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1 INTRODUZIONE 1. Cosa si intende per ‘Filologia e linguistica romanza’ ? È estremamente difficile circoscrivere adeguatamente una disciplina che attraversa settori disciplinari molto diversi e per la quale risulta impossibile trovare un’unica definizione. E tuttavia, per specificarne l’ambito, gioverà richiamarsi all’etimologia della dizione: filologia, dal greco philologos = ‘amante del discorso, della parola …’ che immediatamente ci riconduce allo scopo principale della disciplina, vale a dire la ‘cura’ e l’intelligenza del testo, analizzato in tutti i suoi aspetti attraverso un serio impegno interpretativo; linguistica: lemma formato da lingua + il suffisso istico/a (che -al femminile- serve per formare nomi astratti) che può essere definita come la: «Scienza che studia il linguaggio, le lingue e le loro reciproche influenze dal punto di vista teorico e generale, storico e descrittivo» 1 ; l’aggettivo ‘romanza’: dall’avverbio romanice ‘alla maniera romana’, indica ciò che concerne l’area di quei popoli che parlano lingue derivate dal latino. Dunque oggetto della ‘Filologia e linguistica romanza’ sono la letteratura romanza dal Medioevo fino alla modernità e gli idiomi romanzi indagati nel loro sviluppo storico. Filologia e linguistica risultano dunque strettamente intrecciate e necessarie una all’altra: è impossibile leggere un testo se non se ne accerta prima la correttezza testuale e se non lo si restituisce al suo contesto storico-ricezionale, ma lo è altrettanto se non se ne comprende l’espressione scritta e se non si è in grado di datare e localizzare un testo servendosi dell’analisi linguistica. Torniamo all’aggettivo ‘romanzo/a’: infatti seguirne, almeno in grandi linee, la storia 2 rappresenterà la migliore introduzione alle pagine che seguiranno. Dal III al VI secolo le espressioni lingua latina e lingua romana sono sinonimi, ma progressivamente la documentazione mostra una progressiva divaricazione dei due termini: latinus rimase l’aggettivo atto ad indicare la realtà culturale di maggior prest igio e romanus il latino parlato. Per giungere però ad una più chiara specificazione: volgare versus latino, dobbiamo arrivare al IX secolo, alla famosissima (e su cui torneremo) XVII Deliberazione del Concilio di Tours (813), in cui si invitano gli ecclesiastici a predicare in rustica romana lingua: Visum est unanimitati nostrae, ut quilibet episcopus habeat omelias continentes necessarias admonitiones, quibus subiecti erudiantur, id est de fide catholica, prout capere possint, de perpetua retributione bonorum et aetermna damnatione malorum, de resurrectione quoque futura et ultimo iudicio, et quibus operibus possit promereri beata vita, quibusve excludi. Et ut easdem homilias quisque aperte transferre studeat in rusticam romanam linguam aut theotiscam, quo facilium cuncti possint intelligere quae dicuntur. All’unanimità abbiamo deliberato che ciascun vescovo tenga omelie contenenti le ammonizioni necessarie a istruire i sottoposti circa la fede cattolica, secondo la loro capacità di comprensione, circa l’eterno premio ai buoni e l’eterna dannazione dei malvagi, e ancora circa la futura resurrezione e il giudizio finale, e con quale opere possa meritarsi la beatitudine, con quali perdersi. E che si studi di tradurre comprensibilmente le omelie medesime nella lingua romana rustica o nella tedesca affinché tutti più facilmente possano intendere quel che viene detto. Dunque al sintagma romana lingua si affianca l’aggettivo rustica che designa non più due diversi livelli di latino, ma due lingue diverse. Il passaggio da una all’altra è infatti 1 Cf. Dizionario della lingua italiana curato da Tullio De Mauro, Milano, Paravia, 2000. 2 Storia descritta con grande finezza in un saggio di Au. Roncaglia, Tristano e anti-Tristano. Dialettica di temi e d’ideologie nella narrativa medievale, testi e appunti del corso … a. a. 1980-1981, Roma, Bulzoni 1981, pp. 69- 107 (poi in ‘Romanzo: ‘scheda anamnestica di un termine chiave, in Il romanzo, a cura di M. L. Meneghetti, Bologna, il Mulino, 1988, pp. 209-27).

Manuale di filologia romanza (Renzi-Andreose)

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Renzi, Andreose, Manuale di linguistica e filologia romanza

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Page 1: Manuale di filologia romanza (Renzi-Andreose)

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INTRODUZIONE

1. Cosa si intende per ‘Filologia e linguistica romanza’ ? È estremamente difficile circoscrivere adeguatamente una disciplina che attraversa

settori disciplinari molto diversi e per la quale risulta impossibile trovare un’unica

definizione.

E tuttavia, per specificarne l’ambito, gioverà richiamarsi all’etimologia della dizione:

filologia, dal greco philologos = ‘amante del discorso, della parola …’ che

immediatamente ci riconduce allo scopo principale della disciplina, vale a dire la ‘cura’ e

l’intelligenza del testo, analizzato in tutti i suoi aspetti attraverso un serio impegno

interpretativo; linguistica: lemma formato da lingua + il suffisso –istico/a (che -al

femminile- serve per formare nomi astratti) che può essere definita come la: «Scienza che

studia il linguaggio, le lingue e le loro reciproche influenze dal punto di vista teorico e

generale, storico e descrittivo»1; l’aggettivo ‘romanza’: dall’avverbio romanice ‘alla

maniera romana’, indica ciò che concerne l’area di quei popoli che parlano lingue derivate

dal latino. Dunque oggetto della ‘Filologia e linguistica romanza’ sono la letteratura

romanza dal Medioevo fino alla modernità e gli idiomi romanzi indagati nel loro sviluppo

storico.

Filologia e linguistica risultano dunque strettamente intrecciate e necessarie una all’altra:

è impossibile leggere un testo se non se ne accerta prima la correttezza testuale e se non lo

si restituisce al suo contesto storico-ricezionale, ma lo è altrettanto se non se ne

comprende l’espressione scritta e se non si è in grado di datare e localizzare un testo

servendosi dell’analisi linguistica.

Torniamo all’aggettivo ‘romanzo/a’: infatti seguirne, almeno in grandi linee, la storia2

rappresenterà la migliore introduzione alle pagine che seguiranno.

Dal III al VI secolo le espressioni lingua latina e lingua romana sono sinonimi, ma

progressivamente la documentazione mostra una progressiva divaricazione dei due

termini: latinus rimase l’aggettivo atto ad indicare la realtà culturale di maggior prestigio

e romanus il latino parlato. Per giungere però ad una più chiara specificazione: volgare

versus latino, dobbiamo arrivare al IX secolo, alla famosissima (e su cui torneremo) XVII

Deliberazione del Concilio di Tours (813), in cui si invitano gli ecclesiastici a predicare

in rustica romana lingua:

Visum est unanimitati nostrae, ut quilibet episcopus habeat omelias continentes necessarias admonitiones,

quibus subiecti erudiantur, id est de fide catholica, prout capere possint, de perpetua retributione bonorum

et aetermna damnatione malorum, de resurrectione quoque futura et ultimo iudicio, et quibus operibus

possit promereri beata vita, quibusve excludi. Et ut easdem homilias quisque aperte transferre studeat in

rusticam romanam linguam aut theotiscam, quo facilium cuncti possint intelligere quae dicuntur.

All’unanimità abbiamo deliberato che ciascun vescovo tenga omelie contenenti le ammonizioni necessarie a

istruire i sottoposti circa la fede cattolica, secondo la loro capacità di comprensione, circa l’eterno premio ai

buoni e l’eterna dannazione dei malvagi, e ancora circa la futura resurrezione e il giudizio finale, e con quale

opere possa meritarsi la beatitudine, con quali perdersi. E che si studi di tradurre comprensibilmente le omelie

medesime nella lingua romana rustica o nella tedesca affinché tutti più facilmente possano intendere quel che

viene detto.

Dunque al sintagma romana lingua si affianca l’aggettivo rustica che designa non più

due diversi livelli di latino, ma due lingue diverse. Il passaggio da una all’altra è infatti

1 Cf. Dizionario della lingua italiana curato da Tullio De Mauro, Milano, Paravia, 2000.

2 Storia descritta con grande finezza in un saggio di Au. Roncaglia, Tristano e anti-Tristano. Dialettica di temi e

d’ideologie nella narrativa medievale, testi e appunti del corso … a. a. 1980-1981, Roma, Bulzoni 1981, pp. 69-

107 (poi in ‘Romanzo: ‘scheda anamnestica di un termine chiave, in Il romanzo, a cura di M. L. Meneghetti,

Bologna, il Mulino, 1988, pp. 209-27).

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segnata dall’azione di transferre = tradurre, mentre su un piano orizzontale la nuova

lingua volgare si definisce dall’opposizione con la lingua theotisca (parlata nei territori di

lingua germanica dell’impero).

Pochi anni dopo il sintagma lingua romana riaffora nei Giuramenti di Strasburgo, 14

febbraio 842, riportati fedelmente dallo storico Nitardo. I due nipoti di Carlo Magno:

Carlo il Calvo e Ludovico il Germanico, nello stringere il patto di alleanza contro il

fratello maggiore Lotario, si rivolgono prima al proprio esercito, poi a quello dell’altro

parlando rispettivamente in romana lingua e in teudisca:

«…Lodhuvicus romana, Karolus vero teudisca lingua, juraverunt. »

(=… giurarono Ludovico in lingua romana e Carlo in lingua tedesca)

Nitardo, con grande scrupolo documentario, riporta esattamente le parole del

giuramento, giunte a noi attraverso un manoscritto del X secolo3.

Accanto a romanus grande vitalità godrà anche l’aggettivo romanicus = ‘alla maniera

romana’ , da cui deriva l’espressione loqui romanice, dove l’avverbio romanice denuncia

una situazione di transizione, di crisi dell’unità linguistica. Quando la parlata non corrisponde più al latino

unitario della classicità e non s’è ancora cristallizzata in nuove unità letterarie nazionali o almeno regionali,

sulla norma oggettiva prevale la modalità soggettiva: e appunto un’espressione di modalità, l’avverbio

romanice prevale nell’uso pratico sul nome, sì da trasformarsi alla fine, quando le varietà volgari si

normalizzeranno, esso stesso in un nome: romanz4.

Da romanice, infatti, per normale evoluzione di fonetica storica, discende il francese

romanz che da aggettivo passerà ben presto a sostantivo in area gallo-romanza, come si

ritrova già nel più antico trovatore a noi noto, Guglielmo IX d’Aquitania (1071-1126), in

Pos de chantar m’es pres talenz, vv. 22-3 :

et el prec En Jesu del tron

en romans et en son lati (ed egli preghi il Signore Gesù del cielo, in lingua volgare e nel suo latino)

5.

Interessante, ancora, l’esempio, di poco posteriore, estratto da una predica rimata della

prima metà del XII sec. :

Por icels enfanz

los fiz en romanz,

qui ne sunt letré:

car mielz entendrunt

la langue dont sunt

des enfances usé (st. 128)

(Per quei fanciulli -che non sono istruiti- lo compose in lingua romanza, perché meglio capiranno la lingua

cui sono abituati sin dall’infanzia)

dove l’accento batte sulla necessità di rendere accessibile ad un pubblico di non istruiti

la predica, pena il fallimento della scrittura stessa destinata a restare inascoltata.

Il passaggio successivo riguarda lo slittamento da romanz = ‘lingua volgare’ a romanz =

‘composizione in lingua volgare’, attraverso l’espressione -frequentemente utilizzata-

3 Sul testo dei Giuramenti di Strasburgo, si veda l’edizione curata e commentata K. Gärtner- G. Holtus, Die erste

deutsch – französische “Parallelurkunde”. Zur Uberlieferung und Sprache der Stassburger Eide, in Beiträge zum

Sprachkontact und zu den Urkundensprachen zwischen Maas und Rhein, Trier 1995, pp. 97-127. 4 Cf. Roncaglia, Tristano e anti-Tristano cit. , p. 19.

5 O, come traduce M. Eusebi, Guglielmo IX, Vers, Parma, Pratiche editrice 1995, p. 84, ‘nella sua lingua’.

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mettre en romanz, cioè ‘tradurre in lingua romanza’ (anche se nella maggior parte dei casi

non si potrà certamente parlare di vera e propria traduzione):

Benoit de Sainte Maure, Roman de Troie (1165 ca.)

E pur ço me vueil travaillier

en une estoire comencier,

que de latin, on je la truis,

se j’ai le sen et se jo puis,

la voudrai si en romanz metre

que cil qui n’entendent la letre

se puissent deduire el romanz (vv. 33-39)

(E per questo voglio sforzarmi di dare inizio ad una storia che, dal latino in cui la trovo, se ne ho la

capacità e la possibilità, la vorrei trasporre in lingua romanza, in modo che coloro che non capiscono il

latino possano divertirsi con quest’opera in lingua romanza)

ed in altri testi il riferimento alla fonte latina risulti assolutamente fittizio, un modo per

dare lustro alla propria opera attraverso il richiamo ad un modello autorevole :

Prologo del Cligès di Chrétien de Troyes (1170 ca.)

Cil qui fist d ‘Erec et d’Enide

et les comandemenz Ovide

et l’Art d’amor en roman mist

…………….

un novel conte recomance.

………………………

Ceste estoire trovons escrite

que conter vos vuel et retreire

an un des livres de l’aumeire

mon seignor saint Pere a Biauveis :

de la fu li contes estreiz

don cest romanz fist Chrestiiens…

(Colui che compose la storia di Erec e Enide e volse in lingua romanza i Comandamenti d’amore e l’Arte

di amare di Ovidio… comincia un nuovo racconto… Questa storia -che voglio raccontare e riportare-

troviamo scritta in un libro dell’armadio di Messer San Pierre di Beauvais, da lì fu estratto il racconto dal

quale Chrétien fece il suo romanzo).

Proprio l’etimologia di romanzo da romanice parabolare e il suo slittamento semantico

da ‘lingua volgare’ a ‘composizione in lingua volgare’, ci riconduce a quel nodo

strettissimo che lega le nascenti lingue e letterature latine alla matrice latina, in un

intreccio articolato ma assolutamente centrale per comprendere i successivi sviluppi dei

nuovi idiomi. Non sarà un caso che gli intellettuali più avveduti cercheranno di fondare la

nuova tradizione letteraria romanza appropriandosi e attualizzando il tesoro rappresentato

dalla cultura classica, tesoro che continuerà a rappresentare nel tempo un riferimento ed

un serbatoio inesauribile di scienza e di sapienza.

Assolutamente emblematiche in proposito le famose affermazioni di Giovanni di

Salisbury (1115 ca-1180) dove «l’autore enuncia l’idea del progresso nella tradizione,

grazie alla tradizione: ma sempre di progresso si parla, anzi la tradizione stessa sembra

divenire progresso»6:

Itaque ea, in quibus multi sua tempora consumpserunt, in inventione sudantes plurimum, nunc facile et

brevi unus assequitur; fruitur tamen etas nostra beneficio precedentis, et sepe plura novit, non suo quidem

precedens ingenio, sed innitens viribus alienis et opulenta doctrina patrum. (Metalogicon III, iv)

(E così quelle idee su cui molti consumarono la loro vita, faticando moltissimo nella loro elaborazione, ora

una sola persona consegue facilmente e rapidamente; tuttavia il nostro tempo utilizza i benefici del

6 Riprendo il brano citato da R. Antonelli, Origini, Firenze, La Nuova Italia, 1978, p. 135, cui rinvio anche per il

commento al testo.

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precedente e spesso conosce più cose non eccellendo per il suo proprio ingegno ma usufruendo di forze

esterne e della opulenta dottrina dei padri).

All’interno di questo quadro un ruolo determinante gioca lo studio del passaggio dal

latino alle lingue romanze che da questo discendono, perché il cambiamento linguistico è

sempre segno di un cambiamento sociale e culturale significativo e di contatti fra individui

e popolazioni. Inoltre le lingue neolatine si trovano certamente in una situazione

privilegiata: sono infatti l’unico gruppo geneticamente affine di cui si sia conservata la

fonte comune7. Così anche

la ricerca etimologica [cioè lo studio dell’origine di una determinata parola] nell’area romanza è (…)

privilegiata nei confronti delle altre lingue indoeuropee, dal momento che nella maggior parte dei casi, le

attestazioni latine forniscono una sicura documentata base di partenza.8

2. Cosa si intende per ‘Origini’?

Il termine ‘Origini’ evoca fatalmente l’idea di inizio assoluto con una valenza genetico-

creazionistica teorizzata da quel romanticismo che aprendosi alla riscoperta del

Medioevo- intrecciava il gusto del gotico all'ambizione di poter attingere l'Origine, la

forma primordiale.

Ma quando si volesse tentare una definizione della nozione di ‘origini’ svincolata da

queste prospettive, non potremmo che suggerire quel lungo e complesso processo di

formazione in cui si assiste alle prime manifestazioni di una lingua ed una letteratura

distinta dal latino. Ora se è facile additare alcuni testi che -con buon margine di sicurezza-

rappresentano documenti consapevolmente espressi in una lingua nuova: pensiamo -per

esempio- al famoso poemetto della S. Eulalia (IX sec.), più difficile è confinare in due

spazi separati testi non più latini e non ancora romanzi ed impossibile accertare con

sicurezza un punto di partenza.

Per muoversi su un terreno così complesso potrà allora essere utile porsi alcune

domande preliminari:

1. Quali circostanze hanno provocato la disgregazione dello spazio linguistico e

culturale latino?

2. È esistita una frattura fra latino scritto e latino parlata o di contro una lunga e

prolungata diglossia?

3. Quando e in che condizioni si è presa coscienza che l’accumulo dei cambiamenti

aveva creato una frattura insanabile fra il latino e la lingua volgare; e quando e come fra i

diversi volgari?

4. Perche le diverse lingue romanze sono sorte in tempi diversi?

Prima di provare a ripercorrere le ipotesi che gli studiosi hanno avanzato per dirimere

questioni tanto ardue, sarà bene ricordare che questo lungo processo di emancipazione dal

latino -che si snoda per ben sette secoli- non andrà concepito in direzione unilineare: ‘dal

latino alle lingue romanze’, ma come un’osmosi complessa fra lingue destinate ancora per

molti secoli a procedere affiancate.

2. Cos’era il latino? All’inizio dell’Ottocento August Schleicher propose di rappresentare le connessioni

genetiche fra idiomi diversi attraverso il modello dell’albero genealogico: la lingua madre

sarebbe stata una lingua oggi perduta: l’indoeuropeo - probabilmente parlata intorno al

7 Cosa che non vale nemmeno per le lingue neoelleniche che pure discendono da una fonte a noi nota. Questi,

infatti, non si sono frazionati in idiomi indipendenti, quanto piuttosto secondo distinzioni dialettali scarsamente

significative. 8 M. Pfister-A. Lupis, Introduzione all’etimologia romanza, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2001, p. 39.

