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E’ possibile un trattamento psicoanalitico del comportamento antisociale in adolescenza? In questo lavoro vorremmo discutere del trattamento psicoanalitico del comportamento antisociale degli adolescenti, mostrando non solo l’utilità di una comprensione psicodinamica dell’antisocialità, ma anche la possibilità di un intervento psicoanaliticamente orientato. La questione è complessa perché da una parte gli orientamenti più recenti nella letteratura sull’efficacia degli interventi psicoterapeutici in questo ambito tendono a negare l’utilità di una prospettiva psicoanalitica; d’altra parte, il trattamento degli adolescenti antisociali ha da sempre costituito una sfida per la psicoanalisi stessa. Eissler (1953), per esempio, ha ritenuto che nel trattamento della delinquenza e degli adolescenti la tecnica dovesse essere modificata in tutti i suoi aspetti essenziali e non solo attraverso l’introduzione di parametri (deviazioni) momentanei. Più recentemente, Kernberg (1997) ha sottolineato le grandi difficoltà al trattamento di adolescenti con personalità antisociale, non solo per le difficoltà ad elaborare la dimensione diffidente e persecutoria del transfert con gli adolescenti che presentano un narcisismo maligno, ma anche manifestando un grande scetticismo sul trattamento di adolescenti con un tipo di antisocialità psicopatica, per l’impossibilità di avviare una relazione terapeutica, soprattutto a causa di una loro strutturale incapacità a costruire un legame. Ultimamente, nel volume a cura di Person, Cooper, Gabbard (2005) Psicoanalisi. Teoria, clinica, ricerca, si ribadisce che le principali controindicazioni per la psicoanalisi riguardano il disturbo antisociale di personalità, accanto al disturbo ossessivo-compulsivo. La difficoltà a trattare psicoanaliticamente gli adolescenti antisociali sembra essere l’espressione di una parallela e più generale difficoltà a trattare gli adolescenti e la loro tendenza ad agire, almeno all’interno di un setting classico. Sempre Eissler (1958), per esempio, nella discussione sul setting psicoanalitico ha sostenuto che con gli adolescenti l’analista non si può basare su un’unica tecnica, ma deve utilizzare diverse tecniche poiché l’adolescente (tranne i casi in cui vi sia già una stabilizzazione della struttura) sta ancora definendo il proprio “stile” di patologia e solo ad una patologia “nevrotica” sarebbe applicabile il setting classico. Sottolineando la difficoltà del lavoro psicoanalitico con i preadolescenti e gli adolescenti, anche Redl (1966) auspicava una “terapia d’ambiente”, ritenendo che spesso con gli adolescenti l’intervento in un setting “pressurizzato” è inadatto e proponendo in alternativa il “colloquio sullo spazio vitale”, un intervento clinico che si colloca ai margini delle istituzioni in cui crescono gli adolescenti e che si propone di favorire lo “sfruttamento clinico” degli eventi della vita, fornendo una specie di “pronto soccorso” emotivo immediato agli adolescenti, in una prospettiva esplicitamente evolutiva (p. 58). Anche Blos (1979), d’altra parte, ha sostenuto la rilevanza di un’attività di consultazione per l’adolescenza vicina ai luoghi di manifestazione del disagio, prevalentemente orientata all’aiuto nella risoluzione di problemi e particolarmente indicata nei casi in cui il disagio si manifesta in forme “agite”, che coinvolgono l’ambiente, più che interiorizzate ed espresse attraverso la produzione di sintomi strutturati e stabili nel tempo. Secondo Blos, lo scopo principale di questo intervento è di sostenere l’Io nell’affrontare i conflitti, aiutandolo a rimettere in moto il processo evolutivo bloccato. La nascita della psicoanalisi dell’adolescenza in Italia Non è un caso che in particolare in Italia la psicoanalisi dell’adolescenza, con le innovazioni tecniche che hanno cercato di rispondere alle resistenze dell’adolescente ad aderire ad un setting classico sia nata proprio all’interno degli interventi con gli adolescenti antisociali sottoposti a procedimenti penali, ormai più di cinquant’anni fa. Novelletto ricorda nella prefazione di un suo libro (1986) che il primo nucleo di professionisti che in Italia negli anni 60 sentì l’esigenza di una specifica competenza di psicologia, psicopatologia e psicoterapia dell’adolescenza furono proprio i consulenti che lavoravano nei Gabinetti ALFIO MAGGIOLINI, CRISTINA SAOTTINI Comportamento antisociale e nascita dell’identità sociale

Maggiolini, Saottini - Comportamento antisociale e nascita dell'identità sociale

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E’ possibile un trattamento psicoanalitico del comportamento antisociale in adolescenza? In questo lavoro vorremmo discutere del trattamento psicoanalitico del comportamento antisociale degli

adolescenti, mostrando non solo l’utilità di una comprensione psicodinamica dell’antisocialità, ma anche la possibilità di un intervento psicoanaliticamente orientato.

La questione è complessa perché da una parte gli orientamenti più recenti nella letteratura sull’efficacia degli interventi psicoterapeutici in questo ambito tendono a negare l’utilità di una prospettiva psicoanalitica; d’altra parte, il trattamento degli adolescenti antisociali ha da sempre costituito una sfida per la psicoanalisi stessa. Eissler (1953), per esempio, ha ritenuto che nel trattamento della delinquenza e degli adolescenti la tecnica dovesse essere modificata in tutti i suoi aspetti essenziali e non solo attraverso l’introduzione di parametri (deviazioni) momentanei. Più recentemente, Kernberg (1997) ha sottolineato le grandi difficoltà al trattamento di adolescenti con personalità antisociale, non solo per le difficoltà ad elaborare la dimensione diffidente e persecutoria del transfert con gli adolescenti che presentano un narcisismo maligno, ma anche manifestando un grande scetticismo sul trattamento di adolescenti con un tipo di antisocialità psicopatica, per l’impossibilità di avviare una relazione terapeutica, soprattutto a causa di una loro strutturale incapacità a costruire un legame. Ultimamente, nel volume a cura di Person, Cooper, Gabbard (2005) Psicoanalisi. Teoria, clinica, ricerca, si ribadisce che le principali controindicazioni per la psicoanalisi riguardano il disturbo antisociale di personalità, accanto al disturbo ossessivo-compulsivo.

