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I MODELLI DI COMPETENZE NELL’AGENZIA DELLE ENTRATE Il difficile trade-off tra validità e oggettività nella valutazione professionale Sedulo curavi humanas actiones non ridere, non lugere neque detestari, sed intelligere. Ho assiduamente cercato di imparare a non ridere delle azioni degli uomini, né a piangerne, né a odiarle, ma a comprenderle Baruch Spinoza 1. Introduzione La tematica relativa ai modelli di competenze è molto attuale. Come vedremo più avanti, i modelli di competenze sono utilizzati nelle organizzazioni come elemento basilare dei sistemi di valutazione della prestazione lavorativa. A sua volta, la valutazione è utilizzabile per diversi scopi, quali la selezione, la formazione, la retribuzione accessoria e gli avanzamenti di carriera. L’attualità della problematica che verrà qui esaminata (appunto quella dei modelli di competenze) sta nel fatto che entro il 2009 dovrebbe entrare in vigore, in applicazione di una recente legge delega (n. 15 del 2009), un provvedimento legislativo che, dopo 30 anni, reintrodurrà nelle amministrazioni pubbliche italiane sistemi di valutazione interna di vasta portata, sia per gli effetti, che vanno dalla retribuzione accessoria fino alla carriera e alla disciplina, sia per la platea degli interessati, che dovrebbe ricomprendere la generalità del personale di tutte le aree di inquadramento. Agli inizi degli anni ’80, i sistemi interni di valutazione vennero abbandonati - sempre in forza di una legge (la n. 312 del 1980) - da quasi tutte le amministrazioni pubbliche. Rimasero solo nelle amministrazioni militari, nella carriera dei prefetti e dei diplomatici e nella Banca d’Italia. Non è forse un caso che si trattava delle amministrazioni che incarnavano le funzioni statali nel grado più intenso. Intendiamoci: non è che quei sistemi non avessero presentato nel tempo inconvenienti anche molto seri. E tuttavia merita ricordare che amministrazioni pubbliche di altri importanti paesi a noi vicini – ad esempio, la Francia - avevano riscontrato nei loro sistemi di valutazione interni difetti analoghi, e tuttavia si guardarono bene dal farne piazza pulita, cercando invece di migliorarli. A mio avviso, è assolutamente necessario che, se 30 anni fa si fece una scelta forse poco meditata, la scelta di segno opposto che si sta ora facendo sia sorretta, nella sua applicazione, da un adeguato discernimento. L’interesse e l’attualità del seminario organizzato dall’Università di Napoli ‘Federico II’ sta appunto in questo: l’approfondimento della problematica dei modelli di competenze può servire a dare una solida base razionale ai discorsi attuali sulla valutazione e sulla meritocrazia, che assumono a volte una caratterizzazione un po' troppo naïf e approssimativa. Il mio compito è di raccontare le riflessioni e le esperienze maturate a lungo su questi temi nell’Agenzia delle Entrate e di cercare di far vedere quale contributo possano dare al dibattito oggi in corso nel nostro Paese. 2. La rilevanza del caso “Agenzia delle Entrate” La sperimentazione di modelli di competenze ha assunto particolare rilevanza nell’Agenzia delle Entrate sotto almeno due aspetti. Il primo riguarda la durata della sperimentazione, il secondo l’estensione della sperimentazione.

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I MODELLI DI COMPETENZE NELL’AGENZIA DELLE ENTRATE

Il difficile trade-off tra validità e oggettività nella valutazione professionale

Sedulo curavi humanas actiones non ridere, non lugere neque detestari, sed intelligere.

Ho assiduamente cercato di imparare a non ridere delle azioni degli uomini, né a piangerne, né a odiarle, ma a comprenderle

Baruch Spinoza

1. Introduzione

La tematica relativa ai modelli di competenze è molto attuale. Come vedremo più avanti, i modelli di competenze sono utilizzati nelle organizzazioni come elemento basilare dei sistemi di valutazione della prestazione lavorativa. A sua volta, la valutazione è utilizzabile per diversi scopi, quali la selezione, la formazione, la retribuzione accessoria e gli avanzamenti di carriera. L’attualità della problematica che verrà qui esaminata (appunto quella dei modelli di competenze) sta nel fatto che entro il 2009 dovrebbe entrare in vigore, in applicazione di una recente legge delega (n. 15 del 2009), un provvedimento legislativo che, dopo 30 anni, reintrodurrà nelle amministrazioni pubbliche italiane sistemi di valutazione interna di vasta portata, sia per gli effetti, che vanno dalla retribuzione accessoria fino alla carriera e alla disciplina, sia per la platea degli interessati, che dovrebbe ricomprendere la generalità del personale di tutte le aree di inquadramento.

Agli inizi degli anni ’80, i sistemi interni di valutazione vennero abbandonati - sempre in forza di una legge (la n. 312 del 1980) - da quasi tutte le amministrazioni pubbliche. Rimasero solo nelle amministrazioni militari, nella carriera dei prefetti e dei diplomatici e nella Banca d’Italia. Non è forse un caso che si trattava delle amministrazioni che incarnavano le funzioni statali nel grado più intenso. Intendiamoci: non è che quei sistemi non avessero presentato nel tempo inconvenienti anche molto seri. E tuttavia merita ricordare che amministrazioni pubbliche di altri importanti paesi a noi vicini – ad esempio, la Francia - avevano riscontrato nei loro sistemi di valutazione interni difetti analoghi, e tuttavia si guardarono bene dal farne piazza pulita, cercando invece di migliorarli.

A mio avviso, è assolutamente necessario che, se 30 anni fa si fece una scelta forse poco meditata, la scelta di segno opposto che si sta ora facendo sia sorretta, nella sua applicazione, da un adeguato discernimento.

L’interesse e l’attualità del seminario organizzato dall’Università di Napoli ‘Federico II’ sta appunto in questo: l’approfondimento della problematica dei modelli di competenze può servire a dare una solida base razionale ai discorsi attuali sulla valutazione e sulla meritocrazia, che assumono a volte una caratterizzazione un po' troppo naïf e approssimativa.

Il mio compito è di raccontare le riflessioni e le esperienze maturate a lungo su questi temi nell’Agenzia delle Entrate e di cercare di far vedere quale contributo possano dare al dibattito oggi in corso nel nostro Paese.

2. La rilevanza del caso “Agenzia delle Entrate”

La sperimentazione di modelli di competenze ha assunto particolare rilevanza nell’Agenzia delle Entrate sotto almeno due aspetti. Il primo riguarda la durata della sperimentazione, il secondo l’estensione della sperimentazione.

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di Girolamo Pastorello
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Durata della sperimentazione. Il modello delle competenze dei dirigenti è in uso dal 2002. Il modello delle competenze dei funzionari si applica: a) al reclutamento dei nuovi funzionari dal 2002; b) al conferimento degli incarichi organizzativi dal 2008.

Estensione della sperimentazione. I modelli di competenze sviluppati nell’Agenzia riguardano: 1150 posizioni dirigenziali; 2071 posizioni organizzative non dirigenziali; 7234 nuovi funzionari assunti fino ad oggi a partire dal 2002 cui se ne aggiungeranno altri 1676 che si prevede di assumere entro il 2011.

3. I modelli di competenze nell’Agenzia delle Entrate

Nell’Agenzia sono stati finora costruiti due modelli di competenze, uno per i dirigenti e l’altro per i funzionari. Ma cos’è un modello di competenze?

Con l’espressione “modello di competenze” intendiamo un “repertorio di aspettative organizzative”, e cioè un insieme dei tipi di comportamenti che un’organizzazione si attende dal proprio personale in forza dell’assunto che quei comportamenti determinano la differenza tra una prestazione lavorativa modesta o appena sufficiente (poor or average performance) e una elevata o comunque efficace (superior or effective performance).

Di fatto, ogni organizzazione ha in qualche modo un “modello di competenze”. Non averlo significherebbe che un’organizzazione non ha alcuna aspettativa nei riguardi di coloro che lavorano nei suoi uffici. Il che è assurdo: equivarrebbe a dire che un’organizzazione non ha o ha smarrito la consapevolezza della propria responsabilità gestionale.

Per quanto quindi riguarda i modelli di competenze la differenza tra le organizzazioni è solo questa: se abbiano un modello di competenze implicito oppure un modello di competenze esplicito, formalmente proposto alle persone come “guida dei comportamenti organizzativi”.

Si tratta di una differenza fondamentale per diverse ragioni che cercheremo più avanti di spiegare.

4. A che servono i modelli di competenze?

Nell’Agenzia delle Entrate la costruzione di modelli di competenze è stata una risposta alla profonda insoddisfazione accumulatasi nel tempo riguardo all'uso del tradizionali sistemi di valutazione indiretta in alcuni campi fondamentali della gestione del personale.

I sistemi di valutazione indiretta non mirano a valutare la prestazione di lavoro in se stessa, quella, cioè, resa effettivamente sul posto di lavoro. L’assunto su cui si basano è che si possa ricavare un giudizio appropriato sulle capacità e i meriti delle persone attraverso elementi di valutazione estrinseci rispetto alla prestazione lavorativa stessa. Questi elementi possono essere l’anzianità di servizio o attestati scolastici oppure l’esito di prove concorsuali o paraconcorsuali.

5. Genesi dei modelli di competenze nell’Agenzia delle Entrate

Le procedure di riqualificazione professionale conclusesi nel 2000, subito prima dell’attivazione dell’Agenzia, hanno dimostrato in maniera eclatante le gravi pecche dei sistemi di valutazione indiretta.

Si è già accennato che agli inizi degli anni ’80 una legge abolì nelle amministrazioni pubbliche i sistemi di valutazione interni e gli scrutini con cui si decidevano le promozioni degli impiegati. Questa decisione venne motivata essenzialmente da due ragioni. La prima fu che i sistemi di valutazione interni erano troppo influenzati da scelte arbitrarie e favoritismi. In estrema sintesi, il meccanismo era questo: gli impiegati in possesso di determinati requisiti venivano valutati

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comparativamente dal Consiglio di Amministrazione del Ministero – la procedura era appunto definita “scrutinio per merito comparativo” – e quelli giudicati migliori per come avevano lavorato erano promossi alla qualifica superiore, nel limite dei posti di organico. Il Consiglio di Amministrazione disponeva di un pacchetto “strategico” di punti per la valutazione dell’idoneità alle mansioni superiori, sicché, nel tempo, la procedura venne dai maliziosi ribattezzata “scrutinio per merito del compare”, dove il compare era ovviamente l’influente amico che faceva parte del Consiglio di amministrazione. L’altra ragione dell’abolizione del sistema delle carriere fu quella di porre termine alle pressioni continue per l’allargamento degli organici, pressioni che trovavano di volta in volta risposta in questa o quella leggina. In luogo della carriera fu introdotto un nuovo sistema con cui si accedeva per concorso pubblico a una determinata qualifica (in tutto erano otto all’inizio, poi diventate nove), nell’ambito della quale era prevista solo una progressione economica per anzianità di servizio a determinati intervalli temporali. La progressione veniva ritardata da eventuali note di demerito o, viceversa, accelerata per merito (la legge che doveva prevedere le accelerazioni per merito non vide però mai la luce, e quanto alle mancate progressioni per demerito, non esistono dati precisi, ma per quel che concerne l’amministrazione finanziaria, che contava allora oltre 60.000 dipendenti, si dice che esse non furono più di due o tre per tutti gli anni in cui il sistema fu in vigore). Per passare alla qualifica superiore era necessario superare un nuovo concorso pubblico, che prevedeva una riserva per gli interni (in via transitoria la legge previde comunque una nutrita serie di promozioni automatiche per gli impiegati che avevano maturato determinati requisiti).1

A metà degli anni ’90, circa 15 anni dopo che nelle amministrazioni pubbliche italiane erano stati aboliti i sistemi di valutazione interni, ed era stato conseguentemente cancellato il concetto stesso di carriera, i gravi inconvenienti di questa scelta emergevano sempre più evidenti. Chiunque poteva giustamente chiedersi: “Che senso ha impegnarsi a fondo nel lavoro, se per avere una promozione devo passare per un concorso dove è esclusa per principio la valutazione delle capacità e dei meriti che ho dimostrato nel corso del servizio?”.2

Nel 1995 fu approvata una legge speciale (n. 349/1995) per il Ministero delle Finanze con la quale fu introdotto questo meccanismo: tutti i dipendenti che avevano determinati requisiti di anzianità furono sottoposti a una prova preselettiva di ottanta quiz di conoscenze tecniche, superata la quale si aveva accesso a un corso di formazione di 70 ore che si concludeva con un esame orale di poco più di mezz’ora sulle materie trattate nel corso stesso. Chi superava l’esame era promosso. Fu un caso esemplare di sistema di valutazione indiretta.

