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Catalogo della mostra di Mario Fallini ad Ovada 2006-2007. Testi di Andrea Calzolari.
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Tic Tac
3
Tic tac, tic tac. Un orologio che scandisce il suo tem-
po. Suo, non mio, non nostro. Ore, secondi messi in
fi la a dettare ritmi e stagioni. In realtà immobile è tutto.
Immobile è l’immagine. Immobile su di un muro questi
due tizi sotto l’ombrello. Tic tac fa la pioggia su que-
sto coperchio. Meteorologico tic tac. Immobili siamo
noi. E al tempo stesso - ops, “tempo”, che orrore!
- parecchio dinamici. Ci presentiamo così. Sempre e
da sempre coaguli pulsanti - o pulsanti coagulati - in
un’ Ovada atemporale, per godere di arte, musica, tea-
tro, cinema e poesia. Per godere. Questa la nostra idea
di essere associazione, di essere gruppo, del nostro
fare Due Sotto l’Ombrello. Da qui le esperienze di anni
in compagnia, di ‘ venerdì sotto l’ombrello’, di festivals
‘ Incontemporanea ’ di mostre, incontri, cibarie tra arte
e musica. E così, quest’anno, la mostra, le mostre di
Mario Fallini. Il tic tac continua a canticchiare mentre
scrivo. Fastidioso rintocco della mia caducità. Mi guar-
do attorno. Immagini di un’arte che mi e ci rappresenta.
Semper.
Gruppo Due Sotto lʼOmbrello
e.c.b.
Il passo di saturno
4
Da molto tempo Fallini riflette sul tempo e in questa durata da molto
tempo usa il tracciato della scrittura per realizzare forme. Non potrem-
mo affermare che tra i due interessi vi sia stata piena coincidenza,
ma è certo che un intreccio s’è manifestato spesso, come appare
se si cerca di comprendere la ragione per la quale queste tre opere
(cinque, se si contano i due Errori di stampa, impressioni su carta
de La Stampa) sono esposte insieme. Di primo acchito, i tratti che le
accomunano sono soprattutto formali: sono tutte immagini costruite
con scritte o comunque con lettere; inoltre, come appare anche dai
titoli, sono allegorie che, ancora, vengono palesemente dal passato,
non solo perché oggi nessuno propone più allegorie (nemmeno dove
sono sopravvissute più a lungo che altrove, cioè nei monumenti, so-
prattutto funebri), ma perché lo stile le connota, per chiunque abbia
una pur minima familiarità con l’arte, come rinascimentali o barocche,
la Memoria e la Stampa, come vagamente ottocentesco, Saturno-
Crono. In effetti, le prime sono la fedele riproduzione di due illustrazio-
ni contenute nell’ottava edizione (1625) de L’Iconologia di Cesare Ripa,
famoso repertorio a cui Fallini ha ripetutamente attinto; la fi gura di Sa-
turno-Crono è invece una di quelle immagini virtuosistiche tracciate
dai calligrafi con un solo lungo tratto di penna, particolarmente diffuse
nei secoli XVIII e XIX, ma che si trovano ancora nei manuali del primo
Novecento. Anche se le affi nità tematiche sono meno immediatamen-
te evidenti, ci si accorge poi che tutte e tre hanno appunto qualcosa
a che fare con il tempo, l’una in quanto mappa della memoria, l’altra
perché Saturno-Crono è la personifi cazione allegorica del tempo; infi -
ne perché nella stessa allegoria della stampa, apparentemente estra-
nea al tema, si legge la parola «semper». Tutti i caratteri individuati
(l’intreccio tra parola/scrittura e immagine, la citazione di illustrazio-
ni provenienti da repertori del passato, l’allegoria, il tema del tempo)
hanno radici profonde e lontane nell’opera di Fallini, tanto che questi
lavori possono essere considerati come il punto d’approdo provvisorio
(giacché la ricerca non ha mai termine) di una rotta intrapresa molti La Stampa
La Stampa - particolare Saturno Crono - particolare
6
anni fa. Si possono fi ssare qui alcuni punti, soprattutto al fi ne di co-
gliere la connessione tra le linee rilevate a una prima ricognizione.
L’attenzione al rapporto tra parola e immagine, per es., si attesta da
sempre nei titoli di molti suoi lavori, costituiti da giochi verbali, per lo
più ironici: l’immagine in sostanza visualizza un sintagma cristallizzato
(un’espressione dotta o un modo di dire comune) e il risultato è, spes-
so, una sorta di rebus in cui il titolo e l’immagine si integrano a vicenda,
Carta della memoria - fronte
Carta della memoria
facendo scaturire il Witz che li illumina entrambi. Ma il precedente più
signifi cativo è una mostra del 1991, De Imitatione, che segna una svol-
ta nella storia dell’artista e costituisce la tappa da cui hanno preso le
mosse la maggior parte dei lavori successivi. In essa Fallini espone la
La Stampa - particolare
7
trascrizione manoscritta su un rotolo di carta di cm 289,5 x 86,5 de Il
nome della rosa di Eco e una diecina di opere che rappresentano
tutte, ma su supporti diversi (ferro, piombo, carta, legno, vetro) e quin-
di con tecniche diverse, l’allegoria dell’Imitazione tratta dall’Iconologia
di Ripa. In tale occasione, dunque, è proclamato esplicitamente (ad-
dirittura dal titolo della mostra) il principio guida della poetica di Fallini:
l’imitazione, nel senso assunto a partire dal rinascimento di imitazio-
ne, non della natura, ma dei modelli classici - anche se la procedura
mimetica, in sintonia con gli orientamenti dell’arte contemporanea,
assume una valenza spiccatamente metalinguistica, proponendo-
si come mimesi di linguaggi (immagini, simboli, segnali, ecc.). E fin
da allora si trovano, dato ancora più importante, gli elementi lingui-
stici costitutivi delle opere presenti, la scrittura e l’allegoria, nonché la
loro collocazione nel curioso chiasmo disegnato da operazioni formal-
mente identiche, in quanto in entrambi i casi Fallini copia fedelmente il
modello limitandosi a modificare il supporto, ma anche specu-
lari, cioè simmetriche ed opposte, in quanto spingono, rispetti-
vamente, il leggibile verso il visibile e il visibile verso il leggibile.
