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L’INTERVENTO PUBBLICO NELLA SANITA’: UN RIESAME DEI PRINCIPI* Donato Morea** JEL Classification: I18, H53 Parole chiave: Politica sanitaria 1. Le motivazioni dell’intervento pubblico nella sanità: i “fallimenti del mercato” e l’“equità” distributiva La teoria della finanza pubblica appare ancora oggi sostanzialmente improntata, o almeno condizionata, dall’impostazione economica neo- classica, come risulta dal permanere, specificamente, della distinzione metodologica tra criteri di “efficienza” e criteri di “equità” nelle analisi dell’intervento pubblico 1 . L’interesse verso tale modello economico è di carattere essenzialmente normativo, perché esso gode, nell’opinione degli economisti neo-classici, degli attributi dell’“ottimalità”, definiti dai criteri paretiani di valutazione. Naturalmente, osservando le economie reali, gli economisti neo-classici hanno avvertito che molte delle assunzioni su cui è fondato il modello di riferimento non trovano generalmente riscontro nelle realtà. Si è così sviluppata una copiosa letteratura sui “fallimenti del mercato”; gli interventi pubblici designati a sanare tali fallimenti sono riferiti agli obiettivi dell’efficienza allocativa, propria del modello generale neo-classico. La “sanità” 2 è il settore nel quale gli studiosi hanno individuato e analizzato cause particolarmente numerose e rilevanti di fallimento del mercato: esternalità, asimmetrie informative e selezione avversa, incertezza, incompletezza dei mercati. Tali cause che impediscono ai mercati di conseguire le soluzioni efficienti scaturiscono anche dalle complessità dei * Questo articolo è la prima parte di un lavoro che prosegue, nella seconda parte, con l’analisi dell’intervento pubblico nella sanità in Italia e delle sue prospettive. ** Dott. Ing. D. Morea, titolare di contratto di Scienza delle Finanze, Facoltà di Economia dell’Università LUISS di Roma. 1 La distinzione tra criteri di efficienza e criteri di equità compare in quasi tutti gli argomenti trattati nei testi di finanza pubblica, in quelli sulla tassazione come in quelli sulla spesa pubblica. Nel settore della sanità, è consueta l’indicazione degli obiettivi di efficienza (per cause di “fallimento del mercato”) che motivano l’intervento pubblico e, separatamente, dei motivi di “equità”. 2 Come osserva Bosi (2006), p. 404, “la sanità è un “bene” di difficile identificazione … un bene intermedio che serve per realizzare lo stato di salute di un individuo. La salute è poi influenzata da molti altri fattori”. 413

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L’INTERVENTO PUBBLICO NELLA SANITA’: UN RIESAME DEI PRINCIPI*

Donato Morea**

JEL Classification: I18, H53 Parole chiave: Politica sanitaria 1. Le motivazioni dell’intervento pubblico nella sanità: i “fallimenti del

mercato” e l’“equità” distributiva La teoria della finanza pubblica appare ancora oggi sostanzialmente

improntata, o almeno condizionata, dall’impostazione economica neo-classica, come risulta dal permanere, specificamente, della distinzione metodologica tra criteri di “efficienza” e criteri di “equità” nelle analisi dell’intervento pubblico1.

L’interesse verso tale modello economico è di carattere essenzialmente normativo, perché esso gode, nell’opinione degli economisti neo-classici, degli attributi dell’“ottimalità”, definiti dai criteri paretiani di valutazione. Naturalmente, osservando le economie reali, gli economisti neo-classici hanno avvertito che molte delle assunzioni su cui è fondato il modello di riferimento non trovano generalmente riscontro nelle realtà.

Si è così sviluppata una copiosa letteratura sui “fallimenti del mercato”; gli interventi pubblici designati a sanare tali fallimenti sono riferiti agli obiettivi dell’efficienza allocativa, propria del modello generale neo-classico. La “sanità”2 è il settore nel quale gli studiosi hanno individuato e analizzato cause particolarmente numerose e rilevanti di fallimento del mercato: esternalità, asimmetrie informative e selezione avversa, incertezza, incompletezza dei mercati. Tali cause che impediscono ai mercati di conseguire le soluzioni efficienti scaturiscono anche dalle complessità dei

* Questo articolo è la prima parte di un lavoro che prosegue, nella seconda parte, con l’analisi dell’intervento pubblico nella sanità in Italia e delle sue prospettive. ** Dott. Ing. D. Morea, titolare di contratto di Scienza delle Finanze, Facoltà di Economia dell’Università LUISS di Roma. 1 La distinzione tra criteri di efficienza e criteri di equità compare in quasi tutti gli argomenti trattati nei testi di finanza pubblica, in quelli sulla tassazione come in quelli sulla spesa pubblica. Nel settore della sanità, è consueta l’indicazione degli obiettivi di efficienza (per cause di “fallimento del mercato”) che motivano l’intervento pubblico e, separatamente, dei motivi di “equità”. 2 Come osserva Bosi (2006), p. 404, “la sanità è un “bene” di difficile identificazione … un bene intermedio che serve per realizzare lo stato di salute di un individuo. La salute è poi influenzata da molti altri fattori”.

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rapporti che caratterizzano il settore sanità, poiché3: i medici agiscono sia dal lato della domanda che dell’offerta delle prestazioni;una parte essenziale dell’offerta è affidata all’industria farmaceutica e degli strumenti sanitari; i consumatori affrontano rischi elevati e hanno limitate possibilità di “provare” la capacità di beni e servizi alternativi a soddisfare i loro bisogni di salute: il mercato delle assicurazioni private verso i rischi della salute presenta molteplici situazioni di “fallimento”4.

L’economista di scuola neo-classica dispone, dunque, di argomenti in abbondanza per “giustificare” l’intervento pubblico nel settore della sanità sul piano dell’efficienza allocativa. Dall’altra parte, la teoria neo-classica è pienamente consapevole che l’ottimalità dell’assetto degli equilibri generali è riferita a una determinata distribuzione iniziale delle risorse tra gli agenti; vi sono n assetti ottimali per n corrispondenti assetti distributivi. Il secondo teorema fondamentale dell’economia del benessere mostra che lo Stato può ridistribuire le dotazioni iniziali degli agenti economici e che quindi i mercati, perfettamente concorrenziali, se lasciati liberi di operare, raggiungeranno l’allocazione delle risorse pareto-efficiente. Questo teorema è, certamente, “fondamentale”, sia per la costruzione logica neo-classica, sia per le implicazioni normative. In sintesi, il teorema consente, sul piano dell’analisi, di mantenere la separazione logica tra gli aspetti dell’efficienza allocativa e quelli della distribuzione5.

Naturalmente, gli studiosi neo-classici sanno bene che nei sistemi economici reali è praticamente inattuabile un disegno redistributivo di ampia portata che utilizzi soltanto imposte e sussidi in somma fissa (a rigore personalizzati), così da soddisfare alla condizione posta dal teorema, che la redistribuzione non modifichi le scelte “efficienti” degli agenti nei mercati perfetti.

Tuttavia, si ritiene che il teorema offra una guida importante alle decisioni delle politiche pubbliche nei sistemi reali, perché distingue gli obiettivi dell’efficienza da quelli dell’equità dell’intervento pubblico e quindi configura il possibile “trade off” tra i due obiettivi. Le ricadute di questa impostazione sui “policy-makers” sono incisive, perché presso le opinioni 3 Per completezza, si dovrebbe aggiungere ai fattori di complessità del settore “salute” il fatto che “i confini tra la spesa per la salute ed altre categorie di spesa possono però essere molto labili quando si pensi al ruolo che gli stili di vita, sia privati (dieta, abitudini a fare attività sportiva ecc.) sia pubblici (presenza o meno di servizi di prevenzione, attenzione agli aspetti ambientali ecc.) hanno nel condizionarla”: Bosi (2006), p. 404. L’autore aggiunge che l’attività di ricerca biomedica e gli interventi di prevenzione e di lotta alla diffusione di malattie infettive hanno il connotato di bene pubblico. L’esemplificazione potrebbe allargarsi, ritengo, al controllo della produzione e conservazione degli alimenti di larga diffusione, e all’analisi degli effetti inquinanti, in varie forme, da molteplici attività. 4 Ai “fallimenti”dei mercati dell’assicurazione contro i rischi di malattia dedicano ampio spazio anche i testi di base di finanza pubblica; cfr. per tutti Stiglitz (2003). 5 Cfr. per tutti Rosen (2003), p. 33.

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pubbliche trova credito l’affermazione, che pare di buon senso comune, che non si può ridistribuire ciò che non si è prodotto e che “se qualcuno desiderasse aiutare una persona povera, il modo migliore per farlo, nel lungo periodo, non è di preoccuparsi di come deve essere divisa la torta, ma piuttosto di aumentarne le dimensione, di farla crescere il più rapidamente possibile, così che ci siano più beni per tutti”6.

Poiché le istanze redistributive provengono, politicamente, dalle (o da chi agisce in favore delle) classi sociali che si trovano nella parte medio-bassa della distribuzione, mentre le classi medio-alte possono ritenersi soddisfatte dei risultati dell’operare dei mercati, nei fatti la proposizione del “trade-off” tra efficienza ed equità costituisce, storicamente, un freno politico alle istanze redistributive. E’ stato opportunamente osservato che “l’idea secondo cui non è possibile ottenere il massimo di efficienza e di equità allo stesso tempo tende a sottolineare l’esistenza di un vincolo al livello di ridistribuzione desiderabile”7.

Invero, mentre il concetto paretiano di “efficienza”8 è intrinseco al modello neo-classico, ovvero è definizionale, il concetto di “equità” solleva problemi di compatibilità con la logica neo-classica, che - secondo altre correnti di pensiero – sono rimasti irrisolti. E’, infatti, evidente che, volendo attenersi al secondo teorema fondamentale, i criteri con i quali la collettività (lo Stato) può giudicare insoddisfacente la distribuzione attuale e quindi indicare quella preferibile devono essere criteri “benesseristi”9, che scaturiscono dalle preferenze individuali dei singoli; perché, se si impiegassero criteri non fondati sull’utilitarismo individuale si opererebbe una frattura logica nella costruzione neo-classica (“efficienza” ed “equità” non sarebbero confrontabili e non sarebbero quindi oggetto di trade-off; il concetto di “efficienza” sarebbe logicamente estraneo alla sfera della redistribuzione, e viceversa).

La risposta neo-classica a tale interrogativo è la “funzione del benessere sociale”, costruita sui presupposti dell’individualismo utilitaristico. Musgrave pone, con rigore, la premessa, nella sua “Teoria della finanza pubblica”, che “gli individui possono valutare i desideri sociali, cioè che questi desideri formano parte delle scale di preferenza individuale insieme ai desideri privati…la nostra proposizione basilare è che i desideri sociali sono parte integrante della struttura delle preferenze dell’individuo”10. Ma, gli stessi economisti di scuola neo-classica hanno dovuto riconoscere l’esistenza di forti difficoltà alla costruzione di una funzione del benessere sociale, coerente 6 Stiglitz (2003), p. 78. 7 Arachi (1993), p. 591; l’argomento è approfondito più avanti. 8 Annota Stiglitz (2003), p. 32, che “quando gli economisti parlano di efficienza, si riferiscono normalmente al concetto di efficienza paretiana”. 9 Cfr. le puntuali osservazioni critiche di Arachi (1993), e la letteratura ivi citata. 10 Musgrave (1959), p. 11.

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con i presupposti dell’utilitarismo individualistico ed utilizzabile sul piano operativo11.

Oltre a tali difficoltà, Musgrave stesso deve riconoscere l’insufficienza dei criteri utilitaristici a spiegare gli interventi pubblici, poiché egli ha introdotto, nella sua “Teoria”, la categoria dei “merit wants”: “un differente tipo di intervento si attua quando la politica pubblica punta ad una allocazione delle risorse che devia da quella riflessa dalla sovranità del consumatore”12, citando in particolare i casi della sanità e della istruzione. Concettualmente, la successiva proposta dell’“egualitarismo specifico” avanzata da Tobin, ed altre ancora13, muovono nel medesimo solco tracciato da Musgrave con la formulazione dei “merit wants”: cioè il riconoscimento dell’esistenza di criteri non utilitaristici per scegliere interventi pubblici che hanno, insieme, effetti così sulla distribuzione come sulla allocazione delle risorse14, rispetto alla distribuzione ed alla allocazione che sarebbero determinate dal mercato in assenza di tali interventi pubblici.

Musgrave correttamente ammette che la categoria dei “merit wants” è concettualmente estranea al modello economico su cui è fondata la sua teoria normativa, e perciò si preoccupa di circoscrivere il campo dei bisogni meritori e di affievolirne la rilevanza per la teoria della finanza pubblica15. Ma, i successivi autori di testi generali di finanza pubblica16 che mantengono l’apparato neo- classico di analisi economica, applicandolo in particolare agli aspetti di “efficienza”degli interventi pubblici (efficienza paretiana), non esitano d’altra parte a motivare i principali interventi pubblici, anche nel settore della sanità, in special modo con riferimento ad obiettivi dell’“equità”, definiti secondo criteri alternativi a quelli utilitaristici. Nel settore della sanità i citati studiosi, dopo aver esposto i numerosi ed importanti casi di “fallimento del mercato” che, si è sopra detto, giustificano l’intervento pubblico rispetto all’efficienza allocativa, aggiungono, a tali motivazioni “di efficienza” (paretiana), motivazioni di “equità”, fondate su teorie quali “l’ugualitarismo specifico”, i “diritti di cittadinanza” ed altre, relative ad

11 Cfr. già i riconoscimenti di tali difficoltà in Musgrave (1959), in particolare pp. 133-135. E cfr. le osservazioni di Bosi (2006), pp. 53-54. 12 Musgrave (1959), pp. 9-13. 13 Tobin (1970); Thurow (1971); Rosen (2003), pp. 98-99; Stornaiuolo (2005) e gli altri autori ivi citati. 14 Sulla significatività della distinzione tra “efficienza” ed “equità”, anche in tali impostazioni che assumono criteri di equità non utilitaristi, si torna più avanti. 15 Musgrave (1959), p. 13, p. 21, p. 89, p. 135. 16 Cfr. per tutti Stiglitz (1989 e 2003).

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ideologie della giustizia sociale ed a principi etici17, che non hanno cittadinanza nel modello economico neo-classico18.

Le critiche dell’utilitarismo individuale sono presenti già negli economisti classici19; esse si sono rinverdite nella seconda metà del ‘900 con la contestazione dell’assunto della “razionalità” del comportamento degli agenti massimizzanti le loro funzioni di utilità, e della pretesa “neutralità morale” del principio paretiano di definizione dell’ottimalità20. Si è rilevato, con particolare riferimento alla questione della “equità” distributiva e agli interventi pubblici nei settori di protezione dai rischi sociali, quali sanità e pensioni, e dell’istruzione e ricerca, che l’utilitarismo individuale per molti aspetti ed implicazioni contrasta con le valutazioni ideologiche della “giustizia sociale” e con i “principi etici” (ed anche religiosi) che appaiono prevalere, o comunque avere un ruolo storicamente importante nella gran parte delle società contemporanee.

Credo che una precisazione sia opportuna. Mentre appare fondata la negazione della superiorità – nella teoria normativa – dell’approccio utilitaristico rispetto agli approcci alternativi, e fondata la contestazione della “neutralità morale” del principio paretiano, nemmeno si può accettare la pretesa di oggettiva superiorità di questo o quello principio ideologico od etico rispetto al principio dell’utilitarismo individuale o rispetto ad altri principi. La teoria normativa non può prescindere dai “giudizi di valore”21. Fuori dalla teoria normativa, lo studioso può analizzare le opinioni che si confrontano in una determinata organizzazione sociale e momento storico, individuare quelle prevalenti nelle politiche concrete, ed avanzare previsioni sulle tendenze evolutive.

17 Cfr. da ultima la rassegna critica contenuta in Stornaiuolo (2005). 18 Ribadisco che tale contraddizione logica ha un’implicazione importante per le scelte delle concrete politiche pubbliche, poiché essa rende conseguentemente contraddittorie le consuete proposte riferite al “trade-off” tra obiettivi dell’efficienza e obiettivi dell’equità. E, naturalmente, il riferimento all’efficienza tende a porre un vincolo alle istanze redistributive, come si è già annotato. 19 Cfr. per l’intervento pubblico Sidgwick (1891), ricordato da Steve (1976), pp. 199 ss. 20 Cfr. le osservazioni critiche di Arachi (1993) e la bibliografia ivi richiamata, in particolare gli studi di Sen (1970, 1975, 1985). 21 Naturalmente lo studioso è legittimato ad argomentare in favore dei “giudizi di valore” da lui assunti. Come ha opportunamente osservato Stiglitz (2003), p. 72: “Alcuni economisti ritengono che la teoria economica dovrebbe focalizzare la propria attenzione esclusivamente sull’analisi di tipo positivo, sulla descrizione delle conseguenze dei programmi pubblici e della natura dei processi politici, piuttosto che sull’analisi normativa, relativa a ciò che lo Stato dovrebbe fare. Peraltro, i dibattiti degli economisti (e di altri) sul ruolo che lo Stato “dovrebbe” svolgere sono una parte importante del processo politico nelle democrazie moderne”.

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2. L’equità come obiettivo dell’intervento pubblico La letteratura prevalente, mentre mantiene i criteri dell’efficienza

paretiana (“benesseristi”) per valutare l’impatto dell’intervento pubblico sull’allocazione delle risorse (l’obiettivo dell’“efficienza”), privilegia invece criteri non utilitaristici per valutare tali interventi in funzione dell’obiettivo dell’“equità”.

Particolarmente nei settori sociali quali quello della sanità, molti autori ritengono che l’obiettivo dell’equità deve essere valutato secondo criteri non riferiti all’utilità individuale, ovvero al reddito, bensì a principi etici o ideologici (il tipo di organizzazione sociale che si vorrebbe realizzare): tali principi affermano, in sintesi, un diritto politico di ciascuna persona ad avere le prestazioni sanitarie necessarie al suo stato di salute, indipendentemente dalla sua capacità di pagare il costo (almeno) di tali prestazioni. Poggiano su tali principi etici ed ideologici le formulazioni più citate in letteratura delle categorie degli interventi pubblici giustificati in termini non utilitaristici: i “desideri meritori” di Musgrave, l’“ugualitarismo specifico” di Tobin, i “beni primari” di Rawls, le “capacità fondamentali”di Sen, i “diritti di cittadinanza” di Marshall, per citare le più diffuse22. Seguendo tali formulazioni gli interventi pubblici nel settore della salute risultano avere un ruolo di primo piano e tendono a soddisfare i bisogni di “salute” di tutti indipendentemente dal reddito individuale23.

Tali principi sotto il profilo normativo possono essere affermati come proposta programmatica di azione politica; sotto il profilo positivo possono essere individuati come spiegazione storica dell’azione politica concreta attuata da singoli movimenti politici e di opinione, con esiti più o meno favorevoli nei differenti Paesi e in differenti momenti storici. La variabilità storica di tali esiti è la concreta dimostrazione che non vi sono – fino ad oggi – principi etici ed ideologici accettati da tutti, ma che vi è una pluralità di ideologie (e di interessi) che si confrontano dialetticamente sul terreno reale della politica24.

L’osservazione vale, pertanto, anche nel confronto, sul piano della teoria normativa, tra l’approccio dell’utilitarismo individuale e gli approcci alternativi (e tra i singoli approcci non utilitaristici). Nel campo della sanità, ha osservato, fra gli altri, Stiglitz che “E’ diffusa l’opinione secondo cui a nessuno, a prescindere dal suo reddito, dovrebbe essere negato l’accesso a un’adeguata assistenza medica … Questa teoria è nota come egualitarismo 22 Un’analisi delle convergenze e differenze tra queste impostazioni è in Stornaiuolo (2005). 23 Tali impostazioni implicano uguale accesso di tutti ad uguali prestazioni sanitarie, per uguali bisogni. 24 Chi assume “giudizi di valore”, assumendosene la responsabilità, può lottare per la loro affermazione politica e/o argomentare per convincere altri ad assumerli, ma non può dimostrarne la loro oggettiva superiorità, che tutti debbano razionalmente riconoscere. 418

specifico. Non tutti gli economisti concordano sul fatto che i servizi sanitari debbano essere trattati in modo differente dagli altri beni di consumo … I sostenitori di questo punto di vista sottolineano come la relazione tra cure mediche e durata della vita sia molto debole … Secondo un terzo punto di vista, verso il quale sembra si stiano muovendo molte democrazie occidentali, a ciascuno dovrebbe essere garantito un dato livello minimo di assistenza sanitaria”25.

Invero, come si approfondirà più avanti, anche in un sistema che accogliesse il principio dell’offerta universale delle prestazioni sanitarie a tutti i cittadini, indipendentemente dal loro reddito, e finanziato dalla fiscalità generale, resterebbe aperta la questione di quante risorse la collettività, attraverso i meccanismi politici di formazione delle scelte di bilancio pubblico, è disposta a dedicare alla sanità, rispetto agli impieghi di risorse alternativi, privati e pubblici26. Credo non sia azzardato prevedere che lo studioso troverebbe che su tali concrete scelte politiche (di bilancio) influiscono anche motivazioni riconducibili alla logica dell’utilitarismo individuale, ovvero all’interesse degli individui componenti l’elettorato al proprio reddito disponibile (netto da imposte), e alle valutazioni di essi sui propri rischi soggettivi rispetto alla salute e sulle proprie capacità di fronteggiarli, quindi sulle scale di preferenza per la spesa pubblica nel settore della salute rispetto agli altri impieghi, pubblici e privati, delle risorse27.

25 Stiglitz (1989), pp. 320-321. 26 Come si dirà, il razionamento delle risorse pubbliche è, oggi, il problema più acuto delle politiche sanitarie che i governi si trovano ad affrontare, anche in Paesi come Svezia ed Inghilterra che hanno sviluppato e consolidato nel tempo il servizio sanitario pubblico universale, fondato sul principio dell’accesso di tutti a uguali prestazioni per uguali bisogni; lo stesso problema tormenta (anche politicamente) la Germania, che si è tradizionalmente affidata al “modello Bismark” dell’assicurazione sociale obbligatoria: cfr. le considerazioni successive alle pp. 43-ss. 27 Il caso della sanità, rispetto a quelli di altri settori di intervento pubblico, presenta inoltre aspetti particolari di complicazione per chi intenda razionalizzare le relative scelte di bilancio pubblico. Infatti, le condizioni di salute sono determinate significativamente anche: da fattori ambientali (inquinamento, composizione degli alimenti, condizioni di lavoro); da scelte individuali degli stili di vita; dalle condizioni socio-economiche delle singole classi di cittadini; dall’efficacia delle norme di sicurezza (sul lavoro, nel traffico, nell’uso di attrezzature domestiche); dalle informative e dalle analisi della prevenzione; e dalle spese, assai rilevanti, per la ricerca scientifica e le sue applicazioni. A rigore, le scelte delle priorità del bilancio pubblico sulle risorse da destinare alla sanità dovrebbero comprendere anche quelle per la tutela e prevenzione dai fattori negativi per la salute. Su un piano differente, ma non meno importante per la determinazione delle risorse da dedicare al settore sanitario, vi è la considerazione che le prestazioni sanitarie sono, per la loro natura, particolarmente “labor-intensive” (gli stipendi e altre remunerazioni al personale sono quota ampia sella spesa sanitaria), e che l’efficacia delle prestazioni è significativamente condizionata dalla preparazione e dall’impegno professionale degli operatori, dei medici delle diverse specialità ed anche del personale paramedico e ausiliario. Emergono, pertanto, la delicatezza delle questioni concernenti la formazione e selezione di tale personale, l’organizzazione del lavoro e

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Vero è che specifici studi hanno messo in luce le difficoltà, a parere di molti insormontabili, logiche ed applicative, a costruire una funzione del benessere sociale sui presupposti dell’utilitarismo individuale e a procedere da essa alla razionalizzazione delle effettive scelte (politiche) di bilancio28. Ma è altrettanto vero che non minori difficoltà si incontrerebbero a volere procedere da formulazioni di principi generali di natura etica od ideologica sulla “giustizia sociale” (equità), alla spiegazione delle scelte concrete delle politiche di bilancio, nei vari Paesi e vari momenti storici. Come è stato da tempo osservato, gli elettori non votano soltanto su programmi specifici di settore, ad es. quello della politica sanitaria, bensì sul programma politico complessivo dei partiti o coalizioni di partiti. Questa è anche una spiegazione del fatto, spesso osservato, che al momento di prendere le specifiche scelte settoriali, le singole componenti delle maggioranze di governo possono trovarsi in disaccordo; le pressioni delle parti sociali organizzate, e naturalmente dell’opposizione politica, contribuiscono al frequente esito di soluzioni di compromesso tra principi e scale di valori differenti, però presenti nella collettività degli individui. La “normale”alternanza nel tempo di partiti (e coalizioni) al governo dei Paesi a democrazia parlamentare, mi sembra essere ulteriore riprova della insufficienza di un approccio che intendesse razionalizzare l’intervento pubblico sostituendo al tradizionale utilitarismo individualistico un insieme di principi di “equità” sociale tratti da giudizi di valore di ispirazione etica o ideologica29.