Tutto questo per decidere se promuovere o no persone che la nostra Amministrazione conosceva nella maggior parte dei casi da almeno 15-20 anni. In termini motivazionali il messaggio era assai negativo: si diceva agli interessati che ciò che poteva determinare la loro promozione, non era la valutazione e l’apprezzamento del lavoro di tanti anni di servizio (l’hard work, come sono soliti dire gli americani), ma il superamento di una procedura formale che escludeva per principio tale

1 Per una ricostruzione dettagliata del passaggio dal sistema delle carriere all’ordinamento delle qualifiche funzionali introdotto dalla legge n. 312/1980 si può vedere C. D’Orta, Il pubblico impiego, Roma, La Nuova Italia Scientifica, 1989, pp. 103-124.

2 Questo potenziale fattore di demotivazione veniva già colto nella relazione della Corte dei Conti sul rendiconto generale dello Stato per l’esercizio 1980, nella parte dedicata all’impatto della menzionata legge n. 312/1980 (vol. I, p. 544-547). La Corte, peraltro, esprimeva un giudizio complessivamente positivo su uno degli elementi fondamentali di novità contenuti nella legge: “L’abolizione infine, in linea di massima, dei rapporti informativi e dei giudizi complessivi annuali fa giustizia di istituti ormai logori e contribuisce ad eliminare, insieme con le obiettive difficoltà di valutazioni omogenee in presenza di omogenee situazioni, motivi di tensione fra il personale” (p. 545).

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valutazione. Con quella procedura avvenne che persone assolutamente meritevoli e capaci furono bocciate.3

La costruzione dei modelli di competenze nell’Agenzia è stato il frutto di uno sforzo di elaborazione razionale, dietro il quale c’era però il sentimento di profonda frustrazione suscitato dall’esperienza del sistema di valutazione indiretta costituito dai corsi di riqualificazione. Se non si percepisce questo sentimento non si comprende tutto il seguito della storia.

In sintesi, i modelli di competenze sono stati concepiti nell’Agenzia come risposta ai problemi di validità che si riscontrano nel funzionamento dei sistemi di valutazione indiretta. Se ben costruiti, i modelli di competenze possono formare una base solida su cui fondare un sistema di valutazione diretta, volto cioè ad apprezzare gli effettivi meriti e le reali capacità delle persone, così come emergono ogni giorno sul posto di lavoro.

6. Le difficoltà del passaggio a un sistema di valutazione formale della prestazione lavorativa

Sfortunatamente, riconoscere il fallimento delle pratiche di valutazione del passato non garantisce affatto che le nuove pratiche avranno successo solo per il fatto che contrastano con quelle vecchie. Si tratta, purtroppo, di una considerazione spiacevole, ma vera, che non deve però sorprendere.

Fra le esperienze iniziatiche più comuni nelle pubbliche amministrazioni c'è quella del giovane impiegato neoassunto che, pieno di buona volontà, si butta a capofitto sulla pratica appena affidatagli dal dirigente, desideroso di sbrigarla al meglio e il più rapidamente possibile, e dopo un po’ scorge su di sé lo sguardo disincantato del funzionario anziano che gli dice sornione: "Ma chi te lo fa fare! Lavori o non lavori, lavori bene o lavori male, fa esattamente lo stesso, e te ne accorgerai a fine mese guardando il cedolino dello stipendio e confrontandolo con quello del collega che non ha fatto niente o ha comunque lavorato molto meno di te, e assai meno bene”.

A questa esperienza ne seguono molte altre, di segno analogo, che spiegano una fra le lamentele più ricorrenti tra gli impiegati pubblici: quella secondo cui l’amministrazione non valuta né il merito né

3 La situazione appena descritta con riguardo all’amministrazione finanziaria italiana presentava, verosimilmente, tratti emblematici riferibili alla generalità delle amministrazioni pubbliche in cui era stata abolita la carriera. E non bisogna credere che il problema fosse solo italiano. Per citare solo un caso, nel 1994 il Dipartimento di polizia di Chicago, dopo un blocco degli avanzamenti interni protrattosi per quasi 10 anni, decise di bandire due concorsi (uno a sergente e l’altro a tenente) per rispondere alle aspettative di carriera del proprio personale. Anche in questo caso, dunque, si decise di mettere da parte il sistema delle promozioni. Venne dato incarico a una società di consulenza di progettare le prove dei concorsi, il cui esito diede però luogo ad aspre controversie, poiché fra i candidati che superarono le prove concorsuali le minoranze etniche, e in particolare quelle afroamericana e spagnola, risultarono largamente sottorappresentate, a dimostrazione – questa fu la critica principale – che le prove stesse erano unfair. Nelle cronache del Chicago Sun-Times dell’epoca si potevano leggere questi commenti: «Debra Rounds thinks that after 13 years as a Chicago cop and putting her life on the line, it is unfair that she will not be promoted to sergeant because of a written, multiple-choice exam. She is professional, and she's hurt. She's also mad. "I feel I am a hard-working, intelligent police officer who has helped a lot of people. Why would they judge me on the basis of how I take multiple-choice exams?" asked Rounds, who is African American. Her question is at the heart of the furor over the police department's sergeants exam, which resulted in only five minority officers being among the 114 promoted. Most of those rejected believe, as Rounds does, that their future should not be determined by a test which does not take performance into account [il corsivo è mio]. Rounds said she objected to multiple-choice questions that had several "right" answers, but one "best" one. "It's like the job sometimes," she said. "We're encouraged to use judgment, but then they penalize us if our judgment differs from theirs"» («Chicago Sun-Times», 27 luglio 1994, p.6). A parte naturalmente la questione etnica e razziale, del medesimo tenore furono i commenti dei nostri validi impiegati che non superarono i corsi di riqualificazione del Ministero delle Finanze. Gli atti del processo innescato dalla vicenda dei concorsi della polizia di Chicago – atti assai interessanti per gli spunti di approfondimento che offre la cross-examination dell’esperto (un noto studioso americano di psicologia industriale e di tecniche di valutazione, Gerald V. Barrett, che aveva diretto, come presidente della società di consulenza della Polizia di Chicago, il lavoro di elaborazione delle prove dei concorsi) – sono disponibili all’indirizzo: http://www.kenlaw.com/representative/discrimination.html#chicagopolice.

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le capacità delle persone. In effetti, da un’indagine di clima svoltasi nell’Agenzia nel 2005 è emerso che l’82% del nostro personale lamenta che l’apprezzamento delle effettive competenze professionali sarebbe contato fino ad oggi troppo poco nella carriera e nell’erogazione degli incentivi.

L’ingenuità in cui è facile cadere è che tali fatti dimostrerebbero come sia abbastanza agevole, purché lo si voglia, passare da una situazione di valutazioni dirette ma informali - quali sono quelle che tutti esprimono ogni giorno nei posti di lavoro, magari durante le pause caffè - a un sistema di valutazione diretta di tipo formale.

Quando però questo passaggio finalmente ha luogo, ci si accorge purtroppo ben presto che il livello delle lamentele non diminuisce affatto, ma ne muta solo la direzione. Se prima ci si doleva del fatto che non si valutava, ora ci si duole del fatto che si valuta male. Le lamentele prima tendevano a mettere in luce che l’assenza di valutazione determinava un deficit di motivazione al lavoro. Quando invece il sistema di valutazione esiste, le lamentele non cessano affatto, ma si spostano sul versante della percezione della correttezza e dell’equità della valutazione.

Non è quindi poi tanto strano che alla domanda: “Cos’è un sistema di valutazione professionale?” qualcuno possa rispondere con una battuta: “E’ quella cosa che tutte o quasi tutte le persone che lavorano in un’organizzazione desiderano ardentemente quando non c’è. E di cui tutti o quasi tutti si lamentano amaramente quando c’è.”.

Occorre prendere perciò coscienza del fatto che la valutazione professionale sul campo rappresenta una sorta di “capo delle tempeste”, dove, se non ci si attrezza bene, il naufragio è pressoché sicuro. Attrezzarsi bene significa accingersi alla navigazione con una buona bussola. Nel nostro caso la bussola di cui si ha bisogno è quella di una buona teoria della valutazione professionale.

7. Cenni essenziali di teoria della valutazione professionale

“Questo è vero in teoria ma non in pratica!”. E’ un diffusissimo luogo comune di assai dubbia saggezza. Aveva invece ragione Kurt Lewin, il grande studioso di psicologia sociale, quando diceva: "There is Nothing So Practical as a Good Theory" (“Non c’è niente di più pratico di una buona teoria”).

I rudimenti essenziali di una teoria della valutazione professionale abbiamo cercato di compendiarli in un volume pubblicato dall’Agenzia due anni fa in collaborazione con il Formez. Il titolo è: “Costruzione e uso di un modello di competenze. Il caso Agenzia delle Entrate”. Vorrebbe essere una sorta di cassetta degli strumenti per la progettazione e la realizzazione di modelli di competenze e di sistemi di valutazione.4

Nella figura riportata nella pagina seguente vengono rappresentati i concetti cardine di una teoria della valutazione professionale. Questi concetti verranno illustrati più avanti.

4 Al volume è allegata la traduzione in italiano di un articolo che viene generalmente considerato l’atto di nascita del cosiddetto movimento delle competenze. L’articolo è di David McClelland, tra i più insigni psicologi del ‘900, la cui fama è legata soprattutto ai suoi studi sulle dinamiche motivazionali, che McClelland ha in particolare indagato nel mondo delle organizzazioni e nel campo del management. L’articolo che l’Agenzia ha tradotto, corredandolo anche di brevi note di commento, è citatissimo per la sua rilevanza, e verosimilmente - come tutte le opere molto citate - assai poco letto. S’intitola “Testing for competence rather than ‘intelligence’ ”. La proposta sviluppata in quell’articolo è di sostituire ai tradizionali test di abilità intellettiva nuovi test volti a verificare il possesso di determinati tipi di caratteristiche personali (le competencies, appunto), che consentirebbero realmente, secondo lo studioso americano, di prevedere la riuscita nel lavoro.

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Valutazione formale

Valutazione informale

Valutazione: c’è sempre e comunque

Non valutazione

Opzione impossibile

Valutazione diretta

Punto critico:

Oggettività Univocità dei criteri

di valutazione

Omogeneità nella loro applicazione

Valutazione indirettaPunto critico:

Validità

Nozioni basilari sulla valutazione professionale

Validità e oggettività (affidabilità)

8. I concetti di validità e oggettività

I due concetti fondamentali che occorre avere ben chiari, quando si affronta il tema della valutazione professionale, sono quelli della validità e dell’oggettività. Si tratta di due nozioni tecniche che riguardano qualsiasi genere di criterio di misurazione o di valutazione di una qualsivoglia grandezza.5

Semplificando molto, un criterio di valutazione professionale è valido se è in grado di cogliere nella prestazione di un soggetto le conoscenze e le capacità che ci interessa riconoscere e valorizzare, perché sono quelle che servono per svolgere bene un determinato lavoro.

I criteri di valutazione su cui si basava la riqualificazione non erano in questo senso validi (o non lo erano, comunque, in modo adeguato) perché non erano di per sé idonei a intercettare l’effettiva bravura professionale di una persona, come dimostrava il fatto che potevano perfino determinare la bocciatura di chi aveva invece dimostrato ampiamente sul campo di essere bravo, e magari bravissimo per un’intera vita lavorativa (che è qualcosa di più dei 20-30 minuti di un esame orale, nel quale l’ansia e la forte preoccupazione di “fare una brutta figura” possono giocare un brutto tiro e condizionare negativamente proprio la prestazione dei più bravi, quelli “con i capelli grigi”, perché sono appunto loro che possono maggiormente temere per la propria reputazione).

Si dice, invece, che un criterio di valutazione professionale è oggettivo se, per come è stato definito, possiamo fare ragionevole affidamento sul fatto che chiunque utilizzi quel criterio darà lo stesso giudizio dei meriti e delle capacità di una persona. In sostanza, un criterio di giudizio è oggettivo se è formulato in maniera tale che risulti, nella sua concreta applicazione, non influenzabile (o almeno poco influenzabile) dalla soggettività dei suoi utilizzatori (siano essi i valutati o i valutatori).

La parola “oggettivo” ha più significati, che vanno tenuti ben distinti, se si vogliono evitare fraintendimenti. Nel linguaggio ordinario il termine “oggettivo” è spesso sinonimo di “vero”. Questo accade quando si parla di fatti o stati di cose, come ad esempio nella frase: “E’ un fatto oggettivo che ieri in città è nevicato”, dove “oggettivo” significa “indubitabilmente vero”. La parola

5 Per i nostri fini, le nozioni di “criterio di misurazione” e di “criterio di valutazione” possono qui considerarsi equivalenti, anche se a rigore non lo sarebbero. Si può vedere in proposito A. Visalberghi, Misurazione e valutazione nel processo educativo, Milano, Edizioni di Comunità, 1955.

