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Flash mob poetico la poesia di Firenze Portiamo la poesia nei centri commerciali.

Metti Dante e Campana tra i banchi del centro commerciale

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I celebri versi di Dante, Boccaccio, Montale o Campana, musicati dal vivo, mentre si fa la spesa al centro commerciale. È l'iniziativa speciale che si terrà domani, venerdì 14 dicembre, alle ore 14 presso il nuovo centro Unicoop di viale Forlanini a Firenze.

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o la poesia di Firenze

Portiamo la poesia nei centri commerciali.

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MARIO LUZI

Memoria di Firenze (1950)

E quando resistevano

sulla conca di bruma

le tue eccelse pareti sofferenti

nella luce del fiume

tra i monti di Consuma,

più distinto era il soffio della vita

intanto che fuggiva;

e là dove sovente s'ascoltava

dai battenti socchiusi delle porte

origlianti la luna

la tua voce recedere in assorta

stanze ma non morire,

non un pianto, una musica concorde

coi secoli affluiva. Senza un grido,

né un sorriso per me lungo le sorde

tue strade che conducono all'Eliso...

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DINO CAMPANA

Firenze (1913)

Da Canti Orfici

Entro dei ponti tuoi multicolori

L'Arno presago quietamente arena

E in riflessi tranquilli frange appena

Archi severi tra sfiorir di fiori

Azzurro l'arco dell'intercolonno

trema rigato tra i palazzi eccelsi:

Candide righe nell'azzurro: persi

Voli: su bianca gioventù in colonne.

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DINO CAMPANA

Firenze

Da Canti Orfici (1913)

Fiorenza giglio di potenza virgulto primaverile. Le

mattine di primavera sull’Arno. La grazia degli

adolescenti (che non è grazia al mondo che vinca tua

grazia d’Aprile), vivo vergine continuo alito, fresco che

vivifica i marmi e fa nascere Venere Botticelliana: I

pollini del desiderio gravi da tutte le forme scultoree

della bellezza, l’alto Cielo spirituale, le linee delle colline

che vagano, insieme a la nostalgia acuta di

dissolvimento alitata dalle bianche forme della bellezza:

mentre pure nostra è la divinità del sentirsi oltre la

musica, nel sogno abitato di immagini plastiche!

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Aldo Palazzeschi

La porta

Davanti alla mia porta

si fermano i passanti per guardare,

taluno a mormorare:

<< là, dentro quella casa,

la gente è tutta morta,

non s'apre mai quella porta,

mai mai mai >>.

Povera porta mia!

Grande portone oscuro

trapunto da tanti grossissimi chiodi,

il frusciare più non odi

di sete a te davanti.

Dagli enormi battenti di ferro battuto

che nessuno batte più,

nessuno ha più battuto

da tanto tempo.

Rosicchiata dai tarli,

ricoperta dalle tele dei ragni,

nessun ti aprì da anni e anni,

nessun ti spolverò,

nessun ti fece un po' di toeletta.

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La gente passa e guarda,

si ferma a mormorare:

<< là, dentro quella casa,

la gente è tutta morta,

non s'apre mai quella porta,

mai mai mai >>.

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PABLO NERUDA

La città (1951)

E quando in Palazzo Vecchio, bello come un'agave di pietra,

salii i gradini consunti, attraversai le antiche stanze, e uscì a ricevermi un operaio, capo della città, del

vecchio fiume, delle case tagliate come in pietra di luna, io non me ne sorpresi: la maestà del popolo governava.

E guardai dietro la sua bocca i fili abbaglianti della tappezzeria, la pittura che da queste strade contorte

venne a mostrare il fior della bellezza a tutte le strade del mondo.

La cascata infinita che il magro poeta di Firenze lasciò in perpetua caduta senza che possa morire, perché di

rosso fuoco e acqua verde son fatte le sue sillabe.

Tutto dietro la sua testa operaia io indovinai.

Però non era, dietro di lui, l'aureola del passato il suo splendore: era la semplicità del presente.