In generale, non pare possibile costruire una teoria normativa dell’intervento pubblico di cui si dia dimostrazione razionale della sua superiorità logica rispetto alle altre teorie.

Mi è sembrato doveroso richiamare queste premesse, note alla migliore letteratura, sul significato dell’assunzione dei giudizi di valore e sui tentativi di razionalizzare le scelte del bilancio pubblico, perché non pochi studi sugli interventi pubblici, e in particolare su quelli relativi al settore della sanità,

dei rapporti (spesso difficili) tra personale di funzioni e livelli differenti, i meccanismi di carriera e di aggiornamento, gli eventuali incentivi (e controlli sulla produttività) e le politiche retributive. Queste ultime ci portano al problema, centrale in tutta le teoria economica, della distribuzione dei redditi monetari. Non sono questioni riducibili entro enunciazioni di principi “etici” di carattere generale sul “diritto alla salute”; sono questioni, naturalmente controverse, di politica economica. 28 Cfr. la precedente nota 11. 29 Fra le altre, sono significative le esperienze delle contrapposizioni (e ricerche di compromessi) in materia sanitaria tra i partiti socialdemocratici e quelli liberali nelle vicende politiche degli ultimi anni in Paesi come l’Inghilterra, la Svezia, la Germania. In quest’ultimo Paese la contrapposizione tra due proposte alternative di sistema sanitario, quella della coalizione di sinistra (in favore del servizio pubblico universale), e quella democristiana di sostanziale mantenimento del sistema esistente, aveva tenuto banco nelle elezioni politiche del 2005: ma l’esito elettorale non ha assegnato una vittoria significativa ad alcuno dei due schieramenti.

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tendono a presentare i loro “giudizi di valore”, e le conseguenti analisi e proposte, come razionalmente o moralmente “superiori” rispetto ad altri, anziché come precise scelte politiche che devono operare nella dialettica sociale; perciò ponendosi sul medesimo piano delle analisi che pretendono la “superiorità” dei criteri paretiani per giudicare l’“ottimalità”, e per ordinare i livelli di sub-ottimalità, delle posizioni conseguibili dal mercato o dagli interventi pubblici correttivi30.

L’equità, intesa come obiettivo dell’intervento pubblico, non è definibile se non in relazione a precisi ed espliciti giudizi di valore, che configurano il tipo di organizzazione sociale che si preferisce (e che si cerca, politicamente, di realizzare, nel confronto politico con chi cerca di realizzare modelli sociali alternativi). Questa mi pare essere premessa indispensabile per impostare correttamente l’analisi dei criteri di equità che in letteratura sono più frequentemente utilizzati per giustificare, sotto il profilo normativo, l’intervento pubblico nel settore della sanità, o per individuare, sotto il profilo positivo, le ragioni delle scelte concrete nei vari ordinamenti e momenti storici, e delle tendenze evolutive in atto.

3. Il criterio dell’uguaglianza delle opportunità Nel porre in rilievo la pluralità delle interpretazioni del concetto di

“equità” che sono state proposte dagli studiosi di scienze sociali, Musgrave31 evidenzia quello dell’uguaglianza delle opportunità, poiché esso parrebbe corrispondere meglio di altri alle scelte politiche di una “società democratica” fondata sul “libero mercato concorrenziale” e sulla “sovranità del consumatore”, che lo studioso pone esplicitamente (quindi correttamente) alla base della sua teoria normativa della finanza pubblica, con evidente riferimento all’organizzazione sociale degli Stati Uniti32. Non a caso tale criterio è considerato con attenzione anche da altri studiosi di quel Paese33.

Invero il criterio dell’uguaglianza delle opportunità è stato pensato nella fiducia verso un modello di organizzazione economica fondata sul mercato, sulla competizione, sul dinamismo dell’iniziativa privata, nella fiducia verso la capacità di tale modello di offrire a tutti, purché lo vogliano, l’opportunità di conseguire in tale organizzazione sociale risultati “equi” (perché

30 Nella ricerca di come e perché si formano, e variano nel tempo e tra Paesi diversi, le scelte del bilancio pubblico che ripartiscono le risorse tra impieghi privati e pubblici e definiscono i singoli settori di intervento, certamente può risultare utile l’individuazione di principi etici o ideologici che muovono la dialettica sociale, poiché si confrontano principi (ed interessi) contrastanti. 31 Musgrave (1959), pp. 19-20. 32 Musgrave (1959), cap. 1. 33 Cfr. Rosen (2003), p. 100.

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commisurati al merito), comunque migliori di quelli conseguibili in modelli sociali alternativi. Nella sostanza, il criterio richiede che siano abbattute le barriere alla mobilità sociale, che non vi siano discriminazioni economiche oltre ai differenziali collegati alle differenti produttività, che siano eliminate le restrizioni alla concorrenza e liberalizzati i mercati dei prodotti e dei fattori34.

Se si esprime preferenza politica verso un modello sociale che legittima (e tutela) i diritti di proprietà, anche dei fattori della produzione, e la distribuzione del reddito (prezzi relativi) determinata dalle forze del mercato, è coerente privilegiare, nella specificazione dell’“equità”, l’uguaglianza delle opportunità per ciascuno di conseguire nel mercato risultati economicamente favorevoli, nei confronti dei processi pubblici redistributivi (intervenendo sulla distribuzione risultante dal mercato). Nella sostanza, se non è rispettato il criterio dell’uguaglianza delle opportunità, si può presumere che il sistema sia inefficiente nel senso che rinunci all’impiego di potenzialità esistenti, che non hanno l’opportunità di esplicarsi nei mercati; i più recenti modelli dello sviluppo economico, che hanno posto in risalto il ruolo del capitale umano, indicano l’importanza di offrire a tutti l’opportunità di esprimere al meglio le proprie potenzialità produttive35.

La possibilità per tutti di accesso alle prestazioni necessarie alla salute, come a quelle dell’istruzione e formazione professionale, sono implicazioni evidenti del criterio dell’uguaglianza delle opportunità. Tuttavia, come già aveva rilevato Musgrave, quando dall’enunciazione generale del criterio (come degli altri criteri, si vedrà) si procede alle specificazioni necessarie per renderlo operativo, si presentano differenti possibili interpretazioni36. Limitandoci qui al campo sanitario, vero è che il criterio prefigura il diritto di tutti alla salute in quanto indispensabile a far valere le proprie capacità ed impegno lavorativo nell’economia di mercato; ma, nell’interpretazione di alcuni autori37, il medesimo criterio non giustificherebbe, come implicazione logica, tutela sanitaria – come diritto garantito anche economicamente dallo Stato, quindi dalla collettività (i contribuenti) – a quegli individui che con le loro libere scelte fossero responsabili della perdita di salute.

34 La tesi è fatta propria anche dall’U.E., che recentemente (2000) ha impostato, su di essa, la “strategia di Lisbona” (riaffermata nel 2005), che mira alle liberalizzazioni di mercati e al rafforzamento della concorrenza nei Paesi membri. 35 Cfr. Conte, Di Cagno (2005). 36 Musgrave (1959), pp. 19-20. 37 Cfr. Le Grand (1991 e 2003) e il commento in Stornaiuolo (2005), pp. 49-50. Annoto che la posizione prevalente presso gli economisti della salute inglesi chiamati “extra-welfaristi” (cfr. per tutti Culyer (1989 e 1993); Kind, Williams (2004)) mette l’accento sulla valutazione delle politiche sanitarie in base ai risultati (“health outcomes”), che è questione diversa. L’argomento è ripreso più avanti.

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L’argomentazione ha un fondamento logico evidente. Come sopra detto, il criterio dell’uguaglianza delle opportunità si fonda sul “giudizio di valore” favorevole a un modello sociale che si sviluppa sull’iniziativa privata, sulla competizione che premia gli agenti capaci di più elevata produttività e innovazione; dove il libero mercato determina i risultati economici (i meriti) dell’attività di ciascuno. Le “opportunità” sono riferite ai comportamenti finalizzati a tali risultati, ed a queste opportunità è predisposta la garanzia dell’offerta di prestazioni sanitarie, perché tutti possano esprimere al meglio le proprie capacità nei mercati. Pertanto, non rientra, logicamente, nel criterio la tutela di comportamenti - come abusi di alcolici, fumo, droghe, stili di vita pericolosi per la salute, rifiuto di regole di prevenzione - che sono estranei ad un atteggiamento dell’individuo responsabile e consapevole verso il suo migliore contributo all’organizzazione socio-economica in cui è inserito.

Come tutti i criteri, certamente anche quello dell’“uguaglianza delle opportunità” presenta, all’atto dell’applicazione concreta, aspetti di dubbia interpretazione e l’esigenza di motivate eccezioni. In particolare, è stato osservato che in alcuni casi concreti può essere difficile stabilire, operativamente, il nesso causale tra le decisioni autonome dell’individuo (libere scelte) e le conseguenze negative di tali sue decisioni sullo stato di salute38. Il criterio meramente probabilistico, su cui peraltro sono fondate gran parte delle analisi diagnostiche (valori normali o fuori norma), può talora suscitare perplessità39.

Però, è stato osservato che “la critica più rilevante che può essere fatta al principio di uguaglianza delle opportunità…è che la discriminazione è dura ed implacabile verso coloro i quali, per qualsiasi ragione, prendono decisioni che in seguito possono rimpiangere. Tutto ciò è molto discutibile dal punto di vista morale, in quanto la fornitura pubblica della sanità si basa sul principio etico essenziale dell’uguaglianza di tutti. E il fatto che, nell’esercizio delle proprie libertà, diverse persone scelgono di adottare decisioni che mettono a rischio la propria salute non intacca certamente questo principio e quindi, la legittimità dell’accesso all’assistenza sanitaria”40.

Mi sembra che il criterio dell’uguaglianza delle opportunità non dovrebbe essere interpretato in forma così rigida da escludere chi ha causato la sua 38 Stornaiuolo (2005), p. 50. 39 Analogamente, occorrerebbe trovare empiricamente criteri soddisfacenti per tracciare una linea divisoria tra attività lavorative o comunque di impiego sociale riconosciuto (missionari, sportivi, ecc.) ed invece comportamenti non socialmente utili, scelti dall’individuo e spesso in contrasto con pubbliche campagne informative di prevenzione (che costano), come nel caso dell’abuso di alcolici e fumo, o dell’uso di droghe. Critiche di questo tipo, di cui certo si dovrebbe tener conto qualora il criterio dell’uguaglianza delle opportunità fosse adottato per l’intervento nella sanità e fosse quindi necessario scendere dal principio alla definizione degli aspetti operativi, tuttavia si ripresentano, mutatis mutandis, nei confronti di ogni possibile criterio di carattere generale (come si argomenterà nei paragrafi successivi). 40 Stornaiuolo (2005), pp. 50-51.

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malattia dalle prestazioni sanitarie necessarie alla conservazione della vita e al ripristino della salute: le società contemporanee avanzate hanno predisposto un’organizzazione sanitaria tale da non lasciare nessuno (nemmeno chi è illegalmente presente nello Stato) privo della basilare copertura medico – ospedaliera.

Piuttosto, mi sembra che il tentativo di applicare il principio dell’uguaglianza delle opportunità come criterio equitativo per la definizione dell’intervento pubblico nella sanità, solleva una questione che non deve essere trascurata. Si potrebbe infatti sostenere che l’offerta pubblica universale di sanità, finanziata a carico della collettività, deve trovare contropartita in comportamenti individuali responsabili verso la collettività medesima, che ne sopporta gli oneri. Anche chi ha violato con sue libere scelte norme penali, poste a tutela della collettività, non può poi invocare il diritto alla libertà individuale e/o alla conservazione del suo patrimonio per sfuggire alle sanzioni previste. Non vi è dubbio che sorgono difficoltà quando si prendono in esame possibili ipotesi concrete di sanzioni da applicare verso chi, con comportamenti liberamente scelti, causa danni alla sua salute e perciò obbliga la collettività a dedicargli risorse, di lavoro e di capitale, per le cure necessarie41. Ma le difficoltà operative, si è detto, si incontrano sempre nel passaggio dai principi generali alle applicazioni nella realtà (sul piano logico, tali difficoltà presentano forti analogie con quelle di precisare le “migliori” sanzioni alle violazioni delle norme giuridiche, anzitutto quelle penali). Si pensi alle ipotesi di obbligo di periodi di rieducazione (allo stile di vita e al lavoro) e di riabilitazione sanitaria, di periodici controlli medici, e di sanzioni pecuniarie (come le ammende penali e quelle amministrative), anche stabilite in forma assicurativa o di indennizzo all’intervento sanitario pubblico42. A ben vedere, in tutti gli Stati sono ormai vigenti norme di contrasto a comportamenti che pongono a rischio la salute nella fase preventiva, come le limitazioni (e l’attività persuasiva) contro i consumi di sostanze nocive alla salute, come le norme sulla sicurezza individuale (ad es. caschi e cinture dei guidatori), e come i tanti divieti all’esercizio di attività in condizione potenzialmente pericolose. Le violazioni a tali norme preventive sono giuridicamente sanzionate.

Lo scrivente azzarda la previsione che, a fronte di previsioni, comuni a tutti i paesi dell’UE, di un futuro caratterizzato da crescenti pressioni per il “razionamento” della spesa sanitaria pubblica (e/o aumento delle co-partecipazioni degli utenti al finanziamento) i temi delle responsabilità

41 Cfr. Le Grand (1991). 42 Il risarcimento dei danni, ottenibile in una pluralità di forme in relazione alle possibilità del sanzionato, è istituto di normale applicazione negli illeciti contro l’Amministrazione Pubblica.

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personali verso tale spesa, sollevati dal criterio delle “uguali opportunità”, potranno divenire oggetto di attenzione anche politica43.

Oltre a porre la questione della responsabilità individuale verso comportamenti i cui costi sono, quindi, addossati alla collettività, il criterio dell’uguaglianza delle opportunità solleva una questione interpretativa: se il principio debba essere attuato con l’unicità dell’organizzazione del servizio sanitario oppure con la sua separazione tra il settore di offerta destinato a chi effettivamente ha utilizzato le opportunità di lavoro, ottenendo i risultati economici stabiliti dal mercato, e il settore, invece, di offerta a chi non ha potuto utilizzare tali opportunità. E’ una scelta che distingue il modello sanitario in vigore negli Stati Uniti; e che distingue anche la versione originaria del “modello Bismark”, fondato sulla separazione tra “previdenza” organizzata per i lavoratori e pagata da prelievi sulle retribuzioni lorde, ed invece “assistenza” fornita direttamente dallo Stato a chi è escluso dal sistema previdenziale.

Ma, seguendo questo filone di ragionamento, che certamente il criterio dell’uguaglianza dell’opportunità intrinsecamente indica, si esce dal terreno del confronto tra i diversi principi di “equità”, per giungere ad altri temi: i meriti e i limiti, nella sanità, dal modello delle assicurazioni sociali obbligatorie verso quelli del servizio pubblico (il “modello Beveridge”); quelli dei sistemi assicurativi di natura privatistica; la possibile introduzione di meccanismi competitivi in un’organizzazione sanitaria pubblica: considererò più avanti tali temi.

Mi pare, tuttavia, importante, per formulare consapevoli “giudizi di valore” sui principi equitativi che si pongono a confronto, ricordarne le motivazioni e gli obiettivi tratti dal “modello sociale” di riferimento:è la premessa per analizzare le conseguenti implicazioni relative al modello di sanità che, pur con le sue rilevanti specificità, comunque deve essere disegnato in coerenza con i caratteri del modello sociale che si intende privilegiare.

4. Egualitarismo specifico, uguaglianza delle capacità fondamentali, diritti di cittadinanza Mentre il criterio dell’uguaglianza delle opportunità rimane collegato,

anche nelle sue applicazioni a guida delle politiche sanitarie, all’affermazione (giudizio di valore) di superiorità del modello di economia di libero mercato 43 Il criterio dell’uguaglianza dell’opportunità può essere assunto a riferimento anche dell’impostazione delle politiche così dette “active ageing” e a quelle per un’allocazione delle risorse reddituali del ciclo vitale che sia mirata ai maggiori costi sanitari della vecchiaia. Ha osservato Piperno (2002). “Un po’ di più per la sanità nella fase attiva della vita e un po’ di meno per altre aree di spesa”.

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competitivo, altri criteri non utilitaristici, richiamati dalla letteratura, fanno invece riferimento all’affermazione di esistenza del diritto “morale” di ogni persona ad avere dall’organizzazione sociale la garanzia dell’offerta delle prestazioni sanitarie corrispondenti al suo bisogno di salute (indipendente dalla sua eventuale responsabilità e dalla sua capacità o volontà di sostenerne il costo).

La tesi dell’“ugualitarismo specifico” proposta da Tobin44, quella delle “capacità fondamentali” di partecipare alla vita sociale, esposta da Sen45, quella dei “diritti di cittadinanza” affermata da Marshall46, portano alla conclusione che non solo l’offerta delle prestazioni sanitarie non può essere lasciata ai meccanismi del mercato, ma che essa deve essere accessibile a ciascuna persona unicamente in relazione al suo stato di salute. Le indicazioni di fondo che se ne traggono per la politica sanitaria sono: l’offerta diretta delle prestazioni sanitarie da parte del settore pubblico; l’universalità del servizio, reso accessibile a tutti; prestazioni uguali per tutti per uguali bisogni; il finanziamento del sistema a carico del bilancio pubblico47.

Nel valutare tali indicazioni, ritraibili dai criteri in esame, per la costruzione del sistema sanitario, occorre tornare alla premessa della necessità di formulare giudizi di valore per potere affermare la “superiorità morale”di questo o quel criterio; con differenti giudizi di valore, infatti, come si è sopra sottolineato, altri criteri potrebbero risultare soggettivamente preferibili48.

44 Tobin (1970). 45 Sen (1982, 1985, 1996, 2000, 2002). 46 Marshall (1973). 47 Sono questi i principi ispiratori del cosiddetto “modello Beveridge”, che in Europa viene contrapposto al “modello Bismark”, basato, sul lavoro e quindi sulle contribuzioni sociali obbligatorie per la copertura dai rischi del lavoratori. 48 Per esemplificare, si potrebbe obiettare che il concetto di “diritto di cittadinanza” richiama la categoria dei “doveri di cittadinanza”, tra i quali – riallacciandomi alle precedenti osservazioni sull’“uguaglianza delle opportunità” – può figurare quello di non addossare alla collettività, con propri comportamenti liberamente scelti, i costi di prestazioni sanitarie altrimenti evitabili; come quando si scelgono atti e stili di vita pericolosi per la salute (anche disattendendo a regole di prevenzione). Oppure, richiamando l’approccio utilitaristico, si potrebbe obiettare che l’impegno redistributivo dell’operatore pubblico, con le risorse che la collettività decide di mettere a sua disposizione per tale obiettivo, dovrebbe essere prioritariamente rivolto a migliorare la distribuzione dei redditi monetari (attraverso le imposte e i trasferimenti in moneta e spingendo verso la piena occupazione), piuttosto che a fornire direttamente beni e servizi in natura. Una migliore distribuzione dei redditi monetari potrebbe agevolare il funzionamento del servizio sanitario su basi assicurative (ancorché regolate dallo Stato). E’ questo un giudizio di valore compatibile con l’affermazione, da molti economisti ancora sostenuta, che un modello di economia di mercato fondato sull’iniziativa privata e la concorrenza, che tende a distribuire i risultati economici in relazione al contributo di ciascuno (il merito), produce più elevato sviluppo del reddito e dell’occupazione rispetto a modelli sociali alternativi

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In linea generale, si può osservare che, al nocciolo, è la collettività, attraverso i suoi processi politici decisionali, a scegliere quali “principi etici” o “criteri equitativi” privilegiare, formulando i giudizi di valore che ispireranno la concreta legislazione in materia 49. Le scelte della collettività necessariamente riflettono la varietà dei giudizi soggettivi dei cittadini- elettori che la compongono, sicché le risultanti decisioni di bilancio, valutate ex post, quasi sempre appaiono essere risultati di compromessi tra giudizi diversi; tanto più che gli elettori votano su programmi politici complessivi di cui la politica sanitaria è solo uno dei temi programmatici. La varietà (e contrapposizione) dei giudizi tra gruppi di cittadini-elettori scaturisce anche dalla varietà degli atteggiamenti individuali verso il rischio salute, dalla distribuzione tra essi della ricchezza, quindi dalle scale individuali di preferenza verso gli impieghi delle risorse pubbliche (prelevate coercitivamente) nella sanità piuttosto che negli impieghi alternativi, privati e pubblici. Valutando questi differenti atteggiamenti individuali dei cittadini-elettori verso la politica sanitaria – quali che siano poi gli esiti del complesso processo politico che porta alle definitive scelte di bilancio – mi sembrano riemergere anche motivazioni proprie della logica dell’utilitarismo individualistico, che concorrono con altre componenti non utilitaristiche a muovere il processo di decisione politica, che è assai complesso (perché vi è trade-off tra obiettivi all’interno di ogni programma politico, vi sono dialettica e soluzioni compromissorie tra le parti politiche e sociali che si confrontano): e ciò spiega la variabilità storica degli esiti legislativi50.

49 Considererò più avanti se, passando all’analisi positiva, è possibile individuare linee di tendenza prevalenti, nelle attuali organizzazioni sociali, verso uno o alcuni dei possibili criteri di specificazione dell’equità, in campo sanitario. 50 Mi sembra perciò troppo sbrigativa la pretesa di liquidare, anche nella teoria normativa, le tesi utilitaristiche perché “moralmente inferiori”. L’approccio dell’utilitarismo individuale inerisce ad un’ideologia dell’organizzazione sociale diversa da quelle di cui sono invece espressione principi quali l’uguaglianza delle capacità fondamentali o i “diritti primari o di cittadinanza”. L’adesione ad una delle ideologie significa assunzione di responsabilità anzitutto personale; molti filosofi sostengono che il rispetto verso ideologie (in senso lato) “diverse”, pur nella dialettica politica in cui ciascuno opera per l’affermazione della propria ideologia assunta, è un principio basilare dell’azione morale. Rientra, in qualche modo, nella logica dell’utilitarismo individuale la nota “schizofrenia” del cittadino (elettore) che, quando si trova a dover ricorrere al sistema sanitario lamenta l’insufficiente quantità di risorse disponibili per tali prestazioni, mentre quando è in stato di salute difende il proprio spazio finanziario per gli impieghi privati e manifesta interesse significativo anche verso altri impieghi pubblici (rispetto a quelli per la sanità). D’altra parte, questa forma di “schizofrenia” sull’uso delle risorse pubbliche può essere anche interpretata come espressione del comportamento umano verso l’incertezza (non solo sulla qualità ma anche sulla durata della vita) che in sede decisionale spinge a privilegiare le condizioni di vita del momento piuttosto che le implicazioni dei futuri probabili stati della natura.

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Con tali avvertenze, se si adottano espliciti giudizi di valore che sanciscono la superiorità morale dei criteri dell’offerta pubblica universale delle prestazioni sanitarie, commisurate unicamente al bisogno (per ripristinare lo stato di salute o impedirne il peggioramento, o almeno ritardarlo), si incontrano quindi le difficoltà, proprie anche degli altri criteri, di passare dalle enunciazioni generali dei principi alle loro specificazioni operative, necessarie per le concrete formulazioni delle politiche sanitarie.

Una prima difficoltà concerne l’interpretazione, nel concreto, del principio che le prestazioni sanitarie dovrebbero essere commisurate unicamente allo stato di bisogno di salute di ciascuna persona. Anche accantonando l’interrogativo sulle difficoltà e sui limiti dell’accertamento di tale bisogno da parte della categoria medica, che perciò è protagonista sia dal lato della domanda (interpretando le sensazioni espresse dall’utente) che da quelle dell’offerta delle prestazioni sanitarie, appare evidente che il principio enunciato non offre indicazioni certe quanto alla scelta (di bilancio pubblico) dell’ammontare delle risorse da destinare alla sanità. Come ho sopra ricordato, anche nei Paesi avanzati le potenziali richieste di risorse da destinare alla sanità, tecnicamente motivate, involvono dimensioni relativamente elevate rispetto agli impieghi alternativi, privati e pubblici, perché: le prestazioni sanitarie sono, mediamente, ad alta intensità di lavoro (la disponibilità del personale medico e paramedico ad occuparsi della persona con attenzione ed uso del tempo è considerata un’elevata priorità nella definizione della “qualità” del servizio); le ricerche scientifiche sulle cause delle malattie e sui farmaci per curarle hanno costi elevati, e negli anni recenti l’evoluzione tecnologica ha impresso una rapida dinamica a tali costi; l’attività di prevenzione è estendibile fino a coprire molteplici settori produttivi e di attività (alimentazione, ambiente, apparecchiature, radiazioni, acustica, mezzi di trasporto, stili di vita, ecc.) e richiede frequenti controlli; l’evoluzione della professione medica ha portato all’uso continuo di analisi di supporto alla successiva diagnosi; alle terapie strettamente curative si sono aggiunte, nel tempo, quelle verso il dolore e quelle riabilitative anche sotto il profilo psichico. L’invecchiamento delle popolazioni, l’urbanizzazione e i cambiamenti dei modi di lavoro e di vita, tali da rendere difficili e onerose, per le famiglie, la tradizionale assistenza domestica, sono ulteriori fattori della crescita delle richieste potenziali (riferite al “bisogno”) di risorse da impiegare nel settore della salute.

