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L’Osservatore Romano il Settimanale Città del Vaticano, giovedì 19 luglio 2018 anno LXXI, numero 29 (3.953) Basta violenze in Nicaragua

L’Osservatore Romano · invece le più spericolate invenzioni che sui so-cial si sono diffuse in maniera virale durante i ... Le ricerche dei sopravvissuti continuano ma a di-

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L’Osservatore Romanoil SettimanaleCittà del Vaticano, giovedì 19 luglio 2018anno LXXI, numero 29 (3.953)

Basta violenzein Nicaragua

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L’Osservatore Romanogiovedì 19 luglio 2018il Settimanale

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L’OS S E R VAT O R E ROMANO

Unicuique suum Non praevalebunt

Edizione settimanale in lingua italiana

Città del Vaticanoo r n e t @ o s s ro m .v a

w w w. o s s e r v a t o re ro m a n o .v a

GI O VA N N I MARIA VIAND irettore

GIANLUCA BICCINICo ordinatore

PIERO DI DOMENICANTONIOProgetto grafico

Redazionevia del Pellegrino, 00120 Città del Vaticano

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Le recenti piogge da record che hanno colpitogran parte del Giappone occidentale — ucci-dendo 200 persone e infliggendo una devasta-zione diffusa — hanno spinto gruppi di volon-tari ad annullare le loro vacanze per il “p onte”di lunedì (festa nazionale) per recarsi in mas-sa, più di ventimila, nelle zone colpite e offrireassistenza alle comunità.

Il numero dei volontari giunti sino alla pre-fettura di Hiroshima, una delle più colpite, eratalmente grande che le organizzazioni che liospitano hanno dovuto diramare degli avvisiper evitare che potessero paradossalmenteostacolare le operazioni di soccorso.

A ostacolare realmente i soccorsi sono stateinvece le più spericolate invenzioni che sui so-cial si sono diffuse in maniera virale durante igiorni dell’emergenza, come quella dello sco-nosciuto che in modalità anonima aveva fattocircolare l’avvertimento: «attenzione al perso-nale della protezione civile con uniformi nonregolari, si nascondono dei ladri!». Fake sma-scherato dopo pochi minuti.

Ma quella che invece non ha niente di falsoè la storia di Koji, il cinquantaquattrenne sala-ryman che lavora nella prefettura di Shimane.

Si era appena risposato, giusto un mese fa.La moglie Nana, quarantaquattrenne e i duefigli di lei, 13 e 2 anni, vivevano a Hiroshima,a 160 chilometri e quella sera del 6 luglio loattendevano a casa. Koji e Nana, venivano en-trambi da un divorzio, ecco qui la scelta di ri-nunciare a una seconda cerimonia nuziale, so-lo un “deeto” come dicono qui, un appunta-mento romantico fissato per il 7 luglio a Kobe,in cui si sarebbero scambiati gli anelli (le noz-ze erano ufficializzate solo su carta).

Terminato il lavoro Koji riceve una telefona-ta, è la moglie che gli chiede di fare attenzionesulla via di ritorno perché sono previste fortipiogge. Koji che ha fatto quella stessa rottacentinaia di volte la rassicura. Che qualcosanon va però se ne accorge presto quando aun’ora dalla meta trova la strada sbarrata. Koji

è “sequestrato” in auto sino alla mattina se-guente.

Quando finalmente la via si sblocca forse hagià intuito la disgrazia: di fronte a lui non c’èpiù il gruppuscolo di case del suo quartiere,non c’è più niente. La propria casa è dieci me-tri più in là, spostata come un fuscello dallaviolenza di acqua e fango. Manca interamenteil primo piano. Quella notte Koji la passa inun rifugio d’emergenza poco lontano. I soc-

corritori recuperano alcuni corpi e tra questi,poco riconoscibile, ce n’è uno che desta la suaattenzione. Una donna con un buco nell’o re c -chio ma senza orecchino. Quando la moglieNana prendeva in braccio il figlio di due anniquello continuava a toccare quel gingillo chele spuntava dal lobo. Da quel giorno, per pre-cauzione, aveva deciso di togliersi gli orecchiniin attesa che il piccolo diventasse grande. Lericerche dei sopravvissuti continuano ma a di-stanza di giorni i corpi dei bambini non sonoancora stati trovati.

Sono storie come queste che hanno toccatonel profondo la sensibilità dei giapponesi e lihanno convinti a rinunciare ai loro progetti divacanza estiva per salire su treni e aerei e diri-gersi verso le zone più colpite e poi qui trafango, sabbia e detriti, con 35 gradi all’ombra,mettersi a scavare per riportare un po’ di sere-nità tra quelle comunità.

Su radio, tv e giornali non si fa che sottoli-neare le dure condizioni degli stessi sopravvis-suti: sono 7085 gli sfollati che sono costretti adormire nelle palestre delle scuole o nelle aule,su teloni di plastica blu che non hanno nulladi confortevole. C’è chi per polemica ha perfi-no citato il caso italiano del terremoto nel cen-tro Italia del 2016 dove a coloro che erano ri-masti senza casa è stata concessa la possibilitàdi dormire in hotel. Due anni fa per il terre-moto di Kumamoto erano state messe a dispo-sizione delle strutture alberghiere ma per l’usoesclusivo da parte di anziani, donne incinta,disabili e bambini.

C’è chi avanza l’ipotesi che se il disastrofosse accaduto a Tokyo il governo avrebbe di-spiegato ben altre misure di soccorso. È subitoscattata la polemica contro il governo: in par-ticolare il primo ministro Shinzo Abe è statosubissato da critiche provenienti sia dai partitidell’opposizione che dai social per aver orga-nizzato un enkai — un banchetto — il 4 lugliosera proprio nel bel mezzo dell’emergenza del-le piogge torrenziali che poi si sono rivelateessere uno dei peggiori disastri naturali delpaese negli ultimi decenni. Il convivio gover-nativo ha attirato l’attenzione dei social dopoche alcuni dei partecipanti hanno incautamen-te pubblicato foto e commenti su Twitter.

Tra l’altro nelle foto si vedevano i convitatiche brindavano con Dasshai, il famoso, ottimoe costoso sake il cui laboratorio di produzionenella prefettura di Yamaguchi proprio in quel-le ore veniva annientato dall’alluvione.

Il Giapponepronto a ripartire

#internazionale

da TokyoCRISTIAN MARTINIGRIMALDI

Migliaiadi volontariper portareassistenzanelle zone colpitedalle piogget o r re n z i a l i

Gli effetti dell’alluvionea Kurashiki (Reuters)

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di ANTONIOZANARDI LANDI

C’è qualcosa di nuovo oggi nel sole, anzi d’anti-co, scriveva Pascoli nella poesia L’aquilone, cheun tempo a scuola s’imparava a memoria. Ri-me che, dopo tanti anni ci ricordano più lebrezze della primavera e le luminosità di Urbi-no che la scomparsa del compagno di collegio,morto prima di aver visto cadere altro se nongli aquiloni. Anche oggi c’è qualcosa di nuo-vo, anzi di antico. Non nel sole, ma nel mododi essere del nostro mondo e della politica,con un ritorno a momenti più difficili e a si-tuazioni di crisi.

Che sta succedendo intorno a noi? Sembrache i risultati raggiunti dall’Europa e dall’Ita-lia negli ultimi decenni siano messi in forse ein pericolo. Colpisce, in queste ultime settima-ne, l’inseguirsi di smentite incrociate tra i lea-der politici, un fatto che dimostra una carenzadi fiducia reciproca e di capacità d’intesa dav-vero preoccupante.

Il cancelliere tedesco, Angela Merkel, sino aieri il personaggio di maggior peso in Europa,capace di decisioni forse affrettate e rischiosema anche generose e forti, smentita sui risulta-ti raggiunti dal Consiglio europeo in materiadi migrazioni da ungheresi, cechi e polacchi.Trump smentito da Macron sui maggiori im-pegni in termini di aumento per le spese delladifesa. Il governo italiano smentito dal presi-dente francese sull’immigrazione. Trumpsmentito da se stesso dopo la conferenza stam-pa in cui ha sollevato pesanti critiche nei con-fronti della sua ospite Teresa May. Per nonparlare delle polemiche in Italia, su questionidelicate e importanti che vedono lo stesso pre-sidente della repubblica impegnato a mantene-re il paese in coerenza con impegni internazio-nali ed europei.

Siamo tornati a Babele e i nostri leader par-lano linguaggi non più comprensibili agli al-tri? O ciascuno si muove senza punti di con-tatto con altri? Senza voler fare del catastrofi-smo, constatiamo che fenomeni come quellimenzionati tendono ad anticipare grandi som-movimenti e grandi contrasti. Ricordano le in-fuocate polemiche sull’ingresso dell’Italia nellaprima guerra mondiale, quando tutti gridava-no e nessuno ascoltava. Ricordano gli orrori

successivi e la ricerca di capri espiatori, mentresarebbe bene che tutti ci rendessimo conto diquanto è pericoloso il veloce erodersi dellacredibilità e della fiducia reciproca.

Eppure il mondo è pieno, come mai prima,di uomini e di donne di grande valore e gene-rosità. Intorno a noi vediamo tanti santi mo-derni e tanti prodigi di abnegazione. Nei gior-ni scorsi sono rimasto colpito dalla pubblica-zione, sul «Corriere della Sera», di brani dilettere scritte ai genitori dai dodici ragazzinithailandesi rimasti intrappolati in una grottaper due settimane. Letterine bellissime, delica-te, profonde, generose, preoccupate quasi piùper la sofferenza dei genitori che per se stessi.Non ho potuto non pensare che un paese cheha in sé dei ragazzi con delle risorse di cuorecosì non può non avere un grande futuro.