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3000 a C.-, ma ricostruibile sulla base della coincidenza di più lingue che anticamente

dovevano coprire un’area molto estesa: dall’Europa al nord del continente indiano9.

Anche il latino appartiene alla famiglia indoeuropea, in cui partecipa al gruppo delle

lingue kentum e -com’è noto- era inizialmente il dialetto dei pastori che fondarono Roma.

La sua espansione, che durerà quattro secoli (dalla sottomissione dell’Italia centrale nel

272 a.C. fino alla conquista della Dacia nel 107 d.C.), coinciderà dunque con la capillare

penetrazione dell’Impero romano durante la quale l’idioma parlato dai vincitori ‘incontra’

le lingue diffuse sui territori conquistati.

Preliminare sarà naturalmente il rapporto/confronto con l’altra grande lingua di cultura:

il greco che costituisce rispetto al latino una lingua di adstrato (si tratta infatti di due

lingue territorialmente vicine e, da un certo momento in poi, sostanzialmente paritarie dal

punto di vista del prestigio), la cui influenza si realizza in ondate successive (età arcaica;

III sec. a. C.; diffusione del Cristianesimo).

Il greco 1. III sec a. c

Cristianesimo: chierico, monaco, befana, bestemmiare, angelo,

dall'ebraico pasqua, sabato, osanns

Anche alcune lingue germaniche dovrebbero più correttamente essere considerate lingue

di adstrato pur con i necessari distinguo. Un certo numero di termini risultano già utilizzati

nel latino imperiale: quali saponem (in origine un prodotto per i capelli); termini legati alla

vita militare: werra, riks, wardon; termini di colore (in particolare quelli legati al mantello

dei cavalli): biondo; bruno, fulvo, grigio. Il fenomeno non può stupire quando si consideri

che i romani erano in contatto con popolazioni germaniche sin dai primissimi secoli della

nostra era10

.

Diverso è il caso di quelle lingue che possono essere considerate lingue di adstrato solo

rispetto a zone circoscritte: è il caso del celtico nel territorio gallo-romanzo, come ci

documentano i molti celtismi sopravvissuti in francese, legati all’attività agricola: charrue,

charpente, chemin o all’allevamento: mouton, veautre…

Dal sostrato

Ma ancora dall'etrusco: populus, persona, catena, taberna

Osco-umbro: casa, e bufalus, lupus, scrofa, lacrima, ursus

Dunque il latino nella sua espansione si sovrapporrà ad altre lingue di cui alcune di

sicura origine indoeuropea -solo per restare in Italia pensiamo all’osco, all’umbro, al

siculo, al venetico- ed altre di diversa origine: l’etrusco, il ligure, il retico.

Nella maggior parte dei casi il latino verrà accettato dai locali in quanto lingua di

maggior prestigio e funzionale agli usi pratici, politici, amministrativi, e la sua adozione

favorita dalla fondazione delle città e soprattutto dalle istituzioni scolastiche. E tuttavia il

caso dell’Italia completamente latinizzata (salvo talune aree di conservazione del greco)

all’altezza del I sec. d. C. non rappresenta la norma. In luoghi più lontani dal contatto con

il cuore dell’Impero le lingue indigene dovettero sopravvivere per molti altri secoli: è il

caso del gallico, del punico, del libico. Come ci testimonia nel III sec. Ulpiano (Digest.

XXXII, II) per alcuni istituti giuridici era ancora previsto l’uso della lingua materna:

9 Per un quadro introduttivo all’indoeuropeo si può consultare Le lingue indoeuropee, a cura di A. G. Ramat e P.

Ramat, Bologna, Il Mulino 1997. 10

I Germani erano, infatti, non solo presenti in gran numero come mercenari nell’esercito imperiale, ma

addirittura erano giunti a ruoli di comando, basti ricordare il nome del generale Silicone sotto l’impero di

Teodosio (fine del IV sec).

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fidei commissa quocumque sermone relinqui possunt, non solum Latinum vel Graeco, sed etiam Punico

vel Gallicano vel alterius cuiuscumque gentis

=TR

Sarà tuttavia opportuno ricordare che quelle popolazioni che scelsero e favorirono la

ricezione della lingua di Roma hanno attraversato lunghe fasi di bilinguismo. Proprio il

contatto con una lingua straniera ha lasciato tracce consistenti anche sul latino: i cosiddetti

effetti di sostrato.

E se non possiamo identificare con certezza fenomeni fonetici derivati dalle lingue

indigene, però non c’è dubbio che il latino avesse subito un sostanziale arricchimento del

patrimonio lessicale, come dimostrano i cosiddetti relitti lessicali (= quegli elementi

linguistici che una lingua morta lascia nella lingua che le è subentrata nell’uso)11

, cioè

quelle parole che provenivano dal gallico o da altre varietà celtiche e che -come si può

agevolmente osservare- riguardano per la gran parte oggetti legati alla vita quotidiana:

così voci celtiche come becco, camisia, carrus; galliche come bracae, carrum; e i

toponimi composti con -dunum (= castello); -durum (= porta).

Più incerto è invece stabilire se specifiche tendenze fonetiche proprie di alcune zone

siano dovute a fenomeni di sostrato. Un caso sovente ricordato: la cosiddetta gorgia

toscana -cioè l’aspirazione delle occlusive intervocaliche sorde presente in gran parte della

Toscana- che secondo alcuni autorevoli studiosi, tra i quali Arrigo Castellani12

, può essere

ricondotta a condizioni linguistiche proprie dell’etrusco, non solo si scontra con la

«difficoltà di avere certezze sui fonemi dell’etrusco»13

, ma fino al Cinquecento non risulta

in alcun modo documentabile.

Il latino -che ci è noto con documentazione ininterrotta solo dal III sec. a. C.- presenta

nel tempo una relativa stabilità (garantita in particolare dai grandi scrittori di epoca

repubblicana) ed è quindi difficile distinguere fra un latino scritto nel I sec. ed uno nel III

d. C. E tuttavia nel tempo dovettero certamente realizzarsi dei cambiamenti, seppure non

percepiti dai parlanti e non registrati dalla lingua letteraria. Infatti, come già sapevano gli

antichi14

, una lingua fissa, immutabile nel tempo è un’astrazione. Si rilegga quanto scrive

San Girolamo (347 ca.- 420): «cum et ipsa Latinitas et regionibus cotidie mutetur et

tempore» =(La latinità stessa si trasforma continuamente nello spazio e nel tempo).

Anche la sovrapposizione del latino sulle diverse lingue dei popoli assoggettati doveva

aver creato già nel V secolo della nostra era, quando l’Impero Romano cominciava a

cedere alla pressione dei Barbari, non poche considerevoli differenze regionali -che

chiameremo diatopiche15

, destinate ad accrescersi man mano che si allentava il legame

con il centro.

11

Cf. A. Varvaro, Linguistica romanza. Corso introduttivo, Napoli, Liguori, 2001, p. 228. 12

Cf. A. Castellani, Precisazioni sulla gorgia toscana [1959-1960], ora in Saggi di linguistica e filologia italiana

e romanza (1946-1976), 3 voll., Roma, Salerno editrice, 1980, t. I, pp. 189-212. 13

Si veda da ultimo L. Renzi-A. Andreose, Manuale di linguistica e filologia romanza, Bologna, Il Mulino, 2003,

p. 171. 14

D’altra parte la consapevolezza della mutabilità della lingua era chiara già nell’Antichità, si rilegga quanto

scrive Varrone (I sec. a. C.):

Consuetudo loquendi est in motu: itaque solent fieri et meliora deteriora et deteriora meliora; verbam perperam

dictam apud antiquos alios propter poetas non modo non dicuntur recte, sed etiam quae ratione dicta sunt tum,

nunc perperam dicuntur.

(L’uso del parlare è in continua evoluzione, per cui alcune forme migliori sogliono divenire peggiori e altre

peggiori divenire migliori. Non solo parole erroneamente usate presso gli antichi ora sono usate correttamente

per opera di alcuni poeti, ma anche parole che erano secondo la norma, ora si adoperano spropositando) e

riaffiorerà nei grammatici e nei grandi intellettuali tardo antichi come Agostino e Isidoro di Siviglia. 15

Variazione tra parlate diverse che si realizza nello spazio e può oscillare da una distanza massima (tra famiglie

linguistiche diverse), ad una minima (quartieri di una città).

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Sappiamo che Asinio Pollione (intellettuale raffinato, fondatore della prima Biblioteca

pubblica a Roma) rimproverava il grande storico romano Livio per il suo forte accento

patavino e lo storico Espartiano ci racconta l’ilarità suscitata -a causa dello spiccato

accento regionale- dal futuro imperatore Adriano, spagnolo, la prima volta in cui prese la

parola in Senato.

Ma almeno fino ad una certa data la possibilità di riconoscere dalla parlata il luogo di

provenienza di un individuo non doveva rappresentare la norma, se vogliamo prestare fede

ad un gustoso aneddoto raccontato da Plinio il giovane 16

(Epist., IX, 23) di cui lo stesso

Plinio sarebbe stato il protagonista: narrabat sedisse secum circensibus proximis equitem Romanum, post varios eroditosque sermones

requisisse: « Italicus es an provincialis? », se respondisse: « Nosti me et quidem ex studiis ». Ad hoc illum :

«Tacitus es an Plinius ? »

(=raccontava che, durante gli ultimi giochi del circo un cavaliere romano sedeva vicino a lui e che, dopo

vari e colti discorsi, alla sua domanda: ‘Sei italico o di una provincia?’, gli aveva risposto: ‘Mi conosci,

certo: dai miei scritti’. E che quello aveva ribattuto: ‘Sei Tacito o Plinio?’.)

Altre differenze potranno essere inscritte sotto l’etichetta di diastratiche, cioè

determinate dall’appartenenza a diverse classi sociali, come possiamo dedurre da un

luogo sovente citato17

di Gellio 19, 10:

Frontone domanda all’architetto che dirigeva la ristrutturazione dei bagni di casa sua

l’ammontare della spesa. L’architetto risponde ‘circa 300 sesterzi’. Allora uno degli amici

di Frontone chiosa: «et praeterpropter (…) alia quinquaginta». Frontone non capisce il

significato di praeterpropter e domanda lumi ad un grammatico presente, il quale gli

risponde:

«Tum grammaticus usitati pervulgatique verbi obscuritate motus ‘quaerimus’ inquit ‘quod honore

quaestionis minime dignum est. Nam nescioquid hoc praenimis plebeium est in opificum sermonibus quam

[…] notius» (= Il grammatico, stupito che fosse considerato oscuro un vocabolo familiare e divulgatissimo,

disse ‘Chiediamo qualcosa che non è minimamente degna di essere investigata. Non so infatti come

chiamare questo modo di dire, se del tutto plebeo o più […] noto nel parlare degli operai che della gente

colta’).

Il ruolo giocato dal Cristianesimo sarà molto importante oltre che sul piano storico-

sociale per il ruolo di coesione e di fondazione di una nuova Respublica sub Deo, anche

sul piano linguistico. Infatti non solo la nuova religione immetterà nella lingua parlata una

folta messe di neologismi, ma ponendosi come religione degli ‘ultimi’, eleggerà come

nuovo veicolo letterario il sermo humilis della tradizione cristiana18

. Emblematica, in

proposito, la famosissima frase di Agostino Melius est reprehendant nos grammatici,

quam non intelligant populi (Enarrationes in Psalmos, CXXXVIII, 20) = Meglio che ci

rimproverino i grammatici, piuttosto che non ci capiscano le genti.

3. Quali avvenimenti hanno provocato la disgregazione dello

spazio latino? «Il mondo è ormai invecchiato […] non si regge più con quelle forze su cui prima

appoggiava […] e attesta il suo tramonto con l’evidente decadenza di ogni cosa»

(Cipriano, III sec).

16

Su cui si vedano le osservazioni di E. Auerbach, Lingua letteraria e pubblico nella tarda antichità latina e nel

Medioevo [1958], Milano, Garzanti, 1960, pp. 217-18; M. L. Meneghetti, Le origini, Roma, Laterza, 1997, pp.

37 ss. 17

Cf. G. Calboli, Latino volgare e latino classico, in Lo spazio letterario del Medioevo. Il Medioevo latino, II,

La circolazione del testo, Roma, Salerno editore, 1994, pp. 11-53, a p. 19). 18

Sul punto, cf. Auerbach, Lingua letteraria cit., in particolare il capitolo Sermo humilis.

Page 8: Manuale di filologia romanza (Renzi-Andreose)

8

In realtà la maggior parte degli studiosi sono concordi nell’attribuire a ragioni interne di

carattere storico-sociale la spiegazione profonda del cambiamento. Circa 400 anni

separano la caduta dell’Impero romano (476 d.C.) segnata dalla deposizione di Romolo

Augustolo da parte del generale erulo Odoacre dai primi monumenti della lingua volgare e

da quel Concilio di Tours dell’813 che sancirà l’avvenuto distacco fra latino e lingua

volgare.

Ma è chiaro che il 476 rappresenta una data utile a fissare l’epilogo di un lungo

processo.

Certamente infatti a partire dal III secolo la macchina imperiale è scossa da problemi

interni ed esterni strettamente connessi: infatti la pressione di popolazioni provenienti

dalle steppe asiatiche e dalle regioni nordiche, molte delle quali già in contatto con il

mondo romano, costringeva le legioni dell’esercito a lunghi stanziamenti nelle diverse

province. Inevitabilmente questo provoca la formazione di gruppi separati raccolti intorno

ad un capo, che sarà alla base di quel complesso fenomeno che gli storici definiscono

‘anarchia militare’.

Anche il rapporto tradizionale fra imperatore e classe senatoria ha subito profonde

alterazioni: nel confuso periodo che segue l’assassinio di Commodo (192 d. C) appare

chiaro che ormai detiene il potere chi controlla l’esercito, come dimostra l’elezione di un

imperatore quale il generale africano Settimio Severo (197 d.C.).

Anche il famoso editto promulgato dal figlio Marco Aurelio Antonino detto Caracalla

nel 212: la concessione della cittadinanza romana a tutti gli abitanti dell’Impero (con la

sola eccezione dei dediticii, cioè i barbari ancora ribelli) rappresenta senz’altro la presa

d’atto di una trasformazione sociale ormai avvenuta. Ma essa è anche un tentativo di

fronteggiare la grave crisi economica aumentando il numero di coloro che erano soggetti a

pressione fiscale.

Lacerazioni ancora più gravi seguiranno alla fine della dinastia dei Severi: dopo

l’assassinio di Severo Alessandro (235), si succedono più di 20 imperatori fino

all’elezione del generale illirico Diocleziano, noto per le persecuzioni contro i cristiani.

Questi, detenendo il potere per circa un ventennio, riesce a riorganizzare lo stato dal punto

di vista politico, amministrativo, economico e militare.

Benché la crescente minaccia dei barbari congiunta all’aumento delle pressioni fiscali

provochi una crisi delle città, con un massiccio ritiro dell’aristocrazia nelle campagne e la

nascita di diverse forme di organizzazione economica e politica, tuttavia con l’ascesa al

trono di Costantino e fino alla morte di Teodosio I nel 395 si aprono due secoli (età

tardoantica) che attualmente gli storici della cultura tendono a valorizzare per la vitalità e

la ricchezza dell’esperienze culturali e per le novità sociali. È in questo periodo che si

assiste alla definitiva affermazione del Cristianesimo come religione di stato (nel 313

Costantino riconosce la libertà di culto e nel 380 Teodosio con l’editto di Tessalonica

promuove il cristianesimo a religione ufficiale dell’impero), affermazione non pacifica ma

anzi destinata a creare ulteriori fratture all’interno del mondo romano: così nel IV secolo

l’aristocrazia senatoria rappresenterà la roccaforte di difesa dei valori del paganesimo e di

un’identità culturale, sociale e politica ormai definitivamente destinata a vacillare.

E ancora Giuliano, detto l’apostata, imperatore tra il 361 e il 363 negherà ai maestri

cristiani l’insegnamento della retorica tacciandoli di menzogna e accusandoli di ingannare

i discepoli (Epist. 61):

E che dunque! Omero, Esiodo, Demostene, Erodono, Tucidite, Isocrate e Lisia non riconoscevano gli dei

come guide in ogni genere d’istruzione? Non si consideravano dedicati gli uni a Ermes, gli altri alle Muse?

Io trovo assurdo che commenta le loro opere disprezzi gli dei che loro hanno onorato (…) Dal momento che

essi vivono degli scritti di questi autori da cui traggono il loro salario, confesseranno che la loro cupidigia è

spudorata e che, per qualche dracma, sono capaci di tutto.

Page 9: Manuale di filologia romanza (Renzi-Andreose)

9

Determinante sarà inoltre la progressiva perdita del ruolo di Roma come centro

dell’impero, in favore di nuove città quali Milano, Treviri, Arles, fino alla fondazione da

parte di Costantino nel 330 della nuova Roma: Costantinopoli, nel luogo dove sorgeva

l’antica Bisanzio.

Questa nuova capitale accentuerà le differenze fra le due parti dell’impero, la cui

separazione verrà definitivamente sancita con Teodosio. Da questo momento in poi i due

imperi procederanno per strade diverse, con conseguenze disastrose sulla parte occidentale

sempre più esposta all’espansione dei popoli germanici: Vandali, Alemanni, Burgundi,

Svevi. fino al saccheggio di Roma da parte dei Goti guidati da Alarico (410), cui seguirà

un secondo nel 455 da parte dei Vandali.

Ecco dunque ridisegnarsi una geografia politico-sociale tutta diversa: al mondo

mediterraneo, centro della grande civiltà greco-romana, si contrappone da un lato l’impero

bizantino e dall’altro il variegato mosaico delle nuove popolazioni provenienti dalle steppe

asiatiche e dalle regioni del nord.

La consegna del capo barbaro Odoacre delle insegne imperiali nelle mani di Zenone

imperatore di Oriente non è dunque altro che l’epilogo di un lungo processo percepito in

modo diverso dagli spiriti più attenti agli eventi contemporanei.

Così San Girolamo osserva con inquietudine la disgregazione di una civiltà:

Freme il mio spirito e si riempie di orrore volendo narrare le stravaganze tutte e i disordini del nostro

tempo (…) L’impero romano, ovunque desolato, si avvicina al suo scioglimento.

