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Macbeth Cura e introduzione di Gabriele Baldini Con un testo di Harold Bloom E viva dunque casta Isabella e muoia il fratello suo. La nostra castità val più che nostro fratello. William ^ ^ C D Misura per misura Estratto della pubblicazione

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Macbeth

Cura e introduzione di Gabriele Baldini

Con un testo di Harold Bloom

E viva dunque casta Isabella e muoia il fratello suo.

La nostra castità val più che nostro fratello.

William

C D

Misuraper misura

Estratto della pubblicazione

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Opere

William

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Gabriele Baldini (Roma, 1919-1969), saggista, traduttore, critico

letterario e cinematografico, è stato direttore dell’Istituto Italiano di

Cultura a Londra e docente di Letteratura inglese a Roma.

La sua fama, in Italia e all’estero, è legata ai suoi meriti accademici

in anglistica e americanistica: dai suoi studi sono nati saggi di rilie-

vo, come Poeti Americani 1662-1945, Melville o le ambiguità, John Webster e il linguaggio della tragedia. È stato il primo curatore di

una rigorosa edizione dell’intero corpo degli scritti di Shakespeare,

in tre volumi: Opere Complete nuovamente tradotte e annotate

(Classici Rizzoli, 1963). Fanno ancora scuola la sua storia del teatro

inglese – Teatro inglese della Restaurazione e del ’700, La tradizio-ne letteraria dell’Inghilterra medioevale, Il dramma elisabettiano –,

le sue lezioni su Le tragedie di Shakespeare e il fortunatissimo Ma-nualetto shakespeariano.

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Williamz z

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WILLIAM SHAKESPEARE - OPERE

Edizione speciale su licenza per Corriere della Sera

© 2012 RCS MediaGroup S.p.A. Divisione Quotidiani, Milano

Direttore responsabile Ferruccio de Bortoli

ISBN 97888

Proprietà letteraria riservata

© 196 -2012 RCS Libri S.p.A., Milano

Titolo originale dell’opera:

Traduzione di Gabriele Baldini

Per il testo di Harold Bloom

© 2001 RCS Libri S.p.A.

Tratto da Shakespeare: the Invention of the Human© 1998 by Harold Bloom

Traduzione di Roberta Zuppet

Quest'opera è protetta dalla Legge sul diritto d'autore.È vietata ogni duplicazione, anche parziale, non autorizzata.

via Sol erino 28, 20121 Milano

Sede Legale via Rizzoli 8, 20132 Milano

f

61261

Prima edizione digitale da edizione LLIAM SHA ESPEARE - OPERE WI2012 2012K

e note

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21 – Misura per misura

Measure for Measure

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87

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PRESENTAZIONEdi Harold Bloom

Scritta probabilmente tra la tarda primavera e la tarda esta-te del 1604, la sorprendente Misura per misura può essere considerata l’addio di Shakespeare alla commedia, poiché per definirla è bene scegliere un termine diverso da quest’ultimo. Chiamata di solito «dramma problematico» o «dark comedy», proprio come i suoi immediati predecessori, Troilo e Cressida e Tutto è bene quel che finisce bene, Misura per misura li supe-ra in irriverenza e sembra liberare Shakespeare dai rimasugli dell’idealismo che Tersite e Parolles non avevano ancora can-cellato. A mio avviso, Tersite è il perno e il coro di Troilo e Cressida, mentre Tutto è bene quel che finisce bene si incentra su Parolles. La figura parallela di Misura per misura è Lucio, anche se è troppo buono e razionale per essere il simbolo del cosmo corrotto rappresentato nel dramma. Qui il ruolo simbolico spetta al sublime Bernardine, assassino e ubriaco-ne, che pronuncia solo sette o otto frasi nel corso di un’uni-ca scena, ma che può essere considerato il genio comico di quest’opera davvero sfrontata. Il termine comicità, adatto a definire la solenne Dodicesima notte, non ci è di alcuna utili-tà quando cerchiamo di caratterizzare Misura per misura, un dramma così amaro e feroce da non avere simili.