La difficoltà a trattare psicoanaliticamente gli adolescenti antisociali sembra essere l’espressione di una parallela e più generale difficoltà a trattare gli adolescenti e la loro tendenza ad agire, almeno all’interno di un setting classico. Sempre Eissler (1958), per esempio, nella discussione sul setting psicoanalitico ha sostenuto che con gli adolescenti l’analista non si può basare su un’unica tecnica, ma deve utilizzare diverse tecniche poiché l’adolescente (tranne i casi in cui vi sia già una stabilizzazione della struttura) sta ancora definendo il proprio “stile” di patologia e solo ad una patologia “nevrotica” sarebbe applicabile il setting classico. Sottolineando la difficoltà del lavoro psicoanalitico con i preadolescenti e gli adolescenti, anche Redl (1966) auspicava una “terapia d’ambiente”, ritenendo che spesso con gli adolescenti l’intervento in un setting “pressurizzato” è inadatto e proponendo in alternativa il “colloquio sullo spazio vitale”, un intervento clinico che si colloca ai margini delle istituzioni in cui crescono gli adolescenti e che si propone di favorire lo “sfruttamento clinico” degli eventi della vita, fornendo una specie di “pronto soccorso” emotivo immediato agli adolescenti, in una prospettiva esplicitamente evolutiva (p. 58). Anche Blos (1979), d’altra parte, ha sostenuto la rilevanza di un’attività di consultazione per l’adolescenza vicina ai luoghi di manifestazione del disagio, prevalentemente orientata all’aiuto nella risoluzione di problemi e particolarmente indicata nei casi in cui il disagio si manifesta in forme “agite”, che coinvolgono l’ambiente, più che interiorizzate ed espresse attraverso la produzione di sintomi strutturati e stabili nel tempo. Secondo Blos, lo scopo principale di questo intervento è di sostenere l’Io nell’affrontare i conflitti, aiutandolo a rimettere in moto il processo evolutivo bloccato.

La nascita della psicoanalisi dell’adolescenza in Italia Non è un caso che in particolare in Italia la psicoanalisi dell’adolescenza, con le innovazioni tecniche che

hanno cercato di rispondere alle resistenze dell’adolescente ad aderire ad un setting classico sia nata proprio all’interno degli interventi con gli adolescenti antisociali sottoposti a procedimenti penali, ormai più di cinquant’anni fa. Novelletto ricorda nella prefazione di un suo libro (1986) che il primo nucleo di professionisti che in Italia negli anni 60 sentì l’esigenza di una specifica competenza di psicologia, psicopatologia e psicoterapia dell’adolescenza furono proprio i consulenti che lavoravano nei Gabinetti

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medico-psicopedagogici distrettuali, che avevano introdotto psichiatri e psicologi come consulenti negli Istituti di osservazione e nelle Case di rieducazione per i minori delinquenti. Anche Senise (nella prefazione al libro sulla psicoterapia breve di individuazione, Aliprandi, Pelanda, Senise, 1990), ricorda come il metodo della psicoterapia breve di individuazione sia nato nel lavoro con gli adolescenti sottoposti a procedimenti penali. Racconta i primi interventi nel 1952 e poi l’istituzione con una legge del 1956 dei Servizi sociali e medico-psico-pedagogici per i minorenni imputati di reato e soggetti ad interventi amministrativi contro il disadattamento minorile, sostenendo esplicitamente che fu proprio questa pratica a portarlo ad introdurre le modificazioni nella tecnica psicoanalitica per il trattamento degli adolescenti nella direzione della psicoterapia breve di individuazione.

In realtà, l’attenzione agli adolescenti difficili o traviati, con problemi di comportamento, fa parte della storia originaria della psicoanalisi, a partire da autori classici come Aichorn (1951), Bernfeld (…) e Zulliger (…). In questi casi, tuttavia, si riteneva che la psicoanalisi potesse essere soprattutto un ottimo strumento di comprensione del significato di un gesto deviante, lasciando poi il campo d’intervento ad operatori sociali e educativi. Zulliger per esempio usava il termine di pedoanalisi, per indicare un intervento educativo orientato in senso psicoanalitico.

Il problema del rapporto tra prospettiva sociale, educativa e psicologica o psicoanalitica nell’ambito dell’intervento con gli adolescenti antisociali, in particolare quelli sottoposti a procedimenti penali, non è solo una questione tecnica e teorica, ma ha importanti risvolti professionali e istituzionali. Novelletto (1986) racconta il dibattito culturale e professionale negli anni Sessanta tra gli psicologi ad orientamento psicoanalitico e i sostenitori di un orientamento sociologico, che alla fine uscì vittorioso, portando il gruppo nazionale di circa cento psicologi e psicoanalisti progressivamente a disperdersi, lasciando spazio all’interno delle istituzioni penali minorili ad operatori socioeducativi. Malgrado ciò nei servizi per la giustizia minorile di Milano dal 1950 hanno lavorato psicoanalisti come Senise, Giaconia e Roi che hanno dato ai servizi un’impronta psicoanalica che hanno sempre mantenuto. La prospettiva antipsichiatrica degli anni Sessanta aveva portato a sottolineare la dimensione sociale alla genesi dell’antisocialità e quella educativa o rieducativa nel trattamento, in contrapposizione ad una visione psicopatologica. E’ solo in anni recenti, nove anni fa, che il Ministero della giustizia ha inserito gli psicologi dipendenti, in affiancamento ai consulenti, anche se in numero notevolmente inferiore rispetto ad altre figure professionali, educatori e assistenti sociali.

Il riconoscimento dei problemi psicologici alla base della delinquenza minorile è ancora scarso in ambito istituzionale e scientifico e in particolare l’utilità di un approccio psicoanalitico all’antisocialità minorile trova sempre meno sostenitori nella letteratura internazionale, soprattutto a favore di approcci cognitivo-comportamentali. A circa cinquanta anni di distanza da quelle prime esperienze, quindi, siamo ancora costretti a chiederci se la psicoanalisi possa aiutare a capire gli adolescenti antisociali e i loro comportamenti, se vi possa essere un trattamento psicoanalitico in questo campo e quale sia la sua efficacia.

Teorie dello sviluppo dell’antisocialità La comprensione dei fattori psicologici che concorrono a determinare uno sviluppo antisociale in

adolescenza, anche se non ha raggiunto una sufficiente organicità, si sta tuttavia muovendo verso un’integrazione tra risultati di ricerca e teorie anche di diverso orientamento (Lahey, Moffitt, Caspi, 2003). E’ ormai riconosciuta l’importanza della combinazione di una predisposizione individuale, basata su specifici tratti di temperamento, come problemi di autostima o emotività negativa, difficoltà di controllo e insensibilità (Lahey, Waldman, 2003) con negative interazioni educative, nell’infanzia, che trasformano le predisposizioni in problemi di comportamento (Snyder, Reid, Patterson, 2003), anche attraverso la costruzione di sistemi di aspettative nelle relazioni interpersonali (Dodge, Lochmann, Laird, 2001). Questi sistemi di rappresentazione di Sé e dell’altro o modelli relazionali acquistano, comunque, una particolare importanza nel momento della ridefinizione di sé in adolescenza e della costruzione dell’identità sociale (Moffitt, 2003). Poiché l’adolescente utilizza il comportamento antisociale come un modo per costruire la propria identità sociale, nella comprensione del comportamento delinquenziale è importante considerare i suoi desideri, valori e modi di interpretare le relazioni. La messa in atto vera e propria del comportamento dipende dalle motivazioni e dai sistemi di valori individuali (l’ideale) in relazione alle opportunità del contesto territoriale, in funzione di scopi (Wikstrom, Sampson, 2003), che sono in connessione con i compiti evolutivi adolescenziali (Maggiolini, 2002; Maggiolini, Pietropolli Charmet, 2004).