FIG. 1

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“oggettivo” può però essere utilizzata invece che con riguardo a enunciati riferiti a cose, con riguardo a enunciati relativi a criteri di misurazione di questa o quella cosa. In questo secondo caso, non avrebbe letteralmente senso intendere la parola “oggettivo” come sinonimo di “vero”. Insomma, occorre avere ben chiara la distinzione fra la misurazione di un determinato oggetto e il criterio di misurazione impiegato. Se dico che quel tavolo è lungo 1,5 metri sto formulando una misurazione, e di questa posso ben dire se è vera (“oggettiva” nel senso sopra precisato) oppure falsa. Ma quando ci si riferisce al criterio di misurazione impiegato, parlare in termini di “vero” o “falso” sarebbe un evidente nonsense (quale sarebbe la cosa con cui dovrei confrontare il criterio per sostenere che non vi corrisponde e che dunque è falso?). Perciò, nelle asserzioni concernenti “criteri di misurazione” o di “valutazione”, “oggettivo” significa “non soggettivo” o “intersoggettivo”. Questo vuole dire che la misurazione ottenibile con l’utilizzo di quel criterio non dipende dalla soggettività di chi lo impiega: chiunque utilizzi quel dato criterio otterrà sempre la stessa misurazione (nell’assunto, ovviamente, che l’oggetto resti sempre quello), quale che sia poi il valore di verità di quella misurazione. Così, per fare un esempio, un test volto a valutare il grado di conoscenza che un candidato ha, poniamo, della geografia (un test è appunto un criterio di misurazione) si dice “oggettivo” non perché si possa ritenere che chi superi il test conosce veramente la geografia (questo aspetto si riferisce semmai all’altra questione, a quella cioè della validità del criterio di misurazione), ma perché i correttori del test attribuiranno a tutti, a parità di prestazione, lo stesso identico punteggio. Così come utilizzata in questo articolo, la nozione di oggettività equivale quindi a quelle di “affidabilità” o “attendibilità” comunemente impiegate nella teoria della valutazione. In estrema sintesi, le parole “oggettivo” e “oggettività” mutano di senso a seconda che siano riferite al concetto di “criterio di misurazione” o a quello di “misurazione” (o “misura”) ricavata dall’applicazione del criterio.

E’ opportuno aggiungere che le nozioni di “validità” e “oggettività” rispondono alla logica del continuum e non a quella della discretezza. Un criterio di valutazione può essere valido o invalido, così come può essere più o meno valido, da un grado zero a un grado massimo, e lo stesso può dirsi per il termine “oggettivo”. Per riprendere l’esempio appena fatto, si può immaginare un test di verifica della conoscenza della geografia consistente nel mettere di fronte al candidato una cartina muta, chiedendogli di indicare dove siano ubicate determinate città. Se si trattasse della cartina muta dell’Italia, e alla domanda: “dove si trova Trieste?”, il candidato tracciasse un cerchietto in una zona della Liguria, non potrebbe sorgere alcun dubbio fra i valutatori circa il fatto che la risposta è sbagliata. Ma se il candidato avesse indicato all’incirca un punto della zona costiera del Friuli-Venezia Giulia, qualcuno dei valutatori avrebbe potuto ritenere che il punto indicato fosse Monfalcone piuttosto che Trieste. Per rendere più oggettivo il test, si sarebbe potuto allora perfezionarlo, disegnando nella cartina muta una serie di cerchietti, uno per ciascuna delle località oggetto della domande da porre al candidato. Analogamente, un modello di competenze potrà essere più o meno oggettivo, partendo da un grado zero di oggettività, costituito da una nozione inarticolata di “bravura” professionale (destinata ad essere materia di controversie senza fine fra valutatori diversi e fra il valutatore e il valutato) a un grado ideale massimo ove non esista alcuna possibilità di controversia. Fra questi due poli, è concepibile una vasta gradazione, che, in forza della maggiore o minore analiticità del modello, limiti più o meno l’eventualità di controversie. La scelta del grado di analiticità nella definizione operativa delle competenze dipende, a sua volta, dal trade-off fra l’esigenza dell’oggettività e altre possibili esigenze, quali, in particolare, quelle della comprensibilità e semplicità di gestione del modello. Nel decidere sul trade-off, bisogna inoltre tener conto di due variabili. In generale, il modello può essere tanto più sintetico quanto maggiore è il grado di accordo spontaneo tra gli interessati e minore è l’eventualità di recriminazioni sotto il profilo dell’equità. E’ realistico ritenere che entrambe queste condizioni si possano tanto meno soddisfare, quanto più grande è la platea dei valutati e dei valutatori.

A differenza dei sistemi di valutazione indiretta, i sistemi di valutazione sul campo sono (almeno potenzialmente) forti sotto l’aspetto della validità, ma critici (cioè potenzialmente deboli) sotto

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l’aspetto dell’oggettività. Le difficoltà cui vanno incontro sono quelle dell’univocità dei criteri di valutazione e dell’omogeneità nella loro applicazione.

L’aspetto dell’oggettività dei criteri di valutazione è particolarmente critico in contesti (quali potrebbero essere quelli tipici delle pubbliche amministrazioni) nei quali:

i valutatori non sono sufficientemente riconosciuti come soggetti integri e imparziali (nelle valutazioni sul campo vi sono margini inevitabili di soggettività, che possono essere adeguatamente compensati solo se la soggettività del valutatore è percepita “al di sopra di ogni sospetto”);

l’equità procedurale è molto sentita (in altri termini, è un “nervo scoperto” dell’organizzazione);

i potenziali costi d’influenza sugli effetti delle valutazioni sono elevati (possono cioè esservi marcate interferenze sui processi decisionali in cui si inseriscono le valutazioni del management).

Si tratta quindi di arrivare a un trade-off – sicuramente difficile - fra validità e oggettività. In estrema sintesi il problema è mettere a punto criteri di valutazione diretta che, oltre a soddisfare il requisito della validità, siano anche sufficientemente solidi e affidabili sotto l’aspetto dell’oggettività.

La costruzione di modelli di competenze intende dare risposta a tale questione. Lo scopo cui mira è cioè quello di consentire una valutazione oggettiva di reali meriti e capacità. A sua volta, tale valutazione può avere più finalità, quali, in particolare, la selezione, la retribuzione, la formazione e la carriera.

Abbiamo già accennato alle tre aree di applicazione dei modelli di competenze nell’Agenzia delle Entrate. La prima riguarda la valutazione della dirigenza ai fini della corresponsione della retribuzione di risultato e dell’affidamento degli incarichi. La seconda riguarda l’attività valutativa mirata alla selezione dei nuovi funzionari. La terza, infine, concerne la valutazione dei funzionari per il conferimento di incarichi organizzativi e la verifica di come siano stati svolti, al duplice fine della corresponsione della retribuzione di risultato e dell’eventuale rinnovo degli incarichi.

Nel seguito di questo articolo vedremo come sono stati costruiti nell’Agenzia i modelli di competenze, quali problemi sono stati rilevati nella loro applicazione e quali sono, infine, le lezioni che è stato possibile ricavare dalle esperienze fin qui maturate.

9. Costruzione dei modelli di competenze nell’Agenzia

Il modello di competenze dei dirigenti

Cronologicamente, il primo modello di competenze elaborato nell’Agenzia riguarda il sistema di valutazione dei dirigenti. Prima della nascita dell’Agenzia (avvenuta all’inizio del 2001), la prestazione di lavoro dei nostri dirigenti era valutata in base a un sistema di valutazione (denominato “SIVAD”) che era applicato a tutti i dirigenti dell’allora Ministero delle Finanze.6

6 Così come prescritto dalle disposizioni di legge e dalle norme contrattuali vigenti, i sistemi di valutazione dei dirigenti delle amministrazioni pubbliche prendono in esame sia i risultati che le competenze. Le ragioni che motivano la valutazione delle competenze, oltre che dei risultati, possono essere così sinteticamente illustrate: “quanto più ci si allontana dalle caratteristiche e dagli attributi degli attori (le competenze), tanto meno ciò che viene valutato può essere attribuito in modo deterministico all’attore, specialmente in attività soggette a incertezza.” (A. Grandori, Organizzazione e comportamento economico, Bologna, Il Mulino, 2001, p. 341). In sostanza, i risultati che un dirigente raggiunge sono quelli dell’intero ufficio che egli dirige, sicché, nel loro conseguimento, il contributo dei collaboratori è determinante. E’ appunto la valutazione delle competenze che dovrebbe consentire di apprezzare l’effettivo valore aggiunto apportato dal dirigente nel processo di attuazione degli obiettivi del suo ufficio. Nell’Agenzia delle Entrate tutti i valutatori danno per scontato che la reale qualità di un dirigente si coglie fondamentalmente attraverso la

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9

In questo sistema la valutazione delle competenze era assai poco strutturata7, e quindi troppo soggettiva. Rientrava nella cosiddetta “valutazione della qualità della prestazione”.

Nel corso di una indagine di clima effettuata nel 2000, un anno prima della nascita dell’Agenzia, era emerso che i nostri dirigenti “si riconoscevano poco” in questo sistema.

La critica principale era questa: benché pretendesse di valutarle, il sistema non riconosceva in realtà le competenze dei dirigenti, come dimostrava il fatto che le delineava con espressioni assolutamente vaghe e generiche, suscettibili di dare luogo ad apprezzamenti del tutto arbitrari, con buona pace dei tanto decantati principi di equità e oggettività della valutazione.

Nella scheda di valutazione sotto riportata, nella quale si chiedeva semplicemente al valutatore di barrare una casella da E (grado minimo) ad A (grado massimo) riguardo a una caratteristica non meglio determinata del dirigente, chiamata “Qualità dell’apporto personale specifico”, il punto critico cui si è appena fatto cenno balza agli occhi:

UNITA' ORGANIZZATIVA: Pag. 5 di 7

COGNOME E NOME DEL VALUTATO:

VALUTAZIONE DELLA QUALITA' DELLA PRESTAZIONE

LIVELLO DELLA PRESTAZIONE CAPACITA' MANAGERIALI /

COMPORTAMENTI ORGANIZZATIVI

Peso % (a)

A B C D E

Punteggio relativo alla fascia (b)

Punteggio pesato (a x b)

Qualità dell’apporto personale specifico. A B C D E

SISTEMA SIVAD

Il cambiamento di fondo apportato al sistema di valutazione dei dirigenti dell’Agenzia consiste appunto nella valutazione strutturata, e quindi più oggettiva, delle competenze, sulla base di un modello di competenze che non esisteva nel SIVAD e che è stato elaborato nel corso del 2001, durante il primo anno di funzionamento dell’Agenzia.

Costruzione del modello SIRIO

La costruzione del modello delle competenze dei dirigenti dell’Agenzia (denominato “SIRIO”) è stata assai parsimoniosa quanto ad assunti teorici di base. Il modello è sostanzialmente neutro, vale a dire non prende partito rispetto alla questione se i comportamenti organizzativi dipendano da

valutazione delle competenze. Tutto ciò giustifica la rilevanza che assume la costruzione di un buon modello di competenze.

7 Dal brano che segue emerge nitido il nesso fra “valutazione strutturata” e oggettività della valutazione: «Una situazione può essere definita strutturata se ha un preciso significato per tutti soggetti; una situazione non strutturata presenta così poche indicazioni, o è talmente poco configurata, che il soggetto può attribuirle pressoché qualsiasi significato. Un suono insolito che si oda nella notte non è strutturato: può essere il vento, un ladro, un gatto e l'interpretazione che ne facciamo è fortemente influenzata dai nostri interessi, dalle nostre paure consce e inconsce, e, chiaramente, dalla conoscenza che abbiamo dell'evento. In una situazione strutturata il soggetto sa con precisione che cosa ci si aspetta da lui e come deve comportarsi. Nella situazione non strutturata, il soggetto si basa solo sulle proprie impressioni; più la situazione è ambigua, e più esiste la possibilità che il soggetto interpreti sia lo stimolo che il compito. Come esempio di situazione estremamente non strutturata, possiamo citare quella ricerca in cui il ricercatore lasciò semplicemente il soggetto in una stanza piena di materiali e strumenti per attività artistiche di ogni genere, con l'unica istruzione di "puoi fare tutto quello che preferisci con queste cose ", poi valutò sia il tipo di attività del soggetto sia i risultati di tale attività. » (L.J. Cronbach, I test psicologici, trad. it. Firenze, Giunti Barbera, 1977, vol. II, p. 254).

FIG. 2

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variabili di personalità ad essi soggiacenti o piuttosto da situazioni ambientali o da costrutti cognitivi personali o da processi di apprendimento e di condizionamento oppure, come potrebbe sembrare più verosimile, da una complessa interazione di diversi fattori (com’è noto, dietro a ognuna di queste opzioni esiste, nella letteratura scientifica, una corposa teoria).8 Quel che conta, ai nostri fini, è che i comportamenti organizzativi costituiscono senza alcun dubbio una componente fondamentale della prestazione lavorativa, e questo già basterebbe per giustificarne il riconoscimento e la valorizzazione (se non ci fossero pure disposizioni di legge e norme contrattuali che obbligassero a farlo). Un modello di competenze serve appunto a riconoscere e a valorizzare questa componente della prestazione di lavoro, attraverso una sua valutazione quanto più oggettiva possibile.

L’assunto di partenza è stato semplicemente questo: un modello di competenze non ha lo scopo di introdurre in una organizzazione le valutazioni professionali. Queste valutazioni ci sono già da sempre in qualunque organizzazione e il postulato di base è che esse non siano insensate, per cui ciò che va fatto è tentare, anzitutto, di esplicitare, con la maggiore precisione possibile, la varietà dei significati che esse assumono per l’organizzazione.