Per quanto possiamo essere affezionati a Falstaff, Amleto, Lear e Cleopatra, tutti abbiamo, credo, qualche preferenza all’interno della produzione shakespeariana. La mia predile-zione va a Misura per misura e Macbeth: la notevole irrive-renza della prima e la spietata economia della seconda mi affascinano come nessun’altra opera letteraria. La Vienna di Lucio e Bernardine e l’inferno di Macbeth sono visioni ini-

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mitabili, rispettivamente, di malessere umano e perversione sessuale nell’una, e dell’orrore che l’immaginazione prova per se stessa nell’altra. Il motivo per cui Misura per misura, pur non passando in secondo piano, non conosce una vera popo-larità ha a che vedere con i suoi toni equivoci: non siamo mai sicuri di come dobbiamo interpretarla. Senza dubbio l’ultima folle scena, quando vi arriviamo, ci abbandona al nostro sgo-mento. Isabella, l’eroina casta e apocalittica, non apre bocca negli ultimi ottancinque versi, che si concludono con la sor-prendente proposta di matrimonio del Duca, un’idea assurda come l’intera storia di questo dramma, insieme incredibile e convincente. Accumulando affronto su affronto, Shakespeare ci lascia senza fiato dal punto di vista della morale e sconcer-tati da quello dell’immaginazione, come se volesse porre fine alla commedia stessa spingendola oltre tutti i limiti possibili, oltre la farsa, ben oltre la satira e forse oltre l’ironia più cruda. La visione comica, alla quale il drammaturgo si era rivolto (cercando sollievo?) dopo aver terminato la revisione di Am-leto nel 1601, si conclude con questo rude scherzo, dopo il quale la tragedia torna a emergere in Otello e nei suoi succes-sori. A mio avviso qualche elemento dello spirito di Iago aleg-gia in Misura per misura, quasi a indicare che l’autore stava già lavorando a Otello. L’impotente ma distruttivo senso della sessualità umana che caratterizza Iago è adatto alla Vienna di Lucio, uno stravagante; di Mistress Overdone, una mezzana; di Pompey, un tenutario di bordello trasformatosi in aiutante del boia Abhorson; e soprattutto del carcerato Bernardine, che ha il buon senso di essere eternamente ubriaco, perché essere sobrio in questo pazzo dramma significa essere più paz-zo dei pazzi.

Più di qualsiasi altra opera shakespeariana, Misura per mi-sura coinvolge il pubblico in quella che mi sento in dovere di definire l’evocazione e l’evasione simultanea del dramma-turgo dalla fede e dalla morale cristiana. L’evasione ha sen-za dubbio maggior peso rispetto all’evocazione, e non vedo

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come, per via della sua allusività religiosa, la commedia non possa essere considerata blasfema. Quanto detto vale anche per il titolo, che contiene un chiaro riferimento al discor-so della montagna: «Con la misura con cui misurate, sarà misurato a voi in cambio», un’eco di «Non giudicate e non sarete giudicati». Ciò ha suggerito un’interpretazione assur-da quanto il dramma, ma molto meno interessante: alcuni studiosi di impostazione cristiana ci chiedono di credere che Misura per misura sia una nobile allegoria della Redenzione, in cui l’ambiguo Duca è Cristo, l’amabile Lucio è il demonio e la sublime e nevrotica Isabella (incapace di distinguere la fornicazione dall’incesto) è l’anima umana, destinata a ma-ritarsi con il Duca e dunque a diventare la sposa di Cristo. Alcuni critici cristiani, tra cui il dottor Johnson e Colerigde, danno un’interpretazione più corretta, proprio come Hazlitt, che non era credente ma era figlio di un ministro dissiden-te. I giudizi attendibili su quest’opera cominciarono quando Hazlitt si rese conto che, nella misura in cui si propone in veste di moralista, Shakespeare è «un moralista nel medesi-mo senso in cui lo è la natura». Almeno in questo dramma, la natura come moralista pare seguire il dubbio monito del Duca ad Angelo:

né la natura presta maiun granello della sua eccellenzase non per riservarsi, da dea economa,la gloria del creditore:grazie, e interessi.

