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MARIATERESA BOTTAMARIATERESA BOTTA
Il Dio delle Lacrime diPietra - Anteprima
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by Simplicissimus Book Farm
Table of contents
Il Dio delle Lacrime di Pietra
IL DIO DELLE LACRIME DIPIETRA
L’oscurità brulicava oltre il barlume delle
candele. Ariadne non riusciva a distogliere lo
sguardo perché sapeva di essere osservata.
Si accorse di tremare. Non poteva opporsi a
quello che stava per succedere.
Udì un verso animalesco, quasi una risata, poi
un soffio e le candele nella camera si spensero.
Il buio le piombò addosso e le cose brulicanti la
schiacciarono nel letto al quale era legata.
L’impatto le svuotò i polmoni e Ariadne
annaspò in cerca d’aria.
Strinse forte gli occhi, obbligandosi a fuggire
con la mente in quel luogo dove sperava che il
male non l’avrebbe raggiunta. Si sbagliava
sempre. Il male l’aggredì.
Una selva di mani la afferrò, affondando le
unghie nella carne come se le cercassero
l’anima per strapparla via. Ariadne sapeva che,
a un certo punto della notte, ci sarebbero
riusciti.
Un coro di ruggiti vibrò nell’aria. Niente
riusciva mai a prepararla a quanto sarebbe
seguito. Il panico le ghiacciò il sudore lungo la
schiena e l’orrore incominciò.
Una pioggia di pugni cadde dall’alto. Il male la
trapassò a fitte ondate e Ariadne latrò contro le
unghie che presero a grattarle famelicamente i
fianchi per rivolgere il suo basso ventre verso le
bocche che aspettavano di mordere il delicato
oggetto di piacere nascosto fra le gambe
disperatamente chiuse.
Il dolore le esplose nel cranio e la vista si
riempì di puntini luminosi che si accavallarono
ai bagliori gialli e verdi degli occhi che
incombevano come lucciole maligne sulla sua
testa.
Gli Incubi la sovrastarono, spiccando contro
l’oscurità con le masse ancora più nere dei loro
corpi.
Il cervello di Ariadne si riempì della nebbia
rossastra della paura.
Zampe immani le aprirono a forza le gambe
per esplorarla provocando fitte che le
strappavano ansiti strozzati. Non voleva urlare
ma sapeva che presto l’avrebbe fatto.
Un groviglio di lingue biforcute lappò
l’interno delle cosce, scivolando fino in fondo.
Il ruvido, rivoltante contatto delle lingue
s’interruppe e Ariadne fu spinta di lato con
violenza, colpita al fianco dalla creatura che le
crollò accanto.
Alcuni possenti corpi si sporsero sul suo,
afferrandosi a vicenda e riempiendo l’aria del
fetore di fiati caldi e grugniti gocciolanti,
lottando per chi dovesse averla prima.
Uno spruzzo di sangue le colpì il viso,
accecandola, e un’altra sagoma mostruosa
riempì il posto lasciato da quella che si ritrasse
guaendo nell’oscurità.
Ariadne tremava e gemeva a occhi chiusi,
terrorizzata, mentre si contendevano i suoi seni
come una muta di cani con un pezzo di carne.
Uno di essi le crollò addosso nella lotta e ne
approfittò per infilarsi in mezzo alle sue gambe.
Le piantò le unghie nei fianchi per tenerla
ferma e la penetrò con un violento affondo del
bacino.
Fu come se il suo corpo si spezzasse a metà.
Spalancò gli occhi e urlò talmente forte da
ferirsi la gola. Continuò a urlare finché la voce
si esaurì in un verso arrochito che bruciava in
fondo alla laringe.
Il corpo impellicciato dell’Incubo la schiacciò,
soffocando le sue grida.
Ariadne si contorse sotto la massa asfissiante,
le lacrime le lavarono via il sangue dagli occhi.
