare, come lava piatti, in un ristorante-pizzeria. Dopo tre mesi ho cominciato a fare il pizzaiolo. Ho cominciato a comprare i libri di cucina, ho cominciato a studiare. Ho fatto anche un corso privato per Chef. E piano, piano ho cominciato a fare il cuoco. Sono uscito anche sul giornale! […] Attualmente abbiamo aperto questa pizzeria, io e altri due miei amici [Intervista n. 20].

L’aiuto fornito da familiari o amici connazionali sembra essere

rilevante praticamente per tutti gli intervistati, che assai raramente hanno accennato all’aiuto di enti e associazioni. Lo stesso immigrato ci ha testimoniato: Io addirittura pensavo di poter lavorare con la mia laurea. Non avevo considerato che la laurea in economia e commercio dipende dalle leggi del Paese. Mi sono pure informato all’università italiana, ma o lavoravo o studiavo. Poi non conoscevo bene la lingua, avrei fatto il doppio del lavoro [venendo qua] mi aspettavo di fare qualcosa di meglio. Ma, ti dico la verità, lavorare come dipendente è molto meglio, perché guadagni di più. Invece, essere un imprenditore si pagano un sacco di tasse. La spesa è enorme. Non è per noi immigrati, ma le tasse qua, in Italia, le tasse sono esagerate, e non guardano in faccia a nessuno [Intervista n. 20].

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Un altro aiuto particolarmente importante è quello fornito dal datore di lavoro specie per quanto concerne la regolarizzazione della posizione dell’immigrato in Italia. Degli intervistati, sedici sono in possesso di permesso di soggiorno per lavoro o per studio, due sono cittadini italiani per nascita, un terzo soggetto è riuscito ad ottenere autonomamente la cittadinanza italiana, e infine vi è anche un clandestino. La testimonianza di un immigrato egiziano condensa il ruolo determinante che può assumere il datore di lavoro sulla questione della regolarizzazione:

Nel 2002 è uscita la legge Bossi-Fini, e in quel periodo lavoravo in una pasticceria, di cui il proprietario era una persona veramente molto, molto bravo. Gli ho chiesto se poteva aiutarmi ad ottenere il permesso di soggiorno, e lui mi ha detto:<<si, però ti devi pagare tu la tassa, e i contributi>>. Mi sono fatto il calcolo, ed erano complessivamente 800,00 euro, e ho pagato queste cose. Poi, io e il proprietario siamo andati al commercialista, e la sua parcella era di 250,00 euro: io gli ho dato 100,00 euro e il proprietario gli ha dato i restanti 150,00 euro. Poi, però, ho dovuto lasciare questo lavoro, quello del pasticcere, prima di ottenere il permesso di soggiorno, perché giocando a calcio mi ero fratturato una gamba. Il proprietario, a quel punto mi dice:<<guarda, in questo periodo non c’è molto lavoro, quindi…>>. A quel punto, gli ho detto:<<Va bene! Però, per favore, non formalizzare il licenziamento, perché, se no, mi revocano, prima di darmelo, il permesso di soggiorno!>>. E lui mi dice:<<Va bene! Però, non fare stronzate, perché se no…!>>. Io gli ho risposto:<<guarda, io non sono il tipo che fa queste cose, perciò stai tranquillo!>>. Il 24 settembre 2003 ho preso il permesso di soggiorno, il proprietario è venuto con me in questura [Intervista n. 19].

Tuttavia la strada per la regolarizzazione è quasi sempre in salita

per gli immigrati. Varie peculiarità della nostra burocrazia non aiutano certo un percorso già di per sé difficile. Racconta un immigrato tunisino:

Adesso ho il permesso di soggiorno […] Sono 3 anni che aspetto di ottenere la cittadinanza italiana. Ho messo l’avvocato che ho pagato 400,00 euro. Quando sono andato in prefettura, per vedere a che punto era la mia pratica, e mi hanno risposto: <<abbiamo perso i tuoi documenti, devi rifare tutto da capo!>>. Allora, il mio avvocato ha minacciato di far causa alla prefettura. Perché, il mio avvocato dice: <<non è possibile che hanno smarrito i tuoi documenti!>>. Dopo questo fatto, mi hanno chiamato dalla prefettura, dicendomi di presentarmi tra un mese, lì da loro, in prefettura [il permesso di soggiorno] lo rinnovo, non ho preso il permesso a tempo indeterminato. Perché non ho preso quello indeterminato? Io ho comprato casa, ho la casa a Monterotondo scalo, e ho fatto domanda per la cittadinanza. Non ho mai chiesto il permesso permanente perché spesso andavo in Tunisia, e comunque, dopo i dieci anni di permanenza in Italia, ho chiesto subito la cittadinanza. Io pago le tasse, lavoro, faccio sacrifici…tu, perché non mi dai cittadinanza? [Intervista n. 9]

Gli fa eco un immigrato giordano:

Sto chiedendo il permesso di lavoro…adesso ho il permesso di studio fino al 2007. Quando ho finito i miei studi di fisioterapia, nel 2005, mi sono informato, mi sono iscritto a un corso post-laurea, un Master di un anno, per ottenere il permesso di studio. Nel 2006, è uscita una legge che permette di convertire il permesso di studio in permesso di lavoro, a condizione, però, che l’immigrato apra la partita I.V.A. [Ho avviato la pratica] e dopo cinque mesi sono andato in Questura per vedere a che punto [fosse] la mia situazione. In Questura mi hanno detto: <<No. Abbiamo sbagliato con te. Tu non puoi avere il permesso di lavoro>>. Mi sono chiesto <<perché [non posso ottenere il permesso di lavoro]?>>, visto che anche un mio amico, solo che lui è israeliano, arabo-israeliano, aveva fatto la stessa domanda che avevo fatto io, l’avevamo fatta insieme, lui ha preso il permesso di lavoro e

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io no. Adesso ho il permesso di studio, fino al 2007. [Inoltre], sto aspettando ancora di ritirarlo questo permesso [Intervista n. 8].

Si tratta di situazioni che devono essere così estenuanti (e così

diffuse) che un immigrato egiziano ha affermato di voler evitare di avervi a che fare: Non l’ho mai chiesta [la cittadinanza italiana] perché non mi piace la burocrazia. Io mi sento italiano. Stavo pensando, in questi giorni, anche di chiederla. Ma, avendo problemi con mia moglie, stiamo divorziando, ci ho ripensato. Ho rinunciato [intervista n. 20]

Un altro immigrato egiziano ci offre un vivida testimonianza di

come debba essere la vita del clandestino, alla mercè di abusi e prepotenze da parte di chi della sua difficoltà:

Per due anni ho vissuto da clandestino. Voglio dimenticarli questi due anni. Ho vissuto proprio male, malissimo, malissimo. Manco gli animali hanno vissuto come ho vissuto io in questi due anni [e mi sono regolarizzato senza l’aiuto da parte di] nessuno. Ho fatto tutto da solo [Intervista n. 16].

L’analisi di questa sezione si conclude affrontando la questione

della condizione abitativa degli immigrati. La maggior parte di essi vive in affitto in normali appartamenti condominiali, e le difficoltà nel trovare tali sistemazioni sembrano essere state soprattutto di ordine economico (in particolare per chi abita nel Comune di Roma, che ha conosciuto un boom dei prezzi immobiliari). Ci dice in proposito un immigrato egiziano, la cui testimonianza mette in luce anche talune diffidenze che talvolta si manifestano nei confronti degli stranieri (comunque, solo pochi soggetti intervistati ne hanno parlato):

Dato che ho avuto lo sfratto, perché non riuscivo a pagare l’affitto per via delle rate della pizzeria… Dopo la separazione, mia moglie e i miei figli dormono dalla madre. Mentre, a me mi ospitano degli amici, a volte dormo nella pizzeria. [Ho avuto difficoltà a trovare dove abitare] Perché sono straniero? Parecchie difficoltà. Vogliono una caparra alta, alcuni mi hanno chiesto un autocertificazione, firmata dal mio datore di lavoro, che sottoscriva che sono un <<bravo ragazzo>>. Oppure, sentono l’accento straniero e mi chiedono:<<ma sei straniero?>> [Intervista n. 20].

Un immigrato tunisino, che invece ha provato ad acquistare la

propria abitazione, racconta:

[Abito] A Mentana, Roma, [in una casa con] una camera da letto, cameretta, salone, due bagni e cucina […] Ho trovato grande difficoltà [a trovare dove abitare]! Molto, molto grande! Veramente grande! Io ho abitato alla clinica abbandonata di Tor Lupara […] Dopo tre anni che stavo lì, che ci hanno tolto prima la luce e poi l’acqua, ho preso in fitto una casa, dove pagavo 650.000 £. Dopo un anno che stavo lì, il proprietario ha voluto la casa. Mi sono spostato in un’altra casa dove sono rimasto circa 10 anni. Adesso ho comprato casa, ma sto quasi per venderla perché pago troppe tasse. È aumentato troppo il mutuo, in quasi tre anni il mutuo è aumentato di quasi 250,00 euro. Io ho fatto il mutuo a 30 anni, quando sarà mia questa casa?

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Perciò, la vendo e faccio domanda per le case popolari. Non c’è la faccio a pagare [Intervista n. 9].

Un immigrato marocchino, comunque, prendendo spunto dalla

questione locativa degli immigrati, azzarda un’analisi più vasta del rapporto fra italiani ed immigrati:

All’inizio, si! All’inizio, si [ho trovato difficoltà a trovare dove abitare]! Però, ora… si, - all’inizio, si! All’inizio perché non hai soldi, poi, in Italia, appena hai un po’ di soldi puoi affittare quello che vuoi. Non è una questione di discriminazione, non credo che in Italia ci sia una discriminazione. Se noi pensiamo che in Italia l’immigrato è discriminato!? In Italia la questione [si basa sulle possibilità economiche dell’individuo], sul ceto sociale dell’individuo! Un napoletano può soffrire delle stesse pene di un marocchino, un calabrese lo stesso, se non ha soldi non può pagare l’affitto, non può offrire garanzie, a patto che non viene accompagnato dai genitori. Conosco tanti calabresi studenti che non possono offrire garanzie, perché non hanno reddito, non sono stati accompagnati dalla famiglia. Io non credo che l’Italia sia un paese razzista, è un paese dove c’è anche molta ignoranza perché non conoscono lo straniero. Questa, [dell’immigrazione], è una nuova esperienza che l’Italia sta vivendo. Poi, gli italiani sono un popolo di emigranti nel mondo, gli italiani vengono da una realtà sociale [sofferta, se comparata] al resto d’Europa. [Storicamente] l’Italia non è un paese colonizzatore, come il resto d’Europa. L’Italia è un Paese che si è fatto da solo. L’italiano è una persona che ha sofferto per guadagnare quello che ha guadagnato, dopo la guerra e la fame che [ha patito]. Non è lontana questa situazione qui, quindi non credo che l’italiano di oggi possa dimenticare quello che è. E quindi, io non credo che in Italia ci sia un problema di razzismo. È un problema, secondo me, di ignoranza, primo, e secondo, poi, è una questione di classe sociale, perché l’italiano benestante ha paura di rischiare di perdere quello che ha. Se uno straniero si presenta come una persona perbene, [gli italiani] l’accettano. Non c’è niente da dire: collabora, vive, ecc. Se uno straniero che vive per strada, un giorno lavora, poi un giorno non lavora, poi cambia lavoro, e poi vuole comprarsi la casa, non gliela danno. È una questione di garanzie, tutto qua. Malgrado quello che si racconta, che l’italiano sta perdendo la sua identità, l’italiano è l’unico europeo, secondo me, che ha una cultura identitaria molto forte: ha un senso della famiglia molto forte, ha il senso della cristianità molto forte (parlo sempre comparando l’Italia agli altri Paesi europei), ha un senso della vita molto profondo, ecc. Quindi, io non credo che l’italiano si sentirà disturbato, se al suo fianco c’è un musulmano, un pakistano, ecc. No, no, non credo sia questo il problema! L’italiano ignora certe cose, certe sfumature… non di ignoranza in senso [dispregiativo], ma di conoscenza delle cose. Quando l’italiano si trova di fronte un senegalese che parla 5 lingue, per dire, l’italiano si sente in imbarazzo, perché ha paura di perdere la posizione <<del forte>>, del forte che conosce tutto. Solo questo. Ha paura dell’altro, non perché è un debole o non ha un’identità forte [ma perché non conosce l’altro]! [Intervista n. 11].

