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STORIA DELLA SOSTENIBILITÀ DAI LIMITI DELLA CRESCITA ALLA GENESI DELLO SVILUPPO 1

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STORIA DELLA SOSTENIBILITÀ

DAI LIMITI DELLA CRESCITA ALLA GENESI

DELLO SVILUPPO

1

Indice

2

Prefazione pag.

Introduzione »

I Parte »

1. Premesse per la questione ambientale »1.1 La percezione del limite e la sua evoluzione storica »

1.2 Dalla nascita dell’antropocentrismo alla concezione moderna della scienza »

1.3 La tecnica e l’etica nell’età contemporanea »

1.4 Il principio della responsabilità »

2. La sostenibilità »2.1 Il contributo dell’ambientalismo scientifico nella percezione del rischio ambientale »

2.2 Tappe e riferimenti internazionali per continuare nella nostra storia »

2.3 Definire la sostenibilità »

2.4. Basilea 15-21 maggio 1989 »

2.5 Principi di economia a carattere sostenibile »2.6 La critica dello sviluppo e le teorie della decrescita »

2.7 Latouche e la decrescita »

2.8 Due approcci italiani: Magnaghi e Pallante »

2.9 Analisi degli elementi distintivi della crescita e dello sviluppo: critica alla decrescita »

3. Dall’ambientalismo scientifico alle politiche economiche, dall’Europa all’Italia »

3.1 Contesto politico-economico: la crisi del neoliberismo »

3.2 Europa protagonista della sostenibilità »

3

3.3 La strategia europea da Göteborg a Johannesburg »

3.4 La via europea per uno sviluppo sostenibile di qualità »

3.5 La nascita della cultura ambientalista in Italia. Il movimento contro il nucleare »

II Parte »

4. Le economie pianificate dal 1945 al 1970 »4.1 La questione ambientale nelle economie pianificate »

4.2 Le politiche economiche di pianificazione nell’Unione Sovietica »

4.3 La socializzazione dell’economia nelle Democrazie popolari. »

5. Economia e sostenibilità »

5.1 Sviluppo sostenibile e crescita economica »5.2 La via per una governance internazionale e l’economia come strumento »

5.3 Il ruolo dello Stato »5.4 Il PIL è un indicatore adeguato? Considerazioni sul prodotto interno lordo »

5.5 Superare il PIL: la ricerca di indicatori sostenibili »

Riferimenti bibliografici »

Introduzione

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È impossibile apprezzare un poeta che espone un’idea senza conoscere tale idea e le altre espressioni di essa, così come sarebbe impossibile apprezzare un quadro che rappresenta l’Annunciazione senza conoscere il primo capitolo del Vangelo di Luca e senza aver visto altri quadri dello stesso soggetto1.

Si tratta di un estratto dell’opera L’albero della conoscenza di Arthur O. Lovejoy che sottolinea l’importanza di una stretta correlazione tra elementi diversi, ma necessari per avere un’esatta percezione di ciò che si analizza. Se questo è vero in generale, lo è ancor di più sull’idea di sostenibilità, perché la complessità degli argomenti e le dirette relazioni con molteplici aspetti di diverse discipline, necessitano di un ampio quadro di analisi. La sostenibilità può essere considerata come un palazzo in costruzione: si deve preventivamente analizzare la solidità del terreno per garantire stabilità e sicurezza al futuro edificio. Il terreno su cui costruire uno studio dello sviluppo sostenibile è composto da molteplici elementi stratificati e inscindibili tra loro, alla maniera degli strati minerali che compongono la roccia. Solo la presenza di tutti gli aspetti garantiranno solidità allo studio, come la giusta natura del terreno, stabilità all’edificio da costruire. In questo senso l’indagine storica è collegata ad aspetti sociologici, la ricerca economica è strettamente connessa ad implicazioni politiche, la storia della filosofia a quella della scienza. Quante sono le discipline che intervengono nella definizione di sostenibilità è arduo sostenerlo, così, per riprendere l’esempio, tutte sono necessarie per definirla in modo esatto, altrimenti si incorrerebbe in “cedimenti strutturali” ed essa risulterebbe esclusivamente un suggestivo concetto teorico, difficilmente realizzabile a livello concreto. Gli storici, i sociologi, gli economisti, gli studiosi delle scienze naturali, a

1 A. O. Lovejoy, Essays in the history of ideas, Johns Hopkins University Press, Baltimore, 1948 (trad. it.: L’albero della conoscenza, saggi di storia delle idee, Il Mulino, Bologna, 1982, p. 32).

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prescindere dal loro specifico campo d’indagine, quando si trovano coinvolti negli studi ad essa relativi, rischiano spesso di sconfinare oltre il proprio campo di competenza. Le barriere di divisione tra discipline vicine stanno via via affievolendosi, poiché non si potrebbero dare risposte adeguate alla questione della sostenibilità senza trasbordare in altri settori. Più ci si spinge all’interno di un problema, più facilmente si può scorgere nel problema una strada che tende a superare i confini disciplinari. Scrive Lovejoy: «Poiché gli studi storici hanno quasi sempre a che fare con le idee e con il loro ruolo nelle vicende umane, (…) forse non è esagerato dire che nella storia della storiografia la necessità di una liaison più stretta e più vasta o, per meglio dire, di un interscambio di conoscenze tra discipline originariamente distinte, risulta ora più evidente e urgente»2. La necessità di correlazione vale anche nel ripercorrere le tappe salienti che hanno originato il concetto di sostenibilità. Dal problema semplicemente ambientale ci si è allargati a riflessioni filosofiche, ad approcci economici, politici e sociali, a tal punto che un ricercatore non può non considerarli. Alessandro Lanza sostiene in merito: «il tema dello sviluppo sostenibile si dovrebbe affrontare con lo stesso spirito con cui si inizia a lavorare ad un puzzle. Si parte dividendo le tessere in pochi gruppi bene definiti, lasciando la gran parte delle altre in un marasma ancora indefinito. Poi si inizia a comporre il puzzle e, mentre si procede, la massa indistinta di tessere comincia ad assumere un nuovo significato. Particolari prima incomprensibili ci aiutano ora a formare nuovi mucchietti e a procedere sino alla fine»3. Pertanto, dal punto di vista metodologico, per comporre un quadro esaustivo sul tema occorrerà considerare le varie discipline collegate come i pezzi del puzzle, dato che solo l’immagine conclusiva avrà senso. Lo sviluppo sostenibile è dunque transdisciplinare, a tal punto che il rischio per lo studioso che si approccia ad esso in modo troppo specialistico, potrebbe configurarsi nella perdita di ciò che è essenziale. «Lo studente che dovendo descrivere lo scheletro di pesce che aveva di fronte, enumerò fedelmente tutte le sue caratteristiche ad eccezione della più importante: la simmetria bilaterale»4. Infatti, se l’importanza dello sviluppo sostenibile fosse esclusivamente concentrato sulla salvaguardia del pianeta, basterebbero le associazioni ambientaliste e la sensibilità della politica nell’approvare leggi specifiche in suo favore. Tuttavia relegarlo solo a questi ambiti, significherebbe confezionargli un abito troppo stretto. L’attenzione per le generazioni future e per le “cose extraumane”, la ricerca

2 Ivi, pp. 29 e 34.3 A. Lanza, Lo sviluppo sostenibile, Il Mulino, Bologna, 1997, p. 7.4 A. O. Lovejoy, L’albero della conoscenza, saggi di storia delle idee, cit., p. 35.

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di un ben vivere conseguibile attraverso lo sviluppo integrale dell’uomo, trasbordano i confini di poche discipline, imponendosi come il nuovo ideale del XXI secolo, a cui dovrà tendere una società evoluta. A titolo di esempio, ed è stato anche il problema posto nella scelta del metodo da seguire nel realizzare il lavoro, sfido chi riesce a separare la storia economica da quella della filosofia, senza provare un senso di incompiutezza. Se in generale - sostiene Lovejoy – storici della filosofia, dell’economia, della scienza, studiosi delle scienze sociali e politici, «incorrono talvolta involontariamente in omissioni semplicemente perché, conoscendo soltanto i loro argomenti, non sanno tutto ciò che devono cercare in quegli argomenti»5. Nello studio della sostenibilità la percentuale di rischio, per la stretta correlazione inscindibile di più discipline, diventerebbe molto elevato. Sarebbe però sbagliato asserire che la specializzazione sia infruttuosa per la crescita di alcuni settori, semmai queste considerazioni devono spronare la ricerca di una sintesi tra esse, in special modo nelle discipline umanistiche e sociali, fondate su collegamenti concreti e fruttuosi. Gli stessi Ministri dei Paesi europei preposti all’istruzione superiore, richiamano l’attenzione su questa esigenza, dichiarando nel comunicato di Bucharest dell’aprile 2012:

Le nostre società hanno bisogno di istituzioni di istruzione superiore che contribuiscano positivamente allo sviluppo sostenibile e, pertanto, l’istruzione superiore deve assicurare un legame più forte tra ricerca, insegnamento e apprendimento a tutti i livelli. I corsi di studio devono riflettere il cambiamento delle priorità nella ricerca e l’emergere di nuove discipline, così come la ricerca deve sostenere l’insegnamento e l’apprendimento.

Chiarito l’approccio metodologico nel trattare un argomento vasto e complesso, la seconda problematica da risolvere riguarderà la selezione degli argomenti più utili, alla ricerca in oggetto. Il fine ultimo sarà quello di rileggere lo sviluppo sostenibile nella sua interezza tentando di spiegare come esso dovrà imporsi a paradigma ideale tanto quanto lo sono state nel corso del XX secolo le due grandi ideologie che si sono spartite il mondo. Ovvio che questo lavoro non vuole configurarsi come un manifesto ideologico, né tantomeno indicare la strada della sostenibilità in modo acritico e perentorio, ma ha lo scopo di porre le basi e di contribuire al dibattito già in corso, sulla necessità di conciliare sviluppo e rispetto per l’ambiente. Per far questo, dobbiamo chiarire in primis, cosa intendiamo per sviluppo, visto che si tratta di un concetto che si è evoluto nel tempo,

5 Ibid.

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passando dall’essere esclusivamente economico ad essere un concetto con significato più ampio. Pertanto, definirlo implica un deciso miglioramento della vita nella società: sviluppo culturale, sociale ed anche economico. In genere, il significato assunto dal termine dipende dal contesto in cui viene utilizzato. Ad esempio Aurelio Angelini e Anna Re nel libro Parole, Simboli e Miti della Natura, offrono una sintesi attenta e ragionata dei diversi significati di sviluppo e di altri termini appartenenti al lessico della sostenibilità, con lo scopo di orientare l’interprete della stessa nel rapporto uomo natura6. Lo sviluppo in biologia è inteso come l’insieme di processi che permettono ad un organismo vivente di passare da uno stadio semplice ad uno più complesso. Esso indica espansione o realizzazione di potenzialità, ma anche miglioramento qualitativo di un sistema. Possiamo distinguere, alla maniera di Angelini e Re, tre tipi di sviluppo:

- lo sviluppo sociale che indica un miglioramento della qualità della vita di soggetti che vivono in determinate aree geografiche o che fanno parte di determinati gruppi sociali e una maggiore partecipazione di tali soggetti alle decisioni prese per il loro futuro;

- lo sviluppo dell’ambiente fisico in cui la pianificazione e la presenza di aspettative e capacità emergenti sono degli obiettivi fondamentali, poiché vi è la convinzione che l’ambiente costruito sarà in grado di soddisfare le suddette aspettative. L’obiettivo fondamentale della pianificazione dell’uso della terra è costruire strutture in relazione armonica e funzionale con l’ambiente.

- lo sviluppo economico che ha ancora oggi significati diversi, per alcuni indica crescita economica, crescita della produzione, dei consumi, del reddito medio annuo, per altri miglioramento delle condizioni di vita della popolazione in seguito alla mancanza di condizioni di miseria e migliore distribuzione di reddito.

Dei tre tipi di sviluppo, quello economico assume una rilevanza fondamentale per le nostre teorie e, se negli ultimi 70 anni fosse stato accompagnato da quello sociale e quello ambientale, oggi saremmo qui a raccontare un’altra storia. Infatti, l’espressione sviluppo economico incomincia ad entrare nell’uso comune solo agli inizi degli anni 50 per indicare un aumento rapido e sostenuto dell’attività economica, dell’occupazione e del reddito e per distinguerlo dal fenomeno temporaneo dell’espansione. Il perdurare della povertà e della disoccupazione durante la ricostruzione dell’Europa, le recessioni del 1949 e del 1954 negli USA, il persistere delle teorie economiche sull’equilibrio stazionario, non erano più in grado di offrire delle risposte adeguate. La rivoluzione keynesiana

6 A. Angelini, A. Re, Parole, simboli e miti della natura, Qanat, Palermo, 2012, pp. 295-296.

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conquisterà l’Europa occidentale, legittimerà il dirigismo, fornendo agli Stati nuovi strumenti di intervento e convincerà i teorici dell’economia a puntare l’attenzione sugli equilibri di breve periodo, distogliendoli dall’osservare i mutamenti di lungo periodo. Questo nuovo stadio dello sviluppo economico, che Walt Whitman Rostow definirà stadio del “consumo di massa (…) autoalimentato”, permetterà ai Paesi occidentali di arricchirsi e di modificare la propria struttura economico-sociale come mai era successo in passato7. «Lo sviluppo economico dei quattro decenni successivi al dopoguerra appare, storicamente, come una spinta senza precedenti delle forze produttive»8. Dunque, uno sviluppo caratterizzato dall’incremento demografico, da rapide innovazioni scientifiche e tecnologiche, da grandi riforme strutturali, ma anche dall’accrescimento, formalmente illimitato, delle quantità prodotte, dall’espansione concentrata in alcuni settori industriali e soprattutto da un periodo eccessivamente prolungato, tanto da non poter essere più considerato un evento contraddistinto per il suo breve periodo. Quindi non possiamo valutare questa condizione economica come una fase di sviluppo, se non in un suo primo momento, anche perché la sua estesa persistenza ha tutte le caratteristiche fenomenologiche di una prolungata fase di crescita economica con i suoi limiti e le sue contraddizioni. Non è un mistero che questa fase, opportunamente definita crescita e non sviluppo, abbia portato ad un’apparente uniformità dei livelli di vita occidentale che però hanno nascosto molte diseguaglianze sociali. Crescita dovuta all’ammodernamento delle strutture produttive, agli investimenti pubblici e privati, e di conseguenza, alle trasformazioni del capitalismo liberale e al ruolo del settore pubblico. Se quindi dobbiamo descrivere il fenomeno di accelerazione economica che ha contraddistinto l’Europa occidentale, ma anche in qualche modo le Democrazie popolari dell’Europa centro-orientale e l’URSS, dal dopoguerra alla fine del 1970, non possiamo parlare di sviluppo, se non per una fase molto ristretta di questo periodo, segnata dalle circostanze specifiche della storia di ciascun Paese. Non possiamo confondere sviluppo economico e crescita, tantomeno possiamo considerare i due termini come sinonimi. La crescita è un concetto avulso da quelle che sono le caratteristiche essenziali dello sviluppo e indica esclusivamente un dato numerico, può essere illimitata e può configurarsi in pochi settori produttivi o segmenti economici, accrescendo comunque il valore numerico assoluto dell’indicatore che la misura. La crescita

7 P. Leon, Histoire économique et sociale du monde, Tome 6, Le second XX siècle: 1947 à nos jours, Librairie Armand Colin, Paris, 1977 (trad. it.: Storia economica e sociale del mondo, Volume 6, i nostri anni dal 1947 a oggi, Editori Laterza, Roma, 1979, p. 4).

8 Ibid.

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economica, come è accaduto dal dopoguerra alla fine degli anni 70 del secolo scorso, in Europa e in altri Paesi, può convivere con lo sviluppo.