E se Claudiano (370-404 d.C.) nel De Bello Gothico sembra valorizzare l’apporto di

nuove e più valorose genti contrapposte alla mollezza e alla decadenza morale dei

Romani, definiti «inesperti dei terrori, generazione svigorita dai lussi …», di contro

Ammiano Marcellino, storico nato ad Antiochia fra il 332 e il 335, non esita -in una

pagina notissima tratta dai Rerum Gestarum libri- a paragonare gli Unni a bestie selvagge:

Hanno membra robuste e salde, grosso collo e sono stranamente brutti e curvi, tanto che si potrebbero

ritenere animali bipedi o simili a quei tronchi grossolanamente scolpiti sui parapetti dei ponti. Per quanto

abbiano figura umana, sebbene deforme, sono così rozzi nel tenore di vita da non aver bisogno né di fuoco,

né di cibi conditi (…)

Ignorano profondamente, come animali privi di ragione, il bene e il male, sono ambigui e oscuri quando

parlano, né mai sono legati dal rispetto per una religione o superstizione, ma ardono di un’immensa avidità

d’oro…

All’inizio del VI sec., dunque, il territorio che apparteneva all’Impero di Roma appare

ridisegnato in diversi regni romano-barbarici: un’area iberica sotto i Visigoti, la Francia

sotto i Franchi che nel 507 avevano cacciato definitivamente i Visigoti, Angli Iuti e

Sassoni in Inghilterra e gli Ostrogoti in Italia.

Ormai il destino dell’Occidente è affidato alla sfida dell’integrazione fra romani e

barbari, integrazione diversa da zona a zona perché le nuove popolazioni non

rappresentavano gruppi compatti con abitudini e istituzioni uguali e dunque con risultati

non generalizzabili.

Così Teodorico, re degli Ostrogoti sceso in Italia nel 488 dopo aver a lungo soggiornato

alla corte di Costantinopoli sceglie di circondarsi di esponenti illustri dell’aristocrazia

romana: Cassiodoro, Simmaco, Severino Boezio. Ma l’esperimento pure importante non

sopravvive alla morte di Teodorico (526) il quale, già negli ultimi anni del suo regno,

scosso da conflitti fra i vari gruppi religiosi, aveva condannato a morte quegli stessi

uomini che lo avevano appoggiato.

Le popolazioni del settentrione d’Italia, estenuate dalla lunga guerra greco-gotica (535-

553) con il tentativo di Giustiniano di recuperare all’Impero i territori soggetti ai barbari -

Page 10: Manuale di filologia romanza (Renzi-Andreose)

10

-tentativo riuscito sia in Italia che in Spagna contro i Visigoti- subiscono una nuova

invasione: quella dei Longobardi. Questi, detenendo il potere per circa due secoli,

provocheranno una forte cesura con la parte bizantina della penisola.

Di fronte a questi crescenti turbamenti socio politici la fuga dalle città si accentua e il

fenomeno del latifondo si trasforma sempre più in un’economia autosufficiente, dove il

proprietario terriero diviene amministratore della giustizia e lo sfruttamento di coloro che

a lui erano soggetti viene almeno in parte bilanciato dalla garanzia contro le minacce

esterne.

Si assiste così alla nascita di un’ organizzazione di carattere protofeudale attraverso la

saldatura di due istituti differenti: il primo la commendatio tardo romana secondo la quale

ci si affidava ad un proprietario più ricco per sfuggire a troppo esose tassazioni; dall’altro

il legame di fedeltà personale che univa i guerrieri germanici ai loro capi.

In questo difficile progresso di integrazione il Cristianesimo gioca un ruolo importante:

dopo una prima fase di separazione, infatti, Goti, Vandali e Longobardi abbracciano

l’arianesimo (negazione della natura divina del Cristo), ma già nel 496 Clodoveo re dei

Franchi si converte al cattolicesimo, e nel 589 Recaredo re dei Visigoti proclamerà il

cattolicesimo religione di stato.

Si afferma inoltre in questo periodo un nuovo fenomeno destinato a giocare un ruolo

essenziale nella società medievale: il monachesimo, che vedrà quelle prime isolate

esperienze -nate intorno al IV secolo- trasformarsi in un sistema organizzato e

autosufficiente e svolgere un ruolo determinante non solo per l’opera di evangelizzazione

condotta, ma anche per la funzione di organizzazione sociale svolta soprattutto nelle

campagne. Inoltre -com’ è noto- la valorizzazione nella regola monastica del lavoro,

compreso quello intellettuale, favorirà la nascita e lo sviluppo all’interno dei monasteri di

scriptoria che rappresenteranno luoghi preziosi di copia, di conservazione e di

trasmissione dei testi classici.

Questo complesso equilibrio verrà ulteriormente alterato con l’avanzata arabo-islamica

dell’VIII secolo che -secondo la famosa tesi dello storico belga Henri Pirenne19

-

rappresenterebbe la vera causa del tracollo del mondo antico.

L’antagonismo con gli arabi farà emergere nuove grandi dinastie, determinanti per il

futuro dell’Europa romanza (e non solo romanza): così quando Carlo Martello, re dei

Franchi, riuscirà a sconfiggere gli Arabi a Poitiers nel 732 fermandone l’avanzata,

comincia ad intrecciarsi sul piano ideologico e politico un rapporto con l’unico potere

universale sopravvissuto: il papato. Questo legame si stringerà ancor più con il figlio di

questi Pipino il Breve proclamato re dei Franchi alla presenza di papa Zaccaria e poi con

Carlo Magno il quale ponendosi come il difensore della Cristianità contro i pagani

Sassoni e i mussulmani, aprirà le porte a quel progetto di Sacro romano impero che rimane

legato al suo nome. Come scrive lo storico francese Marc Bloch20

(I re taumaturghi..): «I

sovrani dell’Occidente ridiventarono sacri grazie ad un’istituzione nuova, la consacrazione

ecclesiastica dell’avvento al trono e, più particolarmente, il suo rito fondamentale,

l’unzione».

Con Carlo siamo dunque giunti a quella grande rinascenza del IX sec. che segnerà una

svolta storica, politica, ma anche linguistica -ed è ciò che ci interessa- straordinaria, pur

sostanzialmente perseguendo un obbiettivo irrealizzabile: costruire un organismo

sovranazionale basato su una doppia matrice: l’eredità romana e la consacrazione

cristiana.

19

H. Pirenne, Maometto e Carlomagno [1937], Bari, Laterza, 1939.

20

Marc Bloch, I re taumaturghi : s tudi su l cara ttere sovrannatura le a t t r ibuito a l la po tenza

dei re partico larmente in Francia e in Inghil terra , prefaz ione d i Jacques Le Goff , con un

Ricordo di Marc Bloch di Lucien Febvre. (**) - 3 . ed. – Torino, Einaudi , 1996

Page 11: Manuale di filologia romanza (Renzi-Andreose)

11

Com’è noto Carlo riunirà intorno a sé gli intellettuali più prestigiosi del suo tempo in

una sorta di accademia, quella scuola palatina presieduta da Alcuino, monaco della

Britannia, e che conta tra i suoi membri personaggi del calibro di Paolo Diacono, storico

dei Longobardi, Pietro da Pisa, Paolino, Eginardo, biografo di Carlo.

Ma lo sviluppo intellettuale e artistico (che conquisterà al IX secolo la dizione di

‘rinascenza’) si estende all’architettura con la fondazione di palazzi, chiese e monasteri

destinati a divenire sede di scuole e di scriptoria dove gli autori classici vengono copiati

da professionisti della penna. Proprio questa instancabile attività di trascrizione di codici

spiega lo sviluppo di una nuova scrittura (ancora usata nei caratteri a stampa): la

minuscola carolina, caratterizzata da un modulo piccolo e da una spiccata leggibilità.

Alla luce di questi brevissimi cenni storici, sarà dunque opportuno tenere conto che se

fino al II secolo la cultura letteraria dell’età imperiale appare estremamente unitaria, nei

secoli seguenti si comincia ad assistere ad una differenziazione sul piano geografico che

consente di distinguere tre grandi spazi: 1. regno visigoto 2. regno franco 3. regno

longobardo papale e bizantino.

5. Come si realizza il cambiamento linguistico?

La filologia evoluzionistica del secolo scorso concepiva l’evoluzione linguistica come

un fenomeno continuo senza rotture da un passaggio all'altro, e se da un lato segnava il

superamento dell’idea classica del cambiamento come degrado progressivo, dall’altro

fondava quel metodo storico-comparativo che sarà fondamentale per lo studio delle lingue

romanze, ma ancora prima per la ricostruzione dell’indoeuropeo.

Questa troppo rigida fiducia nella regolarità dei cambiamenti fonetici da cui potevano

estrarsi delle vere e proprie leggi sostanzialmente prive di eccezioni (fatta salva l’azione

dell’analogia ed escludendo i cultismi e i prestiti regolati da diverse leggi fonetiche) è

stata corretta nel tempo21

. In primo luogo è stata messa in dubbio l'unità di un sistema

sincronico in favore della ricerca delle cause necessarie che condizionano i cambiamenti

linguistici in modo permanente, senza dimenticare che nessun cambiamento linguistico è

inevitabile e la lingua può sempre scegliere fra diverse soluzioni.

Tra i fattori di interferenza, grande peso è stato attribuito alle spinte di carattere storico,

sociale e culturale. Preziose in questa direzione le acquisizioni della geografia linguistica

che non solo ha mostrato, attraverso la proiezione sugli atlanti, come si realizza la

sostituzione lessicale, ma ha anche definitivamente chiarito come le differenze fra le

lingue siano segnate da confini linguistici graduali e come dunque sia necessario

valorizzare -accanto alle grandi lingue nazionali- l’importanza dei dialetti22

.

Più incline a dare peso alle rotture di continuità è stato lo strutturalismo della prima

metà del XX sec. le cui posizioni, legate in particolare alle teorie di Ferdinand de

Saussure23

, possono apparire talvolta anti-storiche, ma ciò non dovrebbe mettere in ombra

alcune acquisizioni di grande importanza: come l’opposizione fra significante e

significato, legati fra loro dall’arbitrarietà del segno linguistico; la distinzione fra

diacronia e sincronia; il concetto di struttura, che implica l’invito a non trattare i fenomeni

fonetici isolatamente, ma a tenere conto che ogni cambiamento provoca un riassestamento

del sistema complessivo. Infine la differenza fra langue e parole che verrà -seppure

21

Per un quadro generale aggiornato sulla questione si veda il III capitolo del citato Manuale di linguistica e

filologia romanza, di Renzi-Andreose: Il paradigma storico, pp. 85-103. 22

Sulla geografia linguistica, si veda C. Grassi, Die Sprachgeographie/La geografia linguistica, in Lexicon der

Romanistichen Linguistik, a cura di G. Holtus, M. Metzeltin e C. Shmitt, t. I/1, Tübingen, Niemeyer, 2001, pp.

207-235. 23

Il Cours de lingusitique générale, uscito postumo nel 1916 a cura di C. Bally e A. Sechehaye, è tradotto e

commentato in italiano da T. De Mauro, Corso di linguistica generale, Roma, Bari, Laterza, 200016

(I ed.1967).

Page 12: Manuale di filologia romanza (Renzi-Andreose)

12

attraverso termini diversi- ripresa dalla Grammatica generativa attraverso i concetti di

‘competenza’ ed ‘esecuzione’ enunciati da Noam Chomsky24

.

Attualmente grazie soprattutto al contributo di una disciplina recente come la

sociolinguistica, appare evidente che ogni comunità linguistica (dalla famiglia allo stato)

presenta una variabilità più o meno consistente determinata dalla concomitanza di diversi

fattori sociali.25

Non potendo qui ripercorrere i diversi paradigmi interpretativi attraverso i quali si è

cercato di spiegare il cambiamento linguistico, sarà bene però sottolineare come è proprio

e soltanto da diversi punti di vista che si può dar ragione della variazione diatopica, cioè la

specificità del mutamento linguistico in rapporto allo spazio geografico.

6. Il “latino volgare”: etichetta operativa?

Tra 1866-68 Hugo Schuchardt condusse un’accurata analisi sull’uso del vocalismo in

quei testi scritti in un latino svincolato dalla rigidità della norma. Giunse alla conclusione

che presentavano una serie coerente di variazioni che raccolse sotto l’etichetta latino

volgare ‘Vulgärlatein’.

Naturalmente l’aggettivo ‘volgare’ non assume alcuna valenza di carattere sociale:

‘lingua del volgo’, ma semmai quella già ciceroniana di ‘lingua d’uso’, così nella Rhet. Ad

Herennium : Gravitatem et dignitatem et suavitatem habere in dicendo poteris, ut oratorie plane loquaris, ne nuda atque

inornata inventio vulgari sermone efferatur… (4, 69)

(=Potrai mantenere nell’esposizione sia gravità che dignità e dolcezza, affinché pur parlando con

un’oratoria semplice, i concetti non vengano espressi in modo umile e disadorno in una lingua troppo

usuale).

La nozione di latino volgare ha suscitato non poche perplessità e altre etichette sono

state avanzate: per esempio ‘latino tardo’ (Varvaro)26

o semplicemente latino (Harris e

Vincent, ora Lee) 27

. Qui si sceglie di conservare l’etichetta di ‘latino volgare’ con

l’avvertenza di non interpretarla come contrapposizione tra un latino normativo -quasi

artificioso- e una lingua unica e mutevole in diacronia, dal momento che certamente latino

scritto e parlato dovettero interferire.

Un altro problema centrale è quello di riuscire a segnare il confine fra un latino sfigurato

da numerosi volgarismi e una scrittura che non può più considerarsi latina, questione resa

ancora più complessa dalla veste grafica. È ovvio infatti che chi sceglieva di esprimersi

per iscritto in una qualsiasi varietà romanza doveva necessariamente servirsi della

corrispondenza fra suoni e grafie del latino.

Per esempio in francese la u era palatalizzata, cioè veniva pronunciata /ü/. Poiché

l’alfabeto latino -che constava di 23 lettere- non prevedeva nessun suono corrispondente,

si mantenne la grafia u e, per non creare confusione con la vocale u, quest’ultima verrà

rappresentata con il grafema ou.

Un’altra tendenza è quella di usare alcuni suoni con valore diacritico cioè accostarli ad

altri segni per cambiarne il valore. Basterà ricordare un caso antico, già documentato nei

Giuramenti di Strasburgo, dove dh esprime la fricativa interdentale sonora:

24

Cf. N. Chomsky e M. Halle, The Sound Patterns of English, New York 1968. 25

Per un quadro generale, cf. G. Berruto, Fondamenti di sociolinguistica, Roma-Bari, Laterza 1995. 26

Cf. Varvaro, Linguistica romanza cit., p. 23. 27

Cf. Ch. Lee, Linguistica romanza, Roma, Carocci, 2000, p. 27.

Page 13: Manuale di filologia romanza (Renzi-Andreose)

13

Pro Deo amur et pro christian poblo et nostro commun saluament, d’ist di in auant, in

quant Deus sauir et podir me dunat, si saluarai eo cist meon fradre Karlo, et in adiudha et

in cadhuna cosa …

E potremmo ricordare anche un caso più moderno: la resa della velare davanti ad e ed i

che in toscano viene rappresentata dal digramma ch.

Appare comunque evidente che la grafia di una lingua risulta sempre molto più

conservativa rispetto alla pronuncia, con sfasature più o meno forti da lingua a lingua, per

questo fin dal secolo scorso sono stati elaborati degli alfabeti fonetici che rispettino il

rapporto biunivoco tra suono e rappresentazione grafica.28

6. Quando si smette di parlare latino?

A questa domanda -al centro di un intenso e ancora attuale dibattito- è possibile con

certezza rispondere solo attraverso quei documenti che sanciscono la presa d’atto di una

situazione come avviene nella già ricordata XVII deliberazione del Concilio di Tours

(813), consapevole espressione di una volontà di riforma volta ad evitare un eccessivo

scarto fra quadri ecclesiastici e popolo: quo faciulius cuncti possint intelligere quae

dicuntur.

Non a caso andrà di pari passo con l'esortazione a "applicarsi allo studio delle lettere"

(Antonelli p. 29)

Come osserva Roncaglia

«la tensione fra la trascendente immobilità della lingua sacra e l'immanenza della lingua pastorale è giunta

ad un punto di rottura … E finalmente il volgare si definisce come lingua intellegibile al volgo. Ma è dalla

cultura latina che questa lingua cresciuta disordinatamente prende coscienza e fornisce ordine al suo

empirismo disordinato. E si noti ancora che se l'impulso viene da chi accondiscende a parlare in volgare

tuttavia si intravedono fermenti diversi pensiamo agli accenni delle deliberazioni conciliari contro i musici e

gli istrioni.»

Gli studiosi sembrano però concordi29

nell’additare nella decadenza del latino

merovingico un punto di crisi estrema. Effettivamente già in autori come Gregorio di

Tours (538ca-594) si incontrano -oltre ad una fitta messe di neologismi lessicali- molte

innovazioni di carattere morfologico quali: i metaplasmi di coniugazione, forme

perifrastiche, un uso incerto delle desinenze e la conseguente tendenza a estendere le

funzioni oblique sull'accusativo30

. Non sarà un caso che proprio in vari luoghi della sua

Historia Francorum, Gregorio faccia riferimento al sermo rusticus o stilus rusticus per

indicare un livello della lingua comprensibile agli illetterati.

Dovrebbe risalire al secolo successivo il carmen scritto secondo l’uso volgare (iuxta

rusticitatem) cui si fa riferimento nella Vita Sancti Faronis di Ildegario, vescovo di Meaux

nell’Ile de France (seconda metà del IX sec.). Ildegario ricorda che in onore del santo

28

Si può far riferimento a The Principles of the International Phonetic Association, IPA, London 1958. 29

Si veda il contributo di A. Zamboni, Dal latino tardo agli albori romanzi: dinamiche linguistiche della

transizione, in Morfologie sociali e culturali in Europa fra tarda antichità e alto medioevo, Settimana di studio

del Centro italiano di Studi sull’alto Medioevo, XLV (3-9 aprile 1977), 2 voll. , CISAM, Spoleto 1998, II, pp.

619-698. Lo studioso, riprendendo la complessa letteratura sull’argomento, conclude: «Alla risposta

metalinguistica e socioculturale che pone l’emergere cosciente e definito di forme volgari dopo l’inizio del sec.

IX se ne può pertanto contrapporre una interna che stabilisce nell’universo latino l’esistenza di almeno due

norme e di conseguenza stratificazioni diglottiche con un anticipo di due o tre secoli». 30

E nello pseudo Fredegario (VII sec.) accanto ad esempi di futuro perifrastico, incontriamo una notevole

estensione nell’uso di quod, quia per subordinate che in latino richiedevano la costruzione infinitiva.

Page 14: Manuale di filologia romanza (Renzi-Andreose)

14

ancora vivo -quindi non oltre il terzo quarto del VII secolo- un coro di donne eseguirono

un carmen iuxta rusticitatem, accompagnandolo con danze31

.

Va tuttavia r

Per definire questo stato di lingua gli studiosi hanno proposto diverse etichette: latino

circa romançum (Avalle)32

; scripta latina rustica (Sabatini)33

; lingua romanica

(Ruggieri)34

; ‘parlato romanzo’(Braccini)35

, ‘latino della parola’ (Meneghetti)36

, che

rappresentano modi diversi di interpretare il cambiamento in atto.