• Sezione 3 – Percezione ed immagine del proprio Paese d’origine =

Nessuno degli intervistati esprime opinione totalmente negative verso il proprio Paese di origine. Tuttavia, le posizione critiche, quando presenti, sono molto simili nella loro tipologia fra gli immigrati provenienti da una stessa area geografica. Gli immigrati dei Paesi magrebini si lamentano solo della mancanza di lavoro nelle loro terre d’origine, vissuta quasi come una calamità naturale, e raramente rapportata a responsabilità politiche e comunque non collegata alla soggettività delle popolazioni, descritte come composte da gente perbene, di buoni valori, e che sa godersi la vita con cose semplici. Afferma un immigrato marocchino (in toni simili a quanto espresso dagli intervistati provenienti dalla Tunisia o dalla Libia):

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La vita [in Marocco] è certamente migliore che qua in Italia. Il lavoro è il solo problema, lì non c’è proprio. Il Marocco mi piace perché è un paese caldo, caloroso, è il mio paese, ritrovo la famiglia, il senso della famiglia, ritrovo le mie radici, i ricordi di quando ero bambini. Qualsiasi uomo che lascia il proprio paese ha sempre un bel ricordo della propria infanzia, l’infanzia in generale, nel bene e nel male. L’infanzia è una cosa sacra nel cuore di qualsiasi persona. Una cosa bella del Marocco è il sapere stare insieme, questa è una cosa bella del Marocco. Stare insieme non per paura del futuro, non per paura del presente, cantare la vita, cantare di giorno, cantare la sera, la musica, la vita, mangiare o non mangiare non ce ne frega niente, basta essere felici […] L’importante è stare insieme. Mi manca anche l’amore del popolo verso l’altro. Il mio paese è questo! Poi, se parliamo del modernismo, del tipo di vita che chiedono i giovani, del sociale, c’è molto da fare. Stiamo molto indietro da questo punto di vista [Intervista n. 11].

Gli egiziani, invece, insistono sulla mancanza di opportunità

conseguente alla corruzione governativa, molto stigmatizzata:

La cosa che non mi piace dell’Egitto, è la mancanza di cultura dell’ambiente della gente. Molti buttano carte per strade, immondizia. Seconda cosa è la mancanza di rispetto della polizia, o del Governo, verso la gente: quando ti fermano, per dire, si rivolgono a un dottore, come se fosse un delinquente. Questa è una cosa che mi fa schifo. Non c’è rispetto! Poi, la vita in Egitto, oggi, è sempre più costosa. Prima, in Egitto, c’erano tre ceti sociali: basso, medio, ricco. Adesso c’è solo il povero e il ricco. Poi, non capisco perché, in Egitto, [non] c’è una legge che stabilisca che un presidente non deve essere in carica per più di 20 anni. Questa non è la Repubblica egiziana, ma diventa…! Sembra che c’è la democrazia, ma non c’è in Egitto. Una cosa, invece, che mi piace del nostro regime è la libertà di informazione. Possono criticare tutto! Anche la scuola è molto buona in Egitto. Ti danno tutto gratis, paghi i libri, ma è tosta la scuola in Egitto. Poi, mi piace la gente, la solidarietà, il rispetto reciproco della gente, l’umanità [Intervista n. 20].

L’Egitto è un bel paese. Come ha detto un filosofo egiziano:<<se non ero egiziano, avrei voluto essere un egiziano>>! Purtroppo, però, adesso la politica sta andando per una strada, e il popolo sta andando da tutt’altra strada. Non so qual è il problema. Tutti in televisione parlano bene della politica egiziana, ma il popolo continua a soffrire. Non ci sono i soldi. La gente è costretta a rubare, a spacciare perché non c’è economia. L’Egitto è un paese favoloso, meraviglioso, è troppo carino. La gente in Egitto è gioiosa, di cuore. Purtroppo, però, quando c’è la cattiveria […]! [Intervista n. 10].

Gli intervistati di origine siriana, invece, non espongono elementi di

critica verso il proprio Paese dal punto di vista politico o sociale. Peraltro, pur riconoscendo la grande dimensione storica della Siria, denunciano una mentalità tradizionalista che non incoraggia le giovani generazioni: Ne penso in positivo [della Siria, le cui cose migliori sono] la sicurezza, la mancanza di criminalità… [e le peggiori sono] l’arretratezza tecnologica, che si sente eccome… e la mentalità, troppo tradizionalista [Intervista n. 5]

Le critiche alla mentalità troppo “tradizionalista” non possono essere imputate alle questioni religiose (il regime siriano è infatti laico). È probabile che ciò che pesa a questi intervistati (i quali sono tutti giovani) sia riconducibile alla mancanza di esperienze nuove ed entusiasmanti:

sinceramente io non è che ho lasciato la Siria perché [non mi offrisse delle opportunità]… io ho lasciato la Siria perché sono un ragazzo che ha sempre avuto l’idea di viaggiare, di imparare e fare

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esperienza. Io ho viaggiato e mi sono trovato bene qua, però, io come posso lavorare stando in Italia, sarei potuto rimanere in Siria e lavorare esattamente come faccio qua e ottenere lo stesso risultato, però, qua, io faccio tutto da solo, invece, [se fossi rimasto] in Siria ci sarebbe stato l’appoggio degli amici, [della] famiglia, [della] gente che ti aiuta. Invece, qua, non dico che faccio un lavoro per 5 persone, ma almeno per 2 o 3, sì, però, io non è che sono andato via dalla Siria perché non ci sono opportunità di lavoro, io ho sempre sognato di viaggiare, di guadagnare esperienza. Adesso mi trovo bene qua, magari dopo 4 o 5 anni questa voglia di restare finisce, e ritorno [in Siria] [Intervista n. 3]

Da notare come toni simili siano espressi anche da un intervistato

giordano (peraltro anch’egli giovane): Non posso dire quali sono le cose migliori, o peggiori, del mio Paese, ma ho dovuto [lasciarlo] perché volevo fare altre esperienze. Se vuoi fare un Master, qualsiasi corso, devi andare all’estero. Nel nostro Paese, purtroppo, non esistono [Master, o corsi di formazione]. Se ci sono, possono permetterselo solo poche persone. Anche il posto di lavoro, se tu vuoi lavorare dentro un ospedale [devi avere la raccomandazione]. Il clientelismo è diffuso ovunque nel mondo, anche qua in Italia. [Comunque], se vuoi lavorare in Giordania, c’è il lavoro come qui in Italia: stessi orari, stessi stipendi, ecc. La differenza tra la Giordania e l’Italia è il divertimento, qui [in Italia] sei più libero di divertiti. In Giordania, invece, c’è solo il lavoro, famiglia, tua moglie, i tuoi figli e basta. Se vuoi uscire la sera in Giordania e vuoi divertiti, vuoi andare in un Pub a bere una birra, costa molto e possono permetterselo solo poche persone che hanno i soldi. Non è come qui in Italia che se tu vuoi farti una serata spendi 5,00 euro, 10,00 euro, 20,00 euro. In Giordania, per una serata, [[ne] spendi 100,00 euro. In Giordania chi ha i soldi si diverte, chi non li ha si arrangia [Intervista n. 8]

Un’altra prospettiva è quella avanzata dai soggetti di origine

palestinese. Un’intervista in particolare sembra significativa, perché, pur riassumendo il vivo attaccamento a quella terra tipico di chi ne è originario, contiene espliciti elementi di critica (condivisi sostanzialmente anche dall’altro intervistato della stessa origine) verso i problemi che la caratterizzano:

La Palestina è il paradiso, la terra promessa [quello che penso della Palestina] non è descrivibile a parole…sono tutti odori e sapori che non posso descrivere…però, diciamo…per me…ogni volta che ne parlo mi vengono le lacrime agli occhi…perché, se dovessi descrivere la Palestina in due parole: terra meravigliosa! Quando dico <<terra meravigliosa>> non [intendo] solo la locazione, ma intendo anche la gente, la cultura, il mare, l’ulivo […] Le cose migliori della Palestina – la cultura della gente, la cultura, – la cultura palestinese, - sono fortunatissimo, sono un mix di due culture, italiana e palestinese. Quella italiana è fondamentale, fondamentale, fondamentale per me, in alcuni aspetti, e quella palestinese in altri. Naturalmente, è ovvio che io mi senta più palestinese, avendo tutti e due i genitori palestinesi e avendo tutta la famiglia giù in Palestina – e devo dire che la cultura palestinese, – ringrazio ogni giorno Dio per avermela [concessa] I principali problemi che stanno giù in Palestina, - lo sappiamo tutti qual è. Il problema principale dei palestinesi è quello di non riuscire ad avere…secondo me, è quello che…anche, e soprattutto per colpa loro, - per colpa nostra, - dei palestinesi, - non siamo riusciti ad avere un peso politico adatto al nostro problema […] Forse non avevamo le capacità per avere questo peso politico, per riuscire a contrastare il peso politico che ha Israele nei confronti del mondo. Questa è la nostra, - il nostro problema principale è questo, - perché a livello culturale c’è gente [in Palestina] che abita, - cioè, come posso dire, - il nostro, ad esempio, te lo dico da parte mia, non è un odio […] verso gli israeliani. Anche se loro [gli israeliani] ci hanno cacciati [a noi palestinesi] anche se nelle abitazioni nostre ci abitano altre persone, anche se noi avevamo terre che ci sono state tolte, anche se mio nonno ha dovuto ricominciare da zero, io non ho odio, - io do’ rispetto, però ne voglio altrettanto, - io non odio nessuno e neanche voglio lottare con nessuno. Il fatto è, cioè, - io posso anche non avere

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il mio Stato, l’importate è che io riesca a vivere come riesce a vivere la gente israeliana! [Intervista n. 6].

• Sezione 4 – Percezione e immagine dell’Italia = Gli intervistati rivelano

pressoché tutti un atteggiamento positivo nel giudicare il nostro Paese, di cui vengono apprezzati i meriti soprattutto per la dimensione di umanità della sua gente. Questo aspetto è sottolineato in particolar modo da quei soggetti che hanno avuto esperienze di immigrazione anche in altri Paesi. Essi mostrano apprezzamento per alcune qualità umane (accoglienza) e altri valori (l’importanza della famiglia) degli italiani rispetto ad altre popolazioni dell’Europa occidentale (Francia, Germania o Olanda), ma anche nei confronti di altri Paesi mediterranei (Spagna).

Gli elementi di critica, quando presenti, sono molto simili a quelli

che spesso vengono espressi dai nostri stessi connazionali nei confronti del “sistema-Paese”. Come afferma un immigrato giordano:

Sui servizi pubblici, ti dico la verità: zero! Non ho visto mai [un servizio pubblico] peggiore di questo. Nel nostro Paese non è così, riguardo a molte cose. [Qui in Italia], se io devo pagare una bolletta e vado alla posta, devo fare una fila enorme per poter [accedere] a uno sportello, quando arriva il tuo turno vedi [l’impiegato] che parla col suo collega dei fatti suoi. Per pagare una bolletta [ci impiego] un’ora. Quindi, io perdo un’ora allo sportello, perché non aprono un altro sportello? Questo per la posta. Guarda altri casi, vai all’ASL di Roma per scegliere il medico curante, arriva un impiegato che ti dice ti manca un documento, poi ne arriva un altro che ti dice che ti manca un altro documento ancora, fai avanti e indietro […] Se tu cerchi il divertimento, ci sta! Ma, ci vogliono i soldi! Se hai i soldi, puoi fare una vita migliore. Se vuoi fare una vita migliore, fai il [libero professionista], che non sei legato a nessuno. Sei un libero professionista. Se vuoi essere legato a qualcuno…buonanotte. È finita la tua vita, sarai sempre uno schiavo. Se vuoi essere legato a qualcuno, ti fanno il contratto a progetto, poi un altro progetto e sempre così…i contributi non li versano mai, e ne approfittano di te. Perché? Perché sei uno straniero [il tuo datore di lavoro] pensa che tu non capisci niente! Ho lavorato con tante persone che pensano che uno straniero sia zero, un ignorante, che pensano che tu vieni dalla Giordania, o da altri paesi, e sei un ignorante. Poi, quando loro parlano con te, e si accorgono che tu sai più di loro, li metti in imbarazzo [Intervista n. 8].

