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MARIO GANDOLFO GIACOMARRA
Fare cultura in SiciliaPercorsi di sociologia dei processi culturali
Salvatore Sciascia EditoreCaltanissetta-Roma
PROPRIETà LETTERARIA RISERVATA©
Copyright 2007 by Salvatore Sciascia Editore s.a.s.Caltanissetta-Roma
ISBN 978-88-8241-248-7
Stampato in Italia / Printed in Italy
Introduzione
Fare cultura si puĂČ considerare uno degli oggetti di studio me-glio definiti della âSociologia dei processi culturaliâ. Certo, il mo-do di denominare questo orientamento di studi, diffuso ormai daqualche anno in ambito accademico, perde la pregnanza semanti-ca di quello prima indicato col nome di âSociologia della culturaâ:lĂŹ infatti a imporsi era il termine cultura, non inteso in senso uma-nistico (âsintesi armonica delle cognizioni di una persona, con lasua sensibilitĂ e le sue esperienze; dottrina, istruzioneâ), nĂ© in sen-so antropologico (âcomplesso delle manifestazioni della vita ma-teriale, sociale e spirituale di un popoloâ). Il concetto di culturacondiviso e praticato in ambito sociologico Ăš diverso: la culturadei sociologi, per come Ăš stata intesa, non Ăš qualitĂ individuale nĂ©espressione di popoli, ma prodotto di operatori culturali che, dimestiere (Ăš il caso di dire), âfanno culturaâ o âproducono eventiâ(come oggi si preferisce dire) nella societĂ . Per come si Ăš configu-rata nei settantâanni trascorsi dalla nascita, la Sociologia della cul-tura ha perciĂČ focalizzato lâattenzione sui rapporti storicamenteosservabili tra i sistemi sociali e le produzioni culturali, da unaparte, e le attivitĂ e gli interessi di coloro che li promuovono e lirealizzano, dallâaltra.
Partendo dagli apporti di Karl Mannheim e di Max Scheler(due veri e propri classici della Kultursoziologie tedesca degli anniVenti e Trenta del Novecento), lâambito sociologico originario,per come si riconfigura a partire dagli anni Sessanta, si arricchiscee si precisa grazie ai fondamentali contributi sullâindustria cultu-
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rale elaborati da Edgar Morin in Francia e dai Cultural Studies inGran Bretagna. In questa sede, in ogni caso, non possiamo tra-scurare il fatto â richiamato opportunamente da Luciano Gallinoâ che al suo recente rinnovamento âhanno contribuito la diffusio-ne degli studi sul pensiero di Gramsci, non solo in Italia ma purein Francia e in Gran Bretagna, con lâattenzione che esso reca alruolo degli intellettuali come produttori e mediatori di cultura aduso della classe sociale da cui emergono o a cui si riferiscono; losviluppo di una corrente strutturalista in seno al marxismo (Gold-mann, Althusser); la crescita degli studi di semiotica generale; lacritica della cultura di massa degli esponenti della teoria criticadella societĂ â (1978, 207).
Le riflessioni che lâideologo sardo dedica alla storia degli intel-lettuali e allâattivitĂ culturale in Italia sono al riguardo ricche di si-gnificato. Egli parte, comâĂš noto, dalla constatazione che âognigruppo sociale, nascendo sul terreno originario di una funzioneessenziale nel mondo della produzione economica, si creano in-sieme, organicamente, uno o piĂč ceti di intellettuali che gli dannoomogeneitĂ e consapevolezza della propria funzione non solo nelcampo economico, ma anche in quello sociale e politico. [Tali so-no] il tecnico dellâindustria, lo scienziato dellâeconomia politica,lâorganizzatore di una nuova cultura, di un nuovo dirittoâ. Il ruo-lo degli intellettuali risulta meglio precisato nei brani successivi.Dopo aver notato infatti che gli âintellettualiâ non sono altro cheâspecializzazioniâ dellâattivitĂ primitiva messa in luce dalla nuovaclasse sociale, Gramsci osserva che essi incontrano âcategorie so-ciali preesistenti⊠rappresentanti una continuitĂ storica ininter-rotta anche dai piĂč complicati e radicali mutamenti delle forme so-ciali e politiche. La piĂč tipica di queste categorie intellettuali Ăšquella degli ecclesiastici, monopolizzatori per lungo tempo di al-cuni servizi importanti: lâideologia religiosa, cioĂš la filosofia e lascienza dellâepoca, con la scuola, lâistruzione, la morale, la giusti-zia, la beneficenza, lâassistenzaâ (1977, 3-5).
In un passaggio ulteriore il pensatore introduce una netta di-
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stinzione fra due tipi di intellettuali, gli uni di tipo urbano, gli al-tri di tipo rurale: i primi âsono cresciuti con lâindustria e sono le-gati alle sue fortune. La loro funzione puĂČ essere paragonata aquella degli ufficiali subalterni nellâesercito: non hanno nessunainiziativa autonoma nel costruire i piani; mettono in rapporto, ar-ticolandola, la massa strumentale con lâimprenditore, elaboranolâesecuzione immediata del piano di produzioneâ. Gli intellettualidi tipo rurale, invece, appaiono piĂč legati alla tradizione, sono âle-gati alla massa sociale campagnola e piccolo borghese di cittĂ (spe-cialmente dei centri minori), non ancora elaborata e messa in mo-vimento dal sistema capitalistico: questo tipo di intellettuale met-te in contatto la massa contadina con lâamministrazione statale olocale (avvocati, notai, ecc.) e per questa stessa ragione ha unagrande funzione politico-sociale, perchĂ© la mediazione professio-nale Ăš difficilmente scindibile dalla mediazione politicaâ.
Proprio per la specifica collocazione degli intellettuali di tiporurale, legati alla tradizione ma in condizioni di assolvere a fun-zioni politico-sociali, Gramsci attribuisce loro, in determinatecondizioni, il ruolo di produttori e mediatori di cultura: âOgni svi-luppo organico delle masse contadine, fino a un certo punto, Ăš le-gato ai movimenti degli intellettuali e ne dipende⊠Altro Ăš il casodegli intellettuali urbani: i tecnici di fabbrica non esplicano alcu-na funzione politica sulle loro masse strumentali, o almeno Ăš que-sta una fase giĂ superata; talvolta avviene proprio il contrario, chele masse strumentali, almeno attraverso i loro propri intellettualiorganici, esercitano un influsso politico sui tecniciâ (ivi, 11-12).Ne risulta in qualche modo legittimata (o legittimabile) unâatten-zione non piĂč, o non solo, rivolta allâindustria culturale nel sensointeso dai sociologi, ma al complesso di attivitĂ e iniziative incen-trate sulla cultura, declinata nelle sue diverse accezioni, e alle nuo-ve figure che se ne fanno promotrici.
Da qui discende lâarticolazione del volume. Si comincia infatticon il registrare lâattenzione riservata dagli studiosi dellâOttocen-to ai dati linguistici dellâuniverso folklorico e da intellettuali e
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agrari al lavoro contadino tradizionale, per poi passare a rilevareunâattenzione ben piĂč avvertita e scientificamente attrezzata: quel-la riservata alla cultura, e a quella materiale in specie, da operato-ri culturali riuniti attorno a centri universitari di ricerca linguisti-ca e socioantropologica. Si concentra quindi lâattenzione su dueoperatori culturali dâeccezione che la nostra Isola ha avuto asse-gnati in sorte nel corso del Novecento: Ignazio Buttitta e Leonar-do Sciascia. Ma il percorso qui tracciato non avrebbe il senso cheabbiamo inteso dargli se non viene collocato in un quadro di tran-sizione che a tratti sembra non aver fine: in tal senso la Sicilia puĂČcostituire un modello paradigmatico, alcuni suoi comprensori inparticolare. Da qui i capitoli dâapertura: partendo da alcune pre-cisazioni intorno a una sociologia della transizione e al rapportolingua-cultura-societĂ , vi rileggiamo il processo di italianizzazionedei parlanti del Mezzogiorno dâItalia come una specifica modalitĂ della transizione stessa.
Nel titolo dato al volume abbiamo voluto recuperare il sensoprimo del fare cultura, appunto, in una regione in perenne tran-sizione. Quanto ai percorsi del sottotitolo, Ăš solo per indicare cheogni capitolo riprende tappe successive di ricerche condotte nel-lâarco di piĂč di ventâanni: ai saggi qui riprodotti si puĂČ attribuireun senso se si tiene infatti presente che ogni contributo costituiscela tessera di un mosaico in via di perenne costruzione e ricostru-zione.
Una testimonianza, infine. I saggi che qui presentiamo sonostati concepiti in seno a quello speciale laboratorio culturale che Ăšstata la rivista âUomo & Culturaâ: due sono stati accolti fra le suepagine (mentre altri due sono stati ospitati in âHumanaâ, quader-ni dellâallora Istituto di scienze antropologiche e geografiche). Na-ta nel 1968, grazie allâiniziativa di Antonino Buttitta, che ne Ăš sta-to direttore scientifico, e alla disponibilitĂ dellâeditore SalvatoreFausto Flaccovio di Palermo, la rivista ha cessato le pubblicazioninel 1993, dopo venticinque anni di intensa attivitĂ . Pur col sotto-
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titolo di âRivista di studi etnologiciâ prima e di âRivista di studiantropologiciâ dal 1979 in poi, essa ha accolto contributi di gran-de rilievo, che vanno ben oltre lo specifico etnoantropologico, colpreciso intento (ribadito nellâEditoriale di apertura) di arricchirloe innovarlo nei contenuti e nei metodi. Ă stata infatti una tra le pri-me a pubblicare in Italia saggi di semiotica, in anni in cui quel set-tore di studi era ancora guardato con sospetto a livello nazionale,ma proficuamente coltivato in ambienti francesi e americani: sipensi ai contributi di studiosi di rilievo internazionale come Algir-das Julien Greimas e Umberto Eco. Nel succedersi delle annate, sialternano saggi di semiotica della cultura (di Jurij M. Lotman), dilinguistica (di JĂĄnos SĂĄndor Petöfi), di narratologia (di Axel Ol-rik), di epistemologia (di Jean Piaget), e poi ancora di autori comeEric A. Havelock, Jean-Pierre Vernant, Marc AugĂ© e Claude LĂ©vi-Strauss, solo per citare gli stranieri di rilievo internazionale.
A partire dal 1971 alla rivista si Ăš associata una collana di volu-mi, âUomo & Cultura testiâ: che siano opere di singoli studiosi oAtti di convegni, non ce nâĂš uno che non offra conferma del valo-re della linea scientifica e editoriale coltivata nel tempo.
Ma âUomo & Culturaâ Ăš stata anche una palestra per giovanistudiosi impegnati nella ricerca sul campo in Sicilia, di cui hannoricostruito e analizzato aspetti della cultura tradizionale, oppurehanno ripreso e studiato le modalitĂ del âfare culturaâ da parte diintellettuali e umanisti isolani di riconosciuto valore. Ă stato quelgenere di ricerche, in una prospettiva dunque non solo antropo-logica ma anche sociologico-culturale, ad aver gettato lampi di lu-ce su unâIsola giĂ allora immersa in quella transizione che dura an-cora oggi.
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I. ComunitĂ in transizione
1. Il mutamento e la transizione
Nellâintroduzione al volume sul cambiamento sociale, terzo diuna silloge tesa a ripercorrere le tematiche centrali della modernasociologia occidentale, Guy Rocher rileva come sia paradossaleche la sociologia, pur avvertendo come costante la dimensione delcambiamento, sia rimasta indietro nellâanalisi di quella che eglichiama la âstoricitĂ socialeâ. âLa societĂ Ăš storia â scrive infatti â.Essa Ăš costantemente coinvolta in un movimento storico, in unatrasformazione di se stessa, dei suoi membri, del suo ambiente,delle altre societĂ con le quali sta in rapporto. Suscita, subisce oaccoglie in continuazione forze esterne o interne che ne modifica-no la natura, lâorientamento, il destino. Che sia in modo brusco,lento o impercettibile, ogni societĂ registra giorno dopo giornocambiamenti, piĂč o meno in armonia col suo passato, che seguo-no un disegno piĂč o meno esplicitoâ (1972, 5).
Le scienze sociali, in realtĂ , non hanno ignorato il divenire co-me carattere intrinseco del sociale. Erano lontane perĂČ anche dalsolo immaginare una sociologia del mutamento, e pensavano sem-mai a una sociologia dellâevoluzione, tesa a cogliere e studiare il di-venire come una delle âtendenze secolariâ della societĂ nel suocomplesso. Comte, ma anche Marx (solo per citare due nomi) ri-flettevano volentieri sul âdestino della storiaâ perchĂ© le societĂ
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sembravano mosse ovunque dalle stesse forze, le forze del âpro-gressoâ. âI primi sociologi hanno osservato la realtĂ sociale â fini-sce per concludere Rocher â non con lâocchio del fotografo che nefissa un momento fuori dal tempo, ma bensĂŹ con lâocchio del ci-neasta che ricostruisce sulla pellicola il movimento degli esseri e ilcorso degli avvenimentiâ (ivi, 7).
La situazione cambia del tutto quando dalle âtendenze secola-riâ si passa ad esaminare le singole societĂ , o meglio aspetti deter-minati del loro cambiamento. Sono quelli che Wilbert Moorechiama i âmutamenti su piccola scalaâ e che definisce âmutamen-ti dei caratteri delle strutture sociali che, pur essendo comprese inun sistema generale identificabile come societĂ , non hanno alcunaconseguenza immediata e di rilievo per la struttura generale (la so-cietĂ ) in quanto taleâ (1971, 75). A questo livello di osservazionetutto appare piĂč complesso e contraddittorio, e si fa fatica a co-gliere la linea del âprogressoâ tanto familiare ai padri fondatoridella sociologia. Qui non Ăš facile individuare le forze che determi-nano il mutamento, nĂ© si puĂČ sostenere con certezza il prevaleredellâuna sulle altre. âI sociologi non si sentono ancora in grado dispiegare e interpretare il cambiamento sociale. Avvertono la man-canza di un apparato concettuale e teorico, di tecniche di ricerca,di strumenti di misurazione appropriati allâosservazione e allâin-terpretazione dei mutamenti di strutturaâ (Rocher 1972, 15).
Solo di recente, per comprendere il complesso dei piccoli cam-biamenti, contrastanti e dalle molteplici direzioni, la sociologia hacominciato a elaborare strumenti adeguati di cui in passato eralontana dal disporre. CiĂČ consente di cogliere il delinearsi negli ul-timi anni di una âsociologia del mutamentoâ, che riesce ad anda-re oltre le formulazioni di principio.
Ma ciĂČ che intendiamo con transizione puĂČ ridursi a ciĂČ che disolito chiamiamo mutamento o cambiamento? Non câĂš qualcosadi piĂč complesso, di piĂč profondo nel primo termine su cui quistiamo provando a richiamare lâattenzione?
Su un piano superficiale (ricostruzioni etimologiche comprese)
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con transizione si Ăš soliti intendere il âpassaggio da uno stato, dauna condizione, da una situazione a unâaltra, sia in senso statico,come condizione intermedia definita, che in senso dinamico, inquanto implichi lâidea di unâevoluzione in attoâ.
Ma, se consideriamo espressioni correnti come âunâetĂ , unâepo-ca di transizioneâ, nasce il dubbio che le cose non stiano esatta-mente cosĂŹ nellâuso odierno: sulla base di partenza, almeno, sem-brano essersi innestate nuove componenti semantiche che di tran-sizione ci danno unâidea diversa. In ambito economico e politico,soprattutto, si sente spesso dire che viviamo una transizione che nongiunge mai a termine; oppure che la transizione in cui siamo im-mersi Ăš lungi dal definire proprie tappe di svolgimento; oppure an-cora che la transizione in atto Ăš lontana dal raggiungere risultati in-novativi di una qualche consistenza: lâindefinibilitĂ della âtransizio-ne che non finisceâ sembra mettere in dubbio, insomma, quanto ri-levato dai lessicografi con la âcondizione intermedia definitaâ.
Un simile modo di intendere la transizione viene fatto valereper i contesti piĂč diversi, dai Paesi (o interi continenti) in velocesviluppo economico come la Cina, a regioni come la Sicilia, e ingenere il Mezzogiorno dâItalia, dove processi di mutamento si so-no innescati in ritardo rispetto ad altre aree della penisola e nonhanno conseguito ancora stabili risultati. âSiamo in una transizio-ne che non finisceâ Ăš appunto il lamento di politici, economisti eopinionisti impegnati a riflettere sulle condizioni di questa partedâItalia. Dal che ricaviamo lâopinione che nel termine usato ci siasĂŹ una dimensione economica, con riflessi obbligati sul sociale, maci sia soprattutto una dimensione che diremmo psicologica, o psi-cologico-sociale che a tratti richiama Gabriel Tarde e i pensatoridi fine Ottocento. Anchâessi erano infatti immersi in veloci pro-cessi di cambiamento innescati dallâindustrializzazione, processiche sfaldavano le antiche reti sociali e portavano a aggregati deltutto nuovi, ma indefinibili, come la massa e i conseguenti feno-meni di massificazione (non si parlava ancora di manipolazione,ma non ci sarebbe voluto molto!).
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Allâodierno concetto di transizione, per come qui lo stiamo in-tendendo, si accompagna, a quanto Ăš dato capire, un alto senso diinsicurezza, una mancanza di fiducia nel futuro, unâincapacitĂ aintervenire sui processi in atto, una difficoltĂ a prefigurarsi qual-siasi futuro. Gli attori sociali immersi nella transizione Ăš come sestessero in una situazione di attesa, insoddisfatti del presente e in-capaci di immaginare un futuro; nutrono poca fiducia nella di-mensione pubblica e, anche se disponibili a praticare attivitĂ divolontariato o atti di solidarietĂ , in pochi sono disposti a sacrifi-carsi per il bene comune. Tendono invece a concentrare tutta lâat-tenzione sul loro spazio privato: famiglia, interessi personali, grup-po di lavoro. In molti casi si fa imperante il bisogno di affidarsi aqualcuno ritenuto in grado di risolvere i problemi, sia quelli veri ereali sia quelli solamente immaginati. Da qui il nascere, o il molti-plicarsi, dei fenomeni di patronage e clientelismo con i quali spes-so e volentieri le popolazioni del Mezzogiorno, piĂč di altre, si so-no trovate a operare, promovendoli e sostenendoli (Li Causi1979).
Su questo torneremo piĂč avanti. Qui intendiamo invece mo-strare come uno stato di âtransizioneâ, nel senso qui proposto, hacominciato ad essere avvertito in Occidente e a costituire proble-ma (anche se non câera ancora la parola a indicarlo) una sessanti-na di anni fa, in Francia prima che altrove. Quel Paese era impe-gnato allora a smantellare le colonie maghrebine le quali, come poiil tempo avrebbe avuto modo di mostrare, non venivano perĂČ au-tomaticamente inserite in un processo di mutamento e moderniz-zazione, ma bensĂŹ immerse in una transizione che dura ancora og-gi e che Ăš lungi dal concludersi. Non Ăš un caso che ne siano con-seguiti nuovi fenomeni, di tipo neocolonialista (Lanternari 1975):i flussi migratori in atto possono essere considerati in gran parte,se non esclusivamente, figli del vecchio colonialismo e della suc-cessiva decolonizzazione.
Se diamo per vero quanto stiamo osservando, la prima esigen-za che si impone a chi si occupi delle realtĂ regionali, nazionali o
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continentali appena richiamate Ăš quella di disporre non di model-li evoluzionisti generali, ma di strumenti atti allo studio di feno-meni osservabili e descrivibili in periodi di tempo limitati, oltreche localizzati sul piano geografico e sociale. Un contributo pre-zioso in tal senso viene appunto dai socioetnologi francesi impe-gnati a studiare gli effetti prodotti dallâirrompere sulla scena mon-diale dei paesi del Terzo Mondo, e dalle dinamiche da essi inne-scate. Studiando criticamente i processi di colonizzazione, con tut-to ciĂČ che essi comportavano quanto a distruzione delle culture lo-cali, e i ben piĂč rapidi processi di decolonizzazione, si rivelavanopoco o punto efficaci gli strumenti dellâantropologia funzionalista.Non si trattava infatti di descrivere in sincronia societĂ stabili e inequilibrio, in cui tutto funzionava per il solo fatto di esistere, madi cogliere e registrare cambiamenti, rotture violente, incrinaturedi antichi equilibri e lento ricostituirsi di nuovi.
Gli studiosi che si muovono in queste realtĂ elaborano stru-menti dâanalisi diversi rispetto al passato, enucleando nuove pro-blematiche e mettendo in luce nuove tematiche. Il lavoro cheesprime al meglio le istanze emergenti Ăš, significativamente, Socio-logie actuelle de lâAfrique noire. Georges Balandier, che ne Ăš auto-re, assume a oggetto di riflessione il concetto di âsituazione colo-nialeâ, intesa nella sua accezione primaria di âsituazione di dipen-denzaâ. Egli osserva come nessuna delle societĂ in esame sia un si-stema perfetto, chiuso e autosufficiente, e ognuna viva invece inuna transizione continua, un susseguirsi di discordanze, un rom-persi continuo di equilibri sociali appena raggiunti, un accendersie uno spegnersi di dinamiche sociali spesso solo accennate.
Di fronte a situazioni cosĂŹ nuove Ăš difficile individuare e soste-nere determinismi di alcun genere. Ci si trova infatti in presenzadi una pluralitĂ di fattori che interagiscono, di cause complesse emai a senso unico. Fattori economici, demografici e culturali (pernon ricordarne che alcuni) si correlano lâuno allâaltro e mettono inmoto processi di cambiamento di cui Ăš difficile prevedere lâesito.Su una simile impossibilitĂ di previsione Rocher torna piĂč volte:
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âĂ lecito chiedersi â scrive ad esempio â se esiste veramente unateoria sociologica del cambiamento. PerchĂ©, se una tale teoria esi-stesse, essa dovrebbe permettere la predizione di avvenimenti fu-turi. In effetti, la verifica delle predizioni Ăš il solo test di validitĂ diogni teoria del cambiamento. Ora â conclude, forse drasticamen-te â i sociologi devono riconoscere che non Ăš affatto possibile fa-re predizioni fondate scientificamenteâ (1972, 16).
Il quadro delineato, sostanzialmente venato di scetticismo epessimismo, non deve trarre in inganno. Gli agenti e i fattori delmutamento sono profondamente connessi e, pur risultando diffi-cile sostenere che uno prevalga sugli altri, non Ăš impossibile co-gliere prevalenze specifiche in casi determinati. In ogni situazioneparticolare Ăš possibile invece cogliere proprie direzioni di muta-mento, non generalizzabili; allo stesso modo Ăš possibile registraremaggiori incidenze di certi fattori di mutamento rispetto ad altri.âIl sociologo deve essere profondamente convinto che esistono, inogni situazione concreta, fattori dominanti di spiegazione; ma de-ve essere ugualmente convinto che non esistono, in assoluto, mo-delli generali di causazione sempre applicabili in maniera unifor-meâ (ivi, 179).
Ă significativo che Rocher parli al sociologo avendo perĂČ pre-sente lâesperienza umana e scientifica dellâantropologo. In realtĂ ,piĂč che in altri settori, lo studio delle societĂ in transizione Ăš diquelli che piĂč fanno appello a strumenti elaborati dal sociologo einsieme dallâantropologo. Ogni fatto di mutamento, in quantoprodotto da cause molteplici, genera a sua volta ulteriori effetti suipiani piĂč diversi, non ultimi quello sociale e quello culturale tantoprofondamente correlati da risultare sostanzialmente inscindibili.Pertanto, solo indagini in cui il taglio sociologico si coniughi aquello antropologico sono in grado di fornire quadri completi del-le realtĂ in trasformazione.
Non Ăš un caso, del resto, che Edgar Morin si riferisce ad essiquando parla di âsociologia del presenteâ ripensando allâindaginecondotta sulla âmetamorfosiâ di PlodĂ©met, un piccolo centro
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brettone del Sud FinistĂšre, nella Francia del Nord-Ovest. Una so-ciologia di quel genere ânon rispetta le frontiere tra le discipline;essa le abbraccia per adattarsi prima di tutto al fenomeno studia-to⊠[Ă] in funzione della realtĂ studiata che viene elaborato ilmetodo dâinchiestaâ. E il metodo âĂš prossimo a quello dellâetno-grafo quando mira a circoscrivere un gruppo sociale come unâu-nitĂ originale, non quando si preoccupa solo della dimensione tra-dizionale della comunità ⊠A differenza dellâetnografia, la socio-logia del presente esige di prendere in considerazione il tempo e[di conseguenza] si apre sul mondo esterno. Come la storia, essainterroga lâevento, si concentra sui momenti di rottura e di crisi,fissandosi sul cambiamento e sul divenireâ (1969, 10-11).
2. Unâarea paradigmatica: la Sicilia
Quanto finora osservato puĂČ trovare conferme in unâisola co-me la Sicilia, la cui storia economica e sociale, soprattutto dopolâUnitĂ , ha registrato un continuo succedersi di periodi di stagna-zione e fasi di sviluppo. Abbiamo altrove ricostruito un simile al-ternarsi di speranze e timori anche sul piano della ricerca (Giaco-marra 2005) e da questo punto di vista la ricostruzione operata daRenĂ©e Rochefort nel suo Travail en Sicile (1961) si rivela esempla-re. In questa sede, perĂČ, sono illuminanti le osservazioni che Mau-rice Aymard dedica ai continui processi di crisi e ripresa che si sus-seguono nellâIsola, individuando nelle escursioni demografiche enel continuo ricostituirsi delle realtĂ urbane altrettanti indicatoridi riferimento. Il quadro complessivo tracciato, relativamente a unsecolo e mezzo di storia socioeconomica, puĂČ costituire un gran-de esempio significativo di realtĂ in transizione.
âIl settore industriale â scrive Aymard, richiamando lâattenzio-ne su quanto il mondo imprenditoriale siciliano ha omesso di fareâ non Ăš riuscito a strutturarsi in nessuna delle quattro vie che la si-tuazione e le risorse disponibili aprivano⊠La prima consisteva
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nella trasformazione delle materie prime prodotte nellâIsola primadella loro esportazione: essa Ăš stata esplorata tutte le volte troppotardi, quando i prodotti in questione cominciavano a perdere il lo-ro vantaggio comparativo sul mercato mondiale. La seconda via âlâapprovvigionamento del mercato locale dei beni di consumo â siĂš rivelata difficile da seguire: il mercato si rivela in effetti tropporistretto, e si trova ad essere approvvigionato, oggi piĂč che mai, daindustrie esterne, che lavoravano prima su scala italiana, e si muo-vono oggi su scala europea, se non mondialeâ.
Tutto questo contribuisce a spiegare il dissesto fatto registrarenei decenni successivi allâUnitĂ dalle industrie tessili, sorte tra il1840 e il â60, e il debole sviluppo di quelle alimentari. âLa terza viaâ nota infatti lo storico francese â avrebbe potuto condurre allosviluppo di alcune specializzazioni che si integrassero in una divi-sione del lavoro su scala italiana o internazionaleâ. E qui Ăš la sto-ria dei cantieri navali di Palermo, a partire dai Florio per finire agliultimi decenni del secolo, a offrire esempi significativi; ma non Ăšda meno la piĂč recente esperienza dellâindustria petrolchimica,nata da una decisione politica che non teneva conto del contestointernazionale. âLa quarta via avrebbe potuto corrispondere allâu-tilizzazione sul posto, per il tramite di piccole e medie imprese de-centrate e in grado di appoggiarsi su una rete particolarmentedensa di paesi e di piccole cittĂ , di una eccezionale riserva di ma-nodopera che Ăš divenuta oggi largamente superiore ai bisogni e al-le possibilitĂ dâimpiego dellâagricoltura, ma che ha sempre dispo-sto nel passato di un margine dâimpiego disponibile per le attivitĂ complementariâ (1987, 31-32).
Ă questa la via seguita da buona parte dellâindustria settentrio-nale del Paese, dal Piemonte al Veneto, ed Ăš valida ancora oggi, seĂš vero che i suoi risultati hanno finito col superare quelli del clas-sico âtriangolo industrialeâ: Arnaldo Bagnasco fornisce non po-che testimonianze e giunge a parlare di una vera e propria âterzaItaliaâ. âMa essa non Ăš stata mai seguita â conclude lo storico fran-cese â e sembra avere poche possibilitĂ di essere seguita in un pre-
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vedibile futuro, in una Sicilia in cui le cittĂ non hanno mai svoltoin passato e sembrano oggi meno che mai capaci di svolgere, coni loro capitali, uomini dâaffari e ingegneri, il ruolo dâanimazione,dâincitamento e redistribuzione necessario per instaurare e farfunzionare un simile tessuto di attivitĂ industrialiâ.
Lungi dallâesserne una conseguenza, i rapidi progressi fatti re-gistrare dalle metropoli costituiscono un complemento e non rap-presentano unâalternativa allâemigrazione: essi fungono in un cer-to senso da valvola di sfogo alla crisi dellâagricoltura tradizionale,finendo col dissipare gran parte della forza lavoro isolana. Certo,gli effetti dei trasferimenti nella vicina cittĂ appaiono meno dram-matici delle partenze verso mete lontane; la mobilitĂ interna seguerotte piĂč morbide, fa perno su reti familiari e clientelari. Ma, quelche Ăš piĂč importante, essa ha âun peso politico infinitamente piĂčconsistente, che obbliga le autoritĂ locali e centrali a intervenireper rispondere almeno in parte a tutta una gamma di bisogni so-ciali che Ăš diventato impossibile eludere: casa, igiene e salute, edu-cazione, servizi urbani, occupazione, ecc.â (ibidem).
Ă ancora Maurice Aymard a confermare nella sostanza lâesitodi un simile andamento: âIl gonfiamento di un settore ammini-strativo assai multiforme e assai superiore ai bisogni, ulteriormen-te dilatato a Palermo dallâinsediamento delle istituzioni regionali,tende a divenire, in questo contesto, sempre di piĂč il volano di re-golazione dellâeconomia urbana e, attraverso di essa, di quella ditutta lâIsola. La regolaritĂ dei flussi rappresentati dai salari, dallepensioni e da tutte le altre indennitĂ dâassistenza segna in effettiun taglio con le oscillazioni delle attivitĂ rurali tradizionali, e degliantichi circuiti del risparmio, alimentati dallâemigrazione. Similiflussi non si limitano dâaltronde alle cittĂ maggiori â i cui effetti so-no meglio percepibili perchĂ© piĂč concentrati e massicci, e si com-binano con quelli del reinvestimento (soprattutto nellâedilizia) del-le rendite o dei capitali tratti da altri settori, e in primo luogo dal-lâagricoltura â; invade di fatto, sempre piĂč ampiamente, gli agglo-merati periferici di queste metropoli, e anche i centri urbani del-
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lâinterno. Sono questi flussi che hanno permesso, nel corso degliultimi trentâanni, a una parte piĂč larga della popolazione di rag-giungere se non i livelli, almeno gli stili e i contenuti di consumodelle regioni piĂč sviluppate della penisolaâ (1987, 32-33).
Nel quadro della problematica delineata per lâintera Isola Ăš da-to rintracciare un case study del tutto particolare in unâarea mon-tana della Sicilia centrosettentrionale: le Madonie. In tal senso ri-teniamo siano da leggere le riflessioni delle pagine che seguono,suggerite da ricerche sulle attivitĂ di produzione dellâintero com-prensorio, su cui da anni lavoriamo. In una realtĂ di tipo agropa-storale, rimasta legata per secoli a tecniche di produzione tradi-zionali, abbiamo avuto modo di registrare fenomeni innovativi cheandavano diffondendosi in zone e classi sociali diverse. Fatti chesarebbe stato arduo immaginare dieci anni prima da parte deglistessi operatori locali e che, in ogni caso, risultava difficile atten-dersi, considerati gli stereotipi correnti intorno ad aree marginalidi montagna. Abbiamo assistito, forse senza capirlo fino in fondo,a forme di transizione che in altre regioni si erano dispiegate annio decenni prima e che qui cominciavano a delinearsi solo a parti-re da metĂ anni Settanta. Ă sul senso di questa transizione âritar-dataâ e su alcune specifiche modalitĂ che abbiamo fermato lâat-tenzione, mirando a coglierne origini e motivazioni e tenendo pre-sente lo stretto collegamento fra fatti sociali e fatti piĂč propria-mente culturali.
3. Le Madonie: un comprensorio e tre aree culturali
Il comprensorio delle Madonie occupa la parte orientale dellaprovincia di Palermo ed Ăš molto irregolare quanto a contorni, ver-santi e distribuzioni altimetriche. Al di sopra dei 1.200 metri (la ci-ma piĂč elevata non supera i 2.000) pianori e pendii leggeri sonostati sedi dei pascoli permanenti dâaltura, quando non erano oc-cupati dai residui boschi di faggio, dalla macchia mediterranea o
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dai recenti rimboschimenti: la pastorizia ha qui costituito in pas-sato, con la coltura del bosco e la produzione del carbone, la prin-cipale attivitĂ economica. Al di sotto degli 8-900 metri comincia-va, sul versante nord (di solito inteso col nome di âbasse Mado-nieâ), il regno dellâulivo alternato a seminativi asciutti. A sud (âal-te Madonieâ), invece, lâindirizzo prevalente era e continua a esse-re quello cerealicolo e il paesaggio agrario assume aspetti mono-toni, prefigurando giĂ quello del Nisseno col quale confina. Peral-tro, le aree coltivate dei versanti meridionale e orientale scopronosempre piĂč una vocazione foraggera che a fatica prende il postodella tradizionale cerealicoltura: sono i foraggi coltivati in terrenidi proprietĂ degli allevatori i quali attuano ormai quasi tutti laâpiccola transumanzaâ con svernamento in stalla.
I centri montani che circondano il massiccio sono una dozzina.Il Parco delle Madonie, istituito nel 1989 e diretto a tutelare lâam-biente e promuovere azioni di sviluppo ecocompatibili, ne com-prende quindici. Sul versante settentrionale sono disposti fra i 400e i 700 metri, su quello meridionale fra gli 800 e i 1.200. Sono tut-ti piccoli centri, la gran parte dei quali non supera i 5.000 abitan-ti, con alte percentuali di popolazione sparsa in frazioni e borghidi poche case, in origine casali di contadini. Sono centri, infine, ca-ratterizzati per lungo tempo da unâeconomia ai limiti della sussi-stenza, e da una produzione agricola in passato destinata in pre-valenza allâautoconsumo. Accanto ai contadini e ai braccianti, inseno a unâeconomia latifondista, negli stessi centri vivevano, fino apochi decenni addietro, una piccola e una media borghesia rura-le, tra le poche committenti di un artigianato di vaglia, e famigliedi baroni. Tra Otto e Novecento, e fino al secondo dopoguerra, diseguito alla Riforma agraria che spezzettava il latifondo assegnan-do lotti di terra ai contadini, esse trasferirono la loro residenza nelcapoluogo isolano e si limitarono a tornare nei paesi solo al tempodel raccolto.
Il massiccio montano divide le comunitĂ che ci vivono, le qua-li rimangono cosĂŹ arroccate nei loro paesi senza condividere con le
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altre problemi e benefici. Il massiccio delle Madonie risulta cir-condato da tutti i lati da strade asfaltate e i centri abitati, dispostiai suoi margini, ne costituiscono punti di snodo e raccordo. Tran-sitare in macchina su quelle strade non Ăš perĂČ agevole: percorsi dimontagna tortuosi e in pendenza non facilitano la creazione di cir-cuiti di scambio tra i centri della âcoronaâ, soprattutto tra quellidisposti su versanti opposti. Le poche strade che attraversano ilmassiccio non collegano paesi, non sono itinerari di comunicazio-ne fra paesi perchĂ© finiscono tutte alla stazione invernale di PianoBattaglia e per questa sono state progettate e costruite, transitateda gente proveniente dalle cittĂ per periodi molto limitati dellâan-no.
La distribuzione dei servizi, a sua volta, ha rispecchiato sostan-zialmente le suddivisioni facenti capo ai versanti giĂ segnalati: perpretura, ufficio imposte, ospedale e scuola superiore i centri delversante settentrionale fanno capo a CefalĂč; quelli del versantemeridionale a Petralia o Polizzi; gli altri a Termini Imerese. Ă sta-to cosĂŹ possibile tracciare una carta delle âZone dâinfluenzaâ divi-sa in tre parti, allâinterno delle quali gli scambi economici, com-merciali e culturali sono oltremodo vivaci (Giacomarra 1994).Quando, per lâistituenda UnitĂ Sanitaria Locale n. 50 (PetraliaSottana) si previdero confini comprendenti i comuni che in passa-to gravitavano su Termini, non mancarono proteste da parte dellepopolazioni locali: non, come parrebbe a prima vista, per i disagistradali che le maggiori distanze avrebbero comportato, ma perquelli conseguenti ad una rottura di consuetudini affermate neltempo.
In effetti, il quadro dei rapporti consuetudinari Ăš stato quelloche piĂč ha resistito nel tempo, pur nel variare delle situazioni, e lefrontiere tra le tre zone del massiccio ne sono uscite ogni volta ri-confermate. Lâabitante di Calcarelli si sente molto piĂč coinvoltonella festa di San Gandolfo che si celebra a Polizzi che non inquella di San Calogero a Petralia o di San Pietro a Soprana, tutticentri fino a qualche anno fa sedi di vivaci fiere del bestiame e di
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prodotti dellâartigianato. Ed Ăš raro che, pur disponendo di unâau-tomobile, gli venga di andare a Caltavuturo (a venti chilometri)per la festa della Madonna del Soccorso, o a Castelbuono per San-tâAnna. La conferma alla carenza di comunicazioni fra i versantiviene dalla situazione linguistica, dove la frattura si avverte nettapassando dallâuno allâaltro: le parlate meridionali subiscono lâin-fluenza di quelle del Nisseno-ennese, mentre le settentrionali ri-sentono delle parlate della costa, piĂč aperte alle innovazioni pro-venienti dal capoluogo. In questo contesto, lo stato di isolamentoe lâaccentuato senso di riservatezza hanno rinforzato il senso co-munitario dei paesi e hanno rallentato lâazione dei fattori innova-tivi. La stessa struttura compatta dei centri abitati, le case addos-sate lâuna sullâaltra, gli spazi abitativi uniformi hanno svolto unafunzione frenante difficilmente valutabile nellâopporre resistenza.
Il comprensorio, in realtĂ , pur partecipando alla progressivaerosione del latifondo che Ăš propria del XX secolo, ha mostratouna lentezza maggiore di quella riscontrabile in altre parti dellâI-sola. Allâepoca dellâinchiesta Lorenzoni (1907), nel territorio dinove degli undici comuni della zona collinare, le superfici fondia-rie superiori ai 200 ettari ascendevano ancora al 59,9% della su-perficie agraria complessiva, mentre la media provinciale era giĂ del 35,5%. Solo dopo il 1950 le superfici superiori ai 200 ettariscesero al 28,3% della superficie agraria complessiva. Le aree dâal-tura rimasero demaniali, talora affidate a cooperative di contadinie destinate al pascolo o alla forestazione; le superfici collinari col-tivabili sono rimaste per molto tempo invece divise in minuscoliappezzamenti di terra, dai quali era difficile ricavare il necessarioper vivere e sui quali risultava antieconomico investire capitali(Giacomarra 1983, 15-16). Solo negli ultimi anni si sono comin-ciati a registrare riaccorpamenti delle proprietĂ fondiarie, ma condifficoltĂ , essendo piĂč facile che le stesse terre abbandonate ormaida anni rimangano ai vecchi proprietari, incolte o affidate a mez-zadri. Lâantico senso della terra conquistata a dura fatica si Ăš rive-
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lato vincente se raramente gli appezzamenti di pochi ettari sonostati ceduti in affitto a chi poteva opportunamente coltivarli.
Quello che si Ăš registrato nellâarea delle Madonie tra gli anniCinquanta e i Settanta riproduceva, in maniera accentuata, ciĂČ cheera avvenuto allâinterno dellâIsola. Rimangono, al riguardo illumi-nanti le parole di Manlio Rossi Doria: âLâagricoltura delle zone in-terne Ăš stata, per cosĂŹ dire, modellata sulla âfame di terraâ dei con-tadini. La sua organizzazione si Ăš, di conseguenza, sempre piĂč sta-bilmente e largamente basata, da un lato, sugli ordinamenti cerea-licoli, dallâaltro, sulle precarie imprese coltivatrici frammentate edisperse; ha assunto cioĂš le forme meno adatte a un razionale usodelle mediocri risorse agricole di quelle zoneâ. La conseguenza Ăšstata un irrigidimento progressivo della struttura produttiva dellearee interne, incapaci di rinnovarsi. âĂ un fatto â conclude perciĂČâ che la combinazione fra pressione demografica, fame di terra,prevalenza della cerealicoltura, elevato livello della rendita e deivalori fondiari ha, per cosĂŹ dire, irrigidito lâintera economia dellezone interne, conferendo loro una struttura ogni anno di piĂč incontrasto con le esigenze e le tendenze della moderna economiaâ(1975, 24).
In tale stato di cose, lâazione svolta dalla legge di Riforma agra-ria ha finito con lâessere in ritardo con quelle âesigenzeâ e quelleâtendenzeâ, sicchĂ© le âterre della Riformaâ sono rimaste poco piĂčche semplici nomi a ricordare un processo iniziato e presto abor-tito. âI sacrifici e le lotte dei contadini durate piĂč di un secolo, mi-rando ad affrancarli dalla dipendenza padronale, altro non hannofatto che rendere ancora piĂč rigida quellâassurda struttura agraria.Quellâeroico e tenace sforzo Ăš stato infatti inizialmente diretto atrasformare i braccianti avventizi in piccoli imprenditori legati al-la terra dai contratti dâaffitto e di metaterĂŹa, e si Ăš poi posto lâo-biettivo dellâacquisto a pezzi e bocconi delle terre coltivate, pa-gandole a caro prezzo, capitalizzando cioĂš le esose rendite fondia-rie e sottraendo cosĂŹ alle zone interne i capitali faticosamente ac-cumulati sul luogo o con lâemigrazione. Il risultato finale Ăš stata sĂŹ
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la liquidazione della piĂč gran parte dei latifondi, ma nello stessotempo un eccessivo frazionamento delle proprietĂ , una esagerataframmentazione dei fondi agricoli, e in molti casi addirittura unaassurda polverizzazioneâ (ibidem).
Lâemigrazione non poteva che essere la naturale risposta a con-dizioni di vita del genere, mentre permaneva la disoccupazione ele altre regioni del Paese registravano alti tassi di crescita econo-mica. Nel periodo 1951/71 la popolazione del comprensorio Ăš di-minuita del 18,5%, con punte di circa il 25% nei comuni di altamontagna (Gangi, San Mauro, Geraci e le Petralie); il numero de-gli addetti al primario, pur calato, Ăš perĂČ rimasto sempre a livellialti fino al 1971 (44%), cominciando a diminuire dopo, ma lenta-mente, sia per il transitare in altri settori (il terziario, in primo luo-go) che per il naturale esaurirsi del genere di attivitĂ produttiva. Seal tutto si aggiunge la bassa consistenza della popolazione attiva(29,7% nello stesso anno, e in progressivo calo nei decenni suc-cessivi), si comprende quanto fosse grosso lâesercito dei disoccu-pati e quello dei pensionati e quanto fosse squilibrato il rapportoproduttori/consumatori.