Imitazione - particolare
Imitazione
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L’insistita iterazione dell’allegoria di Ripa (negli anni successivi ripe-
tuta in ulteriori versioni) ne potenzia infatti il carattere già fortemente
convenzionale, ma solo a costo di impoverire l’immagine che risulta
congelata in una sorta di ideogramma, cioè in un segno ripetibile e ri-
conoscibile a dispetto delle variazioni (relative soltanto al supporto) che
ne caratterizzano le singole occorrenze, come un documento scritto,
che resta sempre se stesso anche se lo si stampa in edizioni diver-
se. Tale riduzione dell’immagine a ideogramma è, insomma in sintonia
con una tendenza verso la scrittura che si è fatta sempre più forte
sotto l’impulso combinato del penchant nominalista che Fallini eredita
da una certa tradizione dada-surrealista (Duchamp e Magritte) ripresa
dall’arte concettuale, nonché della sua personale adesione al principio
dell’ imitazione, cui la scrittura garantisce, com’è ovvio, il massimo di
fedeltà possibile: con la scrittura il démone dell’imitazione si realizza
compiutamente dissolvendosi, poiché nella copiatura il soggetto che
imita si identifica con l’oggetto imitato, perdendosi in esso; proprio
per questo, d’altra parte, il risultato è un’opera puramente concettuale
in quanto è indistinguibile dall’originale. Donde il carattere paradossale
della trascrizione del romanzo di Eco, che è evidentemente identica a
qualunque altra copia stampata, se non fosse che il mutamento del
supporto produce una trasformazione inversa a quella messa in luce
a proposito dell’iconologia: se le allegorie di Ripa, copiate in modo ri-
petitivo, virano verso l’ideogramma, cioè verso la scrittura, il testo del
romanzo (in conseguenza della dilatazione del supporto), diventa di
fatto illeggibile come testo e vira verso l’immagine. L’immagine tende
a diventare una scrittura come la scrittura tende a diventare un’imma-
gine; ma in entrambi i casi si perde qualcosa, in quanto il nuovo statu-
to segnico, sovrapponendosi al carattere originario dell’opera imitata,
Imitazione
lo maschera almeno parzialmente: quanto più l’allegoria diven-
ta leggibile come ideogramma, tanto più diventa “invisibile”
come immagine; viceversa, quanto più il testo diventa visibi-
le come immagine, tanto più diventa “illeggibile” come testo.
Il problema è affrontato negli anni successivi con due opere incentrate
sulla scrittura. Nel 1991-93 Fallini copia con una penna a sfera sul retro
e sul fronte di un lenzuolo di 237 x 345 cm, le Mille e una notte:
per quel che riguarda il retro, anche in questo caso, come nel Nome
della rosa, l’impatto iconico del manoscritto è tutto affidato all’alea,
incontrollabile, dell’addensarsi o del rarefarsi involontari della scrittura,
dei mutamenti del ductus (dovuti a stanchezza o ad altri imprevedi-
bili fatti psicologici), del lento esaurimento dell’inchiostro (e quindi del
progressivo impallidirsi dei caratteri) ecc. Nella stessa direzione della
trascrizione pura e semplice va anche la Bibbia (1994-2001), copia-
ta in caratteri dorati su fondo blu cobalto nelle formelle di ceramica
che costituiscono l’unica decorazione parietale della chiesa della SS.
Annunziata di Alessandria. Qui però si tratta dell’ imitazione di un ma-
noscritto, cioè di un manoscritto apocrifo: il testo sacro è stato infatti
letto e memorizzato da un computer, che poi ha provveduto a trascri-
verlo (a partire da una serie di campioni della grafia di Fallini) in uno
pseudo-manoscritto, il quale è stato infine trasferito serigraficamente
sulla ceramica. Ne consegue che le 231 formelle che formano questa
Bibbia costituiscono, a 544 anni di distanza, il compimento, ma anche
la negazione delle 1282 pagine che formavano la Bibbia di Gutenberg,
il primo testo a stampa della storia occidentale: se la tipografia distrug-
geva l’aura del manoscritto, l’ informatica, perfezionando ulteriormente
le tecniche di riproducibilità dell’opera, ne permette un paradossale Il nome della rosa
Le mille e una notte - fronte Le mille e una notte - retro
ed ambiguo rilancio: perché, se non è più unica, ma riproducibile, non
è più nemmeno l’aura, ma soltanto la sua mistificazione o la sua estre-
ma trasfigurazione. Analogamente, in questo falso manoscritto l’imi-
tazione, come da sempre, è fedele fino all’inganno: nell’opera, che
simula il manoscritto e dissimula l’imitazione, si dissolve in un trionfo
ironico l’impresa cominciata con la trascrizione del Nome della rosa.