[I.i.36-40]

Vincenzo, duca di Vienna, prende una vacanza dalla realtà e lascia la sua città-Stato sotto un governo temporaneo. Il potere di «vita e morte a Vienna» viene ceduto ad Angelo, un ipocrita che si atteggia a difensore della virtù: la fornicazione e la generazione di figli illegittimi devono essere punite con la decapitazione. Mistress Overdone (Madama Sfondata), la

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mezzana, viene chiamata «Madama Mitigazione» dallo spiri-toso Lucio, ma spegnere il desiderio è ormai considerato un crimine capitale a Vienna. Claudio viene condannato a morte per essere andato a «pescar trotelle in un fiume riservato». Fidanzato ma non ancora sposato con Giulietta, Claudio af-ferma la moralità della natura:

I nostri istinti bramano,come topi che ingollano il loro veleno,un male che asseta: e bevendone, moriamo.

[I.ii.120-122]

Una legge improbabile, introdotta nei codici viennesi da Shakespeare, promette la morte per i rapporti sessuali al di fuori del matrimonio, e il bizzarro duca Vincenzo finge di lasciare la città affinché questa folle regola possa essere im-posta dal vicario, Angelo, la cui irreprensibilità sessuale non riuscirebbe a superare un esame attento. Shakespeare non si disturba a fornire una motivazione per il comportamento del Duca; per tutta l’opera, la pazzia di Vincenzo trasforma que-sto personaggio in una sorta di anarchico precursore di Iago. Il Duca non ha un Otello da abbattere, ma sembra tramare, senza fare alcuna distinzione, contro tutti i suoi sudditi per ragioni né politiche né morali. Vincenzo è forse, come sug-gerisce giustamente Anne Barton, il sostituto del commedio-grafo Shakespeare? Se le cose stanno così, la commedia tra-scende l’irriverenza per avvicinarsi alla malevolenza di Marx (Groucho, non Karl), e i fini di Shakespeare non sono molto più chiari di quelli del Duca. Questo scherzo pone fine alla commedia shakespeariana, anche se nella produzione rima-nente riecheggiano strane risate.

Il desiderio sessuale, che si tramuta in catastrofe in Troilo e Cressida, diventa una commedia molto triste in Misura per misura. Il testo è permeato dalla disperazione, e non è irragio-nevole pensare che si tratti della disperazione di Shakespeare, almeno sul piano dell’immaginazione. Rileggendo l’opera,

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avverto una stanchezza sperimentale, una sensazione di de-siderio insoddisfatto, come nell’Ecclesiaste, dove «si affievoli-ranno tutti i toni del canto». Non sapremo mai se, nella sua repulsione per la visione di un incesto universale, Isabella parli del dramma stesso, anche se questa è la conclusione implicita cui giunge The End of Kinship (1988) di Marc Shell, il miglior studio completo di Misura per misura. Vi è qualcosa che non va nella Vienna di Vincenzo, ma la tesi secondo cui «un avviz-zimento del tabù dell’incesto» è un possibile rimedio per qual-siasi Vienna, compresa quella di Freud, è insieme affascinante e azzardata. Eppure, Shakespeare rischia molto in quest’opera, che quasi compete con Amleto nel ruolo di «poema infinito», rompendo gli schemi classici della rappresentazione.

In Troilo e Cressida, notiamo che Shakespeare nega l’inte-riorità ai suoi personaggi, violando così il carattere della sua drammaturgia matura. In Misura per misura, ogni individuo è un abisso di interiorità, ma, poiché l’autore nasconde cia-scun personaggio dietro uno schermo opaco, siamo frustrati perché non abbiamo accesso alla coscienza di nessuno di loro. Ciò produce il singolare risultato di un dramma senza per-sonaggi secondari: in un certo senso, il ruolo di Bernardine è importante quanto quello del Duca o di Isabella. Persino Lu-cio, lo «stravagante», che, come osserva Northrop Frye, è più lucido di chiunque altro, procede con un’intenzione che non riusciamo ad afferrare. Avevo l’abitudine di allietare la visione dei film scadenti fantasticando sull’effetto che avrei prodotto inserendo arbitrariamente Groucho Marx nell’azione. Seb-bene Misura per misura sia tanto sublime quanto ambigua, con lo stesso spirito immagino talvolta di introdurre Sir John Falstaff nella Vienna di Vincenzo. Il saggio di Eastcheap, emblema dell’intelligenza fiera e discorsiva e re dell’arguzia, distruggerebbe l’intero cast con il suo scherno, ma uscirebbe forse di scena sopraffatto da un triste disorientamento per non essere riuscito a dare un senso realistico ed epicureo al progetto del Duca. Il disprezzo falstaffiano sarebbe una rea-