Negli ultimi anni che si è avviata in modo più sistematico la ricerca sul rapporto tra psicopatologia e comportamento delinquenziale, dimostrando la necessità di una distinzione tra adolescenti trasgressivi (adolescence-limited) e tendenza antisociale di carattere più patologico e persistente (life-course persistent)

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(Moffitt, 2003), valutando il rapporto tra fattori ambientali e genetici, tra problemi di sviluppo infantile e antisocialità adolescenziale (Loeber et al., 1998) e distinguendo meglio diversi tratti di personalità nel quadro della personalità antisociale (Hare, 1993). Le ricerche sul rapporto tra psicopatologia e comportamento delinquenziale sono solo agli inizi, ma i dati attuali dimostrano una forte presenza di ragazzi con disturbi psicopatologici nel sistema penale minorile, un dato che vale anche e a maggior ragione per gli stranieri e i nomadi, mostrando che alternative troppo schematiche tra disagio socioeconomico e disagio psicopatologico non descrivono in modo adeguato la complessità della realtà (Vermeiren, Jespers, Moffitt, 2006).

Antisocialità e sviluppo del Sé Novelletto (1986) racconta come abbia sempre cercato di sottrarsi ad una spiegazione sociologica

dell’antisocialità in adolescenza, concependo il reato come espressione di una fantasia di recupero maturativo, equivalente ad una sorta di “delirio maturativo”, una concezione evidentemente molto lontana da una visione sociologica. In questa prospettiva vicina alla concezione di Winnicott della tendenza antisociale, un reato è un’azione simbolica, che ha lo scopo di superare un blocco maturativi, la manifestazione di un aspetto del Sé che non riesce ad esprimersi in altro modo.

E’ sorprendente l’affinità di questa concezione con quella di Senise (1990). In entrambi i casi l’accento è posto sul concetto di Sé come un particolare oggetto interno, che si costruisce progressivamente e che in adolescenza si rende progressivamente consapevole. Il concetto di individuazione, avvicinabile a quello di personnation (Racamier, 1963), e a quello di soggettivazione (Cahn, 1998) descrive il processo che consente la costituzione soggettiva dell’identità. E’ difficile capire bene le distinzioni tra i diversi concetti che descrivono questo processo. Da una parte infatti si può ritenere che sia l’Io a costruire rappresentazioni di Sé come oggetto, in modo quindi sostanzialmente riflessivo e consapevole. Dall’altra tuttavia è possibile pensare che vi sia anche un modo preriflessivo di costruzione del Sé in adolescenza, come mostrano tra l’altro le trasformazioni dei riti iniziatici (Maggiolini, 2002). Vi sarebbe quindi una coscienza primaria, o coscienza affettiva, prima di una coscienza riflessiva (Panksepp, 2004; Damasio, 2003).

In queste concezioni, l’accento non è posto quindi su un problema di controllo pulsionale e nemmeno su un problema relazionale, ma sulla mancanza di un senso di Sé in quanto adolescente, che si costituisca come contenitore di senso per il comportamento. L’antisocialità in questa prospettiva è un blocco nell’acquisizione di un’identità sociale, che da un punto di vista psicologico può essere intesa come acquisizione di un senso di Sé dotato di valore. Molti romanzi per adolescenti descrivono questo passaggio, per esempio attraverso la scoperta di un tesoro, che dà un nuovo valore al soggetto, che molte volte è legato ad un ritrovamento di un’eredità familiare, un processo che Blos ha descritto attraverso un’analisi della dinamica identificatoria dell’adolescente con il genitore dello stesso sesso.

Il caso di Gerardo Come si determina la mancanza di questa coscienza primaria di un Sé dotato di valore in quanto

adolescente? In che modo la mancanza dello sviluppo di un senso di Sé dotato di valore sociale può essere alla base del comportamento antisociale?

Il caso di Gerardo illustrato da Senise (Aliprandi, Pelanda, Senise, 1990) illustra in modo esemplare il modo di intendere il comportamento delinquenziale in una prospettiva di psicoanalisi del Sé. Gerardo ha 17 anni ed è in custodia cautelare per omicidio di una vicina di casa che aveva cercato di rapinare per avere i soldi per comperare il motorino. Dopo aver rubato trecentomila lire ad una zia, un giorno Gerardo prende un coltello, due sacchi di plastica e va dalla vicina, si fa aprire con una scusa e chiede che gli consegni il denaro, ma quando la donna urla, preso dal panico, la accoltella, in uno stato di assenza di consapevolezza, senza che vi sia una condizione psicotica.

Colpisce nella trascrizione del colloquio peritale di Senise con Gerardo, lo stile particolarmente attivo nella conduzione del colloquio, in cui Senise spesso è molto diretto nelle domande, formulando ipotesi, di cui chiede immediata conferma all’adolescente: “Secondo me, siccome tu in quel momento hai perso la testa, è come se non potessi ricordare le emozioni che provavi, mentre il fatto, la scena te la ricordi bene. Secondo te, era più la paura o il coraggio?” (p. 412). Diversi interventi hanno un carattere di chiarificazione “Per ognuno di noi la vita incomincia al momento in cui nasciamo e ogni cosa, ogni cosa è legata all’altra… è tutta una catena. Se noi riusciamo a trovare quali sono i punti di questa catena dove è successo qualcosa per cui hai dovuto crescere con una maschera, magari ti riuscirà più facile ritrovarti e sapere che cosa veramente vuoi tu oggi” (p. 413). Non esita a prendere posizione di fronte ai genitori. Al padre, che dice che lui stesso darebbe al figlio cent’anni di prigione, risponde: “E’ molto giovane, ha tutta la vita davanti… è bene che

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sconti qualcosa, ma se la pena è troppo pesante, si perde completamente…” (p. 415). Il terapeuta “espone il proprio punto di viste relativamente il suo futuro (comunità, psicoterapia) ed evidenzia le conseguenze negative che potrebbero derivare sia da una protratta permanenza in carcere sia da un ritorno prematuro in famiglia” (p. 423).

Il reato sarebbe da ascrivere in una diagnosi descrittiva ad un discontrollo episodico, con incapacità di intendere e volere nel quadro di un disturbo di personalità, caratterizzato da immaturità etico-affettiva. La contraddizione tra l’emotività piatta, che caratterizza Gerardo, e la violenza dell’impulso nel delitto, si spiega da un punto di vista psicodinamico con un falso Sé con cicatrici autistiche.

Nell’interpretazione di Senise, il conflitto tra vero Sé e falso Sé ha un innesto specifico nella riorganizzazione del Sé adolescenziale. Il modo in cui Senise descrive l’importanza che ha la scoperta del motorino per Gerardo, passione che è alla base della motivazione alla rapina, è assimilabile a quello di fantasia di recupero maturativo di Novelletto: “Gerardo scopre che usando un motorino provava qualcosa di completamente nuovo per lui; si sentiva contento, erano i soli momenti in cui si sentiva ‘se stesso’” (p. 428). Per la prima volta prova un sentimento molto simile all’amore e da allora il motorino diventa un’ossessione, una passione che sarà alla base di quello che può per certi aspetti essere considerato l’equivalente di un delitto passionale. E’ particolarmente evidente che la comparsa di un oggetto di desiderio è contemporanea alla nascita di un nuovo soggetto, l’adolescente. Sono le sensazioni che ha provato nel suo nuovo Sé, che appassionano l’adolescente, più che il possesso dell’oggetto in sé. Queste sensazioni sono imperiose, si impadroniscono del soggetto come impulsi non soggettivati, cioè non assegnati ad un soggetto, che possiamo intendere come una prospettiva.