Dal radicamento su tale assunto basilare – la valutazione professionale non va introdotta in una organizzazione: essa c’è già da sempre - prende le mosse tutta l’operazione che verrà di seguito descritta. Quell’assunto è come la roccia di uno scoglio cui aderiscono saldamente le patelle dei nostri mari (ecco il senso dell’immagine riprodotta prima nella figura 1).

Fondamentalmente, la costruzione del modello è consistita in una elaborazione critica dei giudizi di bravura o di mediocrità professionale che ricorrono continuamente nel linguaggio quotidiano dentro i nostri uffici. Questi giudizi sono normalmente incapsulati in espressioni linguistiche vaghe e impressionistiche (“è in gamba”, “ci sa fare”, “è una frana”, ecc.) di uso comune sui posti di lavoro e nelle quali è in qualche modo sedimentata la “conoscenza tacita” collettiva riguardo alle diversità fra i modi di agire del bravo dirigente e di quello mediocre.

L’idea di fondo è stata perciò questa: scavando nel linguaggio di questa conoscenza tacita e vagliando la plausibilità delle relazioni causali che essa implicitamente istituisce fra determinati tipi di azione da parte dei dirigenti e le loro ricadute funzionali e organizzative, è possibile arrivare a discernere, con sufficiente nitidezza, le differenze caratteristiche fra la buona e la cattiva performance.

Ogni giorno ognuno di noi dice: “quel dirigente è bravo” o “quel dirigente è mediocre”. Partendo dall’assunto della sensatezza dei nostri giudizi informali (altrimenti, riecheggiando una celebre frase di Shakespeare, dovremmo concludere che la storia di un’organizzazione è una storia di pazzi narrata da idioti), la domanda cruciale che ha guidato la ricerca grazie alla quale ha preso forma il modello di competenze SIRIO è stata questa: “Quando diciamo che un nostro dirigente è bravo oppure che è mediocre cosa vogliamo esattamente dire?”

Scavando nel vasto repertorio linguistico riferibile alla dimensione professionale (in italiano si possono contare in questa materia almeno 1.100 aggettivi, cui si aggiunge poi un campionario di sostantivi e di frasi idiomatiche difficilmente computabile nella sua estensione), abbiamo anzitutto cercato di declinare le due parole di base della ricerca (“bravo” e “mediocre”) in un numero molto ristretto di aggettivi (es. “onesto”, “efficiente”, ecc.) identificabili come ipotetici “capifila” di tanti altri aggettivi e sostantivi o anche di frasi idiomatiche ricorrenti nei nostri uffici e riconducibili a quei termini capifila per affinità di significato.

In questo modo si è giunti a una prima enucleazione delle diverse “famiglie di accezioni” da considerare rilevanti per la nostra organizzazione. Rilevanti, nel senso che ai comportamenti raggruppabili in quelle famiglie viene attribuito nei nostri uffici un loro distinto e importante effetto 8 Per una sintesi molto chiara ed efficace di queste nozioni, si può vedere J.M. Darley, S. Glucksberg e R.A. Kinchla, Psicologia II, trad. it. Bologna, Il Mulino, 1993, pp. 91-156.

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causale in termini di buona o cattiva performance. In via di ipotesi, ognuna di queste famiglie di accezioni poteva costituire, concettualmente, una competenza.

Sono state discusse, con la tecnica degli expert panel, diverse ipotesi di raggruppamento, alla luce anche dei raggruppamenti desumibili dai modelli generali di competenze presenti in letteratura.

Il raggruppamento finale è stato frutto di un bilanciamento tra due diversi principi:

il principio di completezza che esige di dare evidenza a tutte le tipologie di comportamenti che, come già detto, hanno un loro distinto e importante effetto causale in termini di buona o cattiva performance;

il principio di economicità, che obbliga a contenere al minimo possibile il numero delle competenze del modello, nella considerazione che, se queste sono troppo numerose, il modello stesso è difficilmente utilizzabile sia dai valutati (il modello delle competenze può fungere da “guida dei comportamenti” solo se non appare complicato), sia dai valutatori (moltiplicandosi, con il numero delle competenze, le categorie di giudizio, l’attività di classificazione dei comportamenti concreti sotto le diverse competenze finisce per essere eccessivamente laboriosa e contribuisce a demotivare il valutatore nel suo delicato lavoro, rendendolo troppo faticoso).

Nel prospetto seguente sono riportati alcuni esempi di traslazione dal linguaggio ordinario alla mappa delle competenze.

Lessico Competenza

E’ intelligente, creativo, ha idee, ha una mente aperta. Al contrario: “E’ stupido”, “E’ un cretino”, “E’ un testone”, “Ragiona come un automa”, “Non capisce niente”. Pensiero ideativo

“Sa il fatto suo”. E’ molto preparato. Studia e approfondisce le cose. Non è geloso del proprio sapere e della propria esperienza. E’ propenso a farne patrimonio comune.

Sviluppo e trasferimento del sapere

Energico, tenace, volitivo, fattivo, esigente, efficiente, combattivo, determinato, grintoso, dinamico, è sempre in prima linea, sta in officina e si sporca le mani (non dice “armiamoci e partite”, non si limita a “dare direttive” dalla torre d’avorio della sua stanza in cui sta ben chiuso). Tensione al risultato

Intraprendente, proattivo Iniziativa

Disponibile, “tiene sempre la porta aperta”, ascolta senza preconcetti le proposte di tutti Orientamento all’altro Sa convincere, riesce sempre a trovare gli argomenti giusti e a spuntarla anche quando tutti erano all’inizio contro. Persuasività

Duttile. “Non è ostinato come uno stupido burocrate”. Non crede che cambiare sia necessariamente sinonimo di instabilità. Al contrario: “Quando gli chiedi di cambiare qualcosa, gli viene l’orticaria”. Flessibilità

Lessico Competenza

E’ onesto e ha spirito di sacrificio (“quando lo cerchi lo trovi sempre”). Rispetta le regole. E’ affidabile. Non antepone i propri interessi, pur legittimi, a quelli dell’ufficio. Integrità e coerenza

Padrone di sé, avveduto, ponderato nei giudizi, dotato di buon equilibrio emotivo, ha tenuta psichica, non perde ad ogni piè sospinto le staffe, sa mantenere la calma, non è un isterico, non è un pazzo. Al contrario: “E’ matto come un cavallo”, “E’ una persona impossibile”, “E’ terribile averci a che fare”.

Sicurezza di sé ed equilibrio

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Delega responsabilità con l’intento di far crescere i collaboratori e non per sgravarsi dalle proprie responsabilità. Segue sempre i collaboratori, senza soffocarli. Non li abbandona. “Lascia le briglie sciolte”, ma non allenta la presa. Empowerment

Rispetta e fa rispettare le regole, rigoroso, un osso duro, schiena dritta, fermo, tosto, determinato, inflessibile, pieno di grinta. “Ha gli attributi”. Assertività

Autorevole (diverso da “autoritario”), trascinatore, ha carisma. Che tipo di seguito ha? Il leader si riconosce dalla tipologia dei suoi followers: le persone al suo seguito sono persone bravi e competenti o galoppini arrivisti? Un vero leader non cerca il consenso ma lo genera, ottiene il massimo di seguito con il minimo di comandi. Non impone l’autorità: gli viene riconosciuta Team leadership

La figura seguente sintetizza il processo di costruzione del modello delle competenze SIRIO con l’immagine del prisma ottico attraverso cui la luce bianca indistinta si scompone nello spettro dei colori dell’arcobaleno.

FIG. 3

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Graficamente, il modello SIRIO si presenta con un’immagine simile a quella di una margherita:

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Team LeadershipEmpowerment e

sviluppo dei collaboratori

Assertività

Dinamismo realizzativo

Iniziativa Tensione al risultato

Leadership

Sicurezza di sé ed equilibrio

Integrità e coerenza

PersuasivitàOrientamento

all’altroFlessibilità

Dinamismo relazionale

Dinamismo cognitivo

Pensiero ideativoSviluppo e

trasferimento del sapere

Il modello SIRIO delle competenze Il modello SIRIO delle competenze richieste ai dirigenti dell’Agenziarichieste ai dirigenti dell’Agenzia

Dominio di sé

Il Dizionario delle competenze dei dirigenti

Questo modello, costituito da dodici competenze raggruppate in cinque cluster, si sviluppa in un Dizionario delle competenze, nel quale ognuna delle sue voci riguarda una competenza del modello stesso. Il Dizionario delle competenze rappresenta, per i valutatori e i valutati, lo “strumento di misurazione” delle competenze. Questa è la struttura di ogni voce del Dizionario:

definizione operativa della competenza. La definizione fornisce le chiavi di lettura fondamentali dei comportamenti “sussumibili”, come direbbero i giuristi, sotto quella competenza;

scala di intensità della competenza graduata secondo cinque livelli (non adeguato, parzialmente adeguato, adeguato, più che adeguato, eccellente), attraverso l’ancoraggio a indicatori di azione analitici, formulati nel modo più preciso possibile, cercando scrupolosamente di evitare locuzioni vaghe e sfuggenti.

La scala di intensità delle competenze presenta due caratteristiche salienti:

indicatori “forti” del livello di competenza “adeguato” (nell’impostazione del Dizionario, adeguatezza non è la stretta “sufficienza scolastica”, ma significa: “essere all’altezza del compito”);

al livello più alto sono descritti indicatori di tipi di comportamenti che esprimono autentica eccellenza. E’ semplicemente una questione di serietà ritenere che gli indicatori di eccellenza debbano avere un grado di selettività tale da potersi normalmente riferire a un numero piuttosto ristretto delle persone che lavorano in un’organizzazione. Il Dizionario assume che un’eccellenza di massa è una contraddizione in termini.

La parte più difficile e impegnativa del lavoro di elaborazione del modello è stata la messa a punto degli indicatori delle singole competenze descritte nel Dizionario. Le descrizioni non dovevano essere né troppo dettagliate, né generiche. Nel primo caso sarebbe stato problematico, se non impossibile, applicarle alla varietà irriducibile dei singoli casi concreti. Nel secondo caso, il rischio

FIG. 4

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sarebbe stato che ogni valutatore poteva interpretare le descrizioni a suo modo, vanificando l’esigenza dell’univocità dei giudizi.

Ecco un esempio di indicatori riferiti al grado inferiore (non adeguato) della competenza “Dinamismo intellettivo”.

Argomentare non è il suo forte: La tecnica che utilizza per identificare i problemi, articolarli e risolverli si fonda quasi esclusivamente sul ricorso alla tradizione e al “precedente”, e laddove il precedente non basta o non è utile, dà l’impressione di essere disorientato e di non avere più risorse. Difficilmente riesce a percepire i “falsi problemi”, specie quando s’impongono alla riflessione per abitudine o per tradizione, e quanto ai veri problemi raramente riesce a darne una prospettazione, se non originale, almeno utile a facilitarne la soluzione. Coglie con difficoltà le implicazioni concettuali delle questioni che affronta e stenta ad inserirle in un quadro esplicativo più ampio. Tende a smarrirsi nei dettagli, senza riuscire a mettere a fuoco ordinatamente gli elementi essenziali di un problema. Il suo modo di pensare, di argomentare, di inquadrare i problemi e di trovare soluzioni difetta di “visuale strategica”. Anche se tratta da lungo tempo le materie di cui si occupa, l’approccio scarsamente critico con il quale le affronta spiega perché dia in genere la percezione di muoversi al loro interno un po’ spaesato, come rivelano l’incongruenza non infrequente delle decisioni che adotta e l’insufficiente accuratezza tecnica dei prodotti del suo ufficio, che necessitano abbastanza spesso di estesi “ricicli di lavorazione” sotto il profilo qualitativo.

Sotto l’aspetto della progettazione, il modello delle competenze dei dirigenti dell’Agenzia ha avuto riconoscimenti autorevoli.

Nella Relazione conclusiva del gennaio 2008 prodotta dalla Commissione per lo studio e l’elaborazione di linee guida per un sistema di valutazione del personale delle pubbliche amministrazioni (la Commissione era stata nominata dal Ministro della Funzione Pubblica ed era composta da studiosi come Bruno Dente, Federico Butera e Carlo Dell’Aringa), si poteva leggere questo passaggio:

Alcuni casi, come quello, ad esempio, dell’Agenzia delle Entrate, possono a buon diritto essere considerati come buone pratiche di livello internazionale, e comunque dall’insieme di queste esperienze è certamente possibile trarre utili lezioni sia per quanto riguarda il contenuto della valutazione dei dirigenti, sia per quanto attiene al processo attraverso il quale esso può venir introdotto e presidiato.