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zione idonea ai versi ipocriti che danno il via allo stratagem-ma con cui Angelo convaliderà «un vecchio contratto» nei confronti di Mariana:

Chi vuol brandire la spada del Cielodev’esser pio quanto severo;saper essere d’esempio, fidandonella grazia e alla virtù mirando.

[III.ii.254-257]

Non è possibile che Shakespeare parli sul serio, pensiamo giustamente, ma il Duca mette in atto l’ironia del titolo. Co-leridge, l’adoratore più convinto del Bardo, affermò che, fra tutti i drammi, Misura per misura era l’unico che suscitasse in lui una sensazione dolorosa. In quello che, dopo oltre un secolo, continua a essere il migliore saggio sull’opera, Walter Pater confronta con acume questo testo con quello di Amleto:

A differenza di Amleto, incentrato sui problemi che affliggo-no un individuo dal temperamento eccezionale, [Misura per misura] si concentra sulla pura natura umana. Ci presenta un gruppo di persone attraenti, piene di desiderio, veicoli dei geniali e fruttuosi poteri della natura; un’esistenza fastosa che fiorisce nell’antica corte e città di Vienna; uno spettacolo della pienezza e dell’orgoglio della vita che agli occhi di alcu-ni sfiora forse la licenziosità. Dietro tale gruppo di persone, dietro tutte le loro azioni, Shakespeare ci trasmette l’immagi-ne di una forte tirannia della natura e delle circostanze. Che cosa vi sarà allora da questa parte dello schermo verniciato (la nostra, la parte degli spettatori), con i suoi burattini che sono sempre tutti tristi o tutti felici? Quale filosofia della vita, quale genere di giustizia?

«Pura natura umana», «i geniali e fruttuosi poteri della natura», «sfiora forse la licenziosità», «una forte tirannia della natura.» La sottile litania di Pater ci aiuta a comprendere che cosa signi-fichi essere «pieni di desiderio» in questo dramma: una forza che costringe sia l’ordine pubblico sia la moralità cristiana a sce-

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gliere tra nullità e ipocrisia. La «filosofia della vita» dalla «parte degli spettatori» è il flusso di sensazioni epicureo; il «genere di giustizia» è, come lascia intendere Marc Shell, la ritorsione, la legge del taglione: occhio per occhio, dente per dente. Misura per misura è sinonimo di occhio per occhio: la testa di Clau-dio per la verginità di Giulietta, lo stratagemma di Vincenzo per l’attacco di Angelo all’inespugnabile castità di Isabella, il matrimonio di Lucio con la prostituta Kate Keep down (Kate Fattisotto) per il suo scherno nei confronti del Duca travestito da frate. Forse Shakespeare avrebbe dovuto intitolare l’ope-ra Occhio per occhio, ma decise di non rinunciare all’empietà nascosta nel riferimento al discorso della montagna, empietà velata in maniera appena sufficiente a permettergli di sfuggire alla tremenda versione della legge del taglione adottata dal suo regime, che aveva ucciso Marlowe e piegato Kyd, atrocità che, com’è facile immaginare, devono aver turbato il drammaturgo anche mentre trascorreva i suoi ultimi brevi giorni a Stratford.