Ogni lacerante spinta correva lungo tutto il
corpo, piantandosi nel cervello e annebbiando i
pensieri. Gli occhi s’intorpidirono e la gola si
serrò impedendole di assumere l’aria di cui
aveva bisogno. Cominciò a girarle la testa.
Desiderò di svenire ma non accadde.
Gli altri Incubi intanto le strusciavano addosso
i falli affamati. Ruggendo, frementi, la
assalirono da tutti i lati per conquistare un
pezzo di lei da corrompere e torturare.
Le leccavano via il sudore gelato dalla pelle
provocandole brividi di repulsione; le mani che
rovistavano e i denti che morsicavano la
riempivano di un terrore che corrodeva i
pensieri. Ariadne sentiva la follia strisciarle
addosso, sulla carne, nella carne. Nella testa. Fu
percorsa da una nuova ondata di brividi e roteò
gli occhi e agitò la testa.
Li sentiva godere della violenza che le
infliggevano.
Avvinghiata com’era al materasso per mezzo
di legacci, non c’erano posti in cui nascondersi,
nessuna salvezza.
Era soltanto un uomo quello che la faceva
piangere e urlare. Era soltanto un uomo quello
che si muoveva selvaggiamente dentro di lei.
Ariadne prese a ripeterlo all’infinito come
una preghiera contro la pazzia.
La notte era un calderone ribollente di
mostruosità che si rovesciavano sulla sua anima
intaccando anche la sanità mentale.
Quando si furono stancati di sottometterla a
ogni depravazione Ariadne ormai giaceva priva
di sensi per lo shock.
G l i Incubi si ritrassero raggiungendo delle
alcove, formate dai punti in cui le pareti
curvavano per intersecarsi, dove restarono a
osservarla mentre languiva sozza e inerte.
Aspettando.
Quando lei si riprese abbastanza da essere
nuovamente consapevole di dove si trovasse,
ricominciarono.
Ariadne digrignò i denti contro il bavaglio. I
loro baci erano acidi sulla pelle; i morsi
lasciavano segni insanguinati che bruciavano
come marchi a fuoco mentre veniva riempita
dalla loro lussuria.
I ripugnanti umori che le lasciavano addosso
si mischiavano al suo sudore.
Ariadne riusciva a pensare soltanto che, così
com’erano apparsi, quegli abomini sarebbero
spariti, e con essi i segni dell’orgia che avevano
consumato con lei… ma non il ricordo di come
era stata marchiata e riempita. Era il
contenitore delle loro maledizioni.
Sapere che all’alba sarebbe tutto finito non la
aiutò a sopportarlo.
I polmoni bruciavano del greve afrore
muschiato di bestie sudate e di un vago sentore
d’incenso. Gli umori della loro eccitazione
erano dolciastri, animaleschi, fecali… li sentiva
sulla lingua. Le gocciolavano in bocca
attraversando persino il bavaglio, e scivolavano
in fondo alla gola scatenando ondate di nausea.
Ariadne strinse i pugni contro il giaciglio in
un gesto d’impotente ribellione, serrò le
mascelle e le labbra per evitare di ingoiare
anche una sola goccia. Strabuzzò gli occhi: le
lacrime le impedivano di vedere le dita pelose
che le aprirono a forza la bocca inaridita dalle
grida. Ariadne tossì e represse i conati di
vomito.
Dopo che l’ebbero ridotta a un guscio molle e
fradicio di follia − neppure più consapevole
della propria umanità − la luce grigia dell’alba
penetrò dalla finestra, scacciando gli Incubi negli
angoli della stanza.
Li vide assottigliarsi e sbiadire, ritrarsi nelle
intersezioni fra le pareti dove si ridussero a neri
cordoni di malignità pulsanti. Riusciva ancora a
sentirli ringhiare, furiosi di essere state
interrotti.
Rimasero a fissarla intenti, scorrendo lungo i
muri per sfuggire al grigiore che si insinuava
dalle finestre, finché i primi raggi di sole li
investirono. Poi svanirono.