Peraltro, risulta difficile per l’operatore pubblico, che deve – in nome e per conto del cittadino-contribuente – controllare che l’impiego delle risorse sia effettivamente correlato ai “bisogni” di salute, svolgere accertamenti tecnici sulle richieste finanziarie dei professionisti del settore (medici, società farmaceutiche e di apparecchiature sanitarie, istituti di ricerca che possono anche opporre l’intrinseca aleatorietà dei risultati della ricerca).

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Gli autori più determinati nel sostenere la priorità delle spese pubbliche sanitarie commisurate al bisogno, per realizzare prestazioni pubbliche universali, su basi ugualitarie, indicano che nei bilanci dei Paesi industrializzati occupano ancora largo spazio spese che, valutate con le loro ideologie, dovrebbero avere priorità inferiore, in primo luogo quelle per la difesa51. L’esempio è emblematico. Si potrebbe infatti replicare che, se le spese per le prestazioni sanitarie sono dirette a tutelare il diritto alla vita della persona, le spese per la difesa esterna, come quelle per la sicurezza interna, la giustizia ed altre connesse, sono dirette a tutelare la vita (e l’identità) della organizzazione collettiva, cui le persone ineriscono. Non è questa la sede per addentrarsi nel secolare dibattito filosofico sulla superiorità etica dell’organizzazione collettiva (come sostenuto dalla scuola idealista tedesca, dalla dottrina marxista ed altre), rispetto alla singola persona52.

In prospettiva storica, si può ritenere che le tesi che assegnano allo Stato il compito prioritario di provvedere ai bisogni primari, relativi alle “capacità fondamentali” di tutti i cittadini, siano figlie di società (Stati) economicamente solide e avanzate, nelle quali ci si pone principalmente la questione (politica) di migliorare le condizioni delle classi economicamente svantaggiate, provvedendo ad esse alcuni servizi essenziali alla persona. Sono società che, storicamente, non hanno assegnato altrettanta attenzione all’immensa povertà, di cui le malattie sono largamente espressione, diffusa nel resto del mondo, tra popolazioni ampiamente maggioritarie nel globo (sul piano numerico). La priorità non solo degli aiuti alle popolazioni povere di altri Paesi, ma anche delle politiche economiche per il loro sviluppo, è stata assai bassa presso le società avanzate. Oggi, nella globalizzazione, le società tradizionalmente avanzate sono costrette a confrontarsi con movimenti politici, e anche religiosi, affermatisi nel consenso delle popolazioni di quelle grandi aree geografiche, che rivendicano sostanziali cambiamenti degli equilibri mondiali. La disuguale distribuzione geografica delle materie energetiche e primarie, e l’emergere di nuovi Stati capaci di tassi assai elevati

51 Cfr. Stornaiuolo (2005), pp. 63-65, che in particolare richiama le tesi espresse da Sen (nei lavori già citati). 52 Nel mondo contemporaneo sono sotto gli occhi di tutti le scelte di priorità di Stati, organizzazioni e movimenti, politici e/o religiosi, che ritengono conforme ai loro fondamenti ideologici l’elevata priorità della loro organizzazione collettiva, e anche il sacrificio di vite umane, se esso risponde agli obiettivi di difendere la propria organizzazione, di preservare l’identità culturale e/o religiosa, di affermare la loro posizione dominante in certi ambiti territoriali (e spesso di espanderli). Tali ideologie, ben presenti, attive ed estese nel mondo contemporaneo assegnano al “diritto di cittadinanza” significato profondamente diverso da quello impiegato da altri studiosi di scienze sociali che hanno voluto, piuttosto, enucleare i bisogni primari della singola persona, la cui soddisfazione dovrebbe essere in ogni evenienza – come nel caso della malattia – garantita dallo Stato su basi universalistiche. Trattasi di scelte ideologiche (giudizi di valore) non oggettivamente confrontabili, non essendovi un metro morale per misurarle e compararle.

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di sviluppo economico, restringono ulteriormente i margini della tradizionale forza e sicurezza delle società già sviluppate. Sono ancora feconde, o non invece almeno in parte datate, le teorie morali sull’“equità” sostanzialmente riferite all’interno delle società economicamente e socialmente avanzate (nei loro confini, come se “la giustizia sociale” consistesse nel creare nel mondo “oasi felici”), tesi che si sono affermate nella seconda metà del secolo scorso, e da cui sono scaturiti anche i principi equitativi qui considerati?53

5. Prestazioni commisurate ai bisogni e “razionamento” Ma anche limitando l’analisi a un singolo paese, le implicazioni

dell’affermazione, che le politiche sanitarie devono essere legate ai “bisogni”, possono risultare ambigue o non facilmente interpretabili. Ogni operatore sanitario, e ogni malato, intenderebbero il termine “bisogni” in senso estensivo e qualitativamente eccellente, riferito anche agli ultimi ritrovati della scienza diagnostica e terapeutica in campo internazionale – che sono di norma i più costosi (così come lo sono gli accessi a centri di cura esteri noti per eccellenza e avanguardia). Inoltre, il migliore trattamento ambientale del malato (che tocca anche la componente psichica) non è necessariamente un “lusso”, perché da tempo la ricerca ha stabilito che le condizioni ambientali (strutture di ricezione, disponibilità del personale, ecc.) e le attenzioni allo stato psichico hanno effetti significativi sulle capacità di reazione alle cure e di recupero del malato54.

Ma, quando la collettività, attraverso i suoi organi di rappresentanza e decisione politica, afferma la necessità di “razionare” le risorse pubbliche destinate alla sanità55, inevitabilmente si erodono i contenuti di universalità del sistema sanitario pubblico orientato ai “bisogni”, secondo le implicazioni dei principi equitativi qui esaminati. Si apre, infatti la strada all’attuazione di un secondo sistema di prestazioni sanitarie, operante a livello qualitativo più

53 L’esigenza di considerare, nella sanità, i “diritti di cittadinanza” ad un livello sopranazionale è sostenuta, limitatamente all’Unione Europea (almeno sul piano operativo) da Fiorentini (2003), pp. 387-388. 54 La medicina orientale, in particolare, ha sempre sostenuto che le terapie devono assumere che la salute della persona è la risultante non solo dei costituenti organici ma anche del loro intreccio con quelli psichici. In una recente intervista Salem (Stati Uniti), uno dei più famosi oncologi in campo mondiale, ha affermato che il rapporto medico-paziente è di importanza fondamentale per il successo delle cure delle affezioni tumorali. 55 Il razionamento delle risorse dedicate alla sanità è divenuto, negli anni recenti, questione centrale nelle esperienze dei paesi anche con più consolidata tradizione del modello pubblico “Beveridge”, e con livelli relativamente elevati del reddito pro-capite: cfr. ad esempio Anell (2005) per la Svezia, Oliver (2005) per l’Inghilterra; e cfr., altresì, WÖrz , Busse (2005) e Graf von der Schulenburg (2005) per la Germania, dove è prevalso storicamente il modello “Bismark”.

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alto di quello pubblico (e con ulteriori livelli di eccellenza), riservato a chi ha le possibilità (e volontà) di pagarne i costi (e i margini di profitto).

Invero, i sostenitori dei principi equitativi che implicano il servizio sanitario pubblico universale commisurato ai bisogni, quando sono costretti a lavorare sull’ipotesi del razionamento delle risorse pubbliche dedicate al servizio, generalmente ripiegano sulla nozione di prestazioni sanitarie essenziali56, ovvero le prestazioni che, per quantità e qualità, siano sufficienti a garantire le capacità di ciascuno a vivere e, possibilmente, partecipare attivamente alla vita sociale. Ma, al momento di rendere tale nozione operativa nella definizione della politica sanitaria concreta, emergono ambiguità e dubbi, perché:

- la specificazione delle “prestazioni essenziali” è riferibile a un determinato momento storico, mentre essa cambia (ormai rapidamente) nel tempo con il progresso delle ricerche, delle loro applicazioni pratiche, della diffusione internazionale dei loro risultati; i “vintages” più recenti sono, anche, quelli più costosi, sicché nella realtà essi coesistono con terapie meno costose studiate ed introdotte in periodi precedenti; quando, in regime di razionamento, le terapie meno costose sono attribuite al campo dei “livelli essenziali di prestazioni”, si distorcono le finalità proprie dei principi equitativi qui considerati;

- la definizione di “prestazioni essenziali”, in situazione di razionamento delle risorse disponibili, tende a far privilegiare, da parte degli operatori sanitari, le terapie finalizzate al mantenimento della vita, rispetto agli interventi finalizzati alla riabilitazione necessaria al reinserimento pieno nelle attività produttive e sociali57; inoltre, il “focus” sul pericolo di vita in un dato momento trascura il fatto che le carenze di talune prestazioni in tempi precedenti può avere provocato il pericolo di vita medesimo;

- il razionamento produce spesso (come testimoniato dalle esperienze anche attuali di molti paesi) la formazione di liste d’attesa lunghe rispetto ai “bisogni” dei malati. Si è cercato di superare la difficoltà formulando criteri di priorità nei tempi di servizio delle prestazioni essenziali: tali criteri, oltre a privilegiare l’urgenza dell’intervento

56 Nell’ampio dibattito che si svolge in tutti i paesi sul significato da attribuire alle “prestazioni essenziali” mi limito ad alcune citazioni di studi italiani recenti: Falcitelli, Trabucchi, Vanara (2003), p. 14; Fiorentini (2003), pp. 390-391; France (2003), pp. 269-ss.; Stornaiuolo (2005), pp. 62-66; Torbida, Fattore (2005). E cfr. OECD (2004 a e 2004 b). Considero più avanti le osservazioni innovative di Petretto (2000). 57 Inoltre le affezioni dolorose, ad es. alla testa, all’apparato dentario, alle articolazioni, disturbi del sonno, nervosi, psicosomatici e simili, che non mettono in pericolo la vita, possono però compromettere le capacità lavorative se non affrontate adeguatamente e per tempo. Le terapie sintomatiche di larga diffusione (con capacità sedative) hanno spesso controindicazioni sullo stato di salute soprattutto se utilizzate per periodi lunghi.

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riferito al pericolo di vita, lasciano ampi spazi, nei casi concreti, alla discrezionalità (e aprono spazi, purtroppo, alle prassi dei “favori personali”, che si riproducono in reti di sostanziale partecipazione di molti, quindi difficili da scalfire, nei fatti, con regolamentazioni sui criteri di priorità temporale)58. In particolare liste di attesa lunghe nelle fasi delle analisi iniziali di controllo e diagnosi precoce, possono produrre danni successivi irreparabili, poiché quando la patologia si conclama le cure potrebbero risultare tardive;

- sotto razionamento, l’applicazione delle direttive per le prestazioni a livello essenziale può penalizzare le condizioni ambientali di offerta delle prestazioni e le attenzioni allo stato psichico del malato;

- infine, il razionamento delle risorse umane impiegate nel settore sanitario (e delle loro retribuzioni) comporta tendenzialmente un peggioramento della qualità delle prestazioni, più lunghi tempi di attesa della diagnosi e delle terapie, peggiori condizioni ambientali, più bassa attenzione alle esigenze strettamente personali del malato.

In sintesi vi è la presunzione che l’impiego della nozione di “prestazioni essenziali”, sotto razionamento, spacchi in due il campo delle prestazioni sanitarie. Il servizio pubblico universale offrirebbe interventi finalizzati al mantenimento della vita umana, talora però in ritardo rispetto ai tempi necessari e possibili se le diagnosi fossero state tempestive. Peraltro, gli effetti negativi del razionamento inciderebbero sulle condizioni ambientali, sulle attenzioni personali al paziente, sull’utilizzo delle terapie più recenti e sull’attività complessiva di cura verso la riabilitazione piena alla vita attiva. Le persone aventi possibilità economiche adeguate sarebbero spinte verso forme di offerta privatistiche.

Tale situazione di sostanziale spaccatura del servizio sanitario è esplicita in alcuni Paesi, come negli Stati Uniti59, ma è nei fatti realizzata anche in molti altri Pesi che hanno, invece, puntato strategicamente al modello del servizio sanitario pubblico e universale, lasciando tuttavia spazi significativi che, in condizioni di razionamento delle risorse assegnate al servizio pubblico, sono stati fruttuosamente occupati dall’offerta privata (ancorché regolata dallo Stato) che, ai prezzi di mercato, meglio soddisfa esigenze ed attese del malato che può pagare (e degli operatori sanitari che ne interpretano i bisogni) – tali spazi per l’offerta privata, si può osservare, difficilmente sono eliminabili nelle società pluraliste che riconoscono, anche costituzionalmente, legittimità e rilievo alle iniziative private e al libero mercato60.

58 OECD (2004 b) spec. cap. 5. 59 Cfr. ad es. lo studio della Kaiser Family Foundation (2003) e Marmor, McKissick (2000). 60 OECD (2004 a), cap. 2 e OECD (2004 b), cap. 6; France (2003), p. 278.

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Se non si riesce ad impedire, o almeno a limitare significativamente, tale spaccatura nel sistema sanitario – come indicherebbero le esperienze osservabili (sull’argomento si torna più avanti) –, l’enunciazione dei principi equitativi, che conducono ad affermare la superiorità del servizio sanitario pubblico universale, diviene almeno in parte astratta, e può, nelle concrete formulazioni delle politiche sanitarie, distorcere talune scelte verso risultati incompatibili con i medesimi principi che si vorrebbero applicare. Inoltre, la spaccatura del sistema sanitario in una componente pubblica, finanziata dalla generalità dei cittadini, e una componente privatistica pagata dagli utenti (o loro assicurazioni) ha l’effetto negativo di diffondere nella parte di elettorato che si rivolge, significativamente, alle prestazioni privatistiche, ostilità (politica) verso gli stanziamenti di bilancio (pagati da tutti i contribuenti) in favore della sanità pubblica, così ampliando ulteriormente la spaccatura tra le due parti del sistema.

Nel passaggio dalle enunciazioni dei principi equitativi generali alle loro concrete applicazioni si sono, inoltre, riscontrate nelle esperienze, difficoltà a controllare e stimolare la gestione efficiente (nel senso della “x efficiency”)61 dell’offerta pubblica del servizio sanitario. La questione ha evidente rilievo nelle politiche di contenimento della spesa sanitaria (“razionamento”). Tali difficoltà sono riconducibili alla natura del “rapporto di agenzia” tra le Amministrazioni pubbliche che sovrintendono al e finanziano il servizio, e gli operatori sanitari specializzati, che interpretano i “bisogni” di chi si dichiara malato (o sospetti malati), decidono le prestazioni e quindi gli acquisti di farmaci, articoli sanitari, attrezzature e loro uso, e l’utilizzo delle strutture di cure e ricovero e delle risorse umane addette al loro funzionamento. Le difficoltà sono, per alcuni aspetti, complicate dal fatto che nel servizio sanitario pubblico gli operatori sanitari (medici, paramedici, amministrativi ed altri) hanno spesso con l’Amministrazione un rapporto di lavoro dipendente, sicché le politiche verso le retribuzioni e la produttività del personale sfuggono, almeno in parte, alle competenze effettive dell’Amministrazione sanitaria divenendo parte del processo generale di contrattazione sindacale dei rapporti di lavoro (come è noto, le organizzazioni sindacali sono, in linea di principio, contrarie o diffidenti verso politiche del lavoro settoriali che non siano adeguatamente integrate nel quadro generale della politica del lavoro). Data la delicatezza e l’importanza del rapporto personale tra operatore sanitario (di tutti i livelli) e malato, vi sono limitazioni che i sindacati, ragionando nel quadro generale, pongono ai controlli e alle decisioni sulla produttività e la flessibilità di utilizzo del fattore lavoro, nel settore sanitario, tali da condizionare qualità ed efficacia delle prestazioni o tali da richiedere, in alternativa, abbondanza di impiego di personale, che può urtare contro i vincoli finanziari imposti dai razionamenti

61 Leibenstein (1966).

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del bilancio pubblico. Inoltre, il rapporto di lavoro dipendente instaurato dal servizio sanitario pubblico con il personale medico ovunque ha posto i problemi dell’esclusività, oppure no e a quali condizioni, di tale rapporto rispetto all’eventuale esercizio aggiuntivo di lavoro autonomo (problemi di orari e collegabile remunerazione, di utilizzi delle strutture, di gestione dei rapporti fiduciari con i clienti tra i due settori alternativi di offerta delle prestazioni, ecc).

In conclusione, l’enunciazione dei principi “etici” sull’uguaglianza sociale che postulano l’offerta delle prestazioni sanitarie a tutti i cittadini (e ai residenti, o anche temporaneamente presenti nel territorio), in relazione unicamente al loro stato di “bisogno” di tali prestazioni , si può dire rappresenti, storicamente, una presa di coscienza collettiva, avvenuta almeno nei Paesi economicamente più avanzati, sul diritto primario di tutti alla vita e alla partecipazione attiva all’organizzazione sociale. Come ho già osservato, mantenendosi sul terreno dei principi generali si dovrebbe però anche sostenere che l’affermazione di tali principi riservata ai Paesi avanzati toglie loro la generalità che dovrebbe essere intrinseca ad essi, poiché non pone la questione dell’estensione di tali principi alla parte numericamente più estesa dell’umanità, la cui salute è pregiudicata già dalla denutrizione e dal degrado ambientale e sociale, oltre che dalle carenze delle prestazioni sanitarie62. Il richiamo a principi “etici”, che intrinsecamente trascendono il contesto politico temporale e territoriale, ha significato (si accettino oppure no tali principi) se essi dichiarano valenza per l’umanità intera, non per frazioni dell’umanità.

Ma le maggiori difficoltà si incontrano nel passaggio dalle enunciazioni dei principi generali “etici” sull’“equità” alle formulazioni delle concrete politiche sanitarie che dovrebbero dare attuazione a tali principi. Ho, sopra, indicato le ragioni per ritenere che il riferimento al “bisogno”di salute è ancora troppo generico ed astratto per offrire indicazioni operative alle politiche sanitarie63, soprattutto in regime di razionamento delle risorse destinabili alla sanità, rispetto agli impieghi alternativi pubblici e privati. Il pluralismo che caratterizza le società fondate sulla democrazia elettorale, e

62 Sotto il profilo economico la questione solleva il dubbio se sia analiticamente (e “moralmente”) corretto affrontare il tema del razionamento delle risorse destinate dal bilancio pubblico alla sanità nel singolo Paese avanzato, senza considerare contestualmente il razionamento delle risorse pubbliche destinate ad aiuti ai Paesi sottosviluppati. Il riferimento ai “diritti di cittadinanza”, in un mondo di grandi squilibri tra Stati di aree geo-economiche differenti e di emergenti problematiche e conflittualità circa gli impetuosi flussi migratori dai Paesi sottosviluppati a quelli più prosperi, rischia di assumere significato ambiguo. 63 Il riferimento al bisogno mantiene valenza “politica” a significare, nel dibattito, che non si accetta il collegamento della offerta dei servizi sanitari alle scelte “sovrane” del consumatore circa le destinazioni del suo reddito disponibile, e sotto il suo vincolo di bilancio. Peraltro, anche in questi termini, occorre osservare che altri criteri, differenti dal bisogno, sono stati proposti a guida delle politiche sanitarie (come si esamina nei paragrafi successivi).

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che legittimano l’economia di mercato mossa principalmente dalla libera iniziativa privata, pone seri dubbi sulla praticabilità e funzionalità di un servizio sanitario pubblico veramente universale. Se l’universalità è riferita soltanto all’insieme delle prestazioni sanitarie “essenziali”, il suo contenuto “etico”, come principio di equità sociale, tende a ridursi, e fa invece riemergere il problema della distribuzione ( e redistribuzione) dei redditi monetari (chi può pagare le superiori prestazioni del sottosistema sanitario privatistico).

La definizione concreta dei “bisogni”, e quella delle gestioni efficienti (x-efficiency”) dei servizi apre un vasto campo di dibattito sui rapporti di agenzia, tra Amministrazioni pubbliche, medici, imprese produttrici di prodotti farmaceutici e altri beni per la salute. Infine, essendo il settore sanitario intrinsecamente caratterizzato da relativamente alta intensità di lavoro, e dal servizio alla persona, si aprono delicate questioni riguardanti i necessari collegamenti delle politiche per il personale con le politiche generali del lavoro.

Tali numerose e complesse questioni e difficoltà richiedono analisi e criteri di valutazione non contenibili nei citati principi equitativi di carattere generale anche da chi, con giudizio di valore, privilegia moralmente tali principi.

6. Il tempo di riferimento dell’intervento pubblico per la salute: le determinanti socio-economiche della domanda di prestazioni sanitarie

Le analisi sul servizio sanitario tendono a concentrarsi sulla fase curativa;

tende spesso ad essere trascurata (come ho annotato) la fase della prevenzione e dei controlli finalizzati alla diagnosi precoce. Peraltro, il tempo di riferimento dell’intervento pubblico finalizzato al “bene salute” dovrebbe essere spostato ancor più all’indietro se si accolgono le tesi relative alle determinanti socio economiche delle condizioni di salute64.

Infatti, negli studi sulle cause determinanti le situazioni di perdita della salute, è emersa secondo diversi autori, la significatività causale delle variabili socio economiche, che influenzerebbero le condizioni di salute dei componenti le popolazioni65. Tale relazione causale appare intuitiva, poiché

64 La medesima argomentazione vale per l’intervento pubblico preventivo nei settori dell’ambiente, della sicurezza sul lavoro e stradale, della prevenzione delle attività e dei comportamenti rischiosi, dei controlli delle produzioni alimentari, delle campagne informative e preventive circa gli “stili di vita” e la periodicità dei controlli: cfr. le puntuali considerazioni di OECD (2004 a), cap. 1. 65 Cfr. Brenna (2004) e la bibliografia ivi contenuta; OECD (2004 b), cap. 3; OECD (2004 a), pp. 50-ss.

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la povertà (misurata anzitutto dal reddito pro-capite) comportando malnutrizione (per quantità e qualità), maggiore propensione al tabagismo, alcolismo e droghe, scarsa cultura della prevenzione sanitaria, vita in ambienti più inquinati, “stress psicosociale”, maggiore sforzo fisico nel lavoro, insufficiente cura dei minori (i più esposti a comportamenti a rischio per la salute), pone condizioni di più facile disposizione alle malattie.

Gi studi empirici, ormai numerosi, compiuti per singoli Paesi e per confronti internazionali, hanno trovato evidenza della relazione causale tra gli indicatori delle condizioni socio-economiche e quelli della salute assai più chiara e significativa nei Paesi sottosviluppati (anche perché in molti di tali Paesi il reddito pro-capite disponibile condiziona ancora largamente l’accesso ai servizi sanitari medesimi). Rispetto ai Paesi industrializzati, invece, le analisi hanno raggiunto risultati discordanti o di incerta interpretazione66. Sintetizzando, alcuni autori mantengono la tesi che i livelli assoluti del reddito pro-capite influenzano significativamente le condizioni di salute, ovvero che il permanere, anche nelle società complessivamente più avanzate, di classi sociali a reddito basso, comporta per esse peggiori indicatori di salute rispetto a quanto riscontrabile presso le classi medio-alte di redditieri. Le analisi di tali autori sono state, da altri, sottoposte a critiche e qualificazioni, sia riguardo alla significatività degli indicatori dello status socioeconomico in esse impiegati, sia riguardo alla specificazione della relazione causale. Si è, infatti, osservato che lo stock iniziale di salute può esso stesso influenzare le condizioni socio-economiche della persona, causa le maggiori spese per ripristinare la salute e la minore capacità di guadagno, sicché la relazione causale andrebbe formulata anche nel senso inverso67. Si è sostenuto che il reddito familiare disponibile influenzerebbe le condizioni di salute nell’infanzia e nella prima parte dell’età adulta della persona, ma che nella seconda parte della vita (pur non essendo individuabile con precisione il momento della svolta temporale) le condizioni di salute diverrebbero esse fattore causale significativo delle condizioni socio-economiche della persona, influenzando le sue capacità di guadagnare reddito e accumulare risparmi.