Oltre quell’operazione (sottilmente concettuale, ma condotta sul filo
del rasoio) era impossibile proseguire con la trascrizione pura, che
solo il gigantismo del supporto aveva fino ad allora salvato dal rischio
della banalità. Per associare i due indirizzi della ricerca (la scrittura e
l’immagine), Fallini ricorre allora ai calligrammi: nel verso delle Mille e
una notte, per es., la scrittura è disposta in modo da formare l’imma-
gine di una lampada da cui esce il fumo che si trasforma in un cavallo.
Un episodio raccontato nel libro viene così iconicizzato, ma mediante
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una citazione, perché la figura equina è una di quelle immagini calligra-
fiche (analoga al Saturno-Crono) tracciate con un solo tratto di penna,
nel lenzuolo ovviamente sostituito dalle parole del testo che si susse-
guono in una linea ininterrotta, formando tutta la figura. Ancora, risale al
1997, Lettera d’amore, un lavoro ispirato direttamente ad Apollinaire:
i versi di una sua poesia, Zone, sono utilizzati per segnare i contorni di
una figura complessa, di nuovo imitata, in quando si tratta della ripresa
(su scala più grande) di un notissimo ed umile giocattolo infantile: la
figura in cartoncino di una donna, alla quale si possono sovrapporre
degli abiti, anch’essi ritagliati nella carta. Questa la genesi dei calli-
grammi, soluzione formale che troviamo adottata nei lavori presenti e
che Fallini sta utilizzando anche in questo momento con la trascrizione
Saturno Crono - con particolare della scrittura Lettera d’amore (Zone)
14
del Milione di Marco Polo nelle fi gure di una carovana sulla via del-
la seta. Per quel che riguarda i temi, è invece opportuno soffermar-
si dapprima sulla Carta della memoria (2004), in cui l’immagine,
l’allegoria di Ripa, è formata dai titoli dei precedenti lavori dell’artista.
Bisogna tener conto che il principio dell’imitazione-ripetizione compor-
ta una produzione che procede per accumulo, dilagando in maniera
incontrollata: non solo una singola immagine può essere moltiplicata
tante volte quanti sono i supporti possibili (e talvolta, come nel caso
della citata Imitazione o di Siredia, sembra che Fallini si abbandoni a
una sorta di iterazione totalizzante, enciclopedica, come se cercasse
di sondare tutte le possibilità), ma la stessa «banca di immagini», come
ama chiamarla l’artista, prodotta dalla civiltà occidentale è in grado di
fornire suggestioni senza limiti. Per governare questa proliferazione
(il catalogo delle sue opere comporta fi nora mille e più voci), Fallini ha
fatto allora successivamente ricorso all’alchimia, all’iconologia, e da
ultimo alla mnemotecnica, discipline che per l’artista funzionano con-
temporaneamente come miti e come mito-logie: il mito archeologico
di un sapere scomparso che si vorrebbe ironicamente resuscitare, ma
anche una rete tassonomica con la quale, di volta in volta, si cerca
seriamente di organizzare in un disegno unitario i miti personali scio-
rinati nelle opere - uno pseudo-sapere classifi catorio, insomma, che
si propone come l’improbabile (giacché è esso stesso un gioco dell’
immaginazione) fi lo d’Arianna di un labirintico non-sapere. Nel quadro
di questa ricerca di un sistema, e nel corso di indagini sull’universo
tardo-rinascimentale e barocco, Fallini si è per l’appunto imbattuto,
anche grazie agli studi di F. Yates e di L. Bolzoni, nel «teatro della
Marina - particolare
Carta della memoria - particolare fronte
16
memoria» di Giulio Camillo, un’ idea che lo ha affascinato proprio perché
incarnava in un’ immagine - l’immagine archetipica del teatro – l’utopia
mnemotecnica. Ovviamente, mentre il teatro progettato da Camillo
era una memoria enciclopedica che avrebbe dovuto contenere tutto
lo scibile, l’artista si è limitato alla propria memoria individuale, e più
precisamente al ricordo del proprio lavoro. Si sarebbe potuto agevol-
mente simbolizzare tale ricordo con un catalogo, cioè con un elenco
di titoli: in effetti, «Mario Fallini», in quanto artista, è un elenco di opere,
ciascuna della quali è rappresentata da un titolo. Se poi egli avesse
voluto adottare la tecnica dei calligrammi, avrebbe potuto ricorrere
all’espediente, già impiegato nella tradizione dei technopaegia, di
scrivere il proprio nome o di abbozzare un autoritratto con i titoli dei
lavori. Ma tutto questo avrebbe lasciato fuori la memoria, mentre è
proprio ad essa che ha guardato Fallini progettando la sua mappa
allegorica. Tutti noi, artisti o non artisti, abbiamo in testa l’archivio di
tutto quel che abbiamo fatto quando ci accingiamo a fare qualcosa,
anche nel modo apparentemente più automatico, se è vero com’è
vero, per es., che persino il passo distratto o frettoloso dell’adulto è
ancora guidato dalle tracce mnestiche che si sono fi ssate quando ha
imparato a camminare: ed è questo rapporto che ciascuno di noi ha
con quel che ha fatto, il diffi cile tema affrontato in questo lavoro. Non
si trattava naturalmente di rievocare il signifi cato delle singole opere
prodotte, ma la loro signifi cazione complessiva, e più precisamente
la funzione che il loro ricordo svolge nella mente di chi le ha fatte: ma
anche così, non si trattava di rappresentare niente. Rappresentare il
senso di tutto il suo lavoro passato sarebbe stata un’impresa impos-
sibile e comunque inutile, perché quel senso, senza bisogno di alcun
archivio, è già immanente in ciò che Fallini sta facendo giorno per
Carta della memoria - retro
18
giorno, in quanto ciascun’opera presuppone naturalmente tutte quelle
che l’hanno preceduta (questa stessa Carta della memoria si è aggiun-
ta all’insieme che intende rievocare, diventando così una parte del tutto
che cerca di abbracciare). Ma se non lo si può rappresentare, lo si può
tuttavia allegorizzare: e ancora una volta, con il soccorso di Ripa, è l’im-
magine della Memoria che i titoli dei lavori precedenti hanno formato
sulla carta.