Di conseguenza, anche il termine sviluppo economico ha mutato notevolmente le sue caratteristiche nel tempo, anzi, probabilmente l’interpretazione che ne veniva data in passato non era la più appropriata. Oggi per sviluppo economico si intende comunque un miglioramento delle condizioni di vita di una società e rientra, con le altre due categorie di sviluppo, ambientale e sociale, inscindibili tra loro, a pieno titolo in quello che definiamo sviluppo sostenibile. Come vedremo più avanti questo tipo di sviluppo “potrà” coesistere anche con la crescita se la intendiamo come accrescimento dei livelli economici che avviene entro i limiti delle possibilità ecologiche, dell’ecosistema e della sua capacità di soddisfare i bisogni delle attuali generazioni nel Sud, Nord, Est e Ovest del mondo e di quelle future. Rientrano in questo quadro complesso e articolato altri fattori: capacità riproduttiva, gestione delle risorse, soglia di sfruttamento, diminuzioni di stock, uso razionale delle risorse, capacità di carico ambientale; tutti elementi correlati al concetto di limite. Lo sviluppo sostenibile implica inevitabilmente dei limiti,

non limiti assoluti, che perdono il loro carattere di assolutezza, ma quelli imposti dall’attuale stato dell’organizzazione tecnologica e sociale nell’uso delle risorse ambientali e dalla capacità della biosfera di assorbire gli effetti delle attività umane. I limiti stessi degli ecosistemi, nella prospettiva dello sviluppo sostenibile, finiscono poi per antropizzarsi in misura crescente, ovvero per essere definiti e ridefiniti all’interno di un quadro al cui centro stanno le esigenze e i bisogni umani9.

Il cammino per arrivare a metabolizzare l’idea di sviluppo in modo compatibile con i limiti imposti dalla natura non è stato facile, altresì, arduo, ricco di spinte culturali, politiche e di drastici passi indietro. Infatti, nel momento in cui si accetta lo sviluppo sostenibile, dovranno necessariamente essere condivise le sue implicazioni e gli effetti più reconditi. Il primo passo sarà il ripensamento del modello economico, che dovrà considerare il “limite” come variabile insostituibile, oltre ad essere strutturato per favorire una più efficiente distribuzione del reddito, in modo da attenuare le sperequazioni tra Paesi ricchi e poveri e, all’interno di uno stesso Paese, tra diversi strati sociali della popolazione. In questo quadro il concetto di sviluppo sostenibile cessa di essere una questione a se stante, ma diventa il cuore dell’agire futuro a livello economico e sociale. Se la

9 A. Angelini, A. Re, Parole, simboli e miti della natura, cit., p. 297.

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sostenibilità integra e realizza una migliore qualità della vita, un’efficiente distribuzione del reddito, rispetto dell’ambiente e delle generazioni future, sarà evidente che le differenze concettuali tra sviluppo e sviluppo sostenibile scompariranno. Esso non si considererà più un’accezione particolare dello sviluppo, ma coinciderà proprio con lo sviluppo stesso, in modo che riferirsi all’uno o all’altra non avrà più senso, precisato che si vuol intendere con l’utilizzo dei due termini la medesima cosa.

Dunque, procedere in una ricerca che fondamentalmente parte dalla cultura ambientalista e si estende, favorita dalla trans – disciplinarietà della materia, anche ad ambiti politici, oltre che sociologici e filosofici, implica misurarsi continuamente con nuove questioni e problemi che si pongono sul cammino. Lungi da questo lavoro l’intenzione di dare risposte esaustive ad ogni filone problematico aperto, l’intento sarà semmai, attraverso il percorso storico intrapreso, quello di dimostrare come sviluppo sostenibile e sviluppo siano tanto simbiotici da fondersi in un unico concetto e che, se quest’ultimo sarà in grado di imporsi come guida per la ricostituzione dell’equilibrio dell’ecosistema, di conseguenza potrà concretamente affermarsi come nuova idea del XXI secolo, sulla quale indirizzare, modificare, orientare, le misure di riforme politiche ed economiche.

A tale scopo il lavoro è articolato in due parti. La prima, di carattere generale, focalizza l’attenzione sulle ragioni che hanno favorito la nascita di una cultura ambientalista, tanto a livello scientifico, quanto a livello politico e nell’opinione pubblica.

Dal concetto di limite affrontato in modo dirompente con il saggio The Economics of the Coming Spaceship Earth di Kenneth Boulding, nel quale per la prima volta è stato analizzato in modo sistematico e compiuto il problema della limitatezza delle risorse, alla nascita dell’ambientalismo scientifico con l’opera Primavera silenziosa, di Rachel Carson. Scritto nel 1962, l’autrice di Primavera silenziosa, con dovizia di ricerche e analisi scientifiche, mise in evidenza i danni irreversibili all’ambiente e agli equilibri della natura, causati dall’utilizzo indiscriminato di pesticidi. L’opera è ancora oggi un classico del pensiero ambientalista ed ha dato il via a quello che fu definito l’ambientalismo scientifico. Saranno evidenziate le varie tappe storiche in cui questa sensibilità si è imposta anche a livello politico globale, diventando materia da affrontare attraverso obiettivi e misure da intraprendere dai vari Stati che ne hanno riconosciuto l’importanza e l’urgenza. Una particolare attenzione è riservata all’Europa, non solo perché è stata tra le prime ad accogliere il concetto di sviluppo sostenibile, ma anche perché tra i suoi obiettivi si è dato quello di promuovere la sostenibilità oltre che negli Stati membri, anche a livello internazionale, diventando reale protagonista di uno sviluppo di qualità. In

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merito saranno prese in considerazione le misure adottate e le idee guida ispiratrici, in particolare da Göteborg a Johannesburg, oltre alle ultime misure come quella dei tre 20% adottate in favore della sostenibilità.

Inoltre, per meglio inquadrare l’importanza del concetto di sviluppo sostenibile, non si poteva non considerare le basi culturali del pensiero contemporaneo e la concezione moderna della scienza e della tecnica. È indubbio l’idea che lo sviluppo tecnologico-scientifico sia fondamentale per migliorare le condizioni dell’umanità sulla Terra e contribuire a risolvere buona parte dei problemi causati dallo stesso degrado antropico. È necessario che questo sviluppo venga considerato come strumento e non come scopo o fine, affinché non risulti la causa stessa dei problemi. Nel documento di Basilea (Documento Finale, Assemblea Ecumenica Europea “Pace nella Giustizia”, Basilea 15-21 maggio 1989), i delegati di tutte le chiese europee dichiarano:

L’abuso della tecnologia è responsabile del crescente sfruttamento e, se essa non verrà messa sotto controllo, della distruzione dell’ambiente. La tecnologia ha portato molti vantaggi, ma nello stesso tempo, invece di servire l’umanità, è diventata una minaccia al suo futuro.

La seconda parte del lavoro è dedicata al rapporto economia – ecologia. In essa si chiarirà in modo specifico come la crescita economica non abbia portato nel tempo a soluzioni concrete delle grandi sfide poste all’umanità. Essa si apre con una disamina storica delle politiche economiche dell’Unione Sovietica e delle Democrazie popolari, dal dopoguerra al 1970. La scelta dell’arco temporale è significativa per almeno due motivazioni: la prima attiene ad una sorta di breve indagine storica sui successi e fallimenti della pianificazione economica, che, almeno nel programma politico lanciato da Kruscev, avrebbe già nel 1970 dovuto assicurare a milioni di persone l’affrancamento dai lavori manuali ausiliari per l’introduzione di nuove tecnologie, con una crescita di occupazione nella cultura, nella sanità ed in altri servizi pubblici. L’uomo “nuovo comunista”, alla fine degli anni presi in analisi, avrebbe goduto di una grande abbondanza di beni culturali e possibilità sociali, sarebbe stato culturalmente elevato, moralmente responsabile e di grande intelletto e coscienza. In altri termini, almeno sul piano propagandistico, gli obiettivi della pianificazione economica non erano lontani dall’idea di sviluppo che abbiamo tracciato. La storia andò diversamente e di quanto promesso e progettato, non si registrerà nessuna traccia significativa. L’altro motivo è più squisitamente legato alla cultura ambientalista. Infatti, dopo una prima fase di ricostruzione economica, nelle economie avanzate, è iniziato ad emergere con forza il problema del

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limite e della salvaguardia del pianeta. Nell’Unione Sovietica e nelle Democrazie popolari, non si porrà mai una questione ambientale, almeno a livello politico – istituzionale. Salvo alcune eccezioni, i piani di programmazione economica si trovarono sempre di fronte a priorità di altro tipo, tutte incentrate sulla crescita estensiva di tipo industrialista ed, in ultimo, a correggere i limiti dei precedenti piani.

In senso assoluto, la sostenibilità non potrà mai essere realizzata senza l’intervento di una governance di coordinamento tra i vari Paesi. I motivi sono diversi, il più importante attiene alla sovranazionalità del problema che trasborda i confini territoriali. Altro motivo è di natura economica: l’economia di mercato difficilmente può garantire crescita e salvaguardia ambientale, anche perché il costo per non inquinare rimarrebbe a carico degli operatori economici e dei consumatori finali. Se i vincoli per produzioni riguardose dell’ambiente fossero un esclusivo precetto, le aziende che li porrebbero in essere potrebbero presentare dei costi finali più alti, soffrendo la concorrenza delle aziende inquinanti. Si tratta, ovvio, di un ragionamento in astratto, nelle realtà specifiche occorrerà distinguere tra settori produttivi, prodotti, qualità, atteggiamento critico dei consumatori, ecc. A meno che non si consideri l’elemento ambientale (capitale naturale) come una risorsa pubblica, del singolo Stato, di un insieme di Stati o addirittura del Mondo10. Certo, dobbiamo evidenziare che il risultato finale, senza una qualche forma di coordinamento pubblico, non sarebbe incoraggiante. Resterà da chiarire allora il problema del ruolo dello Stato, in particolar modo la sua efficienza nell’organizzazione economica e quali sono i settori d’intervento che si potrebbero giovare del sostegno pubblico. Le politiche liberiste sono state messe in forte discussione dalla crisi finanziaria del 2008, che ha in modo impietoso evidenziato tutti i limiti di

10 L’ipotesi del calcolo delle esternalità ambientali è stato preso in considerazioni più volte dagli economisti. Naturalmente questo calcolo avrebbe bisogno di una ampia considerazione e condivisione a livello globale e soprattutto non dovrebbe ricadere sul consumatore finale. Sarebbe auspicabile individuare una serie di parametri che indicassero il reale costo dell’elemento ambientale, o come lo chiama Herman. Daly capitale naturale: l’insieme dei sistemi naturali (mari, fiumi, laghi, foreste, flora, fauna, territorio), ma anche i prodotti agricoli, i prodotti della pesca, della caccia e della raccolta e il patrimonio artistico-culturale. Il consumatore che vive in un particolare territorio e usufruisce di tale risorsa dovrebbe averne un ricavo calcolabile e non un costo. Lo sfruttamento o l’incremento di questo elemento dovrebbe essere valutato a livello internazionale e capitalizzato come risorsa del singolo Stato. La logica di questa valutazione della risorsa è rendere l’elemento ambientale un bene pubblico economicamente vantaggioso per chi lo tutela o lo valorizza ed economicamente svantaggioso per chi lo sfrutta sia direttamente che indirettamente. L’Unione Europea adotta già una serie di parametri di questo tipo. Ad esempio nel momento in cui un Paese fa richiesta di ingresso in UE questo deve conformare alcuni parametri ambientali a livello Europeo.

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un sistema che ha trascurato, forse sarebbe meglio dire ignorato, la differenza tra rischio e incertezza. L’ingresso del sistema economico di mercato nell’economia, sia nella sua forma più diretta lasciando allo Stato solo “Law and order”, sia nelle forme miste con particolare rilievo al settore privato, che è poi, la forma in concreto applicata dai maggiori Paesi ad economia liberista, non ha sortito gli effetti di un equilibrio macroeconomico efficiente con una migliore distribuzione del reddito ed il raggiungimento di quegli obiettivi integrati nella definizione di sviluppo. Uno dei massimi esperti della finanza, il Presidente del FMI Dominique Strauss-Kahn, il 21 dicembre 2008, a questo proposito, ha chiesto agli Stati di investire una cifra pari al 2% del PIL mondiale per dare nuovo slancio all’economia, a dimostrazione di come non esiste un modello economico migliore in senso assoluto, tutti presentano luci e ombre. Un ulteriore scossone alle tesi liberiste arriva con una critica alla scuola di Chicago, avanzata al suo interno da Richard Posner che, nell’opera The Crisis of ‘08 and the Descent into Depression, riconoscendo i limiti dell’auto-regolamentazione, riabilita in parte le teorie Keynesiane considerate come capaci di dare positivi indirizzi alla crisi attuale. Per Posner i liberisti hanno fallito là dove Keynes ha vinto, o per meglio dire, hanno vinto quelle teorie liberiste informali di Frank H. Knight e di molti altri, molto più vicine a Keynes che agli attuali neoliberisti: il sistema finanziario bancario presenta delle esternalità che non è facile calcolare, forse oggi non c’è nessuno in grado di farlo.

Al di là della disquisizione sui diversi sistemi economici, comunque utile a comprendere il contesto economico-sociale di riferimento, interessa sottolineare come per lo sviluppo sostenibile, fortemente legato alle problematiche economico-finanziarie del sistema internazionale, è necessario l’intervento pubblico, senza il quale, sarebbe arduo la realizzazione dello stesso. Ideale sarebbe dotarsi di una governance mondiale che sappia guidare, indirizzare, coordinare i singoli Paesi. La sostenibilità ha chance di successo se travalica i confini nazionali e sia almeno sul piano strategico e programmatico, di competenza della comunità internazionale. Il ruolo dell’ONU diventa cardine, in quanto l’unico autorevole luogo che può favorire accordi e progetti. Con l’ONU si potrebbe avere una “quasi governance” dal potere limitato e dall’efficienza ed efficacia debole, ma utile quanto basta a cercare di imprimere quelle svolte che i problemi globali richiamano.

Rimane il problema di trovare un indicatore per valutare i risultati potenzialmente conseguibili dalle politiche in favore dello sviluppo.

Se sviluppo sostenibile e sviluppo sono due concetti dal medesimo significato, poiché attraverso essi possono essere raggiunti gli obiettivi e le

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finalità di una matura società contemporanea, dobbiamo superare la logica del mercato per il mercato e della crescita come risultante ultimo di esso. Pertanto, l’indicatore PIL, che misura la crescita delle nazioni attraverso l’incremento del prodotto nazionale, non sarà più adeguato se l’oggetto della misurazione diventerà lo sviluppo. Dotandosi di un mezzo più corretto che evidenzi la qualità della vita, la giusta distribuzione del reddito, i progressi nella salute del pianeta, i governi potranno facilmente verificare il risultato delle loro politiche, prendendo le dovute correzioni dagli scostamenti. Nicolas Sarkozy, ponendosi le medesime domande ha sostenuto:

Un progetto relativo alla civiltà nasce da una volontà collettiva, da uno sforzo

collettivo di lungo termine (…). Non possiamo concentrarci unicamente sui dati che il mercato ci fornisce. Operando come se il mercato fosse la fonte di ogni verità, si finisce per convincersene. Ma se tale convinzione fosse vera, non ci troveremmo nella situazione in cui ci troviamo. Si è voluto far dire al mercato ed alle statistiche cose che non sono in grado di dire.

La presa di coscienza di Nicolas Sarkozy è stata particolarmente rilevante proprio per il ruolo politico rivestito. Oltre ad una critica sostanziale sull’attuale modello economico basato unicamente sulla crescita, il Presidente francese istituirà una commissione di studio presieduta da tre premi Nobel dell’economia con il compito di elaborare le linee guida per un set di indicatori in grado di misurare lo sviluppo di una nazione.

Lo sviluppo dovrà ricoprire un ruolo fondamentale nelle agende politiche, e nei programmi che si pongono responsabilmente la realizzazione di una società migliore, più civile perché rispettosa della natura e delle future generazioni, fermamente convinta che la missione dell’uomo sia dare una risposta concreta a tutti quei problemi che gli impediscono di progredire, non solo economicamente, ma anche socialmente, culturalmente ed in altri termini, come uomo che aspiri alla convivenza civile ed alla ricerca della propria felicità personale e collettiva.

Se lo sviluppo è dunque questo: sviluppo sostenibile e sviluppo avranno un unico inscindibile significato e, considerarli in modo separato, finirebbe per essere un errore prima che logico, di tipo concettuale.