La maggior parte degli studi convergono nell’identificare in alcune categorie di testi il

terreno in cui si innesta questo latino «orientato in direzione del volgare» (Meneghetti, p.

55): si tratta sostanzialmente di testi documentari, storiografici, legati alla predicazione

ecc.. e credo che si possano proficuamente riprendere le conclusioni di Maria Luisa

Meneghetti37

: … in pratica tutti i testi considerati più ‘compromessi’ in direzione del volgare rientrano, dal punto di vista

funzionale, in due precise categorie: una categoria per così dire testimoniale, legata alla necessità di

tramandare un determinato testo o costrutto garantendone l’esattezza anche linguistica, per ragioni di vario

ordine (…); e una categoria didattico-prescrittiva, dominata dalla necessità di rendere comprensibile ai

destinatari un testo dotato di forte valore pragmatico (è la categoria di cui fanno parte ovviamente le omelie

o le vite di santi merovinge appena citate, ma anche le raccolte di leggi e i glossari).

Nella maggior parte di questi documenti è proprio l’accostamento fra un latino

sostanzialmente rispettoso della norma classica ed un latino ormai minato nelle sue

strutture di fondo a denunciare la sopravvenuta e consapevole separazione fra due entità

linguistiche diverse e non più fra due strati della medesima lingua.

7. Attraverso quali fonti scritte possiamo studiare il “latino

volgare”?

Se dunque lo spazio in cui si consuma il cambiamento è l’oralità, che per definizione

non lascia traccia di sé, attraverso quali canali possiamo conoscere e verificare l’affiorare

di una serie di mutazioni della norma classica? A questo fine possono segnalarsi alcuni

ambiti privilegiati:

1. Gli autori latini quando usano espressioni della lingua parlata. Preziosi si rivelano gli

autori arcaici, perché attivi in un’età in cui la norma era meno rigida, e in particolare gli

autori di teatro. Questi, indulgendo nel gusto del comico, del dialogo, della freschezza della

battuta -come Plauto nelle Commedie (254 ca.-184 a. C.) e Terenzio (190-159 a. C)-

offrono esempi di una lingua meno sostenuta dove affiorano tendenze non entrate nella

31

Il testo è stato oggetto di animati dibattiti. Sulle varie ipotesi che si sono succedute intorno a questo testo, si

veda Meneghetti, Le origini cit., pp. 65-67. 32

Cf. D. S. Avalle (a cura di), Latino ‘ circa romançum’ e ‘rustica romana lingua’, Padova, Antenore 1970 (I ed.

1964). 33

F. Sabatini, Dalla ‘Scripta latina rustica’ alle ‘scriptae’ romanze, in Id., Italia linguistica delle origini. Saggi

editi dal 1956 al 1996, a cura di V. Coletti, R. Coluccia, N. De Blasi e L. Petrucci, Lecce, Trepuzzi, 1996, t. I,

pp. 219-265. 34

R. M. Ruggieri, Romanità e ‘romanicità’, in Acta philologica della ‘Societas Academica Dacoromanica’, V

(1966), pp. 117-26. 35

Cf. M. Braccini, Latino e parlato romanzo nell’Alto Medioevo: perorazione per un divorzio non rinviabile, in

Echi di memoria. Scritti di varia filologioa, critica e linguistica in ricordo di Giorgio Chiarini, a c. di G.

Chiappini, Alinea Editrice, Firenze 1988, pp. 17-34. 36

La nozione di ‘latino della parola’ mira proprio a a proporre un’etichetta più elastica «che sottolinei, in primo

luogo, la provenienza del costrutto implicato da una situazione originaria –quand’anche puramente mentale- di

non compromissione con il codice della scrittura …» Cf. Meneghetti, Le origini cit., p. 56. 37

Cf. Meneghetti, Le origini cit., pp. 57-8.

Page 15: Manuale di filologia romanza (Renzi-Andreose)

15

norma classica. Come osserva Barbara Spaggiari38

: « … il relativo quoius, -a, -um, che non

trova cittadinanza nel latino classico, compare già in Plauto ed è alla base di varie forme

romanze (log. kuyu; sp. cuyo; port. cujo): prova questa della sua esistenza ininterrotta a

livello parlato».

Ma anche un autore ritenuto un vero e proprio modello normativo come Marco Tullio

Cicerone (106- 43 a.C.) nelle sue Epistole utilizza un linguaggio molto più sciolto,

così nell’epistola ad Attico (X, 16, I): ad te dederam litteras de pluribus rebus, cum

ad me bene

dall'ebraico mane Dionysius fuit (quando era venuto da me Dionisio, gli avevo dato epistole

per te relative a molti argomenti)* dove possiamo osservare i costrutti preposizionali ad te,

ad me in luogo del dativo e l’avverbio rafforzato da bene.

Naturalmente il genere epistolare (seppure anche nelle sue realizzazioni più modeste non

risulti immune da codificazioni) si rivela particolarmente interessante quando è costituita

da una scrittura privata, svincolata quindi dai registri alti, per esempio le circa 300 lettere

provenienti dall’Egitto scritte per lo più da militari su papiri e tavolette cerate.

Grande interesse rivestono anche autori che parodizzano il latino scritto, come Petronio

(+ 65 d.C) in un celebre episodio del Satyricon: la Coena Trimalchionis, dove mette in

bocca ad alcuni dei suoi personaggi e soprattutto a Trimalchione esponente di quei liberti

arricchiti che venivano dallo spazio greco, espressioni di carattere popolare e plebeo.

2. Gli autori di trattati tecnici: di agricoltura e allevamento, a partire dal più antico:

Marco Porcio Catone (234-149 a. C), per proseguire con Columella (I sec. d.C) e Palladio

(IV sec. d.C.); i trattati di veterinaria come la Mulomedicina Chironis (IV sec. d.C.); i libri

di cucina, come quello di Apicio.

3. Una fonte preziosa è costituita dagli autori cristiani proprio per lo sforzo di

intelligibilità che guida la scrittura. Questa scelta verso un linguaggio facilmente

comprensibile affiora già nella più antica traduzione della Bibbia: la Vetus latina (II d. C)

e verrà ripresa nella Vulgata di San Girolamo.

È merito della scuola di Nimega avere sostenuto già alla fine del XIX sec. che il latino

cristiano andava ritenuta una ‘Sondersprache’, una lingua speciale, ricca di grecismi,

semitismi, volgarismi. Come è stato osservato relativamente ad un luogo del Vangelo di

Luca, 4, 4: scriptum est quia non in solo pane uiuit homo’ «Esso contiene un grecismo

volgare, la dichiarativa con quia invece dell’infinitiva, calco di ότι (benché preparato da

alcuni sintagmi latini del tipo doleo quod) e antecedente del nostro ‘che’; e un semitismo ,

la preposizione in con valore strumentale (‘di solo pane’) …»39

.

4. I grammatici latini specialmente quando segnalano errori più comuni sia nella

morfologia che nella pronuncia.

In questa direzione, una particolare importanza rivela l’Appendix Probi (probabilmente

scritta a Roma fra III-IV sec. d. C.) 40

conservata nel ms.Vindob. 17 di Vienna, in

appendice ad una grammatica di Probo, che contiene nella III parte un elenco di 227

parole volgari da evitare: es. auris non oricla; Calida non calda; viridis, non virdis; vinea

non vinia; vetulus non veclus. E proprio quei “volgarismi” rivelano tratti che si

affermeranno nelle lingue romanze quali l’uso dei diminutivi, la monottongazione di au in

o; la sincope della postonica, la tendenza della e in iato a trasformarsi in semivocale.

38

Cf. B. Spaggiari, Il latino volgare, in Lo spazio letterario del Medioevo. Il Medioevo latino, I. La

produzione del testo, Roma, Salerno editrice, t. I, pp. 81-119, p. 83, n. 9.

39

Cf. Traina-Bernardi Perini, Propedeutica cit., p. 7, n. 5. 40

Ma secondo altri, come Renzi-Andreose, Manuale di linguistica cit., p.173 , il testo andrebbe collocato nel V-

VI sec.

Page 16: Manuale di filologia romanza (Renzi-Andreose)

16

Di grande interesse anche un glossario conservato in un codice databile al IX sec. e

proveniente dall’abbazia di Reichenau dove la voce latina viene affiancata da quella

“volgare”.

5. I lessicografi : particolarmente interessante è Isidoro, vescovo di Siviglia (570 ca.-

636), autore di 20 libri di Etimologie, vera e propria summa dello scibile del tempo,

soprattutto dove spiega alcuni volgarismi. Così (Etim., XVII, 7-9) Mella, quam Greci

loton appellant, quae vulgo propter formam et colorem fabam syriācam dicitur.

6. Le iscrizioni soprattutto quelle di carattere privato, dove per ignoranza degli

scalpellini troviamo tracce di volgarismi assenti nelle epigrafi ufficiali e che a differenza

di queste rimangono nel luogo dove furono scritte consentendoci anche una

localizzazione linguistica. Tra le più note ricordiamo quelle pompeiane di cui possediamo

un sicuro terminus ante quem nel 79 d. C. (data eruzione Vesuvio) e che sono state

protette dall’ingiuria del tempo proprio dalla cenere. Ecco per esempio l’iscrizione che si

legge all’interno di una pittura41

: Quisquis ama valia, peria qui nosci amare

Bis tanti peria, quisquis amare vota. (= Viva chi ama, muoia chi non sa amare. Due volte muoia chi impedisce di amare)

dove si può osservare la scomparsa della dentale finale t nella III persona verbale (valia,

peria invece valeat, pereat); l’esito di j da ĕ atona in iato; nosci(= non scit) invece di

nescit.

Molto interessanti, infine, sono alcune formule magiche impresse su lamine di piombo,

le cosiddette defixionum tabellae (II o III sec. d. C.)usate per difendersi dal malocchio e

provenienti per la gran parte dall’Africa.

7. Grammatica comparata e lessico delle lingue romanze Quando gli esiti romanzi convergono è possibile postulare l’esistenza di una forma non

documentata in latino. Le forme ricostruite solo su base comparativa si scrivono precedute

da un asterisco:

es: *potēre> (diverso dal lat. class. posse) it. potere; fr. pouvoir; sp. por. poder

*quagŭlare > fr. coillier; it coagulare

*pĭram (e non pĭrum): it. cat. sp. port. pera; fr. poire

Addirittura nel fondamentale dizionario di Meyer-Lübke il Romanisches etymologisches

Wörterbuch (1911-20) il 10% delle forme sono contrassegnate da asterisco, anche se quasi

un secolo di ricerche linguistiche ha ovviamente alterato queste percentuali e molte forme

sono oggi riccamente documentate.

9. Gli errori dei copisti

Infine alcune informazioni possono ricavarsi anche dalle grafie dei manoscritti

attraverso gli sbagli dei copisti, anche se si tratta per lo più di documentazione posteriore

all’età carolina, assai rari sono infatti i codici conservati anteriore a questa data.

41

Per l’iscrizione, sovente citata, cf. V. Väänänen, Introduzione al latino volgare [1963], Bologna, Pàtron 19803,

p. 69 fr.

Page 17: Manuale di filologia romanza (Renzi-Andreose)

17

PARTE II

§ 0. Premessa

Come si diceva, il confronto fra le lingue romanze rivela non solo la dipendenza

genetica da una medesima lingua madre, ma anche una folta messe di tendenze (fonetiche,

morfologiche, sintattiche, lessicali) comuni che non vengono cancellate dalle innovazioni

particolari che si realizzano nelle diverse lingue romanze. Tuttavia proprio per sfuggire al

rischio -lucidamente messo in rilievo da Alberto Varvaro- di dare l’impressione che

«questo latino volgare sia una forma diversa di latino, in cui si ritrovano in un solo sistema

pancronico tutte le scorrettezze di luoghi, tempi ed autori diversi» e che le lingue romanze

«in quanto ne riflettono in qualche modo almeno una parte delle deviazioni dalla norma,

finiscono per essere considerate discendenti esclusivamente dal latino volgare»42

, sarà

bene premettere che i cambiamenti rispetto alla norma latina qui riportati, andranno letti

come tendenze che si realizzano non contemporaneamente nell’insieme della Romània.

1. Fonetica Minima premessa glottologia ...

43

L'emissione di un suono linguistico si realizza quando l'aria emessa dai polmoni incontra

gli ostacoli costituiti dagli organi fonatori disposti in punti diversi della bocca.

Gli organi fissi coinvolti nella fonazione sono:

i denti

gli alveoli (cavità della mascella e della mandibola contenente la radice del dente)

il palato

gli organi mobili:

le labbra

il velo palatino

la faringe

Sarà anche opportuno percepire la differenza fra suoni sordi e sonori: nella pronuncia

dei suoni sordi, infatti, la glottide -cioè lo spazio fra le corde vocali- è aperta e passa più

aria, dunque il suono emesso risulta molto più energico, mentre nell’emissione dei suoni

sonori la glottide è chiusa e vibrano le corde vocali. Per il resto apparirà immediatamente

chiaro che nell’articolazione di /t/ o /d/ risultano coinvolti i medesimi organi fonatori.

Classificazione dei suoni

Tutti i suoni linguistici rientrano in due classi principali 1. la classe delle vocali44

:

quando l'aria emessa dai polmoni non incontra nessun'ostacolo da parte degli organi

fonatori. Le differenti caratteristiche delle vocali sono determinate dalla forma assunta

dalla cavità orale (posizione della lingua e forma delle labbra); 2. la classe delle

consonanti: quando l'aria emessa dai polmoni incontra diversi ostacoli da parte degli

organi fonatori.

42

Cf. Varvaro, Linguistica romanza cit., p. 203. 43

Per un buon manuale di riferimento, si veda L. Canepari, Introduzione alla fonetica, Torino, Einaudi, 1979 (III

ed). 44

Canepari, Introduzione alla fonetica cit., p. 22, preferisce l'uso di ‘vocoidi’ e ‘contoidi’.

Page 18: Manuale di filologia romanza (Renzi-Andreose)

18

I suoni vengono classificati secondo il modo di articolazione (cioè il modo in cui

bloccano del tutto o solo in parte la fuoriuscita dell'aria) e il luogo di articolazione.

Per il modo di articolazione distingueremo fra suoni

OCCLUSIVI: così detti perché bloccano completamente l'aria accostando due parti

degli organi fonatori.

FRICATIVI: poiché non bloccano l'aria completamente, essa nel fuoriuscire emette una

sorta di frizione.

AFFRICATI: sono quei suoni dove l'aria prima bloccata viene poi liberata: da

un'occlusione si passa ad una frizione. Essi quindi pur percepiti come suoni unitari

(pensiamo a zia) sono in realtà suoni composti come dimostra «l'ascolto alla rovescia

d'enunciati che li contengono incisi su nastro magnetico...»45

(), per cui [tsia] diventa

]aist].

Infine distingueremo le consonanti NASALI -realizzate attraverso il passaggio dell'aria

soltanto dal naso-, le LATERALI -articolate col sollevamento della lingua e la

conseguente occlusione del canale orale, con emissione dell’aria ai suoi lati- e le

VIBRANTI –suoni alla cui produzione concorre un organo che vibra-.

Per il luogo: cioè quei punti dell’apparato fonatorio in cui gli organi vengono in contatto,

aumentando così le possibilità di articolare suoni diversi: labbra, denti, alveoli ecc…

Si riporta in appendice la tabella secondo l'IPA

_______________________

VOCALISMO

Ora (Renzi p, 91) il punto di partenza dei cosiddetti Neogrammatici verso la fine

dell'800 è il metodo STORICO-Comparativo. Si parte dalla comparazione dell'esito delle

lingue romanze e si risale a ritroso verso la lingua madre. Il cuore del metodo è l'idea che

in una lingua gli stessi esiti si trasformano nello stesso modo in tutte le parole. Ovvero

esiste una regolarità nei cambiamenti fonetici come c'è nei fenomeni naturali,

dunque la ricerca linguistica ha carattere scientifico. Si arriva alla formulazione di

leggi fonetiche pur corrette da eccezioni per es quei casi in cui l'evoluzione vocalica è

condizionata dal contesto fonetico (renzi, p. 92) : a. ANAFONESI cioè Ē e Ĭ davanti a

gruppi palatali consonantici si chiudono in I

Meraviliam

Familiam

Tinea

b. caso del francese dove A tonica latina diventa E, es marem> mer. Ma ci sono possibili

esiti diversi, 1. Se è in sillaba chiusa resta A 2.se a è preceduta da pal. dittonga in IE

CANEM> CHIEN, caput> chief 3. se è seguita da nasale> AI riprodotto ancora nella

grafia moderna dove però il suono è monottongato MANUM> main

FAMEM> faim

c. ANALOGIA che consiste nell'attrazione che una forma subisce da parte di un'altra . Si

considerino i dativi italiani CUI/ LUI, solo cui è direttamente derivato dal latino mentre

ILLUI è forma ricostruita su analogia, in lationo sarebbe stato ILLI

d. I CULTISMI

Si tratta di forme non trasmesse per via popolare ma ripescate per via colta, es

OCULARE/ occhio ; veglia vigilia; teglia tegola

Cǐbum> cibo discum> disco/ desco

I cultismi in genere pronunciati aperti perché le vocali aperte sono le più numerose

45

Cf. Canepari, Introduzione alla fonetica cit., p. 42.

Page 19: Manuale di filologia romanza (Renzi-Andreose)

19

E. PRESTITI che possono essere fonte di irregolarità, es GIOIA <gaudium è un

francesismo

Tra i cambiamenti di maggiore rilievo che si sono realizzati sul piano fonetico andrà

ricordato il collasso del sistema quantitativo: il latino conosceva infatti la distinzione tra

vocali lunghe e brevi con valore distintivo: VĒNIT = egli venne; VĔNIT= egli viene.

La distinzione fra lunghe e brevi coinvolgeva anche le consonanti, ma mentre queste

erano rappresentate dalla grafia (per es. -Renzi, p. 193- immo= anzi e imus = il più basso)

le vocali normalmente non presentavano distinzioni ŌS= bocca ŎS= osso erano scritti

come OS. Naturalmente -anche se scarsamente percepibile- anche l'italiano presenta delle

distinzioni di lunghezza vocalica, ma sono dipendenti dalla posizione:

PANE (a: lunga e /n/ breve)

PANNE (/a/ breve e n: lunga).

Per altro da questo si capisce che in italiano la lunghezza consonantica è un tratto

distintivo, cosa che non avviene in nessun'altra lingua romanza.

Alla luce delle iscrizioni pompeiane è possibile affermare che già nel I sec. d. C. "il

sistema fonologico del latino volgare si era semplificato: l'opposizione fra vocali lunghe e

brevi non era più distintiva, ma era diventata predicibile in base al contesto sillabico. Si è

raggiunta (...) la complementarietà di vocale e consonante: se la consonante è lunga, la

vocale è breve e viceversa"(Renzi, p. 195). Cane è lunga, canne è breve.