Questo punto è espresso in modo chiaro in un passaggio della valutazione di Gerardo, durante la somministrazione del test di Rorschach. Dopo un protocollo particolarmente povero, l’esaminatore, Maria Teresa Aliprandi, lo invita nell’inchiesta a riguardare le tavole con questo suggerimento: “Ora tu sei un ragazzo che appare molto attento, molto cauto, a maggior ragione dopo tutto quello che ti è successo…, ma dentro di te io faccio la fantasia che ci sia da qualche parte un Gerardo piccolo e spaventato… Prova a metterti nei panni di un bambino per esempio di quattro o cinque anni… Il Gerardo corazzato, ascoltando questo invito, ha pure ascoltato la voce dell’altro Gerardo che è nascosto dentro di lui e ha detto: “I colori scuri non mi piacciono… Nella prima tavola forse, si può vedere la faccia di un alieno (?) come quello del film di fantascienza Terminator e un bambino potrebbe avere paura, perché vi vedrebbe un mostro!” (p. 421).

In questo passaggio che il soggetto ricompare, mentre assume una prospettiva. Il riconoscimento di emozioni, l’apertura a dare senso all’incontro con l’altro, sono in funzione di come l’Io si rappresenta in un ruolo affettivo: se in quanto adolescente Gerardo non può esprimere un giudizio, come bambino è in grado di simbolizzare, di esprimersi come soggetto. Questo passaggio dimostra che qui non è in gioco lo sviluppo di una capacità, ma il blocco nell’assunzione di una prospettiva. Gerardo è in grado di sentire come bambino, ma non ha un Sé che faccia da contenitore per le proprie emozioni da adolescente, che dia loro senso. In questa concezione il Sé non è una funzione sintetica generale, un senso di continuità dei propri vissuti ed esperienze, ma è una prospettiva che coincide con un ruolo affettivo che può essere parziale. Nell’interpretazione di Senise la mancata soggettivazione di un’emozione, per esempio della paura, sarebbe l’effetto nel caso di Gerardo della costruzione di un falso Sé infantile, che non avrebbe consentito l’apprensione soggettiva delle emozioni.

Psicodinamica del reato e possibilità di trattamento E’ evidente in questo caso l’importanza di una prospettiva psicodinamica per l’interpretazione del

comportamento antisociale. A questo punto si pone il problema di come una competenza psicoanalitica possa essere utile per il trattamento.

Come ricorda Novelletto, infatti, mentre il punto di vista psichiatrico giuridico mira soprattutto all’imputabilità, quello psicodinamico mira alla trattabilità, che un concetto come quello di fantasia di recupero maturativo sembra garantire. Il dibattito culturale degli anni 70 che aveva fatto prevalere un’impostazione sociologica contrapposta ad una psicodinamica aveva di conseguenza ridotto lo spazio di trattabilità. Negli anni 70, più in generale, il pessimismo sugli interventi sull’antisocialità era in effetti diffuso. Un articolo famoso di Masterson (1974), per esempio, a partire da accurate metaanalisi su diversi tipi di interventi sull’antisocialità era arrivato alla conclusione che ogni tipo di intervento fosse sostanzialmente inefficace nel ridurre le recidive. La prospettiva proposta da Novelletto e Senise suggerisce invece che se l’atto delinquenziale è espressione simbolica di un’esigenza evolutiva bloccata e inesprimibile,

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perchè manca il soggetto che la possa soggettivare, allora un intervento psicoterapeutico efficace può essere rivolto all’attivazione di questa funzione soggettiva e a produrre lo sblocco evolutivo.

Il problema è come sia possibile aiutare l’adolescente a superare questo blocco evolutivo. In un modo che può apparire paradossale, nella prospettiva di Senise e Novelletto, il processo di soggettivazione che supera il blocco evolutivo sarebbe attivato non tanto attraverso lo sviluppo di una funzione riflessiva volta ad aumentare l’autoconsapevolezza, ma attraverso un intervento che assegna un ruolo centrale al rapporto con l’ambiente. Questa prospettiva implica che la costruzione del Sé in adolescenza è in primo luogo una funzione della relazione dell’adolescente con l’ambiente di sviluppo, come se il Sé si costruisse nella relazione di rispecchiamento con il contesto più che attraverso una riflessione o rispecchiamento nel mondo interno dell’adolescente, un processo che Jeammet descrive attraverso l’idea dell’uso soggettivo dell’ambiente (Jeammet, 1992)

Secondo Aliprandi, Pelanda e Senise (1990, p. 74) la psicoanalisi classica è inadatta, soprattutto per il fatto che occorre evitare di non concentrare il transfert dell’adolescente sull’analista, in un momento in cui il transfert è rivolto a tutti gli oggetti, come espressione di un processo di revisione e risimbolizzazione. Il cambiamento avviene attraverso nuovi investimenti di senso nelle relazioni tra il soggetto e i suoi oggetti, Le indicazioni di intervento possono essere molteplici proprio perché all’adolescente la realtà esterna offre opportunità di nuovi investimenti: trattamenti psicoterapeutici, pedagogici, psicopedagogici, farmacologici, scelta o cambiamento di scuola, attività extrascolastiche, attività sportive, ridefinizione degli spazi familiari, allontanamento dal nucleo familiare.

L’importanza dell’ambiente terapeutico è sottolineata anche da Novelletto, Biondo e Monniello (2000), per i quali nel comportamento antisociale l’adolescente si rende conto di non avere qualcosa che gli serve per lo sviluppo e cerca un ambiente di soccorso alternativo a quello naturale, anche attraverso un comportamento di sfida. In una prospettiva psicoanalitica questa funzione ambientale non si riduce ad un intervento educativo comportamentale perché l’ambiente non svolge solo con funzioni, ma fornisce rappresentazioni, come luogo che il soggetto può riempire di significati (Maggiolini, 2006; Novelletto, Biondo e Monniello, 2000, p. 118).

L’importanza dell’intervento sul contesto è sottolineata anche da altri orientamenti non psicoanalitici, come quello multisistemico - MTS - (Henggeler et al., 1998), che è ispirato alla logica dell’ecologia sociale e che utilizza soprattutto tecniche cognitivo-comportamentali, ma che è stato sperimentato anche in istituzioni psicoanalitiche (come da Baruch a Londra). Un principio importante che è a fondamento di questo modello è che sia la valutazione del comportamento antisociale sia l’intervento debbano essere condotti all’interno del contesto di sviluppo (scuola, casa, quartiere di residenza). Si tratta di interventi psicoterapeutici, condotti da operatori che svolgono in realtà una funzione di supporto educativo nei confronti della famiglia e della scuola oltre che del minore. In questa prospettive, tuttavia, l’intervento è più orientato alla modificazione del comportamento che alla sua interpretazione in relazione alla costruzione del Sé.