Un’altra linea di critica alla tesi della dipendenza causale dello stato di salute dallo status economico è stata sviluppata da autori che ritengono, invece, che sia la distribuzione del reddito disponibile all’interno della società (piuttosto che i livelli assoluti del reddito) ad influenzare gli indicatori della salute. La spiegazione risiederebbe, sostanzialmente, nello “stress psicosociale”, cioè nel malessere psicologico diffuso tra le fasce più basse dei redditieri in quanto alimentato dal confronto continuo con lo status socio-economico più elevato delle altre categorie di cittadini68. Inoltre, i sostenitori

66 Cfr. Brenna (2004). 67 Cfr. Smith (1999). 68 Brenna (2004), pp. 39-ss.

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di tali tesi osservano che nelle società industrializzate che presentano le più forti disuguaglianze distributive, le risorse pubbliche destinate alle spese per il “welfare” generalmente sono, quasi definizionalmente, relativamente inferiori nei confronti delle società che evidenziano minori disuguaglianze economiche. Pertanto, le maggiori sperequazioni tra i livelli di reddito disponibile in alcuni Paesi sarebbero generalmente associate a politiche sociali – verso la sanità, il degrado ambientale, la disoccupazione, l’istruzione – meno estese e meno efficaci.

In conclusione, la tesi del “reddito relativo”, contrapponendosi a quelle del “reddito assoluto”, punterebbe l’attenzione sulla relazione causale tra le distribuzione del reddito (variabile esplicativa) e gli indicatori dello stato di salute. Anche tale tesi è stata, però, oggetto di critiche sia metodologiche – attinenti in particolare ai dati impiegati per rappresentare la distribuzione del reddito – sia concettuali69. Si segnala la critica che le analisi sull’influenza esercitata dalla distribuzione sperequata del reddito in alcune società in realtà avrebbero catturato l’effetto della presenza, in tali società, di un numero elevato di persone con basso reddito, nella sostanza catturando l’effetto (negativo) aggregato dei bassi redditi assoluti individuali sugli indicatori delle condizioni di salute70.

Le implicazioni delle due differenti tesi per gli obiettivi delle politiche della salute sono, evidentemente, differenti. La tesi che sono i differenziali di reddito disponibile, piuttosto che i livelli assoluti, a influenzare lo stato di salute implica che (anche) agli obiettivi della salute dovrebbero essere motivate politiche fiscali redistributive (con le entrate e le spese), politiche dei redditi e del lavoro finalizzate a restringere i ventagli retributivi, politiche di controllo dei prezzi dei beni e servizi di largo consumo, politiche per la piena occupazione e per la mobilità sociale. La tesi che ad influenzare lo stato di salute sono i livelli assoluti del reddito disponibile71 implica d’altra parte politiche focalizzate a migliorare le condizioni economiche delle fasce più povere della popolazione, accompagnate da programmi di informazione sui comportamenti a rischio e di prevenzione specifica, rivolti a tali fasce povere ed emarginate; e da politiche di risanamento urbano ed abitativo.

Si potrebbe osservare che, guardando alla sostanza degli interventi, molti di quelli adatti a perseguire il miglioramento della distribuzione (livelli relativi) dei redditi individuali conseguono anche il risultato di migliorare i livelli assoluti dei redditi delle classi povere, e viceversa. Potrebbe, perciò, sembrare che la contrapposizione tra le due tesi perda significato nelle politiche concrete; invece è rilevante il fatto che le due tesi rispecchiano due

69 Brenna (2004), pp. 42-43, e gli autori ivi citati. 70 Lynch (2000 e 2001). 71 OECD (2004 a).

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concezioni differenti dei processi dello sviluppo economico, la cui contrapposizione ha posizione centrale nella teoria economica.

Una scuola di pensiero sostiene che la riduzione delle disuguaglianze distributive non danneggia lo sviluppo economico ma, al contrario, lo favorisce (lo sviluppo si pone in una prospettiva di medio – lungo periodo), perché: riduce i costi economici della conflittualità distributiva, in particolare incentivando la produttività del lavoro; inoltre stimola le imprese a ricercare maggiore efficienza interna, innovazioni e progresso tecnologico così da finanziare, con i guadagni di produttività media, i maggiori redditi reali distribuiti ai redditieri della parte inferiore della distribuzione72, realizzando più alti tassi di sviluppo. L’altra scuola di pensiero sottolinea, invece, gli effetti negativi che politiche redistributive di ampia portata possono produrre sugli incentivi a lavorare, a risparmiare, e soprattutto ad assumere i rischi e le fatiche dell’attività di impresa (soprattutto delle iniziative più rischiose che maggiormente incidono, quando hanno esiti favorevoli, sul tasso di sviluppo). Nell’attuale contesto della globalizzazione, si sottolinea inoltre che i costi principali delle politiche redistributive dovrebbero essere addossati a redditi di impresa, di capitale, del lavoro più qualificato e specializzato, ovvero di quelle categorie di reddito che attualmente possono “difendersi” dall’imposizione degli oneri redistributivi spostandosi nei Paesi dove quegli oneri sono significativamente inferiori (ad es. più bassa fiscalità).

Se si ritiene che siano i livelli assoluti di reddito reale disponibile a influenzare le condizioni individuali di salute, si offre motivo per rafforzare strumenti e incentivi a che i redditieri poveri conseguano un miglioramento della loro situazione economica (con effetto positivo sul tasso di sviluppo del sistema). E soprattutto, puntando a politiche per lo sviluppo si salvaguardano gli incentivi presso i redditieri medio-alti ad assumere iniziative e a risparmiare, mentre i loro livelli di reddito non influenzano, nell’ipotesi, le condizioni di salute dei poveri; consentendo al sistema, rispetto all’ipotesi di strategie fortemente redistributive, più elevati tassi di crescita complessiva. Questi genererebbero risorse addizionali di cui beneficerebbero, con miglioramento economico (assoluto), anche le classi povere, incidendo così positivamente sul loro stato di salute73. E’ evidente che l’analisi della contrapposizione tra le due tesi sulle determinanti socio-economiche della salute conduce al centro del dibattito generale di teoria e di politica economica sulla relazione tra distribuzione, incentivi, sviluppo.

Lo studio delle determinanti socioeconomiche dello status di salute pone inoltre in una luce nuova l’acceso dibattito, nella scienza delle finanze, sui meriti relativi della distribuzione in moneta rispetto a quella in natura, qui nel campo sanitario. Entrambe le tesi ora esaminate sulle determinanti socio-

72 La tesi è già compiutamente espressa ad es. in Robinson (1956). 73 Evans (2002).

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economiche della salute implicano politiche per aumentare il reddito delle classi povere, e la tesi del “reddito relativo” espressamente postula la redistribuzione monetaria. Esse chiariscono che la scelta tra la redistribuzione monetaria, che permette anche ai meno abienti di assicurarsi verso le spese sanitarie, oppure l’offerta pubblica (gratuita per tutti) di prestazioni sanitarie74, attiene al momento dell’attività di cura (in senso lato) del malato: mentre, le tesi sulle determinanti socioeconomiche (modificabili dalla redistribuzione monetaria) della salute affermano le rilevanza dei redditi disponibili, assoluti o relativi, nel determinare lo stato di salute, cioè attengono al momento della prevenzione delle cause di malattia.

Gli studi sulle determinanti socioeconomiche delle condizioni di salute, ancorché fino ad ora non conclusivi, hanno infine il pregio di richiamare l’attenzione degli studiosi del settore sanitario sulle interrelazioni tra le variabili e quindi sulla importanza del quadro teorico di riferimento. Nel precedente paragrafo ho messo in evidenza che l’applicabilità dei principi generali equitativi alla sanità trova un difficile ostacolo nelle situazioni (che sono normali, nella realtà) di obbligato razionamento delle risorse, che non sono sufficienti a soddisfare tutti i molteplici desideri (“bisogni”), privati e pubblici. Le analisi sulle cause delle malattie necessariamente allargano il campo su cui operare le scelte di priorità (per attuare il razionamento), dalla fase in cui si somministrano le prestazioni curative a quella, logicamente antecedente, in cui si affrontano tali cause di perdita della salute. Si potrebbe ritenere, in prima approssimazione, che assegnare più elevata priorità, nella ripartizione delle risorse, alla fase curativa rispetto a quella preventiva premia i malati attuali rispetto ai potenziali malati futuri (una scelta di tipo generazionale); ma questo non è necessariamente vero. Se si prendono per validi i risultati delle citate analisi, che affermano una significativa dipendenza causale delle condizioni di salute dalle variabili socioeconomiche, occorre dedurre che gli attuali malati, appartenenti alle classi economiche soggette al maggior rischio della salute, successivamente alla guarigione tecnica nuovamente incorreranno in più elevati rischi di malattia (o non avranno un ristabilimento pieno della salute), perché nuovamente sperimenteranno gli effetti negativi delle insoddisfacenti loro condizioni socioeconomiche75.

74 Cfr. Morea (2006) e gli autori ivi citati. 75 Nelle normali (in realtà) condizioni di razionamento delle risorse, rispetto all’insieme degli impieghi che risponderebbero alle potenziali domande, le scelte di priorità non appaiono riferibili al concetto generico di “bisogno” di salute; le scelte di priorità relative alla allocazione delle risorse per la salute dovrebbero essere compiute in un progetto specifico di tutela della salute fondato su ipotesi – nella gran parte ancora aperte al dibattito – riguardo un insieme complesso di relazioni, di cui è parte la definizione della variabili esplicative delle condizioni di salute.

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7. L’offerta sanitaria: il ruolo dell’assicurazione privata La dottrina prevalente, nella teoria economica, sostiene che il sistema

dell’economia di mercato è superiore rispetto ai modelli alternativi; pertanto, essa “giustifica” l’intervento pubblico o in relazione ai casi di “fallimento del mercato” nel realizzare l’allocazione efficiente delle risorse, o in relazione a decisioni redistributive. Applicando tali indicazioni normative, la teoria ha rilevato che, essendo la domanda di prestazioni per la salute intrinsecamente saltuaria ed aleatoria, nella logica del mercato la sua soddisfazione deve avvenire attraverso il mercato assicurativo. Ma, le analisi dei caratteri e del funzionamento del mercato assicurativo hanno messo in luce limiti ed insufficienze della sua adattabilità a soddisfare la domanda delle prestazioni sanitarie76.

Se le imprese di assicurazione cercano di classificare i rischi in base a caratteristiche osservabili, quali ad es. l’età, esse tendono ad escludere dalla copertura (perché la probabilità dell’evento è vicina all’unità, o perché il premio calcolato diviene eccessivo per l’assicurato ) alcune fasce della popolazione. Inoltre, in situazioni di mercato non perfettamente concorrenziali, le imprese assicuratrici private saranno spinte a ricercare i rischi migliori, così da migliorare le loro prospettive di rendimento sul capitale investito nell’impresa (“cream-skimming”). A tali ipotesi di “selezione avversa”, si aggiunge quella dell’”azzardo morale”, quando i pazienti, con il concorso tecnico (o per iniziativa) dei medici fanno ricorso a prestazioni sanitarie, pagate dall’assicurazione, il cui costo eccede quello che corrisponderebbe a valutazioni leali (sovraconsumo, ecc.). Infine, il mercato assicurativo potrebbe generare offerta incompleta sotto il profilo territoriale, perché la diffusione della popolazione nel territorio potrebbe richiedere un’estesa articolazione territoriale dei centri di offerta, tale da rendere non profittevoli i centri di offerta localizzati nelle zone a più bassa densità abitativa (essendovi limiti di capacità dei beneficiari di pagare i premi assicurativi corrispondenti ai più alti costi).

Riconosciuti tali limiti ed insufficienze del mercato assicurativo privato, per la copertura dei rischi della salute, la dottrina ha evidenziato le 76 In particolare, tali limiti ed insufficienze sono state ricondotte a specifici caratteri della domanda e dell’offerta dei servizi sanitari: il rischio di eventi le cui probabilità non sono indipendenti (le epidemie, e il rischio economico dell’inflazione), tali che possono rendere assai ampia la variabilità dei profitti attesi per le società assicurative; – il rischio di eventi le cui probabilità sono vicine all’unità (malattie ereditarie e congenite) – la suddivisione della popolazione in classi (soprattutto di età) aventi differenti probabilità di ammalarsi (come gli anziani); – l’esistenza di asimmetrie informative, sia a svantaggio del consumatore, che non ha la competenza per valutare la qualità del servizio offerto, sia a svantaggio delle imprese assicuratrici che non hanno la capacità di valutare gli assicurati in base al grado di rischio – le esternalità, che non sono correttamente incluse nelle contabilità private: cfr. Artoni (1999), cap. 11.

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corrispondenti “giustificazioni” dell’intervento pubblico correttivo. La regolamentazione pubblica, nelle proposte e nelle concrete politiche dei Paesi avanzati, si è sviluppata in alcune direzioni. Riguardo all’asimmetria informativa avversa al consumatore, ovunque si è predisposta una protezione quanto alla qualità della prestazione offerta, ponendo requisiti di legge per l’esercizio della professione medica, per la tenuta della strutture ospedaliere e ambulatoriali, per il controllo della composizione dei farmaci e della qualità delle attrezzature, strumenti e beni di utilizzo sanitario. Ovunque si sono stabilite regole di deontologia, con la presenza degli ordini professionali, e si sono regolati i limiti della concorrenza tra gli operatori sanitari (anche se con varietà di scelte e procedure nei diversi Paesi).

Il limite più importante (e preoccupante) dei mercati assicurativi privati è certamente rappresentato dalla loro tendenza all’esclusione di fasce significative della popolazione dalla copertura dei rischi della salute (come nei casi sopra ricordati della non indipendenza dei rischi e quelli in cui la probabilità degli eventi rischiosi si approssima all’unità). In generale, l’ipotesi della selezione avversa spiega perché le imprese assicuratrici, non essendo in grado di distinguere il rischio individuale alle malattie, si cautelino escludendo dalla copertura classi di cittadini che, per alcune caratteristiche e per l’esperienza parrebbero a più elevato rischio (anziani, malati cronici, con stili di vita a rischio e appartenenti ad ambienti degradati ed emarginati, ecc.); o ponendo, alternativamente, per essi condizioni di pagamento (premi) così elevati da escluderli di fatto da tale copertura. Inoltre, la copertura assicurativa può essere preclusa a classi della popolazione per motivi di reddito, ovvero per incapacità dei più poveri di pagare i premi assicurativi anche se determinati correttamente sotto il profilo attuariale: in tale caso la questione della distribuzione del reddito diviene direttamente l’obiettivo dell’intervento pubblico.

Nel dibattito internazionale sulle politiche sanitarie, il tema dell’intervento pubblico nei confronti delle suesposte ipotesi di insufficienza dei mercati assicurativi privati è stato centrato prioritariamente sull’obiettivo dell’accesso di tutti i cittadini alle prestazioni sanitarie essenziali, offerte in relazione al bisogno di cure77, e quindi sulla compatibilità di tale obiettivo con la presenza di un esteso sistema assicurativo privato.

Il dibattito è tutt’altro che confinato al confronto teorico, poiché ancor oggi l’assicurazione sanitaria privata rappresenta l’unica forma di copertura sanitaria per segmenti significativi della popolazione negli Stati Uniti, in Germania e in Olanda; mentre in Irlanda, Spagna, Australia e Regno Unito (mi limito qui a considerare i Paesi OECD) l’assicurazione sanitaria privata offre agli assicurati un’alternativa alla copertura pubblica con carattere sostitutivo oppure complementare; in altri Paesi, come in Francia,

77 OECD (2004 a), cap. 2.

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l’assicurazione privata serve a completare i rimborsi parziali offerti, per talune prestazioni, dal sistema pubblico; e nella generalità dei Paesi le assicurazioni private coprono servizi non coperti dai programmi pubblici (in particolare, le prestazioni considerate “non essenziali”)78. Le tendenze degli anni recenti mostrano che l’espansione del sistema dell’assicurazione sanitaria privata è stata consistente in Paesi (e periodi) in cui vi è stata forte crescita economica, o dove lo Stato è intervenuto attivamente per promuovere l’assicurazione sanitaria privata. Il primo esempio è riferito particolarmente all’esperienza dell’Irlanda, dove l’assicurazione sanitaria privata è cresciuta dal 22% della copertura del 1979 al 48% nel 2002, “nonostante l’espansione nella generosità della copertura pubblica”79. Il secondo esempio è riferito all’Australia, dove la riforma del 1984 che ha introdotto l’assicurazione sanitaria pubblica universale ha nei primi anni sensibilmente diminuito la quota degli assicurati privatamente; ma, dal 2000 le autorità hanno scelto l’indirizzo di sostenere e promuovere l’assicurazione sanitaria privata, con provvedimenti agevolativi specifici, così riportando la quota di copertura privata ad oltre il 40%80.

In prospettiva, vi è chi ritiene che le difficoltà di mantenere i saldi desiderati (per ragioni macroeconomiche) del bilancio pubblico, che colpiscono in varia misura i Paesi industrializzati, spingeranno altri Governi, come già quello australiano, a promuovere la diffusione dell’assicurazione sanitaria privata. Si è anche osservata la tendenza, presso i datori di lavoro di alcuni Paesi, a considerare l’opportunità per essi di entrare nell’offerta dell’assicurazione sanitaria privata81: se la tendenza dovesse affermarsi, essa potrebbe dare forte contributo all’espansione di tale settore.

Nel dibattito sulle politiche sanitarie, a fronte delle opinioni favorevoli ad espandere il campo dell’assicurazione sanitaria privata, sia per offrire (nello spirito del modello neo-classico) maggiore libertà di scelta ai consumatori, sia per introdurre o rafforzare lo stimolo concorrenziale alla maggiore efficienza del servizio sanitario pubblico, in presenza dell’alternativa privata (anche come esempio per il servizio pubblico di possibile maggiore efficienza), sia per contribuire al contenimento della spesa sanitaria pubblica, stanno tuttavia le preoccupazioni, tratte dall’analisi dei “fallimenti” del mercato assicurativo (suesposti), circa le eventuali ripercussioni negative sulle reali possibilità di accesso di tutta la popolazione a prestazioni sanitarie adeguate. L’OECD ha considerato queste preoccupazioni un tema particolarmente importante nei Paesi in cui l’assicurazione sanitaria privata svolge un ruolo primario nel finanziare certi gruppi della popolazione, ed ha

78 OECD (2004 a), p. 45. 79 OECD (2004 a), p. 67. 80 OECD (2004 a), p. 66. 81 OECD (2004 a), p.45- 46; Graf von der Schulenburg (2005).

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rilevato che “interventi di politica attiva, come la regolamentazione e i sussidi all’assicurazione sanitaria privata, possono essere usati per affrontare questi problemi”82.

In particolare, l’OECD riconosce che “l’assicurazione sanitaria privata può creare o esacerbare differenze nell’accesso alle cure tra parti della popolazione con o senza tale copertura”83, sia in ragione delle politiche di razionamento degli impieghi pubblici delle risorse nella sanità, sia come conseguenza non desiderata dell’impegno ad usare l’assicurazione privata per altri obiettivi. Il Rapporto dell’OECD segnala, riprendendo conclusioni di molti studi in materia, che gli assicurati privati potrebbero beneficiare, rispetto agli utenti del servizio pubblico, di più brevi tempi di attesa delle prestazioni; che i medici sarebbero incentivati a dedicare maggiore impegno ai pazienti finanziati privatamente; che la linea divisoria tra le prestazioni essenziali, offerte dal servizio pubblico, e le prestazioni ancillari o di “lusso”, fornite solo a chi è finanziato privatamente, nei fatti spesso si presenta incerta e di difficile individuazione84.

Tuttavia, il citato Rapporto OECD non prende una posizione definita circa i meriti e i difetti relativi del sistema di assicurazione sanitaria privata, rispetto al sistema del servizio pubblico universale: “l’assicurazione sanitaria privata, particolarmente dove essa è primaria per parti della popolazione, o offre prestazioni supplementari a una copertura pubblica relativamente generosa, non necessariamente deve creare un differenziale di accesso tra chi possiede tale copertura o ne è privo”, e cita i casi di Germania, Regno Unito e Svizzera85.

Peraltro, il Rapporto specifica che la compatibilità tra le presenza del sistema sanitario pubblico e il sistema assicurativo privato, quanto agli effetti sui differenziali di accesso a prestazioni sanitarie adeguate, molto dipende dalle capacità delle autorità di assicurare, con idonei provvedimenti regolamentari, che le strutture di offerta non discriminino – ad es. nella formazione delle liste di attesa e nella qualità dei servizi offerti – in sfavore degli utenti del servizio pubblico. I provvedimenti presi in tale senso, in Olanda, ed alcuni anche in Francia86, sono citati come buoni esempi di impegno per assicurare “equità nell’accesso” a tutta la popolazione, provvista oppure no di assicurazione privata.

Su un differente piano, si possono affrontare le preoccupazioni circa gli effetti dell’assicurazione privata sui differenziali di accesso alle prestazioni sanitarie sia con interventi pubblici specifici per alleggerire le spese

82 OECD (2004 a), p. 45. 83 OECD (2004 a), p. 52. 84 OECD (2004 a), p. 53. 85 OECD (2004 a), p. 53. 86 OECD (2004 a), p. 53; Van Doorslaer, Masseria et al. (2004).

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assicurative delle famiglie o dei “datori di lavoro – sponsor”, specialmente con riconoscimenti fiscali di tali spese, sia con le politiche fiscali generali volte a ridurre le disuguaglianze nella distribuzione dei redditi disponibili. Con l’uno e con l’altro tipo di intervento si tende ad allargare la quota della popolazione avente capacità di pagare i premi assicurativi privati, compatibilmente con la necessità di spesa per i beni e servizi di consumo familiare strettamente necessario. E’ stato sottolineato, da studi condotti per confronti internazionali, che anche l’istruzione è una variabile importante esplicativa delle “barriere non finanziarie” all’accesso alle prestazioni sanitarie, soprattutto a quelle di carattere preventivo87: si prospetta, perciò, un’ulteriore linea di intervento pubblico (informativo ed educativo) per rimuovere o ridurre tale barriera.

Sotto il profilo delle scelte di bilancio pubblico, è evidente che tutti i suindicati interventi pubblici, per favorire l’allargamento della quota della popolazione avente capacità di spesa sufficiente ad usufruire dell’assicurazione sanitaria privata, hanno un costo giustificabile, in regime di razionamento delle risorse, se e in quanto alleggeriscono corrispondemente le spese per il servizio pubblico (diminuendo la quota delle prestazioni richieste ad esso). Inoltre i sostenitori dei meriti dell’assicurazione sanitaria privata aggiungono gli ulteriori benefici sociali che conseguirebbero ad un servizio sanitario pubblico più snello, e perciò meglio controllabile dalle autorità di governo (nei rapporti di agenzia) e meglio gestibile nell’efficienza interna; ed inoltre i benefici concorrenziali dalla presenza di strutture di offerta privatistiche che stimolerebbero nelle strutture pubbliche – anche politicamente – una maggiore tensione alla qualità ed efficienza dei servizi resi88 .

Alle argomentazioni favorevoli alla presenza e, nell’attuale momento storico, all’allargamento del sistema assicurativo sanitario privato nei Paesi in cui esso è ristretto, si oppongono le tesi favorevoli, invece, al rafforzamento del servizio sanitario pubblico, cui – si sostiene – dovrebbero essere prioritamente indirizzati gli stanziamenti del bilancio, in regime di razionamento (anziché destinare fondi pubblici, anche come “tax expenditures”, al sostegno e promozione dell’assicurazione privata). Tali tesi sono esaminate nel paragrafo seguente.

87 OECD (2004 a), p. 53-ss. 88 La questione è stata tradizionalmente affrontata nel dibattito tra efficienza dell’impresa pubblica e efficienza dell’impresa privata. Nel caso specifico della sanità interessanti argomentazioni contrarie a introdurre la concorrenza nel sistema sanitario sono presentate da Artoni (1999), pp. 359-361, e considerate nel paragrafo successivo.

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8. Assicurazioni obbligatorie versus servizio pubblico Ho sopra ricordato che si ritiene che il limite maggiore dei mercati

assicurativi privati è l’insufficiente copertura sanitaria della popolazione, poiché ampie fasce, per le ragioni suesposte, si troverebbero non protette dal rischio salute, in parte per le sperequazioni esistenti, in tutte le economie di mercato oggi conosciute, nella distribuzione dei redditi e dei risparmi, in parte per l’eccessiva rischiosità e inadeguata remunerazione, per le imprese assicuratrici private, di molte posizioni individuali dei cittadini da assicurare.