"Si è raggiunta quella che si può chiamare la complementarità di vocale e consonante:

se la consonante è lunga, la vocale è breve e viceversa"

Secondo Roncaglia46

l’ipotesi più probabile per spiegare il collasso della quantità (che

rappresenta comunque una tendenza pan-indoeuropea) è supporre la concomitanza di un

processo interno: il prevalere dell'intensità espiratoria sull'accento melodico, e di cause

esterne: parlanti che non sono più in grado di distinguere le lunghe dalle brevi. In questo

senso si tratterebbe di un fenomeno che trova la sua spinta propulsiva dalla periferia del

mondo greco-romano. Come osserva S. Agostino: cur pietatis doctorem pigeat, imperitis loquentem, ‘ossum’ potius quam ‘os’ dicere, ne ista syllaba non ab

eo quod sunt ‘ossa’, sed ab eo quod sunt ‘ora’, intellegatur, ubi afrae aures de correptione vocalium vel

productione non iudicant? (De doctrina christiana IV , x, 24)

(Ma allora perché il maestro di pietà, parlando a gente inesperta, dovrebbe aver ritegno a dire ŏssum

piuttosto che os, per far capire che os va collegato con ossa e non con ora (bocca), dato che le orecchie degli

africani non percepiscono la lunghezza e la brevità delle vocali? ).

Come si vede la perdita della distinzione quantitativa costringe il sistema ad una

profonda riorganizzazione che solo in una parte della Romania (parte dell'Italia

meridionale e Sardegna, la cosiddetta zona Lausberg 1939) fornisce un esito semplificato

e defonologizzato, altrove le vocali lunghe cominciano ad essere pronunciate come chiuse

e quelle brevi come aperte, secondo un processo di riduzione che vede le 10 vocali

toniche latine passare alle 7 del latino volgare. Sul perché di questo passaggio è

possibile rispondere con Renzi p. 195 "Per loro natura, le vocali lunghe (e tese cioè

ottenute con un maggior sforzo muscolare) tendono ad innalzarsi e quindi a chiudersi, e

viceversa quelle brevi (e rilassate cioè ottenute con un minor sforzo) ad abbassarsi e

dunque ad essere aperte". Si pensi all'inglese sheep pecora e fish pesce.

Ī ĭ ē ĕ a ă ŏ ō ŭ ū

I E E A O O U

46

Cf. Au. Roncaglia, L’effondrement de la quantité phonologique latine, in «Romanobarbarica», 6 (1981-1982),

pp. 291-310.

Page 20: Manuale di filologia romanza (Renzi-Andreose)

20

Da questo schema si deve partire per spiegare poi i successivi cambiamenti sopravvenuti

nelle lingue romanze. Per esempio nel siciliano E viene a coincidere con I e O con U.

Esempi:

FĪLUM > it. filo; fr., pr. fil;

VĪNUM

VĪTAM> vita, sp. prov. vida, fr vie

AMĪCAM> amica, sp. prov amiga, fr amie

MĪLLEM> fr. mil

PILUM> it. pelo; fr. pr. Pel

SITEM

MINUS

CĒRUM> it. cero

RĒTEM

CANDĒLAM

VĒLAM> it sp. prov vela, fr. veile

DĔNTEM

FĔRRUM> it. ferro; fr. pr. fer

MĔDICUM

PĔTRAM

FŎCUM > it. foco (>fuoco) ; fr. feu; pr. foc (talvolta anche fuec)

SOLA> it sp. prov sola, fr. soule, seule

CŎRDAM

PŎRTUM

SŌLEM> it. sole

OCTOBREM

GŬLAM > it. pr. gola; fr. goule;

BŬCCAM

MŪRUM> it. muro; fr. pr. mur

LUCEM

Per comprendere le conseguenze provocate dal collasso della quantità, sarà necessario

preliminarmente ricordare le norme che regolano l’accento latino, che possono

riassumersi in tre punti fondamentali:

a. nelle parole bisillabe l’accento cade sulla prima, quindi non si hanno parole tronche:

cà-nem;

b. nelle parole di tre o più sillabe l’accento cade sulla penultima se questa è lunga:

monére, sulla terzultima se è breve: sàpere;

c. l’accento in una parola di tre o più sillabe non può cadere oltre la terzultima

qualunque sia la quantità: ad-hì-be-o.

Tuttavia l’accento è determinato non solo dalla quantità della vocale, ma anche dalla

posizione, per esempio: una vocale breve seguita da due o più consonanti era considerata

lunga per posizione, perciò se penultima portava l’accento.

Con la perdita della distinzione quantitativa queste regole non hanno più ragione di

esistere (infatti la legge della penultima è venuta a perdere il fondamento su cui poggiava)

Page 21: Manuale di filologia romanza (Renzi-Andreose)

21

e l'accento conserva -salvo eccezioni- la posizione che portava in latino assumendo un

valore pertinente e distintivo termini come

àncora< ancŏram e ancòra < hanc hōram si oppongono per la posizione dell'accento.

(vedi anche tràdito / tradìto)

"Con ciò l'accento cessa di essere accessorio (...) e si ha una fonologizzazione

dell'accento" (Renzi p. 194) cioè assume valore distintivo.

Tuttavia già al tempo di Augusto si erano verificate delle eccezioni:

1. Se una vocale breve precedeva una consonate occlusiva + r (muta cum liquida) non

era considerata lunga per posizione e dunque l’accento tendeva a ritrarsi: ÍNTĔGRUM>

intéro (íntegro è un cultismo).

Possiamo rappresentare le vocali del latino volgare anche secondo uno schema definito

triangolo vocalico nel quale vengono rappresentate agli estremi le vocali più alte: i e u

e al vertice la vocale centrale a:

anteriori o palatali posteriori o velari

i u

e o

e o

a

centrale

Una vocale si dice in sillaba libera o aperta quando è posta alla fine della sillaba stessa,

implicata o chiusa quando la sillaba termina per consonante: es: ca-ne/ cam-po.

MONOTTONGHI e DITTONGHI

La tendenza alla riduzione di oe> ē > e era già attiva nel latino classico e dunque

coinvolge le parole che ancora presentavano il dittongo:

es. POENA> it. sp. port. cat. prov.: pena ; fr. peine.

Molto precoce dovette essere anche la riduzione di ae >ĕ > ε es laetus> leto> lieto. se

vogliamo prestar fede al sarcasmo di Lucilio nei confronti di un pretore urbano del II sec. a.

C.: Caecilius, che proprio giocando sul doppio senso di urbanus (riferito a ‘pretore’ e

‘cittadino’) lo chiama Cecilius e non Caecilius e lo accusa di non essere un pretor urbanus

bensì rusticus!

Si trova inoltre documentato nei graffiti pompeiani (I sec. d.C.) sotto forma di

ipercorrettismo (=correzione erronea di una forma o pronuncia esatta, ritenuta scorretta

per apparente analogia con altre forme relativamente scorrette): AEGISSE = ‘avere fatto’ per

EGISSE; e dovette certamente precedere il grande fenomeno della palatalizzazione.

La monottongazione di au > ō -che solo alcune lingue romanze conoscono- doveva

essere una tendenza del latino ‘rustico’ come ci documentano i cosiddetti ‘allotropi’ (=

forme che provengono dalla medesima base etimologica, ma presentano esiti fonologici

diversi) : es. Claudius / Clōdius; caupo = oste / cōpa = ostessa

e si riflette in alcuni esiti romanzi quali CAUDAM> it. coda; pr. coa; fr. queue, FAUCEM

> foce ma dovette presto esaurirsi per fare posto ad una monottongazione di au> ŏ alla

quale partecipano solo alcune lingue romanze (per esempio non il prov, il port e il rumeno):

Questa monottongazione dovette realizzarsi in «età romanza abbastanza avanzata, certo

posteriore alla dittongazione di ò<ŏ dal momento che ò < au non ha seguito identica

sorte»47

.

47

Cf. Au Roncaglia, La lingua d’oïl, Roma, Edizioni dell’Ateneo, 1971, p. 87.

Page 22: Manuale di filologia romanza (Renzi-Andreose)

22

es. AURUM> oro; fr. cat or; port ouro; prov rom aur.

Più in generale si può osservare che le vocali toniche aperte sono state soggette al

cosiddetto dittongamento spontaneo, ma secondo criteri diversi da una lingua all’altra.

Così, per esempio in italiano dittongano solo le vocali aperte in sillaba libera

MĔLEM>miele;

in francese anche le vocali chiuse in sillaba aperta danno vita a dittonghi discendenti:

TĒLAM> teil> toil

in spagnolo anche le vocali aperte in sillaba implicata:

FĔRRUM> hierro

VOCALISMO ATONO

Diversamente dalle vocali toniche le atone si riducono a 5 vocali perché fuori

d’accento tutte le vocali sono chiuse.

Inoltre nel latino volgare si assiste spesso alla sincope della postonica (vale a dire della

vocale che segue la tonica) soprattutto in parole proparossitone (o sdrucciole, cioè

accentate sulla terzultima). I graffiti pompeiani recano masclus per masculus

(MASCULUS: it maschio; fr. masle>mâle; sp. port macho); subla per SUBǓLA (=

scalpello), ma già nel latino della Lex Agraria (111 a. C.) troviamo la tendenza alla

sincope in particolare fra una liquida e un’occlusiva o fra due nasali, es. domneis per

dominis e Quintiliano ci racconta che Augusto riteneva la pronuncia non sincopata calidus

(e non caldus) come una pedanteria. Già in Orazio troviamo soldus per solĬdus Solido era

il nome di una moneta d'oro emessa dagli antichi romani (it SOLDO; fr. SOL> sou; sp.

SUELDO; pg SOLDO)

Per altro queste forme sincopate sono già registrate nell'Appendix Probi AURIS non

ORICLA (orecchia; oreille, sp. Oreja; port. orelha

Tuttavia la sincope della vocale atona dovette realizzarsi in tempi diversi, come

suggerisce il triplice esito di FABŬLA> fola/ favola/ fiaba (con metatesi cioè alterazione

dell'ordine originario dei suoni: fabula>fabla>*flaba>fiaba) e il doppio esito di

TEGULA> tegola/teglia, e probabilmente dovettero convivere a lungo due diverse

tendenze.

Se allarghiamo lo sguardo all’insieme della Ròmania, vedremo che gli esiti della sincope

si presentano nelle diverse lingue romanze secondo modalità differenti: la forte tendenza

alla sincope dell’ area gallo-romanza si contrappone a quella meno estesa dell’area iberica

e quella assai scarsa dell’ italiano e del rumeno.

Mirabiliam> meraviglia, prov. Meravelha, fr. merveille

VOCALI IN IATO

"Nel latino volgare si assiste ad un processo di semplificazione della struttura sillabica

volto ad eliminare gli iati cioè l'incontro di due vocali contigue formati da i e brevi

+vocale": djurnum> di-ur-num> diur/ num. Infatti nello iato due suoni sono giustapposti

senza un elemento disgiuntivo (la consonante) con conseguente difficoltà articolatoria che

può essere risolta in vario modo. Così da forme come ho-di-e si è passati -già in età

imperiale ad una nuova ricomposizione e divisione sillabica: HO-DIE con l'evoluzione di Ĭ

a semivocale cioè un suono intermedio fra vocale e consonante palatale j (altrimenti detta

JOD), ter-tj-um> TER-TIUM.

La semiconsonante jod era pronunciata come /i/ (iole), ma già in epoca imperiale

tende a confondersi con dς e seguendo le sorti del nesso dj: es. IŎCUM> it. gioco; fr. jeu;

pg. jogo; sp. Juego, rom. joc e pg jogo. Fanno eccezione l'italiano centro meridionale e il

sardo nuorese dove la iod si conserva. Prove della consonantizzazione di jod si hanno, per

esempio, nelle iscrizioni, dove troviamo forme come zanuario per ianuario.Altri esempi:

Page 23: Manuale di filologia romanza (Renzi-Andreose)

23

IUNGERE> giungere

IAM> già

Si determina uno spostamento di accento dal momento che l'accento non può cadere su

una semivocale.

Parallela è la tendenza di ĕ a chiudersi in I, es vinea> viniam; lanceam> lancia, palĕam>

paliam > paglia. Nell'Appendix Probi molte sono le indicazioni in questo senso CAVEA

non CAVIA, CALCEUS non CALCIUS.

Ciò spiega perché nel latino imperiale si assista ad una serie di ricomposizioni, in

particolare:

a. nelle parole latine nelle quali la penultima usciva in ĕ o in ĭ ed era in iato

l’accento invece di cadere sulla terzultima come previsto dalle regole latine tendeva a

spostarsi perché la e e la i seguite da vocali atone sono semivocali:

FILÌOLUM> filiòlum> figliolo

MŬLÌEREM>mŭlièrem> mogliera.

b. Nelle parole latine nelle quali la penultima usciva in u ed essendo in iato si

trasformava in semivocale, l’accento tendeva invece a ritrarsi: es. BATTÙĔRE>bàttuere,

con successivo assorbimento della u in iato (incontro di due vocali che non formano

dittongo): > it. battere; fr. batre.

Il latino infatti non conosceva la consonante FRICATIVA LABIODENTALE SORDA

esempio da Dante Purg. XII, 25 ss

Dopo la velata profezia di Odoriso, Dante vede scolpito sul pavimento della prima

cornice, numerosi esempi di superbia punita. Dante come un perfetta enigmista scrive le

prime quattro terzine facendole iniziare con la lettera V, le secondo con la lettera O, le

terze con la lettera M, ad indicare l’acrostico VOM: l’ uomo e la sua superbia.

Nella grafia antica V e u minuscola indicavano sia la semivocale che la vocale. La

distinzione grafica si realizzerà solo nel 1500. E tuttavia già all'altezza del I sec d.C

abbiamo grafie che ci indicano un mutamento di suono, probabilmente vicino a quello di

una fricativa bilabiale sonora. Spagnolo saber.

Questo suono è poi passato ad una fricativa labiodentale V. Lavare> laβare > lavare, in

spagnolo questo suono se è intervocalico è fricativa bilabiale, se invece è è all'inizio di

parola passa a B anche se la grafia rimane V es VINUM> vino (pron BINO)

CONSONANTISMO

Passiamo ora alle consonanti, che organizzeremo in uno schema complessivo che dia conto da un

lato del luogo in cui un determinato suono viene articolato e dall'altro del modo

Occlusiva : une consonante è una consonante articolata bloccando completamente la fuoriuscita

dell’aria a livello della bocca, della faringe e della glottide, poi improvvisamente rilasciata

Fricative Il fono viene prodotto mediante un restringimento tra alcuni organi nella

cavità orale, che si avvicinano senza tuttavia chiudersi completamente come nelle

occlusive: l'aria continua a fuoriuscire, passando attraverso la stretta fessura formatasi

e provocando in tal modo un rumore di frizione. Si noti che una consonante fricativa,

per sua stessa natura, è una consonante continua, nel senso che può essere

prolungabile a piacere, a differenza per esempio delle consonanti occlusive.

Page 24: Manuale di filologia romanza (Renzi-Andreose)

24

Affricate Nella fonetica articolatoria, una consonante affricata (o più semplicemente affricata) è

una consonante, classificata secondo il suo modo di articolazione, prodotta in due fasi successive:

una fase occlusiva e una fase fricativa. Le consonanti affricate sono note anche con il nome (più

trasparente) di occlu-costrittive.

- L’aspirata H già al tempo di Cicerone era pronunciata soltanto nelle parole di origine greca,

dando vita ad una serie di ipercorrettismi, cioè di aspirazioni fuori luogo, come ci dice Nigidio

Figulo (I sec. a. C)48

( ‘rusticus fit sermo, si adspires perpĕram). La scomparsa dell’-h fra due

vocali dovette essersi realizzata già in epoca arcaica, infatti non impedisce la contrazione: es. ne

homo> ne hemo> nemo (non un uomo→ nessuno) e per Quintiliano la pronununcia deprendere

per deprehendere rappresenta una normale abbreviazione non diversa da vitasse per vitavisse. In

seguito dovette perdersi in posizione iniziale e a partire dal III secolo sono frequenti casi di

iscrizioni senza h o con h usata a sproposito: es abeo, hossa... Come scrive Agostino nelle

Confessioni(I, 18): ut qui illa sonorum vetera placita teneat aut doceat, si contra disciplinam grammaticam sine adspiratione primae

syllabae hominem dixerit, displiceat magis hominibus quam si contra tua praecepta hominem oderit, cum sit homo.

(= e chi ha studiato o insegna quelle antiche norme dei suoni, se, contrariamente alle regole della grammatica,

abbia pronunziato la parola homo senza l’aspirazione della prima sillaba, urta di più gli uomini che non odiando,

contro la tua legge, un uomo, uomo egli stesso).

Sarà la tradizione scolastica medievale che reintegrerà l’aspirazione dando vita a una pronuncia

quale miki invece di mihi che ha lasciato traccia in alcuni termini dotti quali annichilire,

nichilismo.

-Le velari C e K venivano pronunciate esattamente nello stesso modo, al punto che il k usato

preferibilmente prima di A, era già ritenuta da Quintiliano (I sec. d. C.) una consonante inutile.

Tuttavia a partire dal III sec. è documentato l’intacco della velare sebbene questa

palatalizzazione si realizzò in tempi diversi nei vari territori dell’Impero, così alla fine del IV

secolo San Girolamo -oriundo della Dalmazia e discepolo di Elio Donato- doveva conoscere il

suono velare di K di fronte a vocale palatale, visto che ritiene il k un doppione della –c, mentre la

paronomasia (=figura retorica che consiste nell’avvicinare parole di suono uguale o simile, ma

semanticamente differenti per suggerire un’affinità di senso) usata dal contemporaneo Ausonio

(nato a Burdigala, attuale Bordeaux) fra salo, solo, caelo sembra suggerire non solo un suono

palatale di –c, ma addirittura un’avvenuta assibilazione, come nel francese ciel (pronuncia siel).

Att

Dire meglio Dovette realizzarsi in più ondate successive, di cui la più antica - attestata dal II

sec. d. C.- si realizza di fronte a iod proveniente da vocale palatale in iato, ed è fenomeno

panromanzo: es. conscientia> consientia come si ritrova nelle iscrizioni e si ricava dai

grammatici del IV secolo: «iustitia cum scribitur, tertia syllaba sic sonat, quasi constet ex tribus

litteris t, z et i» (Papirio, ap. Keil, Gramm. Lat. VII, 216). Anche Servio ci documenta il

fenomeno: «Media: di sine sibilo proferenda est : Graecum enim nomen est, et Media provincia

est » (In Verg, Georg., II, 126 Thilo).