Come un uomo, dal telaio all'aratro, dalla fabbrica oscura, salì i gradini col suo popolo e nel Vecchio

Palazzo, senza seta e senza spada, il popolo, lo stesso che attraversò con me il freddo delle cordigliere andine era

lì.

D'un tratto, dietro la sua testa, vidi la neve, i grandi alberi che sull'altura si unirono e qui, di nuovo sulla

terra, mi riceveva con un sorriso e mi dava la mano, la

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stessa che mi mostrò il cammino laggiù lontano nelle ferruginose cordigliere ostili che io vinsi.

E qui non era la pietra convertita in miracolo, convertita alla luce generatrice, né il benefico azzurro

della pittura, né tutte le voci del fiume quelli che mi diedero la cittadinanza della vecchia città di pietra e

argento, ma un operaio, un uomo, come tutti gli uomini.

Per questo credo ogni notte del giorno, e quando ho sete credo nell'acqua, perché credo nell'uomo.

Credo che stiamo salendo l'ultimo gradino.

Da lì vedremo la verità ripartita, la semplicità instaurata sulla terra, il pane e il vino per tutti.

__ ... __ ... __

Poesia inedita, letta in Palazzo Vecchio, marzo 2004, in occasione delle celebrazioni del centenario della nascita di Pablo Neruda. Pablo Neruda, poeta cileno, durante il soggiorno a Firenze dedicò altre due poesie a Firenze. Nel gennaio 1951 Neruda incontrò il sindaco Fabiani, in Palazzo Vecchio.

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GABRIELE D’ANNUNZIO

La sera fiesolana (1903)

Da Alcyone (1903)

Fresche le mie parole ne la sera ti sien come il fruscìo che fan le foglie

del gelso ne la man di chi le coglie silenzioso e ancor s’attarda a l’opra lenta

su l’alta scala che s’annera contro il fusto che s’inargenta

con le sue rame spoglie mentre la Luna è prossima a le soglie

cerule e par che innanzi a sé distenda un velo ove il nostro sogno si giace

e par che la campagna già si senta da lei sommersa nel notturno gelo

e da lei beva la sperata pace senza vederla.

Laudata sii pel tuo viso di perla, o Sera, e pe’ tuoi grandi umidi occhi ove si tace

l’acqua del cielo!

Dolci le mie parole ne la sera ti sien come la pioggia che bruiva

tepida e fuggitiva, commiato lacrimoso de la primavera,

su i gelsi e su gli olmi e su le viti e su i pini dai novelli rosei diti

che giocano con l’aura che si perde,

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e su ’l grano che non è biondo ancóra e non è verde,

e su ’l fieno che già patì la falce e trascolora,

e su gli olivi, su i fratelli olivi che fan di santità pallidi i clivi

e sorridenti.

Laudata sii per le tue vesti aulenti, o Sera, e pel cinto che ti cinge come il salce

il fien che odora!

Io ti dirò verso quali reami d’amor ci chiami il fiume, le cui fonti eterne a l’ombra de gli antichi rami parlano nel mistero sacro dei monti;

e ti dirò per qual segreto le colline su i limpidi orizzonti

s’incùrvino come labbra che un divieto chiuda, e perché la volontà di dire

le faccia belle oltre ogni uman desire

e nel silenzio lor sempre novelle consolatrici, sì che pare

che ogni sera l’anima le possa amare d’amor più forte.

Laudata sii per la tua pura morte, o Sera, e per l’attesa che in te fa palpitare

le prime stelle!

Composta a Firenze, durante il periodo in cui il poeta visse a Villa la Capponcina.

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EDMONDO DE AMICIS

A Firenze

Poesie (1882)

Arno gentil, fiorenti Prati de le Cascine,

Leggiadre palazzine, Superbi monumenti,

Bianche ville ridenti Sparse per le colline, Vezzose fiorentine

Dai musicali accenti,

Bella città dei fiori Piena di glorie sante, Cinta d’eterni allori;

Culla immortal di Dante

Che l’universo onori, T’amo come un amante.

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UGO FOSCOLO

A Firenze (1802)

E tu ne' carmi avrai perenne vita

Sponda che Arno saluta in suo cammino

Partendo la città che del latino

Nome accogliea finor l'ombra fuggita.