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Il caso di Matteo Vediamo ora le possibilità di una prospettiva di intervento orientata psicoanaliticamente, effettuata in

parallelo sul mondo interno e sull’ambiente di sviluppo. Matteo ha 17 anni quando è accusato e imputato per rapina e lesioni personali e sottoposto a misure

cautelari, prima nel Centro di prima accoglienza del carcere minorile e poi in permanenza a casa. Ha due precedenti imputazioni a piede libero, quando aveva 16 anni, per ricettazione e furto aggravato. Molto più avanti nel corso dei colloqui racconterà di altre numerose imprese di furti anche in appartamenti, a cui ha partecipato in gruppo. Ha fatto uso di cocaina per qualche mese, ma ha smesso da un anno. Non si tratta quindi per Matteo della messa in atto di un comportamento trasgressivo occasionale, ma di comportamenti trasgressivi ripetuti, espressione di una tendenza antisociale più stabile.

Matteo è segnalato dall’assistente sociale dell’Ufficio di servizio sociale della giustizia minorile. I colloqui sono inizialmente richiesti dal giudice, prima del processo, per poter formulare una sentenza che tenga conto del sua situazione personale e psicologica. Questo obiettivo è esplicitato a Matteo, sottolineando l’importanza del suo punto di vista alla base della valutazione che il giudice emetterà con il provvedimento del Tribunale.

Matteo ha l’aspetto di un bravo ragazzo, è vestito con attenzione, e ha uno sguardo interrogativo, accentuato dal suo tenere gli occhi un po’ sbarrati, come fanno i bambini quando vogliono affermare che “non l’hanno fatto apposta”. Nei colloqui parla in modo pacato e gentile, è visibilmente molto emozionato, ma non appare né spavaldo né reattivo, sembra piuttosto interessato e incuriosito, anche se in modo un poco compiacente.

Non ha difficoltà ad ammettere il reato, anche se sostiene di non sapere perché lo ha fatto. Insieme a due amici tornando dalla discoteca si era fermato ad un autogrill; qui aveva impugnato un coltellino e, insieme agli altri, aveva aggredito e picchiato un ragazzo, rubandogli il portafoglio: l’avevano fatto perché si erano accorti di non avere più denaro per pagare il pedaggio autostradale e non gli sembrava ci fossero alternative al furto.

Non ricorda che cosa avesse provato, mentre aggrediva quello sconosciuto: afferma che, in fondo avrebbe anche potuto chiedergli i soldi in prestito. Non crede che questo ragazzo si sia spaventato e contrariamente ad ogni evidenza afferma che era ben chiaro che loro non avevano intenzione di fargli male… forse avrebbero potuto ferirlo... forse…. Ricorda bene, invece, il panico che gli era preso, quando si era accorto di non avere il denaro per l’autostrada, forse aveva anche bevuto, non capiva più niente... nemmeno gli altri... bisognava uscire da quella situazione…

Non parla degli altri reati di cui è stato accusato in precedenza e quando gli si chiede che cosa sia successo sembra faticare a ricordare... sì ha rubato un motorino, ma era solo per usarlo un po’ in giro e poi ha venduto dei pezzi di ricambio che gli aveva dato un amico, ma come poteva sapere che fossero rubati… Non gli sembra che gli sia capitato altre volte di essere violento… forse qualche volta ha fatto a botte in discoteca, quando altri guardavano insistentemente la sua ragazza.

L’analisi della situazione familiare mostra che Matteo è nato da una relazione “clandestina”: sua madre e suo padre erano entrambi sposati con figli, adesso più che trentenni. In seguito alla gravidanza di Matteo, la madre si era separata dal marito, morto poco prima che Matteo commettesse questo reato. Il marito della madre dopo la separazione aveva disconosciuto il bambino che, intorno ai sette anni era stato riconosciuto dal padre naturale, il quale però non aveva mai lasciato la propria famiglia, con la quale continuava a convivere, anche se vedeva quasi quotidianamente Matteo e la mamma e aveva trascorso con loro anche brevi periodi di vacanza.

Matteo dice di non andare d’accordo con lui, in modo ostentato lo chiama “quel signore”. dice che viene a trovarli perché è “l’amante di mia madre”. Non conosce l’altra famiglia del padre, pensa che loro sappiano della sua esistenza, ma non ne è sicuro. Non ne ha mai parlato con il padre e nemmeno con sua madre. Di questo argomento non marginale nessuno parla. La madre sostiene che nel paese in cui vivono nessuno sa della complicata situazione familiare, ha infatti lasciato il paese in cui viveva precedentemente, distante poche decine di chilometri, perché lì tutti erano al corrente; qui i vicini, dice, credono che il padre lavori lontano.

Matteo, anche in questo caso sembra non sapere cosa pensare, né sa descrivere cosa provava in questa situazione: se ne è accorto tardi, vedendo che i padri dei suoi amici la notte dormivano sempre a casa. Non ne ha mai parlato con gli amici, cercava di fare finta di niente, come gli altri della famiglia. In generale l’area della sua nascita, delle sue appartenenze familiari, sembra circondata da un “divieto”, esplicito ed implicito, divieto a pensare, a parlare, ad elaborare i confini reali e mentali del suo essere un figlio contemporaneamente troppo esposto e troppo nascosto. Ha parole di grande stima per sua madre: “Mia

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mamma è una donna che ha fatto tanti sacrifici - dice - mio fratello si ricorda di quando io ero piccolo e non avevamo neanche i soldi per mangiare…” ma dice che è troppo ansiosa, che lo controlla troppo e che non lo lascia respirare.

Ha lasciato la scuola dopo la terza media, dopo un tentativo fallito di corso professionale. Lavora come idraulico e gli piace molto. Fino a poco tempo fa giocava a calcio con successo… era molto bravo e parecchi osservatori di squadre di provincia lo tenevano d’occhio, ma poi ha smesso, non sa nemmeno lui perché, improvvisamente, gli è passata la voglia. Il calcio è una passione di tutta la famiglia e sia il padre sia la madre lo seguivano nelle trasferte.

Il padre, è una persona molto chiusa che nel corso del colloquio con il figlio e la compagna si mantiene in disparte, silenzioso e intimidito, sembra animarsi solo al tema del calcio. Con un certo stupore da parte mia dice quasi piangendo: Io chiedo solo una cosa: ‘Matteo fammi sognare!’ Certo questa espressione tipica del mondo calcistico sembra racchiudere aree di significato sconosciute agli stessi protagonisti, che rimandano alla collocazione che Matteo ha avuto nell’universo di significazione emotiva di coloro che lo hanno generato e che non è stato investito da riflessione.

Matteo di sé racconta di essere stato un bambino timido. “Mi chiamavano michetta perché ero buono come un pezzo di pane, ero spaventato dall’aggressività degli altri, tante volte subivo per non dover contrastare.” C’è un ricordo infantile che lo accompagna. Ricorda che, insieme ad un’altra bambina, passava i pomeriggi a casa di una signora che faceva loro da balia. Un giorno questa signora aveva dato a entrambi un pezzo di cioccolato avariato, ma mentre la bambina si era rifiutata di mangiarlo, lui lo aveva finito per non dispiacerle, perché non riusciva a dire di no, era poi stato malissimo e ancora ricorda il sapore “vomitevole, nauseante” di quel cioccolato.