La riduzione della tridimensionalità del teatro di Camillo alla bidimen-
sionalità dell’allegoria ha poi suggerito l’idea della mappa, su cui Fallini
insiste, suddividendo la grande immagine (di 200 x 140 cm) in pannelli
pieghevoli, così che l’insieme potrebbe essere ripiegato come si fa con
le carte stradali; e mentre il teatro di Camillo era innanzi tutto inteso a
ingabbiare i dati in un ordine rigido, la mappa di Fallini allude piuttosto
ai tortuosi percorsi del ricordo, simultaneamente familiari ed enigmatici
come i tratti di quest’immagine, prodotta da una tradizione culturale
che non ci è estranea, ma carica di simboli che sono ormai per noi
quasi indecifrabili.
Carta della memoria - particolare fronte
Carta della memoria - particolare fronte
19
In realtà, Fallini si comporta nei riguardi delle sue fonti antiche come
quegli studiosi rinascimentali che, non sapendo decifrare i geroglifici
egiziani, ne proposero letture fantasiose (di tipo allegorico), tentando
addirittura, letteralmente, di reinventarli (i “geroglifici” di Valeriano sono
tra i predecessori dell’iconologia di Ripa e si confondono con gli emble-
mi). Poco importa che le allegorie di Ripa siano perfettamente spiegabili
a chiunque si dia la pena di leggere il testo che le accompagna: Fallini
le contempla con lo sguardo incantato di un ragazzo che sfoglia un
vecchio libro, affascinato dalle illustrazioni più che dal testo, passando
di meraviglia in meraviglia. Se ne ha la riprova nel Saturno-Crono, se-
condo, in ordine cronologico, delle opere esposte. La storia iconogra-
fica del Padre Tempo è stata tracciata in un saggio del 1939 da Erwin
Panofsky, che ha poi dedicato a Saturno addirittura un intero volume,
giustamente celebre, scritto insieme a Klibansky e a Saxl. Dalla massa
di informazioni che si può ricavare da quegli e da altri studi, vale la pena
di ricordare che sembra sia stata soltanto una paromofonia, simile a
quelle che talvolta animano i Witze iconico-verbali di Fallini, a favorire
nel mondo greco la fusione di Kpóvos e di 0póvos : fatto sta che già lo
Pseudo-Aristotele del De Mundo giustifica l’identificazione del dio Crono
(probabilmente pre-greco) con il Tempo (Chronos, appunto), spiegando
che Zeus «è detto figlio di Crono e di Chrono perché si estende senza
termine da un’eternità all’altra eternità»; ma le interpretazioni allegoriche
si fanno più articolate in ambiente stoico (Cleante e Crisippo) e poi neo-
platonico, come riferiscono per es. Plutarco o Cicerone. Nella limpida
prosa di quest’ultimo, che naturalmente tiene conto dell’identificazione
del greco Crono con l’italico Saturno (originariamente dio delle mes-
si), si spiega come il dio che regola lo scorrere del tempo sia detto
‘Crono’ in greco per l’assonanza di cui sopra, ‘Saturno’ in latino «quod
saturaretur annis»: la spiegazione allegorica della sua abitudine di divorare
i figli, raccontata da Esiodo, sarebbe poi il fatto che tutte le cose che
nascono dal tempo sono divorate dal tempo stesso: «ex se enim natos
comesse fingitur solitus, quia consumit aetas temporum spatia annisque praeteritis
insaturabiliter expletur». Spiegazione analoga, ci riferisce Agostino, propo-
neva Varrone, secondo il quale il nome Saturno è connesso a sata: Sa-
turno divora i figli come la terra inghiotte i semi da essa stessa generati
ecc. Non mancavano nemmeno moralizzazioni allegoriche di un altro
Saturno Crono - particolare
20
particolare raccapricciante del mito: la castrazione di Crono ad ope-
ra di Zeus, sempre secondo gli stoici, simboleggerebbe il fatto che il
fuoco eterno da cui tutto nasce genera senza gli organi sessuali che
utilizzano gli uomini e gli animali. Ancora più radicale, come si può im-
maginare, la sublimazione, ad opera di un Plotino o di un Porfi rio, di un
mito che viceversa Ennio non aveva avuto dubbi nell’interpretare, eve-
meristicamente, come testimonianza dell’antropofagia e dei costumi
selvaggi cui erano dediti gli uomini primitivi, prima di essere civilizzati
dal grande legislatore Zeus. Fallini, da principio, sembra attratto proprio
da questa violenza primigenia, letta in una chiave genericamente freu-
diana: era pressoché agli esordi quando in Edipo Crono ha montato
la celebre immagine di Goya con la fi gura di un parricidio, associando
la violenza dei padri a quella dei fi gli, come a denunciare un’alternativa
a cui non ci si può sottrarre e che tuttavia non si sa come decidere. Il
mito di Crono in versione zoomorfa è poi suggerito dai titoli di lavori che
Edipo Crono - particolare
22
presentano semplicemente un cucciolo vicino a un gigantesco adulto
(elefanti, soprattutto), lavori che sarebbe facile interpretare come espres-
sione del rapporto dell’artista con una tradizione che non smette mai di
citare, ma di cui si sentirebbe inconsciamente minacciato. Ironiche inve-
ce due belle pirografi e, Il fi glio di Crono e Kairós, che citano la stessa
fonte iconografi ca, le illustrazioni di un manuale scientifi co o di un’en-
ciclopedia primonovecenteschi, per insistere su altri aspetti del tempo.