Se il crollo della popolazione, accompagnato da senilizzazionee calo della popolazione attiva, puĂČ costituire un indice del man-cato sviluppo socioeconomico dellâarea, quanto Ăš accaduto in qua-rantâanni Ăš altamente significativo: gli abitanti dei comuni rica-denti nel Parco delle Madonie sono passati da 82357 (1951) a78151 (1961), fino alla dĂ©bacle fatta registrare nel 1971 (68381). Ilcalo non si Ăš fermato negli anni successivi, essendo il numero de-gli abitanti sceso a 64324 nel 1981. Ă parso risalire leggermentenel 1991 (65154), ma Ăš stato solo un momento: a partire dal 1992,infatti, Ăš ripresa massicciamente lâemigrazione di giovani e fami-glie, per cui il Censimento del 2001 ha registrato un crollo dellapopolazione residente del 20 e del 10%, rispettivamente nelle al-te e nelle basse Madonie (Giacomarra 2000, 47).
Paolo Sylos Labini, con riguardo alla disoccupazione e al bas-so tasso di popolazione attiva, osservava come esso fosse grave per
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almeno due ragioni: âIn primo luogo per ragioni strettamente eco-nomiche, dato che quella quota implica che ogni Enea ha piĂč didue Anchise sulle spalle. Ma il fatto di essere occupati Ăš un benein sĂ©, nel senso che riempie la vita, dĂ una prospettiva, dĂ una di-mensione, dĂ un significato alla vita quotidianaâ (1975, 172). Se atutto questo si aggiunge che gran parte degli occupati non avevaun lavoro stabile, si comprende la gravitĂ della situazione. I giova-ni sono andati via per primi e sono rimasti quelli che non eranopiĂč giovani, dediti a coltivare il proprio appezzamento di terra perpochi giorni allâanno e a prestare la loro opera saltuaria nelle ter-re degli altri. Molti sono confluiti nellâAzienda regionale foreste,ma molti, anziani e pensionati, hanno continuato ad andare incampagna, integrandone i magri proventi con la pensione di vec-chiaia.
4. Aspetti della transizione
Il quadro delineato Ăš quale appariva tra gli anni Sessanta e iSettanta (e i dati censuari del 1971 ne davano ampia conferma). Ilquadro di unâarea di montagna simile a tante altre zone dellâinter-no dellâIsola, dal destino segnato (come intravedeva Rochefort2005). Eppure non Ăš avvenuto ciĂČ che sembrava prevedibile, ov-vero lâesaurirsi e lo scomparire dei piccoli centri abitati che ri-schiavano di diventare altrettanti villages dĂ©sertĂ©s (del genere diquelli diffusi nelle Alpi francesi). Chi oggi visiti quei paesi vede in-fatti convivere il nuovo accanto allâantico, e il primo sottrae sem-pre piĂč spazi al secondo. Tratti di modernitĂ si fanno largo, timi-damente Ăš il caso di dire, in una realtĂ rimasta per molto tempoimmobile. Attori nuovi si mescolano ai vecchi, creando situazionisociali ibride e ingenerando situazioni impreviste.
Il ânuovo corsoâ, per dirla con Edgar Morin (1969), si puĂČ farpartire dagli anni Cinquanta, ma resta dissimulato per almeno undecennio. Esso si inscrive nel piĂč vasto processo di crescita eco-
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nomica nazionale che coincide con la ripresa del secondo dopo-guerra. La crescita in quel periodo si concentra nellâarea nordoc-cidentale del Paese, coinvolge lentamente il Centro mentre il Sudregredisce e la sua economia ristagna. Le regioni del Mezzogiornosi limitano a fornire manodopera a buon mercato alle fabbrichedel Nord impoverendosi a livello demografico (vanno via, infatti,i giovani e restano vecchi, donne e bambini). Lâesito di questo pro-cesso nelle regioni deboli Ăš lâesaurirsi delle attivitĂ produttive tra-dizionali (artigianali, in prevalenza) non piĂč in grado di sostenerela concorrenza delle produzioni industriali del Nord. Queste pro-ducono manufatti di serie a prezzi bassi e ne propongono lâacqui-sto attraverso efficienti canali di distribuzione. Lâartigianato, cheprima costituiva il tessuto connettivo dellâeconomia, essendo ingran parte a servizio dellâagricoltura, si spegne perciĂČ lentamente:mancano i committenti, che ormai ricorrono ad altri mercati, man-cano gli apprendisti, mentre vanno in pensione gli anziani. I labo-ratori che chiudono fanno da pendant alle campagne abbandona-te.
A partire dai primi anni Settanta si cominciano a registrare i se-gnali di un processo di cambiamento sempre piĂč chiaro. Attraver-so il persistere di un quadro superficiale di immobilismo si deli-neano tendenze alla modernizzazione sempre piĂč evidenti. Pur at-traverso il âsottosviluppoâ (cosĂŹ era stato interpretato da Roche-fort 2005), anche nel comprensorio delle Madonie si mette in mo-do una lenta trasformazione: la modernizzazione si fa largo nelpersistere di quello; la modernitĂ si diffonde anche qui attraversole maglie dellâarcaismo (Morin 1969, 69).
Chi oggi visiti i paesi delle Madonie puĂČ agevolmente coglierei molti segni âfisiciâ di quella che possiamo chiamare âtransizioneda sottosviluppoâ. E il Parco ha accelerato processi del genere. Sisono diffuse a ritmo accelerato, ad esempio, le case di campagna:alcune pretenziose, ma nella maggior parte dei casi edifici poco ri-finiti e ridotti allâessenziale. Protagonisti della corsa alla secondacasa sono stati in primo luogo â come Ăš facile intuire â gli impie-
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gati del terziario, gli addetti al commercio e i lavoratori edili, oltreai molti provenienti dalle cittĂ . Meno presenti sono stati i conta-dini i quali, se mai ci sono riusciti, hanno ammodernato lâesisten-te adattandolo alle loro esigenze di lavoro e solo in parte hannofatto ricorso ai contributi che Regione e Unione Europea hannomesso a loro disposizione, di recente, attraverso Patti territoriali,Agenda 2000 e quantâaltro.
In effetti, il processo di mutamento ha determinato la nascitadi dicotomie plurime, la prima delle quali sta nel modo stesso diporsi nei confronti del mutamento. CâĂš infatti chi vi ha preso par-te attiva, quasi rincorrendolo. CâĂš viceversa chi ne rimane al difuori, sopportandolo. Sul piano dei âsegni fisiciâ, la dicotomia siriflette sul piano urbanistico: da qui la grande distanza, culturaleprima che topografica, fra aree di insediamento tradizionale (ca-ratterizzate da minuscole case rurali e dal particolare modo di vi-vere e articolare lo spazio) e aree di nuova espansione che ricalca-no modelli urbanistici alloctoni. Certo, anche quelli che sono ri-masti indietro hanno partecipato al mutamento, ma in manierapiĂč lenta e spesso parziale. Gli stessi ultimi contadini che fino aglianni Sessanta non si erano disfatti dei loro animali da soma, fra il1972 e il 1974 li hanno venduti quasi tutti, sostituendoli con mi-nuscoli trattori adatti alla zappatura meccanica e al trasporto dimateriali. Un vero e proprio scambio: per acquistare il mezzo mec-canico ogni contadino ha versato il ricavato della vendita dellâani-male e per la differenza ha firmato cambiali o ha fatto ricorso aprestiti di vario genere.
Il vantaggio dello scambio Ăš stato duplice: il primo era costi-tuito dalla minore spesa di mantenimento, perchĂ© âlâanimale man-gia anche quando non lavoraâ, al contrario del trattore, fatto nontrascurabile se le giornate lavorative in un anno spesso non supe-ravano il centinaio; il secondo riguardava il minore spazio da de-stinare al ricovero del mezzo: non câera piĂč bisogno di stalla e fie-nile ma bastava una tettoia addossata alla casa dâabitazione. Eccoallora (altro segno fisico della âtransizione da sottosviluppoâ) che
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le stalle dei piani terreni, in origine presenti in ogni casa rurale, so-no scomparse e sono state adibite a stanze da cucina o soggiorniarredati con mobili della Brianza. E poi ci sono le case sempre piĂčspaziose e sfarzose che si sono costruite nei paesi, spesso favoritedella legislazione antisismica che ha finito col rendere molto piĂčcostosa la struttura in cemento armato e col diminuire in percen-tuale il costo dei singoli vani; per non dire della progressiva diffu-sione della motorizzazione privata, degli elettrodomestici, e diquantâaltro contraddistingue la modernitĂ .
5. Le dinamiche territoriali
Un ulteriore aspetto ci aiuta a comprendere le modalitĂ dellatransizione: Ăš quello relativo agli scambi, motori di cambiamento,come si Ăš soliti pensare. Per molto tempo a prevalere sono stati gliscambi allâinterno di uno stesso versante, ma oggi non sono piĂčquelli di prima. Le recenti opere di grande viabilitĂ (lâautostradaPalermo-Catania che segue il corso dellâImera di cui occupa il fon-dovalle; lâautostrada Palermo-Messina che si muove a monte diCampofelice e CefalĂč) hanno ridotto infatti gli scambi fra i paesi.Oggi Ăš molto piĂč comodo comprare a Palermo o Caltanissettaquello che prima si cercava a Castelbuono, centro tradizionale del-lâartigianato madonita.
Le autostrade costituiscono canali attraverso cui i prodotti (e isimboli) della cultura urbana sono penetrati nel chiuso mondo deipaesi di montagna. Questi ultimi hanno avuto il tempo di diveni-re luoghi di acquisizione dei prodotti della grande industria: quel-li che in passato erano centri di produzione e di autoconsumo so-no perciĂČ diventati sempre piĂč centri di consumo e smistamentodi prodotti confezionati. I mobili non Ăš stato piĂč il falegname lo-cale a fabbricarli, e per lâabbigliamento non si Ăš fatto ricorso piĂčal sarto del paese, ma bensĂŹ ai centri di smercio dei vestiti confe-zionati, ai mercatini settimanali, ai venditori ambulanti. âIl borgo
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non Ăš [piĂč] il nucleo vitale dellâeconomia comunale, ma diventasempre piĂč centro di diffusione dei prodotti della rivoluzione do-mestico-consumistica, relĂ© della civiltĂ urbana. Il borgo croceviadiventa sempre piĂč un borgo relĂ© dove tutto lâafflusso urbano, dal-la merce alla moda, dal prodotto particolare alla civiltĂ borghesenel suo insieme, si riconcentra prima di tornare a irradiarsiâ (Mo-rin 1969, 83).
Ă interessante rilevare con il sociologo francese come lâingres-so di prodotti originariamente estranei sia stato favorito dallâope-ra di intermediazione esercitata dai rappresentanti del piccolocommercio e dellâartigianato locali. âIl piccolo negoziante di vil-laggio o di quartiere disponeva di una clientela la cui fedeltĂ sifondava sulla fiducia, le solidarietĂ della parentela e le cortesie divicinatoâ. Ora, âil legame di fiducia arcaico non Ăš sempre e do-vunque infranto dalla moderna distribuzione... [Anzi], nel casodei prodotti piĂč evoluti della tecnica elettrodomestica, Ăš arrivatoanche a resistere amplificandosiâ. Artigiani e piccoli commercian-ti godevano della fiducia dei loro compaesani per quanto produ-cevano. Poi, in nome dellâantica fiducia, hanno proposto manu-fatti di una civiltĂ industriale di cui, in qualche modo, si sono fat-ti garanti. Chi forniva il manufatto, inoltre, ne assicurava anche lamanutenzione e perciĂČ alimentava quella fiducia. âIn questo mo-do viene a determinarsi una simbiosi tra il macrocircuito di fidu-cia delle grandi ditte (che si impone con la pubblicitĂ ) e i micro-circuiti di fiducia (parentela, vicinato)⊠che offrono una doppiagaranzia allâacquirente. In questi casi, la simbiosi conserva il pic-colo commercio e garantisce lâevoluzioneâ (ivi, 72-73).
Il meccanismo di âaffiliazioneâ del piccolo commercio e del-lâartigianato locali da parte delle ditte a grande distribuzione si Ăšesteso ai piĂč diversi settori: i falegnami sono diventati rivenditoridi mobili, i sarti di vestiti confezionati, gli idraulici di servizi idro-sanitari. Chi non ha operato il passaggio dal âmicroâ al âmacro-circuitoâ Ăš stato destinato a perdere spazi, sino a sparire.
Se Ăš vero che la civiltĂ urbana e industriale Ăš andata verso il
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paese, non Ăš meno vero che il paese Ăš andato verso la cittĂ . In ta-le direzione si Ăš rivelata essenziale la crescente motorizzazione, laquale ha moltiplicato le relazioni tra paese e paese, ma soprattut-to tra paese e cittĂ . Da tempo, ormai, si parte sempre piĂč di fre-quente per il grosso centro, che nel caso del comprensorio mado-nita Ăš Palermo, capoluogo di provincia, ma puĂČ anche essere Ca-tania o la vicina Caltanissetta. Si va in cittĂ sia per gli acquisti, siaper le visite agli uffici amministrativi attraverso i quali si eroganopensioni, contributi e assegni vari, per gli ospedali piĂč attrezzati,per gli studi universitari, una volta completati quelli delle scuolesuperiori in paese. Non solo lâemigrazione, del resto, ma anche icrescenti tassi di scolarizzazione, con successivo trasferimento neigrossi centri universitari, rispondono a esigenze di mobilitĂ . Lâau-mentato tenore di vita, cui la rete commerciale del paese non sem-pre riesce a adeguarsi in tempi brevi, i crescenti contatti con quel-li che una volta erano semplici âforestieriâ (i villeggianti dâaltamontagna, in primo luogo) costituiscono altrettanti aspetti del dif-fondersi di tratti di modernizzazione.
âLa forza centrifuga Ă© solo uno degli aspetti del complesso fe-nomeno. Questo puĂČ definirsi circolare nel senso che i valori chesembrano perdersi e frantumarsi nel disgregarsi dei modi di vitaantichi sono destinati a rientrare nel seno della comunitĂ , dopo laforzata âemigrazioneâ necessaria alla loro realizzazioneâ (Dato1980, 81). E, in effetti, si torna con sempre maggior frequenza dalgrosso centro nel paese dâorigine. Da una parte sono coloro che,lavorando e dimorando in cittĂ della stessa regione, rientrano qua-si ogni mese in paese, dove mantengono stretti legami dâamiciziao di parentela. Dallâaltra, tra chi vive in Italia o nel Nord Europa,oltre ai rientri annuali nel periodo estivo, si registrano frequenti vi-site in occasione delle festivitĂ .
Sia nel primo che nel secondo caso, gente di cittĂ e gente dipaese âentrano in simbiosiâ. Gli uni e gli altri prendono parte al-le stesse feste, agli stessi incontri e in pratica fanno vita in comu-ne. E, se i primi (gli inurbati) cercano in paese pane di casa, vino
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locale, biscotti del forno allâantica e quantâaltro ricordi loro lâin-fanzia, i secondi cercano in tutti i modi di assimilare costumi, usi,valori e mode della cittĂ . Lâinurbato comunica, quasi senza accor-gersene, modelli di comoditĂ , eleganza e distinzione nei compor-tamenti, oltre che nella lingua; il confronto con gente di cittĂ spin-ge invece la gente di paese a rifiutare lo stress, lo smog, la frenesiadella vita urbana e a desiderarne i piaceri. âI trapiantati â nota op-portunamente Morin (1969, 85) â sono le diastasi che garantisco-no con rapiditĂ e facilitĂ lâassimilazione della civiltĂ urbanaâ. Ilâcommercioâ frequente, per non dire continuo, con gente di cittĂ facilita e accelera lâassimilazione del moderno; al punto che non ĂšpiĂč raro trovare diffusi nei piccoli centri tratti culturali che fino apoco tempo prima sembravano limitati solo alla cittĂ .
Il crescere dei contatti fra piccoli e grossi centri, in effetti, haaccelerato processi che altrimenti si sarebbero svolti in tempi mol-to piĂč lenti. âGli uomini, stando piĂč vicini â rileva ancora Rocherâ moltiplicano i loro rapporti, li diversificano e li rafforzano; ne ri-sulta una âstimolazione generaleâ, una creativitĂ piĂč grande, un ele-varsi del livello di civiltĂ delle societĂ â (1972, 36). Qui lo studiosofrancese riecheggia Durkheim il quale nella Divisione del lavorosociale osserva appunto come questa progredisca col crescere del-la popolazione e come ciĂČ che egli chiama âdensitĂ moraleâ (o di-namica) dipenda da âquanto piĂč numerosi sono gli individui suf-ficientemente a contatto da poter agire e reagire gli uni sugli altriâ(1962, 258 ).
Ă importante rilevare come la crescita della âdensitĂ moraleâfinisce con lâessere ricondotta da Durkheim, oltre che al compat-tarsi del tessuto sociale che si verifica giĂ con lâinsediarsi in un de-terminato territorio di attivitĂ sedentarie agricole, ai sempre piĂčveloci processi di inurbamento e al crescere delle comunicazioni.âSi deve considerare infatti â rileva il socioetnologo francese â ilnumero e la rapiditĂ delle vie di comunicazione e di trasmissionele quali, sopprimendo e diminuendo i vuoti che separano i seg-menti sociali, aumentano la densitĂ della societĂ â (ivi, 260). Nel
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caso di unâarea come la nostra, che ha visto diminuire in manierarilevante il numero dei suoi abitanti, se sviluppo di âdensitĂ mo-raleâ si Ăš potuto registrare, Ăš da ricondurre in primo luogo al cre-scere delle vie di comunicazione, sia fisiche (strade, ferrovie, lineeaeree...) che simboliche (radio e tv, in primo luogo).
6. Una transizione senza mutamento?
Quale puĂČ essere stato lâelemento motore del processo di mo-dernizzazione delineato?
Non Ăš possibile andare alla ricerca di cause determinanti in as-soluto, se Ăš vero che gli agenti del mutamento sociale sono fattoriplurimi, interagenti e legati tra loro in successione. Lâidea che ilpiano socioculturale sia determinato da fatti dâordine economicopoggia su una distinzione (tra strutture e sovrastrutture) la quale ĂšpiĂč unâelaborazione concettuale che un reale stato di cose. Eco-nomia, societĂ e cultura possono e debbono infatti ritenersi com-ponenti di uno stesso continuum. E allora ânon ha senso chieder-si se lâeconomia o la societĂ vengano prima e condizionino il farsidella cultura o viceversa, visto che in ultima istanza si tratta sem-pre degli stessi fatti cui noi diamo il nome di economia, di societĂ o di cultura a seconda della scelta del livello di pertinenzaâ (But-titta 1979, 39-40).
Nel caso qui preso in considerazione, il processo di moderniz-zazione non Ăš certo connesso a (e men che meno determinato da)miglioramenti avvenuti a livello produttivo. Non si Ăš registrata tra-sformazione, ma solo esaurimento della realtĂ economica preesi-stente. Ad esso si Ăš accompagnata la disgregazione, fino alla scom-parsa nella piĂč parte dei casi, del tessuto sociale e delle organizza-zioni tradizionali su cui quello si sosteneva. Il tutto completatodalla scomparsa di non pochi tratti culturali: feste, costumi, ceri-monie, che rinviavano tutti a modi particolari di intendere il mon-do e la vita. Un enorme processo di disgregazione ha investito in-
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somma i diversi piani del vivere, mettendo in crisi la dimensioneculturale di intere comunitĂ . In generale Ăš vero che lâintensitĂ delmutamento dipende dalla natura e resistenza delle strutture socia-li, economiche e culturali ma, poichĂ© nellâarea madonita le strut-ture erano giĂ disgregate, si Ăš verificata una trasformazione che haoperato in maniera distruttiva sul poco che resisteva.
In queste condizioni, quale risposta si puĂČ dare alla domandainiziale? Un possibile elemento motore del processo di moderniz-zazione Ăš individuabile nellâazione svolta dallââindustria culturaleâattivata dal sistema dei media. Una transizione senza sviluppo, for-se, dal momento che sui residui di un mondo disgregato si Ăš inne-stata una nuova realtĂ , di cultura e di consumo, che allâinizio erasentita come estranea ma che col passare del tempo Ăš divenuta sem-pre piĂč familiare e condivisa. Una cultura passivamente fruita e nonpiĂč criticamente elaborata dai soggetti della comunitĂ : creatori dicultura, in queste condizioni, non sono piĂč stati pastori, contadini eartigiani, ma bensĂŹ gente che âper mestiereâ produce cultura.
Anche se non ignorano le realtĂ locali (anzi se ne nutrono in ab-bondanza), per il loro stesso modo dâessere, i mass media devonoin qualche modo passare sopra di esse, operare al di sopra dei cam-panili, proponendo tratti culturali condivisibili da ampie fasce dipopolazione: Ăš il moderno problema dellâaudience! âLa cultura in-dustriale â scrive al riguardo Morin â adatta temi folklorici locali eli trasforma in temi cosmopoliti, come il western, il jazz, i ritmi tro-picali (samba, mambo, chachacha, ecc.). Con questo slancio co-smopolita, essa favorisce da una parte i sincretismi culturali (film dicoproduzione, trapianto in unâarea culturale di temi originari di al-tra area culturale) e dallâaltra i temi âantropologiciâ, vale a dire adat-tati a un denominatore comune di umanitĂ ... La cultura industria-le si sviluppa sul piano del mercato mondiale. Donde la sua formi-dabile tendenza al sincretismo, allâeclettismo e allâomogeneizzazio-ne. Senza tuttavia superare totalmente le differenziazioni, il suoflusso immaginario, ludico, estetico intacca le differenze locali, et-niche, sociali, nazionali, di etĂ , di sesso, di educazione; sottrae al
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folklore e alle tradizioni temi che universalizza, inventa temi im-mediatamente universali. Ritroviamo ancora cosĂŹ il problema deldenominatore comune, dellâuomo al tempo stesso âmedioâ e âuni-versaleâ, il modello da una parte ideale e astratto, dallâaltra sincre-tico e molteplice, della cultura di massaâ (1974, 42-43).
Anche nei piccoli centri, comâĂš comprensibile, si Ăš diffuso len-tamente lââuomo medioâ, il destinatario ideale dei messaggi dellecomunicazione di massa, prescindendo dalla classe sociale, dallacategoria lavorativa, dal modo di accesso al reddito, dal contestoambientale. Ma un processo di modernizzazione del genere diquello ricostruito non Ăš lâesito di una crescita a livello produttivo.Non Ăš un caso che siano penetrati progressivamente anche nelchiuso mondo della montagna i prodotti di industrie insediate insedi lontane. âLa matrice del cambiamento piĂč che in processi ditrasformazione Ăš da cercare nella messa in crisi, nel declino e nel-la scomparsa di importanti settori delle attivitĂ produttive tradi-zionaliâ, per cui ânon Ăš stata la trasformazione a livello delle strut-ture economiche che ha prodotto il mutamento a livello delle so-vrastrutture sociali e culturali, piuttosto il loro spegnersiâ (Buttit-ta 1977, 221-22).
I processi di modernizzazione registrati nelle piccole comunitĂ di aree marginali non sembrano essere lâesito di una forza di cre-scita interna e autonoma ma un portato dallâalto (o, meglio, dal difuori), non autenticamente vissuto dai protagonisti e in qualchemodo subĂŹto inconsapevolmente. Ecco perchĂ© Ăš possibile vedervi,in ultima analisi, altrettanti esempi di âsviluppo senza progressoâ.Ă cresciuto il consumo perchĂ© Ăš cresciuto il numero dei beni di-sponibili per abitante; Ăš cresciuto lo scambio, come abbiamo avu-to modo di vedere trattando dei piccoli negozi di paese. Ma ad es-si non si Ăš accompagnata una crescita sul piano della produzione,nĂ© su quello dellâautonoma elaborazione culturale. La situazionedelle piccole comunitĂ non appare allora tanto lontana dalle âsi-tuazioni di dipendenzaâ che Balandier registrava nei regimi colo-niali dâAfrica, una dipendenza ânegativaâ o âpassivaâ, perchĂ© âac-
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cettata (o cercata) per i vantaggi che comporta e che Ăš sentita qua-si come ânaturaleââ.
Nelle condizioni descritte la struttura previdenziale e la rete as-sistenziale, tutte le azioni di Welfare complessivamente attivate,per come hanno operato negli anni Sessanta e Settanta, hanno fi-nito per svolgere una funzione perversa, sulla quale in tempi suc-cessivi e in diverse sedi non si Ăš mancato di porre lâaccento. Essehanno solo funto da valvola di scarico del malessere sociale, sonoservite a tenere legato alla terra il contadino che non aveva motiviper restarci, se non nellâattesa che si creassero nuovi spazi nellâin-dustria del Settentrione. Sono servite a stimolare il consumo met-tendo a disposizione dei ceti piĂč deboli il denaro necessario a pro-curarsi ciĂČ che i mass media proponevano. Il Sud come area diconsumo ha trovato pratica realizzazione, insomma, nella elargi-zione di denaro sotto forma di pensioni dâinvaliditĂ , contributi afondo perduto, assegni a vario titolo. Tutti elementi di raccordofra unâeconomia da sottosviluppo e gli attuali processi di moder-nizzazione.
Elementi, a loro volta, che si sono rivelati intrinsecamente de-boli per almeno due motivi. Il primo Ăš dâordine economico: la pra-tica dellâassistenzialismo ha funzionato finchĂ© ci sono state risorsesufficienti, o Ăš stato possibile realizzare altrove surplus da destina-re a essa; questo da alcuni anni a questa parte Ăš sempre meno so-stenibile. Il secondo motivo Ăš dâordine sociale e culturale insieme:rischia di rimanere epidermica una modernizzazione, nei compor-tamenti, nei costumi e nei consumi, che non sia sostenuta da unadi pari grado nei sistemi di produzione.
7. Un case study: lo scambio matrimoniale
Ci sia consentito chiudere queste riflessioni su una comunitĂ intransizione richiamando residui di una cultura ormai scomparsama dallo scrivente personalmente vissuta: ricordi sui quali diven-
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ta persino difficile riflettere, tanto grande Ăš il coinvolgimento. Ri-cordi, appunto, piĂč che analisi che si vogliano scientifiche. Pren-deremo in considerazione due fatti: il primo riguarda lo scambiomatrimoniale, in passato di tipo in prevalenza endogamico; il se-condo riguarda le feste da ballo che si tenevano in paese e costi-tuivano occasioni di incontro tra giovani dei due sessi. Riteniamosintomatico del processo di transizione verificatosi nel compren-sorio il progressivo superamento di unâarcaica regola di scambiomatrimoniale ancora diffusa in molte aree del bacino del Mediter-raneo: uno scambio tendente allâendogamia, come ancora lasciaintravedere il proverbio âMoglie e buoi dei paesi tuoiâ.
La questione dei fattori che determinano il prevalere di unaforma di scambio matrimoniale sulle altre Ăš stata variamente af-frontata e risolta. Gli storici, che piĂč diffusamente di altri se ne so-no occupati, utilizzando serie complete di archivi parrocchiali apartire dalla fine del Medioevo, sono in qualche modo concordi.Essi hanno visto nelle modalitĂ di trasmissione del patrimonio ilfattore determinante del tipo di scambio che si realizza nel matri-monio. Hanno posto lâaccento, in altre parole, su determinantiesterne, di tipo economico, per cui i matrimoni piĂč âliberiâ sareb-bero stati quelli dei ceti piĂč diseredati che non possedevano patri-moni da trasmettere, mentre i matrimoni fra consanguinei, allâop-posto, risultavano dettati dallâesigenza di non disperdere patrimo-ni accumulati faticosamente. Ma ci sono anche altre ragioni su cuiĂš stata richiamata lâattenzione.
âDettate dalla paura di vedere le vigne dividersi allâestremo e ipatrimoni dissolversi â osserva lo storico francese con riferimentoa un centro vitivinicolo del XVIII secolo â le strategie matrimonia-li dei nostri vignaioli non sono i semplici strumenti di una ripro-duzione identica delle strutture sociali. Sono volte non solo a pre-servare la ripartizione dei patrimoni e lâequilibrio allâinterno dellacomunitĂ di villaggio, ma anche ad impregnare le relazioni socialie la loro âsuperficie sensibileâ, le relazioni affettive, di una ideolo-gia egualitariaâ. Visto in questa luce, il diffuso concetto di âco-
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munitĂ di villaggioâ finisce col rivelarsi lâesito del sistema di pro-tezione messo in atto âdallâendogamia e dalla logica delle strategiematrimonialiâ (BourguiĂšre 1976, 1089).
Il credito che BourguiĂšre concede al sociale (e al culturale, nel-la sua funzione definitoria del primo) Ăš di per se stesso una presadâatto che la trasmissione dei beni non esaurisce tutte le determi-nanti possibili. âLâinteresse, certamente legittimo, per le determi-nazioni economiche dello scambio matrimoniale, acquista un ca-rattere quasi ossessivo. La domanda corretta da porsi non Ăš: qua-li sono le determinanti esterne di un sistema di scambio matrimo-niale, ma piuttosto: con quali modelli sono compatibili certe spe-cifiche esigenze di trasmissione dei beni?â Esistono anche, infatti,e sono da valutare adeguatamente, âfattori interni alla parentelaâ.In ogni caso, âse fattori esterni di tipo economico possono guida-re le strategie matrimoniali nelle societĂ complesse, essi tuttavianon spiegano del tutto il funzionamento delle strutture comples-seâ (Arioti 1983, 256, 258).
Piccole comunitĂ di poveri contadini, braccianti e disoccupatiche non hanno molto da trasmettere in ereditĂ perchĂ© non possie-dono piĂč di tanto, costituiscono da questo punto di vista casi si-gnificativi. Valutando a pieno le ragioni altre che portano a matri-moni di tipo endogamico, Ăš possibile comprendere piĂč a fondo leragioni del loro superamento. Tale Ăš il caso qui preso in esame.
Fino a un quarantennio addietro era molto diffuso un alto gra-do di endogamia nei matrimoni celebrati nei paesi di montagna, etale fenomeno sfociava spesso in unâunione fra consanguinei. Ba-sta risalire indietro di due o tre generazioni perchĂ© si colgano glistretti legami di parentela che esistono fra abitanti di un borgo dipoche centinaia di abitanti: si registra la presenza diffusa, se nonesclusiva, di un solo cognome e il monotono ripetersi di sopran-nomi identici per gruppi locali di grossa consistenza, e se ne rica-va lâidea che nelle generazioni precedenti si era tutti cugini. Allabase di questa forma di unione, che Ăš stata opportunamente defi-nita âscambio bloccatoâ, non stanno perĂČ solo esigenze legate al-
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la trasmissione dei beni, che anzi spesso câentrano per nulla. Cistanno invece ragioni di tuttâaltro altro tipo che ora vedremo di in-dividuare.
Cominciamo col richiamare lo stato di isolamento in cui i pae-si di montagna sono vissuti fino a non molto tempo fa: assenza distrade, carenza di mezzi di trasporto, ridotte esigenze di scambioin una economia di autoconsumo. Se la gente si spostava da uncentro distante non piĂč di dieci chilometri dallâaltro, era solo inoccasione di fiere, mercati e feste patronali: occasioni saltuarie, enon sempre propizie ad allacciare e coltivare relazioni sociali e af-fettive. Lâeconomia del latifondo obbligava inoltre interi nuclei fa-miliari a prestare lavoro per molti mesi di seguito in feudi remoti,e la pastorizia teneva i pastori lontani dai paesi per lunghi periodidi tempo. In queste condizioni Ăš facile comprendere come le po-che relazioni possibili si limitavano al ristretto ambito della fami-glia allargata, dove si finiva perciĂČ con lo scegliere il partner.
Una prova da âcartina al tornasoleâ dellâalto grado di endoga-mia registrabile nelle piccole comunitĂ di montagna? Le poche fi-gure femminili che venivano da fuori erano in qualche modo se-gnalate, sarebbe meglio dire âmarchiateâ, con un soprannomeparticolare: in pratica la donna âforestieraâ era indicata in paesecon lâetnicismo del centro di provenienza. Il che la teneva distintapersino dal nucleo familiare di appartenenza: mentre infatti di so-lito la moglie era indicata con riferimento al casato del marito, inquesti casi continuava a fare storia a sĂ©, tenendosi il proprio so-prannome etnico. Ă come se non venisse integrata nel nucleo fa-miliare acquisito, neanche sul piano linguistico e culturale. In mol-ti paesi delle Madonie, veri e propri relitti linguistici testimonianodel periodo in cui il matrimonio endogamico registrava le primetimide brecce: Cuncittina a arminisi, Pippina a bompitrara, Ancili-na a missinisi... sono i nomi con cui si sono a lungo indicate per-sone che sessanta, cinquanta o quarantâanni fa si sono trasferite daAlimena, Bompietro e Messina a Calcarelli.
In effetti, anche quando le condizioni di isolamento che favo-
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rivano lâendogamia sono venute meno, la comunitĂ non ha smes-so di âdifendersiâ. Il controllo sociale sulle scelte matrimoniali ri-mase forte ancora per molto tempo e le occasioni in cui era possi-bile allacciare relazioni al di fuori della cerchia parentale rimaseropoche. Gli spazi del paese in cui si potevano tessere relazioni so-ciali di qualsiasi tipo erano drasticamente ridotti e continuamentesoggetti al controllo e alla tutela degli abitanti. Unito al forte sen-so del vicinato (peraltro rassicurante, sotto molti aspetti), questofatto determinava lâuniformarsi dei comportamenti pubblici e pri-vati a un modello comune e condiviso da tutta la popolazione.
Uno spazio in cui capitava di allacciare rapporti affettivi era co-stituito dalle feste da ballo. Esse costituivano luoghi dâincontro incui era possibile cogliere le prime timide disponibilitĂ a una rela-zione affettiva ancora tutta da creare. Ma le stesse, lungi dallâesse-re forme di socializzazione libere, erano rigidamente codificate esottoposte al controllo degli anziani genitori, nĂ© vi era ammessasenza resistenze gente dâaltri paesi. Le modalitĂ di svolgimentoerano, al riguardo, indicative.
Le feste si organizzavano in casa di privati che disponevano diampie sale: quasi sempre si ricorreva alla camera da letto, dallaquale si eliminavano il letto e i mobili di piccole dimensioni, la-sciando perĂČ appese alle pareti fotografie di antenati e immaginisacre. Erano promosse e organizzate da un ristretto numero digiovani i quali fino alla vigilia distribuivano inviti. In realtĂ , nonera possibile rivolgersi alle ragazze del paese, ma la richiesta era ri-volta ai rispettivi genitori, ai quali si dava naturalmente per sottin-teso che accompagnassero le figlie alla festa. I genitori, da parte lo-ro, non mostravano quasi mai di accettare lâinvito ricevuto, trin-cerandosi regolarmente dietro una serie di dubbi, difficoltĂ , im-pegni, dinieghi. Ne derivava una conseguenza: fino al momento incui si dava inizio al ballo non era possibile neppure stimare la con-sistenza dei partecipanti.
Non solo le feste coinvolgevano la famiglia della ragazza invi-tata, ma i genitori si sentivano in diritto di presenziare, prenden-
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do posto in un lato della sala e tenendosi la figlia il piĂč vicino pos-sibile. La richiesta di un ballo rivolta alla ragazza impegnava inqualche modo tutta la famiglia, che vi consentiva o si rifiutava. Sela richiesta tornava a essere ripetuta piĂč volte e non incontrava ildiniego dei genitori, questo diventava per gli astanti il segno diuna relazione in statu nascenti: la festa da ballo diventava in talmodo non un semplice luogo dâincontro fra ragazzi e ragazze malâoccasione di una sorta di ufficializzazione di un rapporto affetti-vo, un vero e proprio fidanzamento ufficiale, del quale la comuni-tĂ prendeva atto. In altri termini ancora, la festa, nella sua essen-zialitĂ , costituiva una sorta di momento rituale, con luoghi prefis-sati, tempi dellâanno stabiliti e azioni da rispettare, pena il suo fal-limento.
Un veloce processo di modernizzazione ha investito anche que-sta realtĂ e ha prodotto profondi cambiamenti nel giro di qualcheanno. Le feste da ballo organizzate nei modi e con le finalitĂ indi-cate non sono andate oltre i primi anni Settanta nei piccoli centridelle Madonie. Dopo di allora Ăš andata perdendosi la ritualitĂ chele caratterizzava e le feste sono diventate sempre piĂč occasioni diliberi incontri, senza lâingombrante presenza dei genitori. Le oc-casioni in cui creare relazioni affettive si sono moltiplicate e sonodivenute sempre piĂč informali: passeggiate, incontri in luoghi ap-partati, lunghe conversazioni telefoniche. NĂ© câĂš stato piĂč bisognodella serenata portata sotto la finestra della ragazza a tarda ora perottenerne un assenso.
La moglie âforestieraâ non Ăš piĂč marchiata nel modo prima ri-chiamato. A parte le normali difficoltĂ di adattamento, o lâessereoggetto di attenzione curiosa da parte dei compaesani, la donnanon Ăš piĂč trattata come unâestranea. Lâaumentato tenore di vita, ilmiglioramento della rete stradale, la fine dellâeconomia latifondi-sta e dellâisolamento che essa comportava, lâaccresciuta densitĂ deitrasferimenti non piĂč limitati al giorno della festa patronale, han-no costituito altrettante occasioni di accresciute relazioni e discambi tra popolazioni di centri anche non contigui.
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Eppure i segni di una transizione ancora in atto non mancano.Molti lavoratori manuali, siano essi contadini, pastori, piĂč rara-mente artigiani, hanno continuato a lamentare le non poche diffi-coltĂ incontrate a trovar moglie al di fuori della cerchia alla qualesembravano in qualche modo âpredestinatiâ. Che pastori abbianosposato figlie di altri pastori, e contadini figlie di altri contadini, Ăšavvenuto ancora molto piĂč di frequente di quanto si immagini. Lachiusura endogamica, insomma, se Ăš parsa in via di superamentosul piano geografico, Ăš perdurata nel tempo e forse si Ăš rafforzatasul piano sociale.
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II. Una modalitĂ della transizione: dal dialetto alla lingua
1. Presentazione
Tra gli addetti ai lavori il processo di italianizzazione che, a piĂčdi un secolo dalle polemiche sulla âquestione della linguaâ, ha in-vestito anche le aree meno esposte del Paese, Ăš stato oggetto di va-lutazioni diverse e talora opposte. Alcuni studiosi hanno preso po-sitivamente atto del progressivo espandersi dellâalfabetizzazione edella scolarizzazione quali tramiti fondamentali della diffusionedella lingua nazionale. Hanno evidenziato la funzione positivasvolta dai mass media, cogliendo nel continuo crescere degli indi-ci di esposizione altrettante conferme: la lettura dei giornali, lâa-scolto di radio e televisione, la frequenza a cinema e teatri sono di-ventati perciĂČ oggetto di interesse perchĂ© anche loro tramite si Ăšpotuto ogni volta indagare meglio un quadro in trasformazione.Tali fattori sono stati correttamente inquadrati nel processo di in-dustrializzazione del Paese, fino a sessantâanni fa eminentementeagricolo: in esso si Ăš individuato perciĂČ il motore primo della mo-dernizzazione, dellâitalianizzazione e della conseguente crescita dicoscienza civile.
Ci sono altri studiosi invece che hanno preso atto del progres-sivo sparire di un certo mondo fatto di realtĂ e parlate locali comese si fosse trattato di una disgrazia. GiĂ nel 1932 Bruno Migliorinisottolineava questo particolare stato dâanimo tra i dialettologi, evi-
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denziandone le valenze negative e la contraddittorietĂ . Scrivevainfatti: âLa sovrapposizione della lingua comune ai dialetti Ăš unavvenimento per qualche rispetto analogo alla sovrapposizione dellatino dei legionari alla lingua provinciale dopo la conquista ro-mana: il considerarla come una iattura per il dialettologo anzichĂ©come un fenomeno da studiare con occhio critico Ăš una vera gret-tezza mentale, di cui daranno sfavorevole giudizio i linguisti del-lâavvenireâ (1948, 16-17).
Per molto tempo Ăš accaduto di vedere studiosi di dialetti chedisdegnavano di quantificarne i parlanti, per paura quasi che lâog-getto di studio venisse colto nelle sue reali dimensioni. Restrin-gevano perciĂČ le loro ricerche alle aree piĂč isolate, limitavano gliinformatori agli anziani dai sessantâanni in su, si ritenevano soddi-sfatti se riuscivano a delineare le isofone di una parlata o a scopri-re relitti linguistici di cui si applicavano in seguito a ricercareascendenze e a ipotizzare etimologie. Rischiavano in poche paroledi fare una sorta di archeologia del sapere linguistico.
Vizio antico, comâĂš stato rilevato. La dialettologia, in origine,ribaltava il metodo di ricerca tradizionale nelle scienze linguisticheesclusivamente basato sulla documentazione scritta. Essa privile-giava invece i dati raccolti dalla viva voce dei parlanti e consenti-va di dare cosĂŹ un quadro completo della situazione linguistica diunâarea senza lasciare punti vuoti, perchĂ© carenti di documenta-zione scritta. Per le sue stesse scelte di metodo essa finiva anchecol rivelare una carica âdemocraticaâ inimmaginabile nellediscipline tradizionali. âPurtroppo la dialettologia mostrĂČ fin daiprimi passi di non sapere trarre risultati positivi da premesse cosavantaggiose. Essa si isterilĂŹ ben presto al punto da limitare le suericerche, in campo romanzo, agli âesitiâ di forme o singoli fonemidel latino... con lâalternativa della ricerca onomasiologiaâ. La con-seguenza Ăš che âin Italia, dopo cento anni di dialettologia, nonsappiamo assolutamente quale sia lo stato effettivo della situazio-ne. Si parla dei dialetti come di qualcosa di miticoâ (Cardona1976a, 264-65, 275).
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Ancora diversamente Ăš stato spesso valutato il processo di ita-lianizzazione tra gli antropologi. Al riguardo Ăš utile citare una con-trapposizione significativa. Nellâavvertenza alla seconda edizionedella sua Storia linguistica, Tullio De Mauro, richiamando gli ap-passionati interventi di Don Milani, evidenziava âla necessitĂ chele classi subalterne, soprattutto contadine, senza farsi fuorviare dapopulisti vecchi e nuovi, si impadroniscano dellâitaliano comune,dellâitaliano vivo e vero, uscendo fuori dai ghetti dialettali (cosĂŹ co-me dai funerei mausolei dellâitaliano aulico e professorio)â (1970a,XI). Accennando poi alle ricerche sul linguaggio televisivo e allasua vasta influenza, lo definiva âscuola di lingua unitaria per gliitalianiâ.