Favorevoli sono anche i giudizi espressi in proposito nell’ultima Relazione al Parlamento sullo stato della Pubblica Amministrazione, presentata dal Ministro per la pubblica Amministrazione e l’innovazione il 29 settembre 2008. La Relazione, dopo aver rilevato che “la diffusione dei sistemi di valutazione della performance nella pubblica amministrazione risulta piuttosto articolata”, osserva quanto segue (p. 235): “In particolare, la metodologia introdotta dall’Agenzia delle Entrate può considerarsi all’avanguardia, sia dal punto di vista del contenuto della valutazione, sia per quanto concerne l’intero processo valutativo”.

Il modello delle competenze dei funzionari

L’altro modello di competenze elaborato dall’Agenzia riguarda, come si è accennato all’inizio, i funzionari. Il modello è denominato ANTARES ed è stato costruito con tecniche analoghe a quelle del modello dei dirigenti, mettendo a frutto l’esperienza nel frattempo accumulata. Il modello comprende undici competenze, raggruppate in quattro cluster. Anche qui è stato messo a punto un Dizionario delle competenze che è riportato nel volume pubblicato nel 2007, precedentemente citato. Rispetto al Dizionario SIRIO, quello ANTARES ha una significativa novità: è corredato di esempi concreti, tratti dall’esperienza quotidiana degli uffici, cui tutti gli interessati (valutatori e valutati) possono fare richiamo per la graduazione dei livelli di competenza.

Il modello ANTARES ha una doppia impronta, poiché non riguarda solo i comportamenti organizzativi, ma anche le conoscenze e le capacità più strettamente professionali. La connotazione professionale del modello è data dalla rilevanza attribuita all’insieme di conoscenze e abilità

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classificate nel modello stesso come “dinamismo intellettivo”. Questo insieme di caratteristiche non è rilevato attraverso descrittori comportamentali (com’è previsto per le altre competenze), ma con appositi indicatori di qualità dell’output prodotto. Particolarmente accurata è nel Dizionario la descrizione del problem-solving, che è una dote fondamentale per un professional.

La figura che descrive il modello vuole appunto rappresentarne la caratteristica fondamentale, data dall’integrazione fra le competenze professionali e quelle più propriamente organizzative (l’icona cinese con cui viene rappresentato il modello esprime, com’è noto, una simbolica di integrazione).

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Il modello ANTARES delle competenze Il modello ANTARES delle competenze richieste ai funzionari dell’Agenziarichieste ai funzionari dell’Agenzia

Applicazioni del modello: la selezione dei nuovi funzionari

Per la selezione dei suoi funzionari, l’Agenzia ha adottato nuove procedure basate su un mix integrato di valutazione indiretta e valutazione diretta. Tali procedure prevedono la frequenza di un tirocinio o un periodo di formazione e lavoro.

Limitandoci, per brevità di esposizione, al reclutamento tramite tirocinio, i candidati affrontano anzitutto un test di conoscenze tecniche e poi uno di tipo attitudinale (i due test possono considerarsi modalità di valutazione indiretta). Superate queste due prime prove selettive, si accede a un tirocinio di 6 mesi, ove si valutano direttamente sul campo le abilità di problem-solving dei candidati e la loro capacità di interagire positivamente con i colleghi nel raggiungimento di obiettivi comuni. Al tirocinio segue un colloquio finale, l’esito del quale dipende dalle risposte fornite dai candidati nel corso del colloquio stesso e dalla valutazione del periodo di tirocinio (nel colloquio c’è quindi un bilanciamento di valutazione indiretta e di valutazione diretta).

L’impatto delle nuove assunzioni è assai forte. Dal 2002 ad oggi sono stati assunti oltre 7000 funzionari e si prevede l’assunzione di altre 1700 unità entro il 2011. Se si considera che la forza lavoro dell’Agenzia è costituita da circa 35.000 impiegati e che poco più di 15.000 sono i funzionari dell’area di inquadramento più elevata (area III) e se si tiene inoltre conto che dal 2001 ad oggi sono cessati dal servizio oltre 10.000 persone, appare chiaro che l’utilizzo del modello delle competenze dei funzionari s’inserisce in un processo di vasto ricambio generazionale. Nel 2011, nelle nove regioni del centro-nord di maggiore rilevanza fiscale i funzionari assunti dal 2002 in poi saranno il 56% di tutti i funzionari in servizio in quelle regioni.

Oltre a rendere possibile una migliore selezione, il periodo di applicazione sul campo durante il tirocinio ha un valore aggiunto molto significativo: familiarizzare i neofunzionari con il modello

FIG. 5

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delle competenze e con i concetti e le pratiche dei sistemi di valutazione professionale, cioè con la cultura stessa della valutazione.

Applicazioni del modello: il conferimento e la remunerazione degli incarichi organizzativi

Come accennato all’inizio, il modello delle competenze dei funzionari si applica dal 2008 nelle procedure di valutazione per il conferimento di incarichi organizzativi e per la verifica del loro svolgimento, con riguardo sia alla corresponsione della retribuzione di risultato che all’eventuale rinnovo degli incarichi.

Anche in questo caso l’impatto del modello è stato notevole. Sono stati oltre 5.600 i funzionari che hanno partecipato alle procedure per il conferimento di poco più di 2000 incarichi, riguardanti principalmente le funzioni di capo area di uffici e di capo di team di funzionari addetti ad attività di controllo fiscale.

Per esigenze di semplicità non sono state valutate tutte le undici competenze del modello ANTARES, ma solo quattro: problem-solving, tensione al risultato, iniziativa e team building (capacità di organizzare e sviluppare un team).

Queste competenze sono tutte descritte analiticamente nel CCNI dell’Agenzia. Particolarmente accurata è la descrizione del problem-solving, fondamentale, come si è già osservato, per un professional.

10. Lezioni apprese

L’esperienza maturata in questi anni di costruzione e applicazione dei modelli di competenze nell’Agenzia si può sintetizzare in dieci lezioni, da cui si possono ricavare, nel loro insieme, gli ingredienti di una “cultura della valutazione”, che è cosa molto diversa dall’idea ingenua secondo cui progettare e realizzare un sistema di valutazione consisterebbe fondamentalmente nel predisporre schede di valutazione, farle girare e chiedere alla gente di compilarle.

Lezione n. 1. La costruzione di un modello di competenze richiede grande impegno

L’Agenzia ha curato molto la fase della messa a punto degli indicatori del Dizionario delle competenze. Notevole è stato l’impegno profuso nel lavoro di “estrazione dall’esperienza” di indicatori chiari e univoci in modo da evitare quanto più possibile definizioni chewing-gum che dicono tutto e il contrario di tutto. La chiarezza e l’univocità del metro comune di giudizio (costituito appunto dagli indicatori del Dizionario) sono infatti fondamentali quando le condizioni di utilizzo dei criteri di valutazione sono di per sé critiche sotto l’aspetto dell’oggettività, come succede proprio nella valutazione sul campo, dove non c’è un unico valutatore per tutti, ma:

i valutatori sono numerosi e diversi tra loro

i valutati non reagiscono a una “prova stimolo” identica per tutti (come accade nelle prove concorsuali tipiche della valutazione indiretta) ma vengono valutati trovandosi ognuno alle prese con situazioni e problemi diversi.

La costruzione di buoni modelli di competenze costituisce quindi un passo fondamentale per la messa in opera di efficaci sistemi di valutazione. Ma è solo il primo passo. La modellistica è importante, ma lo è altrettanto, se non di più, la cura posta nel processo di realizzazione della modellistica, che è destinata a incontrare notevoli difficoltà, come dimostrano le successive lezioni.

Lezione n. 2. L’importanza cruciale del riconoscimento del ruolo del valutatore

La valutazione, se è accettata, migliora l’organizzazione, ma difficilmente viene accettata se non si ha fiducia nel management che valuta.

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Alla componente di sfiducia solitamente associata al convincimento che il valutatore non abbia le competenze giuste per apprezzare bene il lavoro del valutato, se ne somma spesso un’altra nel mondo delle pubbliche amministrazioni italiane. Questa seconda forma di sfiducia si esprime nel sospetto diffuso sull’integrità e l’imparzialità delle decisioni dei dirigenti pubblici. Se un dirigente sostiene che un suo collaboratore è molto bravo, ciò che si tende subito a pensare non è che quella persona sia veramente brava, ma che il dirigente stia facendo una pastetta e/o che il collaboratore sia un adulatore (per non usare termini volgari di uso corrente).

Sfortunatamente, questa mentalità viene rafforzata da prese di posizione non infrequenti nell’ambito sindacale pubblico, ove la dialettica fra management e sindacato tende ad essere concepita come un gioco a somma zero, in forza del quale un rappresentante sindacale sarebbe tanto più forte quanto più debole è la controparte della dirigenza, cui sarebbe quindi bene non attribuire il potere di valutare i propri collaboratori o attribuirglielo – se proprio deve essere – con una forma di legittimazione assai debole. Di fronte a tale atteggiamento, potrebbe, a prima vista, sembrare paradossale il fatto che, nelle amministrazioni pubbliche, il tasso maggiore di iscrizione a sindacati si ritrovi spesso proprio nella dirigenza.9

Lezione n. 3. Il valore della differenziazione

Nelle pubbliche amministrazioni è tutt’altro che scontata la propensione al riconoscimento della diversità dei meriti e delle capacità individuali. E’ diffusa viceversa l’idea che differenziare le persone per meriti e capacità sarebbe pericoloso, perché ci sarebbe il rischio di suscitare conflitti e i conflitti minano la cooperazione su cui si regge un’organizzazione. In altre parole, è come se l’attenzione, in sé giusta, all’importanza della produttività collettiva o di gruppo dovesse per forza comportare la svalorizzazione dell’apporto dei singoli, quasi che nel calcio – tanto per fare un esempio - che è un tipico gioco di squadra, non fosse invece importantissimo, e oggetto quindi del massimo riconoscimento, il contributo dei singoli calciatori.

Tale atteggiamento presenta due gravi difetti, che tendono però a passare inosservati: si elude il fenomeno del free-riding e si trascura il valore sociale della diversità individuale.

Com’è noto, il free-riding è il comportamento opportunista che può manifestarsi laddove si ha a che fare con beni pubblici, cioè con quei beni che possono essere goduti congiuntamente da tutti, sia da chi vi ha contribuito, sia da chi non vi ha contribuito.10 Poiché i good performers e i poor performers fanno parte indistintamente di una stessa organizzazione, è facile che la prestazione lavorativa di un good performer assuma le ca-ratteristiche di un bene pubblico, di cui anche il poor performer può beneficiare senza merito. Un sistema che consentisse a chi lavora poco e male di ottenere gli stessi vantaggi di chi lavora molto e bene, è assai conveniente per chi ha deciso di adottare una strategia di lavoro op-portunista. Il rischio, perciò, finisce per essere esattamente l’opposto di quello sopra paventato: il fenomeno del free-riding alimenta una percezione di iniquità organizzativa che mina la motivazione al lavoro e la cooperazione, cosa che non viene invece notata da chi, al contrario, scorge pericoli solo nel riconoscimento e nella ricompensa dei meriti e delle capacità individuali.

9 Nell’Agenzia delle Entrate è iscritto a un sindacato il 52% dei dirigenti, contro il 37% degli appartenenti all’area dei funzionari (area III) e il 43% del restante personale (quasi tutto dell’area II, essendo ormai pochissimi gli impiegati dell’area I). Tra i nuovi funzionari entrati in Agenzia gli iscritti a un sindacato sono il 15%.

10 H. A. Simon, Organizzazione e mercati, in Scienza economica e comportamento umano, trad. it. Torino, Edizioni di Comunità, 2000, p. 130.

COS’E IL FREE-RIDING FIG. 6

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Quanto all’altro difetto insito nell’atteggiamento cui ci stiamo riferendo, esso consiste nel fatto che la valorizzazione delle qualità dei singoli viene concepita secondo un’ottica ristretta, come se andasse solo a beneficio degli individui interessati. Al contrario, non offrire specifiche opportunità ai più bravi dà luogo ad uno spreco di talento che non può non ricadere negativamente sul progresso culturale e professionale dell’organizzazione nel suo complesso, impoverendola. Contrastare o comunque decidere di non favorire l’emergere, il consolidamento e il riconoscimento di competenze di punta significa alla fine privare tutto il resto del personale di preziose ricadute di conoscenze e di capacità, che, nelle organizzazioni vive e vitali, possono essere il motore di dinamiche virtuose di apprendimento, di crescita e di emulazione positiva.

Lezione n. 4. “Medietà” non significa “mediocrità”

Uno dei principi basilari della filosofia di produzione della Toyota è stato così formulato:

Noi otteniamo risultati brillanti da persone di medie capacità che operano con processi brillanti e li migliorano. I nostri concorrenti ottengono risultati mediocri da persone brillanti che operano con processi difettosi. Quando loro incontrano difficoltà cercano di assumere persone ancora più brillanti. Noi non possiamo che superarli.