Crono Elefante
Crono Elefante - particolare
23
Nella prima un giovane intento a maneggiare una clessidra tenendola in
una curiosa posizione orizzontale, come se si fosse messo a studiare
uno strumento paterno senza conoscerne bene la funzione, non può
non ricordare da una parte il frammento di Eraclito secondo il quale
«aión [il tempo eterno] è un fanciullo che gioca con le tessere di una
scacchiera», dall’altra quel verso degli Eraclidi in cui lo stesso Aióv è det-
to da Euripide «fi glio di Chrono», proprio con l’espressione inconsape-
volmente citata dall’artista nel titolo del lavoro. Non sappiamo se Fallini,
che ama i presocratici e che si è ricordato Eraclito in Corda d’arco
e corda di lira, conosce del fi losofo il frammento citato, un fram-
mento che ancor oggi fa discutere gli interpreti, come del resto ancora
si discute sulla natura di Aión, che abbiamo tradotto sbrigativamente
‘tempo eterno’, ma che in origine signifi cava la ‘forza vitale’, (fi siolo-
gicamente identifi cata con il ‘midollo spinale’, e quindi associato alla
forma del serpente), poi la ‘durata della vita’, ed infi ne, ma solo con
Platone, durata senza limiti e quindi ‘eternità extratemporale’, opposta
in quanto tale a Chronos (tanto che il neoplatonico Proclo, secoli dopo
Euripide, ne ribalta la genealogia, facendo di Aión il padre, e non il fi -
glio, di Chronos). Certo, consapevolmente o meno, la pirografi a di Fallini
Il figlio di Crono
Kairós o l’opportunità di curare la calvizie
25
ripropone, almeno per quel che riguarda l’età, un’immagine del tempo
più arcaica di quella che ha finito per imporsi nella nostra tradizione (un
vecchio barbuto e lento) e antitetica ad essa. Nelle rappresentazioni
antiche, infatti, Aión (nome non a caso derivato da una radice connes-
sa a quella da cui deriva il latino iuvenis) è un giovane vigoroso (proprio
come il figlio di Crono di Fallini), anche se dotato di ali e spesso cir-
condato da un serpente, così come era rappresentato giovane, alato
e con una bilancia in equilibrio sulla lama di un rasoio, Kairós, il tem-
po opportuno, il momento giusto, l’occasione, insomma, o la chance.
Apparentemente Fallini, nel suo Kairós, non si è ricordato di nessuna
di queste caratteristiche, poiché il suo è un maturo signore con una
calotta in testa collegata a un falcone, anch’esso con la testa incap-
pucciata e appollaiato su un trespolo: il sottotitolo – L’opportunità
di curare la calvizie – rende tuttavia più esplicito il riferimento a un
altro tratto simbolico dell’iconografia antica di Kairós, un lungo ciuf-
fo di capelli che adorna una metà del cranio, calvo per l’altra metà.
Tutta la composizione assume allora un significato antifrastico, poi-
ché è una sorta di rappresentazione, più che delle occasioni perdu-
te, delle occasioni che nemmeno si presentano: questo è un Kairós
invecchiato, appesantito e, soprattutto, irrimediabilmente pelato dal-
l’età, che cerca di far ricrescere i capelli, un Kairós infine ripiegato en
abyme su se stesso, poiché per continuare ad offrire agli altri l’oppor-
tunità di afferrarlo al volo per il ciuffo, dovrebbe egli stesso sfruttare
l’opportunità, notoriamente difficile, di far rispuntare la capigliatura.