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I Parte

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1. Premesse per la questione ambientale

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1.1 La percezione del limite e la sua evoluzione storica

«Le foreste precedono i popoli, i deserti li seguono», scriveva Francois-René Vicomte de Chateaubriand, tra i più importanti autori del romanticismo francese. Parole cariche di lirica drammatica e di senso profetico, con venature di pessimismo endogeno riguardo all’indole umana, in perfetto stile romantico. Si potrebbe quasi ipotizzare uno scenario apocalittico, con la terra ridotta in un deserto, priva di risorse e con ancor visibili i ruderi del passaggio del genere umano. Una lapide, oppure una scritta su un muro mostrerebbe le parole di Chateaubriand, che da profetiche e liriche, suonerebbero come un epitaffio funebre.

Si tratta, ovviamente, di una pura sensazione squisitamente letteraria: eppure dietro le righe, scaturisce il timore un po’ meno fantasioso di uno scenario possibile, drammaticamente dipendente dall’uomo e dal suo modo di agire.

Apriamo questo paragrafo, e con esso l’intero lavoro, con l’immagine che i versi ci hanno suscitato e susciteranno nel lettore, convinti che nulla di più forte ed incisivo di una presa di coscienza collettiva sulla questione ambientale, sia stata, lungo tutto il secolo appena trascorso, la più grande vittoria dell’ambientalismo di qualunque marca ideologia o scientifica. Una vittoria parziale, non ancora definitiva, scaturita nel tempo e con gradualità, una vittoria che necessita di ulteriori sforzi e ingegni perché non diventi la battaglia vinta da Pirro, ma orienti scelte, azioni e politiche alla luce del problema ecologico.

Quando ebbe inizio la presa di coscienza sull’ambiente? Difficile trovare una data precisa legata ad un avvenimento, finanche drammatico; il suo prender piede, semmai, come del resto altri fenomeni della storia, è il frutto di una varietà di cause e concause ben intersecate tra loro, che ripercorreremo in queste pagine.

Alcune tesi storiche sulla scomparsa del popolo di Rapa Nui, nome originario dell’Isola di Pasqua, addebitano all’impoverimento delle risorse naturali sull’Isola, una delle ragioni della decadenza della civiltà rapanui. Fu l’opera Collasso11 di Jared Diamond ad esporre in modo rigoroso e anche scientifico la tesi, sottolineando come il mondo dei rapanui poteva

11 Cfr. J. Diamond, How Societies Choose to Fail or Succeed, Viking, New York, 2004 (trad. it.: Collasso. Come le società scelgono di morire o vivere, Einaudi, Torino, 2005).

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essere paragonato al nostro. Infatti, dato l’isolamento, per gli abitanti essa costituiva il mondo intero, le risorse presenti erano scarse ed andavano gestite con raziocinio, pena la decadenza della società, come, di fatto, avverrà per gli isolani. La scarsità delle risorse non è l’unica causa della scomparsa degli abitanti di Rapa Nui e forse neppure quella principale, tuttavia, al di là di ogni puntuale ricerca della verità storica sulle effettive cause, essa ha avuto un contributo notevole, ed è disarmante l’immagine che avrà il visitatore muovendosi sull’isola quasi deserta e spoglia della vegetazione, che un tempo abbondava. Rimangono, quasi come monito, le splendide e suggestive statue dei Moai, ma della popolazione che le ha costruite la storia ne ha perso le tracce.

La vicenda si presta bene, come detto, ai parallelismi con il nostro mondo, si coglie quello che può essere definito il problema cruciale della nostra società. La questione ambientale, vedremo nelle prossime pagine, è indubbiamente una presa di coscienza che implica un nuovo modo di guardare il mondo, abbandonando quella visione di una natura infinitamente generosa, che può essere sfruttata incondizionatamente. La storia dell’Isola di Pasqua, ci riporta dunque, all’idea del limite, in particolare nello sfruttamento delle risorse, limite necessario se si vorranno preservare gli ecosistemi.

I limiti dello sviluppo sono un riferimento obbligato per l’emergere della questione ambientale e per favorire una nuova visione del mondo attenta ai problemi del globo.

Cominciamo pertanto ad attraversare le tappe storiche più importanti che hanno favorito questa nuova visione del mondo ed in particolare la nascita di una sensibilità ambientale. In questo paragrafo tratteremo le singole tappe congiunte agli avvenimenti storici che le hanno ispirate, cercando di mostrare come gradualmente sia iniziata una presa di coscienza in favore della questione ambientale.

Suggestive sono in questo senso le parole del futuro Presidente degli Stati Uniti:

«Oggi ci troviamo alle soglie di una Nuova Frontiera, (…) una frontiera di possibilità e di pericoli sconosciuti»12. Sono le parole del senatore del

12 Il senator John F. Kennedy alla presenza del Governatore Stevenson, del senator Johnson, del senator Buttler, del senator Symington e del senator Humprey, iniziò il suo discorso alla Conventio Nazionale dei Democratici con queste parole: «For I stand tonight facing west on what was once the last frontier(…). Today some would say thatthose struggles are all over – that all the horizons have been explored – that all the battles have been won – that there is no longer an American frontier. But I trust that no one in this vast assemblage will agree with those sentiments. For the problems are not all solved and the battlers are not all won – and we stand today on the edge of a New Frontier – the frontier of the 1960’s – a frontier of unknown opportunities and perils, a frontier of unfulfilled hopes

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Massachusetts John Kennedy durante il discorso per l’accettazione formale della candidatura a Presidente degli Stati Uniti, al Memorial Coliseum di Los Angeles, venerdì 15 luglio 1960, in presenza di 80.000 persone. Una frase emblematica, utilizzata dal futuro presidente degli Stati Uniti per spronare gli americani ad affrontare il nuovo decennio, quello “delle speranze e minacce incompiute”, con lo stesso coraggio e spirito di sacrificio degli antichi pionieri americani. Il discorso sintetizza in modo esemplare il clima culturale, sociale e politico che si respira negli anni 60. Accanto ai grandi progressi dell’umanità, al benessere economico diffuso, si percepisce come contraltare la paura per una guerra nucleare e la sensazione che la ricchezza non sempre è chiave per il raggiungimento della felicità.

Le speranze e le paure, l’incertezza per il futuro e le grandi opportunità di quegli anni sono stati fattori chiave per la nascita di nuovi fermenti culturali e sociali, tra i quali un nuovo modo di guardare la terra e l’ambiente che circonda l’uomo. L’ecologia, da problema civico, gradualmente comincia ad imporsi come scienza ed emergenza.

Notevole, a conferma della nostra tesi, è stato l’impatto dirompente che ha avuto nella letteratura economica, e non solo, il saggio The Economics of the Coming Spaceship Earth di Kenneth Boulding, nel quale per la prima volta è stato affrontato in modo sistematico e compiuto il problema della limitatezza delle risorse. L’autore si sofferma attraverso l’immagine suggestiva del cowboy e della navicella spaziale sul confronto tra un’economia aperta ed una chiusa.

Sia pure in modo pittoresco chiamerò ‘economia del cowboy’ quella caratterizzata da un sistema aperto: il cowboy è il simbolo delle pianure sterminate, del comportamento instancabile, romantico, violento e di rapina che è proprio delle società aperte. L’economia chiusa del futuro dovrà assomigliare invece a quella dell’astronauta: la Terra va considerata una navicella spaziale, nella quale la disponibilità di risorse ha un limite, per quanto riguarda sia la possibilità di uso, sia la capacità di accogliere i rifiuti, e nella quale perciò bisogna comportarsi come in un sistema ecologico chiuso capace di rigenerare continuamente i materiali, pur mantenendo un apporto esterno di energia13.

and threats. … the New Frontier is here, whether we seek it or not. Beyond that frontier are the uncharted areas of science and space, unsolved problems of peace and war, unconquered pockets of ignorance and prejudice, unanswered questions of poverty and surplus». Dal: “Presidential Nomination Acceptance Speech” di John F. Kennedy, 15 luglio 1960. Il documento originale e il video della conferenza sono di proprietà della John F. Library Foundation e sono disponibili al sito: http://www.jfklibrary.org/JFK/Historic-Speeches.aspx

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Boulding metteva in discussione il significato del prodotto interno lordo, sottolineando come non fosse in grado di rappresentare nel modello di calcolo le problematiche della limitatezza delle risorse naturali, del degrado ambientale e dei relativi costi. La portata innovativa della sua opera è tale da destrutturare il vecchio modo d’intendere i problemi dell’economia. Comincia a farsi strada l’idea che le risorse non saranno sempre disponibili, la loro limitatezza rappresenterà un costo economico, ma anche sociale e politico. Il PIL come grandezza è fortemente limitato, esso non considera

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l’interferenza negativa di esternalità legate allo sfruttamento irresponsabile

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di alcuni fattori della produzione14. Affermava in proposito:

Il PIL dovrebbe essere depurato dai costi della produzione di armi e di mantenimento degli eserciti, costi che non hanno niente a che fare con la difesa. Dovrebbe essere depurato anche dai costi del pendolarismo e dell’inquinamento. Quando qualcuno inquina e qualcun altro ripulisce, le spese per la depurazione

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fanno aumentare il PIL, ma il costo dei danni arrecati dall’inquinamento non viene

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sottratto15.

L’attenzione ai problemi dell’ecosistema inizia ad interessare anche l’opinione pubblica. La biologa marina Rachel Carson scosse il mondo con il suo libro Primavera silenziosa, dove analizzava gli effetti devastanti dei pesticidi e delle sostanze chimiche sulla natura e sull’uomo. L’opera diventava subito un classico del pensiero ambientalista ed ancora oggi resta un punto di riferimento di grandissima attualità. Scritto nel 1962, l’autrice con dovizia di ricerche e analisi scientifiche, mise in evidenza i danni irreversibili all’ambiente e agli equilibri della natura, causati dall’utilizzo indiscriminato di pesticidi. Un lavoro schietto, sostenuto da una rigorosa impalcatura teorica che ne validava le tesi. L’uscita del libro costituì “un colpo al cuore” ad un intero settore produttivo che proprio sui pesticidi realizzava ingenti economie di scala. Come è logico, Primavera silenziosa, non passò nell’ombra. La Carson fu attaccata violentemente dalle multinazionali della chimica e dell’industria agroalimentare, attraverso una

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campagna di delegittimazione e denigrazione di altissima brutalità16. Si fece di tutto per “zittire” la Carson, ma il libero pensiero, quando sostenuto dal rigore scientifico, ha la solidità di una casa costruita sulla roccia. Fino allora in pochi si erano preoccupati dei problemi ambientali: fu lei a denunciare gli effetti delle tecniche intensive in agricoltura; la sola ad evidenziare i danni causati alla salute dall’utilizzo indiscriminato degli antiparassitari; la più brillante a sottolineare i pericoli dell’incontrollato intervento distruttivo dell’uomo sulla natura. Primavera silenziosa è dedicato ad Albert Schweitzer, premio Nobel per la pace del 1952. Schweitzer era tra le personalità contemporanee più apprezzate dalla Carson per il concetto di etica che animava il Nobel. «L’uomo – soleva ripetere Schweitzer- ha perduto la capacità di prevenire e prevedere. Andrà a finire che distruggerà la Terra».

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Il nuovo modo di “intendere la natura”17 ed i primi passi per una presa di coscienza collettiva ebbero riconoscimento ufficiale nel primo Earth Day, il 22 aprile 1970, quando 20 milioni di americani si mobilitarono per dar vita ad una manifestazione in difesa della terra. Il promotore fu il senatore democratico Gaylord Nelson, che ebbe il merito di portare al centro della politica americana la salute del pianeta. Il primo Earth day fu definito dall’autorevole Amercian Heritage Magazine come: “one of the most remarkable happenings in the history of democracy”.

Qualche anno più tardi iniziarono le attività di Greenpeace. Il 15 settembre 1971 Jim Bohlen, Irving Stowe e Paul Cote salparono alla volta di Amchitka con il peschereccio “Phyllis Cormack” per protestare contro un imminente test nucleare degli Stati Uniti. La spedizione non andrà a buon fine, ma otterrà un grandissimo successo mediatico e Amchitka non verrà più utilizzata per i test nucleari. Tra i protagonisti di Greenpeace, un ruolo di primo piano è stato ricoperto da Mc Taggart. Nel 1972 diede vita alla prima vera e propria battaglia ambientalista dell’organizzazione. A bordo del “Vega” salpò per Muroa con l’obiettivo di fermare i test atomici

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francesi in atmosfera18. In quell’occasione Mc Taggart riuscì solo a ritardare i test, ma l’anno dopo ritornò con il suo equipaggio a Muroa per contrastare gli esperimenti nucleari francesi. Un’operazione piena di momenti concitati, nei quali i francesi abbordarono il Vega e ferirono l’ecologista. Un fotografo del suo equipaggio riprese tutto e diffuse la notizia che in poco tempo fece il giro del mondo, suscitando clamore e indignazione. La dimostrazione degli uomini del Vega ebbe come risultato l’abbandono nel 1974 degli esperimenti nucleari in atmosfera.

A pochi anni di distanza, Hans Jonas, scosso dalla drammatica vicenda della distruzione di buona parte della Foresta Nera in Germania, a causa delle piogge acide, pubblicava, nel 1979, il celebre classico: Il principio

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responsabilità19, un’opera anticipatrice di temi e riflessioni che continuano ancora oggi.

È sempre più evidente come i problemi ambientali si legano agli aspetti economici. Nel 1971 Nicholas Georgescu-Roegen scriveva che l’entropia dell’universo fisico aumenta costantemente dato il continuo degrado qualitativo e irreversibile dell’ordine del caos. La natura entropica del processo economico, che erode le risorse naturali e altera l’ambiente, costituisce un grave pericolo. L’uomo deve imparare a razionalizzare le

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poche risorse disponibili se ha l’intenzione di pianificare la sua esistenza

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nel lungo periodo20.Non sono immuni dai fermenti ecologisti anche gli ambienti scientifici

ed accademici, in particolare dopo la pubblicazione dell’opera della Carson. Negli anni 70 fu fondato il Club di Roma, che intuendo le potenzialità di un modello di “dinamica dei sistemi”, applicato fino ad allora solo a società ed aziende e in un unico caso a politiche urbane nella città di Boston, invitò, nello stesso anno, il suo inventore ad un incontro a Berna. L’incontro tra i membri del Club di Roma e Jay W. Forrester generò, in modo del tutto inaspettato, un forte entusiasmo nello scienziato, che da subito iniziò a lavorare ad una serie di modelli di dinamica dei sistemi applicati alla capacità di carico della Terra. Jay W. Forrester

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elaborò in pochissimo tempo due modelli: World one, World two21. A seguito della pubblicazione dei due modelli, il mondo scientifico fu subito catturato dalle loro potenzialità, in particolare da World two molto più elaborato del primo. Le sue applicazioni prevedevano interrelazioni importanti tra popolazione mondiale, produzione industriale, inquinamento, risorse naturali e alimentari. Fu per questo che il Club di Roma chiese a Jay Forrester di elaborare un ulteriore modello. Forrester rifiutò di occuparsi personalmente della nuova elaborazione e fece affidare l’incarico ad uno dei suoi dottorati: Dennis Meadows. Il nuovo modello di Meadows, World three, era praticamente simile a World two, ma il suo successo, come sapete, fu mondiale. World three fu pubblicato nel noto libro Limits to Growth del 1972 e tradotto in tutte le lingue. In entrambi i modelli (world two e world three) i risultati evidenziavano, attraverso una formalizzazione teorica, organica ed efficace, i rischi di un imminente collasso del sistema socio-economico. L’effetto serra, la limitatezza delle risorse, venivano considerati problemi cruciali tali da generare costi altissimi in termini economici, sociali ed ambientali. In estrema sintesi, se non si provvedeva a modificare il modello di sviluppo fondato sulla crescita illimitata, si rischiava seriamente di compromettere le generazioni future. I toni usati, forse troppo “apocalittici”, oggetto di numerose critiche e strumentalizzazioni, ebbero comunque il merito di sensibilizzare la comunità scientifica e l’opinione pubblica sugli sviluppi distruttivi di un’economia a crescita esponenziale. Limits to Growth, il più venduto e distribuito dei due, era stato scritto con uno stile “amichevole” che lo aveva reso accessibile ai lettori non tecnici, ma anche con una freschezza intellettuale tale da dare scientificità a tematiche fino allora relegate alla semplice sensibilità del singolo individuo. A rigore, dobbiamo ricordare che il Rapporto sui Limiti, fu pubblicato nel periodo in cui scoppiava la prima grande crisi del petrolio. La questione energia divenne, pertanto, una delle principali inquietudini di ogni singolo Stato del pianeta. Un problema che coinvolse non solo i governi, ma interessò la maggior parte dei contesti