I precursori del nichilismo europeo ottocentesco, delle profezie di Nietzsche e delle ossessioni di Dostoevskij sono Amleto e Iago, Edmund e Macbeth. Misura per misura su-pera tuttavia le quattro tragedie tarde in quanto capolavoro del nichilismo. Nelle sue volgari invettive, il Tersite di Troilo e Cressida fa ancora affidamento su valori inesistenti, valori che condannano implicitamente la stoltezza morale degli altri personaggi, ma nella Vienna di Vincenzo non vi è alcun va-lore, poiché qualsiasi visione, dichiarata o appena accennata, della moralità civile o religiosa è ipocrita o poco pertinente. La ribellione comica di Shakespeare contro l’autorità fu così assoluta che la stessa audacia del dramma si rivelò essere la migliore difesa contro la censura o la punizione. Con grande acume, Shell afferma che l’assurda legge contro la fornicazio-ne è il paradigma shakespeariano per tutte le leggi sociali, il fondamento immaginario della civiltà e del suo scontento. Benché, a parer mio, si tratti di un’interpretazione estrema, Shell coglie, meglio di chiunque altro dall’epoca di Pater, l’es-

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senziale crudezza di Misura per misura. Nessun’altra opera di Shakespeare è così lontana dalla sintesi occidentale di mora-lità cristiana ed etica classica, ma l’estraniamento dalla natura mi sembra ancora più marcato. A mio avviso, la disperazione spirituale di Re Lear e Macbeth li allontana dal cristianesimo ancor più di quanto accade con Amleto e Otello e li allontana ancor più anche dallo scetticismo naturalistico di Montaigne, che è molto diverso dal nichilismo. Misura per misura, che conduce a Otello, Re Lear e Macbeth, contiene una sfiducia nella natura, nella ragione, nella società e nella rivelazione più accentuata di quella espressa nelle tragedie successive. In ogni abisso di questa commedia si apre un abisso più profondo, una via che conduce verso il basso e verso l’esterno senza al-cuna possibilità di tornare indietro. Ecco perché, come vedre-mo più avanti, l’ultima scena del dramma non si preoccupa affatto di convincere se stessa e noi delle decisioni e delle riconciliazioni orchestrate dall’ambiguo Duca.

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Dal punto di vista dell’intreccio, possiamo dire che Claudio provoca tutti i problemi dicendo a Lucio che Isabella potreb-be servire per muovere a pietà Angelo:

Implorala per me di farsi amicoil rigido vicario, e di saggiarlo.Ci spero molto, perché nella sua gioventùha un linguaggio muto e acquiescente,che muove gli uomini. Inoltre ha un’arte sopraffinadi ragionare e discorrere,e sa bene come persuadere.

[I.ii.170-176]

Forse Claudio non è del tutto consapevole del significato implicito delle sue parole, soprattutto perché «acquiescente»

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non equivale a «disposta a tutto». Ma che cosa vogliono dire questi versi? Come dobbiamo interpretare «saggiarlo»? Senza dubbio «muove» e «arte sopraffina» sono ambigui, e le parole di Claudio preannunciano il forte ascendente sessuale che Isabella esercita sugli uomini quasi tutte le volte in cui apre bocca. Il desiderio sadomasochista di Angelo verso la novizia è più palpabile della lascivia del Duca, ma la differenza tra i due è rappresentata dall’intensità, non dal tipo di senti-mento. Quando la incontriamo per la prima volta, Isabella chiede «maggiori restrizioni per le sorelle» di cui presto en-trerà a far parte. Questa richiesta di una disciplina più severa suggerisce il suo potere sessuale inconscio, prefigurando il rifiuto a barattare la testa del fratello per la propria verginità, misura per misura:

Se fossi sotto pena di morte, i segnidelle sferzate li porterei come rubini,e mi spoglierei per la morte come per un lettoper il quale di desiderio abbia languito,prima di offrire il mio corpo alla vergogna.