L’alba illuminò il corpo dell’uomo, che crollò
sul giaciglio respirando affannosamente. Il
torace ampio era lucido per lo sforzo compiuto.
Accarezzò il volto di Ariadne, stordita e
traumatizzata, la coprì con le coltri e si girò su
un fianco, addormentandosi poco dopo.
Ariadne ascoltò quel respiro regolare finché
non cadde a sua volta nell’oblio di un sonno
agitato da cui si risvegliò spesso, in preda
all’angoscia, alla ricerca disperata dei raggi
luminosi che coloravano di ori e rosa le
meschine pareti in cui gli Incubi avevano
trovato rifugio dal sole.
Restò a fissare il baldacchino di ottone che
rifletteva il ritorno del giorno. Si riempì gli
occhi di sole fino a farli lacrimare.
Nella sua mente sconvolta la luce assunse la
forma del possente braccio di un arcangelo,
levatosi per sottrarla al supplizio.
Si concesse un sospiro tremulo e rilassò i
muscoli che si erano intrecciati come le radici
di un albero. Brividi incontrollati le
provocarono fitte lungo tutto il corpo
rendendola profondamente consapevole
dell’abuso subito. L’orrore le fuggì dalla gola in
un urlo muto.
L’umiliazione bruciava nel petto. Il furore
martellava nella testa.
Cercò di sputare il disgustoso sapore che
aveva in bocca. Si sforzò di non vomitare
perché, nella posizione in cui si trovava,
probabilmente sarebbe morta soffocata.
Desiderò di potersi massaggiare il ventre
indolenzito ma le serve non l’avrebbero slegata
prima di qualche ora.
L’aria era fredda e immobile. L’avvolse un
vuoto silenzioso.
Lo sguardo corse alla finestra dove rimase a
guardare le ultime stelle che svanivano. Quanto
voleva fuggire!
Pregò di riuscirci. Pregò senza sapere più a
chi rivolgersi: nessun Dio l’aveva mai ascoltata.
Alla fine Ariadne rinunciò.
Soltanto quando si sentì al sicuro riuscì a
riaddormentarsi.
Sognò una fiamma. Bruciava in fondo a un
pozzo buio e le scintille che sollevava in aria
illuminavano un volto che si affacciava
dall’oscurità, e si protendeva verso di lei…
Il tepore di un bacio, delicato, la destò.
Quella dolce presenza si attardò sulle sue
labbra per lunghi secondi. Aprì gli occhi.
Il sole era alto ed entrava dalla finestra
posandosi su ogni cosa come una polvere d’oro.
Ariadne respirò il respiro che l’uomo esalava
sul suo viso. Mise a fuoco il sorriso di Lord
Ulfrich, a pochi centimetri dalla sua bocca.
«E’ giorno fatto, mia diletta. Levatevi.»
La sua voce era riscaldata da una passione
latente che la notte scorsa non aveva del tutto
consumato.
L’uomo si raddrizzò e Ariadne avvertì l’odore
virile del suo corpo. Distolse lo sguardo per
sfuggire a quella sorta di languore, fastidioso
eppure stuzzicante, che le stringeva lo stomaco
ogni volta che il Lord le sorrideva.
«Vi ho liberata dai legacci io stesso» disse,
come se si aspettasse un ringraziamento. «Mi
addolora che dobbiate sopportare un
trattamento così poco dignitoso ma è per il
nostro bene. Se riusciste a concepire un figlio,
sapete…»
Ariadne evitò di commentare.
Lord Ulfrich si accigliò. «Avete di nuovo fatto
quei brutti sogni, stanotte. Urlavate… Per
fortuna eravate legata, così non avete potuto
farvi del male.»
Ariadne aveva cercato di uccidersi molte
volte.
«Mi spezza il cuore vedervi in quelle
condizioni, mia diletta.»