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sociali, preoccupati allo stesso modo in materia di futuro energetico22. Fortunatamente le cupe previsioni del Club di Roma non si avverarono: si era previsto l’esaurimento di gran parte delle riserve di petrolio entro il 2000. L’errore di stima non è ravvisabile nel metodo con il quale è stata condotta l’indagine, ma nell’aver escluso quale variabile determinante del

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modello, l’ipotesi della scoperta di nuovi giacimenti23. Tuttavia quel rapporto, con le sue teorie espresse in modo chiaro e rigoroso, ancora oggi

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funge da monito e sottolinea come i problemi posti non siano risolti24. Certo le politiche ambientali ed energetiche sono entrate a far parte delle agende

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dei governi, ma riteniamo che l’umanità, per parafrasare il secondo

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rapporto al Club di Roma25, non sia ancora ad una “svolta”.La cultura della sostenibilità non poteva che svilupparsi in questi anni,

con alle spalle un New Deal che non aveva mantenuto le sue promesse di benessere e felicità e con un futuro incerto e difficilmente prevedibile. La promessa del sogno americano dopo la politica del New Deal che aveva fatto uscire gli Stati Uniti dalla crisi del 1929, sembrava prendere sempre più corpo, divenendo un modello per le economie occidentali. Eppure l’America si risvegliava all’alba dei 60, come un paese vecchio, stritolato dalle sue contraddizioni nel quale la costante crescita economica non coincideva con un aumento della felicità. Dalla pittura, che si espresse nel vigore della Painting art di Jackson Pollock prima e nella Pop art di Warhol, poi passando per la rivoluzione Jazz di Coltrane; dal Rock and roll, dalla letteratura Beat ai movimenti per i diritti dei “neri”, si assiste all’emergere di una nuova controcultura che si ribella al consumismo e che dimostra come benessere non equivale a ben vivere. Ma se il Paese, simbolo del capitalismo vive la sua contraddizione, questa non può che diffondersi a livello planetario, così come tutti quei movimenti artistico - culturali avranno una portata mondiale. Il grande fermento di allora è stato il terreno fertile per una riflessione compiuta anche sull’ambientalismo. Non a caso Primavera silenziosa fu pubblicato in America, così come il saggio di Boulding e via dicendo.

Quel periodo storico ha segnato la nascita di una nuova cultura e di una nuova scienza che spinge a interrogarsi sui problemi dell’ecosistema ed a trovare le soluzioni più appropriate per garantire la sopravvivenza del pianeta. Occorre porsi la questione del “Limite”, nei sistemi produttivi attuali, e nelle teorie economiche che pretendono di dare risposte concrete ai problemi dell’accumulazione e distribuzione delle risorse, dopo anni nei quali si è considerato il pianeta come un’enorme miniera da sfruttare indiscriminatamente.

1.2 Dalla nascita dell’antropocentrismo alla concezione moderna della scienza

Il pensiero filosofico presente nella tradizione occidentale, sostenuto dalla cultura orientale, interpreta il mondo come un tutt’uno di fenomeni connessi e interdipendenti, in cui è impossibile scindere l’uomo dalle altre specie. Gregory Bateson, nella sua relazione alla conferenza tenuta nella Cattedrale di Saint John the Divine a New York il 17 novembre 1977, che divenne poi parte integrante del libro Mind and Nature, a Necessary Unity, asseriva che:

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La maggior parte di noi ha perso quel senso di unità di biosfera e umanità che ci legherebbe e ci rassicurerebbe tutti con un’affermazione di bellezza. La maggior parte di noi oggi non crede che, anche con gli alti e bassi che segnano la nostra limitata esperienza, la più vasta totalità sia fondamentalmente bella. (…)Abbiamo perduto il totemismo, il senso del parallelismo tra l’organizzazione dell’uomo e quella degli animali e delle piante. Abbiamo perduto persino il Dio Che Muore. (…)Stiamo cominciando a giocherellare con le idee dell’ecologia, e benché subito le degradiamo a commercio o a politica, c’è se non altro ancora un impulso nel cuore degli uomini a unificare e quindi a santificare tutto il mondo naturale di cui noi siamo parte. Continua ancora Bateson. Io mi attengo al presupposto che l’aver

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noi perduto il senso dell’unità estetica sia stato, semplicemente, un errore

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epistemologico26.

Secondo Bateson, l’uomo e il mondo nella cultura contemporanea sono ormai disgiunti. Continuiamo ad assistere ad un capovolgimento di paradigma, originatosi dopo la Rivoluzione Industriale, secondo il quale è l’uomo che impone il suo “dominio sulla natura”, scollegandosi, di fatto, da quella simbiosi che lo vedeva parte e partecipe di essa all’interno della biosfera. Le cause di questo repentino “divorzio” possono essere molteplici, tuttavia a monte di tale imprevista scissione c’è evoluzione della cultura antropocentrica, che offre l’illusione di poter controllare, cambiare e plasmare a proprio utile la maggior parte delle cose del mondo. Nello stesso testo, Bateson ci invita alla lettura dell’opera The Great Chain of

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Being: A Study of the History of an Idea27 di Arthur Oncken Lovejoy,

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invogliandoci a riflettere su come abbiamo perduto quel senso di unità tra

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uomo e natura28.William R. Catton Jr. e Riley E. Dunlap hanno sintetizzato con

l’acronimo Hep (Human exceptionalism paradigm) l’atteggiamento antropocentrico dell’età moderna. Secondo i due studiosi americani la concezione dominante vede l’uomo come l’unico a possedere un’eredità non solo biologica, ma anche culturale. Per questo motivo nelle scienze c’è stata una trasposizione dell’idea antropocentrica nella società, con l’effetto di strutturare teorie che interpretano l’interazione uomo - ambiente secondo il paradigma dominante (Dominant social paradigm) della fiducia incontrastata del progresso scientifico, della prosperità, della libertà d’impresa, dei valori dell’individualismo, dell’onnipotenza della volontà umana e della virtuale illimitatezza delle risorse.

Lo sviluppo dell’idea antropocentrica ha però radici lontane, che possono essere individuate nelle profonde trasformazioni politiche,

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economiche e sociali avvenute a partire dal XVIII secolo29. “L’overture” che aprì la “partitura” dei cambiamenti è stata la concezione di modernizzazione apportata dalle due rivoluzioni, quella industriale e quella francese, oltre alla forte influenza esercitata dalla religione nella determinazione dei diversi modelli economico-sociali (riforma protestante), che hanno letteralmente scosso il vecchio mondo. Assistiamo ad una nuova “melodia metrica”, totalmente di rottura e distante dal passato che, nella

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sostanza, segnava il passaggio epocale alla modernità30. Emergono dalla nuova cultura modernista almeno tre aspetti salienti per il nostro ragionamento. La razionalizzazione intesa come razionalità strumentale, che privilegia l’aspetto dell’efficienza calcolabile nel raggiungimento di un obiettivo prefissato attraverso una valutazione oggettiva dei mezzi a disposizione. Diventano centrali il sapere tecnico ed una visione del mondo spersonalizzata in cui principi, valori, ideali lasciano il passo all’oggettivizzazione della società, figlia di una visione scientifica del mondo che lo interpreta nei suoi nessi di casualità. Altro aspetto è la differenziazione. Nell’età moderna tale elemento viene completamente riconcettualizzato. Perdono d’importanza quegli attributi specifici come il sesso, la razza, la religione ecc. per assumere rilevanza caratteri per lo più attinenti alla divisione del lavoro: l’operaio, l’artigiano, il professionista, il detentore di capitali. Differenze funzionali che trasbordano nella società, finendo per qualificare le persone in base al loro ruolo nel sistema produttivo. Il terzo elemento che deriva dai due precedenti è il processo di individualizzazione. L’uomo comincia ad avere fiducia nei propri mezzi, diventa libero da vincoli e retaggi di tipo feudale; può quindi seguire e realizzare le proprie aspirazioni. In verità quest’ultima accezione è di origine americana, non può d’altronde essere diversamente, vista la storia degli Stati Uniti; tuttavia in Francia in epoca post rivoluzionaria l’idea di individualismo era collegata alla perdita della solidarietà sociale e all’isolamento personale e politico. Il modernismo si trascina ambedue i fenomeni, poiché è vero che l’uomo desidera e intraprende la strada dell’autorealizzazione, così come resta vero il senso di isolamento che si

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avverte anche, paradossalmente, nell’era che afferma la centralità

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dell’uomo31.La modernità ha favorito l’emergere di questi tre elementi che spiegano

il radicamento dell’idea antropocentrica, ma costituiscono anche lo scenario entro il quale l’uomo razionale, individuale e competente, in base al suo ruolo nell’ambito della divisione del lavoro, avverte il cambiamento della società e si rapporta ad esso.

Eppure la filosofia continua ad interrogarsi sul dove porre l’uomo e lo ubica all’interno della realtà. Il filosofo contemporaneo Martin Heidegger colloca l’uomo “nel mondo” come un “fenomeno unitario” visto “nella sua totalità”. E l’“esserci dell’uomo” è naturalmente collegato agli enti dell’“essere” definendosi di volta in volta con la sua razionalità. La cultura antropocentrica, invece, considera la natura come una pura “res extensa” da dominare e controllare anche mediante un cieco sfruttamento. L’uomo cerca di trarre da essa il massimo vantaggio, nel più breve tempo possibile,

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col minimo di investimento e si arroga il diritto di essere al di sopra delle

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cose: principe, padrone, signore dell’universo32.La società moderna nata dalla rivoluzione industriale, accettando le

premesse di una sfrenata visione antropocentrica o per meglio dire modernista, una volta chiarito il significato che gli attribuiamo, non poteva che considerare l’ambiente naturale come un’enorme bacino ove attingere energia e materia, ossia fattori produttivi per sostenere un sempre crescente sviluppo economico.

L’antropocentrismo dominante condizionerà anche il ruolo e la funzione della scienza, che viene definita come: «attività orientata in modo primario e sistematico alla conoscenza, cioè alla descrizione e spiegazione degli

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eventi, sia singolari sia ricorrenti, del mondo naturale e del mondo umano e

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sociale»33. Accanto alla scienza si colloca la tecnica, intesa come attitudine a

risolvere problemi di natura pratica attraverso la conoscenza scientifica, ovvero l’esperienza maturata.

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Nel corso della storia, scienza e tecnica «hanno proceduto per secoli su

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binari paralleli senza incontrarsi o incontrandosi raramente»34. La scienza, infatti, era confinata nel campo della speculazione astratta, altresì la tecnica si acquisiva con l’esperienza sul campo attraverso la pratica e la conoscenza di tipo empirico. A partire dalla seconda metà del settecento il rapporto tra le due comincia a mutare. Importanti scoperte scientifiche sono state seguite da innovazioni tecniche ad esse collegate. Si pensi, per fare un esempio, alla scoperta scientifica degli effetti elettromagnetici che costituirà la premessa per l’introduzione della prima locomotiva elettrica. I due concetti, con l’avvento del modernismo, quindi, avranno uno stretto rapporto simbiotico, tanto che a ragione si è parlato di tecnica come “scienza empirica” o “scienza applicata” e la stessa scienza si è orientata

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dalla speculazione astratta alla speculazione finalizzata all’introduzione di

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applicazioni pratiche35.La scienza moderna prende piede nel XVII secolo sotto la spinta della

nascente classe borghese industriale che cercava una sempre maggiore connessione tra studi astratti e utilizzazioni pratiche al fine di migliorare le

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proprie attività e dal diffondersi dei nuovi valori protestanti36. Tra i protagonisti dell’epoca troviamo Galileo Galilei, Cartesio, Bacone ecc.

Nel XIX secolo si aprì una seconda fase della storia della scienza: iniziano a sorgere i primi grandi laboratori, vengono istituiti i politecnici,

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nascono i dipartimenti che raccolgono studiosi di diverse discipline,37

aumenta in misura consistente il numero degli scienziati nel mondo e le pubblicazioni in materia. Nel XX secolo, poi si rafforzò il legame tra scienza, industria e governi, che avrà il suo culmine nel poderoso progetto Manhattan. Il governo degli USA, con la collaborazione di imprese e scienziati ha coordinato un lavoro di ricerca volto a perfezionare le tecnologie radar ed a costruire la prima bomba atomica. L’enorme impegno economico sostenuto insieme al rapporto strettissimo tra scienza, tecnica e politica segnano l’inizio di un’ulteriore fase dello sviluppo scientifico, contrassegnata dal peso rilevante della tecnologia e dal forte legame tra scienza, politica ed economia. Da qui l’avvio di quella che fu definita la seconda rivoluzione scientifica, che si basa sull’utilizzazione privata dei frutti della ricerca, inquadrata nella logica dell’economia di mercato e del conseguimento dei profitti. L’attività scientifica si diffonde dalle università e viene praticata in un numero sempre crescente di istituzioni, di cui la maggior parte sono mosse da interessi economici. Assistiamo alla science based industries, come nel caso dell’informatica o della biochimica, elettronica ecc. In questi settori la ricerca scientifica spinge l’innovazione e, quindi, i profitti. La scienza diventa una risorsa produttiva rilevante e vitale per l’esistenza stessa delle imprese che investono in essa ingenti capitali. Tutto questo, se da un lato valorizza la ricerca, dall’altro presenta una serie di contraddizioni: lo sfruttamento delle proprietà intellettuali, l’utilizzo di brevetti acquisiti a titolo oneroso, la segretezza della ricerca per arrivare per primi alla scoperta. Contraddizioni che hanno modificano le modalità di trasferimento della conoscenza, la quale è sempre più indissolubilmente legata all’economia ed al profitto. Si pensi al settore farmaceutico, ove il frutto per realizzare le ricerche è congiunto agli investimenti, che coprono il maggior costo per arrivare ad un nuovo farmaco. È ovvio che le industrie farmaceutiche, in regime di concorrenza, tenderanno a mantenere segreti i progressi realizzati, per evitare che altre imprese concorrenti arrivino primi sul farmaco. Tutto ciò in parte rallenta lo sviluppo scientifico ed in parte fa sì, come nel caso dei farmaci, che la loro utilizzazione, vitale per la gente, debba essere pagata con un prezzo, che è tanto più elevato quanto più si è investito per realizzarlo.

Ai giorni nostri la scienza è quindi fortemente connessa all’economia, all’industria, alla tecnologia, ma anche alla politica: vi è un’influenza reciproca, un rapporto di scambio continuo ed una marcata interdisciplinarietà della ricerca.

Si notano agevolmente i passi evolutivi della concezione della scienza ed è indubbio che il contesto appena tracciato rappresenta lo scenario di riferimento per trattare ed affrontare le questioni ambientali.

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Ora è però necessario fare un passo indietro; analizzare il rapporto tra società e scienza moderna, sottolineando l’atteggiamento del pubblico verso il progresso scientifico e la sua evoluzione nel tempo.