E’ evidente che in queste parole c’è la semplificazione tipica degli slogan aziendali. Se è vero infatti che, a parità di valori individuali, è la diversità degli assetti organizzativi e dei processi di lavoro che può fare la differenza, è altrettanto vero che, fra organizzazioni simili, la differenza decisiva può risiedere nella qualità delle persone che vi lavorano. E quest’ultimo assunto è tanto più vero, quando si tratta non di organizzazioni industriali per la produzione di manufatti (quale appunto la Toyota), dove sono determinanti la qualità tecnologica, la funzionalità e la convenienza economica dei beni prodotti, ma di organizzazioni di servizi (quali sono solitamente le amministrazioni pubbliche), per di più ad elevato tasso di complesse conoscenze specialistiche e di know-how (è il caso tipico dell’Agenzia delle Entrate), dove ciò che conta sono soprattutto le competenze delle persone chiamate a rendere il servizio.

Tuttavia, fatti questi distinguo, c’è una profonda verità nello slogan Toyota. Guardando al funzionamento complessivo di una grande organizzazione, quelle che contano non sono (o non sono solo) le competenze di punta. In altre parole, non sono poche persone “eccellenti” a fare una buona organizzazione, bensì una maggioranza di persone capaci, volenterose e oneste, che rappresentano esempi di professionalità perfettamente adeguata al compito e assicurano così il rispetto e il mantenimento degli standard quantitativi e qualitativi su cui si regge l’organizzazione stessa. Queste persone rappresentano la media, ma si tende quasi istintivamente a ritenere che “medio” equivalga a “mediocre”, mentre tra i due termini c’è una differenza sostanziale, poiché, diversamente dal “medio”, il “mediocre” non apporta alcun valore aggiunto all’organizzazione. Di fatto, confondendo queste due categorie, nei sistemi di valutazione interni i giudizi finiscono generalmente per addensarsi nel livello più elevato (l’“eccellente”, appunto). Con questo appiattimento, il sistema non genera più informazioni utili dal punto di vista gestionale, né - avendo perso qualunque serietà - è suscettibile di promuovere efficaci azioni di sviluppo.

Molto sinteticamente, i concetti appena espressi si trovano in questo passaggio contenuto nella direttiva emanata dall’Agenzia per la valutazione degli incarichi organizzativi conferiti ai propri funzionari:

«Quando si tratta, com’è nel caso dell’Agenzia delle Entrate, di erogare servizi ed esercitare funzioni che riguardano una platea amplissima di destinatari, non sono poche punte di eccellenza individuale (una “eccellenza di massa” sarebbe, d’altronde, un controsenso), ma l’adeguamento diffuso e costante a solidi standard di quantità e qualità del lavoro che fanno grande una grande organizzazione e ne determinano l’immagine e la reputazione presso il pubblico. Come a dire che sono tante singole persone, tutte realmente all’altezza del compito loro affidato, che rendono complessivamente eccellente l’organizzazione di cui esse fanno parte.».

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Naturalmente, la lezione secondo cui “medietà non significa mediocrità” non può esaurirsi in una retorica affermazione di principio, ma deve essere coerente con il resto del sistema di valutazione. Le conseguenze sono almeno due. In primo luogo, nella costruzione dei modelli di competenze gli indicatori descrittivi del livello di adeguatezza non vanno concepiti secondo lo schema della “sufficienza scolastica”, ma devono esprimere comportamenti pienamente “all’altezza delle aspettative”. Ne discende – ed è la seconda conseguenza – che la retribuzione di risultato prevista per il livello di adeguatezza deve essere opportunamente calibrata, evitando l’ingenuità di differenziali troppo elevati rispetto alla retribuzione del livello “eccellente”. Nell’ambito dell’Agenzia, entrambi questi aspetti sono stati considerati nell’elaborazione dei modelli di competenze e nella costruzione degli schemi retributivi della performance.

Lezione n. 5. Un sistema di valutazione può ddaarree vvaalloorree alle persone solo se hhaa vvaalloorree, cioè se aiuta a produrre valutazioni serie

La veridicità delle valutazioni - cioè la loro rispondenza all’effettivo valore della prestazione resa e delle competenze dimostrate - è essenziale affinché un sistema di valutazione possa dirsi “serio”. In estrema sintesi, si può anzi dire che un buon sistema di valutazione è un sistema che è oggettivo nei criteri cui s’impronta (l’oggettività, a sua volta, dipende dalla qualità della costruzione del modello di competenze) e serio nelle valutazioni cui dà luogo. L’esperienza dimostra che è tutt’altro che facile riuscire a far comprendere nelle organizzazioni il valore della serietà delle valutazioni (non si capirebbe altrimenti come mai nei sistemi di valutazione interni la gran parte, se non la totalità degli interessati finisce per essere classificata come eccellente). Far parte di un’organizzazione seria crea orgoglio professionale, che è il cemento più forte di un’organizzazione (sempreché sia accompagnato da almeno un pizzico di senso critico e - perché no - da una sana capacità di autoironia). Ma non è solo una questione di orgoglio, è anche una questione di convenienza: le organizzazioni pubbliche che hanno fama di serietà anche nelle valutazioni interne guadagnano, nell’opinione pubblica, prestigio e credibilità, che legittimano la richiesta di trattamenti adeguati per i propri dipendenti.

Il problema però è che la percezione di tale convenienza stenta a diventare realmente “comune”, perché la reputazione di serietà di una organizzazione è un bene che ha, come direbbero gli economisti, le proprietà tipiche di un bene pubblico, e in particolare (vi si è già accennato) quella di poter essere fruito da ogni componente dell’organizzazione senza riguardo al fatto che questi abbia contribuito a produrlo. Si ripropone insomma la criticità del free-riding, sia da parte dei valutati che dei valutatori. I valutati, se da un lato hanno tutti interesse alla reputazione di serietà del sistema (altrimenti, anche se positiva, la valutazione che ciascuno riceve non varrebbe nulla, come non vale niente in una scuola il 10 dato a tutti), dall’altro però desiderano, ognuno per sé, una valutazione di eccellenza, e queste aspirazioni, se accolte, screditano appunto il sistema. Dal canto loro, i valutatori traggono ognuno vantaggio dal fatto che tutti gli altri valutatori valutino seriamente (salvaguardando così la credibilità del sistema), ma, singolarmente presi, il loro interesse opportunistico può essere quello di valutare tutti generosamente, quanto meno per non crearsi problemi con i valutati.

In presenza di questa situazione di free-riding, la questione della serietà delle valutazioni non si risolve con esortazioni e appelli, ma con un calibrato dosaggio di incentivi e disincentivi:

incentivi a valutare seriamente;

disincentivi a valutare badando solo a non “crearsi problemi”.

Al meccanismo sommario (cui generalmente si fa ricorso) delle quote forzate si possono affiancare – fino a sostituirlo del tutto, man mano che il sistema matura – meccanismi più equi e “più intelligenti”, che facciano leva non su semplici divieti estrinseci, facilmente aggirabili (ad esempio, con l’escamotage della rotazione dei premiati), ma su convenienze intrinseche sia per i valutatori

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che per gli stessi valutati.

Si tratta in primo luogo di mettere in connessione il sistema di valutazione con quello di assegnazione degli obiettivi, stabilendo che più in alto si sposta il livello dei giudizi di un determinato centro di responsabilità, più in alto si sposta per quel centro l’asticella degli obiettivi. Questo riduce la convenienza degli attori a “barare” , ma è chiaro che il grado di praticabilità di questa soluzione dipende dal grado di misurabilità degli obiettivi.

In secondo luogo si può suddividere per centri di responsabilità l’ammontare dei fondi destinati ai premi di risultato. In questo modo, il valutatore che dà eccellente a tutti, finisce per dare al vero eccellente meno di quanto questi percepirebbe in un centro di responsabilità in cui il potere di valutazione fosse esercitato con maggiore serietà.

In terzo luogo occorre considerare che nelle valutazioni il free-riding gioca nascondendosi dietro l’opacità informativa. Si neutralizza questo fattore, se si rendono pubbliche le valutazioni, quanto meno in forma aggregata, per centro di responsabilità. La conoscenza pubblica delle valutazioni palesemente gonfiate non conviene né ai valutatori, né ai valutati perché compromette la loro reputazione. Nell’Agenzia delle Entrate è stato stipulato un accordo sindacale che prevede la possibilità di rendere pubbliche in forma aggregata, a livello di ogni singolo centro di responsabilità, la distribuzione delle valutazioni per le diverse fasce di giudizio. Questo accordo deve però ancora avere attuazione.

Si può infine anche prevedere un bonus di selettività valutativa. L’idea è di fissare retribuzioni di risultato superiori a quelle ordinarie nei centri di responsabilità ove siano poche le valutazioni molto positive. A differenza dell’accordo sindacale prima citato, quello che ha previsto il bonus in questione è attuato già da anni. Il bonus scatta se le valutazioni di eccellenza non superano il 10%.

Lezione n. 6. Prestare attenzione ai fattori distorsivi della valutazione

La relazione tra valutatore e valutato subisce il condizionamento di una serie di fattori distorsivi (biases) quando gli attori della relazione sono il capo e il proprio collaboratore.

Fattori distorsivi del giudizio del valutatore

Per quanto concerne il valutatore i fattori che possono alterare il suo giudizio, compromettendone la corrispondenza con la realtà, sono fondamentalmente di due tipi:

deficit conoscitivi (difficoltà di osservazione diretta dell’attività del valutato);

distorsioni valutative (effetto alone, effetto similitudine, effetto contrasto, effetto tendenza centrale, ecc.). La distorsione valutativa principale è il leniency bias, cioè la tendenza a valutare con indulgenza.11

Cominciando dai gap conoscitivi, va ricordato che in base alla legge (D.Lgs. n. 286/1999) la valutazione deve avere luogo sulla base della conoscenza diretta dell’attività del valutato da parte del valutatore di prima istanza. E’ pero un fatto che in determinate realtà territoriali le dimensioni organizzative sono tali da rendere obiettivamente problematica, se non addirittura impossibile, un’adeguata conoscenza diretta delle azioni dei valutati. Nell’Agenzia delle Entrate il caso emblematico è quello della Lombardia dove il valutatore di prima istanza (direttore regionale) deve valutare quasi 150 dirigenti. Difficoltà di questo tipo sono superabili solo con interventi di carattere organizzativo. Nell’Agenzia il nuovo modello di organizzazione intermedia su base provinciale

11 Lee J. Cronbach, uno dei maggiori studiosi di psicometria, cioè della psicologia applicata ai processi di valutazione (suo è il famoso coefficiente alpha per la verifica dell’attendibilità dei test), sosteneva che “tra gli errori dovuti ai valutatori, il più grave consiste nella tendenza ad esprimere giudizi favorevoli, cioè a dimostrarsi generosi” (I test psicologici, cit.,vol. III, p. 192).

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dovrebbe consentire di ricondurre a livelli fisiologici il rapporto fra valutatore e valutati.

Per quanto invece riguarda le distorsioni valutative, il leniency bias scaturisce dal fatto che il valutatore può vivere un conflitto di ruolo dovendo svolgere contemporaneamente:

il ruolo di supervisore e giudice, responsabile di valutazioni che dovrebbero essere motivate e che influenzano il futuro dei collaboratori

il ruolo di facilitatore-coach, capace di creare un clima di fiducia reciproca, ascoltare, comunicare correttamente il feedback, motivare e aiutare i collaboratori a individuare i propri punti di forza e le proprie aree di miglioramento.12

Non è facile però fare questo evitando “l’imprigionamento delle relazioni produttive in quelle affettive”.13

Il conflitto di ruolo cui si è appena accennato determina la difficoltà di dare al collaboratore un genuino feedback, senza effetti demotivanti: è molto complesso apprendere a dire e a dirsi reciprocamente la verità senza ferire e senza ferirsi o, per dirla in altro modo, riuscire a far avvertire a una persona i suoi limiti, senza farla sentire limitata. E’ da mettere in conto che un manager oberato di lavoro possa sbottare e dire: “Ma insomma, lasciatemi in pace! Ho già tante cose da fare!”.14

Benché una predisposizione di base possa facilitare questo compito (anche a tale predisposizione potrebbe riferirsi la discussa nozione di “intelligenza emotiva”15 resa popolare dai libri di Daniel Goleman), è verosimile che un’appropriata opera di formazione possa contribuire ad accrescere e affinare la capacità di fornire un efficace feedback ai valutati, con l’indicazione di concreti modelli di comportamento. Il feedback raggiunge il suo scopo quando riesce a rafforzare in modo costruttivo il senso di autoefficacia degli interessati, senza spingerli ad avvilupparsi in sterili routine difensive o in vane apologie personali.

Oltre che da un’adeguata formazione, i correttivi del leniency bias dei valutatori possono venire dall’utilizzo accorto degli incentivi alla serietà della valutazione descritti nella lezione 5.