Qualche esempio:

Dopo il III sec. l’intacco palatale delle consonanti occlusive dentali e velari di fronte a vocali

palatali dovette diffondersi in gran parte della Romània (ad eccezione della Romània orientale) e

si ritroverà in tutte le parlate romanze (anche se non con i medesimi risultati, si pensi all’italiano

cielo dove il suono corrisponde ad un’affricata palatale sorda e al franc. ciel dove il medesimo

grafema corrisponde ad una fricativa palatale sorda = siel) fatta eccezione per il sardo e il

dalmatico che conoscono la palatalizzazione solo davanti ad i.

48

Cf. Aulo Gellio, XIII, 6, 3.

Page 25: Manuale di filologia romanza (Renzi-Andreose)

25

In particolare le consonanti che presentano modificazioni importanti sia in inizio di parola sia

all'interno sono le occlusive velari che davanti a vocale palatale si trasformano in affricate:

es. Kervum> cervo fr cerf pronuncia zerf serf

civitatem> città sité

gelum> gelo

gallum> gallo fr jal (pronuncia fino al XIII sec gial poi jal)

"In questo caso possiamo parlare dell'acquisizione di una nuova opposizione distintiva detta

FONOLOGIZZAZIONE. Per es. (p. 155) in italiano come in quasi tutte le varietà romanze a

differenza del sardo e del dalmatico si assiste alla palatalizzazione di K G davanti a vocale

palatale, forse con fase intermedia di occlusiva prepalatale ancora presente in friulano.

Assai meno estesi sono i territori coinvolti nella palatalizzazione delle velari davanti ad a,

limitata a talune zone alpine e a gran parte del dominio gallo-romanzo eccezion fatta per una

parte a nord (Normandia e Piccardia) e una a sud (Guascogna, Guyenne, Languedoc, Bassa

Provenza). Es.

GAUDIUM

CAVALLUM

CAPUT

Per la labiovelare -qu la tendenza già in epoca classica all’eliminazione dell’appendice labiale

davanti alla vocale u è chiaramente documentata da un luogo di Velio Longo: «Si fa questione

se equus si debba scrivere con una u o con due (…) all’orecchio bastava che si scrivesse con

una sola u, ma l’analogia ne richiede due». E anche nell’Appendix Probi si raccomanda: “equus

non ecus”.

Ma più in generale le grafie delle iscrizioni documentano largamente la tendenza alla caduta di

u di fronte a vocali diverse da a: conda invece di quondam; cis per quis; e ipercorrettismi quali

quiesquit per quiescit.

Esempi: quid> che/ que

Laqueus> laccio

quaerere

Quadrum> quadro/ carré

Qualem> quale, ma il rumeno care postula una base analogica *calem

Parallelamente si assiste alla palatalizzazione e alla spirantizzazione di dj e tj .

Durante il II e III secolo la semivocale jod venne ad intaccare l’occlusiva dentale t che

assunse il medesimo valore di cj e pronunciata come una fricativa sorda /ts/. Da qui la

pronuncia ecclesiastica e postclassica di tj come fricativa dentale sorda /ts/ es. PLATĔA>

piazza, fr. place; sp. haz, port. face; rom. faţă; e di /dj/ in /dz/ , evoluzione identica a

quella di /j/: es. hodie> oggi.

diurnum> giorno

V equivaleva alla semivocale u, poiché era espressa da un medesimo segno. E la grafia

manterrà a lungo questo doppio valore, si pensi a UOM dantesco

LENIZIONE INTERVOCALICA

In posizione intervocalica, le consonanti possono essere soggette ad un processo di

lenizione: le consonanti doppie tendono a scempiarsi e le consonanti semplici

intervocaliche ad indebolirsi di uno o più gradi a seconda delle varie lingue. Lenizione

significa 'ammorbidimento' o 'indebolimento' (dal lat lenis, come nella radice di 'lenire'), e

si riferisce al cambio da una consonante considerata dura ad una considerata morbida

(fortis → lenis). Il criterio per decidere se una consonante è di un tipo o dell'altro è

Page 26: Manuale di filologia romanza (Renzi-Andreose)

26

variabile, ma in generale, la scala è la seguente: consonanti sorde (/p t k/) → consonanti

sonore (/b d g/) →fricative sonore (/v D G/).

La lenizione diacronica si trova, ad esempio, nel passaggio dal latino allo spagnolo, dove le

consonanti intervocaliche sorde a metà parola (/p t k/) vengono cambiate nelle loro controparti

sonore (vita → vida, caput → cabo, caecus → ciego).

v

Si tratta di un fenomeno in cui il francese spinge molto più avanti l’innovazione (da

sorde a sonore, da occlusive a fricative, giungendo talvolta fino al dileguo), mentre

l’italiano, per esempio, si presenta più conservativo.

Fata

Vita

caballus

esempio, i dialetti gallo-italici attestano una sistematica lenizione, o sonorizzazione,

delle consonanti sorde in posizione intervocalica, mentre l'italiano standard, derivato dal

toscano (specialmente fiorentino) che territorialmente si trova al di sotto dell'isoglossa La

Spezia-Rimini, non presenta che eccezionalmente il fenomeno (la parola luogo, da lat.

locus, è uno dei pochi esempi). La stessa assenza è riscontrata nei dialetti italiani

meridionali. Ebbene, la lenizione intervocalica è un fenomeno riscontrabile in tutte le

lingue attuali che hanno come sostrato una lingua celtica, cioè in tutta la cosiddetta

Romania (pron. Romània) occidentale, che comprende, per indicare soltanto le lingue

maggiori, lo spagnolo, il portoghese, il francese e, appunto, i dialetti gallo-italici del nord-

Italia. Molti studiosi attribuiscono pertanto la lenizione dei dialetti gallo-italici proprio al

sostrato gallico.

Certamente antica -e documentata già dal I sec. d. C. attraverso le frequenti confusioni

fra b e v/ nelle iscrizioni- la spirantizzazione dell’occlusiva labiale sonora b che, in

posizione intervocalica, veniva ad assumere un valore simile a quello della fricativa

bilabiale /β/.

L’evoluzione ulteriore a fricativa labiodentale v si realizza in gran parte delle lingue

romanze:

es. CABALLUM> fr. cheval ; it. cavallo; pg. cavalo. In rumeno giunge al dileguo: cal

mentre in spagnolo e catalano mantiene il valore della fricativa bilabiale /β/: sp. caballo.

I casi di mantenimento di di b sono cultismi NOBILEM o forme tarde ROBERTUM

Qualche esempio da Varvaro:

-PP- cuppam> coppa/ fr. coupe/ sp. Copa

-ripa/ rive/ribe

sapere/saveir /sabere

cavallo/ cheval/ caballo, pg. cavalo, rom. cal

vaccam/ vache/ vaca

vitam/vie/vida

LACUM

AMICUM

STRATAM

CONSONANTI CHE SI TROVANO IN FINALE ASSOLUTA.

Page 27: Manuale di filologia romanza (Renzi-Andreose)

27

La sparizione di m finale è documentata fin dall’epoca più arcaica, come si evince dalle

iscrizioni e dalla metrica latina dove è elisa dinanzi a vocale. Inoltre concordemente i grammatici:

Quintiliano, Velio Longo, Pisciano, ci informano sul fenomeno di m caduca49

. "La m serviva ad

indicare con la vocale precedente gran parte degli accusativi singolari: fabulam ed alcune

terminazioni verbali della I pers sing. Audiam futuro del vb audire."

Anche per -s è possibile documentare -fin dall’epoca arcaica- una tendenza all’instabilità (alla

quale seguirà in epoca classica una reazione), per esempio l’esametro di Ennio (Ann. 377):

Nos sumŭs Romani qui fūimus ante Rudini per rispettare la scansione metrica prevede che non

si tenga conto della s di sumŭs50

.

Le iscrizioni, inoltre, ci documentano una debolezza della s al nominativo singolare

(amicus). Questa s -che dunque svolgeva una importante funzione di marcare il soggetto-

scomparirà completamente in Italiano e Rumeno per sopravvivere invece, più a lungo,

nella Romània occidentale, vale a dire nelle lingue gallo-romanze e in quelle iberiche

(portoghese, catalano, sardo).

_____________________________

2. Morfologia

0. Premessa:

La morfolgia è quella parte della grammatica che studia il modo in cui i morfi cioè

elementi dotati di significato si combinano fra di loro per formare i lessemi e le parole

della lingua. Il morfo è dunque l'unità minima di espressione della parola:

es. PAROL → morfo lessicale (significato principale della parola) A → morfo che

contiene il valore grammaticale quindi il singolare e il femminile.

Il latino era una lingua sintetica nel senso che gran parte delle funzioni sintattiche erano

indicate attraverso i casi (che servivano ad esprimere anche il numero singolare o plurale-

ed il genere: maschile, femminile o neutro) e le desinenze (cioè quei morfemi variabili

che aggiunti al tema di un verbo o di un nome servono a modificare le varie forme del

nome o del verbo), mentre le lingue romanze tendono a forme e costruzioni analitiche, sia

sul piano nominale che verbale.

Alla base del processo di cambiamento morfologico (v. Renzi , pp. 150 ss) vi sono tre

processi: 1. Analogia 2. Rianalisi 3. Grammaticalizzazione. L'analogia tende a sopprimere

gli allomorfi cioè diverse realizzazioni del medesimo morfemo in presenza, ad esempio,

di fm rizotoniche e rizoatone (es siede, sediamo)> nego / neghiamo

Grammaticalizzazione per esempio il suffisso mente per la formazione degli avverbi .

Mens mentis all'ablativo con valore di 'atteggiamento', 'stato d'animo', e con aggettivo ad

esso accordato. Viene reinterpretato come morfema grammaticale.

1. NOMI

Il latino, essendo una lingua sintetica esprimeva le sue funzioni sintattiche dai CASI

attraverso i quali si indicavano a. funzione b. numero c. genere e le DESINENZE utili a

modificare le forme del nome e del verbo.

Il sistema della flessione nominale latino è stato sottoposto nel tempo a importanti

modificazioni dovute -almeno in parte- alla perdità della quantità e alla caduta delle

consonanti finali, che possono essere così sintetizzate:

a. Riduzione delle declinazioni da 5 a 3 : infatti la IV (che -come la V-conteneva meno

parole) viene assimilata alla II (es. fructŭs, manŭs ecc…il cui genitivo non è più fructus,

49

Cf. M. Niedermann, Précis de phonétique historique du latin, Paris 1906, trad. it. Elementi di fonetica storica

del latino, Bergamo 1948, pp. 101-102. 50

Cf. A. Traina - G. Bernardi Perini, Propedeutica al latino universitario, Bologna, Patron 1982 (3 ed), pp. 105-

106.

Page 28: Manuale di filologia romanza (Renzi-Andreose)

28

ma fructi ) e la V alla I ( es. facies diventa facia)51

. Si giunge così a tre tipi: un femminile

in A: tipo rosa; un maschile in O: tipo muro; una classe maschile e femminile in E: botte,

cane…

b. Nella categoria del genere vale a dire (masch., femm., neutro) il cambiamento più

significativo è rappresentato dalla graduale scomparsa del neutro (salvo in rumeno)

assorbito dal maschile: es. caelum diventa caelus (nel neutro infatti nominativo e

accusativo singolare uscivano infatti in um, con la perdita delle consonanti finali, la

confusione con il maschile era quasi inevitabile) o dal femminile: infatti la desinenza in -a

del neutro plurale, tipo folia induce a reinterpretare questi termini come singolari

collettivi.52

c. riduzione dei casi della flessione desinenziale da 6 a 2 (nominativo e accusativo),

con conseguente sviluppo di un ricco sistema di preposizioni per indicare gli altri casi. In

particolare grande spazio conquistano costrutti con il de per indicare il genitivo e con ad

per indicare il dativo, che in latino venivano adoperati per indicare rispettivamente il

complemento di materia (de + ablativo): es. pocula de auro = coppa d’oro e il

complemento di moto a luogo (ad + accusativo, ad indicare un moto di avvicinamento).

Le preposizioni, cioè quelle parti invariabili del discorso che fungono da raccordo fra i

diversi elementi della proposizione o due diverse proposizioni, non possono essere

considerate un’innovazione del latino volgare. Alcune infatti erano usate nel latino

classico, in particolare per indicare le azioni di movimento: ad, de, cum, contra. in, supra.

Alcune prevedevano sia l'accus. che l'abl. come per es. IN, SUB, SUPER

Tuttavia secondo Renzi, p. 188 erano assenti nell'indoeuropeo… Altre sono delle

neoformazioni, così ad+abante> avanti; de + intro> dentro ecc..

Renzi richiama l’attenzione sulla possibile concomitanza di due fattori: la tendenza alla

caduta delle consonanti finali e il fatto che la presenza di alcune preposizioni latine che

servivano ad indicare precise funzioni (es. cum + ablativo = complemento di compagnia, o

in+ accusativo= compl. di moto a luogo) rendevano ridondante e perciò inutile l’uso dei

51

La IV e la V declinazione erano infatti quelle meno rappresentate. Lo slittamento dalla IV alla II si spiega

facilmente, basti considerare l’identità dei sostantivi della II e della IV al nominativo e all’accusativo: murus/

fructus e murum/fructum. A facilitare l’assorbimento della V nella I avrà certo contribuito il fatto che i nomi della

V sono tutti femminili (tranne il sostantivo DIES = giorno, che è maschile salvo quando indica: un giorno fissato;

la data di una lettera; il valore generico di tempo).

52 Alcune lingue hanno un solo genere e trattano tutti i sostantivi nella stessa maniera da un punto di vista

grammaticale. La maggior parte delle lingue indoeuropee ha da uno a tre generi, tradizionalmente chiamati generi

grammaticali piuttosto che classi nominali, ma la maggior parte delle lingue BANTU (africane) ne ha da dieci a

venti.. Il sistema delle classi nominali è sempre accompagnato da apposito gruppo di suffissi o prefissi che

modificano determinate parole mostrando contemporaneamente il genere del nome alle quali si riferiscono.

Criteri comuni per distinguere i generi nominali includono:

animato e inanimato

razionale e non razionale

umano e non umano

maschile e altro

umano maschile e altro

maschile e femminile

maschile, femminile e neutro

forte e debole

aumentativo e diminutivo

Page 29: Manuale di filologia romanza (Renzi-Andreose)

29

casi. L’affiorare già nei graffiti pompeiani di taluni errori conferma non solo come la

garanzia dell’espressione del complemento fosse affidata alla preposizione più che al

morfema casuale, ma anche una chiara tendenza ad estendere l’uso dell’accusativo per

l’espressione di qualsiasi caso obliquo (cioè diverso dal soggetto che compie l’azione).

Non si può escludere -almeno per alcune lingue romanze- un passaggio intermedio

attraverso una declinazione tricasuale (cioè nominativo, dativo, accusativo) come

parrebbero suggerire i cosiddetti pronomi personali clitici (cioè formati da monosillabi

atoni preposti o posposti ad un’altra parola):

NOMINATIVO: it. egli / fr. il : egli mangia; il mange

DATIVO: it. gli/ fr. lui gli parlo; lui parle

ACCUSATIVO: it. lo / fr. le lo guardo; je le regarde

Tuttavia non ne abbiamo alcuna documentazione, mentre è evidentissimo il punto

d’arrivo: la totale scomparsa dei casi.

Per la gran parte -inoltre- le parole romanze derivano dall’accusativo, anche se non

mancano rari casi di nomi derivati dal nominativo, o doppi esiti che nel tempo possono

aver assunto significati non del tutto coincidenti. Per esempio l’imparisillabo della III

sérpens – serpéntis recava all’accusativo serpéntem, da cui abbiamo un doppio esito

SERPENS > serpe SERPENTEM> serpente

1. b. La formazione del plurale

L’alternanza di numero (cioè la differenza fra singolare e plurale) è rappresentata in due

modi diversi nelle lingue romanze: 1. La Romània occidentale (lingue ibero romanze,

gallo romanze, retoromanze e sarde) con il plurale sigmatico: -s. La -s deriva

dall’accusativo plurale latino:

es. murus-i : acc. pl. muros > murs ; rosa-ae : acc. pl rosas > fr. roses; cat. sp. rosas

2. La Romània orientale (dalmatico, rumeno, italiano) con il plurale vocalico – cioè con

alternanza vocalica o/i; a/e.

Per spiegare la formazione di questo secondo plurale possono avanzarsi due ipotesi

diverse:

a. i morfemi –e –i deriverebbero rispettivamente dal nominativo della I declinazione: es.

rosae> it. rose; rum. e dalla II declinazione MURI> muri e il morfema in -i si sarebbe

esteso per analogia ai nomi della III: VULPES> volpi.

b. Oppure anche per la Romània orientale il punto di partenza sarebbe l’accusativo:

es. rosas che attraverso una vocalizzazione della -s (come quella che avviene in POST>

poi) diventerebbe rosai>rosae. Analogamente per il maschile partiremmo dall’accusativo

plurale dei nomi della III in es> is >i.

2. Aggettivi

Per gli aggettivi (l’aggettivo è quella parte variabile nel genere e nel numero che

‘aggiunge’ una parte del discorso) sopravvivono solo due classi: il tipo bonus e il tipo

fortis, con una spiccata tendenza però ad impoverire la seconda a vantaggio della prima.

2.1. comparativi- superlativi

Un’altra caratteristica del latino volgare è la scomparsa del comparativo organico che

lascia poche tracce in aggettivi di grande frequenza (es. it. migliore, peggiore) ed un

numero più alto di comparativi in ior in franc. antico, cf. bellezour<*BELLATIOREM, o

graigno(u)r <GRANDIOREM), mentre si fa sempre più strada nel latino comune il

comparativo formato per mezzo degli avverbi magis, plus. Già Ennio (fine del III sec. a.

C.) usava plus miser e negli scrittori cristiani sono numerose le forme plus onerosus ecc. Il

Page 30: Manuale di filologia romanza (Renzi-Andreose)

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territorio della Romania presenta magis nelle aree laterali (Spagna, Portogallo, Romanìa) e

plus nelle centrali (Italia, Rezia, Gallia).

3. Articolo

Ignoto al latino classico l'articolo ha la funzione di attualizzare il nome ed è uno degli

aspetti più importanti di quella tendenza analitica che caratterizza le lingue romanze

rispetto al latino. "Il greco ha sviluppato l'articolo definito relativamente presto, ma

comunque dopo Omero e quello indefinito nel periodo medievale (...)" p. 191 Nel caso

delle lingue romanze dobbiamo immaginare un cambiamento avvenuto per gradi.

I due articoli determinativo e indeterminativo servono a precisare:

a. quello determinativo la classe di individui nel loro complesso (es. il bambino non si

può picchiare) e quello indeterminativo un rappresentante della classe (es. in quel giardino

c’è un bambino).

b. Inoltre si usa l’articolo determinativo quando ci si riferisce a qualcosa di noto a chi

parla o a chi ascolta (es. voglio aggiustare la televisione), o di contro, quello

indeterminativo quando si introduce un elemento non conosciuto (es. voglio comprarmi

una televisione).