La fiducia nella scienza è quasi parallela al suo sviluppo e cresce nel corso dei secoli, favorita proprio dall’atteggiamento antropocentrico. Il rapporto tra antropocentrismo modernista e scienza è di reciproco sostegno; si alimentano in misura circolare: man mano che la scienza migliora la tecnica ed è funzionale allo sviluppo di nuove tecnologie, gli stili di vita migliorano progressivamente e nel contempo cresce la fiducia nell’uomo e nelle sue possibilità. Ciò è reso possibile dal superamento dei retaggi feudali e singolarmente dall’idea teocentrica del mondo. La scienza moderna parte dall’osservazione e dall’esperienza, rifiuta ogni ipse dixit, tende alla costruzione di un sapere razionale che analizzi i problemi, scomponendoli nei loro elementi più semplici, al fine di trovare soluzioni adeguate. Si assiste ad una generale euforia nel progresso, nelle invenzioni, nelle capacità affidate alla scienza di risolvere qualunque problema si presenti sulla strada dell’uomo. Un atteggiamento positivo che permea tutti gli strati della società. Per fare un esempio, in Italia anche l’arte ha subito il fascino dei progressi continui della scienza e tecnica. La corrente dei Futuristi nel manifesto redatto dal Marinetti ha codificato come ambiente di ricerca proprio la velocità, resa possibile dalle innovazioni tecnologiche, l’avvento della macchina, il progresso, come colonne portanti del nuovo secolo, tali da influenzare la vita degli individui. Se l’arte è vita, non può che focalizzarsi su queste tematiche. Scrivevano i Futuristi nel Manifesto:

Compagni! Noi vi dichiariamo che il trionfante progresso delle scienze ha determinato nell’umanità mutamenti tanto profondi, da scavare un abisso fra i

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docili schiavi del passato e noi liberi, noi sicuri della radiosa magnificenza del

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futuro38.

La fiducia incondizionata nella scienza pone però degli interrogativi. Un evento in particolare metterà in risalto aspetti prima d’ora sottovalutati: la bomba atomica sganciata su Hiroshima e Nagasaki. Per la prima volta il mondo si confronta con la forza della scienza e della tecnologia, che hanno raggiunto livelli tali da essere applicate anche per scatenare forze distruttive, paragonabili ai grandi sconvolgimenti della natura. L’uomo comincia a prendere coscienza che la tecnologia ed i frutti della ricerca possono essere utilizzati con finalità irreversibili sull’uomo e sul mondo, che questi sono piegati ad interessi particolari e che non è scontata una valutazione etica da parte dei detentori delle tecnologie. Si apre uno squarcio nella fede incrollabile della scienza e più in generale sul modello economico di riferimento, sostenuto dalla stessa. Nel precedente paragrafo abbiamo passato in rassegna, se pur brevemente, le fasi che hanno determinato la nascita della questione ambientale, a questo punto la nostra analisi può essere completata. L’antropocentrismo di marca modernista ha posto l’uomo al centro dell’universo, creando l’illusione di poter usufruire di risorse illimitate, di plasmare la natura secondo i suoi fini, di affidarsi al progresso scientifico per dirimere i problemi. La situazione che si presenta ai nostri giorni è però raffigurata da innumerevoli stati di crisi ecologica, biologica, economica, sociale, che la scienza non ci aiuta a superare. Anzi, in molti casi, quando è stata al servizio dell’economia e della politica, rispondendo ad una logica di profitto indiscriminato, per determinare la superiorità anche psicologica di una nazione su un’altra, come nella corsa agli armamenti durante la “guerra fredda”, essa stessa ha contribuito a generare quei problemi a cui oggi le si chiede una soluzione. Attualmente è sempre più chiaro come la ricerca scientifica sia «un’impresa profondamente umana, non avulsa da conflitti d’interesse e lotte di potere,

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né soprattutto capace di rispecchiare la natura nella sua essenza

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oggettiva»39.Man mano, infatti, che la tecnologia, come frutto della scienza, si

sviluppa anche orientata da motivi politici ed economici, cresce la sua capacità, non solo di indirizzare ed ispirare scelte con impatti irreversibili sul futuro della società umana, ma anche di incidere pesantemente sulla struttura del mondo, destabilizzando l’ambiente in modo quasi incontrollabile. A ragione si potrebbe citare Marcello Cini che parla di “paradiso perduto”: il ‘paradiso’ delle certezze nella possibilità di uno

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sviluppo lineare e ‘oggettivo’ che non abbia a scontrarsi con ‘i limiti’,

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‘l’imprevedibilità’, ‘la soggettività’ è forse irrimediabilmente perduto40.Sulla crisi ambientale, su cui dobbiamo ora focalizzarci con maggiore

attenzione, la scienza applicata alla tecnica ha sostenuto ed influenzato un modello economico fondato sullo sfruttamento illimitato delle risorse e sulla ricerca del profitto, per garantire tassi di crescita sempre maggiori. La crisi ambientale è anche frutto di questa relazione sempre più stretta tra ricerca scientifica ed industria come utente finale che sfrutta i risultati di essi. In anni in cui la sensibilità ecologica era ridotta ad un filo, era quasi naturale che il sistema economico fosse avulso da qualunque problematica relativa a crisi ambientale e limitatezza delle risorse.

È quindi opportuno porsi una domanda, se è la scienza a trovare le misure per la salvaguardia del pianeta, in quali modi e termini riuscirà nel suo compito, quando i rischi sono difficilmente prevedibili e quando gli stessi sono provocati proprio dalla scienza che dovrà arginarli?

Da più di un secolo tutti gli interventi sull’ambiente sono stati considerati solo sotto il profilo dell’opportunità economica, ignorando apertamente le conseguenze degli stessi sugli equilibri naturali. A riprova possiamo citare le agricolture intensive o le monocolture, i disboscamenti e in generale tutte le azioni umane poste in essere per conseguire vantaggi economici e di benessere. La religione dell’utile ha guidato gli investimenti, realizzati nella speranza di sempre maggiori incrementi di reddito. Se la molla scatenante è l’aumento di redditività degli investimenti, resi possibili da sempre nuove tecnologie e nuova ricerca scientifica, poco spazio veniva lasciato a considerazioni di altro genere. Per anni non si è mai posto come condizione generale di partenza il rischio che i massicci interventi dell’uomo sulla natura potessero alterarne gli equilibri, con effetti negativi se non devastanti sull’ecosistema. Se il breve periodo può assicurare incrementi di reddito, non bisogna escludere la presenza di esternalità negative, intese come costi da sostenere a causa di uno sfruttamento indiscriminato di una risorsa. La questione non solo

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economica avrà anche delle ricadute di etica, poiché viola principi di equità

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sia intergenerazionale che infragenerazionale41.

Ancora legati alla terra dalla condizione umana - scriveva la Arendt - abbiamo trovato un modo di agire sulla terra e dentro la natura terrestre come se ne disponessimo dall’esterno, dal punto di Archimede. E anche a rischio di mettere a repentaglio i processi naturali della vita, esponiamo la terra alle forze cosmiche universali estranee alla sua natura”. Il livello di crisi sopra descritto ha avuto una spinta determinante nell’evoluzione della scienza, il passaggio da una scienza che mirava ad acquisire una completa padronanza sulla natura ad una scienza

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universale che trasferisce processi cosmici nella natura anche con il rischio

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evidente di distruggerla, e insieme distruggere la signoria dell’uomo su di essa42.

La chiave del problema non è ovviamente il J’accuse della scienza stessa, quanto semmai la ricerca di un nuovo paradigma scientifico-tecnologico in grado di tutelare gli equilibri dell’ecosistema. Catton e

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Dunlap43 propongono come strumento di comprensione delle crisi ecologiche un nuovo paradigma, che ridefinisca i rapporti uomo natura, prendendo le distanze dall’antropocentrismo culturale dominante ancora

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oggi nella società. Il NEP44 (New ecological paradigm), come è stato definito si basa su quattro principi di fondo: 1) gli esseri umani non sono al centro della comunità biotica, ma rappresentano, pur con caratteristiche peculiari, una delle tante specie; 2) porre come principio le conseguenze sull’ecosistema dell’agire umano, valutando anche gli effetti inattesi che potrebbero scaturire dall’azione dell’uomo; 3) il riconoscimento della terra come ambiente biologicamente e fisicamente limitato, il che pone il problema del limite in qualsivoglia attività umana; 4) le leggi ecologiche non possono essere abolite dalla ricerca scientifica, l’uomo deve rispettare i vincoli posti dall’ambiente fisico e biologico e dalle regole che lo

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sostengono, se non vuole andare incontro a cambiamenti irreversibili e

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dannosi per l’umanità45.

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Ovviamente le speculazioni di Dunlap e Catton rappresentano solo una

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proposta non esente da critiche. Il Buttel46 ne contesta l’utilità operativa, giudicandola astratta e priva di implicazioni pratiche. Altri autori vi intravedono solo delle “assunzioni di sfondo”, delle credenze e visioni della realtà che stanno alla base delle ipotesi; in poche parole si contesta la

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scientificità del metodo47. Si respira inoltre tra le righe del NEP una sorta di giusnaturalismo involontario, che tende a leggere il mondo come un insieme di doveri e vincoli assoluti da rispettare perché insiti nella natura stessa. Si possono rintracciare i presupposti dell’etica tradizionale, messi in discussione dalla scienza moderna. Tuttavia al di là della validità del modello, sarebbe opportuno ripensare il rapporto tra scienza, economia ed ecosistema, richiamando il concetto di sostenibilità ed indagandone la validità. Un cambio di paradigma è possibile solo conciliando sviluppo e rispetto per l’ambiente e orientando la ricerca scientifica in questa direzione.1.3 La tecnica e l’etica nell’età contemporanea

Nel precedente paragrafo abbiamo studiato il rapporto tra scienza e tecnica e come nei secoli i due concetti si siano intrecciati tanto da essere strettamente dipendenti. Una relazione diventata simbiotica che ha spinto diversi autori a definire la tecnica scienza applicata, ovvero scienza empirica, utilizzando anche il termine di tecno-scienza per indicare la fase di ricerca e il risultato applicativo della stessa. È pur vero che ad ogni innovazione scientifica segue a distanza di poco tempo la conseguente applicazione tecnologica, ma è anche vero che senza un’adeguata strumentazione tecnologica la ricerca non può progredire e svilupparsi; l’innovazione ad esempio di telescopi sempre più potenti rende possibile lo studio della materia e, dunque, i progressi scientifici in tal campo. Il rapporto tra scienza e tecnica o tecnologia deve essere considerato di reciproca influenza, non sarebbe immaginabile lo sviluppo dell’uno senza lo sviluppo dell’altro.

Abbiamo anche visto l’evoluzione del concetto di scienza e come la fiducia in essa retta dall’antropocentrismo dominante nella società contemporanea, si è gradualmente scalfita con l’emergere di stati di crisi: ambientali, economiche, ecc. Restano da studiare gli effetti della tecnica sulla società o della tecno-scienza se si vuole usare questa denominazione. Ai fini del nostro discorso i termini di tecnica e tecnologia verranno usati alternativamente, data anche la forte connessione tra scienza e tecnica. Qualche autore ha tentato di porre l’accento sulle differenze sottolineando come la tecnica è una capacità esclusivamente pratica che porta all’ottenimento di certi risultati; la tecnologia altresì consiste «nell’impiego

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razionale delle conoscenze scientifiche di una data epoca al fine di risolvere

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con la maggior efficienza relativa problemi pratici»48.Sulle condizioni e le forze che hanno reso possibile l’evoluzione della

tecnica, gli studiosi non sono concordi; in dottrina rintracciamo copiosi tentativi di risposta, che assumono come presupposto accezioni di tipo filosofico, economico o sociologico. Particolarmente suggestiva è la teoria del determinismo tecnologico che riconosce forze immanenti nello sviluppo

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della tecnica49. Forze che non possono essere arrestate perché costituiscono la logica di funzionamento dell’innovazione e sono alla stregua di una legge naturale orientata al miglioramento continuo di cui l’uomo può controllare solo la velocità: accelerare le innovazioni attraverso condizioni favorevoli al progresso o rallentarle. Per i fautori della teoria, l’evoluzione

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tecnica consente solo queste due leve di controllo con il corollario che tutto

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ciò che è tecnicamente realizzabile deve essere realizzato50.Altri autori si soffermano su un determinismo di tipo economico. Gli

imprenditori cercheranno l’innovazione tecnologica per ridurre i costi di produzione, rispondere in modo efficace alla domanda di beni o servizi, eliminare concorrenti o difendersi da essi.

Vi è poi un filone di ricerca che parla di costruzione sociale della tecnologia, vista come la risultante di scelte economiche, politiche e culturali. Quest’ultima corrente stempera il determinismo proposto dalle

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precedenti e cerca di far confluire nelle forze propulsive dello sviluppo

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tecnologico anche ragioni culturali e politiche51.Le varie teorie proposte presentano l’evoluzione della tecnica da vari

punti di osservazione. Al di là della rispettiva validità di ciascuna, c’è un elemento interessante su cui è utile soffermarsi. La prima tesi sottende una sorta di neutralità della tecnica rispetto a qualunque ideale di riferimento o ad interessi di tipo economico. Nella seconda, essa aderisce ad istanze commerciali ed è figlia d’interessi economici. Nell’ultima teoria il contesto sociale assume grande importanza e la ricerca è anche dipendente dai valori culturali del contesto in cui si riferisce. È agevole constatare come lo spazio per una valutazione etica dell’agire umano attraverso la tecnica è completamente avulso dalle prime due, mentre dipende dal contesto culturale e sociale nella teoria costruttivista. Quest’osservazione apre un’altra questione: quali saranno gli effetti della tecnica sulla società? In particolare se essa sembra slegata da qualunque valutazione etica. In realtà la domanda non ha una soluzione univoca. Nei primi anni dello sviluppo scientifico abbiamo assistito ad una crescente euforia nei riguardi della

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tecnica e del progresso, capace di migliorare la vita complessiva

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dell’uomo.52

A questo atteggiamento positivista con il tempo si è affiancato un modo più critico di valutare la tecnica e singolarmente i suoi effetti. Per capire meglio i motivi occorre tornare indietro nel tempo e considerare il rapporto tra etica e tecnica nell’antichità. Nell’Etica Nicomachea Aristotele sosteneva:

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Mentre per il possesso delle virtù il sapere vale poco o nulla, le altre condizioni non poco ma tutto possono, se è vero che è dal compiere spesso azioni giuste e

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temperate che deriva il possesso delle virtù corrispondenti53.

In altre parole, il sapere per l’agire morale veniva considerato pragmatico e ateoretico e si poteva acquisire solo attraverso azioni meritevoli di una certa qualità, scegliendo tra due estremi “L’Aurea mediocritas”.

La virtù, quindi, risiede nell’immediatezza dell’azione, a tal punto da rendere chiara tanto la paternità, quanto la responsabilità per la stessa; con l’esimente che non si è responsabili se l’azione, eseguita con la dovuta

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diligenza e ponderazione, genera effetti negativi non voluti54. Vi è quindi una relazione strettissima tra etica e tecnica, tale che le due non potevano essere disgiunte per l’uomo saggio.

I termini del discorso cambiano con la tecnica moderna. In primis, il contesto temporale non consente di verificarne l’esito; in secundi non è possibile, ovvero è arduo, individuare la conseguente responsabilità dell’agire. Da ciò scaturisce sempre un lungo periodo, che l’uomo non prende in dovuta considerazione o non si preoccupa di prevedere. La tecnica, infatti, in nome del progresso dell’umanità, aderisce al fine di garantire all’uomo una vita in crescente miglioramento. La velocità e il tempo sono elementi essenziali della modernità a cui la tecnologia ha dato un senso. Gli attributi propri della tecnica moderna sopra enunciati, sono stati punti di partenza per avanzare una critica al concetto stesso di tecnica. Heidegger in particolare, si sofferma sul rapporto tecnica e individuo.