I fattori distorsivi del giudizio del valutato

Esistono pochi dubbi sul fatto che la causa principale di distorsione dei giudizi che un valutato può dare di se stesso e della sua prestazione lavorativa sia costituito generalmente da ciò che nella letteratura scientifica viene denominato self-serving bias.16 Si tratta del tipico errore di attribuzione causale per cui ognuno tende a sopravvalutarsi, attribuendo la causa dei successi a se stesso e la causa degli insuccessi al contesto o comunque ad altri. Perché questo accada, è materia di discussione fra gli studiosi, ma che accada è ben difficilmente controvertibile. C’è un

12 H.L.Tosi, M. Pilati, Comportamento organizzativo, Milano, Egea, 2008, p. 343.

13 A. Grandori, Organizzazione e comportamento economico, cit., p. 172.

14 R. Kreitner e A. Kinicki, Comportamento organizzativo, trad. it. Milano, Apogeo, 2004, p. 329 ss.

15 Fra le analisi più recenti della problematica riguardante l’intelligenza emotiva, si può vedere l’approfondita disamina, interamente focalizzata sulla dimensione professionale, di A. Furnham, Personality and Intelligence at Work. Exploring and Explaining Individual Differences at Work, London, Routledge, 2008, pp. 210-232.

16 R. Kreitner e A. Kinicki, Organizational behavior, 2008, New York, McGraw-Hill, 2008, 8th ed, pp. 202-203. La traduzione italiana, prima citata, si riferisce alla sesta edizione che sul punto in questione (p. 227) è stata parzialmente rivista dai due autori nell’ottava edizione.

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Dall’autostima all’autoingannoDall’autostima all’autoinganno

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detto di Benjamin Franklin che recita così: “Ci sono tre cose veramente dure: l’acciaio, il diamante e conoscere se stessi”. E quanto alla conoscenza di se stessi, il consiglio, molto impietoso, di François de la Rochefoucauld era questo: “Il giudizio dei nostri nemici su di noi è più vicino alla verità del nostro”.

Lezione n. 7. Curare la relazione valutatore-valutato. Limiti e potenzialità dell’autovalutazione

Alla luce degli insegnamenti che si possono trarre dalla lezione 6, potrebbe sembrare molto strano che nelle organizzazioni - non solo in quelle pubbliche ma anche in quelle private (ed è anzi proprio nelle organizzazioni private che tale pratica ha cominciato a svilupparsi) - l’autovalutazione sia assai diffusa, e si diffonda anzi sempre più. Nella pubblicistica corrente questa pratica soggiace a una critica fin troppo facile che dà all’autovalutazione il senso comico di una barzelletta: se dal giudizio che date di voi stessi dipendesse un beneficio economico, vi dareste un voto meno che lusinghiero? Aspettarsi qualcosa di diverso, sarebbe da ingenui o sprovveduti, per non dire stupidi.

Come spiegarsi allora il progressivo diffondersi dell’autovalutazione? Si può naturalmente sostenere, citando l’Ecclesiaste, che infinito è il numero degli stolti, ma è buona regola, se si vuole imparare qualcosa dai propri interlocutori, fare conto, almeno inizialmente, che stupidi essi non siano. Magari poi si constaterà che lo sono davvero, ma solo alla fine si avrà titolo ad affermarlo, dopo aver fatto un sincero sforzo per capirne le ragioni.

Ora, il punto da cui partire è quello cui si è già prima accennato. I sistemi di valutazione interni alle organizzazioni lasciano in genere molto a desiderare per quanto riguarda la veridicità delle valutazioni, nel senso che tendono pressoché tutti ad allinearsi prima o poi (più prima che poi) sui livelli massimi di giudizio. Invece di limitarsi a condannare questo esito e a metterlo in burletta (cosa, anche questa, fin troppo facile, quando non si fa parte delle organizzazioni interessate), bisogna cercare di comprendere perché questo accada.

Una spiegazione plausibile di carattere generale sta appunto nell’interazione tra i due fattori distorsivi prima menzionati: il leniency bias, cui sono soggetti i valutatori, e il self-serving bias, cui sono invece soggetti i valutati.

Cominciamo a prendere in esame il punto di vista dei valutatori. E’ intuitivo per loro ritenere che il prezzo di una valutazione veridica sia la pura e semplice ferita dell’autostima dei valutati, ma se è così, la loro conclusione è che il processo valutativo finirà per as-sumere una caratterizzazione fru-strante, tale da deprimere la moti-vazione al lavoro e, di conse-guenza, la spinta allo sviluppo pro-fessionale, che, a parole, viene in-vece generalmente considerato uno dei due obiettivi fondamentali della valutazione (quanto all’altro, ne parleremo fra un istante). Se l’autostima è il motore dell’impegno nel lavoro (come, più in generale, nella vita) nulla di buono ci si può aspettare dalla mortificazione dell’autostima. Se tutto questo è vero, non è allora strano che le valutazioni siano, complessivamente, così poco veridiche. Ed è sicuramente degno di nota la circostanza che valuta-zioni stellari generalizzate (in altre parole: tutti o quasi eccellenti) si ritrovino, come sanno bene

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COSA TENDIAMO AD ASPETTARCICOSA TENDIAMO AD ASPETTARCI

DAL NOSTRO VALUTATOREDAL NOSTRO VALUTATORE

Sempre la stessa solfa: “Che bravo cane!”

Mai che dicesse:“Che grande cane!”

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tutti gli addetti ai lavori, proprio nelle amministrazioni militari17, ove pure non si è certo adusi a modalità relazionali di tipo soft (come accennato all’inizio, i corpi militari sono fra le pochissime amministrazioni pubbliche italiane ad aver conservato nel tempo sistemi di valutazione interni). Insomma, un capo può giustamente chiedersi che senso abbia frustrare il collaboratore con un giudizio verace che, probabilmente, non corrisponde alle sue elevate aspettative (in altre parole: che senso abbia dire al bravo e onesto collaboratore che si attende una valutazione eccellente, che proprio eccellente invece non è), se in questo modo lo si demoralizza e si rischia così di peggiorarne il rendimento, in contrasto con l’altro obiettivo fondamentale della valutazione che è il miglioramento della performance lavorativa, e non certo il suo peggioramento.

La mancanza di serietà – e tale è, giustamente, l’impressione suscitata da valutazioni eccellenti generalizzate – non può essere però un esito accettabile, e non solo per i capi, ma neppure per i collaboratori. Dopo tutto, quando si era studenti, nessuno traeva motivo di orgoglio e di soddisfazione dal fatto di far parte di una scuola o di una classe dove tutti o quasi tutti prendevano il massimo dei voti. Al contrario, ci si compiaceva molto di un sette, o perfino di un sei, preso da un professore assai stimato per la sua preparazione e noto per la severità del suo giudizio, mentre nessuna soddisfazione procurava invece il dieci di un insegnante di scarso prestigio e di manica larga (i due tratti, spesso, erano congiunti). Perché dovrebbe essere diverso in un’organizzazione?

Andando adesso ad affrontare il problema dal lato del valutato, la soluzione, o comunque una parte essenziale della soluzione, sta nel ristrutturare il senso dell’autostima, in modo che la persona giunga alla piena consapevolezza che una cosa è l’autostima e un’altra, ben diversa, l’autoinganno. In fin dei conti, di una persona che riconosca i propri limiti, nessuno dice in genere che è “limitata”, come si afferma invece di chi, proprio in quanto tende ad esagerare le proprie conoscenze e abilità, mostra di non essere sufficientemente libero e capace di osservare lucidamente se stesso.18

Uno strumento utile a favorire questa maturazione del senso dell’autostima può essere l’autovalutazione strutturata (in questo caso, l’aggettivo participiale conta più del sostantivo).

Mentre l’autovalutazione pura e semplice – in parole povere: “datti un voto” – non può che dare ulteriore impulso al self-serving bias, l’autovalutazione strutturata può condurre a una comprensione più realistica e a una visione più matura dei propri meriti e delle proprie capacità.

Cos’è l’autovalutazione strutturata e come funziona?

Per rispondere a queste domande, è opportuno precisare subito che nel processo di valutazione dei dirigenti dell’Agenzia l’introduzione dell’autovalutazione è piuttosto recente. L’opinione assai diffusa sull’inattendibilità dell’autovalutazione professionale aveva infatti indotto a evitare di farvi ricorso.

Lo spunto per introdurre la sperimentazione di questa pratica è venuto da una ricerca empirica molto approfondita di alcuni studiosi americani, che, nel sottolineare i difetti dell’autovalutazione in tre campi di grande rilievo (salute, studio e lavoro), hanno però osservato che non sempre essa è fallace.19 Come osservano infatti questi studiosi “le persone tendono a credersi migliori della media

17 In quelle amministrazioni un accorgimento cui talora si ricorre è di attribuire alla generalità dei valutati il giudizio di “eccellente” con l’aggiunta però, a seconda dei casi, di espressioni qualificative come “vivo compiacimento” o “vivissimo compiacimento” per differenziare in qualche modo tra loro gli eccellenti.

18 In proposito è forse appropriata questa citazione di Herbert Agar, uno scrittore americano premio Pulitzer nel 1934: “The truth that makes men free is for the most part the truth which men prefer not to hear” (“La verità che fa liberi gli uomini è per lo più la verità che gli uomini preferiscono non sentire”).

19 D. Dunning, C. Heath e J.M. Suls, Flawed Self-Assessment Implications for Health, Education, and the Workplace, in «Psycological Science in the Public Interest», vol. 5, n. 3, pp. 69-106. Considerazioni sostanzialmente analoghe sono svolte in un’altra importante ricerca, ove si mostra che l’overconfidence bias, cioè la propensione a un’eccessiva fiducia nell’esattezza delle proprie previsioni, può essere corretta attraverso una pratica autoeducativa che mette sistematicamente a confronto ciò che l’interessato aveva previsto con i dati che indicano con precisione quanto invece è

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in settori poco definiti, ma non in altri nei quali la definizione è più precisa. Ad esempio, le persone tendono a ritenersi più sofisticate, idealiste e disciplinate dei propri simili (tutti aspetti ambigui), ma sono meno propensi a ritenersi più atletiche o puntuali (aspetti maggiormente vincolati nel loro significato)”.20

Non è inverosimile che ciò possa accadere per il fatto che, con un metro di giudizio più preciso e meno sfumato, un’eventuale sopravvalutazione scade nel ridicolo e suscita vergogna, finendo per danneggiare la reputazione dell’interessato. In questa prospettiva, l’autovalutazione strutturata non ha quindi lo scopo ingenuo di annullare il self-serving bias (obiettivo probabilmente irraggiungibile), ma, per così dire, di riorientarlo: se quel bias normalmente spinge chi ne è vittima a sopravvalutarsi, con l’approccio appena prospettato può invece servire a sostenere un’immagine di sé più equilibrata, ove è la persona ora che conduce il gioco, invece di rimanerne schiava. Tutto ciò si accorderebbe con la tesi di Adam Smith, secondo cui l’essere umano non aspira semplicemente alla lode altrui, ma desidera sentirsene degno o, come dice il grande economista, desidera “meritarla”.21

Così come è stata costruita nell’Agenzia, l’autovalutazione strutturata funziona come una sorta di onere della prova. Il valutato, se ritiene che le proprie capacità e i propri meriti siano fuori del comune, s’impegna a darne dimostrazione, ponendo a raffronto fatti e comportamenti precisi, da un lato, e indicatori del Dizionario delle competenze ai gradi più alti di intensità, dall’altro.

Naturalmente, l’autovalutazione strutturata può raggiungere il suo scopo solo se gli indicatori di competenze sono sufficientemente precisi, e si torna così ancora una volta all’importanza della chiarezza e univocità degli indicatori,

Proviamo a vedere qual è stato finora nell’Agenzia l’esito della sperimentazione dell’autovalutazione strutturata (è in uso dal 2006). Coloro che valutano la propria performance insufficiente o inidonea sono pochissimi, ma sarebbe stato vano attendersi un esito diverso. Sviluppare una comprensione più realistica delle proprie capacità e dei propri meriti (il verbo “sviluppare” non è qui scelto a caso: è proprio la conquista di questa comprensione la tappa essenziale di un autentico sviluppo) non significa passare dall’autoesaltazione all’autodenigrazione, ma significa che non si è più propensi a valutarsi eccellenti, quando non lo si è, e che non si percepisce più alcuna vergogna o alcuna limitazione in questo. Può sembrare poco, ma è invece molto, perché è il passo fondamentale per aprire il varco a un dialogo autentico fra valutato e valutatore. Quando si è dato avvio a questa sperimentazione, molti in Agenzia erano convinti che l’esito sarebbe stata un’esplosione di autovalutazioni tutte allineate sull’eccellenza. Complessivamente, esse si attestano invece sul 24,8% (di contro a un 8,4% di valutazioni eccellenti da parte dei valutatori), quando in altri sistemi sono le eterovalutazioni (ossia i giudizi espressi dai valutatori) che tendono al giudizio di “eccellente” nel 100% dei casi (è ciò che in letteratura viene

poi realmente accaduto (J. E. Russo e P.J.H. Schoemaker, Managing Overconfidence, in «Mit Sloan Management Review», 1992, vol. 33, n. 2, pp. 7-17). Si può anche vedere J.L. Fahr e G.H.Dobbins, Effects of self-esteem on leniency bias in self-reports of performance: a structural equation model analysis, in «Personnel Psychology», 1989, 42, pp. 835-849.