La mancata (o insufficiente) copertura del rischio salute di parte della popolazione è considerata inaccettabile da quasi tutti gli autori, e soprattutto motiva la tendenza politica, affermatasi in tutti i Paesi avanzati nel ‘900, a provvedere con intervento pubblico perché nessun cittadino malato sia privato delle cure ritenute necessarie dagli operatori tecnici (i medici). Tale volontà politica può essere ricondotta, sotto il profilo teoretico, ai principi equitativi (non utilitaristici) suesposti, ma può trovare appiglio anche nelle concezioni utilitaristiche in relazione alle importanti esternalità conseguenti allo stato di salute dei singoli (possibilità di contagi ed epidemie, effetti sulla capacità e produttività del lavoro, fino al concetto lato di “coesione sociale”, ad includere le rivendicazioni salariali per fronteggiare privatamente spese mediche familiari)89.

Posto, nella teoria e nelle politiche sanitarie contemporanee, l’obiettivo di garantire copertura dal rischio salute a tutta la popolazione con intervento pubblico che superi i limiti dell’offerta potenziale dei mercati assicurativi privati, si pone la questione delle forme che l’intervento pubblico dovrebbe assumere. Riemergono, nel dibattito sulla questione e nelle differenti soluzioni concrete adottate nelle politiche sanitarie dei differenti Paesi, le diverse visioni ideologiche (“giudizi di valore”) circa le proprietà e i limiti sia del mercato sia dell’intervento pubblico in esso.

Quanti sostengono, nella teoria e nell’azione politica, l’intrinseca superiorità dell’economia di mercato, in cui l’allocazione delle risorse sarebbe governata dalla sovranità del consumatore (che è considerata come principio “della democrazia economica”, indispensabile componente di quella politica)90, e lo sviluppo sarebbe promosso sostanzialmente dall’iniziativa privata, coerentemente anche nel settore sanitario privilegiano

89 Rosen (2003), pp. 98-99, include nell’impostazione utilitaristica dell’equità distributiva, in quanto interpretabili come casi di esternalità e di interdipendenze delle utilità individuali, anche la costituzione da parte dello Stato di una “rete di sicurezza” a chi non può provvedere ai suoi bisogni essenziali, e gli interventi redistributivi in quanto contribuiscono alla pace sociale. 90 Cfr. per tutti Musgrave (1959).

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soluzioni più vicine al (o meno lontane dal) sistema di mercato e alla sua logica91.

Le assicurazioni sanitarie obbligatorie per i lavoratori finanziate anche dal datore di lavoro, come risultante storica delle rivendicazioni sindacali alla copertura assicurativa dei lavoratori, regolamentate (anzitutto per evitare insolvenze assicurative) dai pubblici poteri, sembrano essere la soluzione che meglio si adatta alla concezione che privilegia l’economia di mercato ed intende, quindi, adottare soluzioni compatibili con la logica di tale sistema. La portata e la qualità dell’intervento pubblico proposto variano in relazione al campo di applicazione che si intende realizzare per l’assicurazione collettiva dei lavoratori, e alla sensibilità politica per i meriti della sua estensione a fasce di lavoratori difficilmente assicurabili (adeguatamene) in base ai criteri attuariali. Costituisce un esempio di riferimento l’esperienza degli Stati Uniti, fondata sull’assicurazione sanitaria finanziata essenzialmente dai datori di lavoro, che copre un po’ meno dei due terzi della popolazione residente, circa il 70% insieme all’assicurazione privata individuale; lasciando la restante parte della popolazione ai programmi della sanità pubblica, in parte finanziati anch’essi da contribuzioni obbligatorie prelevate sui redditi dei lavoratori attivi. Tale impostazione di fatto suddivide la popolazione tra i lavoratori attivi occupati e gli altri, e dunque prefigura la coesistenza di due grandi sistemi di offerta delle prestazioni sanitarie, aventi condizioni e caratteristiche qualitative (potenzialmente) differenti; cui si aggiunge il terzo sistema di offerta, più piccolo per numero di beneficiari, quello dell’assicurazione privata individuale. E’ un sistema sanitario che, mentre è concepito secondo la logica più vicina a quella dell’economia di mercato – che viene mantenuta, però riconoscendo gli aspetti di “fallimento” delle assicurazioni private verso il rischio della salute – d’altra parte istituzionalizza la separazione dell’offerta sanitaria verso parti differenti della popolazione. Tale separazione potenzialmente (ed effettivamente nelle realtà finora osservate) assicura prestazioni sanitarie qualitativamente superiori, e di maggiore estensione per tipologie di cure e per attività di prevenzione, agli assicurati dei programmi pagati dai datori di lavoro nei confronti dei programmi realizzati dallo Stato; mentre molte delle prestazioni non coperte dalle assicurazioni collettive sono fornite dalle assicurazioni private più costose.

Anche negli Stati Uniti si è manifestata sensibilità politica alle differenziazioni di trattamento sanitario, tra componenti della popolazioni, implicita nella soluzione assicurativa sostenuta dai datori di lavoro92 in favore

91 Cfr. ad es. le tesi poste a confronto da Stiglitz (2003). 92 Si trascura, qui, la questione dell’incidenza: in realtà, le contribuzioni prelevate sui redditi del lavoro dipendente sono parte del “costo del lavoro”, e la loro incidenza dipende, in ogni periodo storico, dai rapporti di forza contrattuale tra le parti sociali; cfr. la successiva nota 95.

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dei lavoratori occupati. E’ ricordata, in particolare, la proposta di riforma – però non attuata – progettata dal presidente Clinton (1994), che si proponeva di estendere il campo di applicazione dell’assicurazione sanitaria obbligatoria dei lavoratori, così da restringere la fascia della popolazione residua affidata alla sanità pubblica (sostanzialmente non occupati, anziani e poveri non assicurabili), e inoltre di limitare la “selezione avversa” praticata dalle assicurazioni non assumendo le posizioni più rischiose e meno remunerative93.

Nelle esperienze europee, l’interesse collettivo al servizio sanitario e il richiamo politico ai principi equitativi che postulano l’uguale accesso di tutti, indipendentemente dalla posizione lavorativa e dal reddito, a tutte le prestazioni sanitarie richieste per conseguire l’obiettivo della salute, si è manifestato con maggiore vigore che negli U.S., soprattutto dalla metà del ‘900. Tuttavia, anche le esperienze europee sono passate (e passano) attraverso la scelta tra le assicurazioni riferite al rapporto di lavoro e invece il servizio sanitario pubblico. Come è stato scritto, “Due sono i modelli principali a cui si ispirano i sistemi sanitari europei. Da un lato il modello universalistico (o Beveridgiano), caratterizzato dalla fornitura universale delle prestazioni e dei servizi a carico dello Stato, dal finanziamento fiscale e dalla gestione e/o controllo pubblico dei fattori di produzione. Dall’altro lato il modello occupazionale (o Bismarkiano), basato sulle assicurazioni sociali, caratterizzato dalla obbligatorietà della copertura per tutti i lavoratori, finanziato in larga parte dai contributi individuali attraverso fondi assicurativi non profit e con gestione delle strutture e dei servizi pubblica e/o privata”94.

Storicamente, il movimento dei lavoratori ha dapprima rivendicato e ottenuto la costituzione delle “mutue assicurazioni”, finanziate prevalentemente da contributi dei datori di lavoro e in parte minore dai lavoratori, di fatto prelevate in rapporto alle retribuzioni, e quindi elemento

93 Infatti, la proposta di “riforma Clinton” prevedeva l’introduzione dell’obbligo di assicurazione per tutti i lavoratori dipendenti, compensando i datori di lavoro chiamati al finanziamento con un contributo pubblico; e prevedeva l’iscrizione dei lavoratori presso unità assicurative territoriali, in modo che il premio assicurativo fosse fissato su base territoriale riflettendo la rischiosità media dell’area geografica, superando l’aggancio al rischio individuale, e quindi introducendo forme di sussidio incrociato, di natura solidaristica, tra lavoratori. La “riforma Clinton”, peraltro, non giunse ad approvazione, sicché il sistema sanitario statunitense è rimasto fondato sui principi dell’assicurazione, promossa e indirizzata, però, dalla contrattazione tra sindacati dei lavoratori e datori di lavoro, e sottoposta a controlli pubblici; le assicurazioni dei lavoratori occupano posizione centrale ma non esclusiva nel sistema, essendo integrate da un lato dalle assicurazioni private individuali, che operano nella logica dell’impresa, e dall’altro lato dai programmi sanitari pubblici che coprono circa un quarto della popolazione: cfr. il commento in Artoni (1999), pp. 339-341, pp. 349-350; White (1994); Blumenthal (1995); Maciocco (2000). 94 Maino (2003), p. 27; e cfr. Compagnoni (2005) e Maciocco (2000).

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costitutivo del costo del lavoro e perciò oggetto della contrattazione collettiva95.

I criteri assicurativi presenti nella determinazione delle prestazioni tendevano a favorire le categorie appartenenti ai settori di attività più solidi ed a più elevata produttività. Tuttavia, i principi della mutualità erano interpretati, dai sindacati, non in senso strettamente assicurativo della ripartizione dei rischi, ma in quello della solidarietà verso le categorie redditualmente più deboli, o verso lavoratori non titolati alla copertura assicurativa (o a quella piena) per difetto di contribuzioni sufficienti (causa periodi lavorativi “ufficiali”brevi, o causa bassi salari); e questa ulteriore spinta rivendicativa ha portato ad estendere, nell’ambito delle assicurazioni sociali su base lavorativa, i “sussidi incrociati” tra lavoratori sia per ampliare la copertura a categorie altrimenti escluse, sia per innalzare i livelli medi delle prestazioni sanitarie previste dal sistema assicurativo. Non si può dimenticare che le organizzazioni dei lavoratori hanno sempre sostenuto la loro rappresentatività anche dei lavoratori in pensione. Inoltre, esse hanno sempre sostenuto che nei sistemi di tipo mutualistico-previdenziale le contribuzioni sociali commisurate alle retribuzioni dovevano essere intese come salario differito (e quindi appartenenti ai lavoratori assicurati); ritenendo i sindacati “formale” la distinzione tra contributi a carico dei datori di lavoro o dei lavoratori, in quanto che, nella contrattazione collettiva, a parità di costo del lavoro per l’impresa, tutte le contribuzioni sociali (anche quelle formalmente a carico dei datori di lavoro) erano sottratte alla “busta paga” per essere versate agli istituti mutualistici. Pertanto i sindacati hanno sempre rivendicato la piena tutela degli anziani-pensionati, ovvero di una categoria a rischio di malattia particolarmente elevato, e quindi, nella logica del mercato, esposta alla “selezione avversa” da parte di imprese assicurative operanti su base privatistica. Inoltre, il richiamo politico alla “solidarietà” inevitabilmente sfociava nella rivendicazione del contributo statale, ovvero a carico di tutti i cittadini contribuenti, e attraverso questo si allargava alla richiesta di analoga tutela sanitaria per categorie escluse dalla “mutue” dei lavoratori, come categorie del lavoro autonomo (tipicamente i piccoli proprietari-lavoratori agricoli), e i disoccupati.

Si è così aperta, storicamente, la strada – in molti Paesi europei e tra essi l’Italia – al passaggio al sistema del servizio sanitario pubblico, offerto dallo Stato a tutti i cittadini, indipendentemente dal loro reddito e dalla loro posizione lavorativa, finanziato a carico del bilancio pubblico, con la funzione di servire le prestazioni sanitarie a ogni cittadino (o meglio a ogni persona presente nel territorio) che ne avesse “bisogno”, nella misura e con il 95 Bosi (2006), p. 408, osserva che “i contributi, a differenza dei premi di un’assicurazione privata, sono commisurati al reddito del cittadino, il che consente di compensare i rischi derivanti dalle diverse propensioni alle malattie e di esercitare una redistribuzione tra cittadini ricchi e poveri”.

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livello di prestazione corrispondente a natura e grado di tale “bisogno”; quindi con uguali prestazioni per tutti a parità di bisogni. Si attribuiva necessariamente, agli operatori tecnici (i medici) il compito di accertare l’esistenza e la natura del “bisogno” e corrispondentemente il livello e la qualità della prestazione sanitaria necessaria alla cura.

Si osservi che nel modello delle assicurazioni sociali obbligatorie la responsabilità per la gestione efficiente dei fondi prelevati, attraverso le contribuzioni, sui redditi da lavoro, poggia in misura significativa sulla capacità di controllo dei sindacati dei lavoratori, anzitutto attraverso i loro rappresentanti, nei Consigli di Amministrazione degli Enti della previdenza sanitaria. Invece, nel passaggio al sistema del servizio pubblico, tale responsabilità si trasferisce alle strutture competenti della Pubblica Amministrazione (statali, regionali, municipali e di altri Enti pubblici territoriali, a seconda della distribuzione delle funzioni tra i diversi livelli di governo ed Enti autonomi). Idealmente, si potrebbe ritenere che la disponibilità di competenze tecniche e di strumentazione di controllo, essenziali in presenza delle note asimmetrie informative, sia maggiore presso le Amministrazioni Pubbliche; ma vi è anche l’obiezione che i sindacati dei lavoratori potrebbero essere più disponibili a raccogliere le critiche e i suggerimenti che vengono dalla loro base degli scritti in quanto utenti della sanità gestita e finanziata dalle Assicurazioni Sociali Obbligatorie. Quanto all’altra importante differenza tra i due modelli – a parte la differente copertura della popolazione96 – ovvero la forma del prelievo sui redditi lordi da lavoro dipendente oppure attraverso le imposte generali97, si può ritenere, in prima approssimazione, che il finanziamento attraverso imposte meglio risponde ai suesposti principi equitativi, ovvero l’assunzione di responsabilità del finanziamento a carico di tutta la collettività, dovendo essere il servizio universale per realizzare tale “diritto di cittadinanza” (o meglio, di presenza nel territorio). Ma il riferimento è soltanto formale, perché attiene al momento della percussione delle due forme di prelievo. Il differenziale di incidenza di un tributo commisurato ai redditi di lavoro ed invece uno a carattere generale – con tutte le eccezioni al principio della generalità presenti negli attuali ordinamenti98 – è questione tutt’altro che pacifica anche in dottrina. Chi, come lo scrivente, ritiene che l’incidenza dei tributi nei sistemi economici attuali dipende, nei mercati altamente imperfetti (dei prodotti

96 Almeno originariamente, perché ad es. nel “modello Bismark” applicato in Germania si sono man mano introdotti provvedimenti solidaristici per la copertura dei non-lavoratori: cfr. ad es. Graf von der Schulenburg (2005) e WÖrz , Busse (2005). 97 Esistono anche negli ordinamenti concreti esempi di imposte di scopo il cui gettito è finalizzato alla copertura della spesa sanitaria: l’esempio italiano è considerato nella seconda parte di questo lavoro. 98 Si pensi alle eccezioni, ovunque presenti, alla generalità dell’imposta personale progressiva, specialmente nei confronti dei redditi da capitale finanziario.

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come dei fattori), dalla forza contrattuale relativa di ciascuna categoria sociale, non accoglie conclusioni predeterminate sull’incidenza, bensì ritiene che gli esiti della conflittualità sulla distribuzione dei redditi siano storicamente variabili in periodi diversi e tra diversi paesi. Inoltre, la nuova mobilità che l’integrazione economica internazionale ha conferito ad alcuni fattori, in particolare al capitale finanziario ed in qualche misura anche a quello di impresa, introduce nuovi elementi di incertezza intorno alla questione dell’incidenza, ovvero chi paga economicamente l’onere di ciascun tributo.

Tuttavia, molti autori hanno visto nell’affermarsi di tale passaggio al servizio universale sanitario pubblico, in parecchi Paesi Europei (in Italia nel 1978) l’affermazione, nelle scelte politiche delle collettività, dei principi equitativi dell’“ugualitarismo specifico” e dei “diritti di cittadinanza”, sopra considerati. Ma, come ho osservato nel commentare tali principi, è stato chiesto ad essi più di quanto potessero offrire in termini di concrete indicazioni per le politiche sanitarie, stante l’intrinseca genericità dei contenuti di tali principi. L’introduzione dei servizi sanitari universali pubblici ha, in effetti, sollevato nelle esperienze concrete problemi – oltre a quello dell’incidenza differenziale delle imposte verso i contributi sociali – non solubili con il semplice richiamo ai principi equitativi di carattere generale: il controllo della dinamica della spesa pubblica per la sanità, e in particolare la definizione e quantificazione delle prestazioni in condizioni di razionamento delle risorse finanziarie destinate alla sanità; il controllo della gestione efficiente (nel senso della “x-efficiency”) dei fondi pubblici da parte degli operatori sanitari, in presenza di asimmetria informativa sfavorevole allo Stato; la definizione dei limiti alla “universalità” del servizio in Paesi in cui, per evidenti motivi politico-istituzionali (ad es. tutelati dall’Unione Europea), non è praticabile un divieto giuridico all’offerta privata di prestazioni sanitarie da parte di enti e soggetti privati che dispongono di titoli professionali e strutture tecnicamente adeguate.

9. Il controllo della spesa nei sistemi a servizio sanitario pubblico: l’introduzione della concorrenza

Invero, il controllo della dinamica della spesa sanitaria in condizioni di

razionamento degli impieghi delle risorse, pubblici e privati, a fronte di domande potenzialmente eccedenti la loro disponibilità; ed il problema – teoricamente indipendente ma di fatto collegato alla dinamica della spesa – della gestione efficiente delle risorse pubbliche destinate al servizio sanitario, in condizioni di asimmetria informativa, sono attualmente considerati prioritari dalle autorità dei Paesi con servizio sanitario pubblico universale e suscitano dibattito sui meriti, limiti e difficoltà di tale servizio.

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La critica al servizio sanitario pubblico universale, perché esso sarebbe fonte di sprechi (dovuti a negligenza e/o a interessi privati illegittimi) e tenderebbe quindi a produrre sia risultati inferiori a quelli tecnicamente ottenibili per un dato livello di spesa, sia l’espansione della spesa a ritmi superiori a quelli corrispondenti a gestioni “efficienti” ed innovative, è divenuta ormai consueta nel dibattito in materia. Alla radice, la questione si presenta in termini sostanzialmente analoghi a quelli del confronto, assai ampio in letteratura, tra efficienza, produttività e dinamismo dell’impresa privata rispetto a quella pubblica.

Si afferma, in tale dibattito, che l’impresa privata sarebbe più efficiente di quella pubblica, perché in quella privata si sentirebbe “la frusta” della proprietà privata interessata a massimizzare il rendimento sul capitale investito. Nel caso della impresa pubblica, anche al di fuori delle ipotesi di collusione o acquiescenza da parte delle autorità pubbliche di controllo- casi su cui ha, peraltro, insistito una abbondante letteratura 99 - l’asimmetria informativa pregiudicherebbe le capacità di controllo e di intervento delle autorità competenti sui managers perché perseguano l’efficienza produttiva. Ma non tutti gli studiosi accettano tale affermazione di congenita superiorità dell’efficienza dell’impresa privata100.

Nel caso della sanità, la questione si presenta, però, assai più complicata, perché l’asimmetria informativa gioca in favore degli operatori sanitari (medici e personale paramedico, imprese fornitrici di farmaci, attrezzature e prodotti sanitari) e in sfavore tanto delle autorità di governo responsabili del servizio sanitario pubblico quanto degli istituti di assicurazione, nei sistemi sanitari da essi finanziati. Si rileva, al contrario, che gli istituti di assicurazione potrebbero essere indotti dall’asimmetria informativa a pratiche di “cream skimming”, che scaricherebbero i rischi maggiori e più costosi sulla protezione residuale pubblica.

La letteratura ha elaborato molteplici modelli di incentivazione (positiva o negativa) e di controllo per consentire al principale (l’autorità responsabile) di indurre l’agente (gli operatori sanitari) all’efficienza, a comportamenti leali, all’innovazione; alcune delle proposte hanno trovato applicazione in alcuni Paesi. Tornerò su tali specifici temi nella seconda parte di questo articolo dedicata all’esperienza italiana, alla luce delle esperienze più significative di altri Paesi. Qui mi soffermo a considerare, perché è un modello organizzativo, il cosiddetto “quasi mercato”, che è stato studiato e sperimentato dalla fine degli anni ’80101.

99 Cfr. fra tante le rassegne critiche di Plane (1997) e Domberger, Piggot (1994). 100 Cfr. in particolare Rowthorn, Ha Joon Chiang (1993). 101 Cfr. le analisi in Compagnoni (2005), Nicita (2003), Maciocco (2000), e la bibliografia ivi citata, e OECD (2004 b), cap. 1 e 2.

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Come è noto, i sostenitori della superiorità del modello concorrenziale affermano che la libera concorrenza non soltanto tende a erodere rendite e sovraprofitti con beneficio per i consumatori (come è nel modello statico), ma stimola inoltre maggiore efficienza, innovazione, produttività (nell’impostazione dinamica)102. E’ questa, sostanzialmente, la base teorica su cui i critici delle inefficienze, della bassa produttività e dell’insufficiente innovazione che caratterizzerebbe i servizi pubblici hanno auspicato - qualora si voglia mantenere il servizio sanitario pubblico in modo da meglio realizzare l’obiettivo dell’accesso universale e paritario alle prestazioni sanitarie - che siano introdotti meccanismi concorrenziali all’interno del servizio pubblico medesimo (la concorrenza amministrata nei “quasi mercati”).

Tali meccanismi si costituiscono attraverso il pluralismo di istituzioni ed enti, in forma pubblica o privata, cui è conferita autonomia di gestione e contrattuale, con bilanci autonomi, limiti di indebitamento, e possibilità di utilizzare, ai fini istituzionali, gli eventuali avanzi di bilancio. Si è cercato di separare istituzionalmente il ruolo degli acquirenti delle prestazioni sanitarie da quello dei fornitori, ponendoli in competizioni di interessi. Nel caso degli enti pubblici, l’autonomia gestionale e la possibilità di reimpiegare gli avanzi di bilancio, a fronte delle responsabilità (anche solo quella sanzionata dalla non riconferma dei managers nella cariche) per le gestioni in disavanzo, dovrebbe, in qualche modo e misura, sostituire gli incentivi naturalmente prodotti dalla concorrenza verso le imprese private. Inoltre, il modello dei “quasi mercati” persegue il suo obiettivo di stimolare efficienza e innovazione anche attraverso la maggiore autonomia di scelta dei consumatori (gli utenti). Poiché i consumatori dei servizi e prodotti sanitari possiedono informazioni assai limitate sulle caratteristiche dell’offerta, ed hanno assai limitate capacità di “sperimentare” l’efficacia di servizi e prodotti alternativi, il modello prevede enti intermedi che aggreghino gruppi di utenti, gestiscano i fondi per essi disponibili, contrattino quindi prezzi e qualità dei servizi con gli offerenti; la concorrenza sarebbe rafforzata dalla possibilità offerta ai cittadini di scegliere e cambiare l’ente intermedio di domanda che li rappresenta103.

102 Cfr. per tutti Trento, Bentivogli (2005) e l’ampia bibliografia ivi citata. La fiducia nella superiorità del modello concorrenziale è alla base della politica dell’U.E., che costantemente richiama i paesi membri a liberalizzare i mercati e a promuovere la concorrenza. 103 Ad es. nella Repubblica Federale Tedesca (modello “Bismark”) i Fondi di malattia, attualmente (2005) 267, cui si aggiungono circa 50 assicurazioni private, sono in concorrenza tra loro specialmente da quando (1996) l’assicurato è libero di scegliere il Fondo di iscrizione. Inoltre i lavoratori dipendenti che guadagnano un reddito superiore a una data soglia (3900 euro mensili nel 2005), i lavoratori autonomi e i dipendenti pubblici possono optare per un’assicurazione privata in luogo del Fondo di assicurazione obbligatoria.

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Su tali esperienze dei “quasi mercati” tentate in Paesi europei dagli anni ’90 sono stati espressi, spesso, giudizi severi: “Dieci anni e più di sperimentazione in termini di concorrenza amministrata hanno lasciato tanto gli amministratori quanto i decisori pubblici largamente insoddisfatti dei risultati ottenuti e ancora irrisolto il problema del contenimento dei costi”104. E’ stato osservato, in particolare, che il modello comporta forti pericoli di “cream – skimming”, come conseguenza dell’autonomia delle strutture e degli aspetti incentivanti gli attivi di bilancio105; e in generale la tendenza delle autorità politiche, preoccupate degli obiettivi di controllo della spesa pubblica, a “premiare” i gestori che non avanzano richieste addizionali di fondi pubblici, indipendentemente dall’efficacia delle loro azioni rispetto alla salute. Sono state anche evidenziate le difficoltà a realizzare la pluralità degli offerenti su tutto il territorio nazionale, e le complessità e i costi della regolamentazione dei “quasi mercati” addossati allo Stato. E’ stato, peraltro, riconosciuto che “il modello organizzativo dei quasi mercati rappresenta un’innovazione di un certo interesse nella ricerca di un’efficiente organizzazione dei servizi sanitari”106. Invero, le citate esperienze hanno realizzato un avvicinamento tra il modello pubblico e quello privatistico, cercando di conciliare l’obiettivo del diritto universale di accesso ai servizi sanitari, che è obiettivo centrale del primo modello, con l’obiettivo di stimolare efficienza e innovazione, proprietà tipiche della concorrenza, attraverso l’introduzione nel modello pubblico del pluralismo degli enti e della gestione contrattuale, che sono caratteristiche proprie del modello privatistico107 .