Ma anche in Italia, se smettiamo di concen-trarci sugli scandali, pur reali, che ormai costi-tuiscono una parte preponderante dell’infor-mazione, ci accorgiamo di essere circondati dauna grande maggioranza di persone positive,dedite al lavoro e alla famiglia, generose e in-telligenti. Cosa si è inceppato nel meccanismodella rappresentanza e della gestione della po-litica? Pur consapevoli della necessità di uncambiamento profondo nel nostro modo dicontribuire alla società e al dibattito pubblico,quel qualcosa di antico che c’è oggi nell’aria cimette a disagio e ci preoccupa.

D isagioche preoccupa

#ilpunto

Cosa si è inceppatonel meccanismodella gestionedella politica?

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di ANTONELLA LUMINI

CM o n a s t e rosenza mura

he il monachesimo stia attraversando una crisiprofonda è un fatto evidente. A parte nuoviordini di recente costituzione, come Bose, imonaci di Gerusalemme, che ancora vivonouna certa espansione, numerosi monasteri econventi storici rischiano di esaurirsi da qui apochi decenni per mancanza di vocazioni.Non è sufficiente dare la colpa al mondo —senza dubbio sempre più materialista, nichili-sta e ateo — visto che, di fatto, una nuova on-data di spiritualità sta veicolando in manierasotterranea, cioè senza trovare sbocco nelleforme che offre la tradizione. C’è dunque dainterrogarsi sul perché istituzioni plurisecolarinon costituiscano più un riferimento, non cor-rispondano alla sensibilità spirituale del nostrotempo. Quello cui assistiamo richiede la lungi-miranza di uno sguardo che scavi alle radici.A tale proposito, una risposta ci viene offertadall’esperienza testimoniata dal libro di JohnMain recentemente tradotto in italiano Mo n a -stero senza mura: lettere dal silenzio (CiniselloBalsamo, Edizioni San Paolo, 2018, pagine318, euro 22), monaco benedettino, fondatore

della Comunità mondiale di meditazione cri-stiana. Nato in Inghilterra nel 1926, arruolatosinel dopoguerra presso il Servizio diplomaticobritannico, fu inviato in Malesia. Qui ebbemodo di praticare la meditazione che cominciòa integrare con la preghiera cristiana. Tornatoin Europa, nel 1958 entrò nell’Ordine benedet-tino presso l’abbazia di Ealing di Londra, do-ve gli fu chiesto di rinunciare alla pratica dellameditazione. Obbedì per oltre dieci anni, fino

a quando, nel 1969, mandato presso l’abbaziadi Sant’Anselmo di Washington D.C., si riavvi-cinò alla pratica della meditazione attraversole opere di Giovanni Cassiano e dei padri deldeserto, convinto che la preghiera contemplati-va costituisse una importante risorsa non soloper la tradizione monastica, ma per l’interacristianità. Nel 1974, ritornato a Londra, con ilsostegno dell’abate della comunità di Ealing,dette vita a un centro di spiritualità coinvol-gendo un gruppo di giovani laici a parteciparealla tradizionale vita del monastero e alla pra-tica della meditazione silenziosa: «Fin dal mo-mento della nascita e dello sviluppo del primocentro di meditazione, ci sembrava […] di es-sere stati condotti a delle rivelazioni che pote-vano indicarci la via al monachesimo del futu-ro». L’immensa ricchezza della preghiera con-templativa che caratterizzava la tradizione mo-nastica cristiana giaceva come nascosta «fino aquando non entrammo nell’esperienza stessa,che così ci rivelò i suoi tesori». Come affermanelle C o n f e re n z e Cassiano: experientia magistra,è l’esperienza che istruisce. Su questa via nonc’è altra possibilità se non la pratica diretta.«Ben presto fu chiaro che la crescita spiritualeche i nostri laici stavano sperimentando nonderivava principalmente dal recitare l’ufficiodivino, ma dalla pratica del silenzio e del lavo-ro interiorizzato della loro meditazione. (…)Questo silenzio non era il frutto di regole isti-tuzionali: era il silenzio che venivano scopren-do come presenza viva nei loro cuori». Eradunque necessario riacquisire gli insegnamentidi un’esperienza vissuta e praticata oltre quin-dici secoli prima, trasmessa e arricchita attra-verso generazioni di monaci, ma poi interrottaproprio a causa del venir meno della pratica.John Main parla pertanto di “nuovo monache-simo”, della necessità di recuperare tale espe-rienza, di riattivarne la trasmissione mettendo-ne in luce le valenze dinamiche, le potenzialitàcapaci di risvegliare un reale processo di tra-sformazione interiore. La fama del centro dimeditazione prese rapidamente a diffondersi,vennero costituiti altri numerosi gruppi di laicii cui membri praticavano quotidianamente lameditazione.

In un librodel benedettinoJohn Main

#culture

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Nel 1977 John Main fu invitato dall’a rc i v e -scovo di Montreal a fondare una nuova comu-nità benedettina di monaci e laici il cui finefosse proprio quello di praticare e diffonderela meditazione cristiana. Attraverso pubblica-zioni, registrazioni, ritiri spirituali, i suoi inse-gnamenti ebbero un’ampia divulgazione, con-tinuando a diffondersi anche dopo la sua mor-te avvenuta a Montreal il 30 dicembre 1982.Di particolare rilievo mistico le numerose lette-re inviate alle comunità costituitesi nel mondo,ora raccolte in questa pubblicazione.

La crisi del monachesimo e più in generaledel cristianesimo, afferma decisamente Main,non dipende quindi esclusivamente dal mate-rialismo, dalla perdita dei valori, ma dal fattoche «persone affamate» di profonda spirituali-tà vengano tenute lontane da ciò di cui hannobisogno. «La Chiesa è apparsa incapace di do-nare alle persone i beni di cui costoro erano inricerca». La parola meditazione nel suo sensooriginario e monastico significa «pratica sem-plice che conduce alla preghiera “pura” o sen-za immagini». Esperienza che, attraverso il si-lenzio, tende a integrare «il corpo e la mentenel cuore». Conduce a una conoscenza di Dioper partecipazione interiore, attraverso la co-noscenza della parte profonda di se stessi.L’insegnamento diffuso da Main può riassu-mersi in poche indicazioni: «Mettiti seduto,immobile, la schiena dritta. Chiudi delicata-mente le palpebre. Sii rilassato, ma vigile. Ini-zia a ripetere silenziosamente un’unica parola:noi suggeriamo il mantra “m a ra n a t h a ”. (...)Non pensare o immaginare alcunché di spiri-tuale o altro. (...) Medita ogni mattino e ognisera per un tempo variabile tra i venti e i tren-ta minuti». Questo metodo semplice, ma effi-cace, ebbe subito grande risposta promuoven-do subito la costituzione di nuove comunità dimeditazione cristiana in vari paesi. In Italia laprima comunità nacque a Firenze nel 1996, esuccessivamente in molte altre città a copertu-ra di quasi tutte le regioni. La Comunità mon-diale di meditazione cristiana, attualmente sot-to la guida di padre Laurence Freeman, mona-co benedettino olivetano, è una famiglia spiri-tuale diffusa in tutto il mondo che riuniscemonaci e laici, un vero e proprio “m o n a s t e rosenza mura”. Il messaggio è forte. La vita spi-rituale si espande irradiandosi dall’interno. Lemura che sempre hanno costituito un esplicitosegno di separazione vengono oltrepassate piùla preghiera diviene pura radicandosi nel pro-fondo. La via di salvezza non è la fuga mundi,ma l’interiore disponibilità ad accogliere la po-tenzialità creatrice che trasforma le comunitàumane in realtà di comunione in cui veicoliamore fra persone, popoli, culture, religioni,secondo il più autentico annuncio evangelico.

Naturalmente i metodi possono essere tantie altrettanto semplici da praticare, ma il fulcrodeve essere sempre costituito dalla sosta silen-ziosa attraverso cui partecipare della dimensio-ne interiore. «L’insegnamento monastico è cheil silenzio è il mezzo della trascendenza, ed ènaturale e possibile per tutti in ogni stato divita». La preghiera contemplativa conduceall’«incontro personale con il maestro viventeche dimora nei nostri cuori», produce incarna-

zione, ossia trasformazione della vita incarnataper mezzo dell’azione dello Spirito santo cheprende campo proprio nella passività della vo-lontà. Secondo i padri «la vita monastica erala meraviglia di un incontro attuale con il Ge-sù risorto e del tutto vivente». La meditazionetesse la relazione intima con il Cristo che abitadentro di noi, con quella pienezza umano/di-vina incarnata da Gesù e divenuta forza dina-mica all’interno della natura umana. Tapparaggiunta che attrae tutti a sé favorendo quelprocesso di crescita spirituale che purifica pa-cificando ogni forma di complessità, ricondu-cendo verso la semplicità, verso l’inno cenzaoriginaria, ma nella piena consapevolezza, nel-la coscienza. «La visione cristiana ha semprerispettato i processi della crescita naturale (...)redenzione significa che ogni forma di crescitaumana si incarna oramai in Cristo e ne condi-vide la realizzazione senza limiti che Egli haraggiunto». Questo il grande mistero implicitoall’annuncio evangelico perché «il cristianesi-mo trascende il mondo ed è, al contempo, pie-namente incarnato in esso». Non è dunquetanto il rapporto sentimentale e devozionaleche rende conformi alla divina umanità di Ge-sù, ma l’adesione sempre più intensa alla pre-senza interiore del Risorto. Lo Spirito santo,avendo preso dimora nella natura umana, s’ir-radia dove più trova apertura. Questo passag-gio investe l’essere e non può realizzarsi soloattraverso l’osservanza di regole e ritmi presta-biliti, ma attraverso l’esperienza interiore cherichiama al qui e ora, che chiede la consuma-zione della distanza che separa da quella luceirradiante sempre viva nel profondo. Il mona-chesimo custodisce un’immensa potenzialitàper il nostro tempo, ma richiede un rinnova-mento dal suo interno. Mònos vuol dire unico,solo, semplice. Tensione verso l’unificazionedella persona umana che opera la potenza del-la risurrezione in atto attraverso l’azione delloSpirito santo. Il monaco è quindi costitutivodella vita cristiana. Non riguarda tanto lo sta-to o il ruolo, ma richiede un atteggiamento in-teriore costantemente rivolto al mistero chetravalica e trascende per “a s s o r b i re ” in sé. Ilnuovo monachesimo dinamizza questa tensio-ne implicita alla vita cristiana stessa, può quin-di essere vissuto da tutti al di là del loro stato.