Nel latino volgare si assiste ad un fenomeno di indebolimento del pronome dimostrativo

ille e ipse all'articolo determinativo assente in latino, (il sardo e in parte il catalano ed il

guascone lo sviluppano da ipse). La nascita dell'articolo dai pronomi dimostrativi si può

seguire abbastanza bene nei testi basso latini, per esempio nella Peregrinatio Aeteriae ad

loca sancta (IV sec)53

, dove serve ad indicare un elemento noto:

Per valle illa, quam dixi ingens =per quella valle che dissi grande

La funzione di indicare la classe probabilmente rappresenta un’evoluzione successiva

che può dirsi compiuta intorno al IX secolo. Per rimediare allo squilibrio del sistema

verranno inseriti pronomi dimostrativi rafforzati dal deittico ecce: ECCE HOC> pr . so; it.

ciò ; ECCE +ISTE >fr. iceste; ATQUE+ ICESTE+HIC> pr. Aquest.

Nelle lingue romanze si assiste anche allo sviluppo di un articolo indeterminativo dal

numerale unus54

. Sostanzialmente unus prende il posto di quidam che viene considerato un

aggettivo indefinito

In tutte le varietà romanze esso precede il nome, tranne in romeno dove segue come

enclitico lupul

Probabilmente anche lo sforzo di tradurre testi greci (durante i primi anni del

Cristianesimo) nei quali l'articolo era presente, dovette spingere alla formazione

dell'articolo nel latino volgare.

4. VERBO

Ci sono sei tempi (latino: tempora) nella lingua Latina. Sono:

Presente, (Latino: praesens) che indica azioni che stanno avvenendo nel momento in

cui si parla: Lo schiavo porta la brocca di vino.

53

Si tratta del resoconto del pellegrinaggio in Terrasanta compiuto - alla fine del IV sec. d. C.- da una monaca,

Egeria, probabilmente originaria della Galizia, chiamato Itinerarium (o Peregrinatio) Egeriae ad loca sancta. Il

testo è tradito da un codice dell’XI sec. proveniente da Montecassino, ma attualmente conservato alla Biblioteca

Comunale di Arezzo (n. 405). 54

Che sostituisce presto quidam a norma di grammatica un aggettivo indefinito con il valore di “un solo”.

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31

Imperfetto, (Latino: imperfectum): descrive le azioni che stavano accendendo per un

periodo di tempo: La folla stava incoraggiando i gladiatori.

Futuro semplice, (Latino: futurum simplex) usato per azioni che non sono ancora

iniziate, ma che lo saranno in un certo momento: Egli scriverà la lettera domani.

Perfetto, (Latino: perfectum) descrive azioni del passato che sono concluse: Egli

insegnò al ragazzo.

Piuccheperfetto, (Latino: plusquamperfectum) descrive azioni più in là nel passato: Egli

ebbe insegnato al ragazzo.

Futuro anteriore, (Latino: futurum exactum) usato per azioni che saranno completate in

un certo momento nel futuro: Per domani, egli avrà inviato la lettera.

Ci sono tre modi grammaticali (Latino: modi):

Indicativo, (Latino: indicativus) che afferma fatti indiscutibili: Lo schiavo sta portando

le botti di vino

Congiuntivo, (Latino: coniunctivus) usato per esprimere possibilità, necessità,

intenzioni: È necessario che il centurione sconfigga i barbari.

Imperativo, (Latino: imperativus) usato per fare ordini: "Tu, schiavo, porta le botti di

vino!".

Ci sono cinque forme verbali nominali, dette anche modi verbali indefiniti:

Infinito

Gerundio

Participio

Supino (questi tre sono nomi verbali)

Gerundivo (questi due sono aggettivi verbali).

Ci sono due diatesi (Latino: genus):

Attiva, (Latino: activum) in cui il soggetto compie l'azione: lo schiavo porta le botti

Passiva, (Latino: passivum) in cui il soggetto subisce l'azione: la botte è portata dallo

schiavo.

Andrà in generale considerato che l'analogia è "la prima responsabile delle eccezioni

alle leggi fonetiche. Gli elementi morfologici all'interno dello stesso paradigma tendono

infatti ad influenzarsi reciprocamente. In particolare l'analogia opera attraverso due

processi: il quarto proporzionale e il livellamento. Per es amabam>amavA passa ad O per

livellamento sul tema del presente amo.

Le sostanziali modificazioni subite dal sistema verbale possono sintetizzarsi in alcune

tendenze di massima: la spinta alla regolarizzazione con la eliminazione di ciò che non

rientra immediatamente in una norma riconoscibile ed applicabile e la spinta a sostituire

forme complesse con perifrasi composte attraverso l’accostamento di più forme semplici.

Nel primo gruppo possiamo collocare:

1. Tutti i verbi deponenti (forma verbale passiva, ma con significato attivo, si tratta di

verbi che esprimevano azioni che operavano sul soggetto stesso o : "i grammatici li hanno

chiamati verbi deponenti, pensando erroneamente che avessero "deposto", quindi perduto,

la forma attiva, conservandone però il significato" wikipedia.) vengono assorbiti nella

forma attiva (es. nasci, mori sostituito da nascere, morire):

Hortor io esorto

Page 32: Manuale di filologia romanza (Renzi-Andreose)

32

Sequor io seguo

Vereor io temo

Largior io dono

Esistevano anche VERBI SEMIDEPONENTI

I verbi semideponenti hanno forma attiva nel presente e derivati, ma forma passiva con

significato attivo nel perfetto e derivati:

- audeo, -es, ausus sum, audēre osare

- gaudeo, -es, gavisus sum, gaudēre godere

2. Gran parte dei verbi irregolari vengono regolarizzati: in particolare verbi di larga

frequenza come esse, posse, velle. Il primo diventa *essere, pur conservando il presente

atematico, gli altri saranno rifatti partendo dal perfetto (potui; volui), sul modello habui :

habere = potui : x, onde x = potére.

Qui agisce il principio del IV proporzionale p. 151 che "si fonda sulla tendenza di una

lingua ad assegnare forme uguali a significati uguali" nel caso particolare ai due infiniti

Nel secondo gruppo rientrano:

1. Il passivo organico 1° Coniugazione 2° Coniugazione 3° Coniugazione 4° Coniugazione

am-or mon-ĕor leg-or aud-ĭor

scompare e viene sostituito da perifrasi con l’infinito presente seguito dall’ausiliare

essere (amor →amatus sum)

.Tanto più che il latino conosceva sia forme sintetiche che analitiche (amatus sum= sono

stato amato, che con la perdita delle fm sintetiche diverrà sono amato)

2. Il futuro semplice organico 1° Coniugazione 2° Coniugazione 3° Coniugazione 4° Coniugazione

am-ābo mon-ēbo leg-am aud-ĭam

scompare e viene sostituito da perifrasi con l’infinito presente seguito dal presente

dell’ausiliare avere (amabo → amare habeo), perifrasi già esistente in latino classico del

tipo scribere habeo (cf. partir m’ai al verso 24) che però aveva in sé un’idea di necessità,

idea che si perde a favore di una più generica nozione temporale proiettata nel futuro. Il

rumeno realizza il futuro aiutandosi con il verbo volere: voiu cânta. Varie sono le ragioni

che possono avere contribuito a questo disfacimento, intanto le forme del futuro si

prentavano estremamente disomogenee per cui si incontrava es. amabo accanto a timebo,

dicam, audiam. Inoltre la tendenza alla spirantizzazione di B>V crea confusioni ulteriori

con l'imperfetto.

Scompaiono in quasi tutta la Ròmania i seguenti tempi:

1. futuro anteriore (amavero= io avrò amato);

2. perfetto congiuntivo (amaverim=che io abbia amato);

3. imperfetto congiuntivo (amarem=che io amassi) sostituito dal piucheperfetto

(amavissem= ‘che io avessi amato’);

4. supino (amatum= a amare);

5. infinito perfetto (amavisse, sostituito da habere amatum, avere amato);

6. participio futuro (amaturus= che amerà);

7. imperativo futuro (amato= amerai).

Si crea invece una nuova serie perifrastica di tempi del passato formata dal participio

passato seguito dalle forme dell’ausiliare avere (habeo amatum, habebam amatum, habui

amatum ...).

Page 33: Manuale di filologia romanza (Renzi-Andreose)

33

Renzi p. 150: Riporta sotto la denominazione di "cambiamento sintattico" il passaggio

secondo il quale il verbo habere dal valore dio "possedere" passa a svolgere un ruolo di

verbo ausiliare. Punto di partenza dovrà essere una perifrasi del tipo habeo epistulam

scriptam in cui il vb è seguito da 2 complementi di cui il secondo è un predicativo

dell'oggetto e dunque si comporta come un aggettivo e non vi è relazione tra habeo e

scriptam (il sogg può essere diverso). In questo caso il cambiamento si realizza in forza di

uno svuotamento semantico del vb habeo, dunque il perno della predicazione si sposta sul

participio e epistulam diviene l'oggetto di scriptam.

Appare inoltre un nuovo modo del verbo: il condizionale sconosciuto al latino dove

invece l’espressione del dubbio o dell’ipotesi veniva rappresentato tramite il modo

congiuntivo. Il condizionale viene formato mediante perifrasi formate dall’infinito del

verbo + le forme del perfetto o dell’imperfetto dell’ausiliare avere (amare habebam,

amare habui):

cantare habet > cantar ha > canterà (futuro)

cantare habuit > cantar ebbe > canterebbe (condizionale)

È utile ricordare che in francese e spagnolo e in diversi dialetti italiani, il condizionale si è

originato in maniera diversa, risultando dalla combinazione tra l'infinito e le forme

all'IMPERFETTO del verbo avere. In questi idiomi si avranno così delle forme del tipo

partiria (o partirait) al posto di partirebbe. Quest'ultima è comunque la forma - di origine

toscana - in uso nell'italiano moderno, dato che ha soppiantato quella del tipo partiria.

Tutto ciò non ha impedito il successo secolare di forme del tipo avria oppure dovria al posto di

avrebbe e dovrebbe.

Le due parti che costituiscono il condizionale erano ancora distinti in spagnolo e portoghese

antico (e ancora port moderno) VENDE^ LOS-IAMOS

Altri spostamenti interni alle coniugazioni sono i seguenti:

1. Fusione tra II e III coniugazione salvo che all’infinito (per es. in italiano

distinguiamo fra tenére parossitono e crédere proparossitono) dove pure si erano verificati

numerosi scambi (metaplasmi): es. sàpere, càdere dalla III alla II, o viceversa dalla II alla

III ridére, respondére

2. I verbi in -io della III vengono attratti nella IV coniugazione (es fùgere> fuggire)

o in -eo della II (es. floreo, da florére a florire).

3. La sintassi Sarà innanzi tutto opportuno ricordare che le tre parti in cui si divide la grammatica

difficilmente possono essere separate, perché mutamenti fonetici, morfologici e sintattici

si condizionano e si implicano necessariamente.

Il latino aveva una costruzione sostanzialmente libera per ciò che concerne la

disposizione del soggetto e dell’oggetto: es. Petrus ama Paulum, anche se con una più

accentuata tendenza a collocare il verbo in posizione finale, preceduto dal complemento

oggetto. Finché le desinenze casuali si mantennero salde e almeno fino a quando almeno

la -s segnacaso del nominativo non scomparve, confusioni erano difficili. Ma quando55

nella parte orientale della Romània (compresa l’Italia) la -s cessò di essere pronunciata,

divenne obbligatorio mantenere un ordine fisso, che nelle lingue romanze è di solito:

55

La –s finale aveva già in età Repubblicana subito un notevole indebolimento, ma era stata ripristinata dai

grammatici, cfr. Wartburg, Ausgliederung der romanischen Sprachräume, Bern 1950, pp. 20-31 (tr. it. La

frammentazione linguistica della Romania, con introd. di A. Varvaro, Roma 1980).

Page 34: Manuale di filologia romanza (Renzi-Andreose)

34

soggetto + verbo + complemento oggetto, anche se sono ammesse altre soluzioni,

salvo in francese dove il rispetto dell’ordine SVO è -prescindendo da casi particolari-

obbligatorio56

.

In questa direzione si osservi che tutte le lingue romanze possiedono caratteristiche

tipologiche diverse dal latino ma simili fra di loro, non solo in questa tendenza/necessità a

porre il verbo alla fine, ma più in generale nella tendenza ad invertire l'ordine latino

MODIFICATORE-MODIFICATO a favore dell'ordine MODIFICATO

MODIFICATORE. Questo appare in una serie di esempi a cominciare dai nomi composti:

vexilli/fer =porta bandiera (anche eccezioni v. Terrae-motus) ,o aggettivo+ sostantivo

come pinguis puer= bambino grasso arte astringere= legare strettamente ecc

Inoltre la tendenza ad una struttura del periodo più lineare, conduce al sopravvento della

paratassi (cioè una sequenza di frasi fra loro coordinate) sull’ipotassi preferita dal latino

(uso delle proposizioni subordinate).

4. Il lessico del latino volgare

Come è noto, il lessico è il luogo maggiormente soggetto a influssi esterni, ma anche a

trasformazioni legate al mutare dell’ideologia, della mentalità, del costume. Scrive von

Wartburg57

: Chi si è proposto la meta di esplorare il vocabolario di un popolo, deve studiare anche tutta la sua vita, i

suoi metodi di lavoro, i suoi attrezzi, le sue concezioni etiche e religiose, i suoi usi e costumi, il suo

abbigliamento con i relativi cambiamenti di moda».

È possibile distinguere all’interno del patrimonio lessicale di una lingua tre diverse

sezioni:

1. Forme ereditarie cioè le parole ereditate per tradizione ininterrotta, alle quali

andranno aggiunte le derivazioni e composizioni.

2. Le forme dotte cioè riattinte direttamente dal latino attraverso una filiera dotta. Il

latino continuerà, infatti, a rappresentare nel tempo un serbatoio sempre attivo: davvero

«quell'altro Vocabolario dal quale tutti gli scrittori classici italiani, prosatori e poeti ..., dal

padre Dante fino agli stessi compilatori del Vocabolario della Crusca, incessantemente e

liberamente derivarono tutto quello che parve loro convenevole»58

.Di solito è l’aspetto

fonetico che rivela il latinismo, come mostrano i seguenti casi: VĬTIUM> vezzo (fm.

ereditaria) / vizio (fm. dotta); DĬSCUM> desco (fm. ereditaria) / disco (fm. dotta), ma

un’utile spia può venire dall’aspetto morfologico, come nel caso dei derivati dal

nominativo, es. carme, certame, imago ecc... o comparativi organici come priore, seriore,

ulteriore.

3. I prestiti. Si parla di prestiti quando una lingua trae un vocabolo da un’altra per

ragioni non sempre facili da rintracciare (talvolta la parola indigena si perde perché aveva

perso il suo carattere espressivo o perché sono sopravvenute ragioni di ordine sociale). I

prestiti possono essere assimilati o meno al sistema linguistico proprio di una determinata

lingua: per es. per la lingua italiana si pensi a guerra, guanto contro computer, tram.

Presenza precoce di germanismi guerra, wardor, wartjan

Naturalmente la maggior parte del lessico delle lingue romanze deriva dal latino, pur

attraverso un certo numero di innovazioni che soprattutto quando vanno ad investire la

sfera semantica rappresentano «indizi interessanti sulle condizioni sociali e sulla

56

Sui cambiamenti dell’ordine delle parole dal latino alle lingue romanze, cf. L. Renzi, La tipologia dell’odine

delle parole e le lingue romanze, in «Linguistica», XXIV (1984), pp. 27-59. 57

Grundfragen der etymologischen Frorschung, in «Neue Jahrbücher für Wissenschaft und Jugendbildung», 7

(1931), p. 145. Cito dalla traduzione riportata da Pfister e Lupis, Introduzione all’etimologiacit., pp. 140-41 58

Così Leopardi nella prima delle Annotazioni alla canzone ad Angelo Mai.

Page 35: Manuale di filologia romanza (Renzi-Andreose)

35

psicologia collettiva dell’ambiente in cui quei fenomeni hanno avuto origine»59

: valga per

tutti l’esempio della scomparsa di domus in favore di casa = capanna, che sottolinea un

fenomeno sociale di grande entità: la tendenza all’abbandono delle città in favore delle

campagne. Secondo Renzi (p. 160 ma io non concordo) i fattori socio culturali sono meno

importanti di

1, omofonia cioè tendenza a sostituire forme monosillabiche con altre dotate di maggior

corposità , rimpiazzare lessemi semanticamente neuti con altri più marcati MANDUCARE

e non EDERE

Quando vi è necessità di creare una nuova parola si può ricorrere al cambiamento

semantico che funziona per ASSOCIAZIONE METAFORICA: gru

CONTIGUITA' o metonimia Bucca

CONTIGUITA' TRA SIGNIFICANTI iecur ficatum

Volendo tuttavia mettere a fuoco alcuni specialissimi caratteri del lessico latino volgare

potremmo rilevare queste tendenze:

1. la tendenza a far prevalere le forme concrete su quelle astratte, come dimostra il caso

di lemmi con doppio significato: per es. pŭtare ‘ritenere’ e ‘potare’, di cui sopravvive solo

la seconda accezione.

Per comprendere le caratteristiche particolari del latino volgare sarà preliminarmente

opportuno tenere conto che per la latinità la differenza stilistica si gioca in gran parte sul

piano lessicale, come si evince dalle serie sinonimiche dove la tendenza è quella ad

eliminare termini esclusivamente letterari: così della serie equus (cavallo da sella), sonĭpes

(‘destriero’) caballus (ronzino, cavallo castrato, usato come cavallo da tiro) l’unica voce

che sopravvive per via ereditaria è il termine di uso quotidiano: caballus.

2. La tendenza ad estendere lo spettro semantico di termini dell’uso quotidiano. Per

esempio per designare il fuoco, il latino aveva una voce indoeuropea: ignis che viene

sostituita con focus (voce di etimo malsicuro)= focolare domestico (it. fuoco; fr. feu; sp.

fuego; port. fogo; rum. foc), contrapposto ad ara che era quello della divinità. Così un

glossario tardivo spiega focus enim ignis est e le lingue romanze non conservano tracce

di ignis, se non in termini di derivazione dotta, quali ignifugo ecc…

3. Sovente termini più espressivi sembrano sovrastare altri percepiti come meno

significativi: così l’irregolare edere ‘mangiare’ se in area iberica viene sostituito da

comedere (sp. e port. comer), altrove viene soppiantato da manducare (intensivo di

mandere denominale dal nome del buffone da farsa ‘Manducus’) che significava

‘dimenare le mascelle’. O ancora plorare viene messo in ombra da laniare se ‘lagnarsi’

che significava graffiarsi e da plangere ‘graffiarsi il petto’.