Due anni dopo Luigi Lombardi Satriani, partecipando a unconvegno sulla diffusione della lingua italiana, metteva in guardiadai facili ottimismi e rilevava al contrario a quali esiti, di disauten-ticazione culturale e di âdeprivazioneâ linguistica, il processo diitalianizzazione aveva giĂ dato, o stava dando luogo. Lâuso del dia-letto non era âin ogni caso e automaticamente segno di vitalitĂ cul-turale. Ma neanche Ăš esatto rinchiudersi in una dialettofobia cheidentifichi arbitrariamente dialetto e povertĂ culturale, dialetto econformismo, conservazione, reazione... Per non cadere in un mi-to populistico del dialetto, si rischia di alimentare il mito di unalingua italiana automatica portatrice di coscienza criticaâ (1974,17).
Siamo dellâidea che la diversitĂ di valutazioni di un unico e so-lo fenomeno sia da addebitare al fatto che nellâindagarlo si Ăš con-tinuata ad assumere, quasi per tradizione, una posizione di parte.La quale era appunto quella del demologo e del dialettologo tra-dizionale per un verso, e del giovane e aggressivo linguista per lâal-tro. Essi avrebbero privilegiato ognuno il settore che gli era piĂčproprio, trascurando gli altri. Ă da ritenere invece che il progres-sivo diffondersi di una lingua nazionale e il contrarsi delle varietĂ dialettali, in quanto fenomeni che procedono insieme, insieme de-vono indagarsi e da un punto di vista unitario, non adottando cri-
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teri di definizione e valutazione diversi a seconda dei pregiudizi dipartenza. In tale prospettiva rivestono grande importanza gli indi-ci del progredire dellâitalofonia, senza che ciĂČ autorizzi a trascura-re i molti casi di ritardo delle culture locali non coinvolte nei pro-cessi di modernizzazione economica e sociale, resistenza vera epropria, talora, che si Ăš manifestata sub specie linguistica.
Lâindagine nei grossi centri ormai prevalentemente italofoni Ăšda ritenere importante tanto quella condotta nei piccoli centri, lecui dinamiche non possono che essere diverse da quelle rilevabilinelle metropoli. La contrapposizione tra i fatti rilevati dal lingui-sta e quelli rilevati dallâantropologo puĂČ essere perciĂČ superata epuĂČ essere cancellato quello che Ăš spesso diventato un luogo co-mune, per cui si viene associati ai progressisti quando si parla a fa-vore della lingua e ai reazionari quando si parla in difesa del dia-letto.
2. Fenomeni di egemonia linguistica
Anticipando quanto osserveremo sul rapporto lingua-cultura,non ha senso istituire gerarchie di lingue poichĂ© ognuna rispondea esigenze dettate dalla pratica sociale. Contenuti finora nonespressi in una certa lingua non vuol dire che non lo possano es-sere in futuro. La prospettiva diacronica lungo la quale ogni lin-gua si muove non esclude infatti âpraticheâ nuove rispetto al pas-sato. Dâaltronde, se ogni lingua risponde a prassi ben definite sulpiano spaziale e temporale, dovremmo avere tante parlate quantesono le comunitĂ di parlanti. Ma sappiamo che non Ăš cosĂŹ! Non Ăšil codice linguistico in sĂ©, ma Ăš lâuso strumentale, politico e ideo-logico che di un codice vien fatto a portare alla creazione di ge-rarchie linguistiche. Ed Ăš con queste che ci troviamo regolarmen-te a fare i conti.
Andando indietro nel tempo, osserviamo che non Ăš per nullararo che certi aggregati sociali prevalgano su altri. Lâidioma del
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gruppo vincitore diventa lingua, mentre quello degli sconfitti vie-ne relegato al rango di dialetto, destinato a vedersi rosicchiate pro-gressivamente posizioni giĂ occupate. La âlinguaâ gode di presti-gio maggiore rispetto al âdialettoâ non per ragioni intrinseche, maperchĂ© sul piano storico e politico il dialetto si viene regolarmen-te a trovare accanto a quelle che una volta si chiamavano âclassisubalterneâ. Nel dire che cosâĂš un dialetto, perciĂČ, non si puĂČ fa-re a meno di registrare anche la sua negativa valutazione sociale.âCercare criteri neutri per definire lingua e dialetti non puĂČ por-tare a buon fine, proprio perchĂ© i due concetti non sono neutri. Ilpunto essenziale Ăš che una lingua gode di prestigio maggiore cheun dialetto. Questo scarto porta spesso il parlante allâopinione cheil dialetto sia una corruzione, uno scadimento della lingua: ciĂČ Ăšper lo piĂč del tutto infondato, ma ci illumina sulla valutazione cheil parlante fa delle due formeâ (VĂ rvaro 1978, 41).
Alla superioritĂ politica e economica di un gruppo sociale si ac-compagna lâaffermarsi di una egemonia linguistica (Lo Piparo1979). âUna lingua â sostiene Gramsci â non si impone sui dialet-ti preesistenti se non Ăš espressione di gruppi egemoni dal punto divista politico-sociale. Rimane puro strumento di letteratura, iner-te a livello delle grandi masse. Essa acquisisce egemonia solo se Ăšsostenuta dalla superioritĂ dei sistemi di produzione che le stannodietro e dalle forme sociali che vi si accompagnanoâ (1975, 788-89). E risultano significative le osservazioni di Luis Prieto: âNellamisura in cui Ăš a spese delle altre classi che le classi dominantitraggono un vantaggio da certa pratica, esse hanno evidentemen-te interesse, per fare accettare tale pratica dalle loro vittime, aâideologizzareâ le maniere di conoscere da essa risultanti, vale a di-re a farle apparire come se fossero imposte dalla realtĂ stessa, co-me se fossero oggettiveâ (1978, 53).
Dal fatto che la lingua Ăš âun certo modo, non scientifico, diconcepire la realtĂ materialeâ (Prieto 1976, 128), consegue che leclassi dominanti esercitano âviolenza simbolicaâ quando contrab-bandano per oggettiva e naturale quella che in origine Ăš una seg-
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mentazione di parte, essendo una pratica sociale di classe. La co-municazione finisce perciĂČ col diventare tramite di imposizione dinuove visioni del mondo, di segmentazioni date per oggettive ofatte ritenere piĂč importanti. Se teniamo presente, infatti, lo stret-to legame tra lingua e cultura, Ăš chiaro che qualsiasi azione, pur in-centrata inizialmente sulla lingua, si estende alla cultura che in es-sa si esprime. Mettere in crisi la lingua di un gruppo significa per-ciĂČ fargli accettare âdensitĂ culturaliâ che non gli appartengono,ragioni che non sono sue, intaccarne le ragioni di sopravvivenza e,in ultima analisi, disautenticarlo. âLa soppressione forzosa dellelingue materne produce effetti disgreganti e alienanti sulla popo-lazione... In Groenlandia, come anche in Alaska e nel Canada, do-ve si Ăš proceduto alla forzosa soppressione delle lingue locali nati-ve, si Ăš prodotta la disgregazione delle culture autoctone, metten-do i nativi in condizioni di non poter apprendere alcuna cosa dauna cultura o da unâaltraâ (Lanternari 1977, 224-25).
Adottando unâottica quale quella qui proposta, un caso moltosignificativo di affermazione di egemonia risalente a un lontanopassato puĂČ essere costituito dalle vicende del sostrato prelatino,uno degli effetti storici piĂč vistosi conseguenti a sostituzioni di lin-gue. Non si Ăš mai negato, in realtĂ , che la diffusione del latino fos-se conseguenza dellâespansione politica di Roma, si Ăš perĂČ anchesostenuto che erano le popolazioni soggette a Roma a desideraredi âelevarsi culturalmenteâ parlando latino, senza che i Romanipensassero minimamente di assimilarli culturalmente (e, in primoluogo, linguisticamente). Un simile desiderio, perĂČ, non dovevaandare oltre i ceti egemoni dei paesi conquistati se, ai livelli socia-li inferiori, solo in minima parte veniva ad essere scalfita la cultu-ra originaria. Le marcate differenze culturali (e, prima ancora,economiche e sociali) delle regioni dellâImpero rimanevano perciĂČpoco intaccate dalle âdensitĂ â privilegiate dalla cultura latina.Prova ne sia che, finchĂ© il controllo politico del centro fu forte eefficiente, le differenze stentarono a venire a galla. Emersero inve-ce una volta indebolitosi e scomparso il regime imperiale. A que-
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sto punto nacquero i fenomeni di sostrato: dal momento che cer-te particolaritĂ linguistiche regionali erano cosĂŹ forti da sopravvi-vere in maniera âsotterraneaâ nel latino classico, non stentarono amanifestarsi e diffondersi nella lingua parlata e nei documentiscritti in latino volgare prima, e poi nelle lingue romanze.
Il fatto che gran parte dei fenomeni di sostrato sia riscontrabilenella toponomastica, oltre che nella denominazione degli attrezziagricoli e in quella tradizionalmente indicata come âvita rusticaâ,costituisce conferma di come le âlingue nativeâ fossero connesseai modi di produzione tradizionali molto piĂč che ad altri ambiti,mentre quella di Roma rimaneva la lingua ufficiale dellâammini-strazione, della letteratura e delle pubbliche manifestazioni in ge-nere. GiĂ Graziadio Isaia Ascoli aveva colto la specificitĂ del fe-nomeno quando nei fatti di sostrato vedeva altrettanti esempi diâreazioni etnicheâ (cioĂš culturali, oltre che linguistiche). Benve-nuto Terracini, a sua volta, non si era lasciato sfuggire il comples-so di motivazioni che stavano alla base dei fenomeni di sostratoquando parlava di una âlingua dominanteâ e di una âlingua do-minataâ, ritenendole conseguenze del prevalere della cultura lati-na sui tratti delle culture indigene che risultavano piĂč diffuse tragli strati subalterni (1957, 47, 57-59).
3. Il passaggio dal dialetto alla lingua nelle comunitĂ in transizione
Il caso piĂč complesso di sostituzione della lingua al dialetto Ăšrintracciabile nella storia linguistica del nostro Paese. Sullâargo-mento rimangono di fondamentale importanza le pagine della Sto-ria linguistica dellâItalia unita di Tullio De Mauro, nelle quali ri-sulta relativamente agevole cogliere i meccanismi profondi chepresiedettero al diffondersi della lingua nazionale: la vecchiaâquestione della linguaâ che ritorna nelle dispute tra ascoliani emanzoniani ne Ăš solo una spia a livello letterario. Ancora nel 1951,secondo le stime del linguista, solo il 18,5% della popolazione ita-
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liana era costituito da italofoni esclusivi. A parte un buon 13% didialettofoni puri, rimaneva il 68% di parlanti che nelle rilevazionistatistiche dichiaravano di conoscere lâitaliano. Non ci vuol moltoperĂČ a immaginarne il grado di competenza e le concrete limita-zioni dâuso: si trattava di un italiano scolastico, per la gran parte,appreso negli anni della scuola elementare e usato raramente, for-se solo quando al parlante capitava di recarsi presso gli uffici del-la pubblica amministrazione. In novantâanni di UnitĂ si era in-somma riusciti a fare ben poco, dal momento che nel decennio1860/70 gli italofoni non andavano oltre il 2,5% della popolazio-ne (1970a, passim).
Forse Ăš il caso di segnalare che, per il nuovo stato unitario, lâu-nitĂ linguistica doveva proporsi uno âscopo âpacificatoreâ benpreciso, di conserva con lâunificazione legislativa (e amministra-tiva) in atto. Dare una lingua unica a tutti era un modo di pacifi-care gente trovatasi improvvisamente a contatto con tutti i pro-blemi che ne erano nati o si erano acuiti, brigantaggio in primoluogo. Se esigenze di tal natura non andarono ad effetto Ăš perchĂ©anche in ambito linguistico la classe dirigente si piegĂČ al compro-messo con i ceti egemoni del tempo che, sul piano economico e so-ciale, Ăš stato giĂ messo in rilievo da Gramsci. Per il pensatore sar-do, il nuovo Stato, dopo aver agevolato la nascente borghesia in-dustriale del Nord abolendo le frontiere regionali, finĂŹ col lasciareal Sud le stesse strutture produttive del periodo preunitario. In talmodo finiva con lâingraziarsi gli agrari del Mezzogiorno. Possiamodire che le cose non andarono diversamente quanto alla diffusio-ne della lingua nazionale. Erano gli agrari infatti a vedere una mi-naccia nel fatto che i braccianti dei feudi imparassero lâitaliano,che doveva invece restare privilegio di pochi. âNe abbiamo la con-ferma esplicita nella tesi dei Gesuiti della âCiviltĂ cattolicaâ che nel1868 respingevano le proposte di estendere a tutti lâuso della lin-gua nazionale insistendo sullâineluttabilitĂ della distinzione tra iâbranchi di zotici contadinelliâ e i âgiovanetti di civil condizioneâpoichĂš âogni studio che si mettesse a far apprendere quellâidioma
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[lâitaliano] e quella pronuncia alle classi infime del popolo, sareb-be per la massima parte e quasi totalitĂ un lavar la testa allâasinoââ(De Mauro 1970a, 45).
Le scuole venivano create, perciĂČ, ma non si dava ai figli deicontadini la possibilitĂ di frequentarle. Le culture locali venivanopreservate e i dialetti valorizzati in alcune disposizioni per le scuo-le tecniche dettate nel 1880 da Francesco De Sanctis, ministro del-lâistruzione. Ma Ăš significativo lâoscillare dei programmi scolastici,redatti a cavallo dei due secoli, fra la condanna delle parlate loca-li e una loro decisa valorizzazione (ivi, 340-41). La scuola, deputa-ta alla diffusione della lingua nazionale, si trovava stretta fra op-poste esigenze e finiva col dettarsi norme contraddittorie nel tem-po. Tutto questo non finiva con lâessere il risultato, sul piano lin-guistico-culturale, del compromesso di cui sopra? Dâaltronde, ilfatto che risultasse difficile âestirpare la malerba dialettaleâ era lâe-sito delle mancate trasformazioni strutturali in gran parte del Pae-se. Ă indicativo che un grosso balzo in avanti nella diffusione del-lâitalofonia si sia registrato nel Settentrione e in periodo giolittia-no: era lĂŹ, e allora, che si innescava uno dei primi casi di sviluppoindustriale.
Non si puĂČ dire che gli esiti della politica linguistica fascista sia-no stati diversi, anche se diversi ne erano i presupposti. Nello sti-le del regime il problema veniva infatti affrontato con demagogiapari a improntitudine. I programmi della scuola primaria redattinel 1934, con la loro antidialettalitĂ dichiarata, ne costituisconouna sorta di manifesto. La soluzione fascista, comâĂš risaputo, eraquella di âsopprimereâ i dialetti, adottando procedure simili aquelle con cui il regime sventrava i centri storici delle cittĂ per ri-edificarli nello stile dellâantica romanitĂ : in pratica lâimposizionedellâitaliano avrebbe finito col compiersi sulle rovine delle parlatepreesistenti. Inutile dire che il progetto si realizzĂČ solo in minimaparte.
Resta da richiamare la mancata trasformazione economica digran parte delle regioni e la cristallizzazione di una realtĂ sociale
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che vedeva nella piccola borghesia di cittĂ , italofona o aspirantetale, la punta di diamante del consenso al regime.
Passiamo ora a delineare le modalitĂ del rapido processo di dif-fusione della lingua in Italia, a partire dal secondo dopoguerra, eche si concentra maggiormente nellâarco di tempo compreso fragli anni Sessanta e i Settanta. Dai rilevamenti effettuati risulta chenel decennio 1961/71 gli italofoni effettivi raggiungevano il 48%della popolazione. A fronte dellâ8,4% di dialettofoni puri rimane-va il 43,6% di bilingui, tendenzialmente monolingui col passaredegli anni. âPur movendosi con un ritmo piĂč lento, Ăš un fatto chei processi di trasformazione a livello socio-culturale, se pur talorali condizionano, finiscono sempre con lâessere determinati daimutamenti intervenuti a livello dei sistemi di produzione e discambioâ (Buttitta 1976, 100-01). Ora, nel caso in esame, cosa Ăšcambiato rispetto al passato? Si sono forse delineate condizionisociali e economiche che conducano ânaturalmenteâ a un cambiodi lingua? Poteva essersi innescato un qualche processo di inno-vazione, tipico di societĂ industriali avanzate? Nello specifico, puĂČessersi verificata una qualche trasformazione economica, invanoattesa negli anni precedenti? O si era messa in atto una politica lin-guistica piĂč potente e efficace, quale mai si era vista in passato?
Il diffondersi della lingua italiana nelle regioni del Centro-Nord Ăš certamente da ritenersi in gran parte il portato delle pro-fonde trasformazioni economiche e sociali lĂŹ intervenute, fatto delresto giĂ segnalato per il periodo giolittiano. Alcune varietĂ set-tentrionali della lingua hanno anzi finito per costituire una sorta diâlingua francaâ per operai provenienti dalle diverse regioni dellaPenisola. Ed esse possono aver costituito il primo gradino di unintenso processo di mimetizzazione cui si sottoponevano quelleche prima erano popolazioni contadine del Sud per integrarsi nel-le regioni dâarrivo. In unâintervista rilasciata al âGiornoâ di Mila-no nel 1964 Pier Paolo Pasolini (1977) segnalava il diffondersi dalPiemonte al Friuli di quella che egli chiamava una âlingua indu-
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strialeâ (e che altrove chiamerĂ lingua aziendale): essa accomuna-va soggetti delle piĂč diverse classi sociali. Lâoperaio della fabbrica,ex contadino inurbato, il quadro intermedio e il dirigente parla-vano perciĂČ una lingua comune diffusa in parte nei bollettini sin-dacali di fabbrica, in parte nei quotidiani, in parte in radio e tv.
Le stesse ragioni non bastano a spiegare la progressiva diffu-sione della lingua nazionale in aree le cui strutture economiche esociali sono rimaste in gran parte quelle di trenta o quarantâanniprima. Il riferimento va in primo luogo, naturalmente, al Mezzo-giorno dove, a parte casi sporadici di industrializzazione âper po-liâ, le strutture produttive sono rimaste ancora per lungo tempoquelle di prima (Rochefort 2005). Non solo lâeconomia continuĂČa basarsi in gran parte su unâagricoltura povera (a parte lecoltivazioni delle aree costiere irrigue che furono ben prestoriorganizzate in senso intensivo), ma essa andĂČ soggetta a forme diesaurimento dovute a diversi fatti: la mancata attivazione di tecni-che di lavorazione nuove e remunerative; la permanenza di rap-porti di produzione di tipo latifondista; la fuga dalle campagne inconseguenza di quelle carenze, quando non si trattava di vera epropria espulsione forzata man mano che progredivano le sia purrare riconversioni. Linee di sviluppo (mancato) del genere hannofinito col rivelare alla lunga unâintrinseca debolezza per gli alti co-sti improduttivi che comportavano.
Lâattivarsi di una simile economia di dipendenza consentiva al-le regioni meridionali di diventare vaste aree di consumo dei pro-dotti della Brianza, come abbiamo giĂ avuto modo di vedere. Si la-sciava andare in crisi il debole sistema produttivo locale amplian-do il mercato dei manufatti del Nord; si creavano strutture assi-stenziali destinate a distribuire pubblico denaro per fini impro-duttivi; si elargivano pensioni di invaliditĂ talora secondo criterimeramente clientelari; si favoriva uno sviluppo abnorme del ter-ziario; si dava libero sfogo ad attivitĂ edilizie spesso di tipo specu-lativo, ricorrendo anche a finanziamenti pubblici; si creava e simanteneva in vita, infine, un tessuto commerciale polverizzato de-
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stinato solo a distribuire i manufatti che altre regioni produceva-no. Si Ăš instaurata insomma unâeconomia di puro consumo, e iprocessi di inurbamento â come giĂ segnalato da Aymard (1987) ânon sono stati certo dettati da esigenze produttive. Le condizioniperchĂš il Sud non esplodesse erano costituite dalla creazione diuna rete di assistenzialismo, di unâeconomia di tipo terziario,generalmente parassitario, il tutto reso possibile dal surplus pro-dotto al Nord.
Se questo era lo stato delle cose, nelle aree del Sud non Ăš datoassegnare alcuna funzione âmimeticaâ al diffondersi della linguaitaliana. Nei centri urbani, in primo luogo, lâuso dellâitaliano sem-brava dettato piĂč dal bisogno di âdistinguersiâ che non da esigen-ze di integrazione. Se qui câera mimetismo, esso sembrava dipen-dere piĂč dallâesigenza di agevolare una superficiale integrazionetra coloro che si ritenevano âimportantiâ perchĂ© parlavano italia-no: esigenza di distinguersi e mimetismo finivano perciĂČ col co-niugarsi in una maniera a dir poco perversa. Non si spiega altri-menti il fatto che continuassero a parlare in dialetto, per la granparte, soggetti dello strato proletario e sottoproletario urbano,non gli ex contadini inurbati di recente: di fatto questi ultimi ârin-negavano la loro cultura originaria, in quanto simbolo della loroprecedente condizioneâ (Buttitta 1976, 102). La lingua che si eradiffusa sembrava fatta, allâinizio soprattutto, solo di formule, diconcetti ridotti allâessenziale, e si accompagnava a una bassa com-petenza semantica. Poteva essere assimilata a una sorta di linguaburocratica, per un verso, e di una lingua di consumatori passivi,per altro: questo forse perchĂ© i parlanti avevano fatto propri mo-delli di comunicazione estranei, in origine, senza rielaborarli criti-camente in funzione di proprie esigenze. Allâinurbato in fuga dalproprio dialetto non rimanevano perciĂČ che spezzoni di italianoattraverso cui gli riusciva arduo ricomporre i tratti della propriacultura.
Quanto avvenuto puĂČ ritenersi appunto lâesito di un uso ideo-logico della lingua, come giĂ segnalato da Luis Prieto. Se non so-
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no state trasformazioni socioeconomiche di fondo alla base dellento processo di italianizzazione al Sud, Ăš lâandare ad effetto dicerti percorsi ideologici nei quali si creavano false equazioni comedialetto = ignoranza e si lasciava intravedere nel suo abbandonouna condizione allâascesa sociale (Ruffino 2006).
Questo valeva per le cittĂ , non per i paesi. Altre ragioni anco-ra possono infatti valere per spiegare fenomeni simili, ma dalla di-namica piĂč lenta e dagli aspetti meno vistosi, quali Ăš avvenuto diregistrare nei centri minori del Sud. Gli alti tassi di emigrazione, iprocessi di inurbamento, lâespandersi del terziario, la scomparsadei prodotti dellâartigianato, possono essere considerati effetti, ecause a loro volta, del venir meno di modi di produzione tradizio-nali con tutto il corredo di attrezzi, strumenti e tecniche che li de-finivano. Ne Ăš conseguito, sul piano linguistico, che âsi sono di-sintegratiâ certi contenuti culturali, Ăš scomparso lâoggetto localeed Ăš scomparsa la sua denominazione. Esso Ăš stato sostituito damanufatti fabbricati altrove e da nomi estranei al dialetto del luo-go. Le parlate locali hanno insomma perso sempre piĂč le loro spe-cificitĂ , italianizzandosi non perchĂš progredissero e si rinnovasse-ro ma perchĂš non sembravano piĂč in grado di elaborare termino-logie alternative, alternativi non essendo i prodotti. Se, in condi-zioni normali di sviluppo, i mezzi di produzione âconcentrando insĂ© lâesperienza dellâattivitĂ lavorativa precedente, servono alla con-servazione e alla trasmissione dellâinformazioneâ (Lotman Uspen-skij 1975, 35), nella realtĂ dei piccoli centri meridionali in brevevolgere di tempo sono sparite le parole e i tratti della âmemoriacollettivaâ che Ăš la cultura.
Ă superfluo, a questo punto, soffermarsi sui fatti degenerativisui quali diverse volte Ăš stata richiamata lâattenzione. Sorvoliamosui fenomeni di âdeprivazione linguisticaâ messi in rilievo da DeMauro (1974) riferendosi ai contadini del Basento. Ricordiamo in-vece come lâesito della messa in crisi della realtĂ linguistica e cul-turale del mondo contadino sia stato nel migliore dei casi una for-ma di âitaliano popolareâ, inteso come âil modo di esprimersi di
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un incolto che, sotto la spinta di comunicare e senza adde-stramento maneggia quella che, ottimisticamente, si chiama la lin-gua ânazionaleâ, lâitalianoâ (De Mauro 1970b, 48). Il fatto Ăš chedellâitaliano con cui venivano in contatto gli strati meno abbientiavevano una competenza largamente deficitaria, per lo piĂč passi-va. Si trattava di un italiano subalterno fatto di âformule e luoghicomuniâ. Se aggiungiamo la difficoltĂ di comprendere il significa-to di molti termini della lingua corrente, si capisce perchĂ© allora sicominciĂČ a parlare, molto opportunamente, di âitaliano impopo-lareâ.
Gaetano Berruto, che a questâultimo fenomeno si Ăš piĂč volte ri-ferito in unâindagine sul Bergamasco, ha rilevato âlâesistenza diuna vera e proprie âbarrieraâ di comprensione che separa le classiistruite e socio-economicamente avvantaggiate dalle classi nonistruite o poco istruite o socio-economicamente svantaggiate, eche vede allâestremo piĂč deficitario il contadino. Le classi basse,operaie e contadine, risultano... in tal modo escluse, oltre che dal-la fruizione di prodotti della cultura dei mass media, anchedallâelementare partecipazione piena ai loro diritti e doveri dimembri della comunitĂ sociale, che Ăš possibile, di fatto, solo conunâadeguata competenza comunicativa, in produzione e in ri-cezione, della lingua nazionale. Lâitaliano ufficiale della civiltĂ in-dustriale (o post-agricola) â conclude â taglia fuori una buona par-te dei cittadini da una sufficiente partecipazione alla vita della so-cietĂ â (1978, 149). Quanto piĂč grave Ăš stato il fenomeno se dallâa-rea bergamasca ci spostiamo verso le zone depresse del Mezzo-giorno dâItalia?
4. Processo di italianizzazione e cultura del consumo
Quelle delineate sono modalitĂ diverse di italianizzazione veri-ficatesi in aree diverse del Paese in anni ormai lontani, riconduci-bili a cause diverse se osservate in superficie. Basta perĂČ andare un
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poâ piĂč a fondo per capire come alla base del fenomeno ci sianocause unitarie piĂč complesse e dallâandamento contorto. Ă a que-ste ultime che ora ci applichiamo, consci della problematicitĂ eipoteticitĂ delle idee elaborate al riguardo. Crediamo di non esse-re lontani dal vero indicando in modelli di sviluppo âdi stamponeocapitalistaâ, come si diceva in passato, una delle cause. Alla ba-se di quei modelli sta, comâĂš risaputo a partire dalla Scuola diFrancoforte, lâesigenza di omologare i comportamenti, creareaspettative dello stesso genere in tutti i cittadini, aprire spazi anuovi mercati, per uniformare i consumi, infine. In seno al quadroipotizzato, una funzione non indifferente Ăš stata svolta dai massmedia ai quali, seguendo la linea dei Francofortesi, Ăš stato asse-gnato il compito di informare, intrattenere e distribuire âconsigliper gli acquistiâ, omologando i comportamenti nel pubblico e nelprivato.
âFino a quando il capitalismo si Ăš limitato a imporre certi mec-canismi alle classi subalterne considerandole solo forza-lavoro dasfruttare e non coinvolgendole nel consumo dei suoi prodotti, lacultura di tali classi ha conservato la sua omogeneitĂ . Quando, peresigenze di allargamento del mercato, il capitalismo ha comincia-to a considerare il mondo popolare non solo come area del lavoroma anche come area del consumo, la situazione Ăš necessariamen-te mutata. Per trasformare i lavoratori non consumatori in lavora-tori consumatori la grande industria aveva bisogno di affermarecerti modelli culturali attraverso cui veicolare e imporre la mitiz-zazione di certi prodotti, di un certo stile di vita. Ă a partire daquesto preciso disegno, realizzato in maniera ossessiva e massicciaattraverso i mezzi di comunicazione di massa, che hanno preso av-vio i processi di messa in crisi della cultura tradizionaleâ (Buttitta1977, 226). Lâesito piĂč autentico di un simile processo Ăš additatonella cultura del consumo dove, annullate tutte le diversitĂ locali,si instaurano uniformitĂ di comportamento basate sul fittizio.Rifiutato il proprio passato culturale, lâaggregato di soggetti etero-genei per composizione e provenienza non Ăš stato in grado di ela-
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borarne di nuovi e ha finito col far propri modelli di comporta-mento di altre classi. âIl risultato Ăš la ripetizione impacciata e gof-fa di una cultura sostanzialmente estranea e di cui sfugge lo spes-sore storico; la norma senza alcuna eccezione nelle persone e neicomportamenti Ăš il kitchâ (Buttitta 1976, 102).
Nel contesto delineato, la lingua, sistema semiotico in cui si tra-ducono tutti gli altri sistemi di segni, era destinata a giocare unruolo della massima importanza. Le forme dellâitaliano standarderano infatti le sole in cui si potessero tradurre i tratti della cultu-ra del consumo. Attraverso una lingua diffusa a tutti i livelli socia-li (e non piĂč solo entro ambiti elitari) si potevano trasformare inconsumatori effettivi quelli che, rimanendo dialettofoni, non lopotevano diventare. Pasolini (1977), riferendosi allâidioma deisoggetti âomologatiâ, parlava di una lingua âneutraâ, âcomunica-tivaâ e non espressiva, in grado di veicolare qualsiasi contenuto.Essa, priva di tratti culturali specifici da veicolare (non avendodietro una cultura omogenea), finiva con lâessere disponibile a farpropri e comunicare contenuti estranei, disponibile cioĂš alla ma-nipolazione. Della stessa bastava possedere una limitata compe-tenza (per lo piĂč passiva). Quanto bastava a recepire i messaggidei mass media. I modelli di comportamento di massa, resi in fred-de formule linguistiche, si diffondevano proprio mentre il dialet-to, espressione di culture locali talvolta ârenitentiâ, veniva emar-ginato nei modi dianzi richiamati, svalutando le conoscenze pro-prie di quelle culture.
In conclusione, non possiamo non ricordare lâazione im-poverente svolta dalla scuola di quel tempo. Essa, tradizional-mente antidialettale, si puĂČ dire che abbia trovato conforto inmezzi piĂč potenti, prestigiosi e diffusi sempre piĂč capillarmente,quali appunto i mass media. Gli operatori scolastici hanno finitocon lâessere in diversi casi strumenti di attuazione di disegni estra-nei ai fini assegnati allâistituzione. La scuola si Ăš inserita in mezzoalle realtĂ locali come un corpo estraneo, portatrice comâera di no-zioni, ideologie e lingua estranei. Lâunico modo per svolgere la
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funzione assegnatale era quello di costruirsi una realtĂ fittizia checon quella locale non avesse nulla in comune, lasciando impre-giudicata e âimpredicataâ la realtĂ extrascolastica. Torna in tuttala sua validitĂ , come esito scontato, la lingua âneutraâ di Pasolini.
A un certo punto, la persistenza della parlate dialettali facevapensare che lâitalianizzazione si potesse fondare âsu un ampio ap-porto dal basso, appunto dialettale e popolare (e non sulla sosti-tuzione della lingua parlata letteraria con la lingua parlata azien-dale, comâĂš poi avvenuto)â (Pasolini 1977, 221-22). Ă mancatauna politica adatta a recepire lâapporto e ad estendere a tutti lapossibilitĂ di usare un italiano non subalterno, in contemporaneacon unâadeguata valorizzazione dei dialetti per la loro funzioneidentificante della realtĂ culturale che âin Italia Ăš sempre stata par-ticolare, eccentrica, concreta: mai centralistica, mai âdel potereââ(ibidem).
A una politica linguistica credeva Gramsci, ma Lorenzo Renzi,tra gli altri, trattando delle osservazioni gramsciane sullâargomen-to, si dichiarava scettico sulla possibilitĂ di risolvere il problemadella lingua in quei termini: âOggi siamo meno fiduciosi nellapossibilitĂ , e nella bontĂ , di una âpolitica della linguaâ: la prospet-tiva educativa si Ăš mostrata piĂč delicata di quanto Gramsci nonpensasse, e dâaltra parte la massiccia industrializzazione Ăš stato unfattore grandioso, e non-scolastico di emancipazione e di italianiz-zazioneâ (1977, 21). Non nutriamo alcun dubbio sulla positivafunzione assolta dallâindustrializzazione per modernizzare il Paesesotto tutti gli aspetti. Ma ciĂČ non esclude che una chiara politicalinguistica e precise forme di intervento avrebbero almeno in par-te evitato la nascita delle nuove forme di subalternitĂ linguistica sucui abbiamo richiamato lâattenzione.
Rimane lâosservazione conclusiva alla quale ci siamo ispirati inqueste pagine e siamo piĂč volte ritornati: riprendendo il pensierodi Luis Prieto, in quello che abbiamo delineato Ăš da vedere un usoideologico della lingua, legittimo se letto nellâottica di quelle cheuna volta si dicevano classi dominanti, ma per nulla positivo, ri-
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pensando anche agli esiti perversi che ne sono conseguiti. In un si-stema in cui il modello di sviluppo neocapitalista esplicava tutta lasua forza, Ăš probabile che sia mancata una politica linguistica de-mocratica che, recependo le istanze di comunitĂ in transizione, siaffiancasse e dirigesse quello che era il portato âspontaneoâ delmodello adottato, correggendone deviazioni e colmandone lacu-ne.
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III. Lingua, cultura, pratica sociale
1. Lingua e cultura
Comunemente, dando della âculturaâ lâormai classica defini-zione tyloriana [âlâinsieme complesso che include la conoscenza,le credenze, lâarte, la morale, il diritto, il costume e qualsiasi altracapacitĂ acquisita dallâuomo come membro di una societĂ â (Ros-si 1970, 7)], si Ăš finito col fare della lingua una parte sia pur es-senziale della cultura di una comunitĂ . Tutto il problema, per i ri-cercatori sul campo, si esauriva perciĂČ nello studiare la lingua co-me un qualsiasi altro fatto culturale. Il fatto Ăš perĂČ, a ben guarda-re, che la lingua non si limita a fornire nomi a cose e concetti giĂ formati ma Ăš bensĂŹ la condizione perchĂ© essi esistano e si comuni-chino.
Partecipando nel 1952 alla Conferenza di antropologia e lin-guistica tenutasi a Bloomington (Indiana) Claude LĂ©vi-Strauss os-servava che âil problema dei rapporti fra lingua e cultura Ăš uno deipiĂč complicati. Si puĂČ anzitutto considerare la lingua come un pro-dotto della cultura: una lingua, in uso in una societĂ , riflette la cul-tura generale della popolazione. Ma in un altro senso, la lingua Ăšuna parte della cultura; ne costituisce un elemento, fra altri.Ricordiamo la celebre definizione di Tylor... Non solo: si puĂČ per-sino considerare la lingua come condizione della cultura, e in duesensi: diacronico, poichĂ© Ăš soprattutto mediante la lingua che lâin-
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dividuo acquista la cultura del suo gruppo; si istruisce, si educa ilbambino con la parola; lo si sgrida, lo si loda con parole. Da unpunto di vista piĂč teorico, invece, la lingua appare anche comecondizione della cultura nella misura in cui questâultima Ăš dotatadi unâarchitettura simile a quella della linguaâ (1966, 84).
Ogni lingua, per altro verso, non Ăš solo un codice di comuni-cazione ma anche un fatto di identitĂ culturale, perchĂ© a essa si le-ga tutto un patrimonio di cultura che solo tradizionalmente si Ăšespresso in un certo idioma. âNessun fattore quanto la lingua ma-terna contribuisce a dare allâuomo come membro di una societĂ lasua specifica identitĂ . La lingua Ăš il fattore identificante per anto-nomasia. Il legame di un individuo con la lingua materna Ăš un le-game non solo culturale, ma morale, emozionale, sociale, etnico. Ăun legame totalitario, che coinvolge tutte le sfere dellâindividuali-tĂ nel suo rapporto con lâambiente dâorigineâ (Lanternari 1977,194). Se questa Ăš una buona chiave di lettura del fenomeno, Ăš ne-cessario porre in primo piano la triade lingua cultura societĂ , dicui i primi due termini costituiscono momento di non poco rilie-vo. Da questi ultimi conviene perciĂČ partire.
Le intuizioni di LĂ©vi-Strauss sulla lingua come condizione del-la cultura hanno ricevuto conferme e approfondimenti in tempisuccessivi nellâambito di studi che oggi va sotto il nome di âse-miotica della culturaâ. Ă innegabile al riguardo lâinteresse delle ri-flessioni di Zygmunt Bauman. Per questâultimo la funzione dellacultura consiste nel porre ordine in una realtĂ altrimenti caotica,dove ordinare significa anche dare significato e rendere intellegi-bile. âIl conferire ordine â scrive â comporta la trasformazione diquello che fondamentalmente Ăš un flusso percettivo continuo e in-forme in un insieme di entitĂ discrete. In questo senso il mondonon ci Ăš dato come ordinato nella sua realtĂ preumana: lâimmagi-ne e la conseguente pratica dellâordine gli vengono sovrappostidalla cultura... Lâoperazione di âisolareâ, mediante la denominazio-ne e lâuso di âgradienti di generalizzazioneâ, âspecifici per la specieâe âacquisitiâ, lascia innominate e, sul piano culturale, trascurate e
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ignorate parti consistenti della realtĂ nel suo stato âpristinoâ e pre-culturale. Tali parti, fino a che non siano elaborate dai procedi-menti semiotici della prassi culturale, per gli esseri umani Ăš comenon esistessero... Esse forniscono, invece, inesauribilmente le am-pie terre vergini delle future assimilazioni culturaliâ (1976, 188-89).
Che posto riservare alla lingua nel processo semiosico che Ăš lacultura? La questione cominciĂČ a porla in tutto rilievo Franz Boas(1979) nei primi decenni del secolo XX, riflettendo sui dati raccol-ti nel corso di una vasta campagna di ricerca sulle lingue degli in-diani dâAmerica. Di fronte a modi di sezionare la realtĂ in manie-re diverse da quelle fino ad allora note e ritenute dunque naturaliperchĂ© apparivano universali, si cominciĂČ a chiedere se a determi-narli fosse la lingua o non si trattasse piuttosto di fatti di culturache la prima si limitava a registrare. La soluzione da dare al pro-blema non era indifferente, da un punto di vista ideologico. Faredella lingua il determinante e della cultura il determinato portavainfatti a conclusioni aberranti (il parlante una certa lingua nonavrebbe potuto, ad esempio, formulare certi concetti perchĂ© quel-la non lo avrebbe consentito, essendo limitate le sue categorie).
Fu possibile trarre una prima, importante, conclusione dopoche Benjamin Lee Whorf, studiando la lingua degli indiani hopi,finĂŹ col rilevarvi lâesistenza di una grammatica piĂč complessa diquanto ci si fosse atteso, nonchĂ© un modo diverso di trattare cate-gorie ritenute universali (tempo, spazio, materia). CiĂČ gli consentĂŹdi procedere ad affermazioni che avrebbero sollevato una serie diobiezioni su cui sarebbe lungo soffermarsi. âIl sistema linguisticodi sfondo (in altre parole la grammatica) di ciascuna lingua â scri-veva Whorf nel 1940 â non Ăš soltanto uno strumento di riprodu-zione per esprimere idee, ma esso stesso dĂ forma alle idee, Ăš ilprogramma e la guida dellâattivitĂ mentale dellâindividuo, dellâa-nalisi delle sue impressioni, della sintesi degli oggetti mentali dicui si occupa. La formulazione delle idee non Ăš un processo indi-pendente, strettamente razionale nel vecchio senso, ma fa parte di
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una grammatica particolare e differisce, in misura maggiore o mi-nore, in differenti grammatiche. Analizziamo la natura â conclu-deva â secondo linee tracciate dalle nostre lingueâ (1970, 169).
Whorf ritornĂČ in diversi altri luoghi sullo stesso argomento, ta-lora con piĂč cautela, sĂŹ che oggi si parla di una versione âdeboleâdellâipotesi del relativismo linguistico, e di una âforteâ, destinataalla divulgazione. Edward Sapir, di cui Whorf fu lecturer per unbiennio, era al riguardo piĂč cauto. Osservato infatti come tra lin-gua, razza e cultura non ci fosse alcuna coestensione (gli america-ni parlano inglese come gli abitanti del Regno Unito, senza che sene possa dedurre qualsiasi comunanza di culture; i neri dâAmeri-ca parlano perfettamente lâinglese, ma sono di razza diversa), Sa-pir nel 1921 rilevava una corrispondenza tra i contenuti di una lin-gua e la cultura che li esprime, in quanto la prima ârifletteâ le uni-tĂ della seconda. âTale constatazione â annotava lâautore â non de-ve perĂČ portare a conclusioni semplicistiche, dal momento cheuna lingua non si esaurisce nel suo vocabolarioâ (1969, 217).
Lo stesso autore scriveva ancora nel 1933: âNon esiste nessunacorrispondenza generale fra tipo culturale e struttura linguistica.Per quanto si puĂČ osservare, i tipi di lingua isolanti, agglutinanti oinflessivi sono possibili a qualsiasi livello di civiltĂ ... La questionecambia quando si passi dalla forma generale di una lingua al suocontenuto particolare. Il vocabolario Ăš un indice molto sensibiledella cultura di un popolo e i cambiamenti di significato, la perdi-ta di vecchie parole e la creazione e i prestiti di parole nuove di-pendono tutti dalla storia della cultura stessaâ (1972, 27-29). In unintervento del 1929 Sapir era piĂč radicale e vedeva nella linguauna âguida simbolica della culturaâ in quanto la realtĂ culturalesarebbe stata costruita quasi tutta, e inconsciamente, sulle âabitu-dini linguistiche del gruppoâ (ivi, 58). Lungo questa linea, Sapir fi-niva col vedere nella lingua uno strumento euristico, dal momen-to che âpredetermina certi modi di osservazione e dâinterpretazio-neâ (ivi, 7-8). Non câĂš dubbio perĂČ che a caratterizzare le sue ideesia sempre stata unâestrema cautela, anche se, accomunando due
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percorsi di pensiero diversi, si continua a indicare lâipotesi del re-lativismo linguistico come âipotesi Sapir Whorfâ.