Se nelle precedenti opere che si riferivano al tempo Fallini si limita-
va ad alludere, di volta in volta, a questo o a quell’aspetto del mito
e/o dell’iconografia connessa, nel presente Saturno-Crono affronta il
26
nocciolo del tema. Il calligrafo autore dell’immagine imitata vi ha infatti
diligentemente raccolto pressoché tutti i tratti simbolici che, in un pro-
cesso secolare, hanno formato l’ allegoria moderna del tempo: le ali
e la clessidra, la falce e la vecchiaia. Sarebbe difficile indicare le fonti,
tanto scarsa è l’originalità della figura, anche se la sua modernità è at-
testata, oltre che dalla tecnica calligrafica, dai cerchi che circondano il
corpo del dio e che alludono probabilmente agli anelli di Saturno (sco-
perti da Huygens nel 1655), nonché dal ciuffo dei capelli spioventi sulla
fronte che ricorda lo stesso particolare nella testa del Tempo delle due
note incisioni di Hogarth. Questa povera declinazione della tradizio-
ne studiata con tanto acume quanta erudizione da Panofsky, non ha
nemmeno la modesta efficacia della stilizzata versione del Padre Tem-
po che lo studioso tedesco, ancora nel 1939, trovava in un’immagine
pubblicitaria della Bowery Savings Bank: l’autore qui si preoccupa sol-
tanto di dimostrare la sua perizia calligrafica. Del resto, è proprio tale
manualistica e anonima fedeltà alla tradizione che ha interessato Fal-
lini, il quale ha sempre evitato di imitare i grandi modelli storici, privile-
giando l’ iconografia divulgativa e popolare, o comunque enciclopedi-
ca (non si dimentichi che anche l’ Iconologia di Ripa è un repertorio). Ed
in effetti i suoi interventi sulla figura apparentemente sono volti soltanto
ad accumulare su di essa ulteriori elementi simbolici al fine di rievocare
aspetti del mito trascurati dal modello: così la lama della falce con la
quale il dio aveva evirato il padre, conforme alla tradizione esiodea, è
formata con caratteri tipografici di piombo per ricordare la sua asso-
ciazione alchimistica con tale metallo (associazione che sembra sia
stata suggerita, e mediata, da un precedente abbinamento astrologico
di Crono-Saturno con il più lento, e dunque il più pesante, dei pianeti);
circa il significato, a tutta prima oscuro, della matita messa di sbieco e
Saturno Crono - particolare
Kairós o l’opportunità di curare la calvizie - particolare27
1
a fi or di labbra, a chi ne chiede ragione Fallini risponde sorridendo che
non si deve leggere «matita» ma «lapis», cioè la pietra che Rea gli aveva
fatto ingoiare al posto del fi glio Giove, come anche il mito racconta.
Infi ne, e soprattutto, l’unica, lunga linea con cui è disegnata l’immagine
è costituita da una curiosa e paradossale sequenza che comincia con
«uno virgola uno», continua con «uno virgola due» e prosegue aumen-
tando il numero dei sedicenti decimali, fi no al termine del percorso,
senza mai raggiungere il «due». I numeri sono scritti con lettere (e non
Le mille e una notte - particolare
tradizionali fi gure con le quali si è cercato di rappresentare quello che
Heidegger chiama il concetto volgare del tempo, vale a dire il circolo e
la retta. La concezione ciclica, che si dice arcaica, e quella lineare e
progressiva, che si dice moderna, sarebbero in realtà inestricabilmente
connesse: solo perché è chiuso e identico a sé in ogni suo punto, il circo-
lo può infatti sembrare una retta infi nita (ininterrotta); ma, viceversa, solo
perché il tempo è pensato come una serie di punti identici fra loro (tutti
livellati sull’ora presente), la linea s’incurva necessariamente in un anello.
I paradossi di Zenone (che forse Fallini ha avuto in mente quando ha progettato il lavoro) tradotti in sequenza numerica dànno, per es., la serie 1,5; 1,25; 1,125; 1, 0625; 1,03125; 1,
015625, ecc., una serie di cui ben pochi spettatori sarebbero in grado di decifrare il signifi cato.
con le cifre cosiddette arabiche) e abbiamo parlato di «sedicenti» deci-
mali non a caso: dopo l’1,9, insegna l’aritmetica, c’è il 2 e non l’1,10, che è
esattamente equivalente all’1,1; dunque, quando si passa dell’«uno virgola
nove» all’«uno virgola dieci», in realtà si torna indietro (la stessa conside-
razione naturalmente vale per il passaggio dall’«uno virgola diciannove»
all’«uno virgola venti», dall’«uno virgola ventinove» all’«uno virgola trenta»
ecc.). In altri termini, l’impressione di una serie infi nita che si avvicina sem-
pre di più al limite senza mai raggiungerlo è ottenuta solo grazie a uno di
quelli che Bacone chiamava gli idola fori, vale a dire è un’apparenza illusoria
prodotta da un uso improprio del linguaggio; ma il fatto è che sarebbe sta-
to assai diffi cile rendere tale impressione in modo immediato con una se-
quenza più rigorosa . E d’altra parte il Kairós, la chance già nume tutelare dei
dadaisti e dei surrealisti, è venuto in soccorso anche di Fallini, che si con-
sidera un loro umile erede: questa sequenza che sembra avanzare e che
invece torna indietro (o viceversa), racchiude il senso aporetico delle due
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Viene allora da ripensare all’adagio lucreziano secondo il quale il tem-
po non è sostanza (tempus item per se non est): se lo mettiamo a con-
fronto con la fi gura di Fallini del dio, può darsi che troviamo un’attuale
conferma del credo epicureo, oppure, il che è anche più probabile,
la nostra mente si libera e senza più curarsi del peso del tempo né
dell’eternità, preferisce gustare la parvenza di un passo leggero o
di un volo colto di sorpresa, che la plumbea falce non trattiene e ri-
mane semmai irretito nella bizzarria insinuante delle proprie volute.