Un altro elemento di criticità, inerente alle prospettive di vita nel nostro Paese, viene evidenziato soprattutto da coloro che hanno vissuto anche in altri paesi europei, prima di venire in Italia. A questo proposito, afferma un immigrato egiziano:

[…] Io spero che l’Italia migliori, sai perché? Se tu vai in Francia, in Germania, in Olanda ti sembra di essere in Europa. In questi paesi, si vive meglio che in Italia. In Italia si lavora di più, e si guadagna di meno! La vita è cara qua. Se tu vai in Francia, in Germania, in Olanda, in Austria e cerchi casa, hai una famiglia con tre figli, il governo ti paga metà dell’affitto. E comunque, l’affitto, non è così alto come qui. Se in Germania perdi il lavoro, lo stato ti da l’80% dello stipendio che prendevi. Per 6 mesi lo stato ti da l’80% dello stipendio che prendevi, e ti aiuta a cercare un altro lavoro. Qui, no! Io sono stato in Germania prima di venire qua, poi sono andato in Francia, e poi sono arrivato in Italia. quello che dico, lo dico da italiano. Sono 14 anni che sono qua, ho imparato la lingua, ho imparato tutto! [Intervista n. 18].

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Se, di tanto in tanto, per ciò che concerne gli aspetti negativi del nostro Paese, gli intervistati hanno citato atteggiamenti di diffidenza rispetto agli stranieri, si è quasi sempre trattato di critiche relative al sistema mediatico per come ha trattato certi episodi di natura delinquenziale. Ad esempio, un intervistato, dopo i fatti criminosi accaduti a Roma nell’autunno 2007, ha preso le difese della comunità rumena, vista come capro espiatorio a causa delle azioni di singoli individui.

In ogni caso, se proprio dobbiamo trovare una differenziazione fra

gli immigrati, gli intervistati egiziani sono risultati spesso accomunati nella critica verso il sistema giudiziario e di sicurezza del nostro Paese: Guarda, l’Italia è un paese molto caruccio, simpatico, ecc. Come si dice dell’Italia:<<Non muori mai di fame>>! Però, l’Italia è un paese che manca di organizzazione. Non ce n’è proprio. Dopo la mia esperienza in Germania, avendo visto come vivono gli extra-comunitari in Germania, posso dire che qui in Italia non si capisce niente! Io, all’inizio, quando sono venuto in Italia, avevo paura a passare dalla Stazione Termini per via dei delinquenti che ci stavano in giro. Qui i delinquenti sono liberi di fare quello che vogliono. La polizia c’è, ma la presenza non basta. Quando sono stato in Germania queste cose non le ho mai viste. Lì non è come qui. Non si mettono a bere in mezzo alla strada, non fanno <<casini>>. Poi, in Germania, la polizia ha rispetto delle persone. Se sei immigrato ti trattano con rispetto. Non è come qui, in Italia, che ti fanno tremila domande. Lì se vai a rubare ti arrestano, qui se vai a rubare ti lasciano andare. Un popolo senza organizzazione, senza limiti, non può andare avanti [intervista n. 10].

In Italia c’è troppa libertà. Ognuno fa’ come <<cazzo>> gli pare. Uno va a rubare, lo arrestano, lo rilasciano dopo due minuti, e si mette a rubare un’altra volta. Non c’è una legge severa, non c’è…non c’è la certezza della pena in questo paese! […] Per me, è la mia seconda casa! È bello! Io ho passato la mia giovinezza qua, a 18 anni sono venuto qua in Italia. Per me [l’Italia è] è come l’Egitto, uguale. È casa mia! Non mi manca niente, sto bene, vivo bene, campo bene, tutto quanto. L’unica cosa che non va in Italia, è la legge che non viene applicata come dovrebbe! [Intervista n. 14].

Anche in questo caso, quanto espresso dagli intervistati non si

discosta molto da ciò che pure molti nostri connazionali percepiscono in relazione a certe problematiche del nostro Paese. Ciò trova conferma nelle scale d’atteggiamento che abbiamo costruito e che qui riproponiamo in forma aggregata. Iniziamo dalla tab. 3.1 (v.), che espone quello che, secondo gli intervistati, è l’atteggiamento degli italiani verso il sistema legale-amministrativo del proprio Paese.

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Tab. 3.1. Gli italiani e il sistema legale-amministrativo secondo gli

immigrati musulmani

Abbastanza d’accordo/ Molto

d’accordo

Poco d’accordo/ Per niente d’accordo

Non so/Non risponde

Gli italiani rispettano le leggi 5 15 Tanti italiani non pagano le tasse 13

6 1

La giustizia italiana è troppo tollerante verso i criminali

14 3 3 La burocrazia italiana è troppo lenta

18 2 Negli uffici pubblici ci trattano diversamente rispetto agli italiani

12 9 In Italia è più facile ottenere il permesso rispetto ad altri Paesi

6 10 4

Come è possibile osservare, le frequenze assolute delle risposte (dato che con un campione così ridotto non ha senso commutarle in percentuali) si concentrano per lo più sulle critiche relative al rapporto degli italiani con la legalità e al sistema giudiziario del nostro Paese, pur rivestendo l’inefficienza della burocrazia nazionale il primato di atteggiamenti di negatività.

Passiamo ora alla tab. 3.2. a (v.), che espone l’atteggiamento di fiducia (molto o abbastanza) ovvero sfiducia (poco o per niente) nei confronti delle principali istituzioni italiane

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Tab 3.2. Fiducia/sfiducia degli immigrati verso le istituzioni pubbliche italiane Fiducia *

Sfiducia *

- Sanità pubblica 17 2- Presidente della Repubblica 15 3- Istituzioni della propria religione 14 4- Forze Armate 13 4- Carabinieri 13 6- Scuola - Sindacati - Comune Chiesa cattolica Magistatura Governo Polizia di Stato

12 12 12 10 10 10 10

36747

1010

Parlamento 8 8Partiti politici 8 12Associazioni 8 7Vigili Urbani 7 11Altre forze di Polizia [Guardia di Finanza etc.] 7 4Stampa 6 14Altre istituzioni [Vigili del Fuoco, Corte Costituzionale]

1

* La differenza a 20 è costituita da: non sa, non risponde.

Alcune considerazioni possono essere formulate su questi dati.

Innanzitutto il fatto che la Sanità Pubblica rivesta il maggior grado di fiducia può essere spiegato con il fatto che in molti dei Paesi d’origine degli intervistati la qualità sanitaria lascia a desiderare, né vi è sempre garantito un servizio gratuito e universale. Evidentemente gli intervistati hanno avuto modo di sperimentare in varia misura le prestazioni della sanità pubblica, traendone un giudizio spiccatamente positivo.

Il Presidente della Repubblica, poi, si colloca al secondo posto nel

grado di fiducia accordata (indicando da parte degli intervistati una percezione molto simile a quella che si riscontra fra i nostri connazionali)24. Soprattutto, la figura del Presidente della Repubblica gode di alto consenso perché percepita come figura Istituzionale, Super Partes, mediatrice dei problemi del Paese.

24 V. oltre cap. 4 par. 2.

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Considerazioni analoghe valgono per Carabinieri e Forze Armate, che anche in ricerche riguardanti la percezione degli italiani suscitano un alto grado di adesione popolare. Di contro, Polizia di Stato, Vigili Urbani e Altre Forze di Polizia ricevono un consenso inferiore. Una spiegazione di questa risultanza può essere ricercata nel fatto che Polizia di Stato e Polizia municipale hanno maggiori probabilità di trovarsi impegnate in azioni repressive nei confronti di funzioni praticate da immigrati. Si pensi ad esempio alle attività dei Vigili nei riguardi dei commercianti ambulanti abusivi, o al fatto che, per molte pratiche amministrative connesse alla loro condizione, gli immigrati si trovano a interfacciarsi con le Questure. Si tratta di situazioni dalle quali è possibile che scaturiscano forme di conflitto e quindi di antipatia istituzionale. È da rimarcare il fatto che, secondo gli intervistati, i Carabinieri tendono ad osservare regole di tratto valutate dagli immigrati come più consone. Da notare come anche le “Istituzioni religiose di appartenenza” suscitino ampi sentimenti di fiducia negli intervistati, e come fra le istituzioni di governance vera e propria il “Comune” riscuota consensi maggiori rispetto al “Governo” o al “Parlamento” o, anche, ai “Partiti Politici”. È particolarmente significativo, infine, che i mezzi di comunicazione (Stampa e TV) suscitino livelli di fiducia bassissimi, perché giudicati mal disposti nei confronti dell’immigrazione, com’è emerso da vari passi delle interviste.

Passando ad analizzare le problematiche legate ad atteggiamenti di xenofobia, tutti gli intervistati concordano nel ritenere l’Italia un Paese non razzista, che tutt’al più appare spaventato quando si verificano episodi delinquenziali che hanno risonanza mediatica. Quasi tutti gli intervistati ritengono che generalmente gli italiani non fanno distinzioni fra immigrati in base alla provenienza etnica e geografica, ma solo in base a chi si comporta bene o si comporta male. Fra i pochi intervistati che invece colgono una differenza di trattamento, la spiegazione del fenomeno viene rintracciata nelle possibili differenze in base alla “anzianità” di immigrazione in Italia. In questo quadro nordafricani e arabi sono relativamente privilegiati in quanto arrivati in Italia prima di altri gruppi nazionali (ad esempio est-europei). Solo due intervistati (un marocchino e un siriano) si discostano da quanto appena illustrato, azzardandone anche una spiegazione: Quelli dell’Est, i peruviani, quelli del Bangladesh sono trattati meglio! […] È il Vaticano che li aiuta di più rispetto a noi arabi, qui in Italia il Vaticano comanda [Intervista n. 4].

Quelli dell’Est sono sicuramente trattati meglio… mentre noi arabi peggio […] anzi sicuramente, i nordafricani sono trattati peggio di tutti […] Eh per il clima che c’è in televisione verso gli arabi, i musulmani… [Intervista n. 5].

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Fra coloro che sono in Italia da prima dell’11 settembre del 2001, quasi tutti hanno notato qualche cambiamento di atteggiamento in negativo verso gli immigrati arabi e/o musulmani. La maggior parte lo ha imputato ai modi di presentare le notizie da parte dei media, e solo pochissimi hanno testimoniato di qualche episodio di natura relazionale da loro direttamente esperito. Si tratta di episodi quasi tutti banali, che solo nel caso di un immigrato egiziano hanno assunto proporzioni di qualche rilievo:

Mia suocera, me l’hanno detto i miei figli, diceva ai miei figli: <<vostro padre è un musulmano, è un integralista, un giorno ammazzerà voi e vostra madre. E dopo scapperà nel suo paese>>. Io, non ho voluto denunciarla, perché è sempre la nonna dei miei figli. Ma, vorrei farlo, perché continua a dire queste cose. Un musulmano, in Italia, prima dell’11 settembre era la cosa più bella, ci dicevano: <<è gente che rispetta la loro religione, la loro cultura>>. Dopo l’11 settembre siamo diventati tutti bastardi, traditori… io faccio uno sport che si chiama <<softair>> insieme ad altri amici italiani. Non è altro che sfogo, giusto per svagarsi un po’ per quattro ore al giorno, la domenica. Siccome la gente, nel vicinato, ha visto il fucile [finto], ha visto che sono un musulmano egiziano, che cosa ha fatto? Ha chiamato la polizia. È venuta la polizia, si è fatta una risata ed è andata via. Ma, sei non fossi stato uno straniero, musulmano, la gente avrebbe mai chiamato la polizia? C’è tanta gente italiana che esce la domenica mattina con il fucile…! [Intervista n. 20].