2. Conseguenze sul piano della ricerca
Non si possono avanzare dubbi sulla correlazione fra lingua erelativa cultura, soprattutto se ci si muove sul piano del vocabola-rio. Tutta la linguistica dâimpianto storicista, quella di GilliĂ©ron equella dei Wörter und Sachen, fino alla linguistica spaziale di Mat-teo Bartoli vedono nella parola unâunitĂ linguistico-culturale.âChe cosâĂš la storia della dialettologia europea â osserva Paolo Va-lesio nellâintroduzione a Sapir (1969, XIII-XIV) â se non la storia,oltre che della linguistica, anche dellâantropologia culturale in Eu-ropa?â Tradizione di lavoro che annovera, fra gli altri, Ferdinandde Saussure, Baudouin de Courtenay, Nikolaj Trubeckoj, RomanJakobson, AndrĂ© Martinet. Del resto, nel giĂ citato saggio del 1932Migliorini era lapidario nel sostenere che lâunico modo di fare lin-guistica concreta era quello di mettere insieme storia della linguae storia della cultura, nella quale (accanto alla storia politica, allâe-conomia, ecc.) faceva rientrare quella che egli chiamava âstoria diconcetti e storia di oggettiâ (1948, 17).
Storia di oggetti, dunque. A questo punto risulta evidente co-me la correlazione tra lingua e cultura divenga ancora piĂč strettaallorchĂ© si ha a che fare con la cultura materiale. âChe la lingua eprima ancora il sistema concettuale che essa traduce â scrive Gior-gio Raimondo Cardona â siano influenzati dalla cultura materialesembra ovvio. La difficoltĂ Ăš di stabilire la misura di tale influsso.Ă prevedibile che il lessico abbia distinzioni piĂč sottili nei settoriche hanno maggior importanza culturale: in culture che hanno co-me principale alimento il riso possiamo aspettarci che le varie fasidella lavorazione e i diversi tipi di riso siano indicati con un lessi-co molto articolato... PiĂč interessante Ăš vedere come settori del-lâesperienza legati alla cultura materiale si costituiscano come mo-
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dello di riferimento conoscitivo rispetto agli altri campi dellâespe-rienzaâ (1976b, 100-101).
Gli studiosi finora richiamati parlano cautamente di âriflessoâ,di âinflussoâ⊠il che lascia in piedi la questione di fondo (âĂš lalingua a esercitare unâazione sulla cultura? O viceversa? â) a cuiLĂ©vi-Strauss rispondeva che ânon ci siamo abbastanza resi contoche lingua e cultura sono due modalitĂ parallele di unâattivitĂ piĂčfondamentale... lo spirito umanoâ (1966, 87). Pure, tra i contribu-ti piĂč interessanti da un punto di vista teorico, quello che vienedalla scuola di Tartu, in cui non a caso si recupera lâapporto deglistudiosi americani, costituisce unâimportante messa a punto. JuriLotman e Boris Uspenskij concordano con Zygmunt Bauman nel-lâosservare che la cultura âorganizza strutturalmente il mondo checirconda lâuomoâ (1975, 42). Creando opposizione con quanto Ăšnon cultura, ossia non strutturato, âsullo sfondo della non culturala cultura interviene come un sistema di segniâ (ivi, 40).
Per assolvere alla funzione rilevata la cultura disporrebbe al suointerno di un âdispositivo stereotipante strutturaleâ coincidentecon la lingua naturale. Ă chiaro a questo punto che lingua e culturasono indivisibili e che la seconda, in quanto âsistema modellizzantesecondarioâ, risulta derivata rispetto alla prima. Il dispositivo ste-reotipante infatti âfornisce ai membri del gruppo sociale il senso in-tuitivo della strutturalitĂ ; proprio esso, con la sua sistematicitĂ evi-dente (perlomeno ai livelli piĂč bassi), con la trasformazione delmondo âapertoâ dei realia nel âchiusoâ mondo dei nomi, costringe gliuomini a interpretare come strutture fenomeni la cui strutturalitĂ ,nel caso migliore, non Ăš evidenteâ (Lotman Uspenskij 1975, 42-43).
La cultura, nella sua tradizionale accezione di insieme di mo-delli di comportamento, si costituisce come âmemoria non eredi-taria della collettivitĂ â e, proiettata nel tempo, si trasforma in pro-gramma per il futuro. CiĂČ Ăš di nuovo possibile solo se lâesperien-za si sedimenta sotto forma di testo. Il che avviene ancora una vol-ta tramite lâintervento strutturante della lingua (ivi, 44). Essa ope-ra perciĂČ, secondo i due studiosi, in due fasi successive: prima
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consente il processo di strutturazione della realtĂ in segni cultura-li; poi fornisce la traccia per identificare nella memoria lâesperien-za giĂ âformataâ.
3. Cultura e pratica sociale
Finora abbiamo operato con i concetti di lingua e di cultura e,per comoditĂ espositiva, abbiamo sorvolato sul terzo termine del-la triade dianzi introdotta. Ora Ăš il momento di mettere in lucelâimportanza che il sociale (e lâeconomico) rivestono nel processodi segmentazione di quel continuum con cui si identifica la cultu-ra. Nella prospettiva semiotica adottata questa, lungi dallâessereun insieme statico, si identifica col processo di significazione in ge-nerale. LâattivitĂ non giunge mai a termine dal momento che i con-fini della realtĂ semiotizzata vengono spostati di continuo, il che Ăšreso possibile dal fatto che alla base del processo câĂš, come rilevaBauman, la prassi: dietro ogni azione di segmentazione si esplicauna pratica sociale.
Risulta evidente a questo punto lâimportanza della definizionedel concetto di prassi. Da essa dipende il fatto di riporre la culturasul piano dellâastratto idealismo oppure di radicarla nella realtĂ concreta (in particolare rinviando ai modi e ai rapporti di produ-zione, solo per richiamare un collegamento tradizionalmente pro-posto). Al riguardo Bauman procede con cautela. Rilevato come lasegmentazione del continuum si fermi a livelli diversi del campocognitivo, il sociologo di origine polacca osserva infatti come cisiano in ogni cultura aree di particolare âdensitĂ culturaleâ le qua-li non coincidono se non in parte con quelle di altre. âLe zone diparticolare concentrazione delle opposizioni significative, in cuisono avvertite e segnalate anche le tinte piĂč tenui, costituisconoprobabilmente un nucleo centrale per un dato tipo di prassi. Ta-lune di queste zone sono facilmente riconducibili alla tecnologiadella sopravvivenza biologicaâ (1976, 216).
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In un passo successivo, perĂČ, lo studioso sembra voler esclu-dere, o riporre in secondo piano, qualsiasi forma di determinismotecnologico e socio-strutturale dei fatti culturali, in quanto anchetecnologia e economia rientrerebbero tra i prodotti della prassi esarebbero dunque fatti di cultura. Svaluta per altro verso ogni pro-spettiva di tipo funzionalista, in quanto la positivitĂ di qualsiasiprogetto solo in via subordinata verrebbe commisurata a valori disopravvivenza del gruppo (ivi, 217, 258). Rifacendosi infine alMarx delle opere giovanili e agli autori della Scuola di Francofor-te, cosĂŹ conclude: âLa cultura umana, lungi dallâessere lâarte del-lâadattamento, Ăš il piĂč audace di tutti i tentativi di smantellare ivincoli dellâadattamento⊠un audace slancio verso la liberazionedalla necessitĂ e verso la libertĂ di creare... La cultura puĂČ esisteresolo come una critica intellettuale e pratica della realtĂ sociale esi-stenteâ (ivi, 260, 262). Bauman mette dunque lâaccento sulla fun-zione âliberatriceâ della cultura la quale, proiettata verso il futuro,del compito di rispondere ai bisogni di sopravvivenza fa solo unmomento da superare.
Ora, noi riteniamo che non si possa cosĂŹ celermente metter daparte la funzione di adattamento svolta dalla cultura, senza primaaver colto a fondo alcune delle tante implicazioni dâordine socialee politico che il concetto di prassi contiene. Nelle societĂ che LĂ©-vi-Strauss chiama âfreddeâ certe strutture non possono esseremesse continuamente in discussione, pena il venir meno delle pos-sibilitĂ di sopravvivenza dei gruppi umani. CiĂČ peraltro contribui-sce a spiegarne il puntuale rispetto delle soluzioni convalidate dal-la tradizione e dunque il sostanziale conservatorismo. Sono altre lesocietĂ libere di mettersi di continuo in discussione: le esigenze disopravvivenza non vi vengono infatti messe in crisi in quanto sicollocano âmolto in bassoâ, venendo regolarmente soddisfatte alivelli diversi da quelli in cui si conduce lâeventuale âcontestazio-neâ. Lo stesso Bauman non puĂČ fare a meno di osservare che lafunzione liberatoria diviene ingannevole e finisce col proiettarsiverso falsi scopi se prima non vengono completamente soddisfat-
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te le condizioni primarie (ivi, 261, 264-65). Ă superfluo rilevare come la prima forma di prassi che sta die-
tro la cultura sia dettata dai modi e dai rapporti di produzione. Civengono in soccorso, al riguardo, le osservazioni di Luis Prieto:âAlla base di ogni costruzione di concetti... câĂš sempre, in modomediato o immediato, una pratica, vale a dire una maniera di tra-sformare o di controllare una realtĂ ... La pratica che ogni cono-scenza presuppone non viene beninteso imposta dallâoggetto, maproviene sempre dal soggetto. Inevitabilmente perĂČ tale soggettoĂš un soggetto sociale, un soggetto cioĂš la cui sopravvivenza Ăš or-ganizzata allâinterno di un gruppoâ. Ne deriva che la pratica Ăšâdeterminata non dagli interessi del soggetto, bensĂŹ dagli interessidel gruppo oppure evidentemente dei sottogruppi, delle âclassidominantiâ al suo internoâ (1978, 50-51).
Non mancano esempi della dipendenza del discreto dalla pras-si, nel senso qui inteso. Lâopera di segmentazione culturale svoltadalle diverse comunitĂ si esercita su determinati settori della real-tĂ sempre in rapporto alle pratiche sociali dirette alla sopravvi-venza. Ă dâobbligo, in tal senso, rinviare alle tassonomie che han-no costituito un punto nodale di interesse per linguisti e etnologidella New Ethnography: âOgni cultura elabora, in misura maggio-re o minore, tassonomie (cioĂš classificazioni sistematiche) dei di-versi settori dellâesperienza... Nella composizione di una tassono-mia entrano diversi fattori, tra cui i piĂč numerosi sono forse quel-li culturali... Il cittadino ha tassonomie enormemente piĂč ridottedel campagnolo: giĂ distinguere un pesco da un ciliegio diventaunâimpresa per non parlare di suddivisioni ancora piĂč tecniche.Ma se in queste tassonomie entrano fattori culturali o comunquelegati ai miei interessi quotidiani, ecco che la distinzione tra i varielementi diventa un fatto spontaneo e immediato: per lâautomobi-lista... tra il parafango anteriore e la fiancata [dellâauto] ap-parentemente formanti un tutto unico, passa un confine preciso...e la divisione si basa sul diverso lavoro necessario al carrozziere perriparare i due pezziâ (Cardona 1976b, 110, 112-13).
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Lâultimo esempio parla da sĂ©! La sottolineatura del âlavoro ne-cessarioâ Ăš ben piĂč che un semplice richiamo. I pastori distinguo-no i capi delle loro greggi in base a diversi attributi (sesso, etĂ , pro-lificitĂ , lattazione, ecc.) difficilmente immaginabili da un profano.La lingua si colloca qui in primo piano sia per mantenere in vita leunitĂ segmentate del continuum, sia per consentire la funzione dicomunicazione (trasmissione nel tempo e nello spazio) senza laquale ogni fatto culturale sarebbe destinato a ritornare nella noncultura. Non per caso in certe societĂ di pastori della Sicilia inter-na si arrivano a registrare almeno diciotto termini diversi per indi-care quasi uno per uno i capi di un gregge di ovini, sulla base de-gli attributi prima indicati (Giacomarra 1983, 51-58).
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IV. Lâattenzione per i dati linguisticitra gli studiosi di folklore
1. Presentazione
La lingua Ăš parte, prodotto, ma soprattutto condizione dellacultura di una comunitĂ : Ăš ciĂČ che Claude LĂ©vi-Strauss (1966, 84)rilevava cinquantâanni addietro e che abbiamo giĂ avuto modo diriprendere. Le parole dellâantropologo costituiscono una essen-ziale messa a punto della problematica sia per il genere di rifles-sioni che si erano condotte in passato (considerando la lingua so-lo un prodotto e/o una parte della cultura), sia per le elaborazioniche ne sarebbero seguite in direzione semiotico-strutturale (assu-mendo appunto la lingua come condizione della cultura): si pensisolo a Lotman e Bauman. GiĂ per tempo, inoltre, il vocabolarioera stato considerato dagli antropologi un indice molto sensibiledella cultura di un popolo: le variazioni di significato, la perdita ela creazione (o il prestito) di nuove parole erano viste infatti di-pendere dalla storia della cultura stessa (Sapir 1972, 27-29). Dallaparte dei linguisti, a loro volta, giĂ sessantâanni fa Bruno Migliori-ni sosteneva che il solo modo di fare âlinguistica concretaâ era diconiugare storia della lingua e storia della cultura (1948, 17).
La dialettologia Ăš la branca della linguistica in cui lâorienta-mento qui espresso Ăš stato messo in pratica con maggiore impe-gno, anche se talora ne Ăš mancata piena consapevolezza. Essa sipuĂČ definire perciĂČ una linguistica antropologica implicita, dai
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principi costitutivi inespressi: la dialettologia, inserendosi nel filo-ne della linguistica comparata dellâOttocento, ne superava infattiil metodo, basato sui testi scritti (e ricostruiti dal filologo), e siorientava verso la viva voce dei parlanti. Ogni indagine lessicaleimplicitamente faceva appello alla conoscenza della cultura di cuile parole erano espressione: non a caso le fonti privilegiate dâin-formazione diventavano i contadini, i pastori, gli artigiani, i depo-sitari insomma dei tratti propri delle culture locali tradizionali.
Gli studi di geografia linguistica, da Jules GilliĂ©ron a Scheuer-meier e Rohlfs, le riflessioni di linguistica spaziale di Matteo Bar-toli (significativamente riprese sul piano folklorico da Vidossi eSantoli), il metodo di Wörter und Sachen di Schuchardt e Merin-ger costituiscono i momenti della massima emergenza di una ten-denza costante a vedere nella parola unâunitĂ linguistico-cultura-le. E gli Atlanti linguistici ne costituiscono a tuttâoggi la piĂč com-plessa realizzazione: essi assumono, e dichiarano esplicitamente,un carattere âlinguistico-etnograficoâ. Il legame simbiotico tradialetto e cultura locale non viene trascurato dal ricercatore ac-corto; la terminologia che accompagna e individua oggetti e con-cetti appare sempre meno una etichettatura di tratti preesistentiper presentarsi come una condizione dellâesistenza di quei tratti.
2. Il contributo dei folkloristi
A differenza dei dialettologi, il contributo arrecato dai folklo-risti nei decenni a cavallo fra i due secoli manifesta una diversaconsapevolezza. A caratterizzarli Ăš infatti una sorta di ârispetto re-verenzialeâ per la scienza linguistica cui essi, con le loro ricerche,sono convinti di tributare un umile servizio. âDinanzi ai materialiraccolti â scriveva Corrado Avolio nel presentare i suoi Canti delVal di Noto (1876) â ci saranno dotti cultori di linguistica che lianalizzeranno per illuminare periodi di storia e lacune filologicheâ(cit. in De Mauro 1975). Simile coscienza Ăš tanto forte nei folklo-
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risti da non spingerli a entrare nel dominio dei dialettologi, men-tre questi usano a piene mani del sapere di quelli. Non Ăš perciĂČ uncaso che Giuseppe PitrĂš (1841-1916), volendo premettere unagrammatica del siciliano ai suoi quattro volumi di narrativa popo-lare, si limiti a tradurre quella di Christian F. Wentrup (PitrĂš1979).
Lâattenzione ai dati linguistici Ăš costante nel lavoro di molti fol-kloristi, giĂ per il solo fatto che per tutto il XIX secolo privilegianoi prodotti di tradizione orale. Nel caso di Salvatore Salomone Ma-rino (1847-1916), in particolare, gli interessi linguistici si dispon-gono su una base di rigore filologico mai imputatogli a discredito.Non ha ancora ventâanni che nei Canti popolari (1867) avverte lâe-sigenza di delineare nei particolari, e in maniera problematica, icriteri di trascrizione cui si Ăš attenuto. Una trascrizione di tipo eti-mologico (tendenza comune ai folkloristi del tempo), ma condot-ta con una chiara consapevolezza: 1. del grande variare delle par-late, pur su una base unitaria di dialetto siciliano (âNellâortografiaâ scrive â mi sono attenuto interamente alla pronunzia del popo-lo di questa provinciaâ); 2. degli adattamenti cui Ăš costretto a ri-correre nellâopera di trascrizione, non solo per carenza dei carat-teri tipografici (come pur talora avveniva), ma anche e soprattuttoper facilitare la lettura dei canti al lettore comune (âIo non iscri-verĂČ dunque sciuri, xiuri, xhiuri, per ciuri. Questo modo di scrive-re Ăš del â500, â600, â700; e oggi moverebbe a riso il popol nostroâ).
Di contro alla tendenza a semplificare, aiutando il lettore, tor-na a farsi sentire lâattenzione del filologo che avverte perciĂČ lâesi-genza di integrare in nota: âConfesso che nella c di ciamma vâĂš unche di aspirato... ma non Ăš certo la sibilante s, e molto meno la xo la xh. Ciamma scritto con la c greca â conclude correttamente âsi accosterebbe piĂč alla nostra pronunziaâ (1867, IX-X).
Il rigore del ricercatore compare ancora nella registrazionepuntuale dei luoghi in cui conduce la ricerca, tutti in provincia diPalermo. Il rilievo che egli dĂ alla questione torna a porsi nelleopere successive e, nelle Leggende del 1880, la consapevolezza del-
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lâestrema variabilitĂ delle parlate isolane si fa ancora piĂč sottile:âHo raccolto io stesso [le leggende] dalla bocca di popolani... se-guendo con iscrupolo nella trascrizione il dettato popolare, ri-spettando le irregolaritĂ metriche... conservando la parlata e perquantâera possibile la pronunzia propria dei differenti paesi... Daqui le differenze ortografiche di trascrizione di una parola stessaâ(1880, XII). E si affina ulteriormente il metodo: nel 1867 si ripor-tavano ancora canti raccolti da altri e trasmessi allo studioso, si in-dicavano i luoghi ma non i nomi degli informatori; ora Ăš lo stessoSalomone Marino a raccoglierli, e registra ogni volta il nome degliinformatori. Negli Aneddoti del 1883/84 si danno per esteso nomidegli informatori, fascia dâetĂ , occupazione abituale. âQuanto aitesti trascritti direttamente da me â precisa â , sono stato scrupo-losissimo stenografo dei narratori popolani; secondo mio costu-meâ.
Un secondo aspetto, che ci consente di delineare la speciale at-tenzione ai dati linguistici da parte del folklorista, Ăš relativo al les-sico. Anche in questo caso prevale lâatteggiamento osservativo,metodico, che a tratti riecheggia la sua formazione chimico-medi-ca (allo stesso modo dellâAvolio farmacista, come avvertiva DeMauro). Salomone Marino Ăš tanto consapevole della inscindibili-tĂ di documento culturale e documento linguistico che, associan-do di frequente âgli studi dei dialetti e delle tradizioni popolariâ,puĂČ scrivere significativamente: âOggi i testi dialettali si richiedo-no genuini... a fondamento alla storia, lâetnografia, la linguisticaâ(1880, XII).
Certo, a tratti, lâinteresse del folklorista per il lessico puĂČ ap-parire strumentale: questo costituirebbe in qualche modo la âchia-veâ per entrare nel patrimonio folklorico di una comunitĂ . Ă chia-ra perĂČ la consapevolezza che anche il dialetto Ăš il prodotto di unacomunitĂ , i cui tratti conviene perciĂČ raccogliere in una con i fat-ti folklorici. NĂ© ritiene di poter separare gli oggetti, le operazionie le idee dellâuniverso folklorico dalle rispettive denominazioni.Registrare queste ultime, infine, non gli risulta dettato da un biso-
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gno di âcoloreâ, ma da ragioni di esattezza e rigore scientifico.Idea giĂ diffusa, in veritĂ , fra studiosi di diversa estrazione: esem-plare Ăš , in tal senso, la nota di Giuseppe Inzenga agronomo e fon-datore nel 1851 degli âAnnali di agricoltura sicilianaâ: âIl lettoreâ scriveva in una Monografia sul sommacco del 1875 â non si scan-dalizzi del soverchio sfoggio che io fo di vocaboli siciliani... perrendermi comprensibile alla intelligenza dei pratici coltivatori delmio paese. Per altro vi Ăš molto da apprendere alle volte nel lin-guaggio siciliano dellâarte campestreâ (1875, 47): il che deponevaevidentemente per una chiara consapevolezza della specificitĂ lin-guistica connessa alla specificitĂ culturale.
In Salomone Marino mancano esplicite argomentazioni del ge-nere, a quanto abbiamo potuto appurare. Ci sono perĂČ gli esiti diun modo di pensare in gran parte simile. Ci riferiamo in primoluogo ai glossari annessi alle edizioni della Barunissa di Carini, neiquali lâautore non si limita a fornire al lettore le corrispondenzelessicali fra dialetto e lingua, ma registra anche la probabile eti-mologia del termine, gli scritti in cui compare, gli usi o i contestiin cui acquisisce sensi diversi, le varianti presenti in diverse parla-te. Le note ai testi, in secondo luogo, le annotazioni e i riscontripresenti in gran numero in quasi tutte le opere di Salomone Mari-no, sono altrettanti documenti di valore linguistico e culturale. Es-si registrano infatti i sensi di un termine o di una espressione, ri-mandando spesso a universi storico-culturali di un tempo e di unluogo ben preciso: come suggerirĂ Sapir, la parola viene assunta aindice della cultura del popolo.
I lemmi registrati nel Piccolo Dizionario dellâedizione 1870 del-la Barunissa sono 400 e salgono a piĂč di 600 nellâedizione del1873, ogni spiegazione arricchendosi di informazioni via via piĂčnumerose. Ancora di piĂč dovevano certamente essere i lemmi delsecondo volume di Note e documenti dellâedizione del 1914, an-nunciato ma mai pubblicato. Ogni definizione Ăš costruita con ri-gore e perfezione; molti lemmi, segnalati con asterisco, riguarda-no âle frasi di piĂč difficile comprendimentoâ e le voci ânon regi-
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strate dai nostri vocabolaristiâ: dal Pasqualino al Biundi, al Mor-tillaro, fino al Traina, ritenuto âimmensamente piĂč completo e piĂčesattoâ. âE qui debbo avvertire â precisa in un altro luogo â chele interpretazioni dei vocaboli non registrati nei lessici non vengo-no dal mio capo, ma ho ritratte, con accurate ricerche, dalla boc-ca stessa dei popolaniâ (1880, XXV).
Lâatteggiamento dellâosservatore distaccato dei fatti linguistici,sia quando abita che quando non vive piĂč in un appartato paesedi provincia, si riflette nelle trascrizioni, nella registrazione dellevarianti semantiche o fonetiche, nel lavoro di scavo di cui non ap-pare mai pago. Non Ăš esagerato dire che in Salvatore SalomoneMarino la passione per il colore locale, propria di certo popolari-smo romantico, si realizza in un lavoro di meticolosa raccolta e se-lezione: egli appare nelle diverse opere âindagatore, osservatore einterpreteâ, senza scadimenti di sorta.
Certo, non mancano lacune, imperfezioni e accomodamentivari nelle definizioni o nelle ricostruzioni etimologiche, comequando scrive che âgreco Ăš lo scambio tra la b e la vâ e che âladoppia dd ce la portarono dallâAfrica gli Arabiâ (1870, 98). Ma lostudioso ne ha piena coscienza, a causa delle approssimative co-noscenze della linguistica del tempo, di cui pure intende il fascinoprotestando la sua inferioritĂ . Non si possono tacere, inoltre le af-fermazioni in cui il senso della individualitĂ delle parlate scade inaffermazioni esagerate: âLa pronunzia [di un centro della provin-cia di Palermo] fa sentir chiare e spiccate le parole e che piĂč, frale siciliane, allâitaliana si assomigliaâ (1867, IX); oppure: âDallamodificazione di esse [le parole beddu e bellu, Ă rbulu e Ă rvulu] ilpopolo trae partito di squisitezza, di armonia ritmicaâ (1870, 72).
Eppure, nonostante le premesse rigorose da cui sembra muo-vere, come in Giuseppe PitrĂš, anche quella di Salomone Marinoappare, ma solo a tratti, una âflessione ed una riflessione non stret-tamente linguistica ma letteraria, e cioĂš volta a cogliere i valoriespressiviâ (Cirese 1968, 24). Non Ăš il caso di tacere del fatto che,di contro al rigore filologico conclamato in piĂč punti, sta lâarbi-
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traria reintegrazione delle varianti della Barunissa di Carini nellâe-dizione del 1914. A parte le giuste proteste dei contemporanei, diPitrĂš in primo luogo, ci si chiede come possa aver deciso di cuci-re insieme le varianti raccolte, immaginando di aver ricostruitolâarchetipo del poema, uno studioso che proclamava di voler pub-blicare i testi raccolti esattamente come li aveva uditi.
3. Il valore e i limiti
Rilevando questi limiti, in rapporto alle conoscenze diffuse inquel tempo (e non col senno del poi) non intendiamo far scadereil valore dello studioso. âI dialetti sono piĂč duraturi dei monu-mentiâ scriveva Avolio nel 1875, e Salomone Marino ebbe semprepiena coscienza del rilievo che avevano le registrazioni del docu-mento folklorico e dialettale insieme per ricostruire periodi stori-ci e universi culturali, o per riagganciare gli anelli di etimologie lin-guistiche, a loro volta a servizio della storia. Tutto questo risaltaancora meglio nel volume dedicato al lavoro e alla cultura conta-dina: Costumi e usanze dei contadini di Sicilia.
I folkloristi dellâOttocento, per ragioni ideologiche profonde,connesse alla valutazione positiva (propria di tutta la tradizioneoccidentale) di ciĂČ che Ăš cultura e produzione intellettuale, e ne-gativa di ciĂČ che Ăš natura e lavoro manuale, avevano dedicato po-ca o nulla attenzione allâuniverso della cultura materiale. Chi suquelle ragioni profonde ha avuto modo di riflettere, osserva che laletteratura orale, anche per le esigenze politico-ideologiche del pe-riodo risorgimentale, diventa âil campo preferito di esercitazionedi chiunque voglia occuparsi del patrimonio culturale del popolo.Il mondo della tecnica e del lavoro rimane tuttâal piĂč appannaggiodei cultori di scienze empiricheâ (Buttitta 1980, 34).
Non Ăš un caso che solo nellâultimo decennio del secolo, quan-do appunto il ricorso ideologicamente condizionato al popolo de-cade, si cominciano a delineare i primi interessi per la cultura ma-
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teriale. Timidi interessi, Ăš bene aggiungere, se PitrĂš compila unCatalogo illustrato di attrezzi e strumenti del lavoro tradizionalenel 1891, solo perchĂ© incaricato dal comune di Palermo di allesti-re uno stand nella Mostra internazionale; se desume quasi per in-tero da Giuseppe Bianca, agronomo di Avola collaboratore del-lâInzenga, le notizie dei suoi Usi e costumi relative alle praticheagricole; se infine Cristoforo Grisanti nel suo Folklore di Isnello,dĂ notizie dettagliate sulla pastorizia ma le âannegaâ nel grandemare di usi e tradizioni, proverbi e racconti, sotto il cui titolo il la-voro compare tra il 1899 e il 1909. Significativo dellâorientamentocomune Ăš che nellââArchivio per lo studio delle tradizioni popola-riâ non compaia alcuna sezione dedicata alla cultura materiale (ivi,35).
Quanto ai dialettologi e ai lessicografi, la situazione non appa-re diversa. Alberto VĂ rvaro (1984) ha avuto modo di rileggere al-cuni lessici pubblicati fra il 1840 e il 1870 e ne ha ricavato la net-ta impressione dellââottica con cui gli intellettuali osservano, dal-lâalto della loro cultura, il basso mondo del lavoroâ.
In questo vuoto Salomone Marino, con il volume su Costumi eusanze dei contadini di Sicilia, e prima ancora con le anticipazioniche, a partire dal 1879, egli ne dĂ nel âGiornale di Siciliaâ enellââArchivioâ, sembra stimolare la nascita di un nuovo discorso.Non Ăš la concezione romantica e populistica a interessare in que-sta sede, nĂ© lâintento polemico nei confronti dellâinchiesta Fran-chetti-Sonnino che in parte si connette a quella. Interessa invecerilevare che le notizie sulle tecniche agrarie del tempo sono tuttedi prima mano, anche se forzatamente ridotte al territorio com-preso tra Borgetto e Partinico. E soprattutto il fatto che, in ma-niera programmatica, lâautore dĂ ai fatti linguistici un rilievo parialmeno a quello dei fatti etnografici.
Purtroppo manca qui una prefazione, quella sorta di dichiara-zione dâintenti che altrove forniva una chiave di lettura dei testi.Ma questa chiave non Ăš difficile al lettore ricavarsela dal modo diarticolare i contenuti. Il ciclo del grano, la vendemmia, la raccolta
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delle olive e la lavorazione dellâolio, la raccolta del lino, la tessitu-ra e le erbe commestibili (per limitarci ai capitoli di cultura mate-riale) presentano un continuo alternarsi di forme in lingua e de-nominazioni dialettali. Queste ultime sono riportate sempre incorsivo, o corsivo tra parentesi, secondo moduli che di recente so-no stati ripresi in tutte le ricerche di cultura materiale. Lo studio-so riporta esattamente, e descrive o integra in nota, denominazio-ni locali e intere espressioni relative a tecniche, attrezzi e indu-menti di lavoro.
Non mancano, a conferma di una ricognizione svolta anche inquesta direzione, i riferimenti ai rapporti sociali delle campagneborgetane, e alle figure sociali, individuate ognuna col proprio no-me, che ne tengono i fili. Dal piano tecnico al sociale, dal socialeal culturale: il testo Ăš disseminato di proverbi, motti e canti popo-lari, tutti attentamente trascritti e annotati. Un esempio per tuttipuĂČ essere costituito dalla nota 8 del III capitolo in cui si enume-rano le parti del telaio tradizionale: lâelaborata tipologia lessicalecon cui esso viene presentato poteva essere solo il frutto di chi ave-va effettuato attente e ripetute ricognizioni tra le addette a quel la-voro, in mezzo alle quali aveva avuto modo di vivere, e dunquepossibilitĂ di ascoltare.
Un ultimo esempio, significativo di come la lingua possa assu-mersi a indice di situazioni culturali e sociali altrimenti indefinibi-li, viene dalla prima pagina del I capitolo. âSposo e sposa â scrive,riferendosi alla famiglia del contadino â si danno seriamente delvoi: parlando coi terzi il marito non Ăš indicato altrimenti che conun efficace iddu, come la moglie con un idda, e lâintendono tutti...quasi mai âmio maritoâ e âmia moglieââ. Nellâasciuttezza della fra-se, i pronomi si impongono per il loro senso forte e per i molte-plici rimandi. Dietro quelle parole non stanno semplici concetti,come i lemmi di un vocabolario, ma veri e propri quadri sociali lacui complessitĂ non Ăš semplice sviscerare. Vi intravediamo quelloche poi sarĂ lâorientamento etnolinguistico di Franz Boas e Ed-ward Sapir.
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V. Ricerche sul dialetto come ricerche sulla cultura
1. Le parole e gli oggetti nella ricerca dialettale
Lâadozione di unâottica incentrata sulla cultura materiale, se daun lato ha consentito di mettere assieme, offrendo loro una grigliainterpretativa, lavori dispersi e talora privi di uno statuto scientifi-co ben definito, dallâaltro ha svelato il valore di approcci interdi-sciplinari nelle ricerche condotte in questâambito. Ă significativoche, sin dagli anni Trenta, Braudel auspicava che le diverse scien-ze del sociale mettessero insieme âtecniche e conoscenzeâ, nontrascurando le piĂč antiche a vantaggio delle piĂč nuove, âche pro-mettono molto, ma non sempre mantengonoâ (1973, 58). Nelquadro epistemologico delineatosi si Ăš andata proclamando unasempre maggiore esigenza di interdisciplinarietĂ e, in tale direzio-ne, tornano alla memoria le notazioni di Giorgio Raimondo Car-dona (1977, 41), troppo recise ma ancora condivisibili: âI model-li autonomi del sapere hanno esaurito la loro funzione. Oggi Ăš ne-cessario trovare nuove sintesi che non siano piĂč canapi intrecciatidi singoli fili ritorti ma bensĂŹ sistemi dinamici formati da sottoin-siemi interconnessi e interagenti che solo unâĂ©quipe organica dispecialisti puĂČ realizzare. La nuova sintesi non Ăš ancora stata rag-giunta ma Ăš in questa direzione che va ricercato il nuovo modellodi cui la cultura del presente ha bisognoâ.
Anche ricerche, in origine progettate e condotte in ambiti ben
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delimitati e scientificamente validi, contribuiscono alla raccolta diinformazioni di rilievo: tale Ăš il caso del gran numero di studi con-dotti tra XIX e XX secolo sulle diverse aree dialettali del nostro e dialtri paesi. Quanto alla prospettiva teorica, abbiamo giĂ visto co-me da parte di linguisti e dialettologi non sia mancato il dovuto ri-conoscimento al nesso che un vocabolario intrattiene con la rela-tiva cultura (e dunque con la cultura materiale): a partire dalla lin-guistica dâimpianto storicista, passando per quella geografica diJules GilliĂ©ron e finire in quella spaziale di Matteo Bartoli, tuttevedono nelle parole delle unitĂ linguistico-culturali, non semplicietichette di realtĂ giĂ esistenti ma condizioni del loro stesso esiste-re. Sappiamo inoltre come, movendo dallâipotesi Sapir-Whorf,una simile prospettiva passi dallo Strutturalismo di Saussure eHjelmslev alla semiotica di Lotman e Uspenskij (1975) per giun-gere fino a Zygmunt Bauman (1976).
Sul piano del metodo, sappiamo che la dialettologia ottocente-sca, nel momento in cui abbandonava il campo tradizionalmenteriservato alla linguistica comparata, metteva da parte la raccoltadei dati in base alla documentazione scritta e alla ricostruzione fi-lologica, orientandosi verso la viva voce dei parlanti, dei qualidunque scopriva e valorizzava le competenze. In una simile dire-zione le ricerche sulle parole non potevano andare disgiunte dallericerche sulle cose: qui vengono in primo piano diversi studi sullacultura materiale che si segnalano ancora oggi per la ricchezza deirisultati conseguiti. Al di lĂ delle singole monografie lessicali, sonogli Atlanti linguistici a costituire una delle piĂč complesse realizza-zioni in merito. I circa venticinque messi in cantiere dal 1880 a og-gi costituiscono testimonianze di un orientamento e di unâatten-zione che si Ăš venuta affinando nel tempo, in una direzione origi-nariamente etnografica.
Ă il caso dello Sprach- und Sachatlas Italiens und der SĂŒdschweizdi Karl Jaberg e Jacob Jud, piĂč comunemente inteso in Italia co-me Atlante italo-svizzero (AIS): progettato e realizzato fra il 1928e il â40 con intenti principalmente linguistico-spaziali, esso costi-
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tuisce un prezioso strumento di documentazione di realtĂ tecnichee strumentali diffuse nelle campagne italiane dei primi decenni delNovecento. Non Ăš privo di significato che Paul Scheuermeier, unodei redattori dellâAtlante, offra le informazioni piĂč complete oggidisponibili sulle attivitĂ agricole e pastorali del tempo nel suoBauernwerk in Italien. âAccanto alla puntigliosa descrizione deglistrumenti compresa nel testo, indubbiamente colpisce il rilievo delmateriale iconografico: le fotografie e i disegni â nota MicheleDean nella presentazione â . Alla fotografia Ăš affidato il compitodi illustrare i modi e le situazioni nelle quali si svolgono le fasi delciclo lavorativo, consentendo di documentarne le condizioni, i ge-sti degli uomini non meno che il paesaggio, la casa, ecc. Al dise-gno viene invece riservato il compito di isolare le cose, gli stru-menti, gli utensili, presentandoli nei piĂč minuscoli dettagli, sĂŹ dafarne comprendere appieno modalitĂ dâuso e difformitĂ â(Scheuermeier 1980, XII).
Quale genere di contributi gli Atlanti linguistici possono dareagli studi di cultura materiale? Essi costituiscono fonti documen-tarie importanti, anzi essenziali quando sono carenti le altre: inogni caso, rappresentano âun prezioso strumento di indagine sto-rica delle culture subalterne, e in particolare di quella contadinaâ.Questo Ăš possibile purchĂ© la considerazione spaziale del dato lin-guistico rispetti almeno due condizioni: âla prima Ăš che essa siproponga in modo preminente non giĂ di ricostruire gli stadi dilingua che si sono succeduti in un determinato territorio ma di in-dividuare le correnti innovative che tale territorio hanno percorso,definendole quanto al centro in cui sono state generate e da cui sisono irradiate, al vigore della loro capacitĂ di penetrazione, agli iti-nerari seguiti... La seconda condizione che la considerazione spa-ziale del dato linguistico deve rispettare Ăš che esso venga costan-temente collegato al dato etnografico. Non si puĂČ fare la storia diuna parola senza tener conto dellâoggetto cui si riferisceâ (Grassi1976, 430).
Questâultimo riferimento va al metodo di Wörther und Sachen
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coltivato nei primi decenni del Novecento da Jacob Schuchardt eRudolf Meringer, impegnati a studiare le parole collegandole aglioggetti: âLa geografia linguistica si fa allora storia sociale e cultu-rale perchĂ© di una comunitĂ definisce le tendenze e gli orienta-menti⊠le propensioni storiche rispetto ai gruppi circostanti e ailoro comportamenti culturaliâ (ibidem). Il primo riferimento vainvece ad una prospettiva che si puĂČ dire âdiffusionistaâ: la lettu-ra delle carte di un Atlante consente di cogliere dinamiche spazia-li talora non altrimenti rilevabili, e accertare se certe linee di dif-fusione linguistica costituiscono premesse di innovazioni sul pia-no delle tecniche oppure tracce e persistenze di realtĂ ormai dis-solte. Lungo la stessa linea, definibile di âdinamica culturale e lin-guisticaâ, si muovono gli apporti provenienti dalla Linguisticaspaziale di Matteo Bartoli, per il quale innovazioni linguistichepossono coprire antiche tecniche o viceversa, e aree geografica-mente isolate e marginali sul piano linguistico possono presentarestrumenti e tecniche che arcaici non sono. Lâevoluzione delle pa-role non va di pari passo con quella degli oggetti: puĂČ accadereperciĂČ che una parola dalla parte passi a designare il tutto e vice-versa, o che certi strumenti di lavoro, sostituiti da altri (diversi nel-la forma ma simili nella funzione), non lascino tracce nel vocabo-lario.
Di qui discende una raccomandazione sul piano del metodo, diun genere eminentemente tecnico. Nel ricostruire la storia dellâa-ratro AndrĂ© Haudricourt, agronomo prima che etnografo e lin-guista, dopo essersi soffermato sui materiali provenienti dallâar-cheologia, dai documenti iconici e dai testi, prende in esame lâap-porto proveniente dalle parole e dalla loro storia per risolvere que-stioni innanzitutto tecniche: âIl vocabolario tecnico costituisceuna testimonianza collettiva e inconscia, piĂč sicura e obiettiva in-sieme, di quella esplicita e cosciente di un testo scritto o di unâo-pera dovuta a un solo individuoâ (1955, 45). Riconosce poi ai lin-guisti il merito di aver raccolto una mole di informazioni sulla cul-tura materiale ma, riferendosi proprio alla scuola dei Wörther und
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Sachen, ne segnala la debolezza di metodo perchĂ© dĂ allo studiodelle parole la precedenza su quello degli oggetti. AffinchĂ© il ri-corso al linguista non si risolva in danno, Haudricourt ritiene in-vece necessario âstudiare prima lâoggetto, la sua tecnica, la suafunzione. Solo dopo tale lavoro primordiale, di base, ci si potrĂ render conto del senso esatto e del valore specifico o generale deidiversi termini del vocabolario che designano lâoggetto o le sua va-rie partiâ (ivi, 49).
Un simile modo di porre la questione giustifica lâesigenza diconservare il nome dellâoggetto per come Ăš stato registrato e tra-scritto, in lingua o nel dialetto locale, e di sfuggire cosĂŹ al âperico-lo delle traduzioniâ le quali generano errori e approssimazioni esono âvere e proprie trappoleâ. In armonia con quanto rilevato inprecedenza, la terminologia relativa ad attrezzi o loro parti, tecni-che o fasi del ciclo, non puĂČ essere considerata una semplice eti-chettatura: ogni termine singolarizza un manufatto, un atto, un sa-pere e non Ăš quasi mai sostituibile con altre parole. Anche se si rin-tracciano in altre regioni le stesse tecniche o gli stessi attrezzi, puĂČben darsi che lĂŹ si indichino in modo unitario complessi di partiche altrove sono singolarizzate o raggruppate in modi diversi. Tra-durre rischia infine di âtradireâ le ragioni stesse del conoscere,sfumando il senso di un termine, smarrendo la porzione di area se-mantica ricoperta, operando corrispondenze sballate, sovrapposi-zioni non coincidenti, generando veri e propri fraintendimenti.
2. Unâesperienza di ricerca in atto: lâAtlante linguistico della Sicilia
Passiamo ora a delineare i tratti di una storia significativa in-torno alle ricerche sul dialetto in quanto ricerche sulla cultura: ciriferiamo a quanto si Ăš fatto in passato e si continua a fare nella no-stra Isola in relazione alla cultura e alla produzione culturale indialetto siciliano. Della lunga serie di iniziative si Ăš fatto promoto-
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re il Centro di Studi Filologici e Linguistici Siciliani (Csfls), fon-dato nel 1951 da Ettore Li Gotti, Antonino Pagliaro e GiorgioPiccitto. Le produzioni scientifiche del Centro, curate in parte daipiĂč diretti collaboratori dei primi (Giuseppe Cusimano, PietroPalumbo, Alberto VĂ rvaro, Giovanni Tropea e Girolamo Cara-causi), comprendono il Vocabolario siciliano, impresa giunta ormaial quinto e ultimo volume, la Collezione di antichi testi siciliani, iLessici siciliani, i Dizionari etimologici e storici, il Bollettino delCentro infine, che nei numeri pubblicati ha accolto rilevanti con-tributi di grandi studiosi italiani ed europei.
Il progetto piĂč importante attualmente in cantiere, lâAtlanteLinguistico della Sicilia, costituisce un punto di svolta rispetto alleopere finora prodotte, in primo luogo per la sua stessa mole. Neiventâanni trascorsi dal 1985, anno della sua elaborazione, promo-tori e collaboratori si sono impegnati a condurre un discorsoscientifico nuovo, nellâintento di ricavare risultati sulla cultura del-lâIsola accostando due approcci finora distinti: lâetnografico e ilsociolinguistico. I Materiali dellâAtlante, parte integrante del pro-getto editoriale, costituiscono tappe delle ricerche e delle rifles-sioni condotte in funzione della definizione del progetto: materia-li intorno alla cultura dialettale e alle variazioni sociolinguistichein cui i tratti culturali si realizzano in aree determinate.