Piuttosto, credo che presso i policy-makers siano andate (almeno in parte) deluse soprattutto le attese che le sperimentazioni dei “quasi mercati”

104 Maino (2003) p. 32. Riguardo all’esperienza della Svezia (modello “Beveridge”), dagli inizi degli anni ’90 le crescenti pressioni per aumentare l’efficienza nell’uso delle risorse disponibili ed accrescere la qualità delle risposte del sistema sanitario alle attese del pubblico (anche a causa di lunghe liste di attesa) spinsero le autorità locali (regionali e municipali) a tentare la strada di riforme orientate al mercato. Il nocciolo delle riforme consisteva nel separare il ruolo dei finanziatori e acquirenti da quello dei fornitori delle prestazioni. Ma, alla prova dei fatti, gli intenti di tali riforme basate sugli incentivi si sono arenate nei conflitti di interesse tra prestatori ed acquirenti, nella consolidata tradizione burocratica e gerarchica del management pubblico, nelle riluttanze degli organi politici a brusche rotture con il passato delle gestioni non di mercato: cfr. Anell (2005). 105 Nel sistema tedesco, onde evitare l’“adverse selection”, si è costituito nel 1994 un “pool” della struttura dei rischi per compensare i Fondi che esibiscono strutture dei rischi sfavorevoli dovute a fattori esterni al loro controllo, quali le differenze di composizione degli assicurati per età, reddito, familiari a carico ed altre. E’ stato osservato, d’altra parte, che questo provvedimento, insieme all’indicazione delle prestazioni cui ciascun Fondo è tenuto per legge (in base a catalogo), ha finito con il rendere poco operativa la competizione tra i Fondi: cfr. Graf von der Schulenburg (2005). 106 Bosi (2006), p. 409. 107 Maino (2003), p. 33.

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potessero rappresentare soluzione, rapida e significativa per dimensioni, alle loro difficoltà di contenere la dinamica della spesa sanitaria a carico del bilancio pubblico. E’ questo, d’altra parte, l’aspetto della politica sanitaria che, nell’attuale periodo storico, maggiormente preoccupa le autorità pubbliche dei Paesi dell’UE, nel quadro generale della tendenziale pressione della domanda di fondi ai bilanci pubblici rispetto all’offerta programmata da Parlamenti e Governi, sulla base delle loro valutazioni dei saldi di bilancio compatibili con gli equilibri finanziari macroeconomici (e delle loro valutazioni sulla disponibilità dei contribuenti-elettori ad accettare più elevati livelli di pressione tributaria).

Vero è che l’infusione di elementi di concorrenza nel sistema sanitario pubblico dovrebbe, stimolando efficienza ed innovazione, condurre nel medio periodo anche alla riduzione dei fabbisogni di spesa a parità di estensione e qualità delle prestazioni: ma, in ciascun esercizio il “policy – maker” tende a privilegiare gli obiettivi immediati di bilancio pubblico, rispetto ad attese di più lungo periodo. Inoltre, la concomitante azione di fattori di lievitazione della spesa sanitaria, quali l’invecchiamento delle popolazioni, la continua ricerca di occasioni di ampliamento dell’accesso ai servizi sanitari (inclusa la fase preventiva) verso la copertura “universale” di tutto i residenti (anche non legali), l’aumento del reddito pro-capite108, e le ricadute degli avanzamenti della ricerca scientifica sulle esigenze di nuova spesa, tendono ad oscurare le percezione, nell’osservazione dei dati storici, dell’ (eventuale) effetto della maggiore concorrenza sul contenimento della dinamica della spesa.

Pertanto, nelle politiche sanitarie concrete degli ultimi decenni, il dibattito sui pregi e i limiti del servizio sanitario pubblico ha portato sempre più al centro delle valutazioni la questione della dinamica della spesa sanitaria e degli interventi pubblici per porla sotto controllo. Si parla, a tale riguardo, di “razionamento”, ad indicare che la domanda potenziale di spesa pubblica sanitaria, espressione dei “bisogni” avvertiti dai cittadini e interpretati tecnicamente dai medici, per ogni dato (storicamente) insieme dei prezzi dei fattori da impiegare nell’offerta di tali prestazioni, eccede i livelli di spesa deliberati nel bilancio pubblico consolidato, esso stesso espressione del “razionamento” degli impieghi pubblici complessivi rispetto alle risorse (private e pubbliche) complessivamente disponibili.

108 Sui fattori di crescita della spesa sanitaria in questi anni e nel prevedibile futuro cfr. Muraro (2003), p. 361, che sottolinea l’“aumento dell’uso medio di servizi sanitari pro capite e variazioni dei costi unitari causati da una dinamica positiva dei prezzi relativi della spesa sanitaria rispetto al PIL”. L’autore indica quindi i fattori demografici, tecnologici ed economici che supportano la previsione di futura dilatazione della spesa sanitaria.

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10. Il controllo della dinamica della spesa sanitaria: razionamento e compartecipazione privata ai costi

Le politiche di razionamento della spesa pubblica sanitaria hanno seguito, sostanzialmente, tre direttrici, che inevitabilmente presentano interconnessioni. La prima è quella dell’imposizione di determinati tetti di spesa e/o saldi di bilancio ai centri di spesa sanitaria finale . Tale linea porta con sé, logicamente, la definizione e l’affinamento di indicatori di efficienza produttiva delle unità di offerta, la ricerca di metodi di controllo e di incentivazioni, nonché di sanzioni, che incidano sul comportamento degli operatori sanitari per uno svolgimento corretto del loro rapporto di agenzia con l’ente pubblico finanziatore. L’asimmetria informativa in svantaggio dell’ente pubblico finanziatore condiziona, infatti, sia la correttezza delle sue valutazioni degli indici relativi di priorità degli stanziamenti di bilancio per la spesa sanitaria, sia la correttezza delle sue valutazioni delle priorità nelle ripartizioni dei fondi pubblici per la spesa sanitaria tra le molteplici direzioni di spesa (si pensi alle ipotesi di “sovraconsumo” di alcune prestazioni sanitarie, causa l’incapacità di corretto controllo e valutazione da parte dell’ente pubblico finanziatore).

Peraltro, il fatto storico che nel corso degli anni ’80 abbia acquisito peso nella letteratura la proposta di perseguire l’obiettivo di migliorare, per lo Stato, il rapporto di agenzia con i centri di spesa finale (anche) ricorrendo al “quasi mercato”, e che tale proposta sia stata recepita da alcuni Governi, è segnale che la strada amministrativa dei controlli, degli indicatori, degli incentivi, delle sanzioni non è parsa sufficiente a garantire l’obiettivo, sicché si è provato ad affidarlo all’azione spontanea della concorrenza. Le (almeno parziali) delusioni delle attese anche sulle potenzialità dei “quasi mercati”, in particolare verso il contenimento di costi e spese, significano anche, nelle situazioni concrete, che risultano incerte ed arbitrarie le valutazioni dei “bisogni reali” delle molteplici prestazioni sanitarie su cui dovrebbero razionalmente poggiare i criteri del razionamento.

Si deve aggiungere, come ormai ampiamente mostrato dalle esperienze della gestione delle imprese pubbliche e della regolamentazione di imprese private esercenti servizi di pubblica utilità, che l’imposizione di “tetti” alla spesa delle imprese agenti tende ad indurle a distorcere le loro spese in favore di quelle correnti per il personale rispetto a quelle per acquisti di beni e per investimenti. La ragione è che mentre i tentativi di contenere le spese correnti urtano immediatamente contro violente opposizioni da parte dei beneficiari (tipicamente il personale addetto), invece gli effetti negativi delle riduzioni, effettive o rispetto ai programmi, delle spese per beni e per investimenti non sono immediatamente avvertite dagli utenti dei servizi; sicché i “managers” dei centri di spesa (e spesso le medesime autorità politiche a monte di essi ) in carica in ogni periodo preferiscono rinviare nel tempo (spesso ad altri) le

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decisioni delle spese per migliorare le strutture e la qualità del servizio (le lamentele sul degrado qualitativo dei servizi, conseguenti a insufficienti investimenti nel passato, sono più generiche e meno dirette rispetto, ad esempio, alle rivendicazioni nelle vertenze sindacali o alle opposizioni ai “tagli” alle prestazioni gratuite).

La seconda direttrice di intervento applicata per il “razionamento” della spesa pubblica sanitaria consiste nel limitare il campo delle prestazioni finanziate a carico del bilancio pubblico a quelle definite “essenziali” al bisogno di salute, escludendo quindi prestazioni ritenute non essenziali al mantenimento della vita attiva. Secondo alcuni autori “Si tratta di una strategia fino ad ora scarsamente impiegata, dalla quale ci si aspettano in futuro più ampi margini di manovra e migliori risultati… Si tratta per il futuro di pensare a criteri per restringere la gamma di prestazioni sanitarie e assistenziali garantite dal settore pubblico trasferendo sugli assicurati i costi di quei servizi esclusi dalla copertura pubblica”109 .

Ho già sopra rilevato, a commento dell’attributo dell’“universalità” al servizio sanitario pubblico, anche in applicazione dei principi equitativi non utilitaristici (ugualitarismo specifico, diritti di cittadinanza, e altri citati), che esso diviene di dubbia interpretazione in regime di razionamento delle risorse destinate al servizio sanitario pubblico. La sua specificazione in “prestazioni essenziali”, che devono essere intese come essenziali al mantenimento della vita e al riprestino di una vita attiva110, non aiuta a chiarire tali dubbi, ovvero a risolvere le conseguenti incertezze nelle scelte concrete della politica sanitaria. Non sembrano esservi, infatti, criteri obiettivi e generalmente validi per tracciare con precisione la linea divisoria tra prestazioni sanitarie “essenziali” e “non essenziali”111.

Generalmente, allo scopo di potere codificare in norme di legge o regolamenti i criteri (che devono essere quindi di portata generale) per definire le prestazioni “non essenziali”, escluse dalla copertura del servizio sanitario pubblico gratuito, si identificano categorie tecniche di prestazioni sanitarie. Ma, il riferimento a criteri oggettivi anziché a quelli soggettivi (intuitivamente, a dati statistici medi da cui alcuni singoli dati possono

109 Maino (2003 e 2001). 110 Secondo i principi equitativi, che giustificano il servizio sanitario pubblico. 111 Una visione ottimistica sulle capacità di specificazione corretta delle prestazioni essenziali, riferita all’esperienza italiana, è in Torbida, Fattore (2005). Peraltro, gli autori rilevano che nel definire il campo delle prestazioni essenziali il criterio dominante è stato quello della loro efficacia mentre in via complementare sono stati utilizzati quelli del bisogno (cfr. il paragrafo 11). Si sottolinea peraltro che attraverso i LEA (Livelli Essenziali di Assistenza) si è permessa l’uguaglianza delle prestazioni agli assistiti: anche accettando tale conclusione (non pacifica) osservo che si è permessa la disuguaglianza verso chi, per reddito, può accedere alle prestazioni escluse dai LEA, ricorrendo ad offerte esterne al servizio pubblico.

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discostarsi anche fortemente) può creare situazioni di pericolo anche grave per la tutela della salute, che è fatto essenzialmente personale112.

La definizione delle prestazioni “non essenziali” è particolarmente difficile, e pericolosa per l’obiettivo finale del ripristino della salute, nella fase preventiva e di accertamento diagnostico tempestivo di eventuali malattie. E’ noto che le possibilità di alcune delle malattie statisticamente più gravi negli effetti, quali le malattie tumorali e cardiocircolatorie, sono fortemente collegate sia alla mancata prevenzione sia alla tardività della diagnosi. Nei sistemi, già ampiamente sperimentati, di razionamento attraverso “tetti” di spesa, e controlli statistici sulle richieste di singole categorie di prestazioni effettuate dai medici di base per numero di assistiti, e analoghi impieghi di indicatori di “efficienza”, tale razionamento può incidere negativamente sulla funzionalità delle prevenzione e diagnosi precoce. L’affermazione è, evidentemente, estendibile al razionamento per esclusione delle prestazioni “non essenziali”, che a ben vedere è una particolare specificazione operativa del razionamento con “tetti”di spesa. Il fatto che le cure ai colpiti da affezioni cardiovascolari e tumorali siano classificate “essenziali”, e i malati abbiano priorità nelle liste di attesa delle cure specialistiche e dei ricoveri, non esclude che tali cure risultino infine inefficaci perché sono mancate le misure preventive e le analisi pre-diagnostiche tempestive, per cause attribuibili al criterio della “non essenzialità” di tali prestazioni113.

Altrettante difficoltà si incontrano a giustificare l’esclusione di molti prodotti medicinali e sanitari dalle liste di quelli “essenziali” (come già è frequentemente in uso nelle esperienze attuali) perché con tali esclusioni 112 Per esemplificare, le cure fisioterapiche, chirurgiche, termali, possono risultare essenziali alla vita attiva di persone affette da malattie articolari, vertebrali, muscolari e simili; le terapie psicosomatiche possono risultare essenziali al recupero alla vita normale di soggetti che non riescono più a sostenerla; le terapie contro il dolore (emicranie e simili) possono risultare essenziali alla vita attiva; le cure dentistiche possono rispondere a situazioni insopportabili per chi è affetto; le operazioni di chirurgia estetica possono risultare soggettivamente essenziali al reinserimento nella vita attiva, professionale e relazionale, di persone sfigurate o menomate; e l’elenco potrebbe continuare, attingendo a comuni esperienze sanitarie. D’altra parte, se dopo avere codificato le prestazioni sanitarie “non essenziali” si lasciano ai medici margini ampi di discrezionalità nel trasferire situazioni soggettive (pur con tutte le motivazioni tecniche del caso) dalla categoria delle “non essenziali” a quella delle “essenziali” e viceversa, nei fatti si svuotano i criteri oggettivi impiegati per razionalizzare il “razionamento”; e, soprattutto, si aprono occasioni estese di arbitrio e di iniquità di trattamento, anche soltanto inconsapevoli, perché é comprensibile che le valutazioni dei medici di fronte alle specifiche situazioni concrete siano, frequentemente, non pienamente omogenee (data l’intrinseca peculiarità di ogni situazione di salute di ogni singola persona). 113 La questione è connessa con quella delle “liste di attesa”, che è problema aperto nella gran parte dei paesi con servizio sanitario pubblico: OECD (2004 a), cap. 3. L’argomento è trattato più sotto. Si osservi che il problema delle liste di attesa è, invece, scarsamente significativo nella Germania che ancora mantiene il “modello Bismark”: cfr. ad es. WÖrz, Busse (2005) ed OECD (2004 b), cap. 5.

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decise a priori – sulla base di valutazioni di carattere generale e riferimenti a medie statistiche – si toglie al medico curante una parte della sua autonomia tecnica di giudizio sul migliore trattamento terapeutico del paziente, vincolando (una parte di) tale autonomia alle possibilità e volontà del paziente di sostenere la spesa privata per i farmaci non offerti dal servizio pubblico, con evidente violazione dei principi equitativi che dovrebbero motivare il servizio pubblico universale. Si potrebbe continuare nella casistica, anche ricordando le difficoltà di valutare l’“essenzialità” delle richieste di poter accedere – a carico del servizio sanitario pubblico – a determinate prestazioni disponibili presso centri di cura esteri, che in un dato momento storico si trovino ad essere più avanzati di quelli nazionali, per mezzi tecnologici e per ricerca ed esperienza accumulata. In conclusione, sia il razionamento attraverso “tetti” di spesa, sia il razionamento attraverso le definizione dell’insieme delle “prestazioni essenziali” incontrano numerose e significative difficoltà operative, quanto alla salvaguardia dei principi dell’universalità del servizio e dell’uguaglianza di accesso alle prestazioni sanitarie, e portano pericoli di distorsioni – rispetto alle valutazioni tecniche - e di iniquità del trattamento.

Alle forme di razionamento per “tetti di spesa” e per esclusione delle “prestazioni non essenziali”, sono spesso associate forme cosiddette implicite di razionamento, tra cui si segnala, per frequenza nelle esperienze concrete il razionamento con “liste di attesa”. Si afferma114 che le “liste di attesa”, quando risultino ineliminabili a causa di squilibri non sanabili nel breve periodo tra domanda ed offerta di determinate prestazioni sanitarie (prestazioni mediche, interventi chirurgici, analisi di alta specializzazione e con l’impiego di tecnologie avanzate la cui offerta è limitata in ogni periodo , ricoveri ospedalieri con posti limitati ecc.) dovrebbero essere formulate in base al criterio dell’essenzialità (intesa nel profilo dell’urgenza). Così si potrebbe assicurare effettiva uguaglianza di tutti i cittadini di fronte al servizio sanitario pubblico. Si presentano, allora, le difficoltà sopra esposte circa la specificazione concreta delle prestazioni essenziali, qui nel profilo temporale, e l’elevata probabilità che nell’ambito del servizio sanitario nazionale si adottino, sia tra le singole unità sanitarie sia nei confronti di singole persone, criteri difformi di valutazione (il pericolo di valutazioni difformi si accresce in un modello sanitario federale)115.

Altra forma di razionamento implicito è il degrado della qualità del servizio offerto. Questo si manifesta in particolare, nei servizi offerti dal sistema ospedaliero, dove il razionamento – in situazioni note all’esperienza 114 Cfr. Stornaiuolo (2005). 115 Il riferimento al “pericolo di vita” copre alcuni casi ma non è sufficiente. Il pericolo di vita, ad. es. può insorgere per ritardi dovuti alle liste d’attesa nella precedente fase preventiva diagnostica e di terapia iniziale. La tardiva prevenzione e/o analisi diagnostica può rendere inutile, a salvare la vita, l’intervento “urgente” successivamente disposto.

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– si traduce in carenza delle manutenzioni delle strutture (incluse le condizioni termiche), dei servizi di igiene e pulizia, della selezione adeguata degli alimenti, della disponibilità di alcuni farmaci e strumenti sanitari, della tempestività e frequenza dell’assistenza medica diretta al paziente. E’ possibile conseguenza del razionamento – o altrimenti delle politiche del lavoro e retributive – lo stato di tensione che talora emerge tra il personale o tra livelli funzionali del personale (ad es. tra medici ed infermieri). Il degrado della qualità del servizio, che dipende da tali cause, incide su tutte le prestazioni sanitarie, anche su quelle definite “essenziali” o “urgenti”.

La terza direttrice delle politiche di razionamento si distingue dalle precedenti perché introduce il razionamento tipico del mercato, ovvero il pagamento parziale del servizio da parte dell’utente. Si tratta di un metodo di razionamento estesamente impiegato perché permette di ridurre i costi della prestazione sanitaria a carico del bilancio pubblico, però prevedendo esenzioni e/o graduazioni dell’importo chiesto all’utente in relazione alle sue condizioni economiche (redditi familiari disponibili, attività patrimoniali) e a sue caratteristiche personali (età, tipo di malattia). Attraverso le esenzioni e le graduazioni della contribuzione (“ticket”) chiesta all’utente si persegue l’obiettivo di preservare almeno le motivazioni di fondo dell’ “ugualitarismo specifico”, e della solidarietà sociale, mantenendo intatto il diritto di accesso alle prestazioni gratuite del servizio sanitario pubblico in favore delle fasce di popolazione più povere e/o più esposte ai rischi delle malattie; ma trasferendo parte degli oneri della politica di razionamento a carico delle fasce medie ed alte di redditieri e/o della parte di popolazione a minore esposizione al rischio e in età lavorativa.

Nell’applicazione di tale metodo di razionamento, si incontrano le difficoltà, ben note agli uffici tributari, del corretto accertamento dei redditi effettivi dei contribuenti; e inoltre le difficoltà di definizione dell’unità impositiva (singoli e famiglie; famiglie monoreddito e bireddito, famiglie di fatto ed altre), del riconoscimento dei carichi familiari e di ogni altra ipotesi di deduzione e/o detrazione, da raccordare con i trasferimenti (in moneta o in natura) ricevuti dal settore pubblico. Sembrano, inoltre, inevitabili le arbitrarietà – che causano scontento tra gli utenti – insite nelle quantificazioni delle soglie di esenzione , e/o degli scaglioni, tali che utenti situati appena sotto o appena sopra la soglia (di reddito, di età) sono trattati in maniera significativamente differente (incentivando, anche, comportamenti sleali).

Ma il limite più importante di tale metodo di razionamento emerge in funzione crescente della dimensione della partecipazione finanziaria al costo delle prestazioni sanitarie, che si pone a carico dell’utente. Da una parte, se le fasce di esenzione non sono sufficientemente alte (perché il razionamento dei fondi pubblici deve essere elevato), i malati delle categorie medio basse di reddito trovano onerosi i “tickets” e possono essere scoraggiati dal ricorrere al servizio, soprattutto nelle fasi della prevenzione e delle analisi per la

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diagnosi precoce. Dall’altra parte, quando la partecipazione finanziaria al costo delle prestazione diviene rilevante – e tale quindi da rendere significativo l’impatto di tale metodo di razionamento della spesa pubblica – gli utenti colpiti delle fasce medie di reddito cominciano a trovare conveniente il ricorso alle prestazioni private (o con l’ausilio dell’assicurazione privata); così da incrinare l’universalità del sistema sanitario pubblico.

Naturalmente, a seconda degli obiettivi che la politica sanitaria si pone – in un dato Paese e momento storico – tale secondo effetto può essere desiderato. Secondo alcuni autori, prevedere le possibilità di uscita dal sistema sanitario per quei cittadini che ne facciano richiesta, a condizione che soddisfino determinati requisiti di natura reddituale, permette di “attenuare l’impegno del sistema pubblico senza pregiudicare l’orientamento solidaristico di fondo del sistema di protezione sociale. Infatti, da un lato l’esclusione dal sistema dipende da una scelta del cittadino e dall’altro la possibilità di uscita è concessa solo a persone che in base alla loro condizione economica sono ritenute in gradi di provvedere autonomamente alla copertura dei costi sanitari. Si tratta di una strategia adottata da tempo nel sistema sanitario tedesco, in cui l’obbligo di iscrizione ad una cassa mutua viene meno per quei cittadini che superano determinati livelli di reddito”116; e, aggiungo, è strategia presente nel dibattito attuale sulle politiche sanitarie in alcuni altri Paesi industrializzati .

Si torna, allora, alla questione pregiudiziale, se l’“universalità” – in quanto regione della preferenza per il servizio sanitario pubblico – sia concretamente attuabile, come si dovrebbe desumere dai principi equitativi (sopra ricordati); o se, invece, si debba puntare al diritto di accesso di tutti a uno dei sistemi di offerta delle prestazioni sanitarie, nella coesistenza del servizio sanitario pubblico, finanziato dalle imposte, con sistemi posti su basi assicurative, riferite al lavoro o privatistiche, ovvero le assicurazioni collettive finanziate dalle categorie produttive assicurate, e/o le assicurazioni individuali.

I teorici sostenitori delle proprietà ottimali della concorrenza, e della sua intrinseca superiorità rispetto a modelli alternativi di produzione e scambio, ritengono che la coesistenza di più sistemi di offerta delle prestazioni sanitarie (anche con l’inclusione di elementi di concorrenza nel servizio pubblico, come sopra ricordato117) tende ad accrescere la produttività, la qualità, la capacità innovativa in ciascun sistema. Altri autori, invece, non

116 Maino (2003), p. 30; e cfr. le precedenti osservazioni sul sistema sanitario tedesco alle note 103 e 105. 117 L’autonomia territoriale in campo sanitario tende a produrre ulteriori elementi di differenziazione ed eventuale concorrenza, esaminati al paragrafo successivo.

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ritengono tale impostazione valida, o almeno non per la produzione dei servizi aventi rilevanza sociale e caratterizzati dall’elemento qualitativo118.