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L’uomo del XX secolo viene definito, come “in fuga davanti al pensiero”55. Egli considera il pensare contemporaneo calcolante, che si differenzia da quello meditante, perché insegue un’occasione dopo l’altra, senza mai fermarsi a mediare con la realtà, a meditare su di essa, fuggendo davanti a

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qualsiasi tentativo di arrestare questa folle corsa56. La tecnica di conseguenza cela nel subconscio dell’uomo la promessa messianica del prolungamento della vita. Grazie ad essa l’uomo diventa artefice

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dell’evoluzione della propria specie, senza ridursi meramente a soggetto

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passivo57.In proposito Heidegger cita una discussione avvenuta nel 1955 con il

chimico americano Stanley durante un incontro di premi Nobel a Lindau. Il chimico sosteneva che si avvicinava l’ora: «in cui la vita stessa sarà posta nelle mani del chimico, che a suo piacimento potrà scomporre e ricomporre e modificare la sostanza vivente». Un tale modo di pensare, per il filosofo, non ha nulla di costruttivo, ma peggio, nasconde un attacco frontale all’umanità, impreparata ad un così radicale cambiamento. L’esempio dimostra come si autoalimentano bisogni e fantasie che porteranno a nuovi bisogni e fantasie da soddisfare, innescando un vortice continuo ed inarrestabile. Si fa largo, dunque, un’ideologia tecnico scientifica che rischia di non privilegiare più la conoscenza pura, in grado di servire al meglio la ricerca dell’armonia con il tutto, ma esclusivamente l’utilità umana. Quest’ultima è completamente conquistata da un pensiero

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calcolante, generata seguendo un rigoroso calcolo utilitaristico58. Le conseguenze di quanto riportato comporteranno inevitabilmente l’espandersi dei desideri, dei consumi e dello spreco. Si potrà configurare

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un rischio potenziale molto forte: l’esclusione dell’idea stessa di “dovere”,

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inutile in un mondo dove c’è un abbondante presenza di beni disponibili59.L’essenza della tecnica moderna si può declinare nel passaggio dal

vecchio ideale artigiano del “saper fare” al “dover fare” della società industriale. Conseguentemente il “mondo naturale” viene inteso

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esclusivamente come “fondo per l’impiego” e non più come semplice

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“fùsis”, ossia natura nella quale l’uomo ne è parte integrante60.La speculazione del filosofo tedesco ci aiuta a comprendere le posizioni

critiche sugli effetti della tecnica sull’umanità e su come il “mondo naturale” possa risentire negativamente dell’agire umano basato su questi presupposti. Un esempio chiarificatore è offerto proprio dalla vulnerabilità della natura, che subisce l’intervento tecnologico dell’uomo. Sono a rischio equilibri naturali che hanno mantenuto per millenni inalterate le proprie caratteristiche fisiologiche. Oggi è l’intera biosfera ad essere minacciata. Un organismo così vasto e complesso, che mai si sarebbe ritenuto deteriorabile per gli effetti dell’azione umana.

A questo punto è naturale avanzare delle riflessioni di natura etica. L’uomo, grazie alla tecnologia moderna, ha cercato di stabilire il suo dominio sulla natura. Con quali conseguenze? Quelle di renderla sempre più precaria, dimenticandosi che, in quanto essere vivente, egli stesso ne fa parte e come tale rischia di rimanere travolto dalla crescente precarietà. Diventa quindi un’esigenza di primaria importanza, oltre che un obbligo morale, avere un atteggiamento responsabile che la preservi e la salvaguardi. Vi è inoltre un aspetto “cumulativo”, ossia l’addizionarsi delle esternalità negative frutto delle azioni dell’uomo sulla natura, che condizionerà le scelte e le azioni delle generazioni future.

Se il quadro di riferimento è il medesimo, anche il valore del sapere e dell’esperienza non sortisce effetti. Un tempo i buoni esempi, i comportamenti corretti, avevano il compito di trasmettere un’idea di morale per insegnare a praticare scelte ed azioni virtuose. Si riteneva a ragione, che le condizioni iniziali di ogni azione si sarebbero ripetute, così da rendere

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saggi coloro i quali in dipendenza del ripetersi di tali azioni conoscevano

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quale fosse il comportamento giusto e le scelte moralmente ineccepibili61.

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L’uomo contemporaneo è protagonista invece dell’“autoriproduzione cumulativa del cambiamento tecnologico del mondo”, che lo condurrà

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davanti a situazioni mai vissute prima.62 Come giustamente osserva Serra:

Forse si comincia ad avvertire la necessità di salvare la norma etica e giuridica, di salvare la regola della legge e la sopravvivenza dell’uomo e si comincia a prendere consapevolezza che per far questo si debba ricominciare a riflettere sui problemi del rapporto soggetto-oggetto, sui problemi dell’umana convivenza, ma che si debba farlo non solo partendo dalla definizione della ragione e della scienza

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dei giorni nostri, ma anche e soprattutto analizzando la realtà del mondo

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contemporaneo63.

L’autrice dà una definizione particolarmente illuminante. L’uomo contemporaneo attraverso la tecnologia è arrivato a considerarsi un essere programmabile dalla nascita alla morte, grazie allo sviluppo di sempre nuove tecnologie. Questa trasformazione è stata possibile poiché è riuscito a sottomettere alla sua tecnica la natura; ma in quanto anch’ egli parte della natura, non poteva che sottoporsi allo stesso processo, diventando egli

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stesso sottomesso alla tecno-scienza64. Principio che oggi penetra nel campo del biologico, a tal punto che l’umanità si sta riducendo a materia da manipolare, per soddisfare l’ansia sfrenata di utilità. Nell’assenza di un parametro obiettivo – continua la Serra - o per lo meno condiviso consapevolmente, su cui valutare ogni decisione o scelta, si ricrea un parametro artificioso che è quello dell’utilizzazione del portato della scienza in cui il principio di responsabilità non ha più diritto di cittadinanza perché si accetta il principio dell’equivalenza tra il tecnicamente possibile ed il lecito. La premessa psicologica della disponibilità degli uomini a

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manipolare e a lasciarsi manipolare è diventata una delle merci più

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importanti vendute sul mercato della corrente opinione pubblica65.La cultura dei beni extraumani è stata in passato appannaggio della

religione, che ha predicato il riconoscimento dei “fini in sé” anche nella natura. Giovanni Paolo II nel discorso ai Partecipanti alla Plenaria della Pontificia Accademia delle Scienze ha sostenuto come

non bisogna lasciarsi affascinare dal mito del progresso, come se la possibilità di svolgere una ricerca o di applicare una tecnica permettesse di qualificarle

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immediatamente come moralmente buone. La bontà morale di qualsiasi progresso

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si misura secondo il bene autentico che procura all’uomo66.

Bene autentico che non pone solo l’individuo e il suo simile al centro di un agire etico, come del resto avveniva nei tempi passati, ma dovrà necessariamente riflettersi sulle generazioni future. L’intero pianeta deve diventare oggetto di attenzione, in quanto la tecnica, la scienza, consentono di modificare il corso naturale delle cose con effetti sull’intera biosfera.

Un fondamentale riconoscimento risale al 1989, quando a Basilea tra il 15 maggio ed il 21 maggio si è tenuta la prima Assemblea Ecumenica Europea che ha visto la partecipazione di 504 delegati di tutte le chiese europee. L’Assemblea, dal titolo “Pace nella Giustizia” è stata promossa alla Conferenza delle Chiese Europee (KEK) e dal Consiglio delle Conferenze Episcopali Europee (CCEE). Il documento finale che tra le tante tematiche affrontate presenta anche interessanti posizioni sul nesso tecnica e questione ambientale, nonché inizia ad inquadrare anche temi centrali della sostenibilità, è stato approvato con una larga maggioranza, circa il 95,4% dei voti favorevoli rispetto al 75% necessario al suo passaggio. Il Cardinale Carlo Maria Martini ne ha sottolineato l’importanza storica, tanto per la larga condivisione del documento presentato, quanto per l’impegno di tutte le chiese europee a confrontarsi e dialogare sui temi cruciali della età contemporanea.

Nel tentare di dare una risposta alle crisi odierne, sentite come sfide da superare al paragrafo 2.5 del documento finale, si giunge ad una lucida e lapidaria disamina:

A molti la risposta sembra ovvia: la ragione deve essere ricercata nelle enorme quantità di mezzi e di possibilità messi nelle mani dell’umanità dalla scienza e dalla tecnologia. I principali cambiamenti sopravvenuti nell’ordinamento delle società e nel rapporto con la natura hanno la loro origine nell’eccessiva espansione dell’azione umana. I moderni mezzi di produzione sono alla base dell’economia attuale. Essi forniscono possibilità di sfruttamento che non erano mai esistite prima. La tecnologia ha cambiato la natura della guerra e ha fornito ai regimi dittatoriali nuovi mezzi di controllo e di repressione. L’abuso della tecnologia è responsabile del crescente sfruttamento e, se essa non verrà messa sotto controllo, della distruzione dell’ambiente. La tecnologia ha portato molti vantaggi, ma nello stesso tempo, invece di servire l’umanità, è diventata una minaccia al suo futuro.

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Ha creato interi sistemi in cui anche piccoli errori umani possono essere

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disastrosi67.

Non si tratta di un attacco al progresso ed ai traguardi della scienza e della tecnica, ma della presa d’atto che, come mezzi nelle mani dell’uomo, hanno bisogno di essere orientati per fini responsabili.

1.4 Il principio della responsabilità

Nelle pagine precedenti abbiamo disegnato il quadro teorico di riferimento della cultura moderna e descritto i tre elementi caratterizzanti: razionalizzazione, individualizzazione e differenziazione. Tutte le principali scuole di pensiero, che hanno affrontato le tematiche ecologiche, hanno in qualche modo posto l’accento su questi elementi, privilegiandone ora l’uno ora l’altro. La corrente Neomarxista si è soffermata sulla

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divisione del lavoro ed in particolare la divisione sociale68, considerandola il fattore chiave della crisi ambientale. Diventano quindi cruciali gli elementi della razionalizzazione e della differenziazione come frutti della modernità.

La divisione del lavoro è causa della progressiva specializzazione della scienza e del suo asservimento ai valori del capitalismo e del profitto. Ciò ha provocato nell’uomo l’incapacità di relazionarsi adeguatamente al mondo naturale e quindi di stabilire quelle relazioni rispettose per la

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salvaguardia del pianeta69. O’Connor, in particolare sosteneva che il capitalismo risponde al degrado ambientale con la tecnologia ed anziché risolvere il problema finisce per aggravarlo, nella misura in cui «rifà la

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natura e i suoi prodotti a propria immagine, biologicamente e fisicamente

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(politicamente e ideologicamente)»70.Anche l’eco femminismo si sofferma sugli elementi della

razionalizzazione e differenziazione: quella basilare tra uomo e donna. Per i sostenitori della corrente esiste una superiore sensibilità dell’ambiente da parte delle donne, dal momento che esse interagiscono continuamente con l’ambiente sociale e sono in grado più degli uomini di accorgersi dei problemi ecologici. Alcuni studiosi sottolineano la diversità biologica e di genere, asserendo che mentre gli uomini sono distaccati dalle conseguenze ecologiche delle loro azioni e dai bisogni biologici della loro esistenza corporea, le donne si assumono il compito di rispondere a tali bisogni (igiene, assistenza nell’infermità, comodità fisica, ecc.) e di farsi carico

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della questione ambientale71. Per gli eco femministi il problema ecologico rappresenta un’altra faccia della stessa medaglia, ossia la questione di genere.

Le correnti di pensiero sono proliferate quasi in contemporanea all’emergere delle questioni ambientali. Ognuna a suo modo ha cercato di leggere il problema e trovare le soluzioni più idonee. Lungi da questo lavoro, però, analizzare compiutamente il pensiero di queste correnti ed i suoi sviluppi; ciò che è rilevante per i nostri fini è mostrare il nesso tra crisi ecologiche ed atteggiamento dell’uomo, frutto di un paradigma culturale modernista che si rifà ai caratteri dell’individualismo, razionalizzazione e differenziazione.

Un contributo particolarmente importante sulle ricerche in questo ambito è quello di Hans Jonas con il suo principio di responsabilità. L’autore parte dall’osservazione dello stato di salute della natura, messa a repentaglio dall’agire indiscriminato ed utilitaristico dell’uomo. Con grande acume documenta il passaggio dal sogno euforico della modernità al risveglio in una realtà ingannevole e poco idilliaca, nella quale a minacciare la specie umana non è più la natura, ma lo stesso potere esercitato dall’uomo per dominarla.

La scienza, ovvero per essere più precisi, la tecnologia al servizio dell’umanità ha spesso prodotto effetti dannosi, conseguenza della forza

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distruttiva esercitata dall’umanità per imporre un dominio sempre più

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stretto sulle cose72.Si assiste alla frattura drammatica tra il mondo e l’uomo

contemporaneo, che inevitabilmente si ripercuoterà sul futuro, privando le

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generazioni di domani di quelle condizioni biologiche fondamentali alla

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propria sopravvivenza73.Dall’osservazione di questa realtà, dipinta con toni cupi e minacciosi,

nasce l’ispirazione dell’opera più famosa di Jonas: Il principio responsabilità. L’autore cerca di individuare le radici filosofiche del concetto di responsabilità, necessario alla sopravvivenza della specie umana e basilare nel collegamento tra l’uomo contemporaneo e le generazioni future.

L’umanità attraverso il suo agire deve favorire il diritto alla vita. Per questo fine lo strumento più efficace sostiene Jonas è l’«affidarsi alla guida della paura, (…) secondo cui si deve prestare più ascolto alla profezia di

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sventura che non a quella di salvezza»74. Dalla paura e dalla sventura nasce il principio di responsabilità, dato che l’uomo si sente più coinvolto e toccato da sentimenti primordiali come la paura stessa rispetto alla sola promessa di un mondo migliore. Nel nome del panico di un’imminente catastrofe si troveranno, quindi, in modo più utile ed efficace, le ragioni di un agire responsabile per la tutela del mondo e per un’autoaffermazione umana che dica “si” all’essere ed al diritto alla vita. Jonas definisce questo atteggiamento come “euristica della paura”, alimentata dalla conoscenza del bene e del male. Non si può amare la pace senza conoscere gli orrori della guerra, soltanto il previsto stravolgimento dell’uomo ci aiuta a formulare il relativo concetto da salvaguardare.

Altra tesi di partenza nell’opera di Jonas è il tentativo di definire una nuova etica, diversa da quella tradizionale dell’imperativo categorico kantiano: «Agisci in modo che anche tu possa volere che la tua massima diventi legge universale». A questo l’autore tenta di affiancare un imperativo adeguato all’agire umano nuovo: «Agisci in modo tale che gli effetti della tua azione siano compatibili con la continuazione di una vita autenticamente umana». Così l’etica alla base dell’agire supererà i confini delle relazioni tra uomini, per abbracciare un orizzonte più vasto: la continuazione della vita umana. In tal modo non si avrà un mero accordo tra ragione e volontà, ovvero di coerenza di atti con se stessi: ogni azione

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sarà orientata anche da una ragione superiore dettata dalla presa di

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coscienza delle conseguenze negative che potrebbe avere sul mondo75.Ed è proprio questo nuovo imperativo categorico la vera novità culturale

del principio di responsabilità. Una scelta di campo forte, che considera le nuove generazioni meritevoli di tutela. Scrive in merito Jonas: «Non siamo assolutamente responsabili verso gli uomini futuri, bensì verso l’idea dell’uomo, che è tale da esigere la presenza delle sue incarnazioni nel mondo». Da qui la responsabilità, che nasce appunto dall’adozione di un

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nuovo imperativo: “il dover essere”, in altri termini il diritto alla vita delle

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generazioni future76.Il principio di responsabilità, pertanto, si rivolge soprattutto alla politica

pubblica, più che al singolo individuo. Deve investire tutta la società in quanto comunità di persone, le quali possono avere un’azione che si universalizza nella misura in cui lo scopo perseguito coincide con la permanenza della vita.

Un imperativo, dunque, che invita l’uomo a non compromettere le condizioni per la continuazione futura dell’umanità sulla terra. Questo imperativo si ritrova, oggi, nel noto rapporto Brundtland per la definizione di sviluppo sostenibile: un diverso tipo di sviluppo che, pur venendo incontro alle esigenze umane attuali, non danneggi il delicato equilibrio degli ecosistemi che rendono possibile la vita sulla Terra e non comprometta la possibilità delle generazioni future.

Jonas si chiede se si possono stabilire rapporti con le generazioni future non esistenti ancora e se si possono ipotizzare comportamenti di reciprocità con loro, visto che noi non esisteremo più.

A questa domanda l’autore risponde proponendo un’astensione volontaria dal fare, per evitare di ostacolare lo sviluppo naturale dell’essere che, avendo un suo corso orientato ad un fine, non necessita di nessun aiuto, soprattutto dall’uomo dell’epoca della tecnica, che ha l’ardire di appropriarsi di ciò che invece deve restare inalterato nel luogo dove madre natura lo ha posto.