Ed è solo in un caso (sempre un egiziano) che qualcuno ha

dichiarato che non ha mai percepito, direttamente o indirettamente, qualche differenza di trattamento verso gli immigrati dopo l’11 settembre del 2001:

Io non ho mai avuto problemi. Per dirti, Mimmo, che è quello che intervisterai dopo, è uno che va in Moschea tutti i venerdì, è un praticante di quelli convinti e non ha mai avuto problemi, mai…Dipende dalla cultura, dalla testa della gente [Intervista n. 14].

Chiudiamo questa sezione con l’ultima scala di atteggiamenti

utilizzata nella traccia d’intervista, relativa al rapporto socio-culturale fra la società d’origine degli intervistati e quella in cui ora essi si trovano. Come si può notare, i soggetti interessati dalla presente ricerca mostrano una visione decisamente integrazionista relativamente ai diritti e doveri degli immigrati presenti in Italia, pur in un quadro di sostanziale “realismo” che tende a riconoscere un’irriducibile diversità rispetto alle popolazioni autoctone (v. tab. 3.3).

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Tab. 3.3. atteggiamenti sull’integrazione dell’immigrato

• Sezione 5 – Descrizione della propria situazione esistenziale = nelle

precedenti sezioni abbiamo illustrato come gli intervistati abbiamo praticamente tutti una vita sociale abbastanza bene integrata con gli italiani nel lavoro, nelle amicizie e negli affetti personali. Tuttavia, già nella graduatoria delle istituzioni avevamo rilevato che, inaspettatamente, le associazioni godono solo parzialmente della fiducia (8 risposte positive). Effettivamente, solo uno degli intervistati (un tunisino) dichiara di essere iscritto ad un circolo di connazionali, peraltro non ricordandone il nome. Un intervistato marocchino, invece, è promotore di una propria associazione, mentre un cittadino italiano di origine palestinese dichiara di essere iscritto ad un’associazione di giovani palestinesi. Poco seguito appare avere anche la vita associativa italiana, con solo un immigrato libico che, essendo disabile, dichiara di essere iscritto ad un’associazione italiana per portatori di handicap, e un immigrato egiziano che dichiara di essere iscritto ad un’associazione sportivo-educativa. Nelle scale di atteggiamento della precedente sezione abbiamo visto anche come le istituzioni religiose di appartenenza o origine degli intervistati godano di alti livelli di fiducia. Ciononostante, la maggior parte dei soggetti pare vivere una spiritualità abbastanza laica, con 6 intervistati che dichiarano di frequentare la moschea “solo nelle festività più importanti e nelle occasioni familiari” (un albanese, due marocchini, un tunisino e due egiziani), 6 “mai” (un tunisino, due siriani, un giordano, un libico, e un egiziano), 4 “una volta alla settimana” (un italo-palestinese e tre egiziani), 3 “più volte alla settimana” (un palestinese e due egiziani), più uno che si dichiara completamente ateo (italo-siriano).

Poco/ Per niente d’accordo

Molto/ Abbastanza d’accordo

Anche decidendo di restare nel paese di immigrazione, un immigrato sarà sempre diverso dagli abitanti del posto

7 13

Specialmente decidendo di restare, un immigrato deve cercare di inserirsi nella società locale

- 20

In caso di contrasto tra una regola del paese d’origine e la legge italiana, l’immigrato dovrebbe rispettare prima di tutto la legge italiana

1 19

88

È evidente come proprio fra egiziani e palestinesi si registri una religiosità più viva e praticante, in concomitanza con processi di “desecolarizzazione” in corso negli ultimi vent’anni nelle rispettive società d’origine. Riguardo alla situazione famigliare, otto intervistati risultano sposati (o hanno relazioni affettive) o sposerebbero una donna italiana o di nazionalità e religione diversa dalla propria (un tunisino, due siriani, un italo-palestinese, due egiziani, un italo-siriano e un libico). Un cittadino italiano di origine palestinese è arrivato ad affermare perfino: Fosse anche ebrea, la sposerei [Intervista n. 6]. L’altro intervistato palestinese, presente nel nostro Paese da giovanissima età, risponde invece: Io preferirei sposarmi con una donna delle mie stesse origini […] Più che islamica, di cultura araba. La religione non conta [Intervista n. 7].

Undici intervistati risultano sposati o sposerebbero solo una donna della propria nazionalità o cultura (un albanese, un palestinese, un giordano, un tunisino, due marocchini, e sei egiziani). La sovra-rappresentazione di immigrati egiziani in quest’ultima categoria è dovuta in parte al fatto che molti intervistati non sono giovanissimi, e risultavano essere sposati già prima di emigrare dal loro Paese. Tuttavia ciò non toglie che proprio fra gli egiziani si registrino atteggiamenti più conservatori relativamente alla gestione della vita familiare. Se, difatti, la maggior parte di tutti i venti intervistati si dichiara disposto a mandare i propri figli a una scuola italiana (o magari già lo fa), una buona aliquota degli egiziani indica ricorrentemente una problematica nel rapporto scuola-genere. Dice in proposito un intervistato: [Mogli e figlie] sono residenti in Italia. Però, al momento sono in Egitto, perché le mie figlie stanno facendo le scuole egiziane. Perché, secondo noi, per la femmina è meglio la scuola del nostro paese. Per i figli maschi non fa niente, possono andare dove vogliono. Ma, le femmine… […] Se è un maschio non mi interessa, può andare in qualsiasi scuola. Ma, se è femmina preferirei mandarla in una scuola egiziana [Intervista n. 18].

Un’altra intervista però ci pone il dubbio che alla fonte di tale atteggiamento ci siano, più che motivazioni religiose, atteggiamenti tradizionalisti sul piano sociale: Mi sono separato. Ma io non vorrei. Spero che mia mogli ci ripensi […] È italiana, ma gli frega niente della religione […] mia figlia [residente in Italia] è andata ad una scuola di lingua araba per cinque, o sei mesi. Poi, non è andata più perché mia moglie non voleva [Intervista n. 20].

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Disagi transculturali simili sono stati osservati solo nell’intervistato giordano, che ci ha detto:

Io no [non sposerei una donna italiana] perché non voglio casini! Perché so cosa vuol dire sposare una donna italiana. Se sposo con una donna della mia cultura, io so che mia moglie rispetterà tutte le leggi, avrà i suoi diritti, e i miei figli avranno la loro religione. Quindi, perché dovrei [sposarmi con una donna di cultura diversa dalla mia]. Io non voglio casini! [Intervista n. 8].

Con l’eccezione di questi intervistati, su tali argomenti, il resto delle interviste è improntato a toni simili a quello di questo giovane siriano, che dichiara: [i miei figli li manderei] in una scuola italiana… Le cose della religione gliele insegnerei io… sono molto credente anche se non praticante [Intervista n. 5].

• Sezione 6 – Opinioni sul servizio militare e su un eventuale arruolamento

nelle Forze Armate italiane aperto anche agli stranieri. Una buona aliquota degli intervistati sembra aderire ad un concetto di ‘militarità’ in senso occidentale “postmoderno”. La maggior parte degli intervistati concorda che il ruolo del militare nel mondo d’oggi non si esplica solo nel saper fare la guerra, ma anche nelle operazioni di mantenimento della pace e nell’assistenza alle popolazioni colpite da disastri, calamità naturali, e conflittualità diffusa di Paesi in lotta. Inoltre, tutti ritengono che lo strumento militare migliore sia quello a reclutamento volontario. Anche nelle motivazioni di tale opinione si riscontra una decisa unitarietà di pensiero, ed infatti più soggetti preferiscono riferirsi a uno “spirito diverso” del volontario rispetto al soldato di leva. Per quanto riguarda l’arruolamento di donne nelle forze armate, in massima parte gli intervistati ritengono che questa opzione sia giusta e da realizzare senza alcuna discriminazione nei ruoli di comando e negli incarichi (qualcuno ha anche sostenuto che vorrebbe vedere adottata una tale innovazione anche nelle forze armate del proprio Paese). Le uniche riserve sono state espresse da un marocchino, che si dice totalmente contrario, da un tunisino che afferma:

Posso essere sia favorevole, che contrario. Se le donne non tolgono lavoro agli uomini, sono favorevole. Se, invece, tolgono lavoro agli uomini, sono contrario [Intervista n. 9].

e da tre egiziani, dei quali due ci dicono:

Non vale la pena, non vale la pena! […] Sono favorevole se le donne svolgono ruoli amministrativi, ma la guerra la fanno gli uomini, non vale la pena che le donne vadano in guerra! [Intervista n. 10].

Per noi, nei paesi arabi, non esistono le donne che fanno il servizio militare. Secondo me, non va bene, perché la donna è sempre una donna. La donna può stare negli uffici, può scrivere, può fare il giudice, può fare il ministro degli interni, ma il militare non lo può fare [Intervista n. 18].

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Un cittadino italiano di origine siriana, invece, pur non mostrandosi contrario in linea di principio all’ingresso delle donne nelle Forze Armate, esprime qualche riserva in relazione a una supposta indole intrinseca della donna: Non perché io sia maschilista, assolutamente, però, non mi piacciono [le donne che si arruolano] Non perché sono contrario alle donne che vogliono arruolarsi, ma, secondo me, c’è un tasso di stupidità maggiore nelle donne che si arruolano, rispetto ai maschi. Vedendo uno speciale su Rai tre sulle donne che si arruolano nelle forze armate, alcune donne militare dicevano: <<spero di non essere mai comandata da una donna!>>. Tutte le soldatesse che hanno intervistato, in questo speciale che ho visto su Rai tre, hanno detto così. E questo, fa riflettere! Perché, come si vede anche nelle altre forze di polizia, le donne in divisa sono sempre molto rigide, non sono flessibili. E credo che in questo lavoro serva un po’ di flessibilità. Perché, già eseguire gli ordini, così, alla cieca può portare a degli errori. Se non c’è neanche una elasticità mentale [da parte delle soldatesse], distinguere caso per caso, perseguendo l’indole dell’uomo [la capacità critica]. Naturalmente, questa è una generalizzazione. Sto dicendo che questo, probabilmente, è più facile che accada con le donne, che con gli uomini. Poi, può darsi pure che ci saranno ottime soldatesse…! […] Credo, comunque che sia giusto consentire alle donne di arruolarsi. Però, secondo me, nel lungo periodo ci saranno problemi! [Intervista n. 12].

In ogni caso, va rimarcato il fatto che, quando ve ne è stata occasione, gli intervistati hanno mostrato una giudizio favorevole verso le Forze Armate italiane (come d’altronde già era emerso nelle scale degli atteggiamenti delineate nella Sezione 4). Invece, in maniera indipendente dalla presenza o meno di pregresse esperienze militari, non sempre sono apparsi buoni giudizi positivi sulle forze armate dei rispettivi Paesi (un buon numero comunque non ha saputo o voluto rispondere perché apparentemente disinteressato a quest’argomento). Da notare che, nella quasi totalità, gli atteggiamenti critici hanno riguardato gli asseriti fenomeni di diffusa corruzione. Fra i più critici si sono collocati, citando aspetti diversi, un albanese, un tunisino, un marocchino e un palestinese. Afferma un marocchino: Sono tutti ladri, anche le forze di polizia, perché anche lì noi abbiamo immigrati provenienti dall’interno dell’Africa. Soldati e poliziotti li fermano, vedono che non hanno il permesso di soggiorno, si fanno pagare e poi li lasciano andare! [Intervista n. 4].