John Main (1926-1982)

#culture

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di ROBERTORIGHETTO

Il film si conclude con la voce narrante di Emi-ly che recita una sua poesia sulla morte: «An-noda i lacci alla mia vita, Signore, poi, saròpronta ad andare! Solo un’occhiata ai cavalli.In fretta! Potrà bastare! Addio alla vita che hovissuto e al mondo che ho conosciuto. E baciale colline, per me, basta una volta. Ora sonopronta ad andare». Il tormento spirituale dicolei che è considerata la più grande poetessaamericana, Emily Dickinson, emerge in tuttala sua forza nel film che Terence Davies le hadedicato, A quiet passion. Un capolavoro, gira-to fra il Belgio e il Massachussetts, in una ri-costruzione d’epoca affidata agli interni delladimora dei Dickinson.

È nella casa paterna di Amherst che Emily(1830-1886) trascorse i suoi giorni, molto lega-ta ai genitori e ai fratelli Austin e Vinnie. De-cidendo a un certo punto di chiudersi nellasua camera da letto e di vestirsi di bianco: unasorta di rifiuto del mondo esterno e delle suecomplicazioni. Ma anche l’accettazione dellapropria realtà, delle proprie ansie e dei propridubbi. Come nei confronti della religione: nelcollegio femminile ove era stata inviata rifiutòplatealmente di manifestare la propria fede cri-stiana.

Educata in un ambiente puritano rigido eformale, Emily ottiene però dal padre la possi-bilità di scrivere le proprie poesie di notte,dalle 3 fino al mattino. Ed è quanto farà finoalla morte. Quando la sorella trovò nella suastanza 1775 poesie, su foglietti cuciti con ago efilo. Prima di allora, solo sette testi erano statipubblicati. Li aveva inviati al criticodell’«Atlantic Monthly» Thomas WentworthHigginson, cui si era rivolta nel 1862 per avereun giudizio sulle sue poesie. Higginson soloin parte apprezzò i suoi versi, giungendo amodificare la punteggiatura che giudicava in-comprensibile per i lettori. Facendo molto ar-rabbiare Emily, come mostra il film in un dia-logo surreale fra i due.

Fu un pastore, il reverendo Charles Wad-sworth, che le dimostrò comprensione e affet-to, giudicando potenti i suoi componimenti.Ma la sua partenza per la California provocòun’ulteriore crisi, forse di tipo amoroso, inEmily, che si ritirò ancor più nella sua prigio-ne volontaria. Dedita solo agli affetti familiari,severa con tutti e con se stessa soprattutto,noncurante di rapporti esterni se non conl’amica Miss Buffam, come lei anticonformistafinché non decise di sposarsi.

Alla fine a Emily rimase solo la poesia, fattadi contemplazione della natura e di un facciaa faccia con Dio che diviene grido. LeggevaShakespeare, i poeti metafisici, Keats ed Emer-son. E amava moltissimo le sorelle Brontë. Ilrigore morale non le impedì di cercare un rico-noscimento del proprio valore letterario, masolo pochi versi videro la luce. «I riconosci-menti postumi sono il premio di chi in vitanon l’ha meritato»: così a un certo punto

sbotta la stupenda Cynthia Nixon che magi-stralmente l’ha interpretata, dando voce ai suoitormenti e ai suoi silenzi.

Come bene ha rilevato Antonio Spadaro nelsuo libro Nelle vene d’America (Jaca Book2013), questa «monaca ribelle» insofferente da-vanti all’ambiente religioso che respirava rivelaun profondo senso dell’esistenza. «Dovrebbesempre star socchiusa l’anima» recita un suoverso, una delle immagini più intense della suacondizione spirituale. E in un altro si chiede:«Certamente ho pregato ma di ciò Dio si pre-se cura?». Domanda che si ripete: «Tu chescateni il terremoto nel sud, e l’uragano, nelmare, dimmi, Gesù Cristo di Nazareth, non

hai tu un braccio per me?». Poesie spesso bre-vi, senza rima né metrica, con parole violentema mai blasfeme, certo trasgressive per l’Ame-rica puritana del tempo. Il film racconta Emilycon durezza e delicatezza insieme, con tonisempre più sfumati persino nei colori, a manoa mano che la sua avventura terrena va sce-mando. E ci fa penetrare nel suo mistero, unanelito d’assoluto che poteva esprimere soloscrivendo.

Monacarib elle

Il tormentospirituale

della poetessaamericana

Emily Dickinson

La locandinadel film di Terence Davies

#scaffale

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di PIETRO PAROLIN

GUna sconfittaper tutti

orizia è una città piena di storia, travolta eschiacciata dalla guerra, quasi un luogo simbo-lico che riassume in sé molti dei drammi delsecolo appena trascorso. E anche le sue diffi-coltà attuali — difficoltà sociali, economiche,imprenditoriali, religiose — non sono altro cheil riflesso della tragedia novecentesca: dei cam-biamenti, degli smembramenti, delle divisioniche dovette subire suo malgrado nel corso delXX secolo.

Quella che cento anni fa era una gloriosa efiorente città della Mitteleuropa oggi è una cit-tà che non senza fatica cerca di ritrovare iden-tità e spazio nella nuova Europa del terzo mil-lennio, finalmente riunificata dopo la fine deimuri, delle barriere, delle divisioni ideologichee politiche che hanno frantumato per troppianni la vita di tanti inermi cittadini, di tanti divoi, delle vostre famiglie, di questa comunitàcristiana che nel corso del secolo appena tra-scorso fu spezzata e lacerata in modo violentoe innaturale.

Proprio Gorizia dà ragione, credo, alle pro-fetiche intuizioni di Benedetto X V, eletto alpontificato solo un mese dopo l’inizio dellaguerra, il 3 settembre 1914, che subito parlò delconflitto come del «suicidio dell’Europa», ri-petendo poi l’espressione in molte successiveo ccasioni.

Il nuovo Pontefice era stato scelto al termi-ne di un conclave drammatico, svoltosi in unclima nel quale la tensione era evidente, quasifisica. Entrarono infatti nella Cappella Sistina57 porporati, fra i quali si fronteggiarono seifrancesi, due inglesi e un belga da una parte,quattro austro-ungarici e due tedeschi dall’al-tra. I tre Cardinali nordamericani, che avreb-bero potuto portare una riflessione pacata edestranea al conflitto, risultarono assenti per ilpoco tempo allora concesso fra la morte delPontefice e l’inizio del conclave.

L’Arcivescovo di Bologna Giacomo DellaChiesa fu scelto perché la sua carriera pregres-sa, diversamente da altri candidati, non indica-va dipendenze né verso l’Intesa né verso laTriplice. Inoltre aveva lavorato a lungo e conottimi risultati, prima di occupare la sede bo-lognese, nel servizio diplomatico della SantaSede, ciò che garantiva capacità di movimentoe conoscenza della situazione internazionale.Accanto a lui, e in totale sintonia con lui, ope-rò sempre il suo Segretario di Stato, il Cardi-nale Pietro Gasparri, abile diplomatico e speri-mentato canonista, che seppe affrontare ognisituazione con sicurezza e padronanza dei pro-blemi. Sarà il principale artefice, come sappia-mo, della Conciliazione del 1929.

L’accoppiata Benedetto-Gasparri impose su-bito alla Santa Sede la linea dell’imparzialità,

senza sbilanciamenti né da una parte né dal-l’altra. Una linea che ci appare oggi vincente,l’unica possibile in quel terreno “invivibile”,per una forza religiosa e spirituale, che è laguerra moderna. Ma allora l’imparzialità costòal vertice vaticano un drammatico isolamentodi fronte al nazionalismo guerrafondaio chetravolse tutto e tutti, senza risparmiare ovvia-mente i cattolici dell’uno e dell’altro fronte.

Una febbre che in Italia si era già manife-stata in occasione della guerra di Libia, nel1911-1912, quando Pio X fu costretto ad interve-nire per moderare gli entusiasmi di diversi ve-scovi.

Fu in occasione della diffusione della cele-bre Nota pontificia ai capi delle potenze belli-geranti del 1º agosto 1917, che il Papato dovet-te amaramente costatare la solitudine in cui sitrovava. In quella nota, come sappiamo, com-pare l’espressione “inutile strage”, a commentoe condanna della guerra che stava infliggendoperdite mai viste prima alla popolazione, an-che civile, del continente, senza lasciare intrav-vedere durature soluzioni ai problemi chel’avevano provocata. Oggi siamo tutti consa-pevoli che le immani sofferenze di quella guer-ra furono proprio una “inutile strage”, ma allo-ra tutti respinsero l’appello papale alla pace.