Sembrava sinceramente dispiaciuto.
«Vorreste raccontarmi che cosa avete
sognato?»
Ariadne scosse il capo sopra al cuscino
stropicciato.
Lord Ulfrich accettò quella risposta con un
piccolo sorriso triste. Le carezzò la ciocca di
capelli che le copriva il volto, quindi rotolò giù
dal letto e andò verso il pitale per liberarsi la
vescica. Le diede le spalle mentre si alzava il
camicione di lino bianco.
«Ahimè, non potrò tenervi compagnia
durante la Messa. Ho quella riunione con i
nobili e i prelati, sapete… al castello di mio zio.
Verrà anche un certo capitano… mi hanno detto
che i suoi soldati sono monaci che lo chiamano
Maestro. Non so chi sia né che cosa voglia»
s’interruppe, colto da un pensiero improvviso.
«Ci saranno il Re in persona e il Patriarca di
Gerusalemme!» disse entusiasta. «Sarà una
grande occasione per me, per noi… Ricordate di
farvi elargire la comunione, e anche una
benedizione. Spero non me ne vogliate, mia
diletta.»
Ariadne sedette nel letto portandosi una
mano alla fronte per mandare indietro i capelli
arruffati e scuri. Notò i segni rossi intorno ai
polsi e si massaggiò i lividi prodotti dai legacci.
Nonostante le braccia intorpidite riuscì a
sistemarsi la camicia da notte, attorcigliatasi
intorno alla vita durante la notte. Indossò la
vestaglia.
«Non potrei mai volervene, mio signore»
disse con voce inespressiva e senza guardarlo
apertamente. «Ma Padre Calisto potrebbe non
vedere di buon occhio la vostra ripetuta assenza
dalle funzioni.»
«Avete ragione, mia diletta, ma ho degli
obblighi da onorare. Padre Calisto è un uomo
saggio. Capirà. Stiamo lavorando sodo per
proteggere il popolo dalle scorribande dei
mussulmani. Abbiamo un grande progetto!»
esclamò, voltandosi verso di lei. «Costruire un
Regno sul suolo Santo, un luogo di pace dove i
fedeli di ogni parte del mondo possano
giungere per omaggiare i luoghi natii del
Signore. E’ anche per il nostro bene, sapete…»
Ariadne aveva perso il conto delle volte che
lui gliene aveva parlato.
La luce che gli animava lo sguardo fece
impallidire il ricordo della terribile notte
appena trascorsa. Le sfuggì un sorriso.
«Ah, rammentate di farvi dare la medicina dal
buon Padre.»
Ariadne sussultò come se avesse ricevuto uno
schiaffo.
La medicina! Provò un’ondata di terrore.
Avrebbe voluto implorarlo ma si trattenne. Se
l’avesse fatto Ulfrich avrebbe voluto delle
spiegazioni. Lo amava troppo per dirglielo.
Ulfrich si spogliò per sciacquarsi nel catino,
ornato di viticci in lacca d’oro e poggiato su un
treppiede dalle gambe tortili in bronzo.
Lei si limitò a guardarlo, soffocando
l’angoscia.
L’uomo le mandò un’occhiata da sotto la
capigliatura scura, arruffata e gocciolante. Non
gli era sfuggito il significato del suo silenzio.
L’acqua gli scorreva in rigagnoli lungo il collo
taurino e il busto forte, curvando intorno alla
vita sottile e fermandosi sul pube, come gocce
di rugiada tra foglie scure.
Ariadne arrossì, scombussolata dal desiderio
che provava per lui e al contempo risentita
dalla bellezza dell’uomo. Era stata questa
qualità, unita ai suoi modi garbati, a farla
innamorare di Ulfrich.
Si strinse nella vestaglia e distolse lo sguardo,
divisa fra l’affetto e il risentimento.
«Parlate, se avete da dire. Vi prego.»
La donna non alzò gli occhi, temendo di
tradirsi. «Nulla. Scusate.»