Questo racconto colpisce per la disperazione impotente che Matteo manifesta, inconsapevolmente. Sembra delineare il suo tema traumatico infantile: il suo sentirsi costretto a mandare giù tutto quello che gli veniva dato, anche quello che non gli piaceva, senza fare domande, fingendo fossero cose buone. Senza poter usare il proprio pensiero e la propria curiosità, che avrebbero messo in discussione una costruzione familiare fondata sul segreto e sul silenzio e quindi messo in pericolo la sua stessa sopravvivenza emotiva.

Secondo Fonagy, la capacità di concepire i propri contenuti mentali e quelli dell’oggetto è un prerequisito fondamentale per costruire normali relazioni oggettuali. Se il bambino non può accedere a difese psichiche complesse, ricorre a una delle strategie difensive primitive infantili: l’evitamento o la distruttività patologica. Percepire l’oggetto ad un tempo come fragile e pericoloso pone dei limiti alla capacità del bambino di internalizzare un atteggiamento riflessivo e intenzionale e quindi ricorre al Sé fisico e preriflessivo, incapace di pensare aldilà della propria esperienza, poiché non può ricorrere ad un sé riflessivo.

Nel caso di Matteo, i primi colloqui, che avevano attivato in lui il desiderio di ricevere aiuto, producono un effetto destabilizzante su tutto l’assetto familiare, che risponde nel modo consueto: cerca di ritirare l’interesse e l’investimento, nel silenzio e nell’annullamento del senso degli eventi.

Matteo diventa allora improvvisamente molto discontinuo nella frequenza, salta gli appuntamenti, anche quelli con l’assistente sociale. La madre collude e forse promuove le sue assenze, e le giustifica, è lei che telefona dicendo che non può venire perché deve lavorare o perché ha il raffreddore o per qualche altra banalità, in cui sembra voler ribadire che Matteo è un bravo ragazzo lavoratore e forse un po’ cagionevole di salute. Anche la madre ha un modo di comunicare molto gentile e molto composto e uno stile e un comportamento in cui sembra voler mantenere un formale riconoscimento delle regole, che di fatto vengono disattese.

Anche per quanto riguarda i reati la madre tende a banalizzarli: Matteo è tanto buono e certo non potevano immaginare queste conseguenze, sottovalutando sia la gravità dei gesti ma soprattutto ignorando la valenza comunicativa che questi avevano. E’ contenta della misura della permanenza a casa che la rassicura e le permette di controllare cosa il figlio faccia. “Fino a quattordici anni era un bambino meraviglioso, un coccolone, ma dopo avere avuto il motorino si è trasformato, era sempre fuori, non mi ascoltava più si ribellava. Adesso - dice la signora - è tornato ad essere il Matteo di una volta!” Manifesta insofferenza per l’intervento della giustizia in una questione che in fondo dice - è una ragazzata che si può risolvere in famiglia!

Se nel momento della carcerazione avevano percepito la gravità della situazione giuridica e personale di Matteo, ora sembra prevalere la banalizzazione e la normalizzazione, in cui tutto il fracasso che il reato di Matteo aveva suscitato, sembra nuovamente ridotto al silenzio. Solo le pressioni del Servizio Sociale che insistono perché Matteo e i genitori si presentino al servizio per verificare l’ipotesi di una messa alla prova, ed arrivare al processo con progetto costruito, ricordando alla famiglia che c’è un procedimento penale in atto, sembrano dare un richiamo alla realtà in una situazione che tenderebbe a denegarla.

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In questa perdita di efficacia degli aspetti (inconsciamente) comunicativi dell’agito antisociale è, ovviamente, ancora una volta Matteo che dà un giro di vite, facendosi sorprendere in un orario in cui avrebbe dovuto essere in casa, su un motorino truccato insieme ad un amico. Non risponde allo stop della polizia, fugge e, fermato si oppone al fermo con violenza, accumulando così una serie di reati di rilevanza penale.

L’impossibilità da parte della famiglia di essere punto di riferimento normativo e la sottovalutazione delle difficoltà comportamentali di Matteo, che non sembrano trovare uno spazio sufficiente di riflessione, porta il Servizio Sociale d’accordo con il giudice a chiedere l’ammissione in comunità, che Matteo accetta non senza ambivalenza. Nel frattempo continueranno i colloqui con lo psicologo.

In comunità Matteo dopo un iniziale interesse, motivato soprattutto dall’eccitazione di ritrovarsi in un gruppo di veri ragazzacci, inizia a sentirsi molto a disagio. Non gli piace in particolare il responsabile che è una persona diretta e anticonformista, che instaura rapporti con gli utenti molto centrati sul suo carisma. Matteo si angoscia per la mancanza di definizioni gerarchiche precise all’interno della comunità. Dice di aver visto il responsabile bere con gli utenti fino ad ubriacarsi. Questo lo manda in panico. Questo padre, che ai suoi occhi non ottempera ad una funzione paterna ordinante, ma si comporta in maniera adolescenziale e imprevedibile, gli scatena un’aggressività che questa volta può esprimere a parole.

Nei colloqui si fa strada la sua rabbia per questo padre inattendibile, chiedendo dopo qualche mese di tornare a casa, richiesta accettata dal giudice. Questi eventi sembrano tutti agiti che, a partire dalla rapina che li ha scatenati richiedono di essere compresi sia nelle cause che li hanno scatenati sia nel loro valore di comunicazione.

Anne Alvarez (1997) e con lei Jeammet (1997) affermano che in adolescenza la violenza è una risposta ad una minaccia all’identità. Se nel corso dell’infanzia, Matteo aveva partecipato del segreto di famiglia, seppur a prezzo di una rinuncia ad una parte della sua capacità di comprendere quanto accadeva dentro di sé, è nell’adolescenza che il bisogno di definire la propria identità personale e sociale diventa pressante e ineludibile e richiede una profonda rivisitazione dei legami e della loro pensabilità.

E’ noto che una relazione carente o distorta con la figura paterna ostacola durante l’adolescenza la costruzione dell’identità di genere. In questo caso la minaccia all’identità, che si traduce nell’angoscia di non poter pagare il pedaggio al casello e che lo porta alla rapina, è la minaccia di essere smascherato come qualcuno che occupa abusivamente un ruolo non autorizzato, che rappresenta l’assenza di un padre simbolico, di cui ci si può fidare, che sostiene le capacità e garantisce la Legge. La dimensione di bisogno e di mancanza riconduce ad un universo di dipendenza materna che appare troppo regressivante e quindi è al gruppo che può rivolgersi e al sostegno solidale della legge dei pari e di un modello maschile caricaturale in cui violenza e virilità si confondono senza integrazione tra aggressività e identità maschile.

Contemporaneamente Matteo attraverso i suoi agiti disordinati sembra richiedere la chiamata in campo di un padre latitante. I reati sembrerebbero essere gesti inconsapevolmente provocatori, una “sfida all’ordine degli adulti” un ordine che ha risvolti ipocriti e fondati sul silenzio in cui egli stesso è stato esposto al “disordine” e alla scarsa attendibilità degli adulti che non gli permettono di fare riferimento su uno stabile senso di valori interiorizzati e socialmente riconosciuti.