E dicendo tutti non mi riferisco soltanto aigoverni ma anche, purtroppo, a gran partedell’Episcopato europeo. Molti vescovi france-si e austro-tedeschi preferirono non pubblicarenei rispettivi bollettini diocesani l’appello pon-tificio (che non era un irenico invito alla con-cordia, ma una concreta proposta di soluzionedelle questioni territoriali in discussione, moltosimile alla proposta di pace che avanzeràall’inizio del 1918 il presidente degli Stati Uni-ti), con la speciosa giustificazione che il Papasi sarebbe rivolto ai governi e non ai fedelicattolici del continente.

Guardando le cose dall’alto e non dal basso,non avendo interessi propri da difendere, PapaBenedetto aveva perfettamente compreso ciòche né i governi né molti vescovi né la mag-gior parte dei cattolici d’Europa vollero com-prendere: che la guerra sarebbe stata unasconfitta per tutti, anche per i vincitori, che sistava seminando il virus malefico di nuovi ran-cori, di nuovi conflitti.

Il Papa l’aveva detto, ancora una volta pro-feticamente in diverse altre occasioni: «Le na-zioni non muoiono — aveva ammonito il 28luglio 1915, rivolgendosi ai popoli belligerantie ai loro governanti — umiliate ed oppresse,portano frementi il giogo loro imposto, prepa-rando la riscossa e trasmettendo di generazio-ne in generazione un triste retaggio di odio edi vendetta». E il medesimo concetto ribadì

Il cardinalesegretario di Statoad Aquileianel centenariodalla finedella Grandeg u e r ra

La cavalleria italiana entraa Gorizia il 9 agosto 1916

#culture

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Ermacorae Fortunato

Tre settimane dopo la visitaal santuario di Barbana, neipressi di Grado, il cardinalePietro Parolin, segretario diStato, è tornato nellaregione il pomeriggio del 12luglio. Ad Aquileia hatenuto una conferenza perricordare il centenario dellafine della prima guerramondiale (il cui testopubblichiamo quasi perintero); successivamente,nella basilica, ha presiedutola concelebrazioneeucaristica per la festa deisanti Ermacora e Fortunato,protettori di Aquileia e delFriuli. Alla messa eranopresenti, tra gli altri, ivescovi del Triveneto, dellaSlovenia, dell’Austria e dellaCroazia, invitati damonsignor Carlo MariaRedaelli, arcivescovo diGorizia. Nell’omelia ilcardinale ha richiamatoanzitutto l’ineludibileesigenza di testimoniareGesù: una testimonianzaquanto mai «urgente» e«attuale» poiché significamettersi dalla partedell’amore contro l’o dio,della cura control’indifferenza, della vitacontro la morte. «Quanteguerre, grandi o piccole —ha rimarcato Parolin — sisarebbero potute evitare e sipotrebbero evitare, quantevite si sarebbero potutesalvare e si potrebberosalvare, se si fosse lavorato esi lavorasse di più e meglioper rendere testimonianzanel nome di Gesù, cioè perfar posto a Dio, per lagiustizia, per la conoscenzareciproca tra i popoli, per ilbene comune». Il segretariodi Stato si è poi soffermatosulle figure del vescovoErmacora e dell’a rc i d i a c o n oFortunato il cui culto èantichissimo — sono citatinel Martirologiogeronimiano del V secolo —ed è stato consolidato dalpatriarca Poppone, il qualenel 1031 volle dedicare a lorola nuova basilica patriarcaledi Aquileia, oggi patrimoniomondiale dell’umanità,dopo la dedicazionemariana. Nell’illustrare i duesanti, il cardinale haosservato che Ermacora è ilvescovo con il qualecomincia il catalogoepiscopale di Aquileia. Aquesto dato si lega ancheuna leggenda, che cominciòa formarsi già durante l’VIIIsecolo nell’intento dichiarire e garantire l’op eraapostolica della Chiesa diAquileia. La leggenda narrache l’evangelista Marco fumandato in missione adAquileia dallo stessoapostolo Pietro. Qui Marcoincontrò Ermacora e loconvertì alla fede di Gesù.Quando in seguitoErmacora divenne vescovodella comunità cristiana diAquileia, scelse Fortunatocome suo collaboratore e

A un secolo dalla fine della Grande guerra

Benedetto XV nel suo studio

#culture

arcidiacono. «Ambedue —ha sottolineato Parolin — sid e d i c a ro n oall’evangelizzazione dellacittà. Ambedue subirono ilmartirio ad Aquileia,inflitto, secondo laleggenda, da un pubblicofunzionario che temeva laloro attività». La loromemoria fu subito celebratail 12 luglio, data nella qualeessi sono ricordati anche nelMartirologio romano, nellaChiesa di Aquileia e in altreChiese. Il segretario di Statoha quindi posto l’accentosul fatto che Ermacora eFortunato hanno portatouna «responsabilitàpastorale» e il «peso dellatestimonianza» alla sequeladi Cristo: perciò sonodiventati martiri subendo lastessa sorte del Signore.Parolin ha sottolineato che idue aspetti principali neiquali si può riassumerel’identità cristiana dei duesanti, e cioè il compitopastorale e il martirio, nonsono accostati in un modocasuale. E nel martirio — hacontinuato il cardinale — è asua volta racchiuso unduplice mistero: quello delmale e quello dell’a m o re .Ma lo è anzitutto in ciò cheè il paradigma di ognimartirio, cioè la croce diGesù. Croce che è alcontempo paradigma diogni male e paradigma diogni amore. Nel martirio ilmistero del male esplodecon tutta la suainsensatezza, ha osservato.Perché insensata è lapersecuzione, come pureogni altra manifestazionedella cattiveria umana, acominciare dalla guerra.«Solo la fragile voce di unPapa (Benedetto XV) avevaosato svelare l’insensatezzadi quella terminata cent’annifa, che aveva insanguinatoin modo particolare questeterre, definendola “inutilestrage”» ha detto ilsegretario di Stato. Ma nelmartirio si rende visibileanche l’altro e più grandemistero: quello dell’amore. Imartiri, come Ermacora eFortunato, indicano aicredenti, con l’esempio dellaloro testimonianza portatafino all’estremo sacrificio, lacroce di Gesù. «Lì — hasottolineato il cardinale — èla fonte dell’imp egnocristiano, dellatestimonianza, di ognivocazione, di ogni veroamore, e di ogni autenticoprogetto di pace».Guardando al crocifisso«possiamo amare, possiamovivere le beatitudini,possiamo, anzi dobbiamo,diventare santi». Ermacora eFortunato, nostri intercessoripresso il Padre, «ciottengano questa grazia» haaffermato Parolin, che haconcluso invitandol’assemblea a fare propria labellissima preghiera che laPassio Hermachorae et Fortunatimette in bocca al vescovoErmacora, rinchiuso inc a rc e re .

nell’enciclica Pacem Dei munus del 23maggio 1920, nella quale giudicò negati-vamente gli iniqui trattati di pace con-clusi a Parigi perché, scrisse, rimangonointatti e accresciuti «i germi di antichirancori».

Oggi sappiamo che tutto ciò si è tri-stemente avverato: la guerra e il dopo-guerra hanno dissolto l’ordine interna-zionale centrato sull’Europa senza riusci-re a sostituirlo in maniera equa e dura-tura; ha sepolto quattro imperi — tede-sco, austro-ungarico, russo e ottomano —aprendo una voragine politica e territo-riale che i cento anni successivi non so-no ancora riusciti a colmare, soprattuttoin queste terre dell’Europa orientale ri-spetto alle quali Gorizia è una sorta diporta di accesso; ha dato il via in Russiaad un esperimento rivoluzionario dram-matico, nel quale sono stati annientatimilioni di persone; ha precipitato il Me-dio-Oriente, dove gli antichi e consoli-dati equilibri ottomani furono sostituitidalla diarchia tardo coloniale anglo-fran-cese, in una crisi permanente, giunta pe-nosamente fino a noi, con lo strascico diperdite e di patimenti che tutti conoscia-mo, anche fra le antiche popolazioni cri-stiane che vi abitano, alle quali va inquesto momento il nostro ricordo e lanostra solidarietà; ha reso necessaria lanascita di molti nuovi Stati, deboli e in-sicuri, presto fagocitati da incontenibilie imprevedibili micro-nazionalismi, an-cora vivi e operanti; ha reso possibileciò che ancora ci riempie di orrore: l’ini-zio delle stragi di massa, di cui rimasevittima allora la popolazione armena —in soccorso della quale si mosse alloraquasi soltanto la Santa Sede — tanto darendere indispensabile il conio di unaparola fino a quel momento inesistentein tutti i vocabolari: la parola “geno ci-dio”, che oggi fa parte, purtroppo, delnostro linguaggio corrente.

Una guerra che ha aperto anche allaChiesa cattolica scenari nuovi e comple-tamente inediti, proiettandola verso lamodernità. Molte cose, infatti, sono de-finitivamente cambiate nel cattolicesimoa causa degli sconvolgimenti prodottidalla guerra.