Tra gli studiosi italiani, riprendendo in particolare le argomentazioni di Hirschman (alla precedente nota) sulla coesistenza di pubblico e privato nell’offerta di tali servizi, Artoni mette in evidenza i difetti e i pericoli della coesistenza tra componenti pubbliche e private nell’offerta delle prestazioni sanitarie. L’autore avverte che la concorrenza tra pubblico e privato può portare “di fatto a una segmentazione del sistema sanitario: l’accesso a cure qualificate e tempestive verrebbe di fatto a essere subordinata alla capacità di pagamento individuale, all’interno e all’esterno della componente pubblica”. Ed osserva: “I cittadini-consumatori qualificati determinano con il loro comportamento l’evoluzione complessiva del sistema. Possono infatti seguire la via della defezione: insoddisfatti della qualità della sanità pubblica o dell’istruzione statale, possono uscire dagli schemi di fornitura collettiva e orientarsi su quella privata. In questa ipotesi di coesistenza e concorrenza fra pubblico e privato è ragionevole prevedere che il servizio pubblico, non più controllato e stimolato, decada ulteriormente … In altri termini, solo chi è in grado di pagare può ottenere un’assistenza sanitaria qualificata.” Quindi, l’autore privilegia l’ipotesi dell’esclusività del servizio sanitario pubblico (obbligatoriamente universale) perché “Seguendo il comportamento alternativo, i cittadini-consumatori qualificati non potendo rivolgersi altrove, organizzano la protesta, creando quindi meccanismi di controllo della qualità del servizio. Non si creano segmentazioni e presumibilmente si pongono le condizioni per il mantenimento di livelli qualitativi accettabili”. La conclusione è che “un regime di monopolio pubblico ha una sua giustificazione, evitando sovrapposizione di componenti private e pubbliche”119 .

118 Hirschmann (1970), che individua, invece, meccanismi sociali di protezione del consumatore verso la qualità dei servizi pubblici aventi rilevanza sociale, come la sanità. 119 Artoni (1999), pp. 359-361. Si può osservare che, di fronte alle difficoltà attualmente sperimentate dal sistema sanitario tedesco, fondato dal cancelliere Bismark nel 1883, a bilanciare gli attuali obiettivi del controllo della dinamica della spesa, della maggiore efficienza e del mantenimento della solidarietà e dell’universalità di accesso, i partiti della precedente coalizione di governo (di sinistra) avevano messo in programma, in campagna elettorale (2005), la creazione di uno “schema assicurativo dei cittadini”, cioè un servizio pubblico a copertura universale e finanziato da tutti i cittadini in relazione alle loro capacità contributive (tutti i tipi di reddito sarebbero stati assoggettati al prelievo fino ad un massimale di 5.100 euro mensili; il prelievo sulla componente salariale del reddito sarebbe stato ancora ripartito tra datore di lavoro e lavoratori). I partiti di sinistra proponevano inoltre l’abolizione dell’opzione esistente, per i lavoratori dipendenti oltre un dato livello di reddito e per gli autonomi, in favore dell’assicurazione privata in luogo di un Fondo dell’assicurazione obbligatoria (in tale proposta l’assicurazione privata sarebbe rimasta solo per offrire prestazioni supplementari rispetto a quelle del servizio sanitario pubblico). Ma i partiti democristiani e liberali non hanno condiviso tali proposte. Cfr. ad es. Wörz - Busse (2005). L’esito della consultazione elettorale – che naturalmente si è giocata anche su altri temi – non

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Le considerazioni di Artoni, utilizzando lo schema comportamentale di Hirschman, sono di indubbio interesse intellettuale e certamente colgono aspetti importanti del funzionamento del servizio sanitario pubblico (come di altri grandi servizi, anzitutto l’istruzione). A supporto ulteriore di tale tesi si può aggiungere che nella logica della “defezione” e della “protesta” rientra anche l’interesse elettorale dei rappresentanti politici delle classi medio-alte di redditieri: essi saranno poco interessati (o contrari) a cospicui e/o addizionali stanziamenti nei bilanci pubblici in favore della sanità, se la sanità pubblica non è obbligatoria per tutti, mentre favoriranno il “razionamento” di tali risorse, per contenere la pressione tributaria a carico dei propri elettori e/o a vantaggio di spese pubbliche che beneficiano anche i loro elettori, se questi si rivolgono (in misura significativa) a strutture esterne al servizio sanitario pubblico.

Peraltro, già ho avuto modo di osservare che, nei sistemi sociali fondati sull’economia di mercato, sulla concorrenza, sulla libera iniziativa privata – come esplicitamente affermano i trattati costitutivi dell’U.E. – è impraticabile, anzitutto sotto il profilo costituzionale, la preclusione ai cittadini di organizzare strutture private di offerta dei servizi sanitari; anche se è giuridicamente lecito, all’autorità pubblica, decidere di non incentivare (ad es. fiscalmente) la sanità privata120 e anzi di addossare ad essa tutti i costi pieni dei suoi utilizzi di strutture e del personale, eliminando le “convenzioni” tra strutture pubbliche e private per forme di utilizzi congiunti. Se dal campo costituzionale si passa a quello politico, appare difficile la drastica delimitazione della sanità privata121, poiché essa si scontra non solo con gli interessi ma anche con la visione e l’obiettivo professionale della gran parte dei medici, che sono il fulcro della domanda e dell’offerta sanitaria; e certamente si scontra con gli interessi e le convinzioni di larghi strati di cittadini-elettori, e con le esperienze generalmente insoddisfacenti (abusi, distorsioni, frodi) in molti altri sistemi organizzativi, quando si tenta di separare rigidamente “per legge” sistemi di offerta del medesimo servizio a grandi classi separate di cittadini.

Un’impostazione logicamente alternativa a quella sull’esclusività del servizio sanitario pubblico universale, sopra considerata, e peraltro assai stimolante per la riflessione teorica e per le proposte concrete di politica sanitaria si trova in Petretto. Riporto di seguito la formulazione di tale impostazione innovativa data da Petretto :”Per tutta una serie di servizi sanitari poco costosi sebbene “essenziali” (la medicina di base e parte della ha espresso un chiaro vincitore e, quindi, ha costretto ad una soluzione di governo di “grande coalizione” tra democristiani e socialdemocratici. 120 Ma l’OECD (2004 a), cap. 2, non accoglie tale impostazione. 121 Cfr. anche le osservazioni di France (2003), pp. 277-279, che si preoccupa, invece, che il razionamento possa portare al “delisting” delle prestazioni offerte dal servizio sanitario pubblico, incoraggiando quindi per tale via l’espansione dell’assicurazione sanitaria privata.

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specialistica e della farmaceutica) non vale la giustificazione basata sulle carenze dei mercati assicurativi e anche l’altra tradizionale motivazione dell’intervento pubblico, relativa alle esternalità positive connesse al livello generale di salute della popolazione, appare debole. Occorre, allora rifarsi a considerazioni di equità, da perseguire tramite forme di selezione dei beneficiari sulla base di indicatori di condizione economica. D’altra parte occorre rendersi conto che ogni sistema sanitario attua una qualche forma di razionamento, esplicito o implicito, delle prestazioni. Se, per ragioni di equità e trasparenza, è preferibile un razionamento esplicito, si possono seguire due strade: escludere dal finanziamento pubblico prestazioni molto costose, di efficacia limitata e relativamente rare122, oppure – e questa è la strada che preferisco – escludere prestazioni poco costose, sebbene diffuse ed efficaci. E’ in questo quadro che si configura la definizione di un pacchetto di prestazioni minime garantite a livello nazionale (quelle connesse a rischi “importanti”), lasciando alle singole Regioni la possibilità di integrazione e ampliamenti finanziati con risorse locali.”

E’ un’impostazione intellettualmente stimolante123, e che indica una strada nuova alle politiche sanitarie dei Paesi che da tempo hanno perseguito l’obiettivo prioritario di assicurare a tutti i residenti prestazioni commisurate al bisogno e uguali prestazioni a parità di bisogno indipendentemente dal reddito e dal luogo di residenza; ma che da alcuni anni sperimentano le difficoltà a conciliare tale obiettivo con i più stringenti vincoli del bilancio pubblico, e inoltre realizzano nel concreto un’offerta sanitaria meno uniforme di quanto le loro legislazioni ugualitarie pretenderebbero sulla carta124. Ribadisco che l’impatto più stringente dei vincoli del bilancio pubblico sulla spesa sanitaria sta a indicare storicamente che, la diffusa affermazione che i cittadini di gran parte degli Stati industrializzati europei aderiscono ai principi equitativi del servizio sanitario pubblico e universale, deve essere perlomeno qualificata alla luce del fatto, osservabile, che i medesimi cittadini-elettori, attraverso i loro rappresentanti politici, pongono limiti

122 “Questo è il caso del trapianto di midollo spinale, nella famosa esperienza dell’Oregon”. 123 Petretto (2000) premette a tale formulazione le indicazioni degli obiettivi che, realisticamente (in contesto non di risorse illimitate, ma di razionamento) possono essere richiesti ai decisori politici: “In realtà, il compito di un governo attento a migliorare il benessere di tutti i cittadini non consiste necessariamente nella prestazione di servizi uniformi su tutto il territorio, ma nell’organizzare ovunque una prestazione qualitativamente adeguata e nell’adottare i livelli di offerta dei servizi ai fabbisogni e alle caratteristiche locali. Questo richiede, in primo luogo, che siano garantiti localmente livelli qualitativi delle prestazioni tali da fare esprimere compiutamente la domanda e, in secondo luogo, che la distribuzione dei finanziamenti per la sanità fra le Regioni venga disposta sulla base di condizioni di bisogno oggettive, individuate mediante indicatori non influenzabili dall’azione degli enti beneficiari dei trasferimenti”. Il profilo del decentramento territoriale è considerato al successivo paragrafo 12. 124 Cfr. anche le osservazioni di France (2003), p. 269.

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(razionamento) così alla redistribuzione delle risorse pubbliche in favore degli impieghi nella sanità (e a scapito di altri impieghi) come alla redistribuzione delle risorse complessive tra impieghi pubblici e privati (ponendo limiti all’aumento dell’imposizione).

Ogni proposta può essere oggetto di critica, spesso dipendente da diversi “giudizi di valore”, o relativa alle inevitabili difficoltà di concreta applicazione negli ordinamenti esistenti. Ha efficacemente annotato Bosi che “L’osservazioni dei modelli sanitari adottati dai paesi europei mostra una grande varietà di orientamenti e nell’ambito di uno stesso paese, nel tempo, l’avvicendarsi dell’uno o dell’altro schema: un segnale dell’assenza di un modello vincente nell’organizzazione di questo tipo di servizio”125 .

D’altra parte, questo è vero per tutti i settori dell’intervento pubblico. Alla teoria si può e si deve chiedere gli strumenti delle analisi da calare nelle realtà complesse, governate dai confronti, accordi (mutevoli nel tempo), mediazioni tra interessi legittimi dei molteplici gruppi sociali e dei loro agenti politici che concorrono alla formazione delle scelte collettive.

11. I “bisogni” versus gli “esiti della salute”

I criteri equitativi suesposti, affermati da parte importante della letteratura – ma non accolti o sostanzialmente qualificati da altra parte – pongono dunque come obiettivo centrale della politica sanitaria la nozione di “bisogni”, cui commisurare le prestazioni, e quindi il criterio dell’uguale accesso per tutti ad esse. Elaborando definizioni delle prestazioni essenziali e dei loro gradi di urgenza (quali il pericolo di vita o di un grave peggioramento delle condizioni di salute), si cerca di preservare la nozione di “bisogni” in regime di razionamento delle risorse disponibili (risorse finanziarie e perciò sia umane, sia di strutture ricettive, sia di medicinali, di attrezzature e strumentazioni sanitarie).

Ma una corrente di studiosi (definita anche “extra-welfarista”) ha voluto superare la nozione di “bisogni”, di cui ho esposto i limiti applicativi, soprattutto in regime di razionamento; ed ha richiamato e concentrato l’attenzione sui risultati, ovvero sugli “esiti della salute” (“health outcomes”) delle prestazioni sanitarie126.

Invero, la questione è divenuta negli ultimi anni oggetto di nuova attenzione delle Autorità di numerosi Paesi, anche di quelli con tradizione consolidata di applicazione del modello del servizio pubblico universale.

125 Bosi (2006), p. 408. 126 Cfr. gli studi di Culyer (1971, 1989), Williams (1993, 1997, 2004), Wagstaff (1992), Culyer, Wagstaff (1993), Mehrez, Gafni (1989), Le Galés, Buron, Costet, Rosman, Slama (2002).

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Come ha annotato l’OECD127 “Promuovere l’accesso ai servizi sanitari è stato un obiettivo fondamentale delle politiche sanitarie nei Paesi OECD. Questo è stato perseguito rendendo universale la copertura assicurativa delle cure essenziali e prendendo iniziative per eliminare le barriere finanziarie, assicurare offerta adeguata e affrontare le disparità relative alle caratteristiche sociali. Solo assai recentemente i Paesi hanno rivolto la loro attenzione ad altre dimensioni del funzionamento del sistema sanitario – assicurando che il sistema lavori per accrescere la salute e la capacità funzionale, e che realizzi un livello adeguato di soddisfazione del paziente e della popolazione”.

Una serie di iniziative sono state intraprese, sia per migliorare il sistema informativo sui risultati delle prestazioni sanitarie, da porre a disposizione delle Autorità di finanziamento e di controllo e dei centri sanitari operativi, sia promuovendo iniziative per la diffusione degli avanzamenti della ricerca, sia raccogliendo statisticamente e sottoponendo a valutazione i risultati delle prestazioni sanitarie (sviluppando nuove tecniche di valutazione), sia infine introducendo incentivi finanziari al miglioramento dell’efficacia delle prestazioni128.

Sul piano degli studi, sono state compiute diverse ricerche empiriche, anche utilizzando le tecniche econometriche, per cercare di verificare e precisare le relazioni tra la spesa sanitaria e gli esiti della salute129. I risultati di tali studi empirici sono stati, peraltro, oggetto di numerose cautele, dubbi e critiche, perché appare assai difficile isolare il contributo della spesa sanitaria ai risultati di salute, che sono il prodotto di una funzione produttiva che utilizza, insieme alla spesa sanitaria, come variabili esplicative, variabili quali gli stili di vita, l’informazione preventiva, l’ambiente, l’igiene, fattori occupazionali e socio-economici. Nella recente analisi, sopra citata, di Nixon e Ulmann, sono utilizzati dati di 15 Paesi UE sul periodo 1980-95: la più importante conclusione raggiunta è che “le spese per la salute mentre sono tra i più importanti fattori nell’abbassare la mortalità infantile, danno un contributo solo marginale al miglioramento della speranza di vita di uomini e donne”130; con l’importante avvertenza che tale risultato scaturisce dall’analisi relativa a Paesi sviluppati. 127 OECD (2004 b), pp. 25-ss. 128 OECD (2004 b), cap. 2; sugli incentivi finanziari, dopo avere citato l’iniziativa presa in Australia, e i nuovi indirizzi nel Regno Unito, l’OECD (2004 b), pp. 40-41, osserva: “gli incentivi economici possono essere uno strumento potente per influenzare la qualità delle prestazioni. Tuttavia, possono anche provocare tentativi dei fornitori delle prestazioni sanitarie di “giocare il sistema” concentrandosi sulle dimensioni dei risultati soggetti a incentivazione finanziaria alle spese dei risultati non toccati dall’incentivo. Inoltre, poiché rimane difficile isolare gli effetti ambientali, sui risultati, che sono fuori dal diretto controllo dei fornitori delle prestazioni sanitarie, alcune iniziative corrono il rischio di penalizzare i fornitori che trattano i pazienti a più alto rischio e, così, compromettere potenzialmente l’accesso alla prestazione”. 129 Cfr. in particolare la recente rassegna critica in Nixon, Ulmann (2006). 130 Nixon, Ulmann (2006), p. 17.

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L’evidenza statistica confermerebbe, secondo i due autori, i risultati di molti altri studi e perciò renderebbe plausibile l’ipotesi che nei Paesi sviluppati (a differenza di quelli sottosviluppati, in cui maggiori spese sanitarie potrebbero produrre risultati assai positivi per gli indicatori di salute) vi sono rendimenti decrescenti alle spese per prestazioni sanitarie. Essi richiamano, per una migliore interpretazione di tali risultati, la nota analisi di Baumol131 che sostiene che, a causa delle differenze di produttività tra il settore dei servizi (bassa produttività) e il settore industriale (alta produttività) una parte crescente del reddito nazionale sarà spesa e guadagnata attraverso il settore a bassa produttività. Tale analisi si applicherebbe al settore sanitario, dove “la domanda per servizi sanitari (derivata dal concetto di “bisogni” ) è riconosciuta come illimitata finché le persone sperimentano variazioni (esogene) nel loro stato di salute”132.

Inoltre, la bassa produttività del settore è esaltata dall’essere la prestazione di tali servizi soggetta a rendimenti decrescenti: annotano i due autori che dagli anni ’80 non vi è stata alcuna innovazione cruciale nelle cure sanitarie, mentre le spese sanitarie sono aumentate fortemente (a differenza dei periodi passati segnati dalle scoperte di nuovi vaccini, della penicillina e altri, che hanno generato rendimenti crescenti basati sui prodotti, non sui servizi). Applicando l’interpretazione proposta da Baumol, i due autori concludono che essa può spiegare “il largo rendimento decrescente (tendente allo zero) della spesa sanitaria quanto ai risultati per la salute, poiché gli aumenti nella spesa sono largamente assorbiti dalla crescita dei servizi (forza lavoro) e dallo sviluppo di prodotti costosi che sono applicati solo a piccole fasce della popolazione”133. I due autori riconoscono che migliori sviluppi futuri si potranno, forse, attendere dai nuovi studi sulla genetica e sulle terapie ad essa associate.

Altra parte degli studiosi, invece, (anche in Inghilterra, dove pur prevale il pensiero “extra-welfarista”) ha posto in guardia dal sostituire, nelle priorità, l’obiettivo originario del servizio sanitario pubblico universale, ovvero l’accesso di tutti ad uguali prestazioni sanitarie per uguali bisogni, con obiettivi fondati sugli “health outcomes”. Tra gli studiosi inglesi si può segnalare la presa di posizione recente di Oliver134 che ribadisce la contrarietà alla violazione del principio dell’uguale accesso per uguali bisogni, che sarebbe prospettata dal cambio delle priorità in favore di obiettivi riferiti agli “health outcomes”. Tuttavia, il medesimo autore riconosce che al centro del futuro dibattito sulle politiche sanitarie per il servizio pubblico vi sarà, oltre alle proposte di maggiore competizione e maggiore scelta per il consumatore

131 Baumol (1967), pp. 415-426. 132 Nixon, Ulmann (2006), p. 16. 133 Nixon, Ulmann (2006), p. 17. 134 Oliver (2005); e cfr. Stornaiuolo (2005), pp. 42-48.

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(allo scopo di aumentare l’efficienza produttiva), il tema dei risultati della spesa sanitaria sulle condizioni di salute; in gran parte come conseguenza delle crescenti esigenze e difficoltà a contenere la dinamica della spesa sanitaria a carico del bilancio pubblico. Il dibattito rimane, dunque, aperto, anche nel Paese in cui ha avuto origine il “modello Beveridge” del servizio sanitario pubblico universale.

Nell’opinione dello scrivente, ferma restando l’impossibilità di confrontare oggettivamente alternativi “giudizi di valore” (di tipo etico o ideologico), il dibattito andrebbe comunque depurato dai frequenti riferimenti impliciti ad un dato sistema “ideale” (non corrispondente alle realtà osservabili) che viene posto – vittoriosamente – a confronto con un sistema reale, inevitabilmente segnato da inefficienze, abusi, contraddizioni e molteplici altre imperfezioni. L’osservazione si applica alla “idealizzazione” delle virtù del modello del servizio sanitario pubblico universale, che astrattamente garantirebbe l’accesso di tutti a uguali prestazioni per uguali bisogni: ma che si scontra nella realtà – come precisato nei paragrafi precedenti – con le arbitrarietà insite nella nozione di “bisogno”, e con la pratica impossibilità di realizzare uguaglianza piena di accessi e di prestazioni (e di identificare gli “uguali bisogni”, anche a causa dei caratteri strettamente personali della salute). Tali arbitrarietà e difficoltà si esaltano nelle condizioni attuali, e generalizzate (almeno nell’UE) di razionamento crescente delle risorse pubbliche destinate al sistema sanitario, rispetto alle potenziali domande (i “bisogni”).

Ma l’osservazione si applica altresì alla idealizzazione dei positivi effetti di un cambio delle priorità degli obiettivi in favore degli “esiti sulla salute”, che dovrebbero (idealmente) accrescere la “salute globale”135 della popolazione e la sua soddisfazione complessiva verso il sistema sanitario; e dovrebbero inoltre (e, forse, soprattutto) mettere a disposizione delle Autorità una strategia nuova ed efficace per il contenimento della dinamica della spesa sanitaria, che oggi assilla quasi tutti i Governi. Vero è che non vi sono, ad oggi, evidenze empiriche sufficienti per rivelare nel concreto le potenzialità e i limiti di tale strategia alternativa. Ma, non pare difficile prevedere che l’eventuale spostamento del “focus” prioritario sui “risultati” delle prestazioni sanitarie prospetterebbe il pericolo di nuove discriminazioni in svantaggio delle categorie di malati dalle cui cure non ci attendono,

135 L’impiego della variabile “speranza di vita”, come indicatore degli “health outcomes”, è soggetta a limitazioni interpretative, poiché non coglie lo stato di salute in costanza di vita. Pertanto alcuni autori hanno elaborato misure qualitative degli “esiti della salute”, che intendono qualificare la speranza di vita nella dimensione della qualità: “Quality Adjusted Life Years” (QALY), “Healthy Years Equivalent” (HYE), “Health Utilities Index” (HUI). Ma l’impiego di tali misure qualitative nelle verifiche empiriche solleva molteplici problemi di definizione e quantificazione: cfr. da ultimi Nixon, Ulmann (2006). E cfr. le osservazioni critiche di Stornaiuolo (2005), pp. 42-48.

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probabilisticamente, risultati positivi in termini di guarigione o di significativo miglioramento. A fronte delle probabilità di tali discriminazioni i sostenitori dell’obiettivo in termini di “health outcomes” potrebbero replicare che nulla vieta alla collettività (attraverso i suoi rappresentanti politici) di specificare gli “outcomes” desiderati così da includere (se è la volontà prevalente) tra essi risultati correlati al rinvio nel tempo del pericolo di vita (malati terminali e difficilmente guaribili), la diminuzione delle sofferenze, il prolungamento della vita anche non attiva (anziani, invalidi). L’impiego degli indici della speranza di vita nelle analisi empiriche degli “health outcomes” metodologicamente comprende, almeno parzialmente, anche tali risultati specifici; alcune analisi empiriche hanno posto come variabili dipendenti i tassi specifici di mortalità per età e sesso, e quasi tutte comprendono indici della mortalità infantile136. I sostenitori di tale impostazione insisterebbero, peraltro, sull’esigenza che, le scelte di bilancio pubblico relative al finanziamento del servizio sanitario, e quelle sulle ripartizioni dei fondi tra i molteplici impieghi del sistema sanità, non siano (totalmente) svincolate da un rendiconto dei risultati espressi dal prodotto finale “salute”137.

Ma, pur mancando (per ora) l’opportunità di una verifica empirica su di un’esperienza concreta, mi pare lecito prevedere che anche l’applicazione di tale strategia darebbe luogo a molteplici arbitrarietà e distorsioni; e che non saprebbe consegnare ai Governi una “bacchetta magica” per il controllo della dinamica della spesa.

Credo, pertanto, più ragionevoli e promettenti gli sforzi di ricercare soluzioni e graduali innovazioni che, partendo dalla ricognizione dei caratteri in essere del sistema sanitario nel Paese considerato, e degli aspetti di maggiore criticità e discussione, utilizzino le indicazioni più convincenti e meglio applicabili che gli studi, anche impostati a differenti “giudizi di valore”, hanno saputo offrire. Mi pare, in tale ottica, emblematico il riconoscimento di Oliver – pur nella sua ferma difesa del principio equitativo dell’“uguale accesso per uguale bisogno” – che il principio dovrebbe applicarsi alla fase curativa della politica sanitaria; riconosce l’autore che è invece accettabile (anche “moralmente” nella sua impostazione) assegnare priorità alla più ampia politica sociale e di bilancio verso i fattori significativi

136 Cfr. la rassegna sintetica di tali studi empirici in Nixon, Ulmann (2006). 137 È interessante la riflessione che Maciocco (2000), p. 13, trae dalla sua analisi riferita alle esperienze di vari paesi: “Ciò significa spostare la complessa e amara questione della definizione delle priorità – o per usare un termine ancora più indigesto: del razionamento dell’assistenza sanitaria – dalla dimensione “macro”, quella delle scelte politico-amministrative sui meccanismi di esclusione di determinate prestazioni o servizi, alla dimensione “micro”, quella dell’appropriatezza e del costo/efficacia nell’uso delle risorse nell’ambito dei singoli processi assistenziali”.