Eccessivo, o meglio iperbolico, questo Saturno che con passo levato,
in realtà, non avanza di un passo e non dispiega le ali, consiste di una
scrittura maniacale e monotona che enumera, di séguito, i decimali
dell’uno e, uno dietro l’altro, ne scandisce la serie con la pazienza
delle virgole, senza tradire dove la lezione abbia inizio né dove fi nisca
né, tanto meno, se insegua qualcosa. A dire infi ne che il tempo intanto
scorre, non ostante l’apparente immobilità della posa, basterà una
clessidra porta innanzi con garbo? Quando mai si dirà che la misura
del vaso è colmata? e che il volo e l’orbita stessa del volo è compiuta?
La scrittura ha formato allo stesso tempo l’immagine e, non già il fon-
do, ma lo spazio in cui l’immagine insiste; Saturno da sé ha generato
gli anelli di cui si cinge nel cielo cartaceo defi nito o illuso dal piombo.
Il caso ha voluto che Fallini scoprisse la risorsa del piombo, come
già in anni lontani aveva fatto col legno, la tela, la carta, il vetro e, in
tempi recenti, col perspex. Sulle diverse superfi ci di quasi tutti que-
sti diversi materiali (escluso forse il perspex soltanto) si è diffusa la
sua uguale lenta scrittura: a copiare, a trascrivere; a rifare imitando,
sempre a ripetere. Non esente dal tributo necessario del tempo,
perché in esso diviene, la scrittura tende sempre a prescinderne e a
stare: il grande lenzuolo delle Mille e una notte può ancora essere
Saturno Crono - particolare
Le mille e una notte - particolare
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lo smentisce perché in ogni momento lo sintetizza nell’hic e nel nunc,
e continuamente ripropone, pleonastica, la manifestazione di sé. Av-
verso come è sia al padre sia ai fi gli, non può che ridursi a ripetere
che egli è colui che è presente nella serie dei segni in cui è scritto.
Tale condizione del resto si spiega: nella cronologia dei lavo-
ri di Fallini (nella sua «genealogia degli dei», verrebbe voglia di
dire) Saturno è successivo alla Memoria e precede la Stampa;
è quasi dunque fi glio, per l’autore, della memoria di sé rifatta pre-
sente nella scrittura che ha enumerato le opere a una a una, e pa-
dre di un simbolo madornale, che codifi ca in peso il desiderio.
Ne La Stampa il piombo, che dilaga massiccio in tutta la composizione,
sembra infatti la materializzazione, ponderabile per così dire, della sfi da
al tempo e allo spazio proclamata dalle due uniche parole che è possibile
leggere nell’allegoria (ancora una volta tratta da Ripa): «semper» e
«ubique». Si noti che in questa circostanza Fallini non scrive nulla, a
parte gli avverbi citati, e utilizza i caratteri tipografi ci solo per forma-
re l’immagine. Sembrerebbe di trovarsi agli antipodi del Nome della
rosa e degli altri manoscritti (vero o falsi che siano): se la copia mano-
scritta del romanzo ‘cancellava’ le copie tipografi che, qui l’immagine
costruita con caratteri tipografi ci ‘cancella’ il disegno originario e la
sua incisione sul legno della matrice. Ma non si tratta di una riscoper-
ta di Gutenberg da parte di Fallini, sebbene dell’emergere di un’altra
tendenza caratteristica del suo lavoro. L’allegoria non rappresenta
soltanto la stampa, in quanto è essa stessa (fatta di) stampa: natural-
mente questo è vero anche dell’originaria xilografi a di Ripa; ma l’espe-
diente utilizzato da Fallini fa arretrare in secondo piano l’allegoria,
Passim
avvolto su se stesso come quando l’opera era in corso, ma poi si apre
a dipendere dalla luce che passa attraverso. Per non dire del testo della
Bibbia che decora la chiesa della SS. Annunziata, addirittura a far corpo
con la struttura muraria. Dalla penna a sfera al computer ai caratteri
in piombo, la scrittura ogni volta incide una porzione di signifi cato sot-
traendola al vuoto in cui si perdono tutti i segni non scelti. La scrittura in
tal modo ambisce a trascendere il tempo, a dignifi care l’esempio, tra-
sformando il casuale in monumento presente. In Saturno per l’appunto
è questo che conta, il fatto che delle dimensioni temporali a cui si riferi-
sce per abitudine la conoscenza delle cose, passato e futuro risultano
parimenti avulsi, e che il solo presente ancora rimane, tanto quanto la
scrittura ha perseguito la sua autistica conta, fatta apposta per esserci,
senza valere a nulla. Saturno, che a modo suo scrive il tempo, in realtà
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Flatus vocis
Saturno Crono - particolare
come se la stampa esibisse se stessa. Del resto due impressioni su
carta (in cui le due scritte compaiono rovesciate, donde il loro nome:
Errore di stampa) concludono l’esibizione, dimostrando la riproduci-
bilità garantita dal mastodontico blocco metallico. Appare qui, in altri
termini, una inclinazione all’autoreferenzialità che resta una tentazione