20 D. Dunning, C. Heath e J. M. Suls, cit., pp. 74-75. Ecco un esempio citato dagli autori: “Parlando di aspetti poco definiti ma positivi, gli studenti di college si valutano più favorevolmente di quanto facciano i loro compagni sugli stessi aspetti, ma quando gli intervistatori specificano un aspetto maggiormente dettagliato, le persone non si valutano altrettanto positivamente, e i loro giudizi tendono a convergere con quelli forniti da altri.”.

21 Per un approfondimento del quadro concettuale qui solo appena abbozzato, si può vedere uno studio recente, di cui è utile citare questo passaggio: «The close link between the desire to receive approval and the desire to deserve approval has already been beautifully described by Adam Smith in the Theory of Moral Sentiments (1759, p. 166): “Man naturally desires, not only to be loved, but to be lovely; …He naturally dreads, not only to be hated, but to be hateful;… He desires not only praise, but praise-worthiness; … He dreads not only blame, but blame-worthiness”. Social approval is therefore closely related to self-approval.» (E.Fehr e A. Falck, Psycological Foundations of Incentives, Schumpeter Lecture at the European Economic Association Meeting 2001, in «European Economic Review», 2002, 46, 687 – 724).

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chiamato ceiling effect, “effetto soffitto”). Notiamo inoltre che la forbice fra autovalutazioni ed eterovalutazioni tende ancor più a restringersi, in accordo con gli studi prima citati, quanto più precisamente definibili sono le competenze (ad esempio, nella competenza “persuasività” la forbice è di poco più di 10 punti percentuali, mentre nella competenza “sicurezza di sé ed equilibrio” sale a 20 punti percentuali).

L’efficacia dell’autovalutazione dipende naturalmente in modo decisivo anche da come viene condotto il successivo colloquio di valutazione. Nell’autovalutazione l’interessato ha indicato i fatti che confermerebbero, a suo avviso, la classificazione dei propri comportamenti sotto questo o quell’indicatore di competenza. Questo esercizio, di cui sono state sopra illustrate le ragioni, è tuttavia di per sé soggetto al confirmation bias (“propensione alla conferma”), che è la distorsione cognitiva per la quale un soggetto focalizza l’attenzione solo sui fatti che confermano i propri giudizi, evitando di prendere in considerazione quelli che invece li smentiscono. E’ compito del valutatore portare il valutato a riflettere su queste eventuali disconferme. Anche questo è un momento essenziale di un percorso genuino di sviluppo. Solo che vi si ponga mente appena un po’, è facile intuire la delicatezza e la complessità del rapporto tra valutatori e valutati, e il tempo e la cura che richiederebbe la gestione di tale rapporto. Sicché non è poi strano che i sistemi di valutazione interni finiscano spesso per esaurirsi in una stanca serie di adempimenti burocratici utili solo ad erogare compensi accessori.

Cerchiamo ora di riassumere. Quando si tratta di valutare la prestazione lavorativa di una persona, può sembrare incongruo non acquisirne il punto di vista, cosa in cui consiste appunto l’autovalutazione. Se il valutato ha un ruolo passivo nel processo di valutazione, è difficile ritenere che la valutazione possa costituire per l’interessato un momento di crescita professionale: nel caso migliore è un riconoscimento che piove dall’alto, nel caso peggiore è una tegola che gli piomba addosso; in entrambi i casi non ha comunque alcun ruolo attivo. Per questo in tutti i sistemi di valutazione interni, si insiste molto sulla necessità del coinvolgimento del valutato e, per quanto possibile, della condivisione del giudizio, come ulteriore garanzia dell’equità e dell’oggettività del processo valutativo.22 Di contro, però, la fallacia intrinseca dell’autovalutazione farebbe ritenere futile chiedere al valutato come la pensi sui risultati che egli ha raggiunto e sul modo in cui ha lavorato.

L’autovalutazione strutturata consente di dare una soluzione positiva a quello che sarebbe altrimenti un dilemma senza via di uscita. Naturalmente, una cosa è prevedere, nel processo di valutazione professionale, un momento di autovalutazione, e un’altra cosa è affermare che quel processo si fonda sull’autovalutazione. Nel sistema di valutazione dell’Agenzia la responsabilità dell’esito della valutazione è del valutatore e non del valutato.

Lezione n. 8. Mai trascurare l’esigenza della semplificazione

“Un manager molto impegnato è poco incentivato a dedicare tempo ed energie preziose per un processo che considera difficile e pieno di scartoffie da compilare.”23 E’ un’opinione, questa, che, come evidenziato da numerose ricerche sul campo, è diffusa nelle organizzazioni che adottano sistemi di valutazione al proprio interno. Si è già ricordata la battuta con cui si può rispondere alla domanda: “Cos’è un sistema di valutazione professionale?”. E’ una battuta che un certo grado di complessità intrinseca ai sistemi di valutazione può indubbiamente favorire, anche se le lezioni 5 e 6 dovrebbero insegnare questo: non è vero che i sistemi di valutazione appaiono spiacevoli perché

22 Si può vedere al riguardo la raccomandazione della Presidenza del Consiglio dei Ministri - Comitato tecnico- scientifico per il coordinamento in materia di valutazione e controllo strategico nelle amministrazioni dello Stato, “Processi di programmazione strategica e controlli interni nei Ministeri: Stato e prospettive”- Rapporto di Legislatura, marzo 2006.

23 R. Kreitner e A. Kinicki, Comportamento organizzativo, cit., p. 331.

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sono complicati; la realtà è che appaiono complicati perché sono spiacevoli, data la difficoltà di gestire la relazione valutatore-valutato.

Ciò nonostante l’esigenza della semplificazione non può mai essere trascurata, anche se pure qui vi è comunque un problema di trade-off, perché si tratta di bilanciare tale esigenza con quella dell’accuratezza, che è strettamente correlata con l’esigenza dell’oggettività del sistema di valutazione.

Un bilanciamento tra le esigenze contrapposte della semplificazione e dell’accuratezza potrebbe trovarsi in una o più di queste misure:

restringere le categorie dei dipendenti da valutare. La legge n. 15/2009 prevede invece la valutazione di tutto il personale; le buone ragioni a sostegno di questa scelta sono evidenti, ma occorre ponderare bene il rischio di impiantare un dispendioso “valutificio”, cosa che i francesi chiamano una usine de gas24, cioè una “fabbrica di gas” (nell’amministrazione pubblica francese la valutazione formale riguarda tutti);

limitare il numero delle “cose” da valutare (ad es. non tutte le competenze di un modello ma solo alcune). Tale soluzione è quella adottata nell’Agenzia con riguardo alla selezione dei nuovi funzionari e alla valutazione dei funzionari con incarichi organizzativi;

focalizzare la valutazione solo sulle code della distribuzione dei giudizi, cioè sulle punte di bravura fuori del comune e sulle prestazioni scadenti, dando invece per default una valutazione di adeguatezza alle prestazioni di lavoro per le quali non siano emersi elementi di particolare valore ma neppure elementi di mediocrità. Anche questa soluzione è stata adottata nel reclutamento dei funzionari e nella valutazione della prestazione lavorativa dei funzionari cui sono stati conferiti incarichi organizzativi;

allungare la cadenza dei periodi valutazione. Ad esempio, per le competenze, in quanto caratteristiche relativamente stabili del comportamento organizzativo, ripetere ogni anno la valutazione può essere ridondante, una volta che le competenze delle persone siano state oggetto di adeguato apprezzamento. Questo principio viene applicato nel sistema SIRIO.

Lezione n. 9. Il rapporto con il sindacato: una lezione di realismo

E’ stata prima ricordata l’indagine di clima effettuata nell’Agenzia qualche anno fa dalla quale è emerso che l’82% del personale lamenta che l’apprezzamento di capacità e meriti e delle effettive competenze professionali sarebbe contato fino ad oggi troppo poco nella carriera e nella corresponsione degli incentivi.

Di fronte a dati come questi, potrebbe sembrare inspiegabile l’atteggiamento delle Organizzazioni sindacali, tradizionalmente non favorevoli all’introduzione di strumenti finalizzati alla valutazione delle prestazioni lavorative. Le lezioni apprese sui fattori distorsivi della valutazione evidenziano però questa semplice verità: tutti sono per il riconoscimento del merito purché però sia anzitutto il riconoscimento del merito proprio. Insomma, sotto la pressione del self-serving bias e dell’influenza che tale fattore esercita sulla percezione dell’equità organizzativa (si tratta di un “combinato disposto” di straordinaria potenza), la tendenza generale è che ognuno pretende di essere più meritevole di tutti gli altri o, perlomeno, di essere meritevole quanto tutti gli altri. La prima pretesa, però, è una contraddizione in termini, mentre la seconda equivale alla rivendicazione

24 Devo questa citazione, curiosa ma efficace, a Jean Paul Catanese, un funzionario dell’amministrazione fiscale francese che ha lavorato per due anni presso la sede centrale dell’Agenzia delle Entrate nel quadro di un programma di scambio di funzionari tra la sua amministrazione e l’Agenzia. Ho potuto apprendere dal dott. Catanese - così come dalla dott.ssa Dominique Avena, anche lei funzionario dell’amministrazione tributaria francese, che ha lavorato presso l’Agenzia proprio nel settore dello sviluppo del personale - utili informazioni di prima mano sulle concrete modalità di funzionamento dei sistemi di valutazione nella pubblica amministrazione della Francia. Colgo qui l’occasione per ringraziare entrambi.

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dell’egualitarismo.

D’istinto, le Organizzazioni sindacali hanno sempre saputo tutto questo, ed avendone quindi ben chiare le conseguenze disastrose sui loro rapporti con gli iscritti e con il personale in genere, non è affatto strana la loro freddezza sulle tematiche che sono state affrontate in questo articolo. Liquidare perciò la posizione sindacale come pura e semplice difesa di una minoranza di fannulloni sarebbe superficiale, oltre che, in buona parte, ingiusto.

E’ anche vero, peraltro, che l’atteggiamento delle Organizzazioni sindacali in questa materia è talora influenzato da due prese di posizione ideologiche. La prima è quella cui si è già accennato nella lezione 3 e si compendia nell’assunto che differenziare le persone per meriti e capacità sarebbe pericoloso, perché rischierebbe di provocare conflitti destinati a lacerare il tessuto connettivo di un’organizzazione. E’ inutile ripetere adesso le critiche già mosse a questa tesi, di cui l’ideologia sottostante sembrerebbe chiara: ciò che conta è il collettivo e non il singolo individuo (concezione, questa, che non veniva propugnata neppure nei cosiddetti sistemi collettivistici). L’altra posizione è stata anch’essa prima illustrata: il rapporto tra management e sindacato sarebbe un gioco a somma zero, nel quale l’eventuale decisione di attribuire alla dirigenza il potere di valutare i propri collaboratori toglierebbe fatalmente nerbo al ruolo sindacale di tutela del lavoratore. In realtà, si potrebbe osservare che questo ruolo viene invece esaltato quando è attribuita al dirigente la responsabilità di valutare.

Pur con tutte queste criticità, nell’Agenzia delle Entrate il confronto con le Organizzazioni sindacali sui temi della valutazione professionale è stato alla fine costruttivo ed è approdato a soluzioni alquanto in anticipo sui tempi del dibattito pubblico che si è ora acceso su questi temi. A livello di contrattazione integrativa l’Agenzia ha stipulato con le Organizzazioni sindacali, nella materia in questione, accordi fra i più innovativi nel panorama delle amministrazioni pubbliche. Si può sperare che questi accordi e i principi del nuovo assetto legislativo, opportunamente calibrati, influiscano positivamente sulla stesura del prossimo CCNL delle Agenzie fiscali (l’attuale CCNL scade alla fine di quest’anno).

Lezione n. 10. “Memento semper unde venisti”

Bisogna ricordare sempre, specie nei momenti più critici, le esperienze originarie di rabbia e frustrazione che hanno spinto a introdurre modelli di competenze e sistemi interni di valutazione. Le Amministrazioni più serie, dopo aver introdotto questi strumenti, non tornano indietro e continuano a perfezionarli, nonostante il tempo, le energie e la fatica che questo lavoro richiede, perché restano ferme nella convinzione che ne valga comunque la pena.25

25 Può sembrare singolare, come lezione finale, un richiamo alla “memoria storica”, intesa come ricordo delle esperienze da cui un’organizzazione è partita per intraprendere un determinato cammino. Questa lezione però è decisiva per evitare quei tipici movimenti pendolari che caratterizzano in Italia le iniziative di riforma della pubblica amministrazione. Il pendolo ha questa peculiarità: si muove sempre e non avanza mai.

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Anche nei sistemi collettivistici si poneva l’accento sul valore della prestazione individuale

quanto lavori

tanto guadagni

E’ la riproduzione di una cartolina che circolava nell’Unione Sovietica attorno agli anni ’60 (merita notare che in russo la parola “guadagnare” differisce da “lavorare” solo perché si aggiunge alla radice comune il prefisso “za”). Si può naturalmente ritenere che la “teoria professata” - tanto lavori, quanto guadagni - non corrispondesse in questo caso alla “teoria praticata”, per usare la nota terminologia di Chris Argyris.

FIG. 9