[II.iv.100-104]

Se fosse stato capace di scrivere così bene, il marchese de Sade avrebbe potuto competere con questi versi, ma in realtà scri-veva in maniera abominevole. Eppure, Isabella anticipa il suo particolare accento quando incoraggia il sadismo di Angelo (e il nostro, se riuscissimo ad ammetterlo). Una delle irrive-renze più efficaci di Shakespeare consiste proprio nel fatto che Isabella è il suo personaggio femminile più provocante, molto più seducente di Cleopatra, la seduttrice professio-nista. Lucio, il flâneur o «stravagante», testimonia il potere perverso dell’innocenza della suora, elemento grazie al qua-le gli spettatori ricordano che, nel vocabolario elisabettiano, una novizia è una prostituta alle prime armi e un convento è l’equivalente di un bordello. In uno strano accostamento, Angelo e il Duca vengono spinti verso una sublime lascivia:

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Angelo quando Isabella lo supplica, e il Duca quando osserva, travestito da frate, la scena di intensa isteria sessuale in cui Isabella e Claudio si scontrano sul prezzo della virtù della suora. È difficile stabilire chi susciti meno la nostra simpatia tra Angelo e il duca Vincenzo, ma gli uomini del pubblico approveranno probabilmente la frase del vicario: «Lei parla, e così a senso, che risveglia i miei sensi». Empson, leggendo «senso» sia come razionalità sia come sensualità, afferma che «la vera ironia [...] consiste nel fatto che a eccitare Angelo è la freddezza della suora, persino la sua razionalità». Forse, ma la sua santità lo eccita ancora di più, e il desiderio più profondo di Angelo è rappresentato dai piaceri della profanazione. Per un sadomasochista represso che cosa potrebbe essere più toc-cante dell’offerta di Isabella?

con sincere preghiere, che saliranno ed entreranno in cielo prima dell’alba: preghiere d’anime caste, di vergini austere che non si dedicano ad alcunché di temporale.

[II.ii.152-156]

L’inevitabile risposta di Angelo impone a Isabella di offrire il suo corpo per la gratificazione temporale della lussuria del vicario:

La puttanacol suo doppio potere, natura ed arte,non riuscì mai a turbare il mio equilibrio:ma questa vergine virtuosa mi soggioga tutto.

[II.ii.183-186]

Abbiamo l’impressione che il paradiso di Angelo sia un con-vento in cui lui può fungere da padre confessore insieme cle-mente e severo, e ci sembra di udire per la prima volta la sua voce quando dà il suo schietto ed energico ultimatum all’affascinante novizia:

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Ho cominciato,e ora do libero sfogo alla foga dei sensi:acconsenti al mio bramoso desiderio,spogliati d’ogni ritrosia e diffusi rossoriche ottengono il contrario. Salva tuo fratelloabbandonando il tuo corpo alle mie voglie;sennò non solo verrà messo a morte,ma la tua snaturalezza prolungheràla sua agonia con estenuanti sofferenze. Rispondimi domani, o per la passione che ora mi domina,sarò con lui spietato. Quanto a te, di’ quel che vuoi; la mia falsità avrà la meglio della tua sincerità.

[II.iv.158-169]

Questo splendido ritorno del represso produce un meravi-glioso melodramma, soprattutto quando il contesto teatra-le è comico, anche se irriverente. Angelo è un grattacapo, e Shakespeare fa in modo che non migliori fino alla fine della commedia. Non dobbiamo dubitare che, a questo punto, l’infatuato Angelo sia disposto a sostituire la tortura del fra-tello con lo stupro della sorella. Anche questo sarebbe un modo per mettere in atto la regola «misura per misura», e la virtù oltraggiata (quella di Angelo) verrebbe placata. Ancora una volta, il grande marchese de Sade non riuscirebbe a reg-gere il confronto con Shakespeare nella concezione psichica e nell’eloquenza dell’esecuzione. Anche la fusione di autorità politica, dominio spirituale e tortura sessuale creata da de Sade viene anticipata da Angelo, il cui nome non è più iro-nico del suo ufficio o della sua missione, che consiste nello sradicare la fornicazione e la bastardaggine.