Tuttavia Jonas non rifiuta il progresso e la tecnologia, la sua critica è rivolta piuttosto alla versione antropocentrica e deterministica. Egli è cosciente che nella natura vi è il progredire, il pro-cedere, che continuerà senza esaurirsi, indipendentemente dalla presenza dell’uomo. Attenzione però a non confondere questa legge di natura come deterministica in senso assoluto. L’umanità ha dimostrato di poter orientare e compromettere il corso delle cose, anche in modo irreversibile e distruttivo. Occorre avere una volontà, che ovviamente sarà politica, di ispirare il suo agire in base al principio di responsabilità, così da permettere all’essere di continuare ad essere; ossia progredire rispettando il naturale equilibrio della natura.

Da ciò l’esigenza di una nuova etica non più antropocentrica, ma universale, planetaria, rivolta all’umanità futura. In proposito Jonas

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introduce il concetto di euristica77, che indica non tanto il rifiuto della tecnologia, quanto la prudenza nell’uso delle scienze e della tecnica.

L’essere, afferma Jonas, ha una sua ragione, un senso ed indubbiamente un fine. L’uomo può sforzarsi di riflettere, di capire, ciò fa parte ovviamente della sua natura. Dovrà tuttavia evitare comportamenti eccessivi che lo portino alla smisurata arroganza di conoscere e capire tutto, un modo di fare che lo rigetterebbe in un cieco antropocentrismo. In altri termini, si potrà controllare la tecnica valutando quando la stessa produce strumenti che possono mettere a repentaglio la vita dell’uomo, allora il principio di responsabilità, ci obbligherà ad abbandonarli, anche a costo di sacrificare utili immediati.

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Se dunque l’uomo rispetterà l’essere, quest’ultimo continuerà a seguire

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il suo corso e potrà continuare ad esserci un bios78. Non intervenendo contro di esso, avrà allora rispettato il comando della vita, favorendone, in un tempo imprecisato, il suo compimento nella stabilizzazione di se stesso. Si comprende di conseguenza, come il nuovo imperativo riguarda soprattutto la politica nella sua missione primaria, e non il comportamento individuale. Esso richiama un’altra coerenza, non tra atto e se stesso, ma quella inerente agli effetti sulla continuità dell’attività umana nell’avvenire. Occorre interpretare una sorta di eco filosofia che pone al centro la perpetuazione della vita, ispirando comportamenti, scelte, azioni in sintonia con gli equilibri naturali dell’ecosistema.

Le posizioni di Jonas si pongono nel punto mediano rispetto a due filoni della filosofia contemporanea, che sono nei loro contenuti in posizione estrema. Ci riferiamo a Ernst Bloch che introdusse il Principio di speranza e a G. Anders autore del Principio di disperazione. Il primo mette al centro come condizione di sviluppo la speranza, vista non come mero elemento individuale, ma condizione essenziale e concreta dello sviluppo dell’essere. È attraverso la speranza come virtù che si potrà cogliere l’eterno nell’attimo presente e sprigionare, come nell’arte, quelle energie positive che

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influenzeranno le azioni future79. Anders, al contrario, analizza con rammarico il sopravvento di una tecnologia che mette con le spalle al muro l’uomo, quasi come se fosse inadeguato ai nuovi tempi. La tecnologia spinge alla distruzione, all’invenzione di armi sempre più accurate, come

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quelle nucleari, allo scopo di imporre, controllare e annientare80. Jonas propone una via di mezzo tra i due pensieri. Offrendo la soluzione della responsabilità. È apertamente in antitesi con Bloch, ma prende anche le distanze dal pessimismo di Anders. Tutte e tre le correnti di pensiero, condividono però, l’idea del fare del futuro l’oggetto delle proprie speculazioni.

L’opera di Jonas ha, rispetto a tutte le altre correnti del novecento, il merito di aver posto l’accento sulle nuove generazioni, sottolineando come il nostro agire non può che avere degli effetti più ampi sia a livello temporale che spaziale. Ha ricevuto però numerose critiche in particolare riguardo all’idea di progresso tecnologico. Otto Apel lo accusa apertamente

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di favorire “un’etica della conservazione, della salvaguardia, della

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prevenzione e non del progresso e della perfezione”81.

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2. La sostenibilità

13 K. Boulding, The economics of the coming Spaceship Earth, in H. Jarrett, a cura di, Environmental Quality in a Growing Economy, Johns Hopkins University Press, Baltimore, 1966, pp. 3-14.

14 Il Presidente francese Nicolas Sarkozy ha commissionato nel febbraio 2008 uno studio diretto dai premi Nobel Joshef Stiglitz e Amartya Sen, con la collaborazione di Jean Poul Fitoussi, Presidente dell’Osservatorio francese per le congiunture economiche, che ha, per grandi linee, confermato le medesime intuizioni di Boulding. La commissione è giunta alla conclusione che l’aumento del PIL non sempre corrisponde ad un aumento del FIL, acronimo di Felicità Interna Lorda. Una misurazione più corretta, secondo la commissione potrà essere il Pnn (Prodotto nazionale netto), che prende in considerazione a differenza del PIL, gli effetti della svalutazione del capitale in tutte le sue dimensioni: umana, naturale e via dicendo. Lo stesso Sarkozy il giorno della presentazione del rapporto il 14 settembre 2009 alla Sorbona, ha chiesto di ripensare il PIL per uscire “dalla religione del numero”. Cfr. cap. 5 di questo lavoro.

15 K. Boulding, Fun and games with the Gross National Product. The role of misleading indicators in social policy, cit., pp. 157-160.

16 Rachel Carson, non aveva solo elaborato tesi scientifiche, ma anche un movimento di pensiero nel quale si riconobbero gli ambientalisti di tutto il mondo, morirà due anni dopo la pubblicazione della sua Primavera Silenziosa, stroncata da un tumore al seno. Cfr. R. Carson, Silent sping, Mifflin, Boston, 1962 (trad. it.: Primavera silenziosa, Feltrinelli, Milano, 1999).

17 È interessante notare come Daniel Botkin collega all’immagine della terra vista dallo spazio l’inizio, almeno simbolico, di un nuovo modo di guardare il mondo. Osserva l’ecologista: «forse molto più di tutte le altre immagini, questa della terra ha fatto cambiare in noi il modo di intendere la natura della vita, l’elemento che la sostiene, il nostro atteggiamento nei confronti della biosfera e la nostra facoltà di agire nei confronti delle generazioni future». Cfr. D. Botkin, Discordant Harmonies, A New Ecology for the Twenty-First Century, Oxford University Press, New York, 1990, pp. 140-141.

18 La Francia negli anni 70 era l’unica potenza mondiale a condurre test atomici in atmosfera.

19 Questo testo, che ci accompagnerà durante tutto il nostro percorso di ricostruzione, dell’idea prima e del significato poi, del concetto di Sviluppo Sostenibile, ha avuto e continua ad avere un ruolo fondamentale nella edificazione di un modello che sia in grado di coniugare rapporti, sempre più complessi, tra uomo e natura, sviluppo e ambiente, generazioni presenti e generazioni future. Jonas sarà tra i primi a concettualizzare l’importanza di legare intervento pubblico, ambiente ed economia con le generazioni future. Cfr. H. Jonas, Das Prinzip Verantwortung. Versuch einer Ethik für die technologische

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2.1 Il contributo dell’ambientalismo scientifico nella percezione del rischio ambientale

Zivilisatio, Inser Verlag, Frankfurt am Main, 1979 (trad. it.: Il principio responsabilità. Un’etica per la civiltà tecnologica, P. P. Portinaro, a cura di, Einaudi, Torino, 1990).

20-N. Georgescu-Roegen nel 1948 lascia la Romania e nel 1949 viene nominato professore di Economia alla Vanderbilt University di Nashville, nel Tennessee. Georgescu-Roegen è stato membro della American Economic Association. Tra il 1970 e il 1976 scrive importanti articoli e saggi sul rapporto tra ambiente ed economia , “Energia e miti economici”, Torino, Bollati Boringhieri, 1998, contiene alcuni dei suoi articoli più importanti tradotti in italiano, ma restano altri lavori ancora non tradotti. Cfr. N. Georgescu-Roegen, The entropy law and the economic process, Harvard University Press, Cambridge MA, 1971.

21 Questo libro pubblicato nel 1970 è molto meno noto del successivo lavoro che il Club di Roma commissionò al Mit e allo stesso Forrester. Cfr. J. W. Forrester, World Dynamics, Productivity Press, Portland Oregon, 1970.

22 Nella lettura di testi sull’argomento, alcuni molto autorevoli, ho riscontrato molte imprecisioni. Mi sono sentito in dovere di fare un po’ di chiarezza nella storia del Rapporto sui Limiti della Crescita, di come è nato e chi sono stati i suoi protagonisti. Probabilmente il libro Limits to Growth di Meadows ebbe più fortuna per una serie di motivazioni: la prima è da ricercare nel linguaggio utilizzato; la seconda nel fatto che era stata commissionata dal Club di Roma (importate organismo non governativo con molti membri illustri); la terza, forse la più importante, è da ricercarsi nella contingenza temporale con altri eventi importanti che ne hanno esaltato i toni apocalittici. Comunque va riconosciuto a J. W. Forrester la grande intuizione e la capacità di aver elaborato un modello che ancora oggi, con alcuni importanti correttivi, dimostra la sua capacità analitica e funzionale. Per un approfondimento sulle origini del modello sistem dynamic e della sua prima applicazione a Boston alla fine degli anni sessanta. Cfr. J. W. Forrester, Urban Dynamics, Productivity Press, Portland Oregon, 1969.

23 Abbiamo assistito negli ultimi anni a numerose previsioni del tracollo del sistema ambiente che, alla prova dei fatti, sono risultate errate. Tuttavia la questione centrale non è il dubbio sulla possibilità di tenuta dell’ecosistema mantenendo stabile lo stile di vita ed il modello di consumi contemporanei, ma il calcolo, anche approssimativo, della soglia superata la quale il sistema si danneggia irreversibilmente. Stima che metodologicamente risulta ardua e di difficile definizione. In particolare gli analisti non possono con puntualità stabilire: il grado di elasticità degli ecosistemi; l’emergere di nuove tecnologie che permettono di ridurre o abbandonare il consumo di una risorsa esauribile; il grado di resilienza degli ecosistemi; le preferenze umane sulla fungibilità dei beni e processi naturali. A riguardo il manuale di sociologia dell’ambiente, L. Pellizzoni, G. Osti, offre molti spunti di riflessione ed è un ottimo riferimento per orientarsi nei diversi campi d’azione dello

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Nel primo capitolo abbiamo ripercorso le tappe salienti dell’evoluzione della sensibilità ambientale nella società contemporanea. In questa parte del lavoro focalizzeremo l’attenzione sul concetto di sviluppo sostenibile e di come esso sia stato accolto nelle istituzioni politiche come modello necessario per arginare il rischio di crisi ambientale.

Il termine rischio non è utilizzato casualmente. Si ha rischio se il verificarsi di un evento dannoso è correlato ad una decisione umana sui comportamenti da assumere; si ha pericolo, altresì, quando un evento dannoso accade indipendentemente da un’eventuale condotta sbagliata

studio sulle questioni ambientali, sociali ed economiche che affronteremo. Cfr. L. Pellizzoni, G. Osti, Sociologia dell’ambiente, Il Mulino, Bologna, 2004.

24 Al di là delle previsioni e della correttezza del modello, il rapporto commissionato dal Club di Roma ebbe il merito di leggere i fatti del Mondo con un approccio sistemico e scientifico, nel quale le scelte produttive di ogni singolo stato non sono fini a se stesse, ma possono avere effetti sul pianeta nella sua globalità.

25 Cfr. M. Mesarovic, E. Pestel, Mankind at the Turning Point. The second report to the Club of Rome, Dutton, New York, 1974 (trad. it.: Strategie per sopravvivere. L’umanità a una svolta, Secondo Rapporto al Club di Roma, Mondadori, Milano, 1974).

26 G. Bateson, Mind and Nature: A Necessary Unity. Dutton, New York, 1979 (trad. it.: Mente e Natura: Un’unità necessaria, Adelphi, Milano, 1984, pp. 13-14).

27-Cfr. A. O. Lovejoy, The Great Chain of Being A Study of the History of an Idea, Harvard University Press, Cambridge, 1936 (trad. it.: La grande catena dell’essere, Feltrinelli, Milano, 1981, pp. 7-20).

28 Arthur Oncken Lovejoy, come viene descritto nel Piccolo manuale di storiografia (A. D’Orsi 2002), pone attenzione ai presupposti diffusi di un pensiero, agli abiti e alle abitudini mentali che ne favoriscono la nascita o la diffusione. La History of ideas è, insieme più specifica e meno limitata rispetto alla disciplina di cui, palesemente, è figlia, la storia della filosofia. Essa, nondimeno si associa ad altre undici discipline che concorrono tutte alla costruzione della history of ideas, la quale è dunque un autentico prodotto interdisciplinare. Ricorrendo a tale ampio e variegato strumento, lo storico delle idee procede, secondo Lovejoy, come un chimico che va a caccia degli elementi che compongono una sostanza. Si tratta degli elementi semplici che ritornano in molti degli elementi complessi, i nuclei concettuali che sono rintracciabili spogliando le idee dei travestimenti che hanno assunto nel corso della loro lunga vita. Lo sviluppo sostenibile e il suo complesso nucleo concettuale va ricercato tra gli elementi che appartengono a diverse discipline. La storia dello sviluppo sostenibile, va sicuramente compresa nella storia delle idee. Ecco perché è di rilevante importanza per il nostro studio la history of ideas e lo stesso Lovejoy. Cfr A. D’Orsi, Piccolo manuale di storiografia, Mondadori, Collana Campus, Milano, 2002, p. 103.

29-Gli storici statunitensi e inglesi, distinguono la storia protomoderna (Early Modern History), che va da metà Quattrocento al Settecento, dalla storia moderna (Modern History), che va dal tardo Settecento alla Prima guerra mondiale, e anche oltre, restringendo il periodo della Contemporary History all’ultimo settantennio, dal 1945 in qua. Per questo motivo alcuni riferimenti storici riportati, potranno non coincidere con la tradizionale periodizzazione indicata dagli storici italiani. A dire il vero già da tempo esiste un ricco dibattito sullo spostare in avanti la conclusione della storia moderna, oltre il classico termine del Congresso di Vienna. Già in alcuni manuali le date più ricorrenti sono il 1848 con le sue

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dell’uomo82. A questa definizione possiamo integrare la variabile dell’incertezza, intendendo il rischio come la possibilità del calcolo delle probabilità del verificarsi di un evento, mentre l’incertezza attiene all’impossibilità di effettuare il calcolo stesso. L’economista Keynes soleva distinguere le probabilità in oggettive, ossia quelle derivanti da calcoli empirici, e soggettive, frutto cioè delle supposizioni o intuizioni personali del singolo individuo83. Per Ulrich Beck lo sviluppo della scienza e della tecnica è sempre più rapido e la loro crescita ci impone un atteggiamento individuale e collettivo più riflessivo. Con riferimento alla questione

rivoluzioni: l’emergere pieno dei nazionalismi in Europa, l’avvento di regimi parlamentari; o ancora il 1870, con l’unità nazionale in Italia e Germania, la fine della servitù della gleba in Russia, la diffusione della rivoluzione industriale in diversi Paesi.

30 Martinelli nel suo saggio definisce puntualmente la modernità come l’insieme di tutti i cambiamenti che hanno caratterizzata la storia mondiale degli ultimi duecento anni. Le trasformazioni economiche, politiche e sociali, hanno influenzato enormemente l’uomo tanto da rivoluzionare il modo di pensare e di rapportarsi con il mondo. A questo proposito l’autore individua alcuni elementi peculiari dei processi di modernizzazione che rappresentano una tendenza che ha coinvolto le società più sviluppate ma sono ben lontane dal riassumono e considerare la complessità e la pluralità dei contesti sociali. A. Martinelli, La modernizzazione, Laterza, Roma, 1998, p. 7 e pp. 12-13.

31 Cfr. L. Pellizzoni, G. Osti, Sociologia dell’ambiente, cit., p. 51 e pp. 89-107.32 Cfr. L. Boff, Ecología, grito de la tierra, grito de los pobres, Atica, São Paolo, 1995

(trad. it.: Grido della terra, grido dei poveri. Per una ecologia cosmica, E. De Marchi, a cura di, Cittadella, Assisi, 1996).