Se riandiamo alle riserve avanzate da Haudricourt e alle tecni-che di documentazione adottate negli Atlanti del passato, nonpossiamo non rilevare come la cultura materiale sia stata spessoconsiderata un fatto accessorio e trattata talora con sufficienza, fi-nendo col costituire solo un atlante nellâAtlante. Molto materialelinguistico, inoltre, finiva con lo sfuggire alle maglie dei questio-nari per la semplice ragione che compilatori e somministratori era-no estranei alla cultura osservata. Solo nei progetti piĂč recenti si Ăšdeciso di rimandare la formulazione dei questionari a dopo che siĂš studiato lâuniverso degli oggetti, partendo da ricerche sul campocondotte con metodi di tipo etnografico, articolando lâuniversostudiato in cicli, fasi e settori di interesse, elaborando infine delle
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monografie di prova e individuando caso per caso le emergenzelinguistiche.
Il riferimento ad oggi piĂč significativo, in tal senso, va allâAtlantedi cui stiamo parlando, che costituisce un punto di svolta non soloper la dimensione programmaticamente sociolinguistica che ne ispi-ra le ricerche, ma anche per il ricorso sistematico alle nuove tecno-logie informatiche. I Materiali che accompagnano lâiniziativa ne of-frono adeguate testimonianze. Da quando, nel 1995, il progetto del-lâAtlante linguistico Ăš passato alla fase operativa, sono stati editi unaventina di volumi, decine di carte linguistiche e cd rom multime-diali. Nellâarchivio sonoro, appositamente costituito nei locali delCentro, sono custodite migliaia di ore di registrazione, catalogate se-condo i piĂč aggiornati sistemi informatici.
Nella direzione intrapresa risulta centrale la messa a punto dicriteri atti a individuare i punti dâinchiesta ritenuti rappresentati-vi: non si procede a separare quelli ritenuti âconservativiâ da quel-li âinnovativiâ, come si era fatto di solito nella geografia linguisti-ca, ma si concentra lâattenzione su centri valutati in prevalenza in-novativi o recessivi, rilevandone le tendenze in atto. I punti nonsono individuati in base alla sola collocazione geografica, ma va-lutando fatti dâordine economico e sociale orientati verso il muta-mento o la permanenza. Seguono indagini sui processi di vettoria-lizzazione e monitoraggi statistici (con specifiche tipologie carto-grafiche fatte di carte polarizzanti, irradiazionali e metacarte), e lacostruzione di indici di variabilitĂ inter-areale su base generazio-nale, culturale e funzionale. Si tornano cosĂŹ a porre questioni diconvergenza o divergenza, di spazialitĂ e territorio, e lâattenzionefinisce con lâincentrarsi particolarmente sulla complessitĂ dei si-stemi urbani (DâAgostino Pennisi 1995). Tenendo presente, infi-ne, lo sfondo socioeconomico e socioculturale di un comprenso-rio, se ne rilevano le realizzazioni e se ne registrano le variazionisociosituazionali. Il tutto accompagnato dallâarchiviazione e daltrattamento con tecnologie informatiche (Ruffino 1995a).
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3. I Materiali dellâAtlante
Se ripercorriamo solo alcuni dei Materiali pubblicati, troviamoconferma dellâindirizzo adottato dallâAtlante: partire dalla compo-nente culturale di un determinato universo di parlanti, coglierne iriflessi nei tratti linguistici, rilevandone le realizzazioni nello spa-zio geografico e registrandone le variazioni in parlanti di strati so-ciali diversi, in progressione costante, ormai, verso lâitalianizzazio-ne.
Il primo volume (Ruffino 1995a) accoglie decine di saggi di di-verse aree disciplinari, ognuno incentrato su specifici argomenti.Per alcuni versi riprende le questioni affrontate nel convegno pa-lermitano nel corso del quale era stato varato il progetto (AA.VV.1988) e, partendo dallâidea iniziale di un Atlante linguistico-etno-grafico della Sicilia (ALES), il volume segnala i passi compiuti inuna diversa direzione nel corso degli anni. Valorizzando il contri-buto offerto dallâOsservatorio linguistico (Lo Piparo 1981), esso dĂ inoltre dettagliate informazioni sui problemi che si son dovuti viavia risolvere. Cento pagine, delle circa seicento, sono dedicate al-la messa a punto della progressione del progetto Atlante, dallaproposta originaria alle nuove prospettive che intanto si sono an-date delineando.
Il secondo volume della collezione (Ruffino 1995b) presenta irisultati di una ricerca condotta su dimensione regionale, ancoradi tipo etnografico, ma dove la componente geolinguistica trovamodo di esplicarsi in tutta la sua ricchezza. Va infatti a individua-re isoglosse caratterizzanti e dĂ indicazioni significative sulle areelinguistiche con prevalenza innovativa o recessiva. Una raccolta dietnotesti e una ricca documentazione fotografica corredano il la-voro e ne costituiscono parte essenziale.
Il terzo volume (Leone 1995) si distacca dalla linea tracciataprendendo in esame aspetti grammaticali, estranei in apparenzaalle problematiche di un Atlante: in realtĂ le cose stanno diversa-mente, dal momento che nel taglio sociolinguistico ormai stabil-
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mente condiviso dallâAtlante, incentrato sul âparlato spontaneoâ,le componenti lessicali non sono staccabili dal contesto di frase,ma risultano inserite in complessi testuali da cui la dimensione sin-tattica Ăš ineliminabile.
Nel quarto volume (DâAgostino Pennisi 1995) lâanalisi varia-zionale si impone in tutta la sua ricchezza di nodi problematici edi questioni operative: una di queste Ăš lâindividuazione di puntirappresentativi dove concentrare la ricerca. Lâanalisi dei cambia-menti fonetici e delle dinamiche socio-spaziali Ăš preceduta da unadiscussione dei modelli, metodi e rappresentazioni della variabili-tĂ linguistica: da qui discendono riflessioni su cui ci siamo giĂ sof-fermati. Nelle conclusioni si tornano a porre questioni di granderilievo: convergenza e divergenza, da chi e verso dove, con atten-zione particolare ai punti dâindagine, soprattutto nei sistemi urba-ni a grande complessitĂ .
Lungo la linea appena tracciata si muovono i contributi suc-cessivi, prodotti dai collaboratori dellâAtlante e raccolti da MariDâAgostino (1997), i quali presentano i risultati di ricerche sulcampo condotte nei due anni precedenti. Indagini sul parlato frai giovani a Palermo o sulle trasformazioni in atto in un paese del-lâAgrigentino, sullâitaliano regionale e sul parlato nelle colonie gal-loitaliche, costituiscono tasselli di un mosaico che si va compo-nendo offrendo sempre nuovi dati informativi al data base infor-matico.
Di fronte alla gran massa di materiali da investigare, lâorienta-mento iniziale del gruppo di lavoro dellâALS Ăš quello di mettere afuoco settori specifici della cultura isolana: tra essi i giochi tradi-zionali sono i primi a esser presi in considerazione. Nella pubbli-cazione curata da Ruffino (1997) si ritrovano i piĂč interessanti ri-sultati conseguiti: carte geolinguistiche con le diverse denomina-zioni della trottola nei punti di rilevamento, individuandone le di-rettrici di diffusione; guida ai testi e ai rilevamenti linguistico-et-nografici condotti nella decennale esperienza di ricerca. Ma ciĂČche fa la differenza (Ăš il caso di dire) Ăš la carta sonora su cd rom:
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essa consente di accedere ai punti segnati sulla cartina e riprodur-re la denominazione della trottola secondo la pronuncia rilevata inogni singolo luogo. Il ricorso alle nuove tecnologie, dopo una mes-sa a punto durata anni, trova in questo volume la prima, grandeoccasione di divulgazione.
Per la novitĂ dellâopera e del lavoro innovativo che le sta die-tro, per non dire della grande tempestivitĂ di svolgimento, si pos-sono considerare benvenuti gli Atti del convegno in cui diversistudiosi hanno potuto mettere a confronto le loro idee. Il riferi-mento va a Ruffino (1999), dove si ritrovano contributi incentratisu aspetti particolari dei giochi tradizionali e sulle questioni con-nesse, riflessioni sullâesperienza dellâALS e sul rapporto tra racco-glitore e informatore, note sui giochi nei centri siculo-albanesi egalloitalici. Non mancano infine contributi diretti a interpretare lalettura di carte âcomplicateâ su cui convergono informazioni di-verse, non solo di tipo ludico.
Seguono due realizzazioni diverse, certo, ma che hanno in co-mune il radicamento in zone limitate di territorio, il che le renderispettivamente interessanti sul piano sociologico, la prima, e an-tropologico, la seconda. Il lavoro di Marina Castiglione (1999) siincentra sulla realtĂ sociale e umana vissuta tra Otto e Novecentodai lavoratori delle zolfare del Nisseno. Unâesperienza di ricercavissuta da vicino: nella stesura dellâopera si avverte un particolaresenso di partecipazione e denuncia, e ciĂČ nulla toglie al suo valorescientifico. Vengono ricostruiti il lavoro dei minatori, i rapporti ei modi di produzione, prima di procedere ad unâattenta ricogni-zione degli strumenti e delle tecniche utilizzati nellâestrazione enella fusione dello zolfo. La seconda parte mette a fuoco la realtĂ linguistica soggiacente alla complessa realtĂ sociale. Si prendonoin esame i prestiti linguistici, le neoformazioni italianeggianti, ipassaggi dal dialetto allâitaliano regionale e le variazioni diatopicheper concludere con un ricco glossario. Il taglio sociolinguistico silascia avvertire nellâinteresse per le variazioni sociali e situazionalidocumentate.
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Il secondo lavoro cui ci riferiamo Ăš un vocabolario (Cannizza-ro Genchi 2000). Letto in filigrana, anche questo lessico confermacome le parole siano indici e indizi della cultura di una comunitĂ :attraverso la loro lettura Ăš possibile ricostruire un secolo di storiadi un territorio comunale di circa diecimila abitanti. Non Ăš un ca-so che i due autori partano da una ricognizione di testi risalenti alsecolo scorso facendone un punto di partenza per interviste rivol-te a testimoni privilegiati. Una ricca serie di controlli incrociati, siasul piano sincronico che diacronico, consente di procedere a rico-struzioni sempre piĂč attente e raffinate. Ne vien fuori il lessico diuna comunitĂ , appunto, ma basato su quelli che altri chiamereb-bero linguaggi settoriali, noti solo a coloro che effettivamente liusano. Il valore antropologico del Lessico del dialetto di Castel-buono risulta indubbio e, pur non condividendo lâimpostazionedellâAtlante (nĂ© poteva averla, pour cause), offre svariate opportu-nitĂ di confronto con quanto le indagini dellâALS vanno rilevan-do.
Quanto ai volumi pubblicati dopo il 2000 non ci Ăš consentitoandare oltre qualche citazione per problemi di spazio: pensiamo aiProblemi di trascrizione e tecniche di informatizzazione degli atlan-ti linguistici (che riportano gli Atti del Convegno del novembre1999), alle Inchieste socio-variazionali dellâALS di Giovanni Ruffi-no e Mari DâAgostino, al Lessico della pastorizia delle Madonie diRoberto Sottile, al Vocabolario del dialetto galloitalico di Aidone diSandra Raccuglia, agli Aspetti della variabilitĂ di Mari DâAgostino,a Costruendo i dati. Metodi di raccolta, revisione e organizzazionedella banca dati nella sezione sociovariazionale, della stessa in col-laborazione con Giuseppe Paternostro. Su una linea finora pocopraticata, ma che si rivela essenziale nellâanalisi degli etnotesti, simuovono Lâarticolo indeterminativo in siciliano di Mari DâAgosti-no, Giovanni Ruffino e Salvatore C. Sgroi, e gli Aspetti della mor-fologia verbale siciliana di Luisa AmentaâŠ
Per concludere, ogni progetto di Atlante Ăš unâimpresa che perrealizzarsi ha bisogno del contributo di piĂč generazioni e della col-
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laborazione di giovani studiosi. Ma soprattutto ha bisogno di unispiratore, che non si irrigidisca nelle scelte fatte, e di un âcondut-toreâ che, dinanzi alle difficoltĂ (economiche in primo luogo), ab-bia la forza di trovare ogni volta nuove soluzioni. Ma, a parte ilprodotto finito, il senso della loro progettualitĂ si intravede giĂ neimateriali che si approntano e si offrono allâattenzione degli stu-diosi. LâALS si muove programmaticamente in questa direzione:basti solo guardare ai numerosi volumi pubblicati e ai molti con-vegni organizzati: incontri a cadenza biennale hanno permesso didibattere metodi e risultati acquisiti, adottando ogni volta nuovemodalitĂ di ricerca. Dopo il Vocabolario, il Centro di Studi Filolo-gici e Linguistici ha trovato insomma nellâAtlante un motore nuo-vo ed efficiente per offrire contributi significativi alla comunitĂ scientifica e innovare le ragioni per cui nel 1951 era nato.
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VI. Intellettuali, agrari e lavoro contadino nella Sicilia dellâOttocento
1. Gli intellettuali e la cultura materiale
Robert Cresswell ha piĂč volte richiamato lâattenzione degli stu-diosi di cultura materiale su un fatto che passa trasversalmente persocietĂ e culture diverse e lontane: lâatteggiamento contraddittorioche gli intellettuali mantengono nei confronti delle tecniche e dellavoro manuale in genere. A fronte del comune riconoscimentodel ruolo assolto dalle tecniche a energia umana, animale o mec-canica per addomesticare e controllare lâambiente naturale, man-ca la disponibilitĂ a riconoscere alle stesse il giusto valore, soprat-tutto quando le si pone a confronto con le âattivitĂ dello spiritoâ.Ne deriva una sorta di âschizofrenia socialeâ, che finisce col col-locare da una parte la capacitĂ di fabbricare utensili e modellare lanatura e dallâaltra il lavoro intellettuale.
Lâorientamento contraddittorio attraversa, dicevamo, popoli eculture diverse: dallâOccidente europeo fino alla Cina, dagli anti-chi Greci ai Romani (si pensi al valore rivestito dallâotium latino),fino a popoli e pensatori dei due secoli appena trascorsi. Ci si sa-rebbe attesi dagli uomini dellâOttocento, il secolo delle rivoluzio-ni industriali, ben altro atteggiamento nei confronti del lavoro ma-nuale: ma non Ăš stato cosĂŹ. âIl rovesciamento dellâaristocrazia daparte della borghesia nei secoli XVIII e XIX in nulla ha contribuitoalla riabilitazione del lavoro manuale, per quanto lâideologia allo-
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ra dominante abbia sostituito la virtĂč del lavoro allâeleganza del-lâozio. Tanto piĂč che â sottolinea Cresswell â la rivoluzione indu-striale vede costituirsi una societĂ in cui ogni rivendicazione a fa-vore delle tecniche si traduce in una rivendicazione a favore di co-loro che le praticanoâ (1981, 971).
Antropologi e sociologi della seconda metĂ dellâOttocento nonvanno esenti da un simile orientamento: essi infatti, adottando unagriglia interpretativa di marca idealistico-hegeliana, elaboranoquadri interpretativi della realtĂ umana in cui il posto centrale ri-sulta occupato dalle religioni e dalle mitologie dei popoli, da trat-ti riferibili alla lingua o alla cultura, dai sistemi di parentela⊠Lâu-niverso delle tecniche, che pure poteva essere piĂč volte chiamatoin causa, rimane ancora sullo sfondo, per non dire assente.
Non ne vanno esenti, naturalmente, neppure i folkloristi italianicoevi. âCiascuna rappresentazione di un universo culturale dato neenfatizza... alcuni aspetti, altri ne tace. Ă cosĂŹ anche per lâimmaginedel mondo popolare consegnata alla storia dal Romanticismo. Talu-ni momenti della cultura popolare, quelli appartenenti alla sferaâspiritualeâ, sono stati osservati e ipervalutati, quelli propri alla sferaâmaterialeâ taciuti e neppure visti. Agisce cioĂš sul terreno limitatodellâosservazione del mondo popolare la dicotomia tra natura e cul-tura, con segno positivo per questâultimaâ (Buttitta 1980, 29).
Nella stessa direzione si muovono i lessicografi siciliani del se-colo XIX, che non riescono a cogliere lo spazio occupato dal mon-do del lavoro e dallâuniverso delle tecniche. âIl vocabolario non Ăšun inventario di realtĂ naturali o sociali o culturali, come unâenci-clopedia, ma esso si presenta come la registrazione del sistema dicodificazione linguistica del reale... Il criterio di selezione Ăš in pri-mo luogo diatopico e diacronico... in secondo luogo esso Ăš anchediastratico... Ne consegue che unâopera accessibile solo a chi saleggere e scrivere inclinerĂ a rappresentare le fasce alte dellâespe-rienza culturale e sociale, e non quelle basseâ (VĂ rvaro 1984, 535).Con quale ottica gli intellettuali guardavano al âbasso mondo dellavoroâ? La risposta di VĂ rvaro Ăš attenta e articolata: âIl lessico-
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grafo siciliano dellâOttocento ha un orizzonte di osservazione bendefinibile: i lavori domestici, anche servili, non gli sfuggono; spes-so, anche se non sempre, presta una certa attenzione allâartigiana-to cittadino o addirittura a qualche attivitĂ industriale (ad esempiola tipografia); se veniamo invece al lavoro dei campi, alla fatica delcontadino o del pastore, egli non va oltre un inventario superfi-ciale e generico... La sua fonte rimane probabilmente il patrimo-nio di nozioni comuni e la poesia arcadicaâ (ivi, 538).
Un identico sostrato ideologico, insomma, accomuna per tuttolâOttocento coloro che si interessano di lingua, dialetto e culturamateriale. BisognerĂ attendere gli anni Venti del secolo XX perchĂ©lâatteggiamento cominci a essere messo in discussione, anche senon Ăš detto che si avvii a mutare. A cominciare dallâAtlante lin-guistico-etnografico dellâItalia e della Svizzera romanza (AIS, Berna1928-1940), in cui il lavoro agricolo e pastorale cominciano adavere dignitĂ dâaccesso. In Francia, invece, si delinea e si impone,a partire dal 1929, unâesperienza scientifica e culturale dâavan-guardia: la Nouvelle Histoire. Allâinterno della scuola storica cui ciriferiamo, viene ad essere coltivato un interesse di grande respiroper la cultura materiale e ad essa si fa ricorso per ricostruire real-tĂ lontane nel tempo, di cui non resistono che labili tracce. La MĂ©-diterranĂ©e et le monde mĂ©diterranĂ©en Ă lâĂ©poque de Philippe II(1949) di Fernand Braudel e Montaillou, un village occitan (1966)di Emmanuel Leroy Ladurie costituiscono in tal senso pietre mi-liari di un percorso esemplare.
Negli stessi anni etnologia e antropologia culturale comincianoa farvi ricorso per delineare le basi di sopravvivenza di comunitĂ insediate in realtĂ lontane sul piano culturale e talora remote suquello geografico: con la socioetnologia francese di Durkheim eMauss si muovono in tale direzione gran parte degli antropologisociali britannici, da Bronislaw Malinowski a Edward Evans-Prit-chard e a Raymond Firth. A parte riferimenti anticipatori in FranzBoas, Ăš qui che lâuniverso delle tecniche entra a pieno titolo neiprogetti di ricerca, cosĂŹ come nel concetto scientifico di cultura.
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Anche in tempi a noi vicini, perĂČ, unâantropologia del lavoro edelle tecniche occupa una posizione marginale rispetto ad altri ap-procci: non puĂČ avere altro significato la diversa attenzione chelâindustria editoriale europea ha riservato a due illustri antropolo-gi francesi: AndrĂ© Leroi-Gourhan e Claude LĂ©vi-Strauss, il primointeressato alla cultura materiale, il secondo al sistema dei miti edella parentela.
La piĂč accorta antropologia di matrice semiotico-strutturale edi ispirazione marxiana ribadisce a piĂč riprese, invece, il fatto cheânatura e cultura non sono due aspetti distinti nel continuum del-la realtĂ umana, ma in ogni momento di questa essi procedonoparallelamente, si sovrappongono, sono indissociabili, e solo unaesigenza conoscitiva costringe a distinguerliâ (Buttitta 1979, 36).La cultura Ăš lâesito di un rapporto continuo tra lâuomo e la natu-ra, essendo essa trasformazione e non solo rappresentazione delreale: âFare e rappresentare non sono separabili nĂ© cronologica-mente nĂ© logicamente⊠sono aspetti indissociabili di un unicoprocesso di âpresaâ dellâuomo sulla realtĂ naturaleâ.
Un orientamento del genere rimane perĂČ ancora minoritario edi diverse popolazioni, sia vicine che lontane da noi, si possiedo-no ricche documentazioni sĂŹ, ma relative agli aspetti âspiritualiâ eâsocialiâ della loro cultura. Si continuano a ignorarne, invece, labase materiale e sociale di cui i primi sono, in qualche modo,espressione. Se ne ha perciĂČ una conoscenza dimezzata, una âmi-sconoscenzaâ, direbbe Cresswell, costruita su basi tacite e lasciateregolarmente da parte. Quale conseguenza ne deriva sul pianodella conoscenza della realtĂ umana nella sua dimensione piĂč am-piamente culturale? Che non si comprenderĂ mai abbastanza, abreve scadenza almeno, il ruolo che lo studio delle tecniche diproduzione svolge nella comprensione della cultura umana nelsuo complesso. Un ruolo a dir poco strategico, se i modi e le tec-niche di produzione adottati da una comunitĂ per soddisfare ipropri bisogni di sopravvivenza non ne determinano solo le con-dizioni di esistenza ma incidono anche su comportamenti, valori,
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atteggiamenti, norme morali, tutto un complesso di tratti, insom-ma, che si fanno appartenere alla cultura intesa nel piĂč pieno sen-so antropologico.
2. Una lodevole eccezione: gli âAnnali di agricoltura sicilianaâ
Una grande e significativa eccezione allâorientamento dianzidelineato Ăš costituita dagli âAnnali di Agricoltura Sicilianaâ, orga-no ufficiale dellâIstituto Agrario Castelnuovo, il cui primo nume-ro esce a Palermo nellâanno 1851. Essi hanno periodicitĂ mensilee si pubblicano fino al 1887 (con una breve interruzione fra il 1864e il 1868), per un totale di 32 annate articolate in tre serie succes-sive. Tra i fondatori molti sono docenti dellâIstituto, e ne sono an-che i principali collaboratori, annoverando naturalisti come Fran-cesco MinĂĄ Palumbo e Francesco Cuppari, agronomi come Gio-vanni Bruno e Nicola Chicoli, economisti come Giuseppe Inzen-ga (che ne Ăš anche direttore) e NicolĂČ Turrisi Colonna. Sulle pagi-ne della rivista si alternano, nel passare degli anni, le firme piĂč no-te di studiosi emeriti di varia estrazione. Molti altri sono agrari cheoggi diremmo illuminati, interessati come sono al progresso dellecampagne, appartenenti ai ceti agrari sensibili al âprogresso deicampi e delle aziende agricoleâ di cui sono proprietari: segnalia-mo per tutti Giuseppe Bianca di Avola e Giulio Carapezza di Pe-tralia Sottana.
Gli âAnnali di agricoltura sicilianaâ possono considerarsi, e ineffetti costituiscono, il âprimo serio progettoâ di indagine sullacultura materiale nellâIsola. Non Ăš da credere, naturalmente, che amuovere i collaboratori della rivista fossero motivazioni puramen-te scientifiche, ma non câĂš dubbio che, con le debite precisazioni,il loro puĂČ considerarsi un orientamento antropologico ante litte-ram, per la parte almeno che riguarda la sottile e argomentata do-cumentazione relativa alle tecniche di produzione diffuse nel ter-ritorio isolano, spesso del tutto ignorate.
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Lâeditoriale che inaugura la rivista, redatto da Giuseppe Inzen-ga, Ăš da considerarsi da questo punto di vista un vero e propriomanifesto, il cui senso ultimo Ăš sintetizzabile nellâespressione âco-noscere per migliorareâ. Egli lamenta infatti come nei primi de-cenni del secolo si fosse tentato di introdurre nellâIsola praticheagrarie dimostratesi efficaci nelle regioni settentrionali, senza perĂČtener conto delle differenze climatiche e ambientali e soprattuttodelle âpratiche indigeneâ, distanti mille miglia dalle prime. âAiprecetti rigorosi degli scrittori esotici â scrive â mal rispondeva lapratica indigena: conseguenza di tale disarmonia erano tuttogior-no (sic) le fallite speranze dei novatori, lâorgoglio del volgo degliagricoltori sempre restijâ. CiĂČ perchĂ© âsotto altro cielo e in condi-zioni economiche differenti, diversi dovevano essere gli ammae-stramenti, i precetti, le regole che dirigere dovrebbero lâeconomiacampestre della nostra regioneâ (Ann. 1851, 8-10).
Appare chiara lâesigenza prima da soddisfare in vista dellâela-borazione di qualsiasi progetto di miglioramento: conoscere e do-cumentare lo stato delle pratiche agrarie isolane. E per conoscereâ precisa lâInzenga â Ăš necessario esplorare contrada per contra-da, guardare con i propri occhi, confrontarle non teoricamente mapraticamente, registrando e segnalando pregi e difetti di ogni com-plesso di pratiche. âIl metodo esser dovrebbe un metodo di os-servazione diretto a conoscere prima di ogni altra cosa le pratichetradizionali che formano il complesso dellâarte nostra agrariaâ. Elâesigenza di documentare a fondo lo âstato attuale dellâagricoltu-ra della penisola italianaâ (tale Ăš il titolo dellâeditoriale) ritorna adogni pagina: âCi auguriamo di vedere dei saggi pratici, fatti non daspeculatori inetti o da ciarlatani, ma da uomini gravi e assorti, on-de dimostrare come si puĂČ rendere il lavoro agrario piĂč produtti-voâ (ibidem).
Il metodo auspicato richiama quello che si sarebbe diffuso e im-posto nelle scienze sociali solo nel secolo XX, ma giĂ allora esso di-viene una regola di lavoro per i collaboratori della rivista e rimaneimmutato nel tempo. Ă significativo quanto osserva ed auspica lâa-
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nonimo estensore degli Studij sul caseificio siciliano (Ann. 1869 esegg.) ad apertura del primo di una serie di articoli: âNon furonocerto i chimici che fecero progredire la manifattura dei caci parmi-giani e lodigiani... Il mestiere e lâarte risulta da personali cognizio-ni acquistate per lunga pratica, piĂč o meno intelligente, e da osser-vazioni dirette da speciale genio, tramandata da una generazioneallâaltraâ. La conclusione Ăš ancora un programma: âInvito chi amail progresso agrario [i âvecchi cascinariâ, appunto] a parteciparetutte quelle notizie che crederanno di qualche interesseâ (1869).Qui sta infatti il punto di svolta rappresentato dalla rivista: cono-scere la realtĂ tecnologica presente per favorire il âprogresso agra-rioâ.
Facendo tesoro del progetto delineato i collaboratori hannooperato per piĂč di un trentennio e hanno profuso tutto il loro in-teresse in ricerche attente e puntuali: per questo si puĂČ ben direche gli âAnnaliâ costituiscono una vera e propria enciclopedia disaperi e tecniche tradizionali non altrimenti documentati nel seco-lo XIX e certo non piĂč documentabili oggi, per la gran parte.
Sarebbe troppo lungo presentare i singoli contributi: ci limitia-mo perciĂČ a segnalare, nella loro piĂč scarna semplicitĂ , gli argo-menti che ricorrono piĂč di frequente, avvertendo che a ognunodâessi sono dedicati dai 20 ai 30 articoli, incentrati ora sulle tecni-che lavorative, ora sugli attrezzi e strumenti di lavoro, ora sulla si-tuazione generale sia economica che finanziaria. Si va dalla cerea-licoltura alla olivicoltura, dalla viticoltura allâagrumicoltura; dal-lâallevamento dei bovini e dalla pastorizia allâapicoltura e alle pra-tiche agrarie piĂč rare; e non sono pochi gli articoli dedicati a espo-sizioni, fiere e mercati, ai prezzi dei prodotti agricoli, al creditoagrario, a congressi e comizi agrari, alla scuola e allâistruzioneagraria, ai proverbi, infine.
Abbiamo lasciato per ultimi i proverbi, perchĂ© essi ci fanno co-gliere ancora meglio lo spirito innovatore che guidava i collabora-tori degli âAnnaliâ. Tra i tanti, il piĂč vasto corpus di proverbi agra-ri fu raccolto e pubblicato da Francesco MinĂ Palumbo fra il 1853
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e il 1855; essi assommano a un totale di 391 e sono articolati in ba-se agli argomenti: granicoltura e pastorizia, coltivazione del lino eviticoltura, olivicoltura⊠à superfluo ricordare, in questa sede, lafunzione di deposito di saperi e di esperienze di vita che i prover-bi assolvono. Lâesame di una raccolta di proverbi che si riferisco-no ad una particolare attivitĂ dellâuomo costituisce un modo di av-vicinare una realtĂ materiale attraverso la sua espressione lingui-stica.
MinĂ Palumbo, nel raccogliere i proverbi delle Madonie, ave-va ben chiara la funzione documentaria che essi possono svolgereper chi, comâegli si accingeva a fare, volesse âstudiare lo stato del-lâarte, e dei mestieri agrari, coi quali coltivansi le campagne deldorso settentrionale delle Madonieâ. Nellâintroduzione egli scri-veva: âA questi studi credo farmi strada raccogliendo dapprimaquei proverbi agrari, che stanno nella mente della nostra classe ru-rale, come deposito di precetti dalla esperienza desunti, che le ge-nerazioni si han tramandato e tramandano ancoraâ (Ann. 1853,179). Per il fatto stesso di contenere cristallizzato un sapere di cuisi Ăš talora persa memoria, i proverbi segnalano lâimportanza che ilcontadino annette alle fasi successive di un ciclo agrario, ma ri-chiamano anche lâattenzione su aspetti in via di sparizione, aiuta-no a individuare funzioni diverse di attrezzi peraltro simili, contri-buiscono a memorizzare animali o malattie nocive per le colture elâallevamento.
Anche per la ricca nomenclatura, di cui costituiscono enormiâmagazzini di memoriaâ, i proverbi assolvono a un ruolo impor-tante, perchĂ© ad ogni termine non puĂČ non corrispondere unâuni-tĂ culturale che solo lââosservazione direttaâ aiuta a svelare. Nonsono poche le pagine, del resto, in cui affiora netta la consapevo-lezza che oggetti, operazioni e idee non sono separabili dalle ri-spettive denominazioni (al di lĂ dei semplici proverbi), e dunquemalamente traducibili. Nei saggi dedicati alla coltura del sommac-co, pubblicati a puntate a partire dal 1875, Inzenga osserva a suavolta: âIl lettore non si scandalizzi del soverchio sfoggio che io fo
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di vocaboli siciliani... per rendermi comprensibile alla intelligenzadei pratici coltivatori del mio paese. Per altro vi Ăš molto da ap-prendere alle volte dal linguaggio siciliano nellâarte campestreâ(1875, 49). E in nota aggiunge: âQueste due parole tecniche [cud-diari e cuddiaturi] del vocabolario siciliano, relative alla coltura delsommacco, mancano di equivalente linguaggio italianoâ: dove af-fiora in qualche modo la consapevolezza della connessione fra lin-gue, culture e pratiche sociali.
3. Agrari e mondo contadino negli âAnnaliâ
Non ci si puĂČ attendere dagli âAnnaliâ ciĂČ che essi non posso-no dare, giĂ solo considerando la lista dei collaboratori. Questi in-fatti appartengono in buona parte al ceto agrario baronale dellâI-sola, di cui non possono non condividere lâorientamento âideolo-gicamente connotato in senso nettamente reazionarioâ. Il persi-stere di un orientamento del genere ha di che colpire, soprattuttose si pensa al quadro che emerge dai due volumi dellâInchiesta diFranchetti e Sonnino, dagli Atti dellâInchiesta agraria di Jacini e daaltri studi che, pur con i limiti loro riconosciuti, rappresentano unmodo sociologicamente piĂč complesso e problematico di inter-pretare la realtĂ isolana e meridionale in genere. Il modo di inten-dere la realtĂ del latifondo risulta indicativo al riguardo: dietro leprofonde ingiustizie che vi vengono praticate, nessun collaborato-re coglie la funzione frenante che lâeconomia latifondista in quan-to tale svolge sulle attese di progresso nutrite dagli agricoltori sici-liani.
Sono altresĂŹ indicativi di un orientamento simile i saggi che Ni-colĂČ Turrisi Colonna dedica alle Associazioni pastorali diffuse suiNebrodi e sulle Madonie (Ann. 1851). Egli compie una dettaglia-ta ricognizione, includendo nella classificazione un non esiguo nu-mero di associazioni locali, precisando per ogni tipologia le formedi remunerazione, il modo di dividere gli utili, le gerarchie e i ruo-
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li assegnati. Ma, pur avendo segnalato casi di esplicite sopraffa-zioni praticate nei feudi, sarebbe vano cercare tra le righe unaqualche annotazione critica su quanto lâautore non ha ritenutogiusto celare. Franchetti e Sonnino riprendono ventâanni dopo lostudio del Turrisi Colonna, constatano il persistere delle stesse as-sociazioni pur nel passare degli anni e nel mutare delle situazionipolitiche nazionali, ma non possono fare a meno di segnalarne ilcomplessivo contesto di arretratezza e di inceppo allo sviluppodelle attivitĂ produttive nellâIsola.
Ă ancora oltremodo significativa dellâorientamento ideologicodi cui diciamo la serie di interventi che anonimi estensori (quandonon il direttore della rivista) dedicano alla âmal sicurezza dellecampagneâ e al fenomeno del brigantaggio negli anni che vannodal 1874 al 1877. Gli interventi compaiono sempre nella rubricaâCronaca agrariaâ, insieme con notizie di minor rilievo. A partelâassenza di unâanalisi del fenomeno, che sarebbe inutile attender-si, e la conclamata affermazione che il ladro Ăš il primo ostacolo al-lo sviluppo delle campagne, colpisce la soluzione proposta e riba-dita per arginare e debellare il brigantaggio rurale. Lâanonimo co-mincia infatti col prendere atto che il problema non puĂČ essere ri-solto dal singolo agricoltore: âLa posizione topica speciale dellâI-sola nostra per intervalli territoriali estesi e deserti fra comune ecomune, la sua superficie diseguale labirintiforme... la preponde-ranza di un nucleo qualunque di malfattori in rapporto a pochi pa-gliai e a pochi campestri tugurii di timidi e isolati coloni... o soli-tarie masserie dei nostri latifondi, formano quel complesso di co-se tale pel quale appo noi riesce impossibile la persecuzione deimalfattoriâ (Ann. 1874, 228).
La proposta che viene avanzata Ăš quella di lasciare da parte icarabinieri delle stazioni locali, da destinare allâordine pubbliconei centri abitati, e di ricorrere ad una sorta di âguardia ruraleâ diun tipo molto particolare: âuna nuova organizzazione villareccia epaesana di fanti e cavalli del proprio paese... capitanati da uominionesti e di notorio rispettoâ (ivi). Non Ăš chi non veda in queste pa-
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role la precisa intenzione, espressa dallâanonimo scrivente, diâcontrollare i controlloriâ dellâordine pubblico. CiĂČ appare tantopiĂč chiaramente nel ribadito rifiuto di ogni ricorso a leggi ecce-zionali. Certo, lâauspicio fa giudicare positivamente la sua posizio-ne: âNon leggi eccezionali, che Iddio ce ne liberi, che narcotizza-no momentaneamente il male senza guarirlo; non stati dâassedio didolorosa memoria, che tormentano il commercio e lâesercizio deiliberi cittadiniâ (ivi). Lâinvocazione perĂČ non tragga in inganno:lâimpressione dura infatti un attimo. Non ci vuol molto a com-prendere lâobiettivo ultimo che essa intende coprire e difendere,ovvero la proprietĂ latifondista. A conferma si cita il caso di unamasseria dei dintorni di CefalĂč â nota riportata in una âCronacaagrariaâ dello stesso 1874 â rovistata e devastata dalle forze del-lâordine per scovarvi briganti e accoliti. Da qui il lamento che lalotta ai briganti, se non controllata dai proprietari terrieri, finiscecol rendere ben piĂč gravosa la condizione di proprietari e coloni.
4. Gli âAnnaliâ e lâEuropa
In conclusione passiamo al punto che piĂč richiama la nostra at-tenzione: gli âAnnaliâ e lâEuropa. Abbiamo giĂ detto del progettoche guida i collaboratori della rivista: âconoscere per migliorareâ.Quanto alla prima parte del programma, la documentazione ac-quisita dalla rivista costituisce di per sĂ© una conferma. Quanto al-la seconda parte (âmigliorareâ), la domanda che i collaboratori sindallâinizio si son posti Ăš: migliorare come? Quali termini di riferi-mento adottano docenti del Castelnuovo e collaboratori degliâAnnaliâ nel progettare un miglioramento dello stato dellâagricol-tura siciliana? Ritroviamo la risposta nelle pagine stesse della rivi-sta: Ăš lâEuropa a fungere da modello; ed Ăš lâagricoltura dei paesieuropei piĂč avanzati a costituire un termine di riferimento per ilcomplesso delle tecnologie applicate.
Certo, non si scopre nulla di nuovo in questa aspirazione al-
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lâEuropa dei ceti egemoni isolani, piuttosto che al Nord Italia. Ba-sti ripensare ai profondi legami che baroni e principi siciliani in-trattenevano col bel mondo londinese e parigino; al continuo af-fluire nellâIsola di mode e modelli nati oltralpe e qui adottati, inuna ideale comunione della punta estrema del meridione dâEuro-pa con il centro del continente; al grande successo che il Libertyfece registrare, recuperando atmosfere di luoghi lontani, una vol-ta riproposto a Palermo. Ma lâaspirazione allâEuropa, o almenolâaspirazione a confrontarsi con essa, Ăš anche nella intelligentsia diquel tempo: basti solo ricordare Giuseppe PitrĂš, il cui continuoscambio con centri culturali europei andava di pari passo con lâat-tenzione che riservava alla cultura locale.
A rendere vieppiĂč significativa lâaspirazione allâEuropa che ri-troviamo negli âAnnaliâ Ăš la dichiarata tensione verso soluzionitecniche e strumentali che, sole, possono assicurare progresso adunâagricoltura di un certo tipo. Ă come se, ci si passi lâimmagine,solo lâEuropa potesse risolvere il problema Sicilia. Non stupisceallora ritrovare riflessa in molte pagine della rivista, e variamenteesitata, una tensione ideale che non si basava su un rifiuto acriticodella realtĂ isolana, ma della conoscenza e dellâaccettazione dellastessa costituiva una tappa fondamentale per superarla. Tornanoancora utili le osservazioni di Giuseppe Inzenga intorno ai ma-nuali di agricoltura che, diffusi per migliorare, si risolvevano in in-terventi âinfruttuosi ed effimeriâ, trattandosi di âopere o liberco-li di economia campestre, piene sempre di fiele e di bile contro lacosĂŹ detta ignoranza dei nostri pratici agricoltoriâ (Ann. 1851, 10).
La tensione verso lâEuropa risalta in luoghi diversi. Ci limitia-mo a indicarne tre. Il primo Ăš costituito dal gran numero di arti-coli, talora semplici note redazionali ma indicative di tutto unorientamento, dedicati a informare dellâintroduzione nellâIsola ditecniche, macchinari, animali da allevamento e piante provenientida paesi del Nord Europa. In tutti gli articoli appare costante il bi-sogno di evidenziare, accanto alla semplice introduzione di qual-cosa grazie alla benemerita lungimiranza di qualcuno, il successo
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dellâiniziativa: e questa viene ogni volta additata come un esempioda riprendere e diffondere ai fini di incrementi quantitativi e qua-litativi insieme.
Nellâanno 1853 si dĂ largo spazio, ad esempio, ai âmigliora-menti proposti da Mr Dezemeiryâ relativi a sistemi di coltivazioneintensiva. Nel 1856 si dĂ ampio resoconto della tecnica di falcia-tura con macchine inglesi Mc-Carmick e Manny, dellâintroduzio-ne di pecore di razza Disley nel Ragusano, della lavorazione di for-maggi GruyĂšres nella fattoria Regaleali di Vallelunga. Nel 1875 in-fine compare una lunga recensione a un volume sullâapicoltura diF. Bastian i cui suggerimenti si auspica che vengano adottati nellanostra Isola.
La stessa tensione compare nelle pagine di pubblicitĂ che chiu-dono ogni numero degli âAnnaliâ. La gran parte degli attrezzipubblicizzati in quelle pagine sono strumenti e macchine dâorigi-ne straniera e i rivenditori di quegli attrezzi, che abbiano sede aPalermo, Napoli o Messina, sono interessati a segnalarne innanzi-tutto il Made in France, Germany o United Kingdom. Fra il 1871 eil 1873/74 compare piĂč volte la pubblicitĂ di un âcoltello da inne-stareâ, disponibile a Palermo ma âproveniente dalle migliori fab-briche inglesi e francesiâ. Nel corso del 1877 torna a piĂč riprese lapubblicitĂ a mezza pagina di âmacchine agricole industriali MrBale and Edwardsâ, oppure di âtrebbiatrici sistema Weill prove-nienti da Bayernâ. PiĂč volte compare infine, a partire dal 1875, lapubblicitĂ di una âzangola atmosferica sistema Cliftonâ, in cui tra-spare un chiaro obiettivo da proporre ai âvecchi cascinariâ: la pro-duzione di burro, anche se non rientra fra le pratiche della pasto-rizia tradizionale, comâĂš noto.
Riteniamo perĂČ che i momenti piĂč significativi, di quella che Ăšuna vera e propria tensione verso lâEuropa, siano rilevabili negliampi spazi dedicati alle Esposizioni internazionali, allestite perio-dicamente nelle grandi capitali europee. Occasioni in cui era dataallâoperatore agricolo isolano la possibilitĂ di avere diretta cono-scenza dei progressi tecnologici realizzati oltralpe, quelle esposi-
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zioni erano anche luoghi in cui agrari e illuminati docenti del Ca-stelnuovo si proponevano di far conoscere le specialitĂ floricole si-ciliane, in vista di loro possibili impieghi industriali o medicinali.Appare significativa al riguardo la nota sullâEsposizione di Viennacomparsa nel numero di agosto del 1876: si offre al lettore un elen-co delle piante indigene esposte (âginestra, ibisco, olmo, robinia,agave americana, palma nana, ecc.â), ma lâanonimo estensore con-centra lâattenzione su sommacco e manna: âLa Sicilia conta moltosu questi prodotti, dopo gli agrumi e lo zolfo, come ognuno puĂČconvincersi facendo capo al campionario di prodotti siciliani in-viati allâEsposizioneâ (Ann. 1876, 40).