Angelo potrebbe bastare da solo come ammiratore della curiosa Isabella, ma Shakespeare è deciso a superare se stesso e passa la palla al Duca travestito nella scena centrale del dram-ma (atto III, scena i), che è dominata da una strana eloquen-za, la cui eco si ode più chiaramente fuori del contesto che al suo interno. Ci imbattiamo in questa particolarità anche nei

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solenni versi pronunciati da Ulisse in Troilo e Cressida, ma non nello stesso grado della risposta del Duca alla seguente frase di Claudio: «Io spero di vivere, ma a morire sono pre-parato». Ecco qui il consiglio spirituale del frate, una litania di sofferenze che commosse due sensibilità molto diverse, il dottor Samuel Johnson e T.S. Eliot:

Claudio. Io spero di vivere, ma a morire sono preparato.Duca. Fìssati sulla morte: ché vita e morte saranno più dolci. Ragiona così con la vita: se io dovessi perderti, perdo una cosa che solo gli sciocchi vorrebbero tenersi. Sei un alito, soggetto agli influssi del cielo che infestano questa dimora dove abiti ad ogni ora. Sei solo il buffone della morte, che con la tua fuga ti sforzi d’evitare, eppur le corri sempre incontro. Non sei nobile, perché tutti gli orpelli che hai addosso nascono dal fango. Non sei affatto impavida perché temi il morbido e tenero morso d’un serpetello. Trovi miglior pace nel sonno, che spesso provochi, ma stupidamente temi la morte, che non è di più. Non sei te stessa: perché esisti sui mille e mille granellini che vengon dalla terra. Non sei felice, perché ti danni per ottenere ciò che non hai, e quel che hai, lo scordi. Non sei sicura, perché la tua disposizione muta in strani modi, a seconda della luna. Se sei ricca, ti ritrovi povera: come l’asino che sotto la soma dei lingotti piega la schiena, porti il peso della ricchezza per un sol viaggio, e Morte te ne libera. Non hai amici; le viscere delle tue viscere che ti chiaman madre, effusione diretta dei tuoi stessi lombi, maledicono gotta, serpigo e cimurro che ancora non ti spacciano. Non hai né gioventù o vecchiaia, ma come un sonnellino dopo pranzo, che sogna d’entrambe: la tua beata gioventù incanutisce e méndica ai vecchi paralitici,

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e quando ti sei fatta annosa e ricca non hai calore, passione, agilità o bellezza per rendere piacevole la tua ricchezza. Cos’è allora che merita il nome di vita? In essa si celano più di mille morti; eppure noi paventiamo la morte, che tutte queste disparità pareggia.

[III.i.4-41]

Sia Johnson sia Eliot si concentrano sulla musica cognitiva più ossessionante di questo discorso, che, se estrapolato dal contesto, suona tuttavia vuoto:

Non hai né gioventù o vecchiaia,ma come un sonnellino dopo pranzo,che sogna d’entrambe.

Johnson commenta il passo come segue:

Sono versi composti squisitamente. Quando siamo giovani, ci affaccendiamo a complottare per avere la meglio sul tempo e non badiamo alle gratificazioni che ci stanno di fronte; quan-do siamo vecchi trastulliamo il languore dell’età con il ricordo dei piaceri e dei successi giovanili; sicché la nostra vita, che mai viene riempita dall’attività del momento presente, asso-miglia ai nostri sogni dopo pranzo, quando gli avvenimenti della mattinata si mescolano ai progetti della sera.

In Johnson, il senso della vita non vissuta non fu mai più forte.

Il discorso del Duca-frate è tutto fuorché intriso di con-solazione cristiana. Sembra di grande effetto e deve la sua aura ai soliloqui di Amleto, ma per Vincenzo il vuoto che tormenta il principe danese pare assumere una connotazione positiva. Se parla sul serio, Vincenzo non è del tutto in sé, cosa non improbabile. Northrop Frye riassume il contenuto del discorso dicendo che il Duca-frate consiglia a Claudio di morire il prima possibile perché, se continuasse a vivere,

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potrebbe contrarre varie spiacevoli malattie. Non è tuttavia possibile liquidare così le parole del Duca; queste ultime si muovono infatti con un’eleganza che ne accentua il nichili-smo, con una sonorità intramontabile. Il discorso parte da un presupposto epicureo e allude alla polemica contro la paura della morte in Lucrezio, con un pizzico di stoicismo senechiano per insaporire il tutto. Benché la musica perda così vistosamente di significato, l’eloquenza del Duca ispira per un attimo la risposta ambivalente di Claudio, che, come il discorso di Vincenzo, non dice quello che vuol dire e non vuol dire quello che dice.