Già dal tuo ponte all'onda impaurita

Il papale furore e il ghibellino

Mescean gran sangue, ove oggi al pellegrino

Del fero vate la magion s'addita.

Per me cara, felice, inclita riva

Ove sovente i piè leggiadri mosse

Colei che vera al portamento Diva

In me volgeva sue luci beate,

Mentr'io sentia dai crini d'oro commosse

Spirar ambrosia l'aure innamorate.

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DANTE ALIGHIERI

Canto XXVI, Inferno, vv.1-3

Godi, Fiorenza, poi che se’ si grande che per mare e per terra batti l’ali, e per lo ‘nferno tuo nome si spande

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DANTE ALIGHIERI

Canto XVI, Paradiso (1304-1321)

Ma convenìesi, a quella pietra scema che guarda 'l ponte, che Fiorenza fesse vittima ne la sua pace postrema. (147)

Con queste genti, e con altre con esse, vid'io Fiorenza in sì fatto riposo,

che non avea cagione onde piangesse. (150)

Con queste genti vid'io glorioso e giusto il popol suo, tanto che 'l giglio

non era ad asta mai posto a ritroso, (153)

né per division fatto vermiglio"

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Joseph Borodsky

Dicembre a Firenze (1976)

Uscendo, quello non si voltò a guardare…

Anna Achmatova

I

Le porte aspirano aria, espirano vapore; ma

non tornerai qui, dove divisa in coppie

la popolazione passeggia sull'Arno sgonfio

simile a una nuova specie di quadrupedi. Le porte

sbattono, escono bestie sull'asfalto.

C'è davvero qualcosa della foresta nell'atmosfera

di questa città. È una città bella, dove

a una certa età semplicemente distogli lo sguardo

dalla gente e cali la visiera.

II

Sbattendo le palpebre, affondando nell'umido crepuscolo,

l'occhio ingoia i lampioni come pillole per la memoria; e

il tuo portone a due minuti dalla Signoria allude

sordamente, secoli dopo, alla ragione dell'esilio: accanto

al vulcano non si può vivere senza mostrare il pugno,

ma non puoi neanche aprirlo, quel pugno, morendo,

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perché la morte è sempre una seconda Firenze

con l'architettura del Paradiso.

III

A mezzogiorno i gatti sbirciano sotto le panchine per

controllare

se sono nere le ombre. Su Ponte Vecchio - lo hanno

restaurato -

dove contro uno sfondo di colline azzurre s'imbusta

Cellini,

c'è baldanzoso commercio di chincaglieria d'ogni sorta;

le onde ripassano ramo, gorgogliando, dopo ramo.

E le ciocche dorate di una bella donna che si china

cercando

qualcosa di raro, che fruga in mezzo alle scatole

sotto gli sguardi non sazi di giovani venditrici,

sembrano traccia dell'angelo nel regno dei corvini.

IV

L'uomo si trasforma in fruscio di penna sulla carta,

anelli,

occhielli, cunei di lettere e, poiché il foglio è scivoloso,

in virgole e punti. Pensare solo quante volte

scoprendo una "v" in una parola mediocre

la penna è inciampata e ha disegnato rondinelle!

Ossia: l'inchiostro è più onesto del sangue,

e un volto al buio con le parole fuori - Dio sa

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quanto più in fretta si asciugano gli umori! -

ride come carta spiegazzata.

V

I lungarni ricordano un treno impietrito di stupore.

Le case si levano dalla terra visibili solo fino alla

cintola.

Tuffandosi nell'umida bocca di un portone, il corpo

nel soprabito sale a piccoli passi lungo piatti,

decrepiti e sbrecciati denti verso l'infiammata volta

del palato, con il suo scabro e sempre uguale "16".

Spaventoso per afonia, il campanello partorisce infine

un cigolante: "Prego, toglietevi il cappotto";

nell'ingresso vi accerchiano due vecchi "8".

VI

Dentro il caffè polveroso, nella penombra del berretto

l'occhio si abitua alle ninfe del soffitto, ad amorini,

stucchi;

nella gabbia, avvertendo penuria di terzine,

un vecchio cardellino esegue i suoi gorgheggi.