Ancora piĂč significativo Ăš il saggio che Giuseppe Inzenga de-dica allâEsposizione universale agraria di Parigi, nel quarto nume-ro del 1856. Lâautore possiede un ampio bagaglio di conoscenzesui progressi agricoli realizzati nel Nord Europa ed Ăš informatodella letteratura scientifica disponibile in quei paesi. Non stupisceallora la consapevolezza critica che lo guida nellâallestire il âcam-pionarioâ dei prodotti da inviare nella capitale francese, in cui ap-punto si condensa il contenuto dellâarticolo: âPastorizia e prodot-ti caseari, prodotti vinosi, oli diversi, piante industriali e medici-nali, prodotti del mare...â sono alcune delle categorie merceologi-che in cui viene fatta rientrare unâampia gamma di prodotti da sot-toporre allâattenzione di gente che ha giĂ realizzato i progressiagricoli a cui in Sicilia si cominciava appena a pensare: sommaccoe manna, di nuovo, ma anche âsoda, liquirizia, zafferano, robbia,canapaâ, e poi ancora âsalmarino, coralli, tonno, solfato di ma-gnesiaâŠâ (Ann. 1856, 82 e segg.).
Sono solo esempi, scelti tra i tanti che le pagine degli âAnnaliâpropongono, e non Ăš il caso di fornire elenchi dettagliati. La ten-sione verso lâEuropa che da essi emerge ci spinge invece a riconsi-derare un collegamento giĂ altrove proposto. Una linea continuaunisce i collaboratori degli âAnnaliâ ai viaggiatori stranieri che nu-merosi, fra Sette e Ottocento, visitano la nostra Regione avendocura di registrare i tratti di cultura materiale che molti studiosi lo-
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cali mostravano di ignorare. Unâaltra linea continua si puĂČ direche unisca, attraverso i viaggiatori, i docenti dellâIstituto Castel-nuovo allâEncyclopĂ©die di Diderot e DâAlembert che per primaaveva âscopertoâ lâuniverso delle tecniche e dato loro dignitĂ , rap-presentando essa un momento di svolta nella storia della culturaoccidentale. La tensione verso lâEuropa puĂČ intendersi come unaconferma (in termini di âricadutaâ, stavolta) di quelle matrici ori-ginarie che abbiamo inteso riconoscere nei collaboratori degliâAnnali di agricoltura sicilianaâ.
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VII. Fare cultura con gli strumenti del lavoro tradizionale
1. La cultura materiale nelle realtĂ in transizione
Abbiamo visto come nel nostro Paese, non meno che altrove,solo con grande difficoltĂ si sia andato delineando un interessespecifico per lâuniverso della cultura materiale e per tutto quantola circonda: lingua o dialetto, cultura e societĂ .
Ma cosa Ăš accaduto se a farsi oggetto dâattenzione Ăš stata la cul-tura materiale di una realtĂ sociale in transizione, cui non poteva-no gettare uno âsguardo da lontanoâ nĂ© sociologi nĂ© antropologi,ma che nĂ© gli uni nĂ© gli altri potevano ignorare? Ă il caso del Mez-zogiorno dâItalia, in cui mutamenti nel campo della produzionenon si sono verificati a fine Ottocento ma si sono registrati solo nelsecondo dopoguerra. Talora accompagnati da processi di sfalda-mento, come la desertificazione delle zone interne, lâemigrazionee lâinurbamento, cosĂŹ come il lento esaurirsi dellâartigianato tradi-zionale e di attivitĂ agricole che da secoli segnavano il territorio,sono tutti fenomeni ancora troppo recenti perchĂ© li si potesseguardare con il freddo occhio dello storico.
Della cultura materiale di un universo sociale ed economico,vecchio di secoli ma che Ăš sopravvissuto fino agli anni Sessanta delNovecento, non si poteva fare archeologia, naturalmente, e nean-che storia nel senso piĂč pieno del termine, ma si poteva fare me-moria: lâesigenza di collocare la cultura materiale su una dimen-
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sione connessa alla memoria dipendeva dal fatto che non rimane-vano disponibili solo gli attrezzi di lavoro ma erano ancora pre-senti le persone che li avevano usati fino a un recente passato. âLamemoria rifiuta la morte e la storia lâaccetta â Ăš stato rilevato, an-che se in un contesto del tutto diverso â e storia e memoria, lungidallâessere sinonimi, sono talvolta in aperto conflitto. Vi Ăš una sor-ta di confine impreciso, di spazio ambiguo, una soglia insomma ol-tre la quale la memoria non Ăš piĂč altro che storia. Banalmente sipotrebbe collocare tale soglia nel passaggio tra generazioni: in ta-le prospettiva la morte degli ultimi in grado di ricordare corri-sponde alla morte della memoriaâ (Tota 1999, 81).
Nella direzione indicata, anche nel nostro Paese unâattenzioneper la cultura materiale si Ăš cominciata a nutrire in tempi lontani,ma piĂč come semplice curiositĂ , e solo con gli anni si Ăš ritagliatapropri spazi entro i quali si sono perfezionati quadri di riferimen-to e metodi di ricerca. Il fatto che di recente lâattenzione si Ăš ri-configurata in una direzione semiotica e socioantropologica, pro-ponendosi di raggiungere obiettivi nuovi rispetto a quelli coltivatiin passato, non Ăš stato privo di conseguenze. A cominciare dalladenuncia del poco o nullo interesse nutrito nei suoi confronti da-gli intellettuali dellâOttocento, che pure hanno âscopertoâ il po-polo quale entitĂ sociale degna di interesse. Nuove modalitĂ ope-rative si sono prospettate allâoperatore culturale in rapporto allasituazione in cui si Ăš trovato ad operare. Questa infatti non era po-sta in un tempo altro (comâera per lo storico o lâarcheologo), maesisteva ancora o era appena scomparsa, e a rimanere non eranopovere tracce: il ricercatore aveva dinanzi a sĂ©, oltre agli strumen-ti, gli uomini che li avevano usati.
A fronte dello sfaldarsi della realtĂ socioculturale preesistente,i cui tratti distintivi resistevano ancora nelle zone piĂč isolate, a chisi occupasse di cultura materiale si imponevano due esigenze: laprima, di tipo conoscitivo, era diretta a ricostruire quadri detta-gliati delle realtĂ produttive tradizionali attraverso estese campa-gne di ricerca in aree definite, il che consentiva di rilevare le linee
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di diffusione di innovazioni tecniche, culturali o linguistiche econtribuiva a spiegare dinamiche culturali di varia natura. La se-conda esigenza era quella della âripropostaâ, intesa come recupe-ro, tutela e fruizione critica dei reperti di cultura materiale, in ri-sposta a esigenze politico-culturali sempre piĂč avvertite ai piĂč di-versi livelli. Le pratiche collettive, messe in atto dalle varie comu-nitĂ per rispondere a bisogni di sopravvivenza, non perdevano illoro valore originario ma ne acquisivano uno nuovo in quanto te-stimonianze delle loro concezioni del mondo e della vita. Quelliche prima erano mezzi di intervento sul mondo tendevano ad es-sere assunti come segni di una cultura e della sua storia, mezzi diinterpretazione di specifiche realtĂ , a diventare infine beni cultu-rali nel senso pieno del termine.
Agli ultimi sviluppi hanno contribuito intellettuali di diverseregioni, e soprattutto di quelle meridionali, ma non crediamo diesagerare indicando in un gruppo di studiosi palermitani (internied esterni allâAteneo) quello che piĂč si Ăš impegnato nella nuova di-rezione, attraverso lâelaborazione di progetti di grande spessorescientifico e culturale. Facendo tesoro di ricerche monografichecondotte in ambito antropologico, ma con la dovuta attenzione alsociale, il nuovo orientamento ha fatto registrare un decisivo pas-so avanti a partire dalla metĂ degli anni Settanta: allora il gruppoha cominciato a definire le modalitĂ della ricerca, gli interessi dariservare al settore, se e in qual modo coniugarli con quelli piĂč vi-cini alla storia sociale. Momenti centrali dellâesperienza scientificae culturale sono stati due congressi internazionali tenutisi a Paler-mo nel 1978 e nel 1980, occasioni di confronto fra coloro che, conobiettivi e modalitĂ differenti, si occupavano di cultura materiale.Alla pubblicazione dei relativi Atti (AA.VV. 1980 e 1984) sono se-guite numerose ricerche incentrate sui cicli di produzione tradi-zionali, pubblicate in varie sedi e in diversi formati. Tra i due con-gressi si Ăš collocato il Censimento regionale dei beni etnoantropo-logici, incentrato sugli strumenti di lavoro.
Tutto questo Ú stato possibile perché in Sicilia il nuovo orien-
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tamento ha ricevuto un tempestivo riconoscimento sul piano le-gislativo: ai beni etnoantropologici (in cui si fanno rientrare glistrumenti del lavoro tradizionale) Ăš stata infatti riconosciuta rile-vanza istituzionale dalla legge regionale 80/1977, diretta alla valo-rizzazione e allâuso sociale dei beni culturali e ambientali. Questoha reso possibile lâattivazione di due iniziative di rilievo: la prima(di documentazione) ha visto le tre UniversitĂ dellâIsola promuo-vere e coordinare un ampio lavoro di catalogazione esteso a tutti icomuni; la seconda (di riproposta) ha riguardato le mostre del la-voro contadino e le attivitĂ che ne hanno accompagnato lâallesti-mento, promotori operatori culturali e enti locali.
Si Ăš trattato di un intenso lavoro al quale si sono dedicati, in-terpreti dei nuovi orientamenti, attori sociali di varia formazione.Tecniche e strumenti del lavoro tradizionale sono stati assunti con-sapevolmente come testimonianze di un mondo sociale ed econo-mico per lungo tempo ignorato. In questa prospettiva, insegnantie studenti, politici e operatori culturali, hanno cominciato ad ela-borare nuovi sensi e a praticare nuove modalitĂ di fruizione dellacultura materiale: le mostre del lavoro tradizionale (ma anche imusei della civiltĂ contadina) ne hanno costituito gli esempi piĂč si-gnificativi. A partire dalle riflessioni condotte e dai dibattiti susci-tati, per finire ai progetti e alle realizzazioni compiute, le azioni in-traprese possono considerarsi tasselli di una specifica attenzione,qual Ăš quella coltivata da figure sociali emergenti in quelle che di-ciamo realtĂ in transizione.
2. Nuovi progetti per nuovi attori sociali:dalla documentazione alla riproposta
Tra i progetti varati dalla Regione siciliana nellâambito dellalegge regionale n. 37/1978, recante provvedimenti in favore del-lâoccupazione giovanile, al âCensimento dei beni etnoantropolo-giciâ [prima scheda: strumenti di lavoro] devâessere riconosciuto
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il maggior rilievo tra le iniziative intraprese nel quadro della leggeregionale 80/1977. Oggetto di rilevamento sono stati gli strumen-ti di lavoro e i cicli lavorativi tradizionali, anche se sono stati i ci-cli a essere studiati per primi, e solo in seguito si Ăš passati a docu-mentare gli attrezzi. Ne deriva che la singola scheda Ăš stata incen-trata su un reperto specifico, ma la lettura di una serie in succes-sione permette di ricostruire il quadro complessivo delle tecnicheproduttive adottate nellâIsola a metĂ Novecento. Progettato per fi-ni in prevalenza etnografici (catalogazione delle tecniche tradizio-nali di produzione), il Censimento non poteva trascurare gli aspet-ti storico-sociali, nĂ© quelli linguistici (una parte di rilievo dellascheda riguarda la documentazione delle forme dialettali con latrascrizione dei nomi locali di attrezzi e tecniche). Ă superfluo in-fatti rilevare come âla materia, la forma, il colore, il luogo e lâepo-ca di provenienza, sono indispensabili per sapere da quale grupposocioculturale proviene un reperto, a quando risale, perchĂ© e co-me Ăš stato concepito, utilizzato e percepitoâ (Bucaille Pesez 1978,285).
A svolgere il lavoro, tra il giugno 1979 e il dicembre 1980, so-no stati due giovani per comune, assunti in base a speciali liste dicollocamento; a seguirne lo svolgimento (con seminari in cittĂ e in-contri periodici nei singoli comuni) sono stati gli istituti di antro-pologia culturale dei tre Atenei isolani. Al Censimento Ăš seguitotra il 1981 e lâ83 un lavoro di ânormalizzazioneâ del materiale rac-colto attraverso tre successivi interventi: a) registrazione su sche-da dei cicli lavorativi presi in esame; b) revisione e numerazioneprogressiva delle schede; c) inventario delle schede, incrociando-ne i dati con i comuni in cui un ciclo era stato studiato e con gliattrezzi di lavoro censiti per comune. Negli anni successivi sonostate trasferite presso il Centro del Catalogo dellâAssessorato Re-gionale dei Beni Culturali 18.461 schede, un numero considere-vole che Ăš giunto a coprire il 95% dei comuni.
Lâopera di catalogazione ha permesso di conseguire un grannumero di risultati:
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a) ha condotto a unâampia documentazione dei reperti di cul-tura materiale secondo modalitĂ che lâevolversi delle tecno-logie ha reso possibili;
b) sul piano del metodo, i giovani addetti hanno fatto ampioricorso a interviste e questionari, ma soprattutto allâosserva-zione etnografica, non omettendo di raccogliere le storie divita di coloro che hanno vissuto nelle realtĂ socioeconomi-che di riferimento;
c) accanto allâesigenza scientifica della documentazione si Ăšdelineata quella della riproposta: si sono attivate infatti nu-merose iniziative che andavano dai dibattiti alle mostre e aimusei.
Con le sua quasi diciannovemila schede il Censimento, in real-tĂ , ha colmato unâenorme lacuna conoscitiva intorno al mondocontadino e artigiano in via di sparizione. Non che nessuno se nefosse mai occupato prima, ma coloro che se ne erano interessatiavevano finito spesso col fare solo storia del latifondo o del movi-mento contadino, sorvolando su aspetti ritenuti arcaici e primitiviquali apparivano le tecniche lavorative. Accanto al valore scienti-fico dellâiniziativa regionale se ne Ăš posto uno dâordine politico-culturale. Il fatto di impostare una nuova prospettiva di studio hacomportato infatti un aggiustamento di parametri fra soggetti eoggetti di studio: i giovani addetti al censimento andavano daicontadini, dai pastori o dagli artigiani con lâaria umile di chi ave-va da imparare e quelli diventavano a loro volta fonte di sapere perchi ne risultava sprovvisto. Questo stato di cose contribuiva a col-locare idealmente su gradini piĂč alti della scala sociale i âlavorato-ri della manoâ, facendo prendere coscienza dellâimportanza delloro lavoro e del contributo dato alla vita in societĂ .
Le nuove figure sociali, che si sono fatte promotrici di dibatti-ti, convegni e seminari, non erano âespertiâ (nel senso comune deltermine) ma attori sociali alle cui capacitĂ progettuali si associavauna particolare sensibilitĂ dâordine politico-culturale; personeche, in un confronto continuo con le comunitĂ di appartenenza
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elaboravano itinerari in cui allâoperare quotidiano si accostavanoazioni programmatiche tese alla sensibilizzazione e al dibattito,per finire spesso nellâallestimento di mostre che nei casi piĂč felicisono diventate musei.
A riandare col ricordo alle prime mostre del lavoro contadinoallestite in Sicilia non si possono non registrare gli enormi pro-gressi compiuti da unâidea che non sembrava aver futuro al di fuo-ri di una ristretta cerchia di intellettuali. Il progetto che si inten-deva realizzare poteva giĂ contare su precedenti di non poco rilie-vo: era il caso della mostra, poi âMuseo della staduraâ, allestita neiprimi anni Settanta in localitĂ san Marino di Bentivoglio, in Emi-lia Romagna. Ma sembrava difficile che unâiniziativa nata in quel-la regione potesse attecchire solo due anni dopo in una regione delsud, e in Sicilia in particolare. Invece le cose sono andate diversa-mente.
La prima mostra, allestita a Caronia (Messina) nel 1976, Ăš natadalla collaborazione di studenti, contadini e emigrati che, rientra-ti in paese nel periodo estivo, hanno recuperato attrezzi di lavoroda vecchie stalle abbandonate. Inizialmente, in risposta ai giovaniche andavano a sollecitarne lâimpegno per unâiniziativa del tuttonuova, contadini e pensionati manifestavano diffidenza e incredu-litĂ , riandando con la memoria alla dura fatica che gli attrezzi dilavoro evocavano, ai rapporti di sfruttamento nel lavoro dei cam-pi. Il successivo trasferimento dei materiali lĂŹ esposti nei locali delâMuseo internazionale delle marionetteâ di Palermo, ha costitui-to un fatto nuovo anche per la cittĂ , mostrandola in grado di ri-spondere ad esigenze giĂ silenziosamente avvertite e coltivate inampi strati degli operatori culturali del capoluogo. Le iniziativeche accompagnavano la mostra (visite guidate delle scuole, dibat-titi e seminari) hanno funto a loro volta da cassa di risonanza.
Nello stato di cose delineato si Ăš colta subito lâimportanza delcollegamento con la scuola, la quale Ăš stata fra le prime a essere co-involta nel nuovo discorso che si intendeva condurre. Insegnanti
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e operatori scolastici lamentavano infatti che la scuola entrassenelle realtĂ locali come un corpo estraneo, portatrice spesso di no-zioni, ideologie e lingua anchâesse estranee: le mostre sulla âcivil-tĂ contadinaâ diventavano allora occasioni di ripensamento e ri-fiuto dei luoghi comuni, operando laddove essi si formavano e ve-nivano alimentati.
Fra le esperienze condotte a scuola e da segnalare a modello,risale al 1977 lâinizio di un paziente lavoro di ricerca condotto nel-la scuola media di Campobello di Mazara (Trapani), teso alla ri-cognizione di oggetti del mondo contadino dellâarea del Basso Be-lice ed esitato nellâallestimento di una mostra temporanea. Pro-motori ne sono stati gli insegnanti e realizzatori gli stessi scolariche, con lâaiuto dei nonni, ricostruivano la storia che stava dietroad ogni oggetto e venivano cosĂŹ aiutati a riflettere sulla loro realtĂ sociale. Lâamministrazione comunale, sensibile alle problematichesottese allâiniziativa, Ăš andata incontro agli operatori scolastici isti-tuendo nel 1978 il âMuseo della vita e del lavoro contadinoâ. Ă si-gnificativo del nuovo orientamento che sin dallâinizio, negli inten-ti dei promotori, esso volesse essere ânon solo sede di conserva-zione ed esposizione dei materiali, ma luogo di ricerca e di lavorodidattico, centro di documentazione della storia locale e della cul-tura popolareâ (Cusumano 1978, 4).
Il numero delle mostre locali allestite tra lâestate 1979 e la finedel 1980 Ăš salito a livelli non immaginabili un anno prima, accom-pagnato da crescente consenso e coinvolgimento di pubblico(Giacomarra 2004). Ă come se una parola dâordine avesse investi-to giovani e anziani dei comuni dellâIsola, tesi a recuperare le trac-ce di un passato che si voleva scomparso. E invece, si sono visticontadini e artigiani andare a rovistare nelle stalle e nei laboratoriabbandonati per trarne fuori attrezzi ormai da anni in disuso. Nonsemplici tracce ma ampie dimensioni del mondo contadino sonocosĂŹ tornati a ricomporsi, e i promotori delle iniziative si sono fat-ti ogni volta da parte per lasciar posto a coloro che ne erano statiinconsapevoli protagonisti.
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Tutto questo non ha visto sparire lâopera del gruppo di studio-si palermitani che, per primi, si erano mossi nella direzione deli-neata. Dai primi anni Novanta ha cominciato a diversificare gli in-teressi originari ma ha continuato a operare vivacemente per lafruizione dei beni etnoantropologici sia nelle mostre che nei mu-sei: in tal senso hanno cominciato a operare il Servizio museogra-fico e il Laboratorio antropologico, strutture interne alla facoltĂ diLettere di Palermo ma operanti in tutto il territorio regionale (ibi-dem).
La veloce accelerazione e la moltiplicazione delle iniziative diriproposta hanno trovato nel Censimento dei beni etnoantropolo-gici una sorta di causa efficiente: esso ha costituito ovunque lâini-zio di un processo di sensibilizzazione verso una realtĂ di solitotrascurata e il fatto che siano state le amministrazioni comunali,spesso con proprio personale, a seguirne lo svolgimento poteva es-sere interpretato come il segnale per un nuovo discorso da svilup-pare e portare avanti. Per questo motivo Ăš risultato facile a moltioperatori culturali, e agli stessi giovani incaricati del censimento,promuovere attivitĂ parallele che coinvolgessero la popolazionelocale: riflessioni e seminari, appunto, ma anche mostre in cui es-si stessi si facevano accompagnatori, raccogliendo informazioni ericordi. Lâemigrato rivedeva con rabbia nei reperti esposti le trac-ce remote di cui pensava di essersi liberato andando allâestero;lâanziano pensionato ricostruiva con gli attrezzi la memoria delproprio passato; il giovane aveva modo di scoprire una realtĂ chea scuola non aveva avuto tempo e modo di conoscere. Non câeraspazio per richiami nostalgici: al contrario, le mostre e le iniziati-ve parallele costituivano occasioni di denuncia delle condizionidel passato e di riflessione sulle prospettive per il futuro.
Quelle cui ci siamo riferiti sono figure nuove, assimilabili agliâintellettualiâ dâimpronta gramsciana, ma sottintendevano pro-cessi culturali nuovi, esiti di altri percorsi in vista di obiettivi pri-ma non avvertiti. Per questo motivo, riandando alle note intro-duttive, riteniamo di poter fare appello ad una nuova sociologia
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della cultura, perchĂ© diversi sono stati gli operatori e diversi gliobiettivi: non direttori di istituzioni culturali o curatori di musei,piĂč interessati alla custodia che alla fruizione, chiusi spesso in unorizzonte sospeso tra lâaccademico delle UniversitĂ e lâistituziona-le delle Sovrintendenze, e neppure scienza e pratiche asettiche,con una lunga tradizione alle spalle e una legislazione su cui fareaffidamento, ma gli uni e le altre impegnati in direzione del nuo-vo, engagĂ©s appunto. Questo Ăš perciĂČ da ritenere il fenomeno piĂčrilevante registrato nelle comunitĂ in transizione, dove il saperenon era qualcosa di giĂ definito e semplicemente da trasmetterema, prima ancora, da costruire in un confronto continuo con inuovi contesti in cui si configurava.
3. Dalle mostre della civiltĂ contadina ai musei della cultura materiale
Gran parte delle mostre del lavoro contadino allestite tra glianni Settanta e gli Ottanta sono diventate permanenti nel passa-re del tempo, riproponendosi come veri e propri musei della cul-tura materiale. CiĂČ Ăš avvenuto quando, facendosi interpreti dellanuova sensibilitĂ e degli orientamenti politico-culturali coltivatida strati sempre piĂč larghi di popolazione, le amministrazioni co-munali hanno messo a disposizione quanto era necessario (dai lo-cali alle strutture espositive, ai sistemi di custodia, ecc.). Nonsempre il passaggio si Ăš rivelato indolore, naturalmente, perchĂ©coloro che avevano prima lavorato con le scolaresche e poi alle-stito le mostre hanno avuto spesso difficoltĂ a far accettare ad am-ministratori e dipendenti comunali le logiche con cui avevanooperato e che ora vedevano trascurate o negate. Quando gli entilocali si sono tirati indietro, a meno che non si rendessero dispo-nibili soggetti privati (il che pure Ăš avvenuto, ma in rari casi) e chemecenati non mettessero a disposizione spazi e fondi per i pro-getti di esposizione permanente, il materiale raccolto per le mo-
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stre ha finito con lâandare disperso, tornando nelle stalle o neimagazzini da cui era uscito.
I musei sono stati ospitati di solito negli edifici disponibili, na-turalmente, ma di preferenza allâinterno di locali che in passatofungevano da supporto alle attivitĂ agricole prima che venisserodismessi: Ăš il caso dei bagli o delle masserie, ancora diffusi nellecampagne dellâIsola. Dentro i paesi sono stati di solito allestiti inpalazzi dellâantica nobiltĂ rurale, quando non in ex conventi ac-quisiti al demanio o in chiese sconsacrate. In altri casi ancora si Ăšfatto ricorso a reti museali, allestite nei paesi e in edifici rurali cir-costanti e comprendenti un nucleo centrale e aree espositive col-legate in serie. Raramente si sono realizzati musei totalmente oparzialmente en plein air. Al di lĂ delle soluzioni adottate, perĂČ,per ogni esposizione sono stati mantenuti i collegamenti con ilcontesto territoriale di pertinenza: si sono promossi itinerari convisite alle realtĂ locali, fruizioni museali, ecc.
Lâesigenza espressa dai nuovi operatori culturali nei contestidianzi indicati si Ăš concretizzata in un gran numero di iniziative:dopo il museo di Campobello di Mazara (1978) Ăš stata la volta diquello di Gibellina (1981), di Bisacquino (1984), di SantâAgataMilitello (1984), di Modica (1988), di Roccapalumba (1990), diPetralia Sottana (1996) e di molti altri. Riteniamo perĂČ che lâespe-rienza piĂč significativa di museo della cultura materiale sia costi-tuita da quello allestito tra il 1986 e lâ87 nella salina di Nubia, incomune di Paceco, grazie alla collaborazione delle facoltĂ di Let-tere e di Architettura dellâUniversitĂ di Palermo. Il Museo delle Sa-line, in parte en plein air, Ăš ospitato nel magazzino della casa ri sa-lina e tiene in esposizione attrezzi e macchinari utilizzati nellâe-strazione del sale, ognuno accompagnato da schede e pannelli te-si a ricostruire le fasi del ciclo lavorativo.
Lâesperienza Ăš da ritenersi importante, anche dal punto di vistapolitico-culturale, in quanto si Ăš posta di seguito a una serie di at-tivitĂ che in qualche modo la hanno preparata: il Censimento fat-to dai giovani catalogatori; la ricerca per la catalogazione, esitata
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nella stesura di una monografia sulla estrazione del sale marino;lâallestimento di una mostra temporanea in locali del comune diPaceco; il trasferimento dei materiali della mostra alla Triennale diMilano; la messa a disposizione di spazi adeguati allâallestimentodel museo, da parte di una famiglia di salinai.
Ma essa Ăš importante anche perchĂ©, a differenza di allestimen-ti che hanno finito con lâadattarsi a contenitori di vario genere(spesso angusti e poco adatti a contenere una esposizione stabile),il museo ha potuto disporre di un edificio annesso alla salina e diuno spazio espositivo en plein air, per intero ricavato dallâimpian-to produttivo ancora in funzione e di proprietĂ privata, adottandocosĂŹ modelli diffusi nel nord Europa. Non si Ăš âmuseificataâ in-somma una realtĂ ormai scomparsa e la salina ha continuato a ope-rare e a produrre sale marino, senza che ciĂČ creasse impaccio al-lâesposizione dei reperti. Ă diventata un vero e proprio âmuseo vi-venteâ nei mesi di coltivazione del sale, quando i proprietari o i ge-stori della salina interrompevano i lavori per guidare i visitatori.
Ă importante, infine, perchĂ© non Ăš venuto meno nel tempolâimpegno profuso nellâiniziativa dal comune e dai privati con iquali vige una convenzione rinnovata annualmente: il primo hadestinato al museo custodi e guide stabili e ne ha fatto nel tempoun vero e proprio centro di cultura; i secondi si sono assunti ilcompito di curare, restaurare e mantenere alto il profilo degli spa-zi espositivi, oltre a integrare lâattivitĂ museografica con azioni cheoggi diremmo di marketing: attivitĂ di ristorazione con prodotti ti-pici della salina riservate a singoli visitatori o a comitive, in occa-sione di incontri o cerimonie.
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VIII. Poesia dialettale e industria culturale:il caso di Ignazio Buttitta
1. La collocazione politico-sociale
Ignazio Buttitta (Bagheria, 1899-1997), testimone e interpreteper almeno settantâanni della realtĂ siciliana, ha intrattenuto conlâindustria culturale nazionale rapporti intensi e duraturi. Attraver-so quali itinerari politici e culturali, un poeta legato alla cultura del-la gente del suo paese, protagonista delle lotte per la terra e controla mafia, Ăš riuscito a ritagliarsi uno spazio sovraregionale? Le noteche seguono intendono ricostruire le condizioni che resero possibi-le lo svolgersi del suo itinerario, nel lento trascorrere da stampatorisiciliani a editori romani e milanesi, e piĂč in generale dei rapporti in-staurati dal poeta con operatori culturali nazionali.
Per delineare quei rapporti Ăš necessario partire dalla storia del-lâuomo che si Ăš ritrovato a vivere prima in una vivace Bagheria di pri-mo Novecento, poi in provincia di Milano (negli anni della secondaguerra mondiale e nel decennio successivo), quindi in una Bagheriaben diversa da quella prima conosciuta, dagli anni Sessanta in poi.
La prima Bagheria, pur subalterna alla Palermo âfelicissimaâ delperiodo del Liberty e dei Florio, era un centro agricolo in pienaespansione economica e culturale: le aziende di conserve alimenta-ri, la âCasa di culturaâ, i giornali locali, le nascenti sale cinematogra-fiche âtestimoniavano dei fermenti sociali che avevano giĂ permes-so lâiniziale formazione di un ricco e volenteroso ceto imprendito-
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riale e di un gruppo intellettualeâ (Tedesco 1997, 19). Ă stato rile-vato che âintorno a Gioacchino Guttuso, padre di Renato, di pro-fessione agronomo ma anche valente pittore e collaboratore di varigiornali (non solo siciliani), si era formato un ambiente ricco di in-teressi per i problemi sociali, urbanistici e culturali di Bagheria.Inoltre, la posizione stessa del paese, a metĂ strada tra Palermo eTermini Imerese (importante porto dei Florio), risentiva natural-mente dellâinfluenza non solo economica ma anche culturale delledue cittĂ vicineâ (Puglisi 1983, 6). Rimane sullo sfondo la contrad-dizione che accompagnerĂ nei decenni a seguire la vita del paese,nato come âborgo di lavoratori attorno ad opulenti palazzi nobilia-riâ. Ignazio Buttitta vive qui la prima parte della sua vita, lavorandopresso la bottega del padre.
Al costituirsi di una originale visione del mondo del poeta deveaver contribuito in maniera determinante âla dura esperienza dellaprima guerra mondiale, cui partecipĂČ giovanissimo in prima linea,chiamato alle armi dopo Caporetto allâetĂ di 18 anniâ (Buttitta1999, 328). Dopo la prima guerra mondiale egli torna a lavorare nel-la bottega paterna ancora per un decennio, ma il âragazzo del â99ânon torna piĂč lo stesso dal fronte. Gli anni di guerra non sono tra-scorsi invano e, dopo i primi contatti in paese con i confinati politi-ci (allora neutralisti), torna infatti convertito alle idee del socialismo.Viene fuori lâintellettuale impegnato: Ăš tra i fondatori del circolo dicultura âFilippo Turatiâ con il quale, il primo maggio del 1922, ma-nifesta per la giornata lavorativa di otto ore; a ottobre guida unasommossa popolare contro lâimposizione di nuovi dazi comunali;collabora alla stampa del giornale locale La povera gente, legato alcircolo pur senza esserne un portavoce ufficiale.
Lâimpegno politico socialista non ha modo di durare. Nel 1924,infatti, Buttitta conclude la sua attivitĂ con la presentazione della li-sta del partito socialista, aderendo subito dopo al neonato partitocomunista. In paese continua perĂČ lâimpegno di sempre, nella de-nuncia delle ingiustizie sociali e negli incontri in botteghe artigiane:qui si tengono animate e vivaci riunioni tra raccoglitori di poesia po-
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polare e poeti che ricorrono allâaiuto del nostro per la revisione deitesti. Nel 1930 Ignazio apre un magazzino allâingrosso di generi ali-mentari e poi una succursale a Codogno, grosso centro in provinciadi Milano, e comincia perciĂČ a partire spesso per la Lombardia. Quiconosce e frequenta Vincenzo De Simone e altri poeti e, in unâan-tologia curata da questâultimo, pubblica tre poesie nel 1937.
Negli anni del fascismo continua a svolgere attivitĂ di piccolocommercio, non disgiunte da un intenso lavoro di âanimazione po-liticaâ, stavolta clandestina. Nel 1943 il poeta trasferisce lâintera fa-miglia a Codogno. Lo sbarco degli Alleati gli impedisce di ritorna-re nellâIsola e si rituffa perciĂČ nella politica, partecipando attiva-mente alla Resistenza. Viene arrestato due volte, tra il 1944 e il 1945,e resta in carcere fino a pochi giorni prima del 25 aprile. âDopo laLiberazione puĂČ finalmente ritornare in Sicilia. Qui trova i suoi ma-gazzini e la sua casa distrutti e saccheggiati. Decide quindi di torna-re in Lombardia dove lo attendono la moglie e i figli. Sopravviveesercitando lâattivitĂ di rappresentanteâ (ibidem).
I contatti con la realtĂ sociale di Bagheria non vengono meno,comâĂš facile comprendere ripercorrendo la produzione poetica deltempo, ma Ăš solo a metĂ degli anni Cinquanta che il poeta sessan-tenne puĂČ rientrare in Sicilia, stabilendosi definitivamente nel suopaese natale. âAffidata lâattivitĂ commerciale a terzi, puĂČ finalmen-te dedicarsi intensamente alla produzione poetica e portare la suapoesia nelle piazzeâ. Insieme riafferma lâesigenza di non lasciarsi ir-retire dalle logiche di partito, compreso quello âin cui milita fino al-la fineâ. LâUnitĂ del 6 aprile 1997, in occasione della sua scompar-sa, non gli dedica piĂč di un breve ricordo.
2. La prima produzione poetica
Aver ricostruito gli eventi della vita dellâuomo si rivela natural-mente una condizione necessaria, ma non sufficiente allo scopo checi siamo prefissi. Rimane infatti da comprendere ancora lâesigenza
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del poeta di uscire dal ristretto ambito isolano, abbandonando glispazi che si era ritagliato nei primi anni di esperienza poetica.
Dopo una brevissima fase di maturazione, se si considerano i po-chi anni trascorsi dalla fine della prima guerra mondiale, il poeta dĂ inizio a un personale percorso poetico a partire dal 1921. A Paler-mo esce nel 1923, per i tipi dellâeditore Emanuele Sabbio, la rac-colta Sintimintali, dove si ritrova âla prima testimonianza poeticaâdelle esperienze politico-sociali vissute nella sua giovinezza. Seguenel 1928 Marabedda!, per le edizioni del periodico La Trazzera di cuiĂš condirettore, con sede ancora a Palermo.
Passano trentâanni, in cui la storia personale continua a non es-sere disgiunta da quella poetica e politica insieme. Ma non sono an-ni di silenzio, quelli del trionfo fascista: egli si tiene lontano infattidalla vita letteraria ufficiale, ma continua a scrivere anche se nonpubblica, come testimonia la ricostruzione di quel periodo operatada Marta Puglisi (1983, 5-12). Nel 1954 esce a Roma Lu pani si chia-ma pani, pubblicato dalle Edizioni di Cultura Sociale per gli Edito-ri Riuniti. Lâaffidarsi a un editore romano, e non piĂč a stampatoriisolani, dĂ giĂ unâidea di come nel corso di quegli anni, e soprattut-to nellâimmediato dopoguerra, si fossero ampliati i confini di riferi-mento del poeta. Lâesigenza di entrare in un circuito, che non fossequello di comune riferimento della poesia dialettale, si avverte an-che nella scelta degli autori delle prefazioni: quella del primo libroera stata affidata a Giuseppe Pipitone Federico, quella del secondoa Vincenzo A. Guarnaccia (tutti intellettuali di dimensione regiona-le). Lo stesso dicasi delle traduzioni (tra i pochi casi di non auto-tra-duzione): di quella del secondo si fa carico Giuseppe Ganci Batta-glia, ma quella del terzo viene affidata a Salvatore Quasimodo, im-preziosita dai disegni di Renato Guttuso
La pubblicazione di Lu pani si chiama pani (1954) lo rende fa-moso in Italia e allâestero, tradotto e ripubblicato in diversi paesi(Francia, Spagna, Romania, Grecia, Cina e Russia). Nello stesso an-no visita la Russia e il Caucaso, in compagnia di Quasimodo. Ritor-nato in Sicilia, al III Congresso nazionale di cultura popolare pre-
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senta il Lamentu pi la morti di Turiddu Carnivali (1956), noto ancheper lâinterpretazione che ne dĂ il cantastorie Cicciu Busacca. Nel1963 pubblica la raccolta Lu trenu di lu suli. Storie, canti di protesta,canzoni in dialetto, comprendente il poemetto La vera storia di Sal-vatore Giuliano. Il primo dei due testi viene stampato in Sicilia dal-le Arti Grafiche di Palermo con introduzione e traduzione di F.Grasso, dove torna a esser stampato Il Patriarca, piĂšce teatrale pub-blicata nel 1961 a Palermo nella raccolta Teatro Siciliano, a cura diA. Mango e con introduzione di V. Pandolfi. Il ritorno a PalermopuĂČ ricondursi a ragioni politico-sociali, il primo, e editoriali, il se-condo, e dunque non smentisce lâesigenza di apertura dianzi segna-lata. Il poeta torna ad affidarsi a un editore siciliano (Giannotta diCatania) solo nel 1975, e significativamente, non per unâopera ori-ginale ma per la rielaborazione di unâopera teatrale di anonimo: Lucurtigghiu di li Raunisi, della quale esiste anche unâedizione torine-se del 1980, curata da Salvo Porto per i tipi di Edidroma.
In Prime e nuovissime (1982), Gruppo editoriale Forma di Tori-no, Marta Puglisi cura la pubblicazione, oltre che delle piĂč recentipoesie del novembre 1982, delle prime composizioni date alle stam-pe tra gli anni Venti e i Quaranta in riviste desuete. I testi sono rivi-sitati dal poeta (unâabitudine che ritroveremo spesso), apportando-vi lievi varianti nellâortografia e nella punteggiatura, quando noncorreggendone veri e propri errori tipografici delle edizioni prece-denti. La produzione anteriore al 1954, in effetti, risulta dispersa insvariate riviste locali ma non Ăš un caso: nel risvolto di copertina Tul-lio De Mauro, condirettore della collana âBiblioteca degli scrittoriin dialetto e lingue altreâ, sostiene che proprio la produzione spar-sa âtestimonia la presenza costante e partecipe dellâautore alle vicis-situdini del suo tempo e della sua gente... La passione per i temi po-litico-sociali Ăš il sangue di tutta la sua produzioneâ.
Quali sono le âriviste dimenticateâ che accolsero i primi versi diButtitta negli anni fra le due guerre? Nel corso degli anni Venti, pri-ma e dopo la pubblicazione della raccolta del 1923, alcune sue poe-sie compaiono nel quindicinale isolano Il Vespro anarchico, diretto
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da Paolo Schicchi e noto per la sua vivace campagna antifascista.Nel 1924 una sua poesia compare su Fede!, giornale anchâesso anar-chico ma stampato a Roma. Vi si rivendica la liberazione di Schic-chi per le opinioni espresse sul suo periodico. A partire dal 1927, in-sieme a Giuseppe Ganci Battaglia e Vincenzo A. Guarnaccia, il poe-ta dirige il mensile palermitano di letteratura dialettale La Trazzera,âmensile di poesia e di fede dei poeti dialettaliâ (come si legge nelrisvolto di copertina di Lu trenu di lu suli), soppresso nel 1929 dalregime fascista: qui pubblica altre sue poesie. Dal 1927 al 1934 con-tinua a pubblicare, con sempre maggiori difficoltĂ , nelle riviste lo-cali che sopravvivono in modo sempre piĂč gramo.
Negli anni successivi, e in quelli della guerra, compone ma nonpubblica. Ă perciĂČ significativo che nel 1944, mentre Buttitta stasotto la Repubblica Sociale del nord, Renato Guttuso nella Roma li-berata consegni ai redattori del mensile La Rinascita un poemettodallâintento dichiaratamente antifascista, composto cinque anni pri-ma e pubblicato anonimo (a firma âTrinacriaâ) nel numero di set-tembre. Si amplia lâuniverso di riferimento: su La Voce della Sicilia,quotidiano della Federazione comunista siciliana e poi del Frontedemocratico popolare degli anni 1945-48, escono solo due poesie,rispettivamente nel 1946 e nel â48. CiĂČ dipende presumibilmentedalla sua lontananza dallâIsola, e non a caso, nel dopoguerra, il poe-ta pubblica sempre meno poesie sparse su piccole riviste, e cura rac-colte sempre piĂč ampie, la prima delle quali compare nel 1954.
Lâattenzione per la stampa non si limita alle riviste cui Buttitta af-fida la pubblicazione delle sue poesie. Intorno al 1922 egli Ăš tra ipromotori del giĂ richiamato foglio settimanale La povera gente che,sia pure con toni paternalistici, denuncia le tristi condizioni socialie i problemi dei lavoratori della terra; su La Trazzera, âoltre a pub-blicare poesie, scriveva anche articoli e rispondeva alla âPiccola po-staâ, rubrica nella quale esortava i poeti dilettanti siciliani ad esserefedeli alla propria terra e alla propria linguaâ (Puglisi 1983, 8). Ne-gli anni successivi altri due giornali ospitano suoi contributi: Poâ tâucuntu di Palermo e Lu marranzanu di Catania. Il primo ânon inten-
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deva nĂ© difendere la âpuraâ poesia siciliana, nĂ© avere un carattere im-pegnato;... lâaltro invece era nato con lâintento di migliorare la qua-litĂ della produzione poetica sicilianaâ. Lâimpegno sociale del poetanon viene per questo meno: âAlcune poesie â annota infatti la cu-ratrice (ibidem) â esprimono tra le righe critiche e perplessitĂ sullostato delle cose... Ma la collaborazione di Buttitta non era affattocontinuativaâ.
Molte riviste dialettali cessano le pubblicazioni tra il 1931 e ilâ34, cedendo a precise direttive del regime fascista che acconsentivasolo a riviste in cui le poesie costituissero puro âdivertimento po-polare e folkloristicoâ. La guerra interrompe del tutto la possibilitĂ per il poeta di pubblicare versi e collaborare a riviste. Solo nel do-poguerra si assiste ad una lenta ripresa delle pubblicazioni periodi-che che lo trovano di nuovo tra i primi collaboratori. Poâ tâu cunturiprende le pubblicazioni nel 1952 e qui tornano nuove poesie; nelcorso del 1954 ad esso viene allegato un foglio mensile, Aria di Sici-lia, promosso da Pietro Tamburello, in cui compaiono diversi inter-venti improntati allâesigenza di svecchiare la poesia popolare dâan-teguerra. Nello stesso foglio âveniva pubblicata anche una lettera diButtitta, che ne rappresenta quasi il manifesto teorico... Si ribadivala convinzione che il poeta devâessere partecipe delle lotte di tutti gliuomini, uomo del suo tempoâ (ivi, 11). Torna a essere ribadita laconvinzione etico-sociale del poeta.