costante dell’opera di Fallini: il telos involontario di tutti i lavori in cui pre-
vale il principio dell’imitazion-ripetizione, proprio perché si ripetono, è
l’autonimia, giacchè l’iterazione dei signifi canti fi nisce per sovrapporsi
ai signifi cati. Con un approdo paradossale, e certamente non perse-
guito, ma altrettanto certamente assunto per coerente fedeltà alla
logica del sistema, le formule imitate (soprattutto quando si tratta di
testi scritti) scivolano fatalmente verso il puro nome di sé: non sem-
pre, e non deliberatamente - chè Fallini va piuttosto alla ricerca dei
signifi cati e non si stanca di intessere i suoi lavori su molteplici quanto
enigmatiche analogie, reperite con puntigliosa acribia -, ma l’intera
sua produzione è di quando in quando punteggiata, per così dire, dall’
affi oramento dell’autonimia, già a partire da Passim, citazione che
cita se stessa nell’atto di citarsi, ma in maniera ancora più esemplare
nelle diverse versioni dello splendido Flatus vocis. Nulla, nemmeno
la periodicità di una ricorrenza, sembra governare queste emergen-
ze, che restano tuttavia dettate da una necessità sistematica, poiché
si manifestano nel momento in cui il processo di iterazione, forse per
una sorta di saturazione interna, si ripiega su di sé nella sfera che
Hegel denomina della rifl essione. Fatto sta che, proprio perché non
cercati, questi sono tra i momenti più alti della produzione di Fallini:
la formula che esibisce se stessa, l’autonimia, è, al tempo stesso,
la parodia della funzione poetica come è stata defi nita da Jakob-
son e, proprio in quanto tale, l’emblema di tutta l’opera dell’artista.
31
La Stampa - particolare
D’altra parte abbiamo fi n qui seguito Fallini in quello che egli considera
il nocciolo del suo lavoro, che consisterebbe, sostiene, in un «montag-
gio di signifi cazione». Sia pure; per quanto a noi sembra piuttosto che
la «banca di immagini» di cui parla già esiste ed è la sua che detie-
ne, riprodotta, ordinata e riordinata più volte e catalogata al computer,
la messe copiosa dell’intero suo indefesso lavoro. Che risulta infi ne, a
ben vedere, rielaborazione assidua e metamorfosi di signifi canti, non-
ché montaggio di signifi cazione. Quante Imitazioni, Lussurie, Giustizie,
Memorie si contano nell’ottimo catalogo? in legno, nel vetro, coi chiodi,
a stampa (cioè coi caratteri in piombo)? E quella stessa Imitazione, pu-
tacaso, diviene, non è più la stessa. La forma dipende dal mezzo non
meno che dalla mente, e il mezzo, ovvero la materia, impronta il linguag-
gio col quale la mente si esprime e comunica, nei vari modi possibili.
L’ambiguità della scrittura alfabetica usata da Fallini fa sì che i caratteri,
questi in piombo della falce di Saturno, per esempio, o della Stampa,
deposta la consueta valenza linguistica, ne assumano un’altra, emi-
nentemente sensoriale e plastica, dove la lettera «A» non vuol più
essere letta come segno del fonema a, ma come tratto grafi co e
come spessore. Trasposti e piegati ad una signifi cazione ben diversa
da quella che per solito gli è commessa, i caratteri in piombo, presi
uno a uno e deposti sul foglio, lentamente disegnano, ingrossano, alla
luce radente si annettono uno strascico d’ombra, non diversamen-
te da quanto, a suo tempo, avevano fatto i chiodi, capaci di simula-
re, con le punte, la tenerezza del velluto. E come ciascun carattere
è diventato semplice cellula formale, così l’insieme dei caratteri, non
trasmette più un testo e nemmeno un’allegoria, ma solo se stesso.
Andrea Calzolari - Maria Rosa Torlasco
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Saturno Crono
Errori di Stampa
La Stampa
Carta della memoria (fronte)
Imitazione
Imitazione
Imitazione
Il nome della rosa
Le mille e una notte (fronte e retro)
La Bibbia
Lettera d’amore (Zone)
Marina
Carta della Memoria (retro)
Edipo Crono
Crono Elefante
Corda d’arco e di lira
Il fi glio di Crono
Kairos o l’opportunità di curare la calvizie
Passim
Flatus vocis
Opere
Inchiostro su carta,
caratteri tipografi ci in piombo
Inchiostro su carta
caratteri tipografi ci in piombo su carta
Inchiostro su carta
Chiodi, legno
Ossido di ferro
Vetro
Inchiostro su carta
Penna a sfera su lenzuolo
Serigrafi a su ceramica
Inchiostro su carta
Legno
Carta marmorizzata
Collage
Tecnica mista su tela
Vetri fusi, incisi, neon
Pirografi a su legno
Pirografi a su legno, tecnica mista
Vetro fuso
Pirografi a su legno, rossetto
100 x 150
145 x 175
145 x 175
140 x 200
150 x 200
67,5 x 100,5
36 x 44 x 10
86,5 x 289,5
237 x 345
231 formelle - ogni formella 50 x 25
70 x 100
h 98,5
140 x 200
43 x 60
50 x 70
192 x 140
80 x 80
31 x 71 x 7
46 x 46
30 x 30
“La Bibbia nella Chiesa della S.S. Annunziata di Alessandria” video di Luca Busi durata 8’
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