Il raggio di sole che si spacca sul palazzo,

sulla cupola della chiesa dove Lorenzo giace,

s'infila attraverso le tende e scalda le vene

del marmo sporco, il fiore di verbena, e canta

il cardellino nella sua Ravenna di ferro battuto.

VII

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Espirando vapori, aspirando aria, le porte

sbattono a Firenze. Che tu viva una o due vite

(dipende dalla fede), nella prima di sera

ti rendi conto: non è vero che l'amore

muove le stelle (la Luna a maggior ragione)

giacché divide per due ogni cosa: anche il denaro

in sogno. Nel tempo libero perfino i pensieri

sulla morte. Se le stelle del Sud fossero da amore

mosse, sarebbe per scostarsi - l'una via dall'altra.

VIII

Il nido di pietra è annunciato dallo stridio sonoro

dei freni; attraversi la strada con il rischio

d'essere stra(m/p)azzato a morte. Nel basso cielo di

dicembre

spreme una lacrima nella pupilla incallita

al bagliore delle cupole. Il vigile all'incrocio

tiene le braccia a "v", altoparlanti

strepitano dei prezzi rincarati. La parola "vita"

si fa vuota - ineluttabilità dei dittonghi!

IX

Esistono città a cui non c'è ritorno. Il sole batte

alle loro finestre come su specchi levigati. Cioè

non puoi penetrarci nemmeno a prezzo d'oro, là

il fiume scorre sempre sotto i sei ponti.

Là esistono luoghi dove hai baciato labbra

con le labbra, e con la penna i fogli. La teoria di archi,

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colonne, spaventapasseri di ghisa, abbarbaglia gli occhi;

la folla che assedia l'angolo dei tram là parla

nella lingua di chi è partito.

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GIOVANNI BOCCACCIO

Decameron, VI, 9 (1349-1351)

Guido Cavalcanti dice con un motto onestamente villania a certi cavalier fiorentini li quali soprappresso l’aveano.

Ora avvenne un giorno che, essendo Guido partito d’Orto San Michele e venutosene per lo corso degli Adimari infino a San Giovanni, il quale spesse volte era suo cammino, essendo quelle arche grandi di marmo, che oggi sono in Santa Reparata, e molte altre dintorno a San Giovanni, ed egli essendo tra le colonne del porfido che vi sono e quelle arche e la porta di San Giovanni, che serrata era, messer Betto con sua brigata a caval venendo su per la piazza di Santa Reparata, veggendo Guido là tra quelle sepolture, dissero: - Andiamo a dargli briga -; e spronati i cavalli a guisa d’uno assalto sollazzevole gli furono, quasi prima che egli se ne avvedesse, sopra, e cominciarongli a dire: - Guido tu rifiuti d’esser di nostra brigata; ma ecco, quando tu arai trovato che Iddio non sia, che avrai fatto?

A’ quali Guido, da lor veggendosi chiuso, prestamente disse: - Signori, voi mi potete dire a casa vostra ciò che vi piace - ; e posta la mano sopra una di quelle arche, che grandi erano, sì come colui che leggerissimo era, prese un salto e fussi gittato dall’altra parte, e sviluppatosi da loro se n’andò.

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Costoro rimaser tutti guatando l’un l’altro, e cominciarono a dire che egli era uno smemorato e che quello che egli aveva risposto non veniva a dir nulla, con ciò fosse cosa che quivi dove erano non avevano essi a far più che tutti gli altri cittadini, né Guido meno che alcun di loro.

Alli quali messer Betto rivolto disse: - Gli smemorati siete voi, se voi non l’avete inteso. Egli ci ha detta onestamente in poche parole la maggior villania del mondo; per ciò che, se voi riguardate bene, queste arche sono le case de’ morti, per ciò che in esse si pongono e dimorano i morti; le quali egli dice che sono nostra casa, a dimostrarci che noi e gli altri uomini idioti e non litterati siamo, a comparazion di lui e degli altri uomini scienziati, peggio che uomini morti, e per ciò, qui essendo, noi siamo a casa nostra.