3. Dal poeta in piazza al pubblico dellâindustria culturale
Arriviamo cosĂŹ agli anni Sessanta e oltre, quando Buttitta diventail poeta dialettale piĂč noto in Italia. Mentre continua a recitare nellepiazze dei paesi, non si sottrae agli impegni che gli vengono affidatisui mass media regionali. Collabora al Giornale di Sicilia dove, neglianni Settanta, cura una pagina settimanale dal titolo âQuando il cro-nista Ăš poetaâ. Interviene su LâOra, a cui affida negli anni Sessanta eSettanta ricche testimonianze umane e poetiche. Ma soprattutto, a
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partire dal 1963, ha inizio lâavventura editoriale con la casa editriceFeltrinelli, presso la quale dĂ alle stampe le successive raccolte poe-tiche (1963-1983), testimonianze dello stretto rapporto di Ignaziocon Giangiacomo e con la moglie Inge. La peddi nova (1963), La pa-glia bruciata (1968), Io faccio il poeta (1972), Il poeta in piazza (1974),Pietre nere. Poesie 1980-82 (1983) costituiscono pietre miliari di unsodalizio ventennale: il poeta se ne distacca solo per il giĂ citato Lutrenu di lu suli (1963), pubblicato a Milano per le edizioni Avanti!,con prefazione di Roberto Leydi e introduzione (polemica!) di Leo-nardo Sciascia, e per Colapesce (1986), stampato per i tipi delle edi-zioni P&M di Messina, ispirate dal giornalista Melo Freni.
La disponibilitĂ verso lâuniverso dei media costituisce un fattodel quale tener conto nel delineare i rapporti del poeta con lâindu-stria culturale del tempo. Non solo verso i giornali, naturalmente ebasti per questo riandare ai numerosi spazi televisivi che gli vengo-no riservati negli anni della sua massima produzione poetica. Nel1958 Ăš a Parigi, ospite della tv francese col cantastorie Cicciu Bu-sacca. Nel 1963 la BBC gli dedica un programma (e i risvolti di co-pertina dei due libri del 1963 segnalano il fatto, a conferma del va-lore riconosciuto al poeta anche dai non addetti ai lavori). Nel 1974,quando compie 75 anni, Melo Freni scende a Bagheria con unatroupe del TG1 e gira Unâora con Ignazio Buttitta, uno speciale ce-duto poi a molte tv straniere. Nel 1979, in occasione del suo ottan-tesimo compleanno, Otello Profazio gli dedica una lunga intervistatrasmessa su radio Rai in Quando la gente canta del 13 ottobre. Laradio e la televisione âcontribuiscono a far giungere ovunque la vo-ce del poetaâ: Rosa Balistreri canta le sue canzoni e Sergio Endrigoaccompagna con la chitarra le poesie che il poeta stesso recita perdiverse edizioni discografiche.
Il richiamo a Cicciu Busacca e altri cantastorie del tempo portaa rilevare un aspetto importante del loro rapporto col poeta, entrola nicchia dellâindustria culturale che i cantastorie, allâepoca dellemassicce migrazioni dal Sud, riescono ad occupare con le loro nonesigue produzioni discografiche. Ma câĂš un altro aspetto su cui Ro-
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berto Leydi, nellâintroduzione a Lu trenu di lu suli (1963), esprimeun giudizio di rilievo: âSi dice, di solito, che lâincontro con IgnazioButtitta Ăš stata la grande svolta positiva della carriera del cantasto-rie Ciccio Busacca. Ă vero, da Buttitta Busacca ha ricevuto unagrande lezione... ma Ăš anche vero il contrario. Se pure per strade piĂčsegrete e itinerari piĂč nascosti, grande Ăš stato il valore di quellâin-contro per Ignazio Buttitta, poeta, verso una chiarificazione che simanifesta sĂŹ, palesemente, nei poemetti destinati alla voce e al gesto(per non dire al volto, agli occhi, allo sguardo)... Busacca in fondoraccoglie in sĂ© tutto il âpubblicoâ a cui Buttitta aspira, il pubblicodelle piazze, cioĂš lâumile Sicilia dei contadini e degli zolfatariâ. Nelrisvolto di copertina di La Peddi nova (1963), il curatore della colla-na, Giorgio Bassani, fa riferimento alla âvasta platea delle piazzedella Sicilia cui i dolenti e tuttavia vigorosi poemetti di questo sin-golare poeta sono stati resi familiari dai cantastorie, primo fra tuttiquel Cicciu Busacca che doveva poi riproporli e imporli a spettato-ri smaliziati e raffinati come quelli del Piccolo Teatro di Milanoâ:qui Ignazio realizza nel 1956, insieme a Giorgio Strehler, lo spetta-colo Pupi e cantastorie di Sicilia, facendo esibire un gruppo da luiguidato.
Il rapporto con i cantastorie richiama una questione su cui Ăš sta-ta piĂč volte richiamata lâattenzione: esiste un nesso fra il dialetto incui scrive Buttitta e il fatto di definirlo âpoeta popolareâ? e se sĂŹ, inche senso puĂČ realmente considerarsi âpoeta popolareâ?
Una prima risposta Ăš giĂ rinvenibile nel risvolto di copertina diLa peddi nova stilato plausibilmente dallo stesso Bassani: âPopola-resca di intenti e di risultati, nobilitata dalla naturale e spontaneaclassicitĂ dei suoi temi e dei suoi accenti, [quella poesia] non si esau-risce mai nella dimensione troppo esigua di una freschezza o di unaingenuitĂ da âimage dâĂpinalâ o da carretto sicilianoâ.
Una piĂč solida e articolata risposta, intesa a non assimilare poe-sia popolare e dialetto, viene formulata da Natale Tedesco nel 1965,e di recente ribadita: âSebbene lâopera di Buttitta â scrive â non par-tecipi della condizione fondamentale di ogni vera e propria poesia
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popolare, e cioĂš la continua e incessante elaborazione pluripersona-le del testo, si puĂČ considerare popolare la sua poesia nel senso cheessa Ăš giunta a comunicare senza alcun distacco le idee e i sentimentirappresentativi di un determinato ambiente socialeâ (1997, 22).
Nella stessa direzione si muove Leonardo Sciascia, nellâintrodu-zione al volume Io faccio il poeta del 1972: âLe radici popolari e con-tadine della poesia di Buttitta... non fanno di lui un poeta popolarese non nel senso di poeta che sta dalla parte del popolo. Anche nellecose che sembrano piĂč corsive e conviviali, e forse maggiormente inqueste, Ăš convenientemente âdifficileââ.
Luigi Lombardi Satriani per ultimo, confermando la prospettivagiĂ tracciata, mette ancora meglio a fuoco i termini della questione:âButtitta, a mio avviso, non Ăš parte della cultura folklorica, perchĂ©le sue soluzioni linguistiche, il suo stile, le sue operazioni poetichesono peculiari e riflettono la sua personalitĂ di autore, di poeta, maquesto poeta Ăš stato tanto piĂč grande quanto piĂč ha interpretato, fil-trandoli attraverso la propria sensibilitĂ e il proprio linguaggio, va-lori e istanze autenticamente popolari, di quella cultura degli emar-ginati, dei muti della storia, dei contadini, degli appartenenti alleclassi subalterne, degli oppressi dei quali avvertiva profondamente ibisogni, dicendoli alla sua maniera, e con i quali partecipava al gran-dioso progetto del loro riscatto sociale e politico... La poesia di But-titta raggiunge, lo si Ăš giĂ detto, livelli di universalitĂ non pur essen-do siciliana, ma perchĂ© Ăš sicilianaâ (1997, 14).
Interprete dei portatori di quella cultura, ma non poeta popola-re egli stesso, nel senso stretto del termine, il nostro presenta duequalitĂ che lo distinguono dal âpoeta popolareâ, comâĂš solitamenteinteso: la difficoltĂ del testo, nella gran parte dei casi, e lâimpegnosociale costante e non limitato nel tempo. âIn questo senso â anno-ta ancora Sciascia nel 1972 â [Il poeta in piazza] Ăš forse il suo libropiĂč difficile, piĂč complesso. CâĂš il Buttitta impegnato di sempre; macâĂš anche, sempre piĂč carico di rifrazioni, di echi, di rispondenze, diavvertimenti e presentimenti, un Buttitta incontenibilmente assalitodalla simpatia di tutto e di tuttiâ.
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4. Il panorama intellettuale del tempo
Nella direzione che stiamo seguendo non sono secondari, anchese siamo ben lungi dallâattribuir loro piĂč valore di quello che meri-tano, i premi letterari. Essi contribuiscono a segnalare allâattenzionedei lettori (e, perchĂ© no?, degli editori) il nome di un autore. Ă risa-puto che, soprattutto dopo la Liberazione, Buttitta compone poesiee le recita in pubblico suscitando numerosi consensi. In questa di-rezione i premi costituiscono riscontri significativi di unâattivitĂ inprogress. Nel 1946 gli viene assegnato il premio âSanremoâ per lapoesia Lu silenziu; nel 1954 il premio âCattolicaâ per Lamentu di namatri, riferita al tragico episodio di Portella della Ginestra; nel 1972(Ăš giĂ un autore di casa Feltrinelli) il premio âViareggioâ per la rac-colta Io faccio il poeta.
Questo ci porta inevitabilmente a richiamare lâuniverso degli in-tellettuali, poeti e romanzieri con cui Buttitta si trova ad interagirenel corso della sua vita. Tra le due guerre in Sicilia rimane a lungoin contatto con poeti e critici di rilievo regionale, come GiuseppePipitone Federico, Luigi Natoli e Giuseppe Nicolosi Scandurra. MaĂš da quando si trasferisce in Lombardia che quellâuniverso si ampliain maniera prima impensabile e si arricchisce di contenuti: il poetaha la possibilitĂ di frequentare sin dallâinizio il ricordato VincenzoDe Simone, âeminenza grigia della poesia dialettaleâ, in casa delquale incontra Filippo Fichera, Antonio Negri, Giuseppe Pedalinoe Francesco Sapori. Negli anni successivi Renato Guttuso lo aiuta astringere legami di amicizia con Bruno Cagli, Carlo Levi, MassimoBontempelli, Elio Vittorini e Salvatore Quasimodo.
Ripercorrendo le pubblicazioni dellâeditore milanese, non sipossono passare sotto silenzio le dediche con cui si aprono moltepoesie, tra cui quelle raccolte ne La peddi nova (1963): Pier PaoloPasolini, LeĂČnida RĂšpaci, Mario Soldati, Cesare Zavattini, Carlo Le-vi; per non dire delle prefazioni che ne accompagnano le raccolte:Carlo Levi, Leonardo Sciascia, Pier Paolo Pasolini, GianfrancoContini... Sono tutti nomi che contano nella cultura italiana del tem-
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po ed Ăš significativo che con loro Buttitta fosse entrato in contatto.Melo Freni ne ha offerto testimonianza in diversi luoghi: âGian-franco Contini una volta mi raccontĂČ a casa sua, a Firenze, che ri-tornavano da Mosca lui, Debenedetti e Ignazio. In aereo gli furonoassegnati posti a distanza e Ignazio rimase solo, in una delle ultimefile... Degli amici dove lui mi portava a Roma, facendomi crescerein stima e affetto, molti non ci sono piĂč: Pasolini, Carlo Levi, Cesa-re Zavattini, Maria Carta, Renato Guttuso, LeĂČnida RĂšpaci, Peppi-no Mazzullo... Da allora non ho piĂč visto Sergio Endrigo, di tantoin tanto riparliamo di Ignazio con Bruno Caruso, con Ugo Attardi;sempre ne parliamo con Otello Profazioâ (1997, 73-4).
Riprendiamo infine un particolare segnalato di recente, sulle ri-cadute che la forte immagine della madre coltivata da Buttitta puĂČaver avuto su due (e forse piĂč) produzioni cinematografiche di gran-de rilievo artistico, ma anche politico: âModerno maestro di luttuo-sa lamentazione materna, Buttitta puĂČ molto aver suggerito a dueartisti come Francesco Rosi [il lamento della madre davanti al ca-davere di Giuliano] e a Pier Paolo Pasolini [la madonna davanti alcrocifisso nel Vangelo secondo Matteo]â (Gioviale 1997, 34).
Rimangono due perĂČ i nomi che piĂč tornano nei ricordi del poe-ta: Quasimodo e Vittorini. In unâintervista rilasciata nei primi anniOttanta, Buttitta ha modo di richiamarli ancora, mentre definisce lasua posizione nei loro confronti: âQuasimodo e Vittorini. Io sonostato con loro, a Milano, per dieci anni durante la dittatura e dopo.Culturalmente gli devo molto: loro affermati, io ignorante e scono-sciutoâ (Freni s.d.). Anche se non sempre ne viene ben ripagato, co-me si ricava, ad esempio, dal comportamento di Quasimodo: âLetraduzioni, di cui il poeta sostenne le spese, sembrano essere stateeseguite da Quasimodo senza troppa meditazione in un unico mo-mento... Pare che lâautore abbia faticato a persuadere Quasimodo,e che piĂč tardi abbia espresso sullâesito del lavoro qualche riserva,peraltro documentata da opportuni interventi correttori nelle ri-stampeâ (Rinaldi 1999, 141).
Quelli della lontananza fisica dalla Sicilia rimangono gli anni
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âdellâimmersione nel crogiolo di ambienti culturalmente assai vivacie delle amicizie con personalitĂ di grande rilievo letterario e artistico.Esse probabilmente giocano un ruolo non secondario, oltre che nel-la maturazione della personalitĂ poetica, anche nella possibilitĂ ditrovare accoglienza presso unâeditoria non provinciale (cosa che, daquesto momento, collocherĂ Buttitta in una posizione assai diversada quella degli altri poeti dialettali, soprattutto siciliani)â (ivi, 116).
La permanenza in Lombardia, le amicizie allora coltivate, lâinte-sa con lâeditore Feltrinelli, o che altro ha contribuito a far nascerelegami duraturi? Certo, fanno pensare due fatti giĂ segnalati (ivi,115): nel 1948, pubblicando una poesia, la redazione del foglio pa-lermitano La Voce della Sicilia dĂ per giĂ avvenuta la consegna allâe-ditore Einaudi di un Lamentu di lu poviru con disegni di Guttuso.Riteniamo che non doveva essere assente qui il ruolo di Vittorini,anche se poi non se ne farĂ nulla; quattro anni dopo una redazioneprobabilmente piĂč completa di Lu pani si chiama pani, con tradu-zioni di Quasimodo e illustrazioni di Guttuso, viene citata nella no-ta antologia di poesia dialettale curata nel 1952 da Pasolini (desti-natario di dediche successive), al quale non manca certo la possibi-litĂ di introdurre il poeta presso grandi editori settentrionali. Eppu-re, sia nellâuno che nellâaltro caso, si rimane lontani da Feltrinelli, nĂ©pare di scorgere autori o intellettuali a lui noti che ruotassero attor-no allâeditore milanese.
5. Il sodalizio con Giangiacomo Feltrinelli
Che cosa, se non chi, ha allora avvicinato il poeta bagherese al-lâeditore Feltrinelli? La risposta non puĂČ che essere una: il âsodali-zio ideologicoâ, ovvero la comune prospettiva tesa ad una rinascitadellâuniverso popolare sconvolto, per un verso, dal fascismo e dallaguerra e, per lâaltro, dalla mafia e dal malaffare.
Se ripercorriamo la storia dellâuomo Feltrinelli possiamo rin-tracciare diversi segnali della comunanza di visioni del poeta meri-
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dionale e dellâeditore settentrionale. Dopo una prima esperienzacon la Cooperativa del libro popolare, conclusasi nel 1954, Gian-giacomo crea la nuova casa editrice, dopo che, sei anni prima, ave-va dato vita alla Biblioteca Feltrinelli, divenuta poi Istituto, e suc-cessivamente Fondazione. Le realizzazioni corrispondono a un pro-getto preciso: la costituzione di un âcentro di ricerca storica e so-ciale che, in unâItalia appena uscita dal fascismo e dalla guerra, po-tesse contribuire ad ampliare la memoria e approfondire la cono-scenza del movimento operaio e delle proposte di innovazione so-ciale di cui esso Ăš stato interpreteâ.
La casa editrice milanese viene a costituire, in tal senso, lo âstru-mento piĂč diretto di diffusione delle idee e delle opere che doveva-no caratterizzare la ripresa della tradizione di una cultura democra-tica; una proposta quindi accessibile a vasti settori popolariâ, sensi-bile ai fermenti culturali e politici del Terzo mondo. E âla poesia diIgnazio Buttitta traduce in versi un secolo di storia sociale, politica,intellettuale della Sicilia. [CiĂČ perchĂ© egli] ha vissuto in prima lineale lotte contadine, le due guerre, lâantifascismo, la lotta contro la ma-fia e la classe politica post-bellicaâ, con sollecitazioni provenienti daMajakovski e da Neruda (Buttitta 1999, 327). Ă superfluo, del resto,richiamare come Feltrinelli abbia dedicato a questo obiettivo tuttala sua passione e le sue convinzioni politiche, fino alla morte.
Lâavventura editoriale di Buttitta con Feltrinelli Ăš un girovagareda una collana allâaltra, ma questo non depone negativamente per ilpoeta: anzi. La peddi nova (1963) con prefazione di Carlo Levi, pp.204, Ăš pubblicata nella collana âBiblioteca di Letteraturaâ e rieditanel 1977 nella âUniversale Economicaâ; La paglia bruciata (1968)con prefazione di Roberto Roversi e una nota di Cesare Zavattini,pp. 172, Ăš pubblicata nella collana âNarratoriâ di Feltrinelli e riedi-ta nel 1976 nella âUniversale Economicaâ; Io faccio il poeta (1972)con introduzione di Leonardo Sciascia, pp. 160, viene pubblicataâFuori Collanaâ e ottiene il premio Viareggio (lâanno successivo ĂšgiĂ alla terza edizione); Il poeta in piazza (1974), pp. 168, Ăš anchâes-sa pubblicata âFuori Collanaâ ed Ăš lâunica a non avere prefazioni nĂ©
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note di sorta (la seconda edizione Ăš dellâanno successivo); lo stessonon si puĂČ dire di Pietre nere, Poesie 1980-82 (1983), con un inter-vento di Gianfranco Contini, pp. 128.
La collaborazione del poeta con lâeditore Ăš, in primo luogo, frut-to di un sodalizio ideologico, come abbiamo detto. Il che non vienesmentito dalla storia delle collane in cui compaiono le raccolte poe-tiche di Buttitta. La âBiblioteca di Letteraturaâ, diretta da GiorgioBassani, Ăš una collana articolata in due sezioni: i âClassici Moderniâ(dal 1959 al 1963) che accolgono in genere veri e propri classici del-le letterature straniere a cavallo tra lâOttocento e il Novecento; iâContemporaneiâ che invece (dal 1958 al 1963) si propongono dioffrire una visione aggiornata della narrativa italiana contempora-nea e salgono clamorosamente alla ribalta con il successo del Gat-topardo. Raccolgono autori piĂč o meno noti, quando non del tuttosconosciuti, purchĂ© le loro opere risultino legate alla cultura e allastoria di quegli anni. Giorgio Bassani Ăš ritenuto il piĂč adatto a tene-re la direzione della collana per la sensibilitĂ ai fermenti del tempo,una sensibilitĂ adeguata a interpretare i mutamenti in corso, e que-sto gli basta per riconoscere il valore dei suoi autori, come il tempoavrĂ modo di confermare (Feltrinelli 1985, 341).
âBassani â ricorda Nello Ajello (2000) â era un lettore attento,scrupoloso, informato e professionalmente âimparzialeâ. Non glimancavano sguardo e fiuto internazionali. In politica, aderendo alpartito socialista, si poteva dire un progressista. Connotati che, piĂčo meno tutti, sembrava facessero al caso della Feltrinelli, lâaziendamilanese della quale lo scrittore diventĂČ, a partire dal 1956, consu-lente e direttore editoriale. La sua presenza si avvertĂŹ soprattuttonella narrativa, e con riferimento a quegli autori che erano riusciti arestare piĂč o meno estranei al neorealismo: da Cassola a Testori, daCancogni fino ad Arbasinoâ, per non dire di Fortini, Siciliano, Vol-poni, Roversi e Quintavalle. La scoperta piĂč clamorosa di Bassani ĂšperĂČ, come abbiamo detto, Il Gattopardo e non puĂČ essere un casoche, nella stessa collana, ritroviamo Buttitta. Non si tratta di narra-tiva, certo, ma Ăš indubbio che anche le sue poesie fossero espres-
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sione della cultura e della storia della Sicilia piĂč profonda. PuĂČ es-sere stato il romanzo del Principe di Lampedusa a sollecitare lâedi-tore ad accogliere nella collana una raccolta di poesie che dannodella Sicilia unâimmagine ben diversa da quella diffusa? Ă difficilerispondere, ma fa pensare come, tra i nomi compresi nella collana,a parte Roberto Roversi, non ce ne siano di quelli con cui Buttittasia stato legato da amicizia.
La collaborazione di Bassani con Feltrinelli non andĂČ oltre il1963. âIn realtĂ i due non sono fatti per intendersi â annota ancoraAjello (ivi) â. Lo scrittore Ăš serio e ombroso. Lâeditore impulsivo evolage⊠E infatti la coesistenza dura pocoâ. Ă significativo perciĂČche la collana in cui compaiono raccolte di Buttitta, dopo la cessa-zione della precedente nel 1963, Ăš quella dei âNarratori Feltrinelliâ:dal 1960 in poi qui si va condensando la proposta narrativa che lacasa editrice avvia sin dai primi anni di esistenza, articolata in piĂč di-rezioni e livelli. Ai grandi nomi stranieri, spesso introdotti in Italiaper la prima volta, si affiancano le presenze di autori italiani, spessoalle prime prove, ma originali nelle tematiche: Sanguineti, Manga-nelli, Parise, Balestrini, Frassineti. E di nuovo Buttitta, i cui temi ne-gli anni intorno al â68 non possono non affascinare pubblici non so-lo regionali (Feltrinelli 1985, 341).
Stupisce che il poeta torni ad essere accolto in una collana di nar-rativa, ma non piĂč di tanto: a parte il sottotitolo de La paglia bruciata(che Ăš, ricordiamolo, Racconti in versi), il fatto Ăš che la sua produ-zione occupa un posto a parte nelle collane di Feltrinelli e non Ăš per-ciĂČ un caso che le tre successive raccolte siano pubblicate Fuori Col-lana. E nemmeno che le due riedizioni compaiano nella âUniversa-le Economicaâ, la piĂč antica delle collane, promossa nellâimmedia-to dopoguerra dalla Cooperativa del libro popolare; quando, nel1954, questâultima si scioglie, essa viene rilevata da Feltrinelli. I ti-toli pubblicati costituiscono il frutto di scelte articolate e rigorose(ivi, 354) e non Ăš un caso che Ignazio Buttitta vi ritorni significati-vamente due volte: nel 1976 e nel 1977.
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6. Le ricadute sul piano linguistico,ovvero le ragioni della comunicazione
Che cosa offre Buttitta al nuovo editore? Poesie inedite, in granparte, soprattutto di quelle composte al suo rientro in Sicilia, quan-do si dedica a tempo pieno alla produzione poetica nella sua Aspra(frazione marinara di Bagheria). Ma non mancano testi giĂ pubbli-cati in altre sedi: periodici o libri. Ă stato ribadito, del resto, cheâuna peculiaritĂ delle opere di Ignazio Buttitta Ăš il fatto che essespesso raccolgono testi di tempi diversiâ (Buttitta 1999, 330). Equesto non avviene senza rielaborazioni, talora anche profonde nelpassaggio da unâedizione allâaltra, intervenendo ora sul lessico, orasulla grafia, ora nella ristrutturazione di intere strofe.
Ă facile constatare come il dialetto di Buttitta non conservi nul-la della dimensione arcaica che caratterizza di solito la poesia dia-lettale siciliana, dâimpronta meliana, bucolica o falsamente rustica.In tal senso risultano di particolare rilievo le osservazioni di NataleTedesco, per il quale nel poeta opera âlâimpegno della sperimenta-zione e dellâinvenzione linguistica usufruendo del âparlatoâ dei sici-liani dâoggi, cioĂš di quel parlato regionale (e popolare) dove linguae dialetto si scontrano ma anche si incontrano... Egli si Ăš servito ditutte quelle parlate che i paesi e le cittĂ gli hanno offerto, con lo sco-po di giungere ad una koinĂ© il piĂč possibile rappresentativaâ (1997,24). Lâesigenza di parlare e farsi capire al lĂ del campanile, da unpubblico quanto piĂč vasto, giĂ visibile nel rapporto con i cantasto-rie (nomadi di mestiere, per necessitĂ ), si impone via via nel tempoe diventa un obiettivo da perseguire in ogni produzione poetica,nuova o ârinnovataâ che sia. Qui Ăš stata vista la risposta alle esigen-ze dettate dallâampliarsi del pubblico delle piazze: il poeta gira peri paesi di Sicilia e la fedeltĂ a una parlata locale non puĂČ che venir-gli stretta, non adeguata a un pubblico che egli vuole regionale. Lascelta di un dialetto unitario, una koinĂ© siciliana insomma, apparedunque determinata, piĂč che da ragioni stilistiche, da ragioni piĂčsquisitamente âcomunicativeâ.
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Lâesigenza si fa ancora piĂč chiara quando il pubblico dei âletto-ri idealiâ non Ăš piĂč costituito solo dai siciliani, inserito comâĂš ormaiil poeta nei nuovi circuiti di diffusione che lâeditore nazionale gliconsente. Non sappiamo, in base al materiale a nostra disposizione,se dietro le nuove scelte linguistiche ci fosse anche una pressione diFeltrinelli o dei suoi direttori di collana, ma riteniamo lecito veder-vi una ragione plausibile. Ci possono venire ancora incontro, sia pu-re provvisoriamente, le osservazioni di Natale Tedesco: âLâesigenzache fondamentalmente lo ha mosso... Ăš quella della comunicazione,e cioĂš delle varie parlate Buttitta trasceglie il vocabolo e lâespressio-ne piĂč diffusi o che comunque gli paiono piĂč facilmente compren-sibiliâ. Ancora piĂč significativa lâaffermazione finale: âButtitta finoal â68, e soprattutto nella Paglia bruciata, ha italianizzato il sicilianopiĂč di quanto non avesse fatto nel passato, scrivendo ovviamente inquella moderna koinĂ© sicilianaâ (ivi, 25).
Il passaggio alla collaborazione con Feltrinelli, insomma, raffor-za ulteriormente un orientamento giĂ condiviso e a Buttitta vienechiesto un ulteriore sforzo â si fa per dire â intervenendo su quan-to Ăš giĂ stato pubblicato: il lessico, dunque, la fonetica e talora lâin-tera struttura poetica sono fatti oggetto di un processo di ammo-dernamento continuo: vera e propria âitalianizzazioneâ del sicilia-no, agganciabile del resto a un fenomeno in atto fra gli anni Sessan-ta e i Settanta, il diffondersi degli italiani regionali. Marta Puglisi ri-corda che Tullio De Mauro, allora docente a Palermo, intrattienecol poeta una non breve frequentazione e i due hanno modo di ri-flettere insieme sui cambiamenti linguistici in atto. âLa rivendica-zione di uno spazio alla comunicazione dialettale â osserva Tedesco(ivi, 27) â non puĂČ prescindere dalla constatazione che nelle nuovesituazioni socio-culturali delle regioni italiane il vecchio dialettoconvive e lotta con lâitaliano regionale in espansione, per cui nellaproduzione dialettale non di retroguardia non câĂš piĂč solo il riflessodel dualismo tra il dialetto e la lingua italiana, ... ma il segno oscil-lante di situazioni linguistiche piĂč complesse, a volte pure contrad-dittorie: da qui lâoscillare di Buttitta tra sicilianizzazione dellâitalia-
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no e italianizzazione del siciliano, con isole di italiano puro e sem-plice... [come nella] raccolta successiva Il poeta in piazza: siamo nel1974 e si noti che ormai i titoli delle raccolte sono in italiano [anchese quelli delle singole poesie rimangono in dialetto]â.
Gaetana Rinaldi (1999, 144-56) ha condotto una ricognizione at-tenta e filologicamente accurata sui testi degli interventi compiutinel processo, prima di svecchiamento del siciliano e poi di italianiz-zazione, passando dalle prime prove poetiche a Lu pani si chiamapani, e poi alle raccolte curate da Feltrinelli, lavoro di cui qui nonpossiamo che dare rapidi cenni. Esso aiuta a confermare, sia pureimplicitamente, un parallelo processo di amplificazione di pubblicivia via piĂč vasti. Soffermandosi infatti sugli interventi di natura lin-guistica, la studiosa nota che essi âvanno in direzione della tradizio-ne [e sono] in prevalenza elementi di natura âsuperficialeâ:... la scel-ta della forma intera dellâarticolo..., il mantenimento di forme nonevolute foneticamente..., lâuso di j con funzione di semivocale o divocale... Riconducono al siciliano letterario, ma riguardano il livellodella composizione, anche alcuni italianismi fonetici e lessicali:...Muccaturi Ăš ancora nel Lamentu, ma nel â72 Buttitta sostituirĂ il ter-mine con fazzuletti; nel â74 eliminerĂ del tutto arrufuluni. A custana,che propriamente Ăš la piaga provocata dal basto sulla pelle degli ani-mali..., preferirĂ nel â68 il sinonimo crustana (ancora in uso) forseper lâevidente collegamento con crusta».
Al contrario, lâoperazione di rottura di una tradizione dialettaleconservativa si concretizza in due fenomeni molto significativi: 1.âlâimmissione nella lingua della poesia di tutto quel vocabolarioâideologicoâ legato prima allâantifascismo, poi alla lotta di classe: les-sico irruento, concitato, violento, spesso enfaticoâ; 2. âla riseman-tizzazione, sotto la spinta della passione politica, del lessico sicilia-no, anche nei suoi aspetti piĂč normali e usuali... Senza voler conquesto sminuire la rilevanza dellâoperazione buttittiana... va ricor-dato che il lessico della lotta di classe Ăš quello della pubblicistica po-litica che riempie i quotidiani di partito, dai piĂč grandi ai piĂč pic-coli, e si travasa facilmente dallâitaliano nel dialettoâ (ivi, 136-38).
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7. Conclusioni
Carlo Feltrinelli chiude la cura del Catalogo storico della casa edi-trice con osservazioni che qui tornano a interessarci particolarmen-te. A proposito delle collane piĂč significative, scrive tra lâaltro: âNonsempre le sequenze sono immediatamente perspicue, e sovente gliscarti tra i raggruppamenti appaiono bruschi. Ma dietro questa dis-continuitĂ câĂš la vitalitĂ traboccante di un grande catalogo. Negli an-ni Ottanta, esaurita ormai qualche energia e qualche passione spen-ta, Ăš sembrato naturale riordinare la produzione in nuove e piĂč li-mitate collane, e dare alla casa editrice quellâimpronta graficamenteindividuata che non aveva mai avuto per il continuo giustapporsidel nuovo al vecchio. LâunitĂ ha prevalso sulla molteplicitĂ â (1985,339-40).
âEsaurita qualche energia e qualche passione spentaâ: nel trat-teggiare la conclusione di un rapporto ventennale, a parte lâavanza-re dellâetĂ , Ignazio Buttitta non puĂČ essere stata una delle vittimedella riorganizzazione editoriale di quegli anni? Molti dettagli lofanno pensare: come ormai in molti dei precedenti, neanche nel Ca-talogo Feltrinelli 1999 compaiono libri di Buttitta, e neppure nel-lâIndice dei libri in commercio 1999, a parte La storia di SalvatoreGiuliano (Sellerio 1997). In Senior Service, la recente biografia diFeltrinelli curata dallo stesso figlio Carlo, non siamo riusciti a rin-tracciare, sia pure ad una veloce lettura, riferimenti di sorta a But-titta poeta: non sono altrettanti segni di un tempo che Ăš ormai tra-scorso e che ha messo da parte nomi e opere di cui esso era docu-mento e passione?
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IX. Sciascia editor in Sicilia
1. Presentazione
Le note che qui presentiamo sono nientâaltro che appunti sulrapporto che Sciascia ha intrattenuto con lâeditoria siciliana anchese, in tale quadro, non possiamo passare sotto silenzio i rapportiintrattenuti con la grande industria editoriale nazionale, le colla-borazioni con i quotidiani, le riviste e i rotocalchi, in prevalenzamezzi di comunicazione di rilievo nazionale. Concentriamo lâat-tenzione sulla figura dellâeditor, ispiratore di titoli, direttore di col-lane, redattore delle quarte di copertina, o semplicemente consu-lente di editori regionali: il riferimento va ad aziende editoriali, agestione prevalentemente artigianale, le quali pur in una realtĂ ri-tenuta periferica hanno finito col fornire un contributo di rilievoa quella che in altre regioni ha acquisito da tempo dimensioni divera e propria industria culturale. Nello specifico, concentriamolâattenzione sullâopera di due editori isolani: il primo Ăš SalvatoreSciascia di Caltanissetta; il secondo Ăš Elvira Giorgianni Sellerio diPalermo, della quale Leonardo Sciascia fu collaboratore e promo-tore editoriale negli anni Settanta e Ottanta, in una cordiale e lun-ga intesa con Antonino Buttitta. Il tutto alla ricerca di una confer-ma di quella che Ăš stata detta âla felicitĂ di far libriâ di Sciascia.
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2. In Sicilia, prima che altrove: lâesperienza editoriale a Caltanissetta con Salvatore Sciascia
âLeonardo Sciascia â annota Marcelle Padovani nellâintrodu-zione allâintervista allo scrittore ne La Sicilia come metafora â Ăšsempre vissuto in Sicilia. Il âcontinenteâ lo attraversa solamente, edĂš anche questa unâantica tradizione siciliana, per recarsi a Parigidove va regolarmente a tuffarsi nella vita politica e culturale dâa-vanguardia di quella che per i siciliani Ăš da sempre la capitale del-lâEuropaâ (1979, VIII). A conferma dellâattaccamento dello scrit-tore allâIsola, e al suo paese dâorigine in particolare, bastino que-ste annotazioni in prima persona: âTutti amiamo il luogo in cuisiamo nati, e siamo portati ad esaltarlo. Ma Racalmuto Ăš davveroun paese straordinario. Oltre al circolo e al teatro, che richiamavaun tempo le compagnie piĂč in voga, di Racalmuto amo la vita quo-tidiana, che ha una dimensione un poâ folle. La gente Ăš molto in-telligente, tutti sono come personaggi in cerca dâautore [âŠ].Quando sono nate le nostre due figlie e abbiamo dovuto trasferir-ci a Caltanissetta perchĂ© potessero frequentare il liceo, e poi a Pa-lermo perchĂ© andassero allâuniversitĂ , si Ăš trattato di decisioni chemi sono costate molto. Questo perchĂ© preferisco vivere nel miopaese, dove ci si conosce tutti, dove chiunque puĂČ essere se stes-so, circondato comâĂš da gente che non ignora niente dâimportan-te sul suo conto. Credo perĂČ anche che la vita di paese sia una fon-te incomparabilmente ricca di osservazioniâ (ivi, 22, 20-21).
Ă stato rilevato che, se Leonardo Sciascia non fosse stato scrit-tore, si sarebbe lasciato tentare dallâavventura nellâeditoria. E, neifatti, editore egli lo Ăš sempre stato. A partire dagli anni Cinquan-ta, a Caltanissetta, dove operava lâeditore e libraio Salvatore Scia-scia. Scriveva allora RenĂ©e Rochefort, acuta osservatrice franceseche negli anni Cinquanta percorreva in lungo e in largo lâIsola peruna ricerca che ancora oggi si raccomanda: âCaltanissetta godedella reputazione di essere un centro di cultura. Malgrado il suoandamento provinciale rispetto a Palermo, vi si ritrova in effetti,
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come notavano giĂ i viaggiatori del secolo dei Lumi, unâĂ©lite insie-me prodigiosamente dotta e aperta, col gusto delle idee e dellâar-te del conversare; la libreria Sciascia, sorta di circolo per intellet-tuali nisseni, espone in vetrina una selezione dâopere degne di unagrande cittĂ â (2005, 374).
âVerso il 1935-40 â annota il nostro al riguardo, ventâanni do-po â Caltanissetta era una piccola Atene, non fosse che perchĂ© inquel periodo di onanocrazia, cioĂš dominio degli asini, come dice-va Benedetto Croce, un giovane poteva incontrare come inse-gnanti Luca Pignato, il poeta protestante Calogero Bonavia, padreLamantia, Aurelio Navarria, Luigi Monaco, Giuseppe Granata:nomi che per molti non dicono nulla, ma per me e altri della miagenerazione sono stati, direttamente o meno, dei maestri. E Vita-liano Brancatiâ. Ă superfluo ricordare come questâultimo sia statouno degli auctores nel sistema di gerarchie sciasciane: âHo coltolâimmagine dello scrittore a Caltanissetta, nel 1937-38, perchĂ©Brancati insegnava nella scuola che frequentavo. Ogni settimanapubblicava sulla rivista âOmnibusâ una âLettera da Caltanissettaânella quale parlava⊠di cose che conoscevo beneâ (Sciascia 1979,55, 86). Ancora ventâanni dopo Stefano Vilardo, coetaneo e inti-mo amico di Sciascia col quale aveva studiato a Caltanissetta e lĂŹsvolto la sua stessa professione di insegnante elementare, nel ri-cordare la cittĂ osserva come restino âindimenticabili quegli anniSessanta a Caltanissetta! Vi ho conosciuto pittori che avrebberomeritato ben altra fortuna: Santo Marino, TotĂČ Amico, Oscar Car-nicelli, Andrea Vizzini, Giuseppe Caldarella, per citarne alcuni anoi piĂč viciniâ (2000).
Ma torniamo a Salvatore Sciascia editore: sul finire degli anniQuaranta Ăš lâeditore âstoricoâ di Caltanissetta a tener viva la rivistaGalleria dal 1949, mentre la sua libreria assume sempre piĂč il ca-rattere di luogo di incontri e fucina di dibattiti: di quella casa edi-trice Sciascia fu consulente per buona parte degli anni Cinquanta.Da testimone e profondo conoscitore della realtĂ nissena, essendonativo di Delia ma avendo lĂŹ studiato e insegnato per anni, Stefano
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Vilardo ha ancora modo di annotare: âErano gli anni in cui un in-traprendente e giovane editore, Salvatore Sciascia, con intelligenzae impegno finanziario non indifferente, spingeva la sua Casa Edi-trice verso traguardi allora inimmaginabili per unâimpresa isolana.La rivista âGalleriaâ e i suoi quaderni, entrambi diretti da Leonar-do Sciascia, erano i suoi fiori allâocchielloâ (ibidem). In merito allastessa Italo Calvino scrive in una lettera che Sciascia dirigeva âlag-giĂč una rivistina assai pulita e curava edizioni di poesiaâ. E Vittori-ni, a sua volta, la considerava âforse la migliore rivista letteraria chesia uscita in Sicilia. Con la sua sobrietĂ e la sua modestia, priva deltutto della jattanza ciarlatanesca e del dilettantismo archeologicoche purtroppo affliggono la maggior parte delle manifestazioni cul-turali della nostra Isolaâ (Perrone 2000, 169).
Della rivista nissena Sciascia Ăš direttore unico dal 1950 al â59 econ Jole Tognelli ne rimane condirettore fino al 1989, anno dellasua morte. Rispettando una cadenza trimestrale, dopo saggi scia-sciani dedicati nel 1950 a Truman Capote e a Emilio Cecchi, la ri-vista comincia a pubblicare qualche anno dopo numeri monogra-fici, dedicati ad argomenti che rivelano la sensibilitĂ di Sciascia perorientamenti che si andavano diffondendo in Italia e cui non man-cava di partecipare: Ăš il caso del n. 2/3 (1954) dedicato alla poesiadialettale, del n. 5/6 (ancora 1954) dedicato alla letteratura ameri-cana in Italia (erano gli anni di Calvino, Vittorini, Pavese, e dellascoperta del romanzo americano on the road, sulla scia di Jack Ke-rouac) e del numero successivo, dedicato alla letteratura spagnolanel nostro paese. Non mancheranno in seguito i numeri dedicati aromanzieri siciliani: Ăš il caso del n. 1/2 del 1965, su Giovanni Ver-ga, curato dallo stesso Sciascia. Qui ci fermiamo: sarebbe infattitroppo lungo in questa sede citare gli argomenti dei 33 numeriusciti sotto la sua guida.
Non possiamo perĂČ passare sotto silenzio la collana dei Qua-derni di Galleria che si affianca ben presto alla rivista. Diretta dal-lo stesso Sciascia, la collezione Ăš dedicata prevalentemente allanuova poesia, ma comprende anche agili monografie illustrate di
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artisti contemporanei, e racconti brevi. I generi dei contributi so-no molto vari: poesia, saggi, reportage, recensioni, note critiche,pagine di narrativa, e Sciascia compie uno sforzo notevole al finedi dosare sapientemente lâattenzione per la dimensione locale (neisaggi di folklore e letteratura) con lâapertura internazionale. Ri-mane a distanza dalle polemiche ideologiche del tempo. A confer-ma del realismo sperimentale, che in quel periodo costituisce ilnocciolo della sua âpoeticaâ, i primi quattro volumi della collana,condiretta con Luigi Monaco, sono di Pasolini, RomanĂČ, Roversie Leonetti, nucleo della futura redazione di âOfficinaâ alla qualeil nostro ha modo di collaborare. E Vilardo (2000), ancora unavolta, puntualizza: âNei âQuaderniâ avevano giĂ pubblicato PierPaolo Pasolini, Dal Diario; Angelo RomanĂČ, Un giorno dâestate;Roberto Roversi, Poesie per lâamatore di stampe; Francesco Leo-netti, Arlecchinataâ. Ă lo stesso Sciascia a riconoscere che nei pri-mi quaderni di Galleria si profilava cosĂŹ il gruppo da cui dovevavenir fuori la rivista âOfficinaâ, âla sola, a conti fatti, che abbia avu-to un senso e un ruolo nellâItalia soffocata dal grigiore democri-stiano post 1° aprile 1948â. Tre volumetti lâanno di autori che siimponevano allâattenzione delle âpatrie lettereâ e delle piĂč presti-giose riviste di arti figurative.