Interessanti anche alcune sostituzioni che si realizzano nella sfera corporea vanno nella

direzione di privilegiare il vocabolo corposo di forte espressività i termini afferenti alla

sfera corporea come bŭccam ‘gota’ che prende il significato di ‘bocca’ e viene

rimpiazzato da gotam (dal gallico *gauta); ‘gamba’ dal lat. tardo gambam = zampa,

all’origine un termine di veterinaria; pancia ‘pantices’ = intestini.

4. Tendono inoltre a sparire parole ritenute troppo esili per es. ōs = bocca (che oltretutto rischiava

di trovarsi in collisione omofonica con ŏssum variante popolare di os-ossis, variante difesa da

Agostino (De Doct. Christ. IV, 3): «Cur pietatis doctorem pigeat imperitis loquentem, ossum

potius quam os dicere?, ne ista syllaba non abe eo quod sunt 'ossa', sed ab eo quod sunt 'ora'

intellegatur, ubi aufrae aures de correptione vocalium vel productione non iudicant?» (=Ma allora

perché il maestro di pietà, parlando a gente inesperta, dovrebbe aver ritegno a dire ossum

piuttosto che os, per far capire che os va collegato con ossa e non con ora(bocca), dato che le

orecchie degli africani non percepiscono la lunghezza e la brevità delle vocali? ).

59

Cf. B. Migliorini, Storia della lingua italiana, (1958) Milano, Bompiani 1995, p. 42

Page 36: Manuale di filologia romanza (Renzi-Andreose)

36

Deboli si rivelano inoltre le parole che non rientrano in una determinata famiglia

lessicale, è il caso di pera sostituito da bisaccium= doppio sacco; di uber= mammella, su

cui prevale: mammĭllam, la forma diminutiva di ‘mamma’, affiancata da forme espressive

quali: pŭppam e tĭttam.

5. Anche il grandissimo sviluppo dei termini costituiti dalle derivazioni per mezzo di

suffissi (in particolare diminutivi e vezzeggiativi che vengono a sostituirsi alla forma

piena come avis/ avicellum; fratrem/ fratellum; nucem/ nuceolam) sottolineano la

tendenza verso una lingua di carattere familiare affettivo. Si noti che -anche in questo

caso- molte lemmi formati sul diminutivo indicano parti del corpo:

‘orecchia’ <auricula < auris

‘cervello’ <cerebellum < cerebrum

‘spalla’ < spatulam dim- di spatha ‘spatola’

‘unghia’ < ungula

neoformazioni quali *genuculum.

6. (da Asperti) Alla diffusione del Cristianesimo è riferibile la trasformazione semantica di termini:

per esempio, VIRTUTEM passa da "coraggio (specialmente guerriero)" a "virtù

morale", il grecismo MARTYREM da "testimone" a "martire", cioè chi è innanzitutto

"testimone della fede"; inoltre il verbo del latino classico LOQUI viene sostituito con

PARABOLARE e il termine PARABOLA (dal greco PARABOLÉ = comparazione,

similitudine) passa a indicare estensivamente "parola" in generale, in relazione alla

predicazione di Gesù.

Da internet

Per motivi analoghi al verbo semplice di preferisce talvolta il verbo iterativo, es.:

prima fase seconda fase italiano

salire = saltare

saltare = continuare a saltare saltare = saltare saltare

pinsere = pestare

pistare = continuare a pestare pistare = pestare pestare

Un settore importante è quello dei mutamenti di significato.

Si ricorda ancora, ad-riparare significava in origine ‘giungere alla riva (lat. ripa) e poi

significò genericamente ‘giungere in qualsiasi luogo’, cioè arrivare.Ma si ha anche il

fenomeno inverso, da un significato generico si va ad un significato specifico, per es.:

cognatus da ‘parente’ a ‘fratello della moglie’ e ciè cognato; necare da ‘uccidere’ a

‘uccidere nell’acqua’ (ad necare = annegare). Vi sono poi mutamenti di significato che

dipendono da un uso metaforico del vocabolo, per es.: caput ‘testa è sostituito da testa,

che in origine significava ‘vaso di coccio’; papillio (papillionem) ‘farfalla’ prende il

significato di ‘tenda di un accampamento’, cioè padiglione (le tende dell’accampamento

con i loro colori e forme facevano pensare a grandi farfalle).

Per i contatti che Roma ebbe con la Grecia fin dai primi tempi, molti grecismi erano

entrati già nel latino classico, per es.: schola ‘scuola’; cathedra ‘cattedra’; calamus ‘penna

per scrivere’; camera ‘soffitto fatto a volta’; basilica ‘complesso di edifici con varie

destinazioni pubbliche’. Con il Cristianesimo entrarono dei nuovi grecismi, per es.:

ecclesia = chiesa; episcopus = vescovo; angelus = angelo; martyr = martire. La nuova

religione adattò ai nuovi significati antichi grecismi (per es.: basilica prese il significato

attuale). Un mutamento di significato avvenuto in ambienti cristiani è all’origine di parola

Page 37: Manuale di filologia romanza (Renzi-Andreose)

37

e parlare, il grecismo parabola (dal greco parabolé ‘comparazione, similitudine’) era usato

dai traduttori latini delle Sacre Scritture per indicare le brevi storie, gli esempi allegorici

citati da Gesù nelle prediche, il termine indicò poi la ‘parola’ di Gesù, la parola di Dio, e

quindi con un’estensione del significato, la ‘parola’ in generale; a questo punto il termine

del latino classico verbum ‘parola’ cadde dall’uso; da parabola si sviluppò parabolare =

parlare.

PARTE III

LE LINGUE NEOLATINE

Si chiama Romània il territorio in cui si parla una delle lingue romanze e viene

abitualmente distinta in Romània nuova (dove la lingua neolatina è stata importata più

tardi) e Romània perduta. Per il primo caso pensiamo allo spagnolo parlato in America

latina e per il secondo all’Albania o all’Africa del nord. A queste distinzioni di massima

andranno aggiunte i massicci spostamenti delle recenti immigrazioni che modificano un

quadro stabile fino a un ventennio fa.

Come si è visto la progressiva trasformazione del latino, sarà certamente stata il risultato

di processi complessi, di carattere sociale, storico, politico. Varrà comunque la pena

accennare alle ragioni più frequentemente addotte per spiegare il frazionamento del latino

in diverse lingue romanze60

:

A. La differenza cronologica nella colonizzazione delle varie Provinciae: Secondo Gustav Gröber (1884)

61 infatti le differenze linguistiche fra gli idiomi romanzi

potrebbero spiegarsi con lo stato di evoluzione del latino nel particolare momento in cui

una regione è stata latinizzata. Come osserva Varvaro: "Così il sardo sarebbe più

conservatore del francese ed ambedue più conservatori del romeno, perché il sardo

continuerebbe un latino piuttosto arcaico, quale era attorno alla metà del sec. III av. Cr.,

quando la Sardegna fu conquistata e se ne cominciò la latinizzazione; il francese

continuerebbe il latino quale era nella metà del sec. III av. Cr., quando la Sardegna fu

conquistata e se ne cominciò la latinizzazione; il francese continuerebbe il latino quale era

nella seconda metà del sec. I av. Cr., quando cominciò la latinizzazione delle Gallie

conquistate da Giulio Cesare; il romeno infine rappresenta il latino quale era diventato

all'inizio del sec. II d. Cr., quando Troiano conquistò la Dacia."62

In verità lo stesso Grober osservava che òa Sicilia non presentava una lingua

conservatrice pur essendo una delle più antiche province romane. Inoltre questa

spiegazione non tiene conto della mobilità delle persone e delle influenze linguistiche fra

comunità di indiviui in contatto.

B. I veicoli di latinizzazione: ci si è chiesti infatti se le differenze non possano essere

riconducibili alle particolari modalità della latinizzazione. In particolare alcuni studiosi

hanno distinto una Romània occidentale latinizzata dall’alto (dalla scuola) ed una orientale

dove la latinizzazione è stata mediata da soldati e contadini.

C. La differenza fra le lingue del sostrato: Come si è detto, nell’apprendere la nuova

lingua è possibile che un parlante mantenga nella pronuncia alcuni tratti dell’idioma di

appartenenza, tratti che riemergerebbero nel momento di crisi dell’unità linguistica latina.

D. Il superstrato: L’influsso dei popoli che si sono venuti a sovrapporsi alle genti che

parlavano latino .

60

Sul punto si veda la limpida sintesi offerta Varvaro, nel cap. 40 Teorie ed ipotesi sul passaggio dal latino al

romanzo, in Linguistica romanza cit., pp. 215-223. 61

Cfr. G. Gröber * 62

Varvaro, Linguistica romanza cit., p. 217,

Page 38: Manuale di filologia romanza (Renzi-Andreose)

38

2. Classificazione delle lingue romanze

La classificazione delle lingue romanze solleva una serie di problemi e il numero stesso

si presenta oscillante a seconda che gli studiosi attribuiscano o meno ad un certo idioma la

dignità di lingua. Qui considereremo 9 lingue divise in 4 sottogruppi63

:

1Balcano romanzo Rumeno

2Italo-romanzo

Italiano

Sardo

Latino

3. Gallo-romanzo

Francese

Provenzale e Guascone

Catalano

4. Ibero-romanzo

Spagnolo

Portoghese

Sarà opportuno, per riepilogare, rivedere alcuni tratti distintivi che ci consentono almeno

di distinguere fra un testo italiano, uno francese ed uno provenzale.

1. Vocalismo: il francese palatalizza a tonica in sillaba libera.

- il francese elide tutte le vocali finali / il provenzale tutte tranne A

- il francese e l'italiano monottongano AU

Lenizione

BIBLIOGRAFIA

Si forniscono qui (organizzati in ordine di pubblicazione) solo i titoli di manuali di

riferimento generali utilizzabili anche da studenti. Chi volesse approfondire specifiche

questioni potrà trovare- soprattutto nei più recenti- utili e ricchi rinvii bibliografici:

C. TAGLIAVINI, Le origini delle lingue neolatine, [ 1949], Bologna, Patron 1972.

A. VARVARO, Storia, problemi e metodi della linguistica romanza, Napoli, Liguori,

1980.

Lexicon der romanistichen Linguistik, a cura di G. Holtus, M. Metzeltin, Ch. Schmitt,

Tübingen, Niemeyer, 1988 ss. (degli otto volumi previsti ne sono attualmente usciti

sette);

CH. LEE, Linguistica romanza, Roma, Carocci, 2000.

A. VARVARO, Linguistica romanza. Corso introduttivo, Napoli, Liguori, 2001

L. RENZI-A. ANDREOSE, Manuale di linguistica e filologia romanza, Bologna, Il Mulino,

2003

Sulle “Origini” delle letterature romanze:

R. ANTONELLI, Origini, Firenze, La Nuova Italia, 1978;

L. PETRUCCI, Il problema delle Origini e i più antichi testi italiani, in Storia della lingua

italiana, t. III. Le altre lingue, a cura di L. Serianni e P. Trifone, Torino, Einaudi 1994, pp.

5-73.

A. VARVARO, Origini romanze, in Storia della letteratura italiana, diretta da E. Malato,

Roma, Salerno, 1995, t. I, pp. 137-74.

63

A queste potrebbe aggiungersi il dalmatico il cui ultimo parlante, Antonio Udina, è morto nel 1898 e il franco-

provenzale, cfr Renzi e Varvaro**. Ma pensiamo al fatto che uno dei padri della linguistica romanza Friedrich

Diez considerava solo sei lingue: portoghese, spagnolo, francese, provenzale, italiano e rumeno.

Page 39: Manuale di filologia romanza (Renzi-Andreose)

39

M. L. MENEGHETTI, Le origini, Roma, Laterza, 1997.

INDICE

PARTE I 1. Cosa si intende per ‘Filologia e linguistica romanza’ ?

2. Cosa si intende per ‘Origini’?

3. Cos’era il latino?

4. Quali avvenimenti hanno provocato la disgregazione dello

spazio linguistico latino?

5. Come si realizza il cambiamento linguistico?

6. Il latino volgare: etichetta operativa?

7. Attraverso quali fonti scritte possiamo studiare il “latino

volgare”?

PARTE II

§ 0. Premessa

Parte III

LEGENDA

Le sbarrette oblique indicano trascrizione fonologica, cioè quando

si voglia indicare il FONEMA=cioè quell’elemento dotato di

carattere distintivo, tale da distinguere due forme di significato

diverso, es. tane e pane.

___

Testi

I giuramenti di Strasburgo (Les serments de Strasbourg) Ergo XVI kal marcii Lodhuvicus et Karolus in civitate que olim Argentaria

vocabatur, nunc autem Strazburg vulgo dicitur, convenerunt et sacramenta que subter notata sunt, Lodhovicus romana, Karolus

vero teudisca lingua, juraverunt. Ac sic, ante sacramentum, circumfusam plebem alter teudisca, alter romana lingua,

alloquuti sunt. Lodhuvicus autem, quia major natu, prior exorsus sic coepit: "Quotiens Lodharius me et hunc fratrem

meum,

post obitum patris nostri, insectando usque ad internecionem delere

conatus sit nostis. Cum autem nec fraternitas nec christianitas nec

quodlibet ingenium, salva justicia, ut pax inter nos esset, adjuvare

posset, tandem coacti rem ad juditium omnipotentis Dei detulimus, ut suo

nutu quid cuique deberetur contenti essemus. In quo nos, sicut nostis, per

misericordiam Dei victores extitimus, is autem victus una cum suis quo

valuit secessit. Hinc vero, fraterno amore correpti nec non et super

populum christianum conpassi, persequi atque delere illos noluimus, sed

hactenus, sicut et antea, ut saltem deinde cuique sua justicia cederetur

Page 40: Manuale di filologia romanza (Renzi-Andreose)

40

mandavimus. At ille post haec non contentus judicio divino, sed hostili

manu iterum et me et hunc fratrem meum persequi non cessat, insuper et

populum nostrum incendiis, rapinis cedibusque devastat. Quamobrem nunc,

necessitate coacti, convenimus et, quoniam vos de nostra stabili fide ac

firma fraternitate dubitare credimus, hoc sacramentum inter nos in

conspectu vestro jurare decrevimus. Non qualibet iniqua cupiditate illecti

hoc agimus, sed ut certiores, si Deus nobis vestro adjutorio quietem

dederit, de communi profectu simus. Si autem, quod absit, sacramentum quod

fratri meo juravero violare praesumpsero, a subditione mea necnon et a

juramento quod mihi jurastis unumquemque vestrum absolvo". Cumque Karolus

haec eadem verba romana lingua perorasset, Lodhuvicus, quoniam maior natu

erat, prior haec deinde se servaturum testatus est: "Pro Deo amur et pro

christian poblo et nostro commun salvament, d'ist di in avant, in quant

Deus savir et podir me dunat, si salvarai eo cist meon fadre Karlo et in

aiudha et in cadhuna cosa, si cum om per dreit son fadra salvar dift, in o

quid il mi altresi fazet et ab Ludher nul plaid nunquam prindrai, qui,

meon vol, cist meon fadre Karle in damno sit". Quod cum Ludhovicus

explesset, Karolus teudisca ligua si hec eadem verba testatus est: "In

Godes minna ind in thes christianes folches ind unser bedhero gehaltnissi,

fon thesemo dage frammordes, so fram so mir Got geuuizci indi mahd

furgibit, so haldih thesan minan bruodher, soss man mit rehtu sinan bruher

scal, in thiu thaz er mig so sama duo, indi mit Ludheren in nohheiniu

thing ne gegango, the, minan uuillon, imo ce scadhen uuerdhen".

Sacramentum autem quod utrorumque populus, quique propria lingua, testatus

est, romana lingua sic se habet: "Si Lodhuuigs sagrament que son fadre

Karlo jurat conservat et Karlus, meos sendra, de suo part non l'ostanit,

si io returnar non l'int pois, ne io ne neuls cui eo returnar int pois, in

nulla aiudha contra Lodhuuuig nun li iu er". Teudisca autem lingua: "Oba

Karl then eid then er sinemo bruodher Ludhuuuige gesuor geleistit, indi

Ludhuuuig, min herro, then er imo gesuor forbrihchit, ob ih inan es

iruuenden ne mag, noh ih noh thero nohhein, then ih es iruuenden mag,

uuidhar Karle imo ce follusti ne uuirdhit". Quibus peractis Lodhuwicus

Renotenus per Spiram et Karolus juxta Wasagum per Wizzunburg Warmatiam

iter direxit.

Si dibatte se si tratti di una zona di transizione tra dominio d'oc e d'oil, ma come osserva

Renzi, p. 241 "il suo aspetto conservativo ed arcaizzante non riflette uno stadio aurorale

del francese (...) ma dipende probabilmente dal ricorso a grafie e a forme della scripta

latina merovingica ... unico riferimento per gli scriventi"

Cfr Deus, populum sapere, fratrem ecc

Collegamenti

Il sito dell'Accademia francese: www.academie-

francaise.fr

Il sito dell'O.I.F. (Organisation Internationale pour la

Francophonie):

www.francophonie.org

Giornale elettronico sulla francofonia: www.voxlatina.com

ABC de la langue française: languefrancaise.free.fr

Testi della Bibliotheca Augustana:

www.fh-augsburg.de/~harsch/gallica/Auteurs/f_alpha.html

La bibbia in francese:

www.gospelcom.net/ibs/bibles/french/index.php

Page 41: Manuale di filologia romanza (Renzi-Andreose)

41

CURIOSITA'

Perché S in inglese

La ragione perché si usa la –s come desinenza plurale in inglese risale all’antenato di tutte le

lingue indoeuropee, il protoindoeuropeo, che si parlava in Europa circa 12-15mila anni fa,

prima che partorisse il latino, il greco e il protogermanico (quest’ultimo il bisnonno

dell’inglese).

In inglese, abbiamo conservato il plurale indoeuropeo in –s, il quale già andava emarginandosi

nel dominio romanzo durante l’epoca classica, ma nonostante ciò, è sopravvissuto nello

spagnolo, il catalano, il ladino e il sardo, le quali come l’inglese sono “lingue sigmoidali”

(hanno il plurale in –s).

Insomma, l’inglese come lo spagnolo ha semplicemente ereditato quella parte del patrimonio

indoeuropeo, mentre l’italiano ci ha rinunciato, con la “lenificazione” progressiva della

desinenza plurale, partendo da –s e finendo in –i.

Il tedesco è una delle lingue germaniche moderne con la grammatica più complessa,

a causa della presenza dei casi e della conseguente declinazione dei sostantivi (però

molto ridotta nella lingua moderna) e degli aggettivi. I casi in tedesco sono quattro:

nominativo, accusativo, dativo e genitivo. I sostantivi (che come le parti del discorso

sostantivate si scrivono sempre con l'iniziale maiuscola, ad esempio: das Ich, l'Io

oppure das Essen, il mangiare) presentano tre generi: maschile, femminile e neutro.

1 mesi fa