Allora ciascuno intese quello che Guido aveva voluto dire e vergognossi né mai più gli diedero briga, e tennero per innanzi messer Betto sottile e intendente cavaliere.

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BENVENUTO CELLINI

Vita, libro II, Cap. LIII (1545)

(Il brano narra di come il Duca Cosimo I de’ Medici commissionò al Cellini la statua del Perseo)

Il nostro Duca di Firenze in questo tempo, che eramo del mese d’agosto nel 1545, essendo al Poggio a Caiano, luogo dieci miglia discosto di Firenze, io l’andai a trovare, solo per fare il debito mio, per essere anch’io cittadino fiorentino e perché i mia antichi erano stati molto amici della casa de’ Medici, e io più che nessuno di loro amavo questo duca Cosimo. Sí come io dico, andai al detto Poggio solo per fargli reverenza e non mai con nessuna intenzione di fermarmi seco, sí come Dio, che fa bene ogni cosa, a lui piacque: ché veggendomi il detto Duca, dipoi fattomi molte infinite carezze, e lui e la Duchessa mi dimandorno dell’opere che io avevo fatte al Re; alla qual cosa volentieri, e tutte per ordine, io raccontai. Udito che egli m’ebbe, disse che tanto aveva inteso che cosí era il vero; e da poi aggiunse in atto di compassione, e disse: - O poco premio a tante belle e gran fatiche! Benvenuto mio, se tu mi volessi fare qualche cosa a me, io ti pagherei bene altrimenti che non ha fatto quel tuo Re, di chi per tua buona natura tanto ti lodi -. A queste parole io aggiunsi li grandi obrighi che io avevo con Sua Maestà, avendomi tratto d’un cosí ingiusto carcere, di poi datomi l’occasione di fare le piú mirabile opere che ad

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altro artefice mio pari che nascessi mai. In mentre che io dicevo cosí il mio Duca si scontorceva e pareva che non mi potessi stare a udire. Da poi finito che io ebbi, mi disse: - Se tu vuoi far qualcosa per me, io ti farò carezze tali, che forse tu resterai maravigliato, purché l’opere tue mi piacciano; della qual cosa io punto non dubito -. Io poverello isventurato, desideroso di mostrare in questa mirabile Iscuola, che di poi che io ero fuor d’essa, m’ero affaticato in altra professione di quello che la ditta iscuola non istimava, risposi al mio Duca che volentieri, o di marmo o di bronzo, io gli farei una statua grande in su quella sua bella piazza. A questo mi rispose, che arebbe voluto da me, per una prima opera, solo un Perseo. Questo era quanto lui aveva di già desiderato un pezzo; e mi pregò che io gnene facessi un modelletto. Volentieri mi messi a fate il detto modello, e in breve settimane finito l’ebbi, della altezza d’un braccio in circa: questo era di cera gialla, assai accomodatamente finito: bene era fatto con grandissimo istudio e arte. Venne il Duca a Firenze e innanzi che io gli potessi mostrare questo ditto modello, passò parecchi dí; che propio pareva che lui non mi avessi mai veduto né conosciuto, di modo che io feci un mal giudizio de’ fatti mia con Sua Eccellenzia. Pur da poi, un dí doppo desinare, avendolo io condotto nella sua guardaroba, lo venne a vedere insieme con la Duchessa e con pochi altri Signori. Subito vedutolo gli piacque e lodollo oltramodo: per la qual cosa mi dette un poco di speranza che lui alquanto se ne ’ntendessi. Da poi che l’ebbe considerato assai, crescendogli grandemente di piacere, disse queste parole: - Se tu conducessi, Benvenuto mio, cosí in opera grande questo piccol modellino, questa sarebbe la piú bella opera di piazza -. Allora io

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dissi: - Eccellentissimo mio Signore, in piazza sono l’opere del gran Donatello e del maraviglioso Michelagnolo, qual sono istati dua li maggior uomini dagli antichi in qua. Per tanto Vostra Eccellenzia illustrissima dà un grand’animo al mio modello, perché a me basta la vista di far meglio l’opera, che il modello, piú di tre volte -.