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ma esogeni alla salute, perché allora “l’obiettivo diretto della politica è di beneficiare persone che non sono ancora ammalate”138.

Il riconoscimento riporta alle pagine precedenti di questo articolo, dove ho espresso l’esigenza che le scelte delle priorità della politica sanitaria non siano limitate alla ristretta fase curativa, le cui condizioni sono largamente determinate da variabili temporalmente antecedenti, quali le condizioni socio-economiche, l’informazione, la prevenzione e i controlli abituali, le diagnosi precoci; il che significa che le scelte di bilancio, che intrinsecamente rappresentano un “razionamento”, dovrebbero rispondere a strategie e relative scale di priorità, per la politica sanitaria, elaborate su un campo assai più ampio della fase strettamente curativa.

12. Il profilo territoriale del servizio sanitario In più Paesi molte competenze pubbliche in materia sanitaria sono state

devolute ad enti di governo territoriale. La questione della suddivisione delle competenze pubbliche tra differenti livelli di governo è da tempo studiata in letteratura e trova generale applicazione, benché in forme, estensioni e modelli diversi, nelle esperienze degli ordinamenti concreti. In brevissima sintesi, al decentramento di competenze dallo Stato ad enti territoriali si attribuiscono i vantaggi di: affidare le scelte pubbliche decentrate ad enti che conoscono e (politicamente) rispecchiano più direttamente le preferenze e le esigenze delle singole collettività (anche in relazione alle caratteristiche del territorio e delle sue dotazioni), soprattutto quando ragioni storiche, culturali, ambientali, economiche tendono a differenziare significativamente alcune preferenze ed esigenze tra i residenti di circoscrizioni geografiche diverse; avvicinare le decisioni degli amministratori pubblici alle valutazioni degli amministrati, con il duplice beneficio di dotare i decisori di migliori opportunità di informare gli amministrati, e di accrescere le capacità di controllo di questi sui decisori politici; ridurre “l’eterogeneità delle preferenze all’interno del meccanismo di decisione collettiva in ragione sia dei fattori di comunanza sociale e culturale, che tendono a caratterizzare aree territoriali limitate, sia della possibilità di aggregarsi in modo più omogeneo in seguito a decisioni di mobilità”139; incentivare comportamenti efficienti degli enti territoriali perché i migliori risultati conseguiti da alcuni ne faranno “modello di comportamento” chiesto dai residenti-elettori delle altre aree geografiche; attivare forme di controllo dell’efficienza e lealtà istituzionale (per evitare casi di “moral hazard”) tra enti dello stesso livello in presenza di trasferimenti statali perequativi.

138 Oliver (2005), p. 593. 139 Fiorentini (2003), p. 377.

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Avverte inoltre la letteratura che vanno distinti, concettualmente (con la necessità di esaminare, quindi, le interrelazioni) l’ambito di autonomia territoriale nelle decisioni sulle direzioni di impiego delle risorse, ovvero sulle scelte attinenti le modalità organizzative del servizio a risorse date, dall’ambito di autonomia impositiva (e di indebitamento) degli enti.

L’autonomia impositiva (in senso lato, a comprendere la fissazione di tariffe e tasse per l’utilizzo di servizi offerti dall’ente territoriale) avrebbe il vantaggio di realizzare le differenti preferenze, tra aree geografiche, dei residenti verso il rapporto tra consumi privati e consumi pubblici; e inoltre di accrescere la percezione dei cittadini-elettori dell’inevitabile rapporto tra aumento della spesa pubblica e aumento della pressione impositiva per finanziarla. Si aggiunge che il coinvolgimento degli enti territoriali, dando loro un interesse specifico, nei procedimenti di accertamento di basi imponibili che sono anche erariali, migliora le possibilità dell’accertamento, gli enti territoriali portando spesso un bagaglio di conoscenze più dirette e dettagliate delle posizioni economiche dei contribuenti.

A fronte di tali vantaggi che la letteratura tende a riconoscere al decentramento territoriale di competenze pubbliche, stanno però svantaggi e limiti, ovvero stanno i pregi che la letteratura riconosce ai sistemi più accentrati di governo. In particolare, un forte decentramento territoriale può innescare fenomeni di conflittualità di competenze, con strascichi istituzionali che non sempre gli ordinamenti sono preparati a risolvere in modo rigoroso e trasparente, tra enti territoriali e stato e tra enti territoriali medesimi; la possibilità di spaccature di colorazione politica tra singoli enti e governo complica il quadro dei rapporti e può peggiorare, anziché migliorare come sarebbe nelle premesse (soddisfando le preferenze di ogni comunità), la “coesione” dei cittadini, rendendo più incerta e talora contraddittoria anche la politica sui temi nazionali riservati al governo centrale.

E’ stato inoltre osservato che un limite al decentramento è costituito dalla esigenza di dare significato concreto, percepibile dai cittadini, al concetto di “cittadinanza”, ovvero ai diritti-doveri che accomunano gli appartenenti a un medesimo Stato, unitario o federale che sia. Esemplificando, si è detto che con riferimento a “un paese scarsamente popolato come il Canada, il “collante” capace di tenere insieme il paese una volta era rappresentato dalla linea ferroviaria nazionale che collegava le due coste, mentre oggi è rappresentato dal programma Medicare e dagli altri programmi assistenziali … Questa tesi sul “collante nazionale è stata applicata anche alla Germania”140.

D’altra parte, è anche vero che l’argomento non si presta a una facile generalizzazione. Vi sono comunità territoriali di alcuni Stati, soprattutto di quelli che presentano rilevanti differenze storiche, culturali, socio-

140 France (2003), p. 267.

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economiche tra aree geografiche, che affermano con vigore (politico) che il decentramento (la “devolution” di competenze e funzioni agli enti territoriali) è condizione necessaria perché i loro cittadini vivano in modo condiviso l’appartenenza allo Stato. Naturalmente, i contenuti e i limiti delle istanze di decentramento territoriale non sono generali e immutabili, bensì variano tra Paesi e singole comunità locali, e nel tempo.

I vantaggi e gli svantaggi che la letteratura attribuisce al decentramento territoriale delle funzioni pubbliche sono attribuibili anche all’ipotesi specifica del decentramento del servizio sanitario pubblico, però con riguardo alle specificità che tale servizio presenta (esternalità, risposta ai “fallimenti” delle assicurazioni private, rispondenza a principi equitativi).

Le tesi favorevoli al decentramento del servizio sanitario pubblico si fondano, comunemente, sull’affermazione che “le autorità locali siano le più adeguate a gestire la spesa sanitaria, dal momento che conoscono meglio sia le strutture sanitarie che operano dentro i confini della loro giurisdizione che i bisogni della popolazione”141. Si accompagna una presunzione di migliore utilizzo delle risorse al livello del governo territoriale, dovuta – oltre che alle più precise conoscenze in possesso dei decisori pubblici locali – alla maggiore vicinanza (controllo politico) degli amministrati alle autorità elette, alla vicinanza di queste a tutti i soggetti della sanità operanti nel territorio, che aprirebbe più promettenti opportunità di coordinamento tra essi (ad es. con la “cooperazione programmata”)142, e all’impatto che il confronto tra i risultati ottenuti in circoscrizioni differenti avrebbe sulle pubbliche opinioni per stimolare le autorità locali a migliorare le prestazioni. Infine, si ritiene che soprattutto le aree più dinamiche ed organizzate si prestino a sperimentare – se è loro consentito dal decentramento – soluzioni innovative che successivamente possono essere replicate (anche con l’aiuto statale) dalle aree meno avanzate.

Ma anche nel caso del servizio sanitario pubblico sono portate le obiezioni, di carattere generale, al decentramento. Si evidenzia la questione delle economie di scala, sicché la dimensione territoriale potrebbe non essere adeguata all’offerta efficiente di talune prestazioni sanitarie (è il caso delle strutture ospedaliere, la cui capacità di offerta può risultare sovra- oppure sottodimensionata rispetto al bacino territoriale di utenza; o il caso dell’insediamento di macchinari assai costosi, o di laboratori e unità specialistiche di assai alto livello). Si richiama il pericolo che le autorità locali siano in posizione di relativa debolezza nel trattare con i gruppi organizzati locali che difendono rendite di posizione e promuovono interessi particolari; e che siano in posizione di minore forza negoziale negli acquisti di beni e servizi. Inefficienze potrebbero essere generate anche dagli ostacoli

141 Maino (2003), p. 32. 142 Maino (2003), p. 32.

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che le difformità delle prestazioni sanitarie, offerte delle circoscrizioni territoriali competenti, potrebbero porre alla libera mobilità dei cittadini per motivi di lavoro, di turismo, di studio143. Infine, si indicano i costi associati alle probabili incertezze e controversie sulla suddivisione delle competenze tra livelli di governo, e comunque i costi del coordinamento tra le azioni degli enti autonomi, ed i costi dei (probabili) meccanismi perequativi costituiti per permettere gli enti territoriali aventi minore capacità fiscale autonoma di offrire le prestazioni sanitarie almeno ai livelli minimi per soddisfare i bisogni di salute secondo i criteri stabiliti dai Governi e Parlamenti nazionali.

Le predette argomentazioni, che prospettano svantaggi e limitazioni del decentramento territoriale del servizio sanitario pubblico, si ritrovano in letteratura e nei dibattiti sulle politiche concrete. Peraltro, la tesi che con maggiore forza è avanzata in sfavore del decentramento, e/o per limitarne e vincolarne contenuti e portata, è che il decentramento territoriale, ad enti di governo autonomi, è tendenzialmente incompatibile con i principi dell’ugualitarismo specifico; o comunque che esso rende difficile e costoso realizzare il diritto (di cittadinanza) di accesso di tutti, ovunque residenti nel territorio, alle prestazioni sanitarie richieste dal bisogno di salute, ovvero a prestazioni di uguale livello qualitativo144.

La tesi sottolinea, anzitutto, che vi sono difficoltà nel definire un meccanismo perequativo, tra circoscrizioni aventi diverse capacità fiscali autonome , tale che garantisca effettiva uguaglianza delle prestazioni offerte dal servizio sanitario pubblico, per uguali bisogni di salute, ai cittadini (o assimilati) ovunque residenti. Le esperienze dei Paesi che si sono confrontati con il duplice obiettivo, il decentramento territoriale delle competenze sanitarie e la garanzia per tutti, indipendentemente dal luogo di residenza (e dal reddito) di prestazioni uguali per uguali bisogni, mostrano infatti che predisporre ex-ante (con i trasferimenti perequativi statali) uguali dotazioni finanziarie e strutturali pro-capite per ciascuna circoscrizione, sulla base di valori medi nazionali dei fabbisogni, non significa ancora realizzare l’obiettivo dell’uguaglianza delle prestazioni per uguali bisogni in tutto il territorio e in favore di tutti145.

Anche in presenza di uguali dotazioni pro-capite iniziali, le prestazioni sanitarie nelle singole circoscrizioni possono conseguire risultati significativamente diversi quando sono diversi, tra le circoscrizioni, i modelli organizzativi, i livelli di “efficienza x” nelle unità di amministrazione e sanitarie, la produttività e la professionalità del personale di vario ordine, gli indirizzi tecnico-scientifici prevalenti nei vari rami e le conseguenti scelte di

143 France (2003), p. 267. 144 France (2003), p. 375; Dirindin (2004). 145 Fiorentini (2003), pp. 383-385; Petretto (2000).

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priorità, nonché i criteri di valutazione degli “stati di bisogno” della salute. L’ambiente socio-culturale contribuisce anch’esso a determinare esiti territoriali differenti, ad es. per il vario grado di significatività della prassi dei “favori e raccomandazioni” personali, avendo presente che la salute è fatto essenzialmente personale. Le differenze territoriali del reddito medio pro-capite possono determinare bisogni di tutela della salute differenziati (cfr. il par. 6 sulle determinanti socio-economiche della salute oggi influenzate anche dagli ampi flussi migratori); le differenze economiche e culturali possono determinare diversità di comportamenti dei cittadini nelle decisioni di accesso alle prestazioni sanitarie, soprattutto preventive; i fattori geografici, climatici, di “stato dell’ambiente” (inquinamento ecc.) aggiungono ulteriori motivi di differenziazione territoriale.

La conclusione di tale impostazione è stata correttamente così sintetizzata146: “Poiché gli obiettivi dell’intervento pubblico in questo ambiente sono caratterizzati – nel dibattito politico e quindi anche in quello scientifico – più in termini di uguaglianza nelle caratteristiche intrinseche delle prestazioni che di uguaglianza delle risorse, non è sorprendente che gli assetti fortemente decentrati siano visti prevalentemente come non coerenti rispetto agli obiettivi e ai principi ispiratori dell’intervento pubblico”, ovvero rispetto all’obiettivo prioritario di garantire l’uguaglianza nelle caratteristiche delle prestazioni a parità di bisogno.

La tesi conduce dunque a privilegiare la scelta di un assetto sostanzialmente accentrato del servizio sanitario pubblico - o a vincolare estesamente le scelte degli enti territoriali imponendo loro gli aspetti qualificanti dei modelli organizzativi, il rispetto dei principi fondamentali dell’universalità e globalità147, l’applicazione dei criteri tecnico-scientifici stabiliti dal centro, la rispondenza delle prestazioni a “standard” nazionali anche dettagliati. Si propone inoltre di impedire, di fatto, autonomia territoriale di scelta del mix pubblico-privato (assicurazioni private integrative, prestazioni private in strutture pubbliche), e di impedire forme disuguali, territorialmente, di compartecipazione dell’utente al costo (tickets e simili)148.

Ma la tesi si presta, tuttavia, all’obiezione che essa dà per dimostrato ciò che è da dimostrare: la superiore capacità del modello centralizzato, rispetto a quello decentrato, di conseguire un maggiore grado di uniformità nelle condizioni di accesso e nei livelli qualitativi delle prestazioni sanitarie tra le (e nelle) singole circoscrizioni territoriali. Inoltre, non pare convincente assumere che i cittadini siano soltanto interessati alle “differenze” territoriali

146 Fiorentini (2003), p. 384; e cfr. le osservazioni di Dirindin (2004), che saranno riprese nella seconda parte di questo articolo dedicato all’esperienza italiana. 147 France (2003), p. 270. 148 France (2003), p. 276.

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dei livelli qualitativi delle prestazioni trascurando i livelli assoluti loro offerti: se l’assetto accentrato portasse a più bassi livelli assoluti delle qualità delle prestazioni149, ancorché a differenziali ridotti, crescerebbe l’insoddisfazione complessiva dei cittadini, perché il recupero della salute di ciascuna persona dipende dalla qualità del servizio sanitario ottenuto, non dal suo differenziale con la qualità dei medesimi servizi potenzialmente ottenibili altrove150. Resta, perciò, da dimostrare che l’assetto centralizzato del servizio sanitario non sia significativamente inferiore a quello decentrato riguardo agli incentivi all’efficiente organizzazione, alla produttività, all’avanzamento tecnologico e alla ricerca di soluzioni innovative151 e alla capacità di risposta alle esigenze particolari delle singole comunità territoriali.

I sostenitori della superiorità del modello decentrato del servizio sanitario negano o pongono in dubbio entrambi i presupposti su cui è fondata la tesi della superiorità del modello accentrato: che esso ottenga migliori risultati all’obiettivo di garantire su tutto il territorio nazionale prestazioni uniformi per qualità a parità di bisogni, e che esso produca livelli qualitativi assoluti delle prestazioni che, nel tempo, non risultino inferiori a quelli ottenibili con un modello decentrato.

Sia il ragionamento sia, e soprattutto, lo studio delle esperienze concrete e delle loro evoluzioni ha portato molti autori e “policy-makers”, a ricercare assetti di contemperazione ed equilibrio tra le due contrapposte tesi. Si riconosce che in molti Paesi “la devoluzione gode di un supporto largamente dichiarato. Si pensa che consenta un maggiore rispetto per preferenze e necessità locali”152. Presso i “policy-makers” dei paesi occidentali (dell’UE), abituati all’alternanza storica di governo di schieramenti politici contrapposti, la devoluzione è vista anche come ulteriore garanzia di democraticità, di tutela delle opposizioni nazionali che possono però governare in circoscrizioni territoriali, in rapporto anche dialettico con il governo centrale. D’altra parte, ci si preoccupa che il decentramento del servizio sanitario pubblico, soprattutto in Stati caratterizzati da forti differenziazioni sociali, culturali ed economiche (quindi anche delle basi fiscali imponibili e delle capacità di assicurarsi privatamente), mantenga il minimo livello di uniformità delle prestazioni, su tutto il territorio, necessario a realizzare il “diritto di cittadinanza” alla salute. Di per sé l’enunciazione di un “minimo livello di uniformità” è troppo generica per essere operativa, e quindi richiede la specificazione di criteri e contenuti. La specificazione operativa è stata 149 Ciò è sostenuto da chi attribuisce al decentramento i vantaggi della maggiore efficienza, maggiore dinamismo e innovazione, come sopra detto. 150 Il differenziale territoriale può, invece, spingere alla mobilità dei malati, nei limiti consentiti dagli ordinamenti, dalle capacità ricettive delle circoscrizioni aventi migliore qualità del servizio e dai costi della mobilità. 151 Cfr. anche le osservazioni di Fiorentini (2003), pp. 385-387. 152 France (2003), p. 266.

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ricercata nel riferimento alle “prestazioni essenziali” per il ripristino della salute (o per impedirne il peggioramento), e ad alcuni principi generali vincolanti l’autonomia territoriale153.

Sulle difficoltà a definire a priori, in termini di generale applicazione, le “prestazioni essenziali”, rinvio alle precedenti considerazioni nei par. 5 e 10; sicuramente tali difficoltà risultano accentuate nel profilo delle differenze territoriali. Ricordo che il “razionamento” complica la ricerca di criteri generalmente accettabili per specificare le “prestazioni essenziali”, ed a più forte ragione nel modello del decentramento territoriale del servizio.

Ho osservato che in regime di razionamento dei fondi assegnati alla spesa pubblica sanitaria opera la spinta, presso le autorità competenti, alla riduzione dei livelli e della estensione delle “prestazioni essenziali”. Se le circoscrizioni territoriali hanno autonomia non solo normativa ma anche finanziaria, quelle economicamente più forti possono supplire con entrate tributarie autonome e/o con forme di compartecipazione degli utenti ai costi, così da reperire fondi per elevare ed estendere i servizi rispetto a quelli “essenziali” finanziati dallo Stato. Altrimenti, le circoscrizioni economicamente più forti possono – nell’ambito della loro autonomia normativa e organizzativa – favorire le forme di assicurazione privata integrativa, coordinando gli interventi da essa finanziati con quelli del servizio pubblico. Nelle circoscrizioni economicamente più forti la capacità di un maggiore numero di cittadini di ricorrere eventualmente all’assistenza sanitaria privata, costituisce una valvola finale di sicurezza affinché il “razionamento” abbia effetti mediamente sopportabili.

Dal punto di vista delle Autorità delle regioni forti, vi è pertanto convenienza – se la legislazione nazionale consente loro tale spazio di autonomia – a limitare le prestazioni essenziali154, così da ridurre il proprio contributo al fondo nazionale perequativo. Dal punto di vista delle autorità centrali, può essere difficile, politicamente, in regime di “razionamento” instaurato per contenere la dinamica della spesa pubblica sanitaria, contestare alle circoscrizioni “forti” le loro decisioni che abbassano i livelli delle prestazioni essenziali (ad es. con il “delisting”) e quindi i fabbisogni di spesa pubblica.

Le difficoltà di assicurare, in regime di razionamento, prestazioni uniformi in tutto il territorio a parità di bisogni, scaturiscono inoltre dai comportamenti che le circoscrizioni economicamente più deboli possono, in quelle circostanze, trovare convenienti. Nel tempo, se le circoscrizioni economicamente forti (e meglio organizzate e internamente più efficienti) 153 France (2003), p. 270, ricorda che in Canada per accedere al contributo finanziario federale ogni provincia deve osservare cinque principi: universalità; completezza o globalità della copertura; trasferibilità o portabilità; accessibilità finanziaria; amministrazione pubblica. 154 France (2003) sottolinea la possibilità del “delisting” di alcune prestazioni come strumento con cui alcune circoscrizioni territoriali possono contenere la loro spesa.

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mantengono anche nel “razionamento”, con l’autonomia impositiva e/o con la partecipazioni privata alla copertura dei costi, oltre che con la maggiore efficienza, livelli più elevati di prestazioni sanitarie rispetto alle circoscrizioni più deboli, viene a stabilirsi un sostanziale dualismo nell’offerta sanitaria che appare politicamente incompatibile con il principio della parità di accesso a prestazioni uguali, a parità di bisogno, per tutti i cittadini ovunque residenti. Si determina, allora, da parte delle regioni più deboli la pressione politica a che sia lo Stato a ridurre il differenziale di prestazioni, per estensione e per qualità, rispetto a quelle disponibili per i cittadini delle circoscrizioni forti (con l’autonomia impositiva e/o il co-finanziamento privato). La strada più semplice, e più praticata nelle esperienze osservate, è di aumentare nel bilancio statale le dotazioni finanziarie alle circoscrizioni economicamente più deboli.

L’accettazione, da parte dello Stato, che queste circoscrizioni “deboli” presentino sistematicamente bilanci in disavanzo, da ripianare con integrazioni statali ai fondi inizialmente stanziati, tende a innescare comportamenti di “azzardo morale” di tutte le circoscrizioni, con la conseguenza di vanificare i benefici della incentivazione alla maggiore efficienza e all’innovazione che si riconoscono al modello decentrato.

Le preoccupazioni sopra espresse, circa il funzionamento del modello decentrato con differenti condizioni economiche delle circoscrizioni e in regime di razionamento, hanno certamente fondamento logico e concreti appigli in esperienze concrete. Ma, se esse vengono utilizzate per argomentare in favore del modello del servizio sanitario pubblico strettamente vincolato dalle decisioni e dal controllo del governo centrale (standard nazionali, criteri generali uniformi, monitoraggio e controlli ex-post), ritorna l’obiezione – su espressa in relazione alla pretesa superiorità del modello centralizzato verso l’obiettivo di realizzare uguali prestazioni per uguali bisogni – che resta da dimostrare che imponendo vincoli più stretti all’autonomia territoriale, finanziaria e normativa, meglio si garantisce l’uniformità, anche territoriale, delle prestazioni “razionate”. Se, infatti, i più stretti vincoli all’autonomia territoriale generano comportamenti di “azzardo morale” esse riducono gli incentivi a migliorare l’efficienza interna e a introdurre innovazioni, mentre inducono in chi economicamente può il ricorso ai servizi privati; inoltre si abbassa il grado di soddisfazione presso ampie fasce di cittadini-elettori anche perché la ridotta autonomia tende a ridurre l’aderenza delle soluzioni imposte dal centro alle esigenze particolari delle singole comunità. Allora cade la presunzione in favore del servizio sanitario pubblico strettamente vincolato e controllato dal centro.

Lo studioso che intende esprimere giudizi ed elaborare proposte, e il “policy-maker” che deve compiere le scelte (anche il mantenimento sostanziale dello “status quo” è una precisa scelta), possono perciò recepire dalla teoria gli strumenti delle analisi, non però la soluzione rappresentata da

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un dato modello generalmente “superiore”. Anche la questione del decentramento territoriale del servizio, come le altre prima esaminate, deve essere calata nella realtà storica di ciascun ordinamento concreto. L’osservazione solleva un’avvertenza. Nel considerare le argomentazioni in favore di un sistema centralizzato dell’offerta dei servizi sanitari, o comunque di un sistema in cui l’autorità centrale regola estesamente e dettagliatamente le attività affidate agli enti territoriali (fissando standard nazionali delle prestazioni, criteri generali di offerta del servizio, utilizzando ampi stanziamenti perequativi), spesso affiora l’impressione che sia mantenuta implicita l’ipotesi che lo Stato, non solo vuole porre obiettivi di interesse collettivo, precisi e coerenti, ma è effettivamente capace di realizzare tali obiettivi, superando le difficoltà organizzative e gestionali dei grandi servizi pubblici, le asimmetrie informative e altre inerenti al “rapporto di agenzia”. Tali difficoltà si presentano accentuate nel caso del servizio sanitario pubblico, perché esso deve articolarsi su tutto il territorio, raggiungere le singole persone con le loro particolarità sanitarie soggettive, affidarsi all’operatore specializzato (i medici) tanto dal lato della domanda quanto dell’offerta finale della prestazione, nonché per la definizione degli standard sanitari nazionali, ed utilizzare unità operative complesse quali le strutture ospedaliere. Le argomentazioni di carattere generale ed “ideale” debbono passare la verifica dell’analisi dei sistemi sanitari reali 155.

155 Rinvio alla successiva parte di questo articolo le considerazioni e proposte ritraibili dall’esperienza italiana e da riferimenti a quelli di altri paesi industrializzati.

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