La scomparsa dell’Impero austro-un-garico ha posto fine al sistema giuridicodella Chiesa di Stato, che era stato unodei pilastri della costituzione imperialein gran parte dell’Est europeo, compresala diocesi di Gorizia. Dalle nomine deivescovi, al controllo dei seminari, allagestione degli istituti religiosi, era loStato che controllava e sovrintendeva al-la Chiesa. Basterà ricordare la scuola su-periore del clero, il Frintaneum di Vien-na, dove andavano a conseguire i gradipiù alti dell’istruzione i migliori allievidei seminari imperiali. Il Frintaneum eraun’istituzione statale, sistemata nellaHofburg viennese, sotto il diretto con-trollo dell’Imperatore. Sappiamo che daGorizia, una delle diocesi più considera-te, sede metropolita del territorio del Li-torale, molti sacerdoti conseguirono igradi accademici al Frintaneum, dai cuiallievi venivano preferibilmente scelti an-che i candidati all’episcopato.

Questo sistema, lontano ormai dallanostra sensibilità e per noi quasi impen-sabile, aveva fornito comunque ottimivescovi, esimi professori dei seminari, at-tivi organizzatori sociali, anche in questezone prossime al mare Adriatico. Dob-biamo precisarlo per non proiettare sul

passato i criteri di valutazione del pre-sente. Tuttavia era un sistema che nonpoteva sopravvivere nella nuova Europapostbellica, nella quale si impose il siste-ma separatista, benché numerosi governidei paesi successori dell’Impero abbianocercato di conservare gli antichi dirittistatali in sacris.

Con la nascita degli Stati successori,perciò, la Santa Sede si riappropriò rapi-damente — peraltro non senza difficoltàe resistenze — della gestione ordinariadella Chiesa e delle sue istituzioni locali:la designazione dei vescovi, la guida deiseminari, la vigilanza sui regolari. Da fe-derazione di chiese nazionali, come erastata fino alla guerra, almeno in parte, laChiesa si trasformò nella grande orga-nizzazione sovrannazionale che è ora,interamente sotto la guida della SantaSede e del Santo Padre.

Un ruolo fondamentale in questo sen-so ritrovarono i nunzi apostolici, cioè gliambasciatori del Papa, che erano stati fi-no a quel momento figure prevalente-mente politiche, mentre ora recuperaro-no la loro natura più autentica: rappre-sentanti del Papa presso i Governi, maanche presso le chiese locali e le loroistituzioni, collegamento del centro ec-clesiastico romano con la periferia, fontedi informazione e di comunione da Ro-ma alle Chiese locali e dalle Chiese lo-cali a Roma.

In quest’ottica cambiò l’itinerario for-mativo dei sacerdoti, o quanto meno diquelli più promettenti, i cui studi non siconclusero più a Vienna (il Frintaneumscomparve con la fine dell’Impero) ma aRoma, nelle università pontificie. Inquesto modo il vecchio clero di Stato fusostituito da un clero romanizzato, nelquale il senso della cattolicità dellaChiesa si sostituì gradatamente al senti-mento di appartenenza nazionale primap re v a l e n t e .

Una trasformazione non meno radica-le si ebbe nel mondo missionario, fino aquel momento spesso subalterno al colo-nialismo europeo. Ma anche in questocaso dobbiamo doverosamente ricordareche proprio da queste terre nelle quali lafede ha radici antiche e sicure — dalFriuli, dal Goriziano e dalla Slovenia —sciamarono nel mondo grandi missiona-ri, che portarono l’annuncio evangelicoin terre allora remote dell’Africa,dell’America, dell’Asia, molti di loromorendovi a causa del clima, delle fati-che, della solitudine. Ricorderò solo duenomi, entrambi sloveni, che la storiogra-fia più recente ha doverosamente ripro-posto alla nostra ammirazione: IgnacijKnoblehar, che operò in Sudan, morto asoli 38 anni, e Friderik Baraga, che ope-rò fra i nativi del Nord America. Sacer-doti esemplari, provetti linguisti, intrepi-di viaggiatori, fornirono duraturi contri-

buti alla conoscenza di popolazioni eterre allora sconosciute. Mi risulta che aLubiana siano conservati molti preziosireperti etnologici che essi fecero arrivarein Europa.

Dopo la guerra Benedetto fu sollecitonell’indicare che il mondo missionariodoveva comunque cambiare strada, ab-bandonare l’ideologia coloniale nellaquale si era adagiato e promuovere l’au-tonomia, l’indipendenza, l’autogovernoecclesiastico in tutte le aree extra-euro-pee. I popoli nuovi bussavano alla portadella storia ed era tempo di dar loro lospazio che reclamavano. L’enciclica Ma -ximum illud, promulgata il 30 novembre1919, mentre si stava concludendo laconferenza di Parigi, fu il manifesto diuna rivoluzione missionaria e politica lacui importanza non è stata ancora valu-tata come merita dalla storiografia.

Nell’enciclica il Papa imponeva aimissionari europei di liberarsi dal nazio-nalismo, dall’idea della superiorità euro-pea sui popoli fino ad allora sottoposti,di promuovere le lingue locali in luogodelle lingue del conquistatore, di forma-re e valorizzare il clero indigeno, affin-ché questo «possa un giorno assumereegli stesso il governo di una cristianità»,perché, aggiunse, la cristianità non è«per nulla straniera presso nessun popo-lo» e tutti devono essere messi in gradodi raggiungere “l’eterna salute” attraver-so sacerdoti e Vescovi “propri connazio-nali”.

Benedetto sapeva di precorrere i tem-pi, dato che il mondo missionario nonera ancora pronto a recepire tale rivolu-

zione e probabilmente il clero indigenonon era ancora in grado di fare da sé,ma non ebbe esitazioni, consapevole chequesta era l’unica strada percorribile.Diversamente, anche la Chiesa cattolicasarebbe stata travolta dalla fine immi-nente delle strutture coloniali.

Il suo successore, Pio XI, proseguiràdeciso sulla medesima strada, consacran-do negli anni Trenta i primi vescovi ci-nesi, giapponesi, vietnamiti, africani.Anche in questo caso fu la guerra cheobbligò Roma ad imboccare con largoanticipo la strada dell’uscita dal colonia-lismo.

In quest’opera di valorizzazione del-l’elemento locale fu preziosa l’opera diun prelato: il futuro cardinale Celso Co-stantini, nato non lontano da Gorizia, alquale si deve la riscoperta e la salvezzadi Aquileia durante la guerra. Poi Co-stantini fu amministratore apostolico diFiume negli anni difficili dell’immediatodopoguerra e quindi, per un decennio,delegato apostolico in Cina, dove creòle strutture portanti della Chiesa cattoli-ca in quel lontano paese.

Un terzo punto va segnalato. Il leali-smo patriottico dimostrato nei vari Paesieuropei dal mondo cattolico e dallestrutture ecclesiastiche, se provocaronole frizioni con la Santa Sede prima ri-cordate, ebbero anche, però, un effettopositivo e duraturo: fecero venir meno ipregiudizi antiromani, figli di una vec-chia mentalità giurisdizionalista ottocen-tesca, largamente diffusi in Europa pri-ma della guerra, attenuando dovunque iconflitti fra Chiesa e Stato. Dopo la

guerra, infatti, in Francia si smorzaronole tensioni che avevano provocato latraumatica legge di separazione del 1905e si crearono le condizioni per la ripresadi normali relazioni con Roma. Lo stes-so accadde in Portogallo, che nel 1911aveva adottato una legge di separazioneanaloga a quella francese.

In un primo tempo ci si illuse, addi-rittura, che anche in Russia, sparito ilregime zarista, fosse possibile riavviare ilcattolicesimo. L’illusione, come sappia-mo, in questo caso si dissolse presto. InItalia caddero definitivamente le nostal-gie temporalistiche e, con il tramontodella vecchia classe dirigente liberale, siaprì la strada alla soluzione della Que-stione Romana, che si realizzò nel 1929.

Inoltre, la compatta partecipazionedei religiosi alla guerra su posizioni digrande lealismo patriottico, con la messaa disposizione delle necessità belliche dicase, edifici, fabbricati, portò dovunqueal superamento dello spirito anticongre-gazionalistico che aveva ispirato nell’O t-tocento, in numerosi Paesi (Italia, Fran-cia, Germania), gli interventi legislatividi soppressione di ordini e congregazio-ni e di esproprio dei loro beni.

E in questa nuova Europa post-belli-ca, che stava dovunque scivolando versoregimi “forti” perché le democrazie sten-tavano ad imporsi, le relazioni con i go-verni saranno gestite direttamente dalpersonale vaticano. Dopo la guerra, èRoma che tira le fila della politica con-cordataria caratteristica del ventenniosuccessivo, riappropriandosi del pienocontrollo della Chiesa, ad intra e ad

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e x t ra , a dimostrazione che si era ormai com-piuta la romanizzazione e l’universalizzazionedella Chiesa sotto il governo pontificio.

I quattro anni di guerra hanno, insomma,cambiato radicalmente il mondo, prefigurandole condizioni politiche, istituzionali e socialiche in qualche modo sono giunte fino a noi.Ebbene, non credo di peccare di partigianeria,se affermo che la Chiesa cattolica fu in diversicasi più accorta e più svelta delle istituzionicivili nel comprendere il cambiamento in attoe nell’adeguare la propria struttura istituziona-le o organizzativa al nuovo che stava irrom-p endo.