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JOHN RUSKIN

Mattinate fiorentine, Seconda mattinata, 35 (1875-1877)

A Firenze esisteva il ceppo etrusco, cristiano o almeno semicristiano; e mentre nelle strade si vedevano ancora le statue di Marte, si costruiva il tempio centrale destinato a battezzare nel nome di Cristo. Era una razza che viveva di agricoltura, gentile, riflessiva e squisitamente raffinata nel lavoro manuale. Il cappello di paglia di Firenze - che noi inglesi chiamiamo leghorn – è pura arte etrusca, care signorine; ma fatto intrecciando la messe d’oro di Dio invece che l’oro scavato dalla terra.

Poi su tutto questo calarono le stirpi normanne e lombarde: re e cacciatori, splendidi guerrieri, insaziabili nell’azione. E poi le razze greca e araba venute dall’oriente, portatrici di leggi dalla città e di sogni dal deserto.

Cimabue, etrusco di nascita, diede, come abbiamo visto, la vitalità dei normanni alla tradizione dei greci, l’attività intensa alla sacra contemplazione. Che cosa dunque restava da fare al pastorello Giotto, suo pupillo, se non dipingere con maestria sempre maggiore? Noi immaginiamo che egli abbia superato Cimabue eclissandolo solo con un più vivo fulgore.

Non è così […] Lo stesso Cimabue non osò avventurarsi oltre l’ambito che gli aveva garantito un riconoscimento convenzionale; e continuò a

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dipingere, anche se stupendamente, soltanto la Madonna, san Giuseppe e il Cristo. Seppe infondere vita a questi personaggi, e Firenze non gli chiese di più, e

Credette Cimabue nella pintura

Tener lo campo…

Ma ecco Giotto venire dai campi e osservare con occhi ingenui un mondo più umile. Anch’egli dipinge la Madonna, e san Giuseppe e il Cristo, sì, senza dubbio, se vi piace chiamarli così. Ma sono sostanzialmente la mamma, il papà e il bambino. E tutta l’Italia lancia in aria il cappello e

…ora ha Giotto il grido.

(Dante, Purgatorio, XI,94)

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HENRI BEYLE - STENDHAL

Roma, Napoli e Firenze, Viaggio in Italia da Milano a Reggio Calabria (1826)

Firenze, 22 gennaio 1817

L’altro ieri, scendendo l’Appennino per arrivare a Firenze, il mio cuore batteva forte. Che puerilità. […] I ricordi si affollavano ne mio cuore, non mi sentivo in condizione di ragionare e mi abbandonavo alla mia follia come al fianco di una donna che si ama.

[Entrato in città dalla porta San Gallo, visita Santa Croce, vede la tomba di Alfieri, di Machiavelli, Michelangelo e Galileo]

Quali uomini! Quale stupenda accolta! La mia emozione è così profonda, che giunge quasi fino alla pietà. La cupa religiosità di questa chiesa, il suo soffitto di semplice legno, la sua facciata non terminata, tutto ciò parla vivamente al mio animo. Ah! Se potessi dimenticare.

[Poi si riprende e approfondisce la scoperta di Santa Croce. Un frate lo accompagna alla cappella Niccolini, dove sono gli affreschi del Volterrano]

Egli mi guida lì e mi lascia solo. Là, seduto su un gradino di un inginocchiatoio, la testa abbandonata sul pulpito, per potere guardare il soffitto, le Sibille del Volterrano mi hanno dato forse il piacere più vivo che mai mi abbia fatto la pittura. Ero già in una sorta di estasi, per l’idea

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di essere a Firenze, e la vicinanza dei grandi uomini di cui avevo visto le tombe. Assorto nella contemplazione della bellezza sublime, la vedevo da vicino, per così dire la toccavo. Ero arrivato a quel punto di emozione dove si incontrano le sensazioni celestiali date dalle belle arti e i sentimenti appassionati. Uscendo da Santa Croce, avevo una pulsazione di cuore, quelli che a Berlino chiamano nervi: la vita in me era esaurita, camminavo col timore di cadere. […]

Mi sono seduto su una delle panchine di Piazza Santa Croce; ho riletto con delizia quei versi del Foscolo, che tenevo nel mio portafoglio; non vedevo i loro difetti: avevo bisogno della voce di un amico che condividesse la mia emozione.