La collaborazione con lâeditore nisseno continua quasi in esclu-siva per tutto il corso degli anni Cinquanta: basti segnalare Il fioredella poesia romanesca, con prefazione di Pasolini, e Pirandello e ilPirandellismo (1953); al secondo, un saggio critico di rilievo sul-lâautore cui proclamerĂ piĂč volte la sua devozione, viene assegnatoil premio Pirandello della Regione Siciliana (Onofri 2004, 34). Lâat-tenzione per il drammaturgo agrigentino culmina negli anni Cin-quanta con Pirandello e la Sicilia, pubblicato per i tipi dello stessoeditore nel 1959. Il volume, considerato a ragione una ânotiziaâdella Sicilia costruita attraverso particolari letture ed esperienze, ri-sulta denso di significati sul piano storico-politico non meno che suquello letterario: lo provano le pagine su Verga e Tomasi di Lam-pedusa, non meno di quelle sulla mafia e sui fatti di Bronte. Si ha
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modo di trovare giĂ riflesse nel libro le qualitĂ dello scrittore dellamaturitĂ , attento osservatore della vita siciliana, in cui si coniuganoqualitĂ narrative e saggistiche a un tempo. Sin dai primi interventi,Sciascia offre segni di rilievo di quella che alcuni diranno la suaâpoeticaâ e che noi preferiamo chiamare la sua âcultura civileâ. InPaese con figure, ad esempio, essa trova immediato riscontro in unoscritto di invenzione, documento di estremo interesse, ritratto delluogo natio e dei personaggi che in esso si muovono. In Una ker-messe si ritrova il medesimo atteggiamento, arricchito da una pre-cisa coscienza storica, con riferimento allo sbarco degli alleati nel-lâIsola (ivi, 20-23).
3. Fuori dallâIsola? No, dentro piĂč di prima
Sin dallâinizio, in effetti, saggi e interventi vengono ospitati incollane di editori nazionali. Sciascia, subito dopo gli esordi dellasua esperienza letteraria, si trova cosĂŹ inserito in un circuito cultu-rale di dimensione nazionale, anche se privilegia editori regionali,tutte le volte che gli Ăš possibile. I primi lavori sono, sin dallâinizio,testimonianze di una Sicilia âsequestrata alla ragione, alla libertĂ ealla giustiziaâ e costituiscono prove generali di due opere pubbli-cate dal poeta romanesco Mario dellâArco da Bardi, piccolo edelegante editore della capitale: Favole della dittatura (1950) e LaSicilia, il suo cuore (1952). Le favole, recensite da Pasolini, sono unriadattamento e una reinterpretazione dellâantico modello fedria-no: 27 testi brevi di prosa raffinata, a partire dalla riscrittura de âIllupo e lâagnelloâ. La seconda Ăš invece una raccolta di poesie condisegni di Emilio Greco (ivi, 24). Ancora nei primi anni Cinquan-ta, Sciascia ha appena compiuto i trentâanni e, sul piano profes-sionale, non Ăš che un maestro elementare della provincia nissena,si moltiplica e si arricchisce la collaborazione a riviste, in gran par-te di diffusione nazionale: Ăš il caso di âLetteraturaâ, di âNuovaCorrenteâ (della quale Ăš redattore dal 1955 al â58) e di âLâespe-
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rienza poeticaâ. Solo per richiamare qualche titolo, in quel perio-do Sciascia pubblica un articolo su Luigi Natoli (Memoria di Wil-liam Galt) e uno sul commissario Maigret.
Ma, come abbiamo anticipato, interviene anche su quotidiani.Inaugura infatti quella che poi sarĂ la sua attivitĂ di pubblicista suâVita sicilianaâ, edito a Caltanissetta grazie allâimpegno di MarioFarinella: da una timida recensione a Quasimodo del novembre1944 passa due mesi dopo a scrivere corsivi per la rubrica âFoglioultimoâ dello stesso giornale, corsivi in cui tratta giĂ questioni chedal piano letterario trasvolano verso quello politico. Qualche an-no dopo si impegna in una vera e propria battaglia in favore delrealismo, mentre al lavoro costante su riviste continua ad affianca-re lâimpegno su quotidiani come âSicilia del popoloâ nel 1948 eâLa Gazzetta di Parmaâ. Qui scrivono anche Mario Luzi, Gio-vanni Spadolini e Carlo Bo, e qui pubblicherĂ diversi articoli, tracui uno su Diaz del Castillo, un altro su una polemica letteraria traGiovan Battista Angioletti e Vitaliano Brancati e un terzo su Jo-seph Warren Beach (Ferlita 2004).
Negli stessi anni Sciascia torna piĂč volte sul giallo, a testimo-nianza di un interesse antico e meditato che si realizza in pieno nel-le opere della maturitĂ . In Letteratura del giallo vi ravvisa la zona piĂčinteressante del romanzo, quella che riserva sorprese piĂč autentiche,e in questo si richiama a Edgar Allan Poe, Arthur Conan Doyle,Raymond Chandler, Agata Christie, Carlo Emilio Gadda e MarioSoldati. In Appunti sul giallo la letteratura gratuita del terrore e delcrimine gli appare una manifestazione moderna del sentimento delsacro. Da qui lâelogio della tecnica poliziesca di Soldati, capace diassumere la realtĂ avvolgendola in unâaria metafisica. Ancora piĂč in-teressante si rivela la nota su Jorge Luis Borges in cui ravvisa la ten-denza dello scrittore a fare il poliziesco con materia filologica: sitratta di Le âinvenzioniâ di Borges (Onofri 2004, 98-99).
A parte queste pur ricche esperienze, Ăš dopo la metĂ degli an-ni Cinquanta che maturano le condizioni per il passaggio di Scia-scia oltre lo Stretto: non piĂč articoli o saggi su rivista ma romanzi
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e, ancor prima, raccolte di racconti. Rileva nella nota intervista:âCâĂš stato un progressivo superamento dei miei orizzonti, e pocoalla volta non mi sono piĂč sentito siciliano. Sono piuttosto unoscrittore italiano che conosce bene la realtĂ della Sicilia, e che con-tinua a esser convinto che la Sicilia offre la rappresentazione ditanti problemi, di tante contraddizioni, non solo italiani ma ancheeuropei, al punto da poter costituire la metafora del mondo odier-noâ (1979, 78).
Negli anni Sessanta a Milano, con Gaetano Trombatore, pro-getta per lâeditore Mursia una Biblioteca siciliana, dove pensa diaccogliere, tra gli altri, Serafino Amabile Guastella: progetto maiportato a termine. Si susseguono poi le tappe di una storia piĂč vol-te ricostruita e su cui non mette conto soffermarsi dunque piĂč ditanto: in primo piano si colloca Cronache scolastiche, che parten-do da un compito che ogni insegnante assolve a fine anno (il reso-conto dellâanno scolastico, talora redatto di mala voglia), vede ma-turare lâidea di redigerne una piĂč vera cronaca. Appena comple-tato, Sciascia consegna il manoscritto a Italo Calvino che lo avviaalla pubblicazione su âNuovi argomentiâ dove appare nel 1955.Quasi in contemporanea, su âNuova Correnteâ viene pubblicatoMemorie vicine.
Entrambi i testi costituiscono il nucleo originario di Le Parroc-chie di Regalpetra. Nello stesso anno 1955, infatti, Vito Laterzachiede a Sciascia di scrivere un libro sulla vita di un paese siciliano.Il âsaggio in forma di romanzoâ sarĂ pubblicato nel 1956, nella col-lana dei âLibri del tempoâ in cui stavano giĂ Un popolo di formichedi Tommaso Fiore, Contadini del sud e Lâuva puttanella di RoccoScotellaro, I minatori della Maremma di Carlo Cassola e LucianoBianciardi. Per questo Le Parrocchie vengono subito accostate, e losaranno per lungo tempo, alle tante inchieste, a metĂ fra la socio-logia e la microstoria, che comparvero negli anni Cinquanta, alpunto di confondere Sciascia con i non pochi intellettuali, autori disaggi-denuncia, talvolta epigoni del realismo (Onofri 2004, 38).
Il sodalizio con Laterza non dura a lungo. Nel marzo 1956
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Sciascia infatti completa il racconto La zia dâAmerica e nel settem-bre dello stesso anno Ăš giĂ pronto un secondo racconto, dal titoloprovvisorio di Stalin (poi La morte di Stalin): sottopone entrambii testi al vaglio editoriale di Italo Calvino nella speranza che con-fluiscano in un âGettoneâ, allora prestigiosa collana dellâeditoreEinaudi. Nel settembre del 1957 porta a termine Il quarantotto, ene dĂ ancora notizia a Calvino, alludendo a un nuovo lavoro ap-pena intrapreso (Il giorno della civetta, secondo Onofri). A fine an-no presenta il primo e il terzo racconto al concorso per inediti âLi-bera stampaâ di Lugano col titolo Due storie italiane. Deve inveceaspettare lâautunno 1958 perchĂ© nei âGettoniâ di Einaudi esca iltrittico (come egli stesso chiama i tre racconti nella lettera a Calvi-no) col titolo Gli zii di Sicilia (ivi, 56-57). Editori esterni, ed estra-nei forse, allâIsola, ma il pensiero del nostro sulla Sicilia vi sta den-tro come non mai.
Da qui e ora nasce il sodalizio con Einaudi che ospiterĂ Scia-scia nelle sue collane piĂč prestigiose: âI gettoniâ, appunto, la col-lana di Elio Vittorini destinata a segnare lâattivitĂ letteraria deglianni Cinquanta; âI Coralliâ, nati nel 1947 da una trasformazionedei âNarratori contemporaneiâ e segnati allâinizio dallâimpegno diCesare Pavese. Ad essi succedono nel 1971 âI nuovi coralliâ, de-stinati a ospitare un ampio ventaglio di opere affermate e di novi-tĂ , sia italiane che straniere. Quasi contemporanei sono âgli Struz-ziâ, collana di letteratura, nata nel 1970 e destinata a riproporre te-mi essenziali che vanno dai classici alla narrativa, alla poesia e alteatro contemporanei. Vi confluisce la collana âEinaudi societĂ â,avviata nel 1976 per iniziativa di Corrado Stajano, destinando co-sĂŹ a âgli Struzziâ anche le seconde e ulteriori edizioni dei volumigiĂ usciti (Cinquantâanni, 1983).
Nellâagosto 1964 Sciascia porta a termine in una settimana Lâo-norevole, una âcommedia che non Ăš una commediaâ, rappresenta-ta in Sicilia nello stesso anno e pubblicata il successivo. La com-media scopre alcuni punti nevralgici della âcultura civileâ delloscrittore, forieri di grande sviluppo. A coglierli per primo in una
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lettera del 26 ottobre â64 Ăš Italo Calvino, il quale ammira lâimpian-to naturalistico dei primi due atti, mentre nel terzo la materia del-la vicenda finisce col disintegrarsi, aggredita dai sentimenti dellâir-razionale in letteratura (Onofri 2004, 115-16). La commedia vieneospitata nella âCollezione di teatroâ che, nata nel 1953 ad opera diPaolo Grassi e Gerardo Guerrieri, accoglie testi teatrali di granderilievo.
Casi a parte sono le Letture per la scuola media con le quali, apartire dal 1965, la casa torinese intende rispondere alle richiestedella nuova scuola media inaugurata due anni prima. Ancora aparte si collocano i Saggi che, pubblicati a partire dal 1937, indi-cano e sviluppano una serie di linee culturali sempre sostenute daun forte impegno civile: letteratura, saggistica filosofica e politica,arti figurative, architettura e cinema, musica.
Torna intanto a farsi forte lâinteresse per Pirandello e la Sicilia,mentre nasce la collaborazione con una nuova casa editrice fuoridellâIsola: Adelphi. Nel 1986, sotto forma di supplemento allâE-spresso del 6 luglio, appare in forma di dizionarietto Pirandellodalla A alla Z, che verrĂ poi rifuso e ampliato nel 1989 per que-stâultimo editore col titolo di Alfabeto pirandelliano (ivi, 256). Leragioni dellâinteresse profondo per Pirandello ritornano in un am-pio articolo apparso nello stesso anno nella rivista MicroMega: inPirandello, mio padre associa il nome di Pirandello a Kafka e Bor-ges, giungendo ad apprezzare quella che chiama la âreligiositĂ pi-randellianaâ.
Un ulteriore passaggio lo fa andare, ancora nel 1986, versoBompiani dove pubblica La strega e il capitano, pensato ricorren-do lâanniversario della nascita di Manzoni, e lâAlmanacco Bompia-ni, di cui Sciascia Ăš curatore per il cinquantenario della morte diPirandello. Quindi torna ad Adelphi dove, sempre nel 1986, ap-pare 1912+1, riprendendo lo scaramantico modo dannunziano diindicare il numero 13. E, per lo stesso editore, quando il nostro ĂšgiĂ malato, esce nel 1989 Una storia semplice, scritta in brevissimo
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tempo, ultima distrazione dai morsi della malattia, ancora un ro-manzo giallo con soluzione finale, che finirĂ con lâuscire il giornostesso della morte, nel novembre 1989 (ivi, 260-280). A futura me-moria (se il futuro ha una memoria) Ăš il titolo dellâultimo libro(uscirĂ postumo a dicembre 1989, ancora per i tipi di Bompiani)con prefazione scritta pochi giorni prima della morte. Vi si ritro-vano le infiammate requisitorie civili e politiche dello Sciascia de-gli anni Ottanta, nonchĂ© le discussioni sulla mafia con i frainten-dimenti che Ăš stato lungo e difficile chiarire sui âprofessionisti del-lâantimafiaâ, trovandosi amaramente a constatare, e seccamentesmentire sullâEspresso del 25 gennaio 1987, che egli intendesse at-taccare le ambizioni politiche del giudice Borsellino.
4. Lâattenzione ancora e sempre incentrata sulla Sicilia
In realtĂ la collaborazione con lâEspresso risale a piĂč di un de-cennio prima. Sul numero del 27 gennaio 1974 era uscito Le zie diSicilia, in cui Sciascia attacca quello che definisce âil terribile ma-triarcato sicilianoâ, e la sua posizione viene duramente criticata daCarla Ravaioli sul Giorno e da Dacia Maraini su Paese sera (ivi,123). Sullo stesso settimanale tra il 1978 e il 1983 firma una rubri-ca di critica teatrale.
Tornando agli scrittori e artisti isolani, nellâintroduzione aunâantologia (Narratori di Sicilia, Mursia, Milano 1967), Sciasciaindica nel realismo il carattere essenziale della narrativa siciliana,arrivando a comprendervi anche la dimensione fantastica di NinoSavarese. Ma Ăš giudizio comune che il saggista sembri rimanere unpasso indietro rispetto al narratore (ivi, 141). Quanto al âsuo si-stema degli auctores, [nel quale] puntava soprattutto ad offrirciuna gerarchia di valori che si qualificassero come necessari⊠câĂšnel primo Sciascia una complessiva pronuncia vittoriniana che af-fonda le sue radici in un acuto sentimento della Sicilia come mon-do offesoâ (Perrone 2000, 167, 163), e Vittorini resiste per molto
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tempo nel giudizio positivo dello scrittore, ma non per molto. Fi-no a La Sicilia nel cinema (1963) lo interpreta ancora come figuracentrale di una tradizione che, movendo da Verga, giunge a Bran-cati e Quasimodo. Da allora in poi le valutazioni del critico vannoin caduta libera: âSono questi gli anni in cui Vittorini si interrogacon caparbia insistenza sulla funzione conoscitiva che la letteratu-ra deve avere nella realtĂ industriale. Nel 1961 egli apre il dibatti-to con lâeditoriale del n. 4 del MenabĂČ sul tema âIndustria e lette-raturaââ. E qui Sciascia non riesce a seguirlo piĂč di tanto: âLa Si-cilia, il modo di sentirla e raccontarla, Ăš il punto dolente che di-verrĂ fattore di divisione, di incomprensione tra i due scrittoriâ(ivi, 172, 176). E comincia a prenderne le distanze. Fino al 1981,quando finisce col giudicare quella di Conversazione una Siciliatradotta, restando esemplari solo le pagine di Diario in pubblico.Risultano invece assai in rialzo le quotazioni di Tomasi di Lampe-dusa; e importante appare la riabilitazione di Giuseppe AntonioBorgese, romanziere e critico letterario originario di Polizzi, chenel 1968 viene citato fra i critici pirandelliani piĂč degni di nota(Onofri 2004, 142).
Abbiamo lasciato da parte per ora gli interventi su LâOra, dimetĂ anni Sessanta, e sul Corriere della sera e La Stampa degli an-ni Ottanta. Se la presenza dellâIsola nel pensiero sciasciano non Ăšmai venuta meno, la presenza nellâIsola, torna, se mai fosse cessa-ta, su LâOra. La collaborazione con il quotidiano palermitano delpomeriggio era cominciata nel febbraio del 1955 con una recen-sione a Ignazio Buttitta, per proseguire nel mese di maggio con unattacco alle teste fasciste ânon pensantiâ, e poi con la cura di duemitiche rubriche: âQuadernoâ e quindi âIncidenze e coinciden-zeâ, dove âmostra una straordinaria capacitĂ di conferire, anche aifatti piĂč marginali e banali, una luce inedita, beffardaâ (Ferlita2004).
A metĂ anni Sessanta nello stesso quotidiano si intensificano lenote e le riflessioni dello scrittore. Il 2 gennaio 1965 esce un arti-colo su Francesco Laurana scultore e a Massimo Onofri appare si-
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gnificativo che protagonista di A ciascuno il suo sia un Laurana, in-vestigatore di un delitto di mafia, e solo in apparenza dâonore.Lâattenzione cresce e si specializza, Ăš il caso di dire, a proposito diBorgese, emigrato in America per non piegarsi al fascismo. Il pri-mo cenno si trova in un articolo apparso su LâOra il 20 febbraio1965, dove Sciascia sostiene che solo due scrittori hanno giudica-to il fascismo per quello che Ăš stato sin dal suo primo apparire:Hemingway e Borgese, appunto. Su questâultimo torna piĂč voltenegli ultimi anni di vita fino a farlo diventare âuna vera e propriaossessioneâ. In un saggio del 1982, accolto in Cruciverba, lo scrit-tore traccia un bilancio della vicenda umana e letteraria di Borge-se e redige uno scritto introduttivo al libro che ne raccoglie gli in-terventi su LâOra dei primi anni del secolo. Pur rendendosi contodi essere prossimo alla morte, vuole infine testardamente dettarealla figlia trenta righe per il Borgese de LâOra (Onofri 2004, 251).
Nel 1968 Sciascia inaugura una collaborazione con il Corrieredella Sera e nel 1972 una con La Stampa, mentre continua a scri-vere per il Giornale di Sicilia e per Il Manifesto. Rimane per ulti-ma la sua collaborazione a El PaĂs di cui rimangono solo alcunepagine in traduzione (Ferlita 2004). Il fascismo continua a essereindicato come la chiave di volta della vicenda borgesiana, ma Ăš si-gnificativo dellâultimo orientamento che vi si registri il riconosci-mento del Borgese editore, in quanto direttore della âBibliotecaromanticaâ di Mondadori. Per un ritratto dellâattore da giovane(1985) finisce con lâessere un divagante commento ad alcune let-tere del giovane Borgese allo zio Giovanni, ritrovate in casa di unnotaio in provincia di Ragusa. Torna lâinterpretazione di un epi-stolario, come accade nellâAffaire Moro e in Dalle parti degli infe-deli. E Sciascia doveva rivedervisi nellâattivitĂ del critico, nel suoappassionato lavoro editoriale, come nel caso della riscoperta diMaria Messina per i tipi di Sellerio (Onofri 2004, 251-53).
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5. Sciascia editor di Sellerio
Nonostante la sempre piĂč stretta collaborazione con Sellerio, ilgirovagare sciasciano per la penisola non si arresta, sempre piĂč in-seguito, Ăš il caso di dire, da editori nazionali. Eppure, a uscire perultimo Ăš Fatti diversi di storia letteraria e civile (1989), di nuovopresso Sellerio. E questo ci porta a richiamare tutto il periodo del-lo Sciascia editor per Sellerio, attivitĂ inaugurata a fine anni Set-tanta, a partire dallâAffaire Moro, ma presente prima ancora nellanota che accompagna La pittura su vetro in Sicilia (1972) di Anto-nino Buttitta. A proposito dellâAffaire Moro (1978), Sciascia ri-propone un giudizio non dissimile da quello espresso il 30 gennaio1965 su LâOra, giudicando Moro il classico uomo politico meri-dionale che dice e non dice: âlâon. Moro â scrive â ha inventato ilpiĂč rigoroso, quasi scientifico non-dire, come accade con le con-vergenze paralleleâ (ivi, 214).
E molti lavori, anche se escono per editori della Penisola, ven-gono riproposti, almeno quanto ad ispirazione e filone di pensie-ro, per i tipi dellâeditore siciliano. Ă il caso di Occhi di Capra, adesempio, uscito con Einaudi, che riprende le voci piĂč antiche del-la cultura contadina del paese natio: nel 1982 compare per Selle-rio Kermesse, una silloge dei modi di dire in dialetto raccolti a Ra-calmuto, e stampati in ordine alfabetico (ivi, 245). Ă il segno chela Sicilia ritorna sia nelle tematiche locali (il titolo riprende un sag-gio pubblicato su âGalleriaâ nei primi anni Cinquanta) che nellâe-ditore di riferimento. Ma Ăš ora di passare allo Sciascia editor.
Una data significativa risulta essere, al riguardo, il 1979. Fa-cendo seguito a quanto giĂ rilevato sul progressivo superamentodei suoi orizzonti e sul progressivo sentirsi scrittore italiano, nel-lâintervista rilasciata a Marcelle Padovani Sciascia fa un interes-sante rilievo sulla lingua dei suoi romanzi: âMi accorgo che la miasintassi si Ăš fatta progressivamente meno dialettale, che oggi mi siĂš fatto piĂč raro lâuso di âsicilianismiâ, che le Parrocchie Ăš zeppo didialetto mentre Todo modo ne Ăš esente, ma anche che lâinsieme del
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processo Ăš andato avanti del tutto naturalmente. Dal momentoche mi allontanavo psicologicamente, intellettualmente e senti-mentalmente dalle cose siciliane, non era forse normale che mi al-lontanassi anche dalla sintassi, dalle parole?â (1979, 77). Eppureil 1979 Ăš lâanno in cui lo scrittore inaugura con Sellerio la collanaâLa memoriaâ, massima espressione della presenza sciasciana aPalermo e in Sicilia.
La rilevanza di Leonardo Sciascia editor Ăš stata magnificamen-te sintetizzata da Salvatore Silvano Nigro nellâespressione la felici-tĂ di far libri, una silloge delle note editoriali dello scrittore (Nigro2003a). Ă innegabile, in ogni caso, che Sciascia si sia realizzato pie-namente come editor a Palermo, nella casa editrice Sellerio. Di suopugno ha scritto che aveva voluto smentire la convinzione diffusache âstampare libri in Sicilia Ăš come coltivare fichidindia a Mila-noâ. Ma Ăš innegabile che, in qualche modo, editor si puĂČ dire cheSciascia lo sia stato da sempre. Si pensi solo che, a conferma di co-me i libri sin da giovane li volesse âvestitiâ, per la collana âMedi-terraneoâ dellâeditore Salvatore Sciascia, Ăš stato ricordato come ilnostro fosse giunto allora a commissionare ad Antonino UccelloLe Ottave di Antonio Veneziano. E, nel 1957, mentre Einaudi siapprestava a pubblicare Gli zii di Sicilia, egli scriveva a Calvino:âPer il disegno di copertina potrei avanzare qualche proposta?(mi piacerebbe un disegno di Maccari: se credi posso occuparme-ne)â. Ă stato giustamente notato, appunto, che âi libri li pensavavestiti⊠Gli piaceva definirsi âun amatore di stampeâ. E per le co-pertine della collana âLa civiltĂ perfezionataâ arrivava a sceglieregli incisori. Commissionava le acqueforti. Proponeva i soggetti. Eli circoscriveva. A Leonardo Castellani spedĂŹ addirittura due foto-grafie di luoghi stendhalianiâ (Nigro 2003b, 10-11).
In un polemico intervento su rivista, Sciascia scriveva che âibest seller sono soltanto âfulminei ectoplasmi senza un passatoâ. Eforse, possiamo aggiungere, senza un avvenire. Se dunque coi sel-ler dobbiamo convivere, piĂč sul sicuro si va sui long sellerâ. Nonappare perciĂČ casuale che, come editore, abbia progettato per Sel-
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lerio collane destinate alla lunga durata e al recupero della memo-ria: egli esortava continuamente a ânon dimenticare certi scrittori,certi testi, certi fattiâ.
E qui vengono i risvolti di copertina, tutto quellâuniverso cheGenette (1970) chiamava âsoglieâ ma che, a dispetto del nome,fanno un libro e lo impongono allâattenzione di lettori e semplicicuriosi. Se i risvolti dei âGettoniâ di Einaudi erano sostanzial-mente di Elio Vittorini, e lâintervento dei redattori si limitava a lie-vi passaggi, quelli di Sellerio sono stati per lo piĂč âscritti in reda-zione e definiti in direzioneâ. I risvolti di Sciascia, ma anche i se-gnalibri, âche dei risvolti sono parenti volantiâ vanno sempre ol-tre i limiti dei propri margini di servizio: sono reattivi, con clauso-le ben segnate, sanno farsi anche commentari della collana, sino alpunto di tracciare un percorso nella linea che va da Kermesse aMuseo dâombre di Gesualdo Bufalino, a Lâincominciamento diGiuseppe Bonaviri, a Le abitudini e lâassenza di Sebastiano Adda-mo (ivi, 16-18). Quando capita che il risvolto sia redazionale, Scia-scia ne sorveglia la scrittura, lo sfoltisce, fino a riscriverlo. CiĂČ va-le per Angelo Rinaldi, Luisa Adorno, Boris Hazanov... Gli inter-venti sul risvolto de La strage dimenticata di Camilleri sono invecepiĂč âfrastagliatiâ (ivi, 20-22).
Fino allâultimo, come giĂ accennato, Ăš rimasto legato allâincantodella lettura e alla felicitĂ di far libri, âe persino di stendere schedeper i venditori, approntare colophon per le strenne, e modelli di let-tere contrattuali; o di scrivere agli editori stranieri, o ai collaborato-ri, fingendo di essere Elvira Sellerioâ: un andamento francese, uncerto esprit gaulois e qualcosa di parigino, in veritĂ la casa editriceaveva e ha ancora. âUna volta ringraziĂČ se stesso per avere âgentil-mente concessoâ, insieme ad altri, la riproduzione di scritti finoranon raccolti in volume. Sciascia editore era in corrispondenza conlo scrittore. Lo convocava, e ci giocava a scacchiâ (ivi, 22-24).
Oltre ai risvolti, le avvertenze editoriali, i segnalibri, le intro-duzioni alle varie parti delle antologie, Sciascia ha scritto piĂč o me-no tutti i risvolti di copertina dei primi settanta volumi della col-
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lana âLa memoriaâ di Sellerio. Da allora il compito Ăš stato affida-to a redattori interni della casa editrice, ma il nostro si riservava lascrittura dei risvolti per i libri suoi, o degli autori particolarmentesostenuti o amati, âdi quei testi contenenti ai suoi occhi un mes-saggio. Su quasi tutti i risvolti non suoi esercitava invece una sor-ta di supervisione e di visto finaleâ (Barbato 2003, 29-30).
Se Sciascia si Ăš offerto di scrivere tutte le parti non dâautore diun libro, per Sellerio ha svolto ben altre funzioni â nota ancoraBarbato â: Ăš stato âuna specie di socio editore senza interessi fi-nanziari nellâimpresa, di direttore editoriale, di consigliere e di let-tore, di amico, di consulente, di ufficio stampa, e capo delle pub-bliche relazioni, e finanche di persona esperta in questioni prati-che: abbozzare una lettera dâimpegno, redigere un rendiconto,preparare le schede per i venditori o i promotori dei libri in libre-ria⊠In una parola, Ăš stato lui a fissare lo stile che Ăš rimasto allacasa editrice e che i lettori spesso riconoscono nei suoi tipi, oltreche nei suoi titoliâ (ivi, 31).
Barbato ricorda che Sciascia frequentava regolarmente la casaeditrice, con puntualitĂ e impegno, nei ritagli di tempo, e conser-va vivido il ricordo dei suoi arrivi nei tardi pomeriggi invernali. Infondo era un collaboratore a tempo pieno della casa editrice, sce-gliendo ovviamente libri e titoli di libri, ma soprattutto creando ititoli delle collane: suo Ăš âLa civiltĂ perfezionataâ, evocante qual-cosa tra il metafisico, il modernismo e il rinascimento; suo âIl di-vanoâ, letture meridiane a metĂ tra oriente e occidente; suo âLadiagonaleâ, saggi da leggere, divagazioni colte alla maniera saggi-stica del romanticismo: lâintitolazione di una collana appare in-somma come una vera e propria dichiarazione dâintenti. E altrecollane immagina e non vuole perĂČ, per limitare al minimo il nu-mero delle pagine: rimane irrealizzata ad esempio una collana de-dicata al giallo, per uno come lui che vi era interessato sin da tem-pi remoti. E del resto molti progetti sono rimasti per anni sospesiin casa editrice, ogni tanto ârievocati, ridibattuti, ripresi e nuova-mente abbandonatiâ (ivi, 32-34).
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Finalmente, Ăš il caso di dire, arriva il tempo de âLa memoriaââ nellâanno 1979 â pur con una iniziale ritrosia al limite della pru-denza, collana che Sciascia âimpiantĂČ sul piano letterario, alla ri-cerca non del frivolo o dellâestetizzante, ma del piacere del dialo-go fra intelligenzeâ. La collana Ăš âun miracolo commerciale e im-prenditoriale, perchĂ© rappresentĂČ lâinnovazione di un prodotto.Ebbe successo proprio come collana: i lettori tendevano a farneuna collezioneâ. La collana blu diviene anche una moda nellâarre-damento. Sciascia â rileva ancora Barbato â si dimostra vero im-prenditore, inteso nel senso di colui che innova e che si esprimeattraverso lâinvenzione di un prodotto, gli dĂ un marchio (âLa Me-moriaâ, appunto), un packaging (il blu della copertina) e incontrai gusti del pubblico. I brevi testi offerti come risvolti di copertinaattivano allâinterno dei libri percorsi originali e inattesi. E nessunodĂ della vicenda narrata nel libro âuna chiave, una spiegazione,una veritĂ â⊠Un poâ come accade per le pagine che introduceva-no i brani antologici per i quattro volumi Delle cose di Sicilia, rac-colta di testi dâogni epoca e provenienza, sulle istituzioni, la lette-ratura, i costumi, la societĂ siciliana, in prospettiva storica o so-cioantropologica (ivi, 36-39).
6. Milano, infine: unâAssociazione senza fini di lucro
Ci avviciniamo ormai ai ventâanni da che Sciascia ci ha lasciati.E chissĂ che non procedano gli incontri che facciano scoprire, adistanza di tempo, nuovi aspetti di quella che rimane una figuraemblematica della nostra Isola e del paese intero. In ogni caso, ne-gli anni che ci separano dalla sua morte si Ăš riflettuto molto sullasua personalitĂ politica, sullâimpegno dellâintellettuale âillumini-staâ e sulla chiarezza del suo linguaggio e delle sue idee. Sciascianon Ăš scomparso dagli scaffali delle librerie, anzi viene continua-mente ristampato; si ha paura tuttavia di inserirlo nelle antologiescolastiche e questo Ăš sintomatico di come egli sia ancora un in-
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tellettuale scomodo, non etichettabile né ascrivibile ad una par-rocchia di partito o ad uno schieramento.
A chiusura torna una domanda che altri si sono posta: Sciasciaha trovato udienza, e successo, fuori dellâIsola; ma la sua attenzionecontinua a restare incentrata sulla Trinacria. PerchĂ© lo fa? Per quel-lo che si Ăš soliti dire âamore della Siciliaâ? Per meridionalismo?Niente di tutto questo, a quanto pare. Ă stato detto che lo fa alme-no âper salvaguardare o recuperare quella vena di vivacitĂ e forzaintellettuale posseduta dalla Sicilia, e che ogni ventata di antimeri-dionalismo pretendeva di cancellare. La Sicilia attirava il suo inte-resse, rappresentava il suo rovello, costituiva una metafora ricor-rente: ma piĂč che sentimento amoroso, gli suscitava una domandache ritroviamo in Borgese: come si puĂČ essere siciliani?â (ivi, 32).
Una risposta puĂČ venirci ancora da La Sicilia come metafora.Nellâintroduzione Marcelle Padovani osserva: âTutta la sua operaĂš pregna della realtĂ siciliana intesa come luogo della non-ragione(e quindi opposto a Parigi, una Parigi mitica, immutata sin dalXVII secolo, che sarebbe invece il luogo della ragione), come un la-boratorio dove si fanno tutti gli esperimenti, anche i peggiori, co-me il teatro dâun eterno âmalgovernoâ e come il banco di prova delpotereâ (1979, IX). Una ragione del profondo interesse nutrito daSciascia per lâIsola puĂČ rintracciarsi proprio nel suo costituire me-tafora del mondo, di quel mondo almeno in cui la non-ragione,vissuta e praticata, sembra prevalere sulla razionalitĂ astratta, pre-dicata e non sempre praticata.
Chiudiamo con un breve accenno ad alcune operazioni di va-rio profilo e significato che, dopo la morte, si sono proposte di te-ner viva la memoria del nostro. Sulla prima, la benemerita Fonda-zione Sciascia, non ci soffermiamo piĂč di tanto: istituita a Racal-muto nel 1995 con modalitĂ , sede, patrimonio e amministratorivoluti dallo stesso Sciascia, essa ha promosso negli anni mostre,convegni, seminari e prodotto pubblicazioni: tra queste ultime sisegnalano gli Atti dei convegni sullâInquisizione in Sicilia, su Scia-scia e il Settecento, su Leonardo Sciascia e la tradizione dei siciliani;
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il catalogo La Sicilia, il suo cuore e la ristampa di racconti e inci-sioni degli Amici della Noce. Si prevede per un futuro ormai pros-simo un volume di saggi sciasciani di Claude Ambroise, curatoredelle Opere per lâeditore Bompiani. Un caso a parte Ăš quello di Re-galpetra. Parco Letterario Leonardo Sciascia, nel cui ambito di atti-vitĂ si prevede lâacquisizione dei libri, dei quadri e delle corri-spondenze epistolari che Sciascia ha intrattenuto con gran partedellâintelligentsia italiana ed europea.
Ma Ăš sulla seconda iniziativa che intendiamo soffermarci giĂ per il solo fatto che Ăš stata promossa a Milano, dove Sciascia po-teva contare su numerosi estimatori, e a tuttâoggi porta avanti unaserie di progetti sia con il mondo dellâeditoria che con le scuole.
Fondata il 26 giugno 1997, con sede legale presso la Bibliotecacomunale di Palazzo Sormani, lâAssociazione âAmici di LeonardoSciasciaâ si propone di stimolare âla lettura, la conoscenza e la ri-cerca in merito al pensiero e allâopera dello scrittoreâ. LâAssocia-zione non ha fini di lucro e sostiene le proprie iniziative tramitelâautofinanziamento. Dispone di un sito ufficiale, Leonardo Scia-scia Web (www.amicisciascia.it) sul quale vengono segnalate le pub-blicazioni, i convegni e le iniziative promosse o appena svolte.
LâAssociazione, direttamente o in collegamento con editori mi-lanesi, promuove una serie di collane editoriali. Come si ricava dalsito ufficiale, ad aprile 2004 risultano pubblicati: n. 3 volumi perla collana âA futura memoriaâ, n. 10 per âA porte aperteâ, n. 9 perla collana âQuaderni Leonardo Sciasciaâ, n. 10 cartelle âOmaggioa Leonardo Sciasciaâ, con testi e incisioni artistiche. Tra i testi sisegnalano quelli di Gesualdo Bufalino, Luisa Adorno, SalvatoreSilvano Nigro, Nino Di Vita, Vittorio Sgarbi, Roberto Roversi,Vincenzo Consolo e Stefano Vilardo. Seguono due volumi fuoricollana e tre cataloghi delle mostre âLeonardo Sciasca amateurdâestampesâ, tenutesi a Valverde (in provincia di Catania) fra il1998 e il 2004.
Ai soci sostenitori vengono inviati in omaggio i due volumipubblicati nel corso dellâanno: uno della collana âQuaderniâ e
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lâaltro di âPorte aperteâ. Ai soci ordinari invece vengono venduticol 30% di sconto sul prezzo di copertina tutti i volumi disponi-bili (molti essendo in esaurimento). Le cartelle âOmaggio a Leo-nardo Sciasciaâ vengono invece inviate, dietro versamento di uncontributo indicato in cataloghi a parte, a coloro che ne fannoespressa richiesta allâAssociazione, di cui viene dato il numero dicasella postale a Milano.
A titolo esemplificativo delle attivitĂ svolte dallâAssociazione sisegnalano quelle disponibili sul sito. Nellâanno 2001 risultano por-tate a termine le seguenti attivitĂ :
a) pubblicazioni: G. Casanova, Jcosameron, a cura di G. Panella (collanaâPorte aperteâ);âQuaderni Leonardo Sciasciaâ, n. 6;âOmaggio a Leonardo Sciasciaâ, Cartella con incisione diVincenzo Piazza.
b) incontri di lettura a Milano (da ottobre 2001 a maggio2002), Cremona e Todi.
c) convegni: si dĂ comunicazione del convegno svoltosi a Ro-ma il 5 dicembre 2001 su âLâaffaire Moroâ, con partecipa-zione di studiosi e ampio dibattito. Registrato da Radio ra-dicale, se ne dĂ per certa la pubblicazione degli Atti per lafine dellâanno 2002.
Per lâanno 2002 risultano programmate le seguenti iniziative: a) pubblicazioni:
D. Diderot, Paradosso sullâattore (collana âPorte aperteâ, inuscita a settembre);âQuaderni Leonardo Sciasciaâ, n. 7 (in uscita a dicembre2004); âOmaggio a Leonardo Sciasciaâ. Cartella con incisione diRodolfo Ceccotti.
b) incontri di lettura:Dopo aver informato gli associati degli incontri di lettura inprogramma a Pisa, Milano, Roma e Todi, si dĂ notizia della
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conclusione del ciclo di letture sciasciane con un incontropresso la Biblioteca comunale di Palazzo Sormani diretto astudenti della cittĂ di Milano.
c) terzo premio âLeonardo Sciascia amateur dâestampesâ:Si precisa che si tratta di un concorso internazionale ad in-vito per una stampa originale e successiva cerimonia di pre-miazione. Il concorso prevede lâesposizione delle opere par-tecipanti in diverse cittĂ , a partire da Valverde, sede del pre-mio, per proseguire a Roma, Firenze, Venezia, Parigi, Mila-no; le opere entreranno a far parte successivamente dellaCivica raccolta di stampe Achille Bertarelli, presso il Ca-stello Sforzesco di Milano. Si comunica infine che il catalo-go della mostra Ăš stato giĂ pubblicato da un editore milane-se.
d) progetto âSciascia a scuolaâ:Si comunica che lâAssociazione Ăš impegnata ad estendere leproprie iniziative al mondo della scuola. La presentazionedel progetto Ăš stata fatta a Cagliari il 12 e a Nuoro il 13 apri-le 2002 e si comunica che il progetto verrĂ portato avantiper tutto lâanno scolastico 2002/03.
Non aggiungiamo altro a quanto abbiamo ripreso fedelmentedal sito ufficiale dellâAssociazione. Non vogliamo entrare nel me-rito delle scelte editoriali fatte, nĂ© delle iniziative condotte a ter-mine, ma le cartelle âOmaggioâ lasciano pensare, pur se tra colo-ro che firmano i testi ci sono persone di tutto rispetto, e lo stessodicasi del concorso internazionale âAmateur dâestampesâ. NĂ© ab-biamo motivo di ritenere che tutto quanto riportato sul Web siafalso o non sia stato mai realizzato.
Ma una domanda ce la vogliamo porre, a chiusura: LeonardoSciascia si sarebbe riconosciuto in tutto questo? E ne sarebbe sta-to contento?
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Indice
Introduzione .................................................................................. 5
I. ComunitĂ in transizione ..................................................... 1111. Il mutamento, la transizione - 17. Unâarea paradigmatica: la Sici-lia - 20. Le Madonie: un comprensorio e tre aree culturali - 26. Aspet-ti della transizione - 29. Le dinamiche territoriali - 33. Una transizio-ne senza mutamento? - 36. Un case study: lo scambio matrimoniale
II. Una modalitĂ della transizione: dal dialetto alla lingua ......................................................... 43 43. Presentazione - 46. Fenomeni di egemonia linguistica - 49. Ilpassaggio dal dialetto alla lingua nelle comunitĂ in transizione - 56.Processo di italianizzazione e cultura del consumo
III. Lingua, cultura, pratica sociale .......................................... 6161. Lingua e cultura - 65. Conseguenze sul piano della ricerca - 67.Cultura e pratica sociale
IV. Lâattenzione per i dati linguistici negli studiosi di folklore ....................................................... 71 71. Presentazione - 72. Il contributo dei folkloristi - 77. Il valore ei limiti
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V. Ricerche sul dialetto come ricerche sulla cultura .............. 81 81. Le parole e gli oggetti nella ricerca dialettale - 85. Unâespe-rienza di ricerca in atto: lâAtlante linguistico della Sicilia - 88. I Ma-teriali dellâAtlante
VI. Intellettuali, agrari e lavoro contadino nella Sicilia dellâOttocento ................................................. 9393. Gli intellettuali e la cultura materiale - 97. Una lodevole ecce-zione: gli âAnnali di agricoltura sicilianaâ - 101. Agrari e mondocontadino negli âAnnaliâ - 103. Gli âAnnaliâ e lâEuropa
VII. Fare cultura con gli strumenti del lavoro tradizionale ...................................................... 109 109. La cultura materiale nelle realtĂ in transizione - 112. Nuoviprogetti per nuovi attori sociali: dalla documentazione alla ripro-posta - 118. Dalle mostre della civiltĂ contadina ai musei della cul-tura materiale
VIII. Poesia dialettale e industria culturale: il caso di Ignazio Buttitta .................................................. 121 121. La collocazione politico-sociale - 123. La prima produzionepoetica - 127. Dal poeta in piazza al pubblico dellâindustria cultu-rale - 131. Il panorama intellettuale del tempo - 133. Il sodaliziocon Giangiacomo Feltrinelli - 137. Le ricadute sul piano linguisti-co, ovvero le ragioni della comunicazione - 140. Conclusioni
IX. Sciascia editor in Sicilia ..................................................... 141 141. Presentazione - 142. In Sicilia, prima che altrove: lâesperienzaeditoriale a Caltanissetta con Salvatore Sciascia - 146. Fuori dallâI-sola? No, dentro piĂč di prima - 151. Lâattenzione ancora e sempreincentrata sulla Sicilia - 154. Sciascia editor di Sellerio - 158. Mila-no, infine: unâAssociazione senza fini di lucro
Riferimenti bibliografici ............................................................ 163
174
Finito di stampare nel mese di marzo 2007 per conto dellâeditore Salvatore Sciascia