Permettetemi, infine, di dare uno sguardo aquesta terra goriziana. Anche qui il peso dellastoria era imponente, grandioso ma anche gra-voso, e la fine della guerra impose repentinicambiamenti e dolorose divisioni territoriali.La diocesi di Gorizia è nata nel 1751, con labolla di Papa Benedetto XIV che pose fine alglorioso ma ormai vetusto Patriarcato di Aqui-leia e diede vita alle due diocesi di Udine,comprendente le terre del Patriarcato divenuteveneziane, e di Gorizia, alla quale furono asse-gnate le terre patriarcali di pertinenza imperia-le. Fino al 1918 Gorizia rimase una città e unadiocesi imperiale, guidata da eminenti figuredi vescovi — da Carlo d’Attemps, a Jakob Mis-sia, a Francesco Borgia Sedej — che sepperocontenere, soprattutto dalla seconda metàdell’Ottocento, quando cominciarono a preme-re le tensioni fra le varie componenti naziona-li, le spinte centrifughe e le diversità che divi-devano il clero e il laicato, come anche la so-cietà civile e politica.

Studiosi di valore e istituzioni storiche gori-ziane sorte negli anni scorsi — ricorderò l’Isti-tuto di Storia Sociale e Religiosa e l’Istitutoper gli Incontri Culturali Mitteleuropei — han-no indagato a fondo quel complesso periodostorico. Dalle loro ricerche si ricava la grandecapacità dimostrata dalle istituzioni ecclesiasti-che goriziane di far convivere le diverse com-ponenti nazionali — italiani, tedeschi, sloveni— che qui si sono sempre intrecciate. L’i n t e re t -nicità e il plurilinguismo sono stati una carat-teristica peculiare e costitutiva di Gorizia, unacittà dove i bambini imparavano senza diffi-coltà tre lingue — italiano, tedesco e sloveno —giocando fra loro nelle piazze e nelle strade efrequentando le scuole, fra le quali spicca il se-minario maggiore, oggi sede dell’università.

E la Contea del Goriziano, nel linguaggiodel tempo, era “patria” — ricavo il giudizio dallibro di Sergio Tavano sulla Diocesi di Gorizia— in senso addirittura più pregnante di quantonon lo fossero le nazionalità emergenti. Non sipossono non rimarcare queste caratteristichebelle e positive della città e della diocesi diGorizia, che ne qualificano l’identità e la spe-cificità, anche nei confronti di città o di areeconfinanti. Anche qui si fecero sentire le spinteirredentiste, ma non con la forza che esse eb-bero in altre città del Litorale. Per questoVienna elevò all’episcopato numerosi sacerdotigoriziani, giudicandoli più duttili e capaci dialtri nel contenimento delle spinte centrifughe.

Per un secolo e mezzo questa diocesi, conalterne vicende, anche territoriali, visse al difuori degli stimoli liberali e separatisti, che in-vece divennero il comune sentire del confinan-te Regno d’Italia, coperta dall’ombrello rassi-curante della Chiesa di Stato asburgica, unamonarchia plurietnica e plurilinguistica checomprendeva popoli, lingue e religioni indi-pendentemente dalla loro appartenenza nazio-nale. E in questo contesto, al quale oggi pos-siamo ripensare con giudizio più equo edequilibrato di quanto non si facesse nel secoloscorso, e forse anche con qualche motivata no-stalgia, fiorirono anche un solido movimentosociale e molte iniziative volte al miglioramen-to delle condizioni di vita della gente menoabbiente. Il cattolicesimo sociale isontino, tan-to di parte slovena quanto di parte italiana,costituisce un capitolo importante e luminosodi queste terre.

L’annessione all’Italia, dopo la fine dellaPrima guerra mondiale, ruppe all’i m p ro v v i s oquesto equilibrio, trasferendo il Goriziano dalmondo asburgico a quello italiano, con la con-seguente irruzione di un nazionalismo divisivoed escludente. Come ha scritto Vittorio Peri,compianto scriptor della Biblioteca vaticana,originario di Gorizia, «la nuova ideologia na-zionalistica proclamava la coincidenza tra iconfini politici e quelli etnico-politici di ognistato, dichiarando minoranze da snazionalizza-re o da espellere le popolazioni alloglotte tra-dizionalmente presenti nei nuovi confini».

La fine della guerra proiettò, dunque, que-sta diocesi verso un mondo nuovo, verso ine-diti problemi ideologici, provocando artificialidivisioni territoriali e trasformandola da Chie-sa di Stato di un Impero plurinazionale, inuna periferica Chiesa di confine di uno Statolaico e nazionalista. Le traversie del vescovoSedej, come quelle del vescovo triestino LuigiFogar, sono note e vanno oltre il periodo quiin esame, ma i loro ammonimenti contro le de-rive del nazionalismo, o di un nazionalismoesagerato ed esasperato, non hanno perdutonulla della loro attualità e meritano tutta lanostra attenzione, in questa Europa del terzomillennio nella quale tali sentimenti, che spe-ravamo definitivamente superati, sembranopurtroppo riemergere.

#culture

Il martirio dei santi Ermacorae Fortunato (affresco del XIII

secolo, basilica di Aquileia)

La prima copia

Nell’occasione è statadonata al cardinalesegretario di Stato la primacopia del libro La Storiadi Giona (Torino, UmbertoAllemandi Editore, 2018).Corredato dalle splendidefoto scattate una ventinad’anni fa da Elio Ciol, ilvolume raccoglie i testi delcardinale GianfrancoRavasi, sul «profetarenitente», di Carlo Ossola,sulla parabola etica eletteraria di Giona, e icontributi sulla scoperta delmosaico curati da VittorioRobiati Bendaud,coordinatore del tribunalerabbinico del Centro-NordItalia, dello sceicco IbrahimReda, imam di Al Azhar, edi Cristiano Tiussi, direttoredella Fondazione Aquileia.La prefazione è di AntonioZanardi Landi, presidentedella stessa.

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Il Vangelo di oggi (cfr. Mc 6, 7-13) narra il mo-mento in cui Gesù invia i Dodici in missione.Dopo averli chiamati per nome ad uno aduno, «perché stessero con lui» (Mc 3, 14)ascoltando le sue parole e osservando i suoigesti di guarigione, ora li convoca di nuovoper «mandarli a due a due» (6, 7) nei villaggidove Lui stava per recarsi. È una sorta di “ti-ro cinio” di quello che saranno chiamati a faredopo la Risurrezione del Signore con la po-tenza dello Spirito Santo.

Il brano evangelico si sofferma sullo stile delmissionario, che possiamo riassumere in duepunti: la missione ha un c e n t ro ; la missione haun volto.

Il discepolo missionario ha prima di tuttoun suo c e n t ro di riferimento, che è la personadi Gesù. Il racconto lo indica usando una se-rie di verbi che hanno Lui per soggetto —«chiamò a sé», «prese a mandarli», «dava loropotere», «ordinò», «diceva loro» (vv. 7.8.10)—, cosicché l’andare e l’operare dei Dodici ap-pare come l’irradiarsi da un centro, il ripropor-si della presenza e dell’opera di Gesù nella lo-ro azione missionaria. Questo manifesta comegli Apostoli non abbiano niente di proprio daannunciare, né proprie capacità da dimostrare,ma parlano e agiscono in quanto “inviati”, inquanto messaggeri di Gesù.

Questo episodio evangelico riguarda anchenoi, e non solo i sacerdoti, ma tutti i battezza-ti, chiamati a testimoniare, nei vari ambienti divita, il Vangelo di Cristo. E anche per noiquesta missione è autentica solo a partire dalsuo centro immutabile che è Gesù. Non èun’iniziativa dei singoli fedeli né dei gruppi enemmeno delle grandi aggregazioni, ma è lamissione della Chiesa inseparabilmente unitaal suo Signore. Nessun cristiano annuncia ilVangelo “in proprio”, ma solo inviato dallaChiesa che ha ricevuto il mandato da Cristostesso. È proprio il Battesimo che ci rendemissionari. Un battezzato che non sente il bi-sogno di annunciare il Vangelo, di annunciareGesù, non è un buon cristiano.

La seconda caratteristica dello stile del mis-sionario è, per così dire, un volto, che consistenella povertà dei mezzi. Il suo equipaggiamento

Con lo stiledel missionario

risponde a un criterio di sobrietà. I Dodici, in-fatti, hanno l’ordine di «non prendere per ilviaggio nient’altro che un bastone: né pane, nésacca, né denaro nella cintura» (v. 8). Il Mae-stro li vuole liberi e leggeri, senza appoggi esenza favori, sicuri solo dell’amore di Lui cheli invia, forti solo della sua parola che vannoad annunciare. Il bastone e i sandali sono ladotazione dei pellegrini, perché tali sono imessaggeri del regno di Dio, non manager on-nipotenti, non funzionari inamovibili, non diviin tournée. Pensiamo, ad esempio, a questaDiocesi della quale io sono il Vescovo. Pensia-mo ad alcuni santi di questa Diocesi di Roma:San Filippo Neri, San Benedetto GiuseppeLabre, Sant’Alessio, Beata Ludovica Albertoni,Santa Francesca Romana, San Gaspare DelBufalo e tanti altri. Non erano funzionari oimprenditori, ma umili lavoratori del Regno.Avevano questo volto. E a questo “volto” ap-partiene anche il modo in cui viene accolto ilmessaggio: può infatti accadere di non essereaccolti o ascoltati (cfr v. 11). Anche questo èpovertà: l’esperienza del fallimento. La vicen-

Al l ’An g e l u sil Papa spiega chegli evangelizzatori

non sono managerné divi in tournée

#francesco

«Gesù invia i discepoli»

da di Gesù, che fu rifiutato e crocifisso, prefi-gura il destino del suo messaggero. E solo sesiamo uniti a Lui, morto e risorto, riusciamo atrovare il coraggio dell’evangelizzazione.

La Vergine Maria, prima discepola e missio-naria della Parola di Dio, ci aiuti a portare nelmondo il messaggio del Vangelo in una esul-tanza umile e radiosa, oltre ogni rifiuto, in-comprensione o tribolazione.