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UGO FOSCOLO

I Sepolcri (1806)

…Lieta dell'aer tuo veste la Luna

di luce limpidissima i tuoi colli

per vendemmia festanti, e le convalli

popolate di case e d'oliveti

mille di fiori al ciel mandano incensi:

e tu prima, Firenze, udivi il carme

che allegrò l'ira al Ghibellin fuggiasco,

e tu i cari parenti e l'idïoma

désti a quel dolce di Calliope labbro

che Amore in Grecia nudo e nudo in Roma

d'un velo candidissimo adornando,

rendea nel grembo a Venere Celeste;

ma piú beata che in un tempio accolte

serbi l'itale glorie, uniche forse

da che le mal vietate Alpi e l'alterna

onnipotenza delle umane sorti

armi e sostanze t'invadeano ed are

e patria e, tranne la memoria, tutto.

Che ove speme di gloria agli animosi

intelletti rifulga ed all'Italia,

quindi trarrem gli auspici. E a questi marmi

venne spesso Vittorio ad ispirarsi.

Irato a' patrii Numi, errava muto

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ove Arno è piú deserto, i campi e il cielo

desïoso mirando; e poi che nullo

vivente aspetto gli molcea la cura,

qui posava l'austero; e avea sul volto

il pallor della morte e la speranza…

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HERMAN HESSE

Firenze, 21 marzo 1901

Conoscete la primavera di Firenze? Quando sul viale le rose cominciano a germogliare? Quando sui morbidi colli serpeggia il tenero, terso rossore dei frutteti in fiore?

[….]

Se ho scordato qualche dipinto degli Uffizi, in compenso ricordo serate trascorse in cucina a chiacchierare con la padrona di casa, notti passate in piccole osterie in compagnia di uomini e di ragazzi, e il loquace sarto di periferia che, seduto sulla soglia di casa, mi rammendò i pantaloni strappati, tenendomi infuocate concioni politiche e cantandomi melodie d’opera.

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VINCENZO BORGHINI

Discorsi (1853)

Le Coline, che i Romani mandavan fuori, e massimamente ne’ paesi vinti […] facevano ancora un glorioso effetto, che le leggi, gli esercizj, i costumi, e la lingua c’introducevano, onde quelle città, che nacquero di questo principio, che furon molte e grandi e nobili, erano tante picciole Rome sparse per tutto il mondo.

Una di queste, Serenissimo Signore, è la Vostra Fiorenza, la cui simiglianza alla sua Roma si vede non pur ne’ suoi principj, quando fu fondata con Terme, Campidoglio, Anfietratro, Archi, Acquidotti; […].

[…[ e se si penserà, che gli uomini naturalmente cercano sempre le comodità, e fuggono a lor potere i disagi, elle riuscirà peravventura tale, che non sarà maraviglia che alcuni Scrittori, né di poco pregio, non abbian dato altro principio a questa città, ch’a poco a poco invitasse i Fiesolani, ed altre Castella de’ poggi vicini a scendere il monte, e ripararsi in questo luogo buono ed agiato. E questo è quello che per verisimili congetture, e per deboli, a non in tutto vane autorità si può ragionare in questo luogo, avanti che ci fusse condotta la Colonia.

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JOSEPH BRODSKY

1995

A Petr Vail, di una sua visita a Firenze del 1975

Non ricordo cosa mi portò a Firenze. Era veramente umido e freddo. Andavo in giro, guardavo questo e quello ...

Volevo sempre scrivere non come un viaggiatore in preda allo stupore ma come un viaggiatore che trascina i piedi su qualcosa.

È così nella vita reale: ci si precipita prima agli Uffizi o in qualche altro posto, si guarda come allocchi alla Signoria, si entra nella casa di Dante, ma ciò che soprattutto accade è che si trascinano le ossa lungo l’Arno.

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