Sostiene un palestinese:

Delle forze armate palestinesi? Non sono molto professionali, so che c’è molta corruzione. Io non l’ho ancora vissuto [l’arruolamento], ma da quello che leggo e quello che mi dicono […] c’è corruzione [Intervista n. 6]. I provenienti da Paesi mediorientali con maggiore tradizione militare, comunque, generalmente hanno descritto le rispettive forze armate positivamente, usando toni di fiducia come quelli espressi da un giovane siriano:

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Ne sono molto orgoglioso [delle forze armate del mio Paese] ne abbiamo bisogno noi siriani di forze armate efficienti! [intervista n. 5].

Posta di fronte alla prospettiva di un possibile reclutamento di immigrati nelle Forze Armate italiane, un po’ più della metà degli intervistati si mostra favorevole all’ipotesi. Tra i favorevoli annoveriamo sei egiziani, un albanese, un siriano, un cittadino italiano di origine siriana, un tunisino, un marocchino, un libico. Generalmente essi motivano tale atteggiamento con i vantaggi della realizzazione di un amalgama culturale che riuscirebbe a smussare, grazie alla forza delle istituzioni e anche al buon senso, eventuali differenze intrinseche. Afferma ad esempio un giovane cittadino italiano di origine palestinese: [Ci sarebbe] amalgamazione culturale, scambio culturale stupendo, basti vedere ciò che c’è in Gran Bretagna, così dobbiamo diventare, un inter-cultura stupenda, nel senso: dal nero al bianco, dal rosa al giallo, stupendo. [Eventuali problemi] tipo il mangiare? Mangia dopo. Io ho amici che fanno rugby e fanno il Ramadan. Si allenano senza aver mangiato nulla, e il rugby è quasi una guerra, diciamo […] Io sinceramente vedo solo vantaggi. Nel senso, più gente, più professionisti, magari, le forze armate italiane potrebbero arruolare un ex-immigrato che [abbia] fatto parte di altri eserciti, certo, ciò che caratterizza gli italiani, rispetto ad altri eserciti, è il patriottismo, lo sappiamo guardando la storia. Però, anche il patriottismo, o la fedeltà nei confronti della bandiera italiana, da parte di un ex-immigrato non è assolutamente da escludere, - a parte che c’è il giuramento di fedeltà alla bandiera italiana, ma basta che un ex- immigrato riconosca che questa terra, l’Italia, sia come la sua, nel senso che gli ex-immigrati arruolati nelle forze armate italiane si sentano come gli arruolati italiani, e quindi, che hanno gli stessi scopi, cioè, alla fine sarà tutta una fratellanza tra militari, - diciamo – intestina all’Istituzione [comunque prenderei in esame l’ipotesi dell’arruolamento] senza dubbio. Anzi, se lo vuoi sapere, ci ho pure pensato! [Intervista n. 6].

Senonchè, sia fra i favorevoli che fra gli sfavorevoli si registrano riserve relativamente ad alcune problematiche che potrebbero derivare sia dal punto di vista sia socio-relazionale (per via di differenti abitudini religiose), sia della sicurezza. Ad esempio, dice un giovane marocchino:

[Giudicherei la scelta di un ex-immigrato di arruolarsi nelle forze armate] male, molto male, perché non si può prendere la bandiera di un altro Paese… non si può mettere la bandiera di un altro sul proprio cuore […] La lingua, la religione, altre abitudini alimentari… ci sarebbero troppi svantaggi [Intervista n. 4]. Un palestinese sottolinea i dilemmi politici che potrebbero presentarsi all’immigrato che si è arruolato:

I vantaggi è che si potrebbe formare anche dal punto di vista militare, [l’immigrato] si potrebbe rafforzare anche moralmente. Però, ci sarebbero anche degli svantaggi, ad esempio, se il Governo italiano muovesse guerra contro il suo paese di origine, e [l’immigrato] fosse costretto ad andare contro il suo paese di origine, ci sono delle cose che vanno contro di lui, e lui non può farci niente perché fa parte di una istituzione italiana […] Io andrei…forse non in quello italiano perché, comunque, non mi riguarda in prima persona, perché, comunque, l’esercito italiano. Guarda, il fatto che è andato in Iraq…non condivido. Quindi non penso che ci andrei, e non penso che lo consiglierei a nessuno! [Intervista n. 7].

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Quello del doppio legame fra la nuova “patria” e quella d’origine, è un altro tema su cui hanno mostrato sensibilità una buona aliquota degli intervistati (sia favorevoli che contrari), come ci dice questo giordano:

Sai, mi trovo in difficoltà a risponderti. Metti il caso che il mio paese entra in guerra con l’Italia, e questo [immigrato giordano, che ha acquisito la cittadinanza italiana e fa parte delle forze armate italiane] entra in Giordania come nemico. Come devo risponderti a questo? È difficile! Se [l’ex-immigrato] viene in pace, va bene. Ma, metti il caso che lui usa le armi contro di me? Cosa devo dirgli? Tu sei nato qua, e ammazzi uno della tua religione? È difficile! Se è nato in Italia è diverso, perché non [avrebbe] la mentalità giordana…! […] Può aiutare molto, questo è il vantaggio! Se l’Italia arruola un ex-afghano, lui potrà entrare e uscire dall’Afghanistan senza problemi […] Gli svantaggi non li so… forse, se un ex-afghano incontra un afgano, non so come finisce. Sarà il peggio! [ma] prima di guardare a queste cose [l’istituzione militare dovrebbe] guardare la persona. È praticante o no? Mi pare che lo Stato italiano rispetta la pratica religiosa. Se uno vuole fare il Ramadan, che prevede di pregare cinque volte la settimana, lo fa. Se la legge italiana permette di farlo, lui può praticare. Se, invece, la legge impedisce di praticare, lui come potrà praticare. A questo punto dovrebbero arruolare dei non praticanti! […] se trovano un musulmano che è veramente praticante avranno dei problemi. un praticante non va! Perché ci pensa bene lui, dice di no! Lui vede tante cose come peccato. Se un [musulmano praticante] sta nella stessa cella con un altro militare, e quest’ultimo beve alcol, il praticante non beve. Un altro militare va a donne, il praticante non può andare. Il [musulmano praticante] troverebbe un po’ di difficoltà, anche come vita nella caserma. […] Secondo me [gli ex-immigrati musulmani] che si arruolano, non possono praticare! [Intervista n. 8].

Questa risposta compendia posizioni e riserve che si riscontrano sia fra i favorevoli che fra i contrari all’eventuale arruolamento di immigrati nelle Forze Armate italiane. Infine, è da rilevare che, al contrario di quanto riscontrammo nella ricerca CeMiSS da noi condotta nel 2004 sugli immigrati provenienti dalle ex-Colonie italiane, gli intervistati nel corso della presente ricerca hanno quasi tutti (con l’eccezione di un paio di casi) rigettato l’ipotesi che il conferimento della cittadinanza italiana possa costituire il miglior incentivo da prospettare agli stranieri in cambio del loro arruolamento. L’opposizione a questo tipo di scambio appare trasversale, sia fra i favorevoli che fra i contrari all’arruolamento. L’appena citato intervistato giordano, ad esempio, dice in proposito: Io ho sentito parecchie notizie di militari americani, di origine africana, che venivano arruolati con la promessa della cittadinanza americana. Ma, metti il caso che lui muore, a che gli serve la cittadinanza americana? a che gli serve la cittadinanza italiana? Lui è morto ormai. Entro nelle forze armate per avere che cosa? La cittadinanza? A me non serve la cittadinanza, io sto bene così! [Una proposta del genere può servire] a un disperato. Per disperato intendo: una persona che si arruola, fa quello che gli chiedono, soltanto per ottenere la cittadinanza. Ma, metti il caso che lui muore? Gli serve ancora la cittadinanza? A me, non serve! Ognuno è libero di fare quello che vuole, ma io non mi arruolerei mai! [Intervista n. 8]. a cui fa eco, sempre a mo’ di esempio, un intervistato egiziano: No, io non faccio uno scambio di merce. Non è valida questa cosa. Questa è una cosa molto delicata e seria, deve essere una cosa spontanea. Non deve essere uno scambio di merci! [Intervista n. 14].

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Un altro intervistato egiziano esprime diffidenza su immigrati che vengano eventualmente arruolati:

Io sono per il controllo degli ex-immigrati che entrano nelle forze armate di un altro paese. Perché non si sa mai chi arruoli, da dove viene e qual è il suo obiettivo. Non dico l’immigrato che è nato qua, ma parlo dell’immigrato che viene qua, prende la cittadinanza, e vuole arruolarsi nelle forze armate [Intervista n. 20].

Un atteggiamento di vigile prudenza, in un ambito delicato, come quello della lingua, è auspicato da un immigrato tunisino, che afferma:

Prima che un [ex-immigrato si arruoli] nelle forze armate, [deve ottenere] la cittadinanza. Poi, [dopo che ha ottenuto la cittadinanza può arruolarsi]. Non è che io lascio le chiavi di casa mia a un [estraneo], e gli lascio fare quello che vuole. Deve essere controllato! Se ci siamo conosciuti molto bene, posso darti tanta confidenza [Intervista n. 9].

Persino il cittadino italiano di origine palestinese, che pure si era mostrato

favorevole in termini entusiastici all’ipotesi di arruolamento di personale straniero nelle forze armate italiane, respinge l’ipotesi dello “scambio” servizio militare-cittadinanza: Non sono d’accordo! No, perché si [arruolerebbe] solo gente mercenaria, mercenaria nel senso, [abbracciare] una causa per un secondo fine. Un conto è che io entro perché per me è un lavoro, e lo prendo come tale, un conto è invece, che io entro per acquisire la cittadinanza e poi una volta raggiunto il mio scopo lascio le forze armate, - non sono assolutamente d’accordo [Intervista n. 6].

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CAPITOLO 4 Osservazioni conclusive

4.1 Forze Armate plurali e immigrazione

Essendo delegate alla difesa della collettività, le Forze Armate possiedono una mission del tutto unica e, dato che per perseguirla i suoi membri possono/devono utilizzare mezzi altrettanto unici (dare e ricevere la morte), ne consegue che quello delle armi non è “un mestiere come un altro” (Moskos e Wood, 1988). Da qui il significato simbolico delle Forze Armate per l’intera collettività nazionale.

Ciò deve essere considerato nel momento in cui si esaminano i diversi “fattori

della produzione” del bene difesa, a cominciare dal più complesso di tutti: le risorse umane. Come emerge dall’esperienza dei maggiori paesi del mondo, per entrare a far parte di un’organizzazione con le caratteristiche di quella militare è necessario che le persone presentino, oltre a specifici standard di idoneità fisico-psicologica e a determinate qualificazioni di tipo formativo, anche la soggettività di un atteggiamento di cooperazione, lealtà e adesione ai valori base dell’organizzazione stessa e, contemporaneamente, della collettività che essa è chiamata a servire. Da un canto, la visione idealizzata delle Forze Armate come un monolite privo di incrinature e addirittura di sfumature è una visione che appartiene al passato. D’altro canto, data la natura della loro mission, esse non possono tollerare che le differenze delle persone diventino fattori di divisione, pregiudicando il conseguimento degli obiettivi e, in ipotesi, la propria sopravvivenza come organizzazione.

Tutto ciò ha alimentato – nell’era del differenzialismo postmoderno – un ampio

dibattito internazionale su fino a che punto le Forze Armate possano spingersi ad accettare la diversità (Soeters e Van der Meulen, 1999). Le cronache militari dei paesi più avanzati del mondo riportano esempi di un simile dibattito, che tra i suoi protagonisti annovera da un lato gli stati maggiori, dall’altro gli attivisti dei movimenti per i diritti civili – con politici, mass media e opinione pubblica in una posizione di arbitri – impegnati in controversie che sarebbero apparse semplicemente impensabili un paio di decenni fa. Appartengono a tale categoria la richiesta dei gay americani di “uscire allo scoperto” nell’ambito delle Forze Armate; in Canada la richiesta dei portatori di handicap di potersi arruolare; ancora negli Stati Uniti i circa duecento casi all’anno di soldati, marinai, avieri e marines che invocano l’obiezione di coscienza per lasciare il servizio militare nel quale si sono arruolati volontariamente.