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GIOVEDÌ 12Alla presenza di Papa Francesco, che vi hapartecipato fin dall’inizio restando accanto alferetro, all’altare della cattedra della basilicavaticana si sono svolte le esequie del cardinaleJean-Louis Tauran, presidente del Pontificioconsiglio per il dialogo inter-religioso e camer-lengo di Santa Romana Chiesa. Al termine ilPontefice ha presieduto il rito dell’«ultimacommendatio» e della «valedictio». La messaè stata celebrata dal decano del collegio cardi-nalizio Sodano. Hanno concelebrato ventidueporporati, tra i quali Parolin, segretario di Sta-to, e ventitré presuli. Con i membri del corpodiplomatico accreditato presso la Santa Sede,erano l’arcivescovo Gallagher, segretario per iRapporti con gli Stati, e i monsignori Borgia,

assessore della Segreteria di Stato, e Murphy,capo del Protocollo. Una decina di familiaridel cardinale Tauran, tra i quali la nipote Ca-therine Arnould, sono giunti dalla Francia in-sieme con il sindaco di Bordeaux, Alain Jup-pé. Numerosi gli ecclesiastici e i laici che han-no voluto essere presenti: tra quanti collabora-vano direttamente con il compianto porporato,l’arcivescovo Gloder, vicecamerlengo, e il ve-scovo Sciacca, uditore generale della CameraApostolica, con il collegio dei prelati chierici;il vescovo comboniano Ayuso Guixot, segreta-rio del dicastero per il dialogo, con officiali,dipendenti laici — tra cui Luigi Filippi che haassistito il cardinale presidente fino agli ultimigiorni — ed esponenti delle religioni musulma-na, indu, sikh e buddista. Erano presenti inol-tre: personale della Biblioteca apostolica edell’Archivio segreto vaticani, membri del-l’Opera di Nazareth, e religiose delle Franci-scan Sisters of the Eucharist, che lo avevanoospitato negli Stati Uniti dov’è morto lo scor-so 5 luglio. Il cardinale Tauran viene sepoltonella basilica di Sant’Apollinare alle TermeNeroniane-Alessandrine, di cui era titolare.

La Vergine Maria, Madre e Regina del Carmeloaccompagni i vostri passi

nel cammino quotidiano verso il Monte di Dio

(@Pontifex_it, 16 luglio)

Il logo dell’assembleadei giovani delle Antille

”Il testo integraledel videomessaggio

DOMENICA 15«Saluto con affetto voi giovani che volete

trasformare la famiglia dei Caraibi. Un bel la-voro! Si vede che avete grinta e volete lottare.Andate avanti»: inizia così il videomessaggioin spagnolo che Papa Francesco ha inviato aipartecipanti all’assemblea triennale dei giova-ni, organizzata dalla Conferenza episcopaledelle Antille, in corso dal 10 al 23 nell’a rc i d i o -cesi di Fort-de-France, in Martinica. «Voi sietegiovani, ma mi domando — li ha provocati —:siete giovani o giovani invecchiati? Perché sesiete giovani invecchiati non potrete fare nulla.Dovete essere giovani “giovani”. Con tutta laforza della gioventù per trasformare. E la pri-ma cosa che dovete fare è vedere se vi “sietesistemati”. No, se vi siete sistemati, la cosanon va. Quanti di voi si sono sistemati devonosmuoversi e iniziare a lottare». Quindi il Papaha parlato dell’Amoris laetitia: «Avete fatto vo-stre — ha constatato — le direttive dell’Esorta-zione post-sinodale sulla famiglia, per trasfor-mare la famiglia dei Caraibi. Portarla avantioggi per domani, ossia nel presente per il fu-turo. E oggi voi, per capire il presente, dovetesaperla descrivere, saperla comprendere per af-frontare il domani. E nel cammino da oggi adomani avete bisogno della dottrina sulla fa-miglia e l’avete nel capitolo quarto dell’Esorta-zione: lì sta il nucleo. Studiatelo. Vedetelo eavrete i modelli per andare avanti». Successi-vamente il Pontefice ha spiegato che «non sipuò guardare al domani senza guardare a ieri.Non si può guardare al futuro senza rifletteresul passato. Voi vi preparate per trasformarequalcosa che vi è stato dato dai vostri anziani.Ricevete storia di ieri, ricevete tradizioni di ie-ri. Avete radici e su questo voglio soffermar-mi» perché «non puoi fare nulla nel presentené nel futuro se non sei radicato nel passato,nella tua storia, nella tua cultura, nella tua fa-miglia. Tutti noi e voi non siamo stati fabbri-cati in un laboratorio, abbiamo questa storia,queste radici». Infine il Papa ha raccomandatodi non dimenticare «che l’amore ha forza pro-pria» e «non finisce mai... Voi state trasfor-mando qualcosa — ha concluso — che è pertutta l’eternità. Quella forza propria che reste-rà per sempre. Che bel lavoro vi siete messi af a re » .

#7giorniconilpapa

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di GUA LT I E R OBASSETTI

Mai come in questo momento, proprio quandole voci critiche sembrano essere sempre piùnumerose, è necessario rimarcare con vigorel’importanza religiosa, culturale e politicadell’Europa unita.

Ne ho avuto una chiara testimonianza nelviaggio in Ucraina, invitato dall’a rc i v e s c o v omaggiore Sviatoslav Shevchuk, capo e padredella Chiesa greco-cattolica ucraina. Parteci-pando al pellegrinaggio presso il santuariomariano di Zarvanytsia e visitando Leopoli, hopotuto toccare con mano la periferia dell’Eu-ropa. Sofferente a causa della guerra, ma deci-samente viva e ricca di speranza. Una periferiache, senza dubbio, ha molto da insegnareall’intero continente che, mai come oggi, ha lanecessità impellente di ritrovare quella chePaolo VI chiamava «l’anima dell’Europa». Peralmeno tre motivi.

Prima di tutto, per la riscoperta autenticadella sorgente della fede. La Chiesa greco-cat-tolica ucraina è una Chiesa martire che per de-cenni ha vissuto l’esperienza drammatica di unregime tirannico e che oggi, dopo essere stataprovata duramente, vive una fede testimoniatacon gioia e speranza. Le tante fiaccole che hovisto ardere dinanzi a Zarvanytsia rappresenta-no simbolicamente le piccole fiammelle di fedeche ogni credente porta nel suo cuore e che,tutte assieme, mostrano al mondo quella luceimmensa che è il messaggio di amore di Gesù.La nostra vecchia Europa ha bisogno di risco-prire questo messaggio di amore, la gioia delVangelo e la bellezza della vita cristiana. C’èbisogno di una rinnovata evangelizzazione, diuna fede autentica per risvegliare quegli uomi-ni e quelle donne che sono spenti nello spiritoe per ridare speranza alle persone sfiduciateper la sofferenza, la povertà e la solitudine.

Poi, per la valorizzazione delle radici cultu-rali e sociali del continente. In Ucraina ho vi-sto una Chiesa giovane e una comunità viva.È quello che annuncia il Papa e che anche ilprossimo sinodo cercherà di valorizzare: unaChiesa in uscita, dinamica, inclusiva verso ipoveri e che sappia assumere, esistenzialmente,uno sguardo giovane sul mondo. L’Italia el’Europa hanno fortemente bisogno di un pen-siero giovane, capace di intuire soluzioni nuo-

ve per i grandi problemi che le vecchie genera-zioni hanno causato. C’è un urgente bisognodi nuove energie morali, per vincere la stan-chezza di una società invecchiata e rinunciata-ria, e soprattutto c’è l’evidente necessità dicuori giovani, capaci di passione e di sacrifi-cio, per pagare il prezzo alto della verità.

E infine, per l’assoluta necessità di riscoprirel’unità politica dell’Europa. Un’unità che ha leradici antiche di sant’Agostino, Carlo Magnoe Papa Pio II, ma che al tempo stesso ha leprospettive nuove di una comunità che nonpotrà non essere aperta, solidale e in pace. Laposta in gioco è altissima. Ho visto con i mieiocchi, nella ex chiesa dei gesuiti, a Leopoli, lefoto dei giovani morti per la guerra attuale. Laguerra è una pagina sanguinosa che la vecchiaEuropa ha conosciuto in un passato recente.Due conflitti mondiali che hanno prodotto mi-lioni di morti e che, come drammaticamentedisse Benedetto XV nel 1916, avrebbero potutoportare «al suicidio dell’E u ro p a » .

Abbiamo pagine importanti del magisteropontificio sull’Europa che andrebbero medita-te con grande attenzione. Tutti questi docu-menti portano in un’unica direzione: l’E u ro p acome famiglia di famiglie, come luogo di soli-darietà e carità, come comunità di popoli inpace che supera gli egoismi e i rancori nazio-nali. Questo è quello di cui abbiamo bisogno:un’Europa unita, pacificata e solidale, che nonspeculi sui conflitti sociali e sulle divisioni po-litiche, che non pratichi la non cultura dellapaura e della xenofobia, ma che costruisca,con animo puro, la cultura dell’incontro e del-la solidarietà per un nuovo sviluppo della pro-mozione umana.