Vi ringrazio umilmente. Implorandodi vivere, vedo che cerco di morire;e cercando morte, trovo vita. Venga pure.

[III.i.41-43]

Non riusciamo a comprendere subito il Duca né il suo sini-stro consiglio, perché Shakespeare non ce lo permette. Vin-cenzo è davvero, come dice Lucio, un «duca stravagante che va per strade buie», abituato a travestimenti, complotti sadici e progetti ambigui. Poiché, ad eccezione del superbo Bernar-dine, Lucio è l’unico personaggio razionale e comprensivo in questa commedia dell’assurdo, è ragionevole pensare che i suoi continui attacchi verbali al Duca parlino per noi, il pub-blico, e per Shakespeare, se vi è qualcuno che, ancora una vol-ta ad eccezione di Bernardine, può rappresentare l’economia dei sentimenti del drammaturgo nel mezzo di questa follia. Ipotizziamo che Lucio sia colui che riesce a risolvere tutto, come hanno sostenuto diversi critici prima di me, in partico-lare Marc Shell. La lascivia del Duca nei confronti di Isabella acquista così il suo vero significato; quello che in Angelo era un ritorno del represso in Vincenzo è un disperato allontana-mento dal libertinaggio, dal malessere sessuale che accomuna il Duca alla sua città fremente di mezzane e prostitute. La sua fuga dalla corruzione sessuale di Vienna è ovviamente una

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Page 20: Misura per misura...Macbeth Cura e introduzione di Gabriele Baldini Con un testo di Harold Bloom E viva dunque casta Isabella e muoia il fratello suo. ... anche se è troppo buono

fuga da se stesso, e la cura è, a suo avviso, l’innocente tenta-trice Isabella, la cui passione per la castità è forse reversibile, o almeno così spera Vincenzo. Shell osserva giustamente che Lucio rappresenta le cattive intenzioni del Duca, e io ritengo che possiamo spingerci oltre. Nella produzione shakespea-riana, nessuno è spinto (o trattenuto) da motivazioni strane quanto quelle di Vincenzo, e molti, se non tutti, i suoi segreti svaniscono se Lucio è un difensore della verità e non un ca-lunniatore. Egli non intende lasciare solo il Duca: «Su, frate, sono una specie di lappola, io mi attacco». Uno stravagante vede il proprio riflesso nell’altro: un damerino della luce si trova di fronte un damerino delle strade buie. Chi conosce meglio di Lucio la Vienna di Mistress Overdone, Kate Keep-down e Pompey? Dobbiamo credere a Lucio quando dice al frate: «Tu non conosci bene il Duca come lo conosco io» oppure dobbiamo credere all’esagerata difesa di Vincenzo?

Oh, alto rango! Milioni d’occhi falsisi fissan su di te; volumi di notiziescatenano un’ostile e mendace caneasulle tue azioni; mille sortite d’ingegnoti rendono padre dei loro sogni oziosie ti distorcono con le loro fantasie.

[V.i.60-65]

Questi versi sono il lamento di tutte le celebrità moderne, siano esse politiche o teatrali, nell’era del giornalismo istanta-neo. Lucio il flâneur è il reporter della Vienna di Vincenzo e divulga alcune scomode verità. Chi riesce a credere alle prote-ste del Duca in presenza del vero Frate Thomas: «Non credere che il flebile dardo dell’amore trafigga un petto coriaceo» e «Come un vecchio leone che non esce dalla tana per predare»? Vincenzo è tutt’uno con Vienna; è la malattia che sostiene di voler curare. Ho preso in prestito questa efficace formulazio-ne da Karl Kraus, che di certo non lusingò Sigmund Freud affermando in tono mordace che la psicanalisi coincideva con

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