È chiaro che, in tale contesto, una diversità strutturale come quella rappresentata

dalle minoranze etniche è totalmente legittimata sul piano normativo e, nei paesi multirazziali come gli Stati Uniti, ampiamente accettata sul piano sostanziale.

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Rispetto al caso americano, peraltro, ancora lunga appare la strada delle Forze Armate dei paesi europei, e in particolare dell’Italia.

L’esistenza in Europa di significative minoranze di immigrati (mediamente tra il

2 e il 9% della popolazione dei vari Stati), di insediamento recente o recentissimo, presenta ai decisori tanto vincoli quanto opportunità. Tra i vincoli vi è la necessità di integrare gli stranieri nelle società di accoglienza, pervenendo a un punto di equilibrio tra le aspirazioni dei primi e le esigenze delle seconde. Legittimamente, infatti, gli immigrati intendono partecipare alla produzione e alla ripartizione delle risorse, venendo accettati senza tuttavia perdere completamente la propria identità culturale. A loro volta la collettività autoctona, si aspetta di potersi avvalere della presenza e in particolare del lavoro degli immigrati, senza che ne esca destabilizzato il proprio stile di vita. Tra le opportunità vi sono le possibilità di ampliare e arricchire la vita sociale e culturale, così come di compensare i vuoti demografici e occupazionali di società nelle quali la gratificazione dei bisogni (individuali) è sempre più subordinata ai processi della produzione e del consumo.

La presenza di minoranze etniche immigrate comporta vincoli e opportunità

anche per un’organizzazione che, come quella militare, non ha fini economici bensì politici. I vincoli sono costituiti dalla maggiore difficoltà, e conseguentemente dal maggiore impegno richiesto, per socializzare le reclute “etniche” sotto il duplice profilo della competenza dei soldati (gli appartenenti alle minoranze possono presentare specifici limiti linguistici e/o di istruzione) e della loro adesione ai valori in un’organizzazione dove è importante non soltanto la coesione psicologica ma, almeno in una certa misura, anche quella ideologica. Nelle Forze Armate, infatti, l’individuo è chiamato a identificarsi, o quantomeno a non confliggere, con specifici valori quali la militarità e il patriottismo. In particolare deve essere sottolineata la componente di politicità che, variamente presente in tutte le funzioni pubbliche, è preponderante in quelle addette alla difesa e alla sicurezza. In una fase storica come l’attuale, condizionata in forte misura dalla minaccia terroristica, è ovviamente decisivo elaborare policies e assumere provvedimenti che prevengano qualsiasi forma di infiltrazione o collusione all’interno di un sistema che, come quello militare, è strategico per il conseguimento del bene collettivo sicurezza. Nello stesso tempo, tali policies devono tutelare gli individui dalle discriminazioni di cui potrebbero essere vittima in quanto appartenenti a comunità nazionali, etniche, religiose etc., a ragione o a torto ritenute politicamente “a rischio”.

A favore dell’inserimento delle minoranze etniche nelle Forze Armate militano

fattori esterni e interni a queste ultime. Nel primo ambito, in alcuni paesi europei sono gli esponenti delle comunità immigrate che reclamano l’accesso all’arruolamento, come opportunità tanto di partecipazione civica quanto di sbocco lavorativo e professionale. Nel secondo ambito, un po’ tutte le Forze Armate europee devono fronteggiare il problema del passaggio dal reclutamento fondato sulla leva a quello fondato sul volontariato, e quindi da una disponibilità di risorse umane, a

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lungo (ed erroneamente) ritenuta “illimitata”, ad un’altra caratterizzata da precisi limiti quantitativi e qualitativi. In questa prospettiva i giovani delle comunità immigrate possono rappresentare un bacino di reclutamento nuovo e interessante.

4.2 Gli immigrati musulmani in Italia e le Forze Armate

È arrivato il momento di formulare il bilancio della nostra ricerca, in ordine alla ricognizione operata sugli atteggiamenti che i sondaggi nazionali registrano a proposito dell’immagine reciproca di italiani e immigrati e, soprattutto, in ordine alle risposte che abbiamo rilevato nelle nostre interviste. Il quadro delineato da queste ultime è sicuramente e interessante, nelle sue luci e nelle sue ombre. E lo è sia nelle conferme delle attese (risultato utile in quanto fondato su un riscontro empirico), sia (risultato ancora più interessante) nelle evidenze dei fenomeni ignorati o inaspettati, oltre che nelle smentite di interpretazioni date per scontate. Entrando nel merito, la considerazione più generale che è possibile formulare è che la costellazione dei valori che emerge dalle risposte degli immigrati arabi e/o islamici, così come i loro atteggiamenti verso la società occidentale in genere e italiana in particolare, nonché la relazione che essi testimoniano di intrattenere con gli italiani stessi, sono ben lontani dal provare quella situazione di “scontro di civiltà” emotivamente e/o strumentalmente evocata da alcuni quando è all’ordine del giorno il fenomeno migratorio, specialmente se proveniente dal mondo musulmano. Quello che emerge complessivamente è il quadro di un gruppo di persone fortemente motivate a migliorare la propria situazione materiale e morale, che persegue questo obiettivo attraverso il lavoro, e che mostra di considerare quest’ultimo la prima ma non l’unica della condizioni per il proprio inserimento nella società ospite, altre essendovene da adempiere quali la completa osservanza delle norme legali e l’accettazione (almeno prevalente) di quelle sociali. Rinviamo alle trascrizioni per un panorama, talvolta scarno ed essenziale talvolta ricco e pieno di sfumature, del punto di vista degli immigrati da noi intervistati. In sede di commento, possiamo osservare che la visione della società italiana espressa dai 17 immigrati (diversa è la situazione dei 3 italo-arabi di seconda generazione in quanto interamente socializzati al modello italiano) è una visione propria di membri di una società “tradizionale” nei confronti di una società “moderna” (Parsons 1971 e 1973). Tale visione si riassume nelle seguenti caratteristiche: tecnologia e mercato del lavoro (sebbene questi termini non vengano mai usati) applicati alla produzione di merci e servizi di buona qualità, di ampia varietà e in quantità illimitata, il tutto per chi possa permetterselo; scientifico sfruttamento dei fattori di produzione, a cominciare da quello umano; individualismo; libertà di espressione; crisi dei valori morali, religiosi e sociali. Nulla di così

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drasticamente diverso, in fondo, da ciò che appariva agli immigrati italiani in Nordamerica trentacinque anni fa, quando chi scrive ebbe occasione di osservarli in una sua iniziale analisi sociologica (Battistelli, 1975). Il quadro generale va completato, naturalmente, con la specificità della situazione in cui questi stranieri si inseriscono, cioè in quella variante della società occidentale costruita dalla società italiana. Qui la rappresentazione elaborata dagli immigrati si bipartisce: un primo ordine di opinioni viene espresso in relazione alla società e un secondo ordine di opinioni è in relazione alle istituzioni. Entrambi gli oggetti suscitano toni sia positivi sia negativi. Non era negli obiettivi della presente ricerca una ricostruzione a tutto tondo dell’immagine che l’Italia e gli italiani rivestono agli occhi degli immigrati: molto più limitatamente ci siamo focalizzati su alcuni aspetti relazionali tra i primi e i secondi, che abbiamo giudicato significativi in vista di eventuali sperimentazioni di convivenza istituzionale. Secondo gli immigrati, gli italiani si rapportano a loro in modalità criticabili da vari punti di vista: sono opportunisti, nutrono sentimenti di paura specialmente per alcune categorie di stranieri, dissimulano la loro ostilità. Tuttavia non sono razzisti. Tra i nostri immigrati, quelli più portati a teorizzare fanno riferimento alla casuale, e in ultima analisi equa, distribuzione di comportamenti buoni e cattivi nei vari popoli. Gli intervistati che hanno avuto esperienza di immigrazione in altri paesi europei formulano degli italiani, comparativamente, un giudizio positivo. Stimolati ad entrare nel merito, negano che in Italia esistano posizioni di pregiudizio: l’atteggiamento della popolazione, in realtà, tende a riflettere i comportamenti degli immigrati stessi, buoni con i buoni e cattivi con i cattivi. Alcuni gruppi etnici e nazionali si sono fatti una fama negativa, per una pluralità di cause. Da un lato c’è l’emotività della popolazione locale, il cui principale responsabile è il sistema dei media (tutti concordano nel sottolineare la drammatizzazione impressa a tutto ciò che riguarda l’immigrazione da parte della stampa e della televisione). Dall’altro si riconosce che l’oggetto principale, o forse addirittura esclusivo, dell’allarme sociale diffuso tra gli italiani è il fenomeno della delinquenza. Nessuno fa graduatorie, semplicemente i membri di alcuni paesi (egiziani, arabi del Medio Oriente) si limitano ad osservare che di loro non si sente mai dire niente. Certo, anche la numerosità e la concentrazione temporale degli immigrati influiscono. È la teoria delle “ondate”. Secondo alcune osservazioni particolarmente acute, l’allarme si esaspera quando c’è il boom degli arrivi: questo “è normale”, commenta l’intervistato n. 11; le “maggioranze” si alternano nel tempo, oggi i rumeni, ieri gli albanesi, l’altroieri i marocchini, ciascuna lasciando il posto a un’altra che diventa la più minacciosa del momento (intervistato n. 8). Nei confronti degli altri immigrati la posizione dei nostri intervistati è altrettanto ragionevole. In Italia non si è (ancora?) cristallizzata la gerarchia sociale

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propria della società di immigrazione, come negli Stati Uniti25. Anche quando vengono espresse opinioni critiche e conflittuali, queste non si basano su caratteristiche ascritte di pretesa inferiorità etnica o di altro tipo, bensì su vantaggi di tipo politico che favorirebbero determinati gruppi (immigrati provenienti da paesi aderenti all’Unione Europea) a scapito di altri (immigrati extracomunitari). In alternativa, nel riconoscimento dei benefici (permesso di soggiorno, cittadinanza etc.) viene invocato un criterio universalistico ed egualitario come l’anzianità, cioè l’entità di tempo trascorsa nel paese. In questo senso gli immigrati arabi non si sentono differenti dagli altri se non per l’anzianità che hanno conquistato facendo parte della prima ondata di migranti una ventina di anni fa. Parlando della società dove hanno scelto di inserirsi, poi, gli immigrati finiscono per parlare di se stessi. Cause e motivazioni della decisione di emigrare sono particolarmente significative. Specie i giovani (tra i 20 e 30 anni) mostrano atteggiamenti definibili come post-materialisti (Inglehart, 1998). Molti dichiarano di aver lasciato in patria situazioni di relativo benessere e comunque di sopravvivenza assicurata. Anche scontando in questa descrizione una possibile dose di idealizzazione, le motivazioni addotte in positivo sembrano genuine: desiderio di viaggiare, conoscere luoghi diversi, fare esperienze nuove ed entusiasmanti, contrastanti con l’immobilismo e la chiusura dei luoghi di origine. L’Italia invece è un paese “libero”, “aperto a tutti”, anche se talvolta esso sgomenta proprio per l’eccesso di libertà, per il debole principio di autorità, per il cinismo e la frenesia che si respirano nelle grandi città. Le perplessità che certi aspetti della modernità nella sua versione italiana ispirano agli immigrati (o, come direbbe Parsone, alla componente pre-moderna della loro cultura) diventano vere e proprie critiche quando si passa ad esaminare il rapporto con le istituzioni. Contemporaneamente, tuttavia, è possibile rilevare come l’atteggiamento critico espresso dagli stranieri non sia sostanzialmente diverso (se non per l’intensità, che è più moderata) di quello espresso dagli italiani stessi. Abbiamo visto nel terzo capitolo come punti di convergenza e differenze emergano nella graduatoria fiducia/sfiducia ispirata dalle istituzioni. Tra le convergenze è da annoverare la popolarità del Presidente della Repubblica che, con 15 adesioni su 20, appare una figura al di sopra delle parti e quindi indenne dal diffuso scetticismo che attualmente l’opinione pubblica nazionale riserva al mondo politico. Se si va a verificare la popolarità della massima carica dello Stato tra gli italiani emerge che il Presidente compare in seconda posizione, ma con un’intensità significativamente minore (5,6%) in quanto ridottasi nell’ultimo quadriennio (Diamanti et alt., 2007). 25 Negli USA la stratificazione dei diversi gruppi etnici è univoca e minuziosa, come già aveva potuto osservare un secolo fa M. Weber.