Per un’E u ro p aunita

Il santuario marianodi Zarvanytsia

#dialoghi

Il ruolodella Chiesag re c o - c a t t o l i c au c ra i n a

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di ENZOBIANCHI

L’

La moltiplicazionedei pani

29 luglioXVII domenica

del tempoo rd i n a r i o

Giovanni 6, 1-15

Dirk A. Walker, «Gesù sfamai cinquemila» (particolare)

o rd o delle letture bibliche dell’annata liturgicaB ha previsto che, giunti nella lettura di Marcoall’evento della moltiplicazione dei pani (cfr.6, 35-44), si interrompa e la si sostituisca conla lettura dello stesso episodio narrato nelquarto vangelo. Per cinque domeniche si leggedunque il sesto capitolo di Giovanni, che ri-chiede una breve introduzione generale.

In verità questo capitolo, tutto incentratosul tema del «pane di vita» che mai appare al-trove, sembra piuttosto isolato nello svolgi-mento del racconto giovanneo. Con buonaprobabilità si tratta di un brano aggiunto perdare alla Chiesa giovannea una catechesisull’eucaristia, essendo il racconto della suaistituzione mancante nel quarto vangelo, sosti-tuito da quello della lavanda dei piedi (cfr. 13,1-17). Questo capitolo in ogni caso è decisa-mente importante nel quarto vangelo, perchéproprio attraverso la comprensione eucaristicaPietro e gli altri discepoli giungono alla con-fessione dell’identità di Gesù: per i giudei è ilfiglio di Giuseppe, semplicemente un uomodella Galilea (cfr. 6, 42), mentre Gesù dichiaradi essere il Figlio di Dio, colui che è discesodal cielo come inviato del Padre (cfr. 6, 57); lavera identità di Gesù è proclamata con la con-fessione di Pietro, che riconosce in lui «il san-to di Dio» (6, 69).

Della moltiplicazione dei pani i vangeli cidanno ben sei testimonianze perché Matteo eMarco hanno conservato due tradizioni diquel “pro digio”, recepito dalla Chiesa comeprofetico del dono del pane eucaristico datoda Gesù ai suoi discepoli la sera della sua pas-sione. Il quarto vangelo in modo ancora piùesplicito lo narra come “segno” (semèion) cheannuncia il dono del corpo e del sangue,dell’intera vita di Gesù.

Gesù si trova in Galilea, sul lago di Tiberia-de, quando decide di attraversare l’ampia inse-natura per raggiungere l’altra riva, sempre sullato occidentale del lago, forse per cercare unluogo di riposo e di preghiera. Ma «una gran-de folla» lo segue, e subito l’evangelista ce nefornisce la ragione: Gesù ha compiuto moltisegni sui malati, la sua azione e la sua predica-zione destano stupore e curiosità. Questa sem-bra dunque essere un’ora di successo per lui,

che sceglie di salire sul monte, come aveva fat-to Mosè in occasione della celebrazionedell’alleanza tra Dio e il suo popolo. Viene an-che esplicitata un’informazione temporale:«Era vicina la Pasqua, la festa dei giudei». Eradunque un’ora di vigilia (come quella dell’isti-tuzione eucaristica), e infatti il segno che Gesùopererà sarà il segno della Pasqua cristiana pereccellenza.

Seduto in alto, Gesù ha davanti a sé lagrande folla, che osserva alzando gli occhi: èuna folla in attesa! Ed ecco che liberamente egratuitamente prende l’iniziativa di dare un se-gno, di compiere un gesto che racconti l’a m o redi Dio, il quale ama così tanto l’umanità dadarle in dono suo Figlio (cfr. Giovanni 3, 16).Chiama a sé un discepolo, Filippo, e gli chie-de: «Da dove potremo comprare il pane persfamare costoro?». In realtà Gesù sa cosa staper compiere, perché la sua intenzione è fruttodella sua comunione con i pensieri di Dio, che

#meditazione

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lui chiama «Padre». Filippo invece compie icalcoli per determinare la spesa dell’acquistodel pane per tanta gente e Andrea fa presenteche i cinque pani d’orzo e i due pesci che unragazzo ha portato con sé sarebbero assoluta-mente insufficienti.

Allora Gesù, con la sua sovranità, chiede aidiscepoli di far adagiare la folla su quell’erba

trascende in un’inedita pienezza i segni operatida Dio stesso nell’esodo, ma la gente chegiunge a questa comprensione di Gesù traedelle conseguenze che egli rigetta, fino a sot-trarsi e a fuggire nella solitudine. Infatti, postadi fronte a quel segno profetico e a quel prodi-gio della moltiplicazione del pane condiviso,la folla pensa che sia giunta l’ora di proclama-re Gesù re dei giudei e di celebrare la sua glo-

verde che ricorda i pascoli dove Dio, il pasto-re, conduce le sue pecore (cfr. Salmi 23, 2), af-finché abbiano cibo abbondante. Poi davanti atutti compie il gesto: «Prese i pani e, dopoaver reso grazie (eucharistèsas), li distribuì aquelli che erano adagiati sull’erba, e lo stessofece con i pesciolini, secondo il loro bisogno».Ecco il segno dato e i gesti che preannuncianoquelli dell’istituzione eucaristica nell’ultima ce-na: Gesù prende nelle sue mani il pane, rendegrazie a Dio (o lo benedice, secondo Marco eMatteo), lo spezza e lo dà, lo distribuisce aidiscep oli.

È lui, il Cristo Signore, che dà, distribuisce(dèdoken) quel pane che sfama cinquemila per-sone, quei cinque pani che, condivisi, riesconoa saziare tutti. E proprio in virtù di questaazione totalmente decisa e fatta da lui stesso,potrà dire: «Il pane che io darò è la mia carneper la vita del mondo» (Giovanni 6, 51). CosìGesù appare come il profeta escatologico, benpiù di Eliseo che aveva moltiplicato i panid’orzo (cfr. 2 Re 4, 42-44), perché non soccor-re solo la fame, il bisogno umano di mangiareper vivere, ma fa il dono del suo corpo, aman-do i suoi sino alla fine (cfr. Giovanni 13, 1). Ilpane, che è una necessità per l’uomo, per ilsuo bisogno di vivere, è anche ciò che Dio do-na a ogni creatura (cfr. Salmi 136, 25). Nel ge-sto di Gesù vi è dunque il venire incontro albisogno umano ma anche la narrazionedell’amore di Dio, amore gratuito e sovrab-bondante, eccessivo, che non chiede contrac-cambio, ma solo accoglienza e ringraziamento.

Anche l’ingiunzione di Gesù «raccogliete ipezzi avanzati, perché nulla vada perduto» haun significato particolare: non manifesta solol’abbondanza del pane condiviso ma significache sempre nella comunità del Signore ci saràil pane eucaristico, che dovrà essere conservatocon cura e sollecitudine.

Il racconto di questo segno si risolve peròin un malinteso. Attraverso questo segno Gesùha voluto rivelare qualcosa della sua identità edel suo inserimento nella storia di salvezza: èil profeta, è il messia, è colui che rinnova e

ria. Equivoco, malinteso che svela come anchel’acquisizione della conoscenza di Gesù possaessere sviante e tradire la sua vera identità el’autentica intenzione dei suoi gesti.

Percepire Gesù come re al modo dei re, deipotenti di questo mondo, sarebbe negare lamissione che egli ha ricevuto dal Padre e ac-consentire alle intenzioni del principe di que-sto mondo, Satana. Gesù è il re dei giudei, etale sarà proclamato sulla croce dal titolo chePilato farà innalzare sul suo capo (cfr. Giovan-ni 19, 19); ma è un re crocifisso, nella debolez-za dell’uomo dei dolori, vittima dell’odio delmondo, solidale con i perseguitati, gli oppres-si, i poveri, gli scarti della storia. La numerosafolla misconosce dunque quel Gesù che ha se-guito, perché lo interpreta e lo vuole secondo ipropri desideri e le proprie proiezioni, non es-sendo disposta ad accettare un profeta e mes-sia conforme al disegno di Dio. È significativoche Giovanni annoti che «volevano impadro-nirsi di lui per farlo re», volevano cioè ridurloa un oggetto, un idolo plasmato dai loro desi-deri, volevano un messia con un programmamondano. Ma Gesù rifiuta perché sa che quelpotere che gli vogliono dare non è il vero po-tere conferitogli dal Padre. Come aveva fuggi-to le tentazioni di potere nel deserto (cfr. Ma r -co 1, 12-13; Ma t t e o 4, 1-11; Luca 4, 1-13), così orasi ritira nella solitudine della montagna, fug-gendo dalla folla che lo acclama, discernendol’illusione di un apparente successo, che nonpuò né desiderare né accettare. Salendo suquel monte, da solo, lasciando a valle anche idiscepoli, Gesù medita su quell’i n c o m p re n s i o -ne e si affida nuovamente al Padre, affidando-gli anche quella folla e quei discepoli che nonavevano capito né il suo gesto né la sua inten-zione.

Ma il seguito del racconto, che ascolteremonelle prossime domeniche, ci rivelerà, attraver-so un lungo discorso di Gesù, che colui cheha dato il pane in abbondanza è in verità luistesso il pane dato da Dio all’umanità per lapienezza della sua vita.

#meditazione

Eric Feather, «La moltiplicazionedei pani e dei pesci»( p a r t i c o l a re )

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Provenienti dalle oltre duecento diocesi di tuttaItalia, decine di migliaia di giovani

si metteranno in cammino a piedi nella primasettimana di agosto per incontrare Papa

Francesco sabato 11 e domenica 12. Partendoalla riscoperta delle vie dei pellegrini delle loro

terre d’origine, convergeranno a Roma,dapprima al Circo Massimo (nel pomeriggio

di sabato 11) e poi in piazza San Pietro(la mattina di domenica 12)

dove sono attesi almeno in cinquantamilaaccompagnati da più di cento vescovi.

#controcopertina

Per mille strade verso Roma