In questo periodo i colloqui sono continuati, insieme al lavoro con l’assistente sociale in preparazione al processo. I genitori sono a loro volta preoccupati e chiedono di poter parlare delle loro difficoltà educative. Il tribunale e l’assistente sociale forzano alla relazione dicendo: noi ci occupiamo di te! consentono un incontro con la regola sociale che ha valenze prescrittive e regolative e si trascrive a livello simbolico come una presa in carico. L’agire rappresenta la mancanza di una capacità di elaborazione e non traduce solo gli aspetti impulsivi del carattere, bensì l’incapacità di cogliere e verbalizzare le proprie esigenze, che sono invece sopraffatte dal panico. L’assenza del padre, non solo come figura genericamente affettiva, ma come oggetto di identificazione, che in adolescenza assume le caratteristiche di identità sociale.

Questi due aspetti potrebbero portare a due direzioni terapeutiche diverse La difficoltà a gestire l’impulsività difficoltà a contenere il pensiero rispetto al’’agire potrebbe portare a proporsi come obiettivo terapeutico lo sviluppo di queste funzioni. Se la riattivazione dei processi mentali è considerata il meccanismo primario dell’azione terapeutica, non è sempre possibile che questa avvenga per via riflessiva centrata sullo scambio di parola. Psicoterapia.

In principio Matteo aveva cercato di tutelarsi da eventuali rischi di messa in atto di comportamenti inadeguati, attraverso un ritirarsi in famiglia, limitando le sue uscite, anche in ragione dell’ansia che queste suscitavano nella madre e del conseguente controllo che essa esercitava su di lui.

Si è ripresentata quindi una situazione tipica nella vita relazionale ed emotiva di Matteo, in cui le esperienze evolutive adolescenziali diventavano elementi di rischio, che doveva essere evitato in un ritorno ad un legame di interdipendenza ansiosa con la madre. Da questo legame Matteo poi sfuggiva in modo

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inappropriato, con comportamenti disadattativi di tipo gregario e quindi con un aumento del suo senso di incompetenza e di incapacità a divenire adulto.

Durante questo periodo la maggiore presenza del padre, molto sostenuto dai colloqui con la dottoressa Giaconia, ha permesso un’elaborazione diversa di questa situazione.

Matteo ha potuto riflettere sulle sue modalità di funzionamento e sulle sue fragilità che gli rendevano, per esempio, quasi impossibile iscriversi alla scuola guida, (che mi sembra ben rappresentare simbolicamente uno spazio di valore di tipo paterno, dal quale temeva di non essere accettato, di non potere avere accesso).

Il maggiore coinvolgimento paterno sta anche aprendo la strada ad una possibilità di parlare del passato e dei troppo silenzi che lo hanno caratterizzato.

La relazione al Giudice sottolineava come nel corso dei colloqui Matteo avesse manifestato un’evoluzione da un iniziale desiderio di distanziarsi dalla riflessione sul suo comportamento e sulle ragioni affettive che lo motivavano, (…ho capito che ho sbagliato, adesso la mia vita è diversa, non c’è più motivo di parlarne e di preoccuparsi…) verso una maggiore e più coinvolta capacità di riflessione su di sé.

Sul piano del sostegno alla coppia genitoriale si è potuto elaborare, attraverso colloqui con una collega del servizio, la dottoressa Giaconia come l’elemento centrale del disturbo familiare, che si traduceva in disturbo del comportamento di Matteo, consistesse nella mancata elaborazione dell’atipicità della coppia. Per quello che riguarda la coppia, questa mancata elaborazione portava ad una conflittualità aperta e a un ritiro dalla funzione genitoriale da parte del padre, che è persona con difficoltà ad affrontare ed elaborare i conflitti sul piano affettivo. Questo ritiro tendeva ad essere colmato da un iperinvestimento di tipo ansioso e controllante da parte della madre e rendeva la sua presenza nella vita del figlio più intrusiva che protettiva.

Per quanto riguarda Matteo, egli oscillava con la madre tra alleanza compiacente e conflittualità mentre con il padre era evitante e in apparenza indifferente. La situazione di “non pensato e non detto” familiare gli dava un senso di instabilità emotiva e di estraneità rispetto ai valori sociali e alla visione di sé dentro il processo di integrazione che la crescita comporta.

La conflittualità, inespressa e inelaborata, si esprimeva attraverso azioni delinquenziali che avevano la funzione di protesta e ribellione, seppur spostata su un diverso ambito, alla mancanza di spazio di pensiero e quindi di chiarezza comunicativa all’interno della famiglia.

Nel corso della terapia i genitori hanno avuto il coraggio di parlare chiaramente dell’atipica situazione familiare e dell’impossibilità che il padre aveva nel separarsi dalla famiglia precedente, anche se era molto legato a Matteo e a sua madre. Il padre non ha tentato di giustificare in modo artificiale o moralistico la sua difficoltà, ma ha accettato di parlarne come di un proprio limite.

Questo ha permesso a Matteo di deidealizzare la figura di un padre ipotetico e di modificare la percezione della figura del padre reale, liberandola dagli aspetti persecutori che la situazione permetteva. Matteo ha quindi progressivamente potuto accedere alle sue vere difficoltà adolescenziali, ai propri limiti e alle proprie risorse.

Il clima familiare è nettamente migliorato: la madre è meno rivendicante nei confronti del padre e quindi meno controllante nei confronti di Matteo, in quanto si sente meno genitore unico. Il rapporto tra Matteo e il padre ha quindi trovato uno spazio comunicativo più ampio e affettuoso.Ne è testimonianza la ripresa dell’attività calcistica, interesse condiviso da tutti i membri della famiglia, che Matteo aveva interrotto per inconsapevole protesta, perché sembrava rappresentare l’unico legame che aveva con il padre e l’unico aspetto per il quale si sentiva da lui valorizzato.

In questo momento il legame si è sviluppato in altre e più affettuose forme e, quindi, Matteo si sente accettato a prescindere dalle sue scelte professionali. Per contro il padre apprezza l’impegno lavorativo del figlio, nei cui confronti ha raggiunto un investimento affettivo depurato da valenze narcisistiche.

Riteniamo che gli interventi messi in atto abbiano condotto tutti i membri della famiglia, in particolare Matteo, ad una maggiore consapevolezza e capacità di fare scelte in maniera autonoma e responsabile.

Tra i tratti di personalità di Matteo non vi sono atteggiamenti narcisistici arroganti, né la freddezza relazionale ed emotiva che caratterizza alcuni adolescenti antisociali. Più che grandioso o freddo, Matteo appare impulsivo, con una scarsa capacità empatia, e le sue azioni violente appaiono soprattutto di carattere reattivo, in un cortocircuito che si ripete tra paura e reazione violenta.