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Altresì comune a immigrati musulmani e cittadini italiani è l’ottimo (nel primo caso)/buono (nel secondo caso) livello di fiducia nelle rispettive istituzioni religiose, sottoscritto da 14 immigrati su 20 nei confronti delle istituzioni islamiche, così come il 54% degli italiani ne sottoscrive uno analogo nei confronti della Chiesa cattolica. Pure significativa la positività della valutazione degli immigrati verso la stessa Chiesa cattolica, con sentimenti di fiducia (10) che prevalgono ampiamente su quelli di sfiducia. Così come è decisamente positiva presso i nostri intervistati (oltre che presso gli italiani) l’immagine dei Carabinieri e delle Forze Armate (entrambi 13/20). Differente di segno, ma analoga per significato, è poi la convergenza nelle posizioni critiche. Come l’insieme dei cittadini italiani, sebbene in proporzioni notevolmente meno drastiche, i nostri immigrati esprimono nei confronti del sistema politico un atteggiamento guardingo quando ha per oggetto il Parlamento e il governo (rispettivamente con 8 e 10 “fiducia” vs. 8 e 10 “sfiducia”) ovvero esplicitamente negativo quando ha per oggetto i partiti (8 “fiducia” vs. 12 “sfiducia”). Ma la palma delle valutazioni negative va ai mezzi di informazione, stampa e televisione, che suscitano sfiducia in ben 14 immigrati su 20, venendo spesso accusati (come emerge dalle interviste) di pregiudizio e allarmismo nei confronti degli stranieri. In riferimento ad altre istituzioni, invece, i pareri degli immigrati da noi intervistati divergono nettamente da quelli solitamente espressi dagli italiani. La divergenza più clamorosa è in positivo e riguarda la sanità, che suscita un inaspettato (a occhi italiani) plebiscito di ben 17 manifestazioni di fiducia, a fronte di 2 sole sfiducie26. Come avevamo già avuto modo di osservare presentando questi risultati nel cap. 3, è un dato di fatto che, consapevolmente o meno, in Italia lo Stato ha affidato al Servizio Sanitario Nazionale il compito di gestire il primo contatto con le masse provenienti dall’immigrazione. Ciò è stato realizzato con criteri di gratuità, universalismo e rispetto dei diritti della persona (si pensi alla facoltà di usufruire di assistenza medica anche da parte del clandestino e in condizioni di tutela della privacy) che trovano pochi riscontri nelle realtà sociali da cui proviene la maggioranza degli immigrati. L’approvazione degli immigrati è il meritato riconoscimento per la funzione di avamposto del welfare italiano che viene esercitata dalla sanità. La seconda istituzione è, sempre nell’ambito del benessere pubblico, la scuola, approvata da 12 opinioni su 20 e criticata solo da 3. L’esistenza di 5 “non risponde” caratterizza la scuola come un’istituzione lievemente meno nota, in quanto esperienza riservata a padri di famiglia che, per conoscerla, devono avere dei figli. Pur con questa limitazione oggettiva, la scuola si connota, dopo la sanità, come l’altra

26 Abbiamo visto nel cap. 2 che la popolarità tra gli stranieri della sanità italiana è testimoniata dal 97% dei giudizi positivi espressi nei sondaggi. Il differenziale tra gli atteggiamenti sull’argomento espressi dagli stranieri e quelli espressi dagli italiani è spiegabile con la teoria dei gruppi di riferimento. In più non è da escludere che il trattamento “spartano” che le istituzioni sanitarie (tipicamente quelle ospedaliere) riservano al paziente contribuiscano ad accreditare un’immagine egualitaria agli occhi degli stranieri.

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grande istituzione pubblica cui è affidato l’impegnativo compito di associare gli immigrati al paese in cui hanno scelto di lavorare e, spesso, di vivere. Un’altra divergenza, anch’essa positiva, è data dalla fiducia attribuita ai sindacati da ben 12 intervistati su 20. Considerando che dai sondaggi di Diamanti, come anche di altri ricercatori, il consenso degli italiani verso i sindacati si aggira intorno a ¼ dei rispondenti, è evidente il riconoscimento degli immigrati verso un attore sociale che in effetti svolge un ruolo per la tutela dei loro diritti. A conferma della maggiore generosità di giudizio degli immigrati nei confronti delle bistrattate istituzioni politiche rappresentative, vi è la valutazione prevalentemente buona (12 fiducie vs. 7 sfiducie) dedicata al Comune che, pur rappresentando anche per gli italiani la più accettata delle forme di governo, supera di poco il 40% dei consensi (Diamanti et al., 2007). Del tutto particolare, ancora una volta riflettendo la specificità della condizione di immigrato, la fiducia espressa nei confronti delle Forze Armate e delle Forze dell’Ordine. Si è già detto del buon piazzamento delle prime. Quanto alle Forze dell’Ordine, richiesti di distinguere tra esse, gli immigrati dichiarano prevalente fiducia nei Carabinieri; si dividono esattamente a metà in riferimento alla Polizia di Stato (10 a 10 tra fiducia e sfiducia); esprimono una valutazione negativa, infine, sulla Polizia di municipale (7 a 11 tra fiducia e sfiducia). Nella percezione sociale di un attore sociale quale l’immigrato nel cui curriculum non è insolita una più o meno protratta situazione di illegalità (fase iniziale da clandestino; attività non autorizzate come vendita senza licenza ecc.), è probabile che esista un rapporto inverso tra la fiducia e la vicinanza/frequenza nei rapporti. In questo quadro, in una grande città come Roma gli immigrati sono meno esposti ai Carabinieri e molto di più alla Polizia. Ovviamente, la natura del rapporto rimane importante per determinare il giudizio. La Polizia di Stato punisce gli illeciti ma fornisce anche i servizi (permesso di soggiorno ecc.): da qui l’ambivalenza del giudizio (10 a 10 tra fiducia e sfiducia). Dai Vigili Urbani, invece, provengono soprattutto multe, sequestri ecc.: da qui il prevalere delle dichiarazioni di sfiducia. Resta da vedere (ma per questo sarebbe necessaria una specifica ricerca) se, ceteris paribus, un peso nella diversa percezione dei vari Corpi sia rivestito dalla cultura organizzativa e dallo stile di comportamento di ciascuno di essi. Molto severe sono le valutazioni formulate dagli immigrati sulla burocrazia italiana, vista come lenta e inefficiente (oltre che non egualitaria verso gli stranieri, secondo 12 pareri su 8). Ancora più severe le critiche rivolte alla gestione dell’ordine pubblico e della giustizia. L’accusa è di lassismo e di tolleranza eccessiva: da parte della polizia, che non è adeguatamente presente ovvero non interviene contro i comportamenti illeciti o anche semplicemente gli atti di inciviltà (quali bere e ubriacarsi per strada); da parte della magistratura, che libera istantaneamente i delinquenti appena arrestati (per esempio per furto).

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Il tono moderato delle critiche avanzate dagli immigrati arabi e musulmani e la natura delle stesse, che sembra sollecitare non “meno Stato”, ma “più Stato” in ambiti cruciali della convivenza civile quali ad esempio la sicurezza, non possono d’altro canto indurre a ignorare la differenza nei punti di partenza tra gli immigrati e la società italiana. Tali differenze possono affiorare sia in riferimento alle tematiche sociali di carattere generale, sia in riferimento agli atteggiamenti vero le istituzioni, sia infine in riferimento a specifici aspetti che chiamano in causa opzioni e decisioni possibili (come tutta l’area di opinioni su Forze Armate e reclutamento). Lo stretto intreccio che esiste fra questi tre ambiti prende corpo con chiarezza nell’ultima area di opinioni, quella che riguarda le Forze Armate e il reclutamento. È significativo, ad esempio, che un argomento particolare come il servizio militare femminile offra agli intervistati lo spunto per l’esternazione del proprio pensiero su quello che resta uno dei temi più controversi tra l’ideologia occidentale e quella araba e/o islamica. Ad esempio, su una grande questione civile come la necessità che, in caso di dilemma tra le proprie leggi e quelle locali, l’immigrato rispetti queste ultime, vi è unanimità nell’aggregato degli intervistati. Invece, costoro si dividono tra un gruppo (maggioritario) propenso alla più o meno compiuta condivisione dei valori “moderni” e una minoranza che fa propri valori “tradizionali”. La visione della donna, del suo ruolo sociale, dei suoi diritti in rapporto all’uomo costituisce precisamente uno dei banchi di prova di tale divario. È così che alcuni immigrati che dichiarano di accettare la scuola pubblica per i figli maschi, riservano alle figlie una educazione “adatta” da realizzare nel paese di origine, evidentemente per evitare la promiscuità dell’educazione in comune tra femmine e maschi. Senza sottovalutare le difficoltà che tale concezione del rapporto tra generi può incontrare in molti ambiti della convivenza sociale (a cominciare dai rapporti coniugali in caso di coppie interculturali ma anche nei rapporti genitori/figli nelle coppie monoculturali), va detto che questa appare essere l’unica importante differenza che emerge nella testimonianza degli immigrati musulmani. Bisogna anche aggiungere che, in ordine allo specifico oggetto della nostra ricerca essa emerge più nella morale individuale di alcuni che nell’etica pubblica di tutti. Nella quasi totalità, infatti, i rispondenti dichiarano il proprio favore nei confronti dell’apertura delle Forze Armate al servizio militare femminile, una pratica approvata senz’altro nel caso italiano e che anzi più di uno si spinge ad auspicare per le Forze Armate del proprio paese di origine. Altresì del tutto “modernizzata”, per restare alle politiche di settore, la posizione manifestata in ordine al modello di reclutamento che pressoché tutti (sebbene vi sia anche chi spezza una lancia a favore della funzione educativa della leva) sostengono debba essere professionale.