«Lo sapete che potete dirmi tutto.»
Il giovane le si inginocchiò di fronte, nudo e
tutto gocciolante. Le posò una mano sul ventre
con molta tenerezza.
L’odore della sua pelle bagnata le dilatò le
narici e non resistette al desiderio di respirarlo.
Gli sfiorò il collo bagnato con le dita di una
mano. La pelle era calda nonostante il contatto
con l’acqua fredda.
«È per il nostro bene. Se concepissimo un
figlio, sapete…» le sussurrò.
Lo desiderava così tanto che le faceva male,
eppure sentiva di odiarlo e anche questo le
faceva male. «Vi prego, non…» Deglutì lo
sconforto.
Ulfrich la guardò con occhi grigi come il
mare in inverno e talmente profondi che vi
sarebbe potuta annegare dentro.
Aspettava che finisse la frase.
Ariadne rinunciò. Che cosa avrebbe potuto
dirgli?
Scosse la testa. «Nulla. Scusate.»
Ulfrich sembrò improvvisamente fragile. «Lo
sapete che vi amo? Desidero stare sempre con
voi, più di ogni altra cosa.»
Ariadne fece un piccolo sorriso.
«E voi mi amate, vero?»
Lo amava così tanto che a volte credeva di
impazzire. Annuì.
Il lord sorrise felice e la strinse forte a sé. La
baciò dolcemente, prendendole il viso fra le
grandi mani calde.
Si sentì debole nell’abbraccio di Ulfrich. Le
sembrava di perdere se stessa un pezzetto per
volta.
Prima di andarsene il Lord chiamò le serve
affinché aiutassero Ariadne a prepararsi per la
funzione domenicale, poi le baciò una mano e
si affrettò verso la sua riunione.
Ariadne si inginocchiò, chinò il capo e
dischiuse la bocca.
«Corpus Christi» annunciò il prete con
solennità prima di porgerle l’eucaristia.
«Amen.»
Si diresse all’altare, sul quale spiccava un alto
crocefisso d’oro circondato da dozzine di
candele accese. Si segnò.
Ariadne si allontanò, fermandosi sotto la
balconata che si affacciava sulla terza navata.
Rimase in disparte, osservando i nobili che
prendevano a loro volta la comunione, finché la
cappella non si svuotò.
Padre Calisto ordinò ai chierichetti di
rassettare e la invitò a venire avanti con un
cenno. Dopo essersi accertato che la donna
avesse capito di doverlo seguire sparì dietro il
paravento di legno dorato che celava l’ingresso
alla sagrestia.
L’ambiente contrastava con l’opulenza
dell’area liturgica. Spartano e scarsamente
illuminato, era a malapena dotato degli arredi
più essenziali.
C’era un tavolino storto, contro una parete, su
cui erano appoggiati un incensiere acceso e una
croce di pietra dalla rozza fattura.
L’atmosfera raccolta non era accogliente e
tutto, nella stanza, richiamava la condizione di
estrema povertà che caratterizzava l’ordine
mendicante del quale il padre faceva parte.
Un fumo bianco e dolciastro si arricciolava in
aria. Era un puzzo familiare che indusse
Ariadne a trattenere un conato di vomito. Le
immagini della terrificante notte di abusi le
schizzarono davanti agli occhi provocandole
una sensazione di straniamento. Le girò la testa.
Il cuore prese a martellare nel petto e dovette
aggrapparsi all’alto schienale di una sedia da
preghiera per non cadere sulle proprie gambe.
Provò a trattenere il fiato, sperando che la
stanza smettesse di girare.
Il sacerdote riapparve da un piccolo corridoio
laterale che conduceva alla sua cella.
Non indossava più gli indumenti liturgici ma
soltanto un rozzo saio di tela di sacco, logoro e
macchiato, fermato in vita da un pezzo di corda
unta e sfilacciata in più punti.