La partita che si gioca è se il padre proposto in sostituzione (una volta accertato il bisogno di padre) sia affidabile o invece impulsivo e narcisista. O si sta a casa con la madre, ma dopo un certo punto non è più possibile, o si entra nel gruppo o si entra nel sociale. L’impulsività di Matteo, tuttavia, non pare un tratto di carattere generale, né la manifestazione di un’intenzione inconscia, per esempio l’invidia verso gli altri ragazzi. Nel caso del reato, è evidente che Matteo diventa violento quando non sa come uscire da una situazione che gli appare senza via d’uscita, un ostacolo insormontabile. Non è un problema cognitivo (come

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assenza di una capacità riflessiva o di riconoscere un certo sentimento) e nemmeno narcisistico nel senso di scarsa empatia. Non è neanche un eccesso di aggressività, ma semmai una mancanza di una capacità di essere attivo e di trovare soluzioni ad un problema. E’ evidente che a Matteo manca la possibilità di pensarsi all’interno di una relazione sociale in cui i propri bisogni possano essere espressi, sulla base di una incapacità anche nelle relazioni primarie a chiedere in modo legittimo, sia alla madre, abbandonata, sia al padre che gli chiede, ma al quale non è consentito chiedere. Il deficit di simbolizzazione è espressione di una chiusura al mondo sociale visto come negativo, sullo sfondo di un deficit di riconoscimento paterno. Manca a Matteo uno sguardo valorizzante del padre. Nel caso del calcio è evidente che la valorizzazione è una richiesta, espressione di un bisogno del padre e non il sostegno allo sviluppo del figlio: assenza di simbolizzazione dei propri bisogni, non come incapacità di provare o riconoscere le emozioni, ma come assenza di un contenitore legittimo come posizione relazionale.

Conclusioni In questo quadro ci si può chiedere quali possano essere gli obiettivi specifici dell’intervento. Controllo

dell’impulsività? Disvelamento di intenzioni inconsce? Aumento della capacità di riconoscere le proprie emozioni? Disimpasto dal gruppo e dalle sue dinamiche? L’obiettivo di cambiamento, che deriva dall’analisi psicologica della dinamica del reato, in realtà, è che Matteo impari a chiedere quando si trova in difficoltà e a tener conto delle conseguenze delle sue scelte. E’ importante sottolineare che questi obiettivi sono in sintonia con la rappresentazione soggettiva di Matteo, con la sua descrizione di sé, delle sue relazioni e degli eventi. Questo punto è cruciale per il problema dell’alleanza terapeutica, che è particolarmente delicato con i ragazzi antisociali, soprattutto in un contesto prescrittivo come quello del sistema penale minorile. Porre per esempio come obiettivi l’imparare a controllarsi, a tener conto di più dei sentimenti degli altri o a riconoscere le proprie emozioni non sarebbe adeguato, se la questione riguarda le capacità di legame sociale (chiedere in modo legittimo e render conto delle proprie azioni). Il raggiungimento di obiettivi come questi, che riguardano il Sé in relazione con l’altro, d’altra parte, non può non coinvolgere, oltre ad un cambiamento nella rappresentazione di sé di Matteo, anche una trasformazione nella rappresentazione che i genitori hanno di lui o che gli è rimandata dall’ambiente, anche dalla stessa consultazione, nella relazione sia con lo psicologo sia con l’intervento nel suo insieme dei Servizi della giustizia (punizione, controllo, legittimazione, supporto, ecc.).

L’inserimento in comunità, oltre ad una funzione di controllo del comportamento assume quindi un senso simbolico e affettivo più ampio, che per Matteo più che in relazione all’allontanamento dalla madre, va interpretato sullo sfondo del confronto con una funzione sociale paterna, la stessa che la madre tollerava quando diceva che il figlio doveva stare presso di lei. La scoperta di un padre inattendibile da parte di Matteo che in qualche modo denuncia è accolta e rielaborata dagli operatori, contribuendo ad aprire nuovi aspetti della relazione di Matteo con i genitori.

Più che di un intervento interpretativo si tratta di un intervento di simbolizzazione o risimbolizzazione, intesi come un cambiamento della rappresentazione affettiva del Sé in relazione all’oggetto, che consenta una ripresa dello sviluppo. Questo orientamento colloca l’intervento psicologico con i minori sottoposti a procedimenti penali in una prospettiva di psicoterapia evolutiva, in cui il cambiamento è visto come ripresa dello sviluppo e non come cura. Nel caso di Gerardo, Senise non mette l’accento su un conflitto inconscio con la figura materna alla base del reato di omicidio della vicina, ma sul senso di Sé agente, percepito a partire dall’uso del motorino, che non trova altre possibilità di espressione (fantasia di recupero maturativo). L’obiettivo dell’intervento non coincide quindi con la maggiore consapevolezza di un proprio impulso o sentimento, o con l’acquisizione di una maggiore capacità di controllo, ma con l’aiuto allo sviluppo di questo senso di Sé agente, che si è manifestato alla coscienza nelle sensazioni derivanti dall’uso del motorino.

La capacità di sentirsi soggetto delle proprie intenzioni, un senso psicologico di agency, è la base del senso di responsabilità del proprio comportamento. Lo sviluppo di questo senso soggettivo di autonomia del Sé non avviene solo come effetto dello sviluppo di una capacità di insight, ma come risultato della messa alla prova della propria capacità di impegno nella relazione con gli altri. In questo caso, la richiesta di assunzione di responsabilità per le conseguenze delle proprie azioni da parte del contesto sociale è strettamente legata all’aiuto allo sviluppo della capacità di agency e di impegno. Un intervento integrato, multimodale, sul mondo interno ed esterno, sulll’adolescente e sul suo contesto di sviluppo, non significa affiancare una psicoterapia individuale a una familiare a un controllo educativo ed eventualmente ad un intervento farmacologico. Significa invece che i diversi interventi (psicologico, sociale, educativo e penale) sono inseriti in un senso complessivo in relazione alle esigenze di sviluppo dell’adolescente o fantasia di recupero maturativo. L’intervento è inevitabilmente un rispecchiamento

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sociale, che rimanda all’adolescente un’interpretazione delle sue esigenze evolutive (questo è il significato del transfert e controtransfert in questa situazione, tener conto del significato simbolico della relazione). Nell’intervento multimodale, come proposto per esempio da Bleiberg (2001), l’integrazione significa affiancamento, per esempio di una terapia familiare a una terapia individuale, con supporto farmacologico ed eventualmente una terapia cognitiva breve su obiettivi specifici e un supporto educativo. Un’integrazione forte implica invece ritenere che l’intervento istituzionale non possa non avere un senso simbolico e non sia solo un intervento educativo o assistenziale o punitivo.

Se in una prospettiva psicoanalitica è importante un intervento che cerca di dare senso al comportamento antisociale, non solo collocandolo nella relazione con il contesto, ma soprattutto interpretandolo in rapporto ai bisogni evolutivi, svelandone la fantasia di recupero maturativo implicita nel reato (Novelletto, 1986), nella pratica è possibile distinguere due orientamenti: da una parte la convinzione dell’importanza di un intervento integrato in cui è importante l’offerta di un ambiente che abbia funzioni terapeutiche, con la sottolineatura dell’importanza di un transfert istituzionale, che riduca il transfert personale, dall’altra l’idea che il lavoro terapeutico possa svolgersi nel setting più tradizionale, contenuto nel contesto ambientale.

I programmi d’intervento più efficaci sono multimodali e integrati (progetti che agiscono sul minore e sui suoi diversi contesti e che combinano strategie psicologiche e educative), soprattutto orientati a riconoscere un senso soggettivo al comportamento antisociale e a sostenere l’acquisizione di responsabilità del comportamento, favorendo la costruzione dell’identità dell’adolescente e il suo inserimento sociale.

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