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Appare invece controintuitiva – e meritevole quindi della massima attenzione – la totale e intransigente contrarietà allo scambio arruolamento/cittadinanza proposta nell’ultima parte del questionario. Da un lato gli intervistati vengono chiamati a pronunciarsi sull’ipotesi che l’immigrato in genere e in particolare quello di nazionalità araba e religione musulmana possa arruolarsi volontariamente nelle Forze Armate italiane. A questo proposito i pareri sono largamente positivi, oscillando dal consenso ragionato e magari cauto di alcuni (che non mancano di citare le difficoltà che i militari musulmani potrebbero trovarsi ad affrontare nell’adempimento delle pratiche religiose oppure negli atteggiamenti dei commilitoni), all’entusiasmo di altri, che adducono l’esempio dei propri amici musulmani impegnati in attività sportive (non troppo dissimile dall’addestramento militare come il rugby o lo stesso calcio), i quali riescono tranquillamente a conciliare le prescritte forme di devozione come il Ramadam. Un nodo delicato che viene anche menzionato è rappresentato dall’ipotesi di coinvolgimento in un conflitto tra la patria di adozione (l’Italia) e quella di origine. Acutamente viene fatto osservare che il problema non sussisterebbe per un cittadino italiano di seconda generazione, così come accade per gli arabo-americani arruolati nelle Forze Armate degli Stati Uniti, i quali si sentono e si comportano completamente come cittadini americani. Mentre potrebbero sussistere per l’immigrato che è nato all’estero e vi ha ricevuto la prima socializzazione e che quindi non potrebbe venire meno alla lealtà verso il proprio paese di origine. In aggiunta a questa “strutturale” riserva, più di uno sottolinea la necessità di un attento controllo di chi si introduce in un’istituzione con le caratteristiche di quella militare, metaforicamente associata a quel sancta sactorum della sicurezza che è la propria casa. Si tratta, come si vede, di osservazioni tutte puntuali e pertinenti. Tra esse, però, spicca per la sua novità e complessità la posizione dianzi citata: quella cioè che reputa inaccettabile remunerare l’arruolamento con la cittadinanza. Tale evidenza, che scaturisce dall’unanime opinione degli intervistati, è tanto più rilevante in quanto contrasta con un’aspettativa di policy, fondata su esperienze storiche e logiche culturali acquisite come pacifiche nella cultura occidentale. Ben lungi dall’essere stigmatizzato, il conferimento della cittadinanza a chi ne è sprovvisto in virtù dei meriti acquisiti con il servizio militare è una pratica che affonda le sue radici nelle più antiche e prestigiose tradizioni dell’Occidente. Tanto all’interno (tra classi sociali) che all’esterno della società (tra autoctoni e allogeni) la partecipazione alle attività belliche è stata per secoli un cruciale strumento di inclusione nelle città greche e a Roma: dal ruolo del servizio militare nel riconoscimento dei plebei come cittadini optimo iure nella Roma repubblicana alla levée en masse della Rivoluzione francese nella costruzione del moderno concetto di cittadinanza.

103

Invece, pronti a sottoscrivere per l’immigrato l’opzione arruolamento, tanto come sbocco professionale quanto come forma di integrazione nella società ospite gli intervistati rifiutano sdegnosamente lo scambio servizio militare/cittadinanza. È a questo punto evidente la presenza nella cultura di appartenenza degli intervistati di un connotato forte (in termini di ciò che è onorevole e di ciò che è disonorevole) che impedisce l’accettazione di quello che alla cultura ospite appare invece uno scambio non soltanto equo e razionale ma addirittura nobile. L’intensità e l’unanimismo con cui viene espressa tale posizione sono tali da suggerire un adeguato approfondimento allo scopo di prevenire fraintendimenti nella comunicazione interculturale ove si decidesse di applicare all’eventuale reclutamento di personale di origine araba e/o musulmana27

* * *

Abbiamo visto come all’appuntamento con il fenomeno immigratorio l’Italia sia

pervenuta una trentina di anni fa psicologicamente e politicamente impreparata. Le risposte a tale novità hanno oscillato tra i due estremi costituiti da un lato dal rifiuto in blocco del fenomeno come dannoso e da contrastare e, all’opposto, dalla negazione che esso presentasse, insieme a cospicue opportunità, anche problemi che andavano risolti e modalità di attuazione che andavano regolate. In questo modo, tra pregiudizio miope e “buonismo” semplicistico sono passati vari anni prima che specifiche misure legislative, di policy e organizzative iniziassero a rendere operante una regolazione e, soprattutto, una gestione effettiva del fenomeno.

Oggi meno incombente di un tempo, ma non ancora del tutto superato, esiste il

rischio che, in un contesto socio-culturale emotivo e su uno sfondo istituzionale debole e frammentato come quello italiano, di fronte al fenomeno immigrazione il Paese paghi i costi che esso, come ogni mutamento di natura sociale, comporta, senza valorizzarne le potenzialità. Al contrario, è necessario operare nel senso dell’ottimizzazione, e quindi di un mix di politiche di programmazione, selezione, accoglienza e associazione (concetto quest’ultimo in cui includiamo la semplice integrazione) degli immigrati nella vita produttiva, sociale e culturale del Paese. In tale ambito le Forze Armate sono in grado sia di contribuire alla gestione di una rilevante questione nazionale, sia di giovarsi delle opportunità costituite dalla presenza in Italia di nuove quote di popolazione.

27 In questo caso sarà da verificare, sulla base di un approfondimento non soltanto sociologico e antropologico ma anche storico, politico e giuridico comparato, se il rigetto dello scambio arruolamento/cittadinanza da noi rilevato sia riconducibile all’identità araba soltanto, ovvero musulmana in genere, o infine all’una e all’altra.

104

Oggi le opportunità più interessanti si manifestano solo secondariamente

nell’ambito quantitativo. L’ottimo andamento delle domande di arruolamento registrato nella seconda metà del decennio in corso archivia le preoccupazioni dei programmatori della Difesa che appena quattro anni fa, alla vigilia della sostituzione del reclutamento fondato sulla leva obbligatoria con quello fondato sul volontariato, non potevano non interrogarsi sull’entità numerica dei giovani italiani disponibili ad arruolarsi, in particolare nelle categorie e ai gradi iniziali. Verificato che l’arruolamento volontario non costituisce, allo stato attuale, un problema, acquisiscono un ruolo di primo piano le opportunità di ordine qualitativo.

Strategica, tra queste, la possibilità di associare nei ranghi dell’organizzazione

militare giovani qualificati, motivati e leali, immigrati essi stessi o, ancora più plausibilmente, figli di famiglie immigrate in Italia da paesi di lingua araba e/o di religione musulmana.

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Allegato 1

Traccia d’intervista

Ricerca diretta dal Prof. Fabrizio Battistelli Facoltà di Sociologia della Sapienza Università di Roma

Via Salaria 113, 00198 Roma – [email protected] Sezione 1 – Dati generali I Rilevatore: II Numero intervista: II Data dell’intervista: 30 IV Orario: V Luogo dell’intervista: VI Paese di provenienza dell’intervistato: VII Sesso: VIII Età: IX Conoscenza della lingua italiana scarsa discreta buona ottima Sezione 2 – Breve storia di vita 1) Potrebbe raccontarmi brevemente le tappe della sua vita, soffermandosi sulle motivazioni che l’hanno spinta a venire in Italia?

2) Quando è arrivato in Italia?

3) Ha trovato subito un lavoro? Che lavoro faceva nel Suo paese? Che lavori ha fatto in Italia? E attualmente, che cosa fa? 4) Che studi ha fatto? Dove? 5) Quando è venuto in Italia aveva un’idea del lavoro che avrebbe fatto? Il lavoro che svolge attualmente è quello che si aspettava di fare? 6) Possiede la cittadinanza Italiana? È in possesso di un permesso di soggiorno oppure no? 7) Se la sua posizione è regolare, dopo quanto tempo dal suo ingresso in Italia è riuscito a regolarizzarla? È stato aiutato dal datore di lavoro, da organizzazioni sindacali o assistenziali, da altri connazionali?

8) Dove abita? Mi descriva la Sua abitazione. Ha avuto difficoltà a trovare dove abitare? Sezione 3 – Percezione ed immagine del proprio Paese d’origine Ora vorremo chiederle qualcosa sul Suo Paese d’origine

2

9) Che cosa pensa del Suo paese? Quali sono le cose migliori del Suo Paese? Quali sono attualmente i principali problemi? Sezione 4 – Percezione ed immagine dell’Italia 10) Che cosa pensa dell’Italia? Quali sono gli aspetti del nostro Paese che le piacciono di più? Quali quelli che le piacciono di meno? 11) Ora mi dica se è d’accordo o no sulle con le seguenti affermazioni: Per niente

d’accordo Poco

d’accordo Abbastanza d’accordo

Molto d’accordo

Non so/Non risponde

12) Gli italiani rispettano le leggi

13) Tanti italiani non pagano le tasse

14) La giustizia italiana è troppo tollerante verso i criminali

15) la burocrazia italiana è troppo lenta

16) Negli uffici pubblici ci trattano diversamente rispetto agli italiani

17) In Italia è più facile ottenere il permesso rispetto ad altri Paesi

18) Quanta fiducia ripone nelle seguenti istituzioni italiane?

38) Secondo Lei, gli italiani trattano bene o male gli stranieri?

Molta Abbastanza Poca Per niente Non so/Non risponde

19) Presidente della Repubblica

20) Governo 21) Parlamento 22) Comune 23) Partiti politici 24) Associazioni 25) Sindacati 26) Istituzioni della Sua religione

27) Chiesa cattolica

28) Magistratura 29) Forze Armate 30) Carabinieri 31) Polizia di Stato 32) Vigili Urbani 33) Altre forze di Polizia [Guardia di Finanza, etc.]

34) Stampa, TV 35) Sanità pubblica 36) Scuola 37) Altre istituzioni [specificare quali]

3

39)Secondo Lei gli italiani trattano tutti gli stranieri nello stesso modo? Se no, quali stranieri vengono trattati meglio e quali stranieri vengono trattati peggio? Secondo Lei perché alcuni vengono trattati meglio e altri vengono trattati peggio? 40a) [Per chi è in Italia da più di 6 anni] Lei ha notato una differenza nel trattamento degli immigrati provenienti da paesi arabi/islamici dopo l’11 settembre 2001? 40b) [per chi è arrivato in Italia dopo l’11.9.2001] Secondo Lei il terrorismo internazionale ha influenzato l’atteggiamento degli italiani verso gli stranieri, in particolare arabi e/o islamici? 41) Quanto è d’accordo con le seguenti affermazioni?

Sezione 5 – Descrizione della propria situazione esistenziale 45) È iscritto a qualche Associazione italiana e/o di Suoi connazionali? 46) Quante volte frequenta la moschea?

mai solo nelle festività più importanti e nelle occasioni familiari una volta alla settimana più volte nella settimana

47) E’ sposato? 48) Se sì, con una donna/uomo islamica/o o una italiana/o o di altra nazionalità? 49) Se no, sposerebbe una donna [uomo] italiana[o]? 50) Ha figli? 51) Se sì, quanti? Se i suoi figli decidessero di sposare una donna, o un uomo, italiana/o cattolica/o, per Lei sarebbe un problema? 52) I figli e la moglie risiedono in Italia o risiedono nel Paese di origine? 53) I suoi figli li ha mandati nella scuola pubblica italiana o nella scuola islamica? Sezione 6 – Opinioni sul servizio militare e su un eventuale arruolamento nelle Forze Armate italiane aperto anche agli stranieri Ora Le chiederò alcuni opinioni sul servizio militare. 54) Ha svolto il servizio militare nel Suo Paese? 55) Che cosa pensa delle forze armate del Suo paese?

Per niente d’accordo

Poco d’accordo

Abbastanza d’accordo

Molto d’accordo

Non so/Non risponde

42) Anche decidendo di restare nel paese di immigrazione, un immigrato sarà sempre diverso dagli abitanti del posto

43) Specialmente decidendo di restare, un immigrato deve cercare di inserirsi nella società locale

44) In caso di contrasto tra una regola del paese d’origine e la legge italiana, l’immigrato dovrebbe rispettare prima di tutto la legge italiana

4

56) Secondo Lei è meglio che le Forze armate di un Paese siano composte da professionisti oppure da personale di leva? 57) Che cosa pensa delle donne che fanno il servizio militare? Lei è favorevole o contrario alla presenza delle donne nelle forze armate? 58) Come giudicherebbe la scelta di un ex-immigrato di arruolarsi nelle forze armate? 59) Secondo Lei, dal punto di vista degli immigrati, quali possono essere i vantaggi e gli svantaggi che nascerebbero da tale arruolamento? 60) Secondo Lei, dal punto di vista dell’istituzione militare, quali possono essere i vantaggi e gli svantaggi che nascerebbero da tale arruolamento? 61) Se ce ne fosse la possibilità, lei prenderebbe in esame l’ipotesi dell’arruolamento, personalmente oppure consigliandola a parenti, amici, etc.? 62) E se l’arruolamento nelle forze armate prevedesse alla fine del servizio il conseguimento della cittadinanza Lei prenderebbe in considerazione questa ipotesi o la suggerirebbe ad un suo amico o parente?