Si pulì sul vestito il dorso di una mano
grassoccia, sorridendole imbarazzato, e gliela
offrì.
Ariadne la baciò automaticamente: ripeteva
quel cerimoniale da troppo tempo perché
avesse ancora un significato.
«Figliola,» disse notando il suo pallore, «va
tutto bene?»
Ariadne sorrise e fece un cenno di diniego
con il capo. «Non è niente, Padre, soltanto un
po’ di stanchezza.»
Padre Calisto parve preoccupato.
«Vi porto gli omaggi del Conte Ulfrich di
Nablus. Il mio signore si scusa per non aver
presenziato alla funzione ma doveri urgenti lo
hanno distolto dagli obblighi verso la nostra
chiesa.»
Il vecchio corpulento agitò l’altra mano in
aria con noncuranza. «Ne ero stato informato.
So bene che si tratta di un evento importante,
da cui dipenderanno le sorti del nascente
Regno di Gerusalemme. Il nostro signore non
deve temere il mio disappunto, egli è bello e
buono.»
«Siete gentile, Padre.»
«Siediti, cara» disse, indicandole uno sgabello
un po' sbilenco, vicino al tavolino.
Lei obbedì, cercando di ignorare il fumo
bianco che le svolazzava intorno.
«Immagino che tu sia qui per la medicina.»
Ariadne annuì e riprese a respirare di
malavoglia.
Il prete sparì dietro un paravento che era
stato ricavato da tre rozze tavole inchiodate
insieme.
Lo sentì trafficare con i suoi strumenti da
erborista. Un aroma aspro e pungente si
mischiò all’incenso nell’aria con un effetto, se
possibile, ancora più stomachevole.
Il religioso tornò con in mano una boccetta di
vetro verde contenente un liquido scuro e gliela
porse con un sorriso premuroso. «Orbene, la
solita raccomandazione: assumilo prima di, be’,
giacere con il tuo signore e vedrai che accadrà
tutto come è giusto che sia.»
Le dita di Ariadne tremarono, rifiutandosi di
chiudersi intorno all’ampolla.
Il religioso notò la sua esitazione e domandò:
«Hai avuto ancora quei terribili incubi, be’,
carnali?»
La donna ingoiò un groppo e annuì.
Il vecchio prete parve rattristarsi. «Mia cara,
te l’ho già detto: non devi avere paura. Sono
soltanto illusioni, un brutto effetto collaterale
della medicina.»
Le mise la fialetta nella mano, coprendola con
la propria finché le dita della donna non si
chiusero, sconfitte, intorno all’oggetto.
Ariadne ricominciò a tremare. «È impossibile
ignorarle!» scattò disperata, strappando un
sussulto al vecchio. «Mi fanno tanto male,
Padre. Sono così spaventata… Vi prego, dovete
aiutarmi! Fateli smettere!»
Le sembrò che le ginocchia fossero sul punto
di cedere. Avrebbe voluto arrendersi ma si
impose di resistere.
«Devi sforzarti di ignorarlo, figliola. Per
amore di Lord Ulfrich. Sai che il vostro futuro
insieme dipende dalla tua capacità di dargli un
bambino.»
«Voi non capite. Le cose che mi fanno… sono
orribili. Mi sento così umiliata. Se solo ne
parlaste a Lord Ulfrich, lui non mi chiederebbe
più di prendere la medicina…»
«Sssht!» l’ammonì Padre Calisto. «Ti ho già
detto che non devi dirgli nulla. So che non puoi
capire, perché eri una saracena e i vostri usi
sono diversi dai nostri. Ma adesso sei una
donna cristiana e devi comportarti come tale.»
«Io non capisco» singhiozzò.
«Il sacrificio e l’abnegazione sono i primi
doveri della donna nei confronti del proprio
signore, e la strada giusta che condurrà al Regno
dei Cieli» le spiegò, paziente.
Gli occhi di Ariadne si riempirono di lacrime.