33 A. Bagnasco, M. Barbagli e A. Cavalli, Corso di Sociologia, Il Mulino, Bologna, 1997, p. 234.

34-Ibid. e, per un ulteriore approfondimento, cfr. L. Pellizzoni, G. Osti, Sociologia dell’ambiente, cit., p. 150.

35-R. Mayntz, Tecnica e tecnologia, in Enciclopedia delle scienze sociali, Istituto della Enciclopedia Italiana, Roma, 1998, pp. 513-538.

36-R. K. Merton, Science, Technology and Society in Seventeenth Century England, St. Catherine Press, Bruges, 1938; cfr. L. Pellizzoni, G. Osti, Sociologia dell’ambiente, cit., pp. 153-156.

37 Un’esperienza che ha fatto scuola per la diffusione della scienza è stata la riforma del sistema universitario in Prussia operata da Wilhelm von Humbolt nel 1810. Venne favorita la ricerca e garantita la diffusione di varie materie scientifiche nelle scuole.

38 Manifesto Futurista, Le Figaro, 20 febbraio 1909.39 L. Pellizoni, G.Osti, Sociologia dell’ambiente, cit., p. 163.40-Cfr. M. Cini, Un paradiso perduto, dall’universo delle leggi al mondo dei processi

evolutivi, Feltrinelli, Milano, 1994, pp. 19-28.41 Vedremo in seguito e svilupperemo gli aspetti etici ed economici introdotti in queste

pagine.42 H. Arendt, The human condition, The University of Chicago Press, Chicago, 1958

(trad. it.: Vita activa: la condizione umami, Bompiani, Milano, 1990, pp. 193-194). In un

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ambientale il rischio è collegato alla probabilità di accadimento di eventi dannosi legati alle decisioni dell’uomo. In questo campo tuttavia, assumono rilievo le probabilità soggettive e personali, anche perché mancano spesso dati empirici certi su cui fondare le previsioni.

La società contemporanea ha considerato come problematici tutti quegli eventi che si presentavano in termini di minaccia. La crisi ambientale non fa eccezione. Fulvio Beato fa notare che essa si rivela, o meglio si pone al centro dell’interesse dell’opinione pubblica, «quando l’insieme delle

interessante contributo del 1999, Mario Sirimarco commenta alcune riflessioni della Arendt sull’odierna crisi ecologica inserite nel sesto capitolo della Vita activa. Sirimarco, nel mettere in evidenza lo spirito dell’autrice, osserva come nell’analisi puntuale di molti elementi che descrivono la lenta distruzione dell’ambiente ci fosse un certo spirito profetico non derivante da studi o ricerche specifiche nel campo delle scienze ecologiche o ambientali dell’autrice, ma solo da riflessioni, profondamente acute, sul senso dell’agire umano e sugli elementi distintivi dell’età moderna. Cfr. M. Sirimarco, Il diritto all’ambiente, la questione ecologica fra etica diritto e politica, Giappichelli, Torino, 1999, pp. 42-44.

43 Tra il 1978 e il 1980 Dunlap e Catton hanno prodotto una serie di autorevoli articoli sul rapporto tra sociologia, ambiente e utilizzo delle risorse naturali. Gli aspetti economici e quelli culturali, come gli altri aspetti, rientrano tra gli elementi che influenzano il contesto sociale, che ne mutano le abitudini e gli usi. Per comprendere fino in fondo la natura dell’essere umano non bisogna trascurare nessun elemento dell’intero sistema sociale. W. R. Catton Jr., R. E. Dunlap, Environmental Sociology, in Annual Review of Sociology, vol. 5, agosto 1979, pp. 243-273.

44 W. R. Catton Jr, R. E. Dunlap, Environmental sociology: a new paradigm, in The American Sociologist, vol. 13, No. 1, Febbraio 1978, pp. 41-49.

45 W. R. Catton Jr. e R. E. Dunlap, Paradigms, Theories, and the Primary of the HEP-NEP Distinction, in The American sociologist, vol. 13, No. 4, Novembre 1978, pp. 256-259.

46 F. Buttel, Environmental sociology: A new paradigm?, in The American Sociologist, vol. 13, No. 4, Novembre 1978, pp. 252-256.

47 Per approfondimenti sulla critica al modello ipotizzato da W. R. Catton Jr. e R. E. Dunlap, Cfr. A. Gouldner, The Coming Crisis of Western Sociology, Basic Book, New York, 1970.

48-L. Gallino, Tecnologia e democrazia, Einaudi, Torino, 2007, p. 95; cfr. Pellizoni, G.Osti, Sociologia dell’ambiente, cit., pp. 150-156.

49 P. Flichy, L’innovation technique, La Découverte, Paris, 1995, trad. it, L’innovazione tecnologica, Feltrinelli, Milano, 1996. Cfr. Pellizoni, G.Osti, Sociologia dell’ambiente, cit., p. 151.

50-Pellizoni, G.Osti, Sociologia dell’ambiente, cit., pp. 151-152; per un ulteriore approfondimento, Cfr. J. Ellul, La Technique ou l’enjeu du siècle, Economica, Paris, 1990.

51 R. Mayntz, Tecnica e tecnologia, cit., pp. 513-538.52 L’atteggiamento di generale euforia è riscontrabile almeno fino alla prima metà del

XX secolo, fino a quando la tecnologia atomica verrà utilizzata a scopi bellici. L’entusiasmo ritornerà tra gli anni 60 e 70 ma ad esso, si affiancherà una sempre maggiore consapevolezza dei rischi e una capacità di valutare e criticare gli effetti della tecnologia.

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alterazioni ecosistemiche assume la figura della minaccia»84, ossia raggiunge un livello di drammaticità tale da provocare la preoccupazione delle istituzioni e della gente. Essa non può essere definita come pericolo, poiché dipende, in qualche modo, dalle scelte umane e dal nostro modello di sviluppo. Si configura pertanto come rischio da governare e da gestire o quanto meno da riportare a livelli accettabili. Eugene A. Rosa brillantemente ha fatto notare come «la coscienza del rischio equivale alla coscienza ambientale»85.

53-Aristotele, Etica Nicomachea, C. Mazzarelli, a cura di, Bompiani, Milano, 2000, Libro II, 4, 1105b 15.

54 Cfr. H. Jonas, Il principio responsabilità, cit., pp. 16-17.55 M. Heidegger, L’abbandono, Il Melangolo, Genova, 2004, p. 27.56 I moderni strumenti tecnici di informazione, ad esempio per Heidegger stimolano in

continuazione la curiosità dell’uomo e sono così vicini a lui da superare qualsiasi elemento naturale, tanto da destabilizzare il radicamento e le radici con il posto in cui vive. Cfr. M Heidegger, L’abbandono, cit., pp. 27 e ss..

57 Particolarmente calzante per il nostro ragionamento è l’idea di Jonas sull’agire umano e sulla sua mutata natura. Citando il Coro dell’Angione di Sofocle, Jonas afferma che l’uomo, grazie alla sua straordinaria intelligenza, ha la forza di affaticare la terra per ricavare dei frutti, di “insidiare gli uccelli”, di “evitare gli assalti dei cieli aperti” di “vivere civile” ma anche di volgere la sua zione verso il male. Cfr. H. Jonas, Il pricipio di responsabilità, cit., p. 39.

58 Heidegger intende lanciare una sorta di avvertimento osservando il rapporto uomo – tecnica. Attraverso di essa si persegue l’obiettivo di realizzare il dominio sul mondo, obiettivo che ha infatti portato l’uomo sulla soglia dell’era atomica, con conseguente pericolo per la sua stessa sopravvivenza. L’ultimo Heidegger si muove sostanzialmente in due direzioni: l’abbandono alle cose rifiutando il pensiero calcolante che si cela dietro la tecnica e rimeditando il senso profondo della relazione fra l’uomo e l’ambiente; l’apertura al mistero attraverso il pensiero meditante. Un atteggiamento quasi mistico, maturato da una rilettura di Meister Eckhart, Johannes Tauler ed altri, che segnerà il culmine della speculazione di Heidegger. Cfr. M. Heidegger, Essais et Conférences, A. Préau, a cura di, Gallimard, Parigi, 1958.

59 Cfr. S. Cotta, L’uomo Tolemaico, Rizzoli, Milano, 1975, pp. 121-138.60 Nel libro è presente la nota conferenza la questione della tecnica del 1953; Cfr. M.

Heidegger, La questione della tecnica in Saggi e discorsi (1954), Gianni Vattimo, a cura di, Mursia, Milano, 1985, pp. 5-27.

61 La filosofia etica di Aristotele può essere un esempio. L’agire umano deve essere rivolto alla virtù e quest’ultima si raggiunge attraverso l’ordine e l’armonia. In medio stat virtus, scriveva Aristotele: «Parimenti anche per ciò che concerne le azioni vi sono eccesso, difetto ed il mezzo. D’altronde la virtù ha per oggetto passioni ed azioni, nelle quali l’eccesso costituisce un errore e il difetto è biasimato, mentre il mezzo è lodato ed ha successo: e queste sono, ambedue, caratteristiche della virtù. La virtù è dunque una sorta di medietà, perché appunto tende al mezzo». Cfr. Aristotele, Etica nicomachea, cit., Libro II, 4, 1105b 15.

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L’umanità ha avuto modo di sviluppare gradualmente questa coscienza, spronata dai tragici eventi che hanno investito l’ambiente e messo in discussione il rapporto uomo natura. Si pensi, per fare un esempio già utilizzato nel precedente capitolo, alle due bombe atomiche sganciate durante la seconda guerra mondiale. Si è potuto costatare come la tecnologia, frutto delle decisioni umane, sia tale da piegare e distruggere l’uomo e l’ambiente. Altro esempio sono gli incidenti che hanno comportato disastri ambientali, come quelli accaduti nel settore petrolifero86

62 H. Jonas, Il principio responsabilità, cit., p. 111.63 T. Serra, L’uomo programmato, Giappichelli, Torino, 2003, pp. 64-65.64 Ivi, pp. 3-3165 Ibid.66 Giovanni Paolo II, Discorso ai Partecipanti alla Plenaria della Pontificia Accademia

delle Scienza, 28 ottobre 1994.67-Cfr. Documento Finale, Assemblea Ecumenica Europea “Pace nella Giustizia”,

Basilea 15-21 maggio 1989. 68-J. O’Connor, a cura di, Is sustainable capitalism possible? in Is Capitalism

Sustainable? Political Economy and the Politics of Ecology, Guildford, New York, 1994, pp. 152 e ss., pp.159-173. Cfr. L. Pellizoni, G. Osti, Sociologia dell’ambiente, cit., pp. 91-94.

69 Ivi, pp. 89-94 e 106-107.70 J. O’Connor, a cura di, Is sustainable capitalism possible?, cit., p. 158.71-M. Mellor, Gender and the environment, in The International Handbook of

Environmental Sociology, M. Redclift, G Woodgate, a cura di, Edward Elgar, Cheltenham 1997, p. 195.

72 Il filosofo Boff in merito scrive alcune osservazioni particolarmente cariche di enfasi sui danni che l’agire umano può provocare al nostro ecosistema: “Se gaia ha dovuto liberarsi di migliaia di specie viventi nel corso della sua storia, chi ci può garantire che non si veda costretta a liberarsi della nostra? È la specie che minaccia tutte le altre, è terribilmente aggressiva, sta dimostrando di essere genocida, ecocida, il vero nemico della Terra”. Cfr. L.Boff, Grido della terra, grido dei poveri, cit..

73 Sembra venir meno, pertanto, quella sorta di tesi metafisica, per cui ogni essere tende a realizzare i migliori presupposti per assicurare la propria conservazione nel tempo.

74 H. Jonas, Il Principio responsabilità, cit., p. 39.75 Ivi, p. 16.76 Ivi, p. 1777 Parola greca che indica l’arte di ben condurre la ricerca.78 A. Dal Lago, La città perduta, in H. Arendt, Vita Activa, cit., p. 15.79 E. Bloch, Il principio speranza, Garzanti, Milano, 2005, pp. 1355-1358.80-P. Portinaro, Il principio disperazione. Tre studi su Günther Anders, Bollati

Boringhieri, Torino, 2003, p. 116.

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o nelle fabbriche87. In altri termini si può comprendere agevolmente come di fronte alla veste di minaccia del problema ambiente, aumenti la sensibilità alla percezione del rischio legato all’attività umana.

La ricerca di soluzioni alle sfide della modernità in campo ambientale ha fatto leva sui concetti di rischio e di minaccia. Nel 1972 il rapporto del MIT per il Club di Roma evidenziava appunto, attraverso una formalizzazione teorica, organica ed efficace, i rischi dell’attuale modello di sviluppo economico. L’effetto Serra, la limitatezza delle risorse, venivano considerati problemi cruciali, tali da indurre una revisione dell’attuale modello di sviluppo, fondato sulla crescita illimitata, onde pagare a livello planetario costi altissimi, compromettendo seriamente le generazioni future88.

Ogni ecosistema nel suo insieme può contare su una molteplicità di risorse esauribili e quindi limitate in un determinato istante, che non possono supportare tutti gli organismi presenti. Anche se il suddetto limite biofisico è variabile nel tempo, esso può esserlo tanto in negativo, quanto in positivo: nel primo caso per il degrado ambientale; nel secondo caso in vista di miglioramenti tecnologici. Non è, tuttavia, facilmente prevedibile quale sarà l’effetto netto dei miglioramenti positivi rispetto ai

81 Cfr. K. O. Apel, P. Becchi, P. Ricoeur, Hans Jonas. Il filosofo e la responsabilità, Alboversorio, Milano, 2004, p. 53-67.

82 N. Luhmann, Soziologie des Risikos, de Gruyter, Berlino, 1991 (trad. it.: Sociologia del rischio, Mondadori, Milano, 1996, p. 11).

83 L. Pellizoni, G. Osti, Sociologia dell’ambiente, cit., p. 54.84 F. Beato, I Quadri teorici della sociologia dell’ambiente tra costruzionismo sociale e

oggettivismo strutturale, in Quaderni di Sociologia, XLII, 16, 1998, p. 41. Per un ulteriore approfondimento cfr. F. Beato, Le teorie sociologiche del rischio, in P. De Nardis, a cura di, Le nuove frontiere della sociologia, Carocci, Roma, 1998, pp. 343-384.

85 E. A. Rosa, Modern theories of society and the environment: The Risk Society, in G. Spaargaren, A. Mol, F. Buttel, a cura di, Environment and Global Modernity, Sage Publications Ltd, London, 2000, pp. 73-101.

86 L’incidente che ha suscitato per primo una grande indignazione dell’opinione pubblica è quello alla Torre Canyon. Nel tragico evento sono state riversate in mare circa 180.000 tonnellate di petrolio. Nel 1989 la nave petroliera Exxon Valdez, riversò circa 42 milioni di litri di petrolio nel golfo di Prince William Sound in Alaska. Ma il peggior disastro causato dalla dispersione di petrolio, risulta ad oggi quello del 20 aprile 2010 a largo del golfo del Messico. Lo USGS, il servizio geologico USA, ha stimato che dalla piattaforma Deepwater Horizon sono fuoriusciti dai 12.000 ai 19.000 barili (da 1,9 ai 3 milioni di litri) di greggio al giorno.

87 In Italia ancora si ricorda l’incidente del 10 luglio1976 avvenuto nella fabbrica di Icmesa, che ha liberato una nube tossica tale da contaminare una vasta area popolata, in particolare nel territorio di Seveso.

88 Vedi cap. 1, par. 1.1 di questo lavoro.

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peggioramenti, così come non è sempre agevole l’individuazione di tutte le cause e concause capaci di generarli.

Gli ecosistemi contemporanei non presentano la fisionomia ed il carattere originario a causa dell’intervento dell’uomo, che fin dalla preistoria ha modificato ed, in alcuni casi, plasmato a suo utile l’ambiente che lo circondava. I cambiamenti climatici, il degrado ambientale sono problemi contemporanei, o come sostiene Ulrich Beck di una seconda modernità89, ma che hanno radici nella storia dell’uomo o meglio, sono la risultante di un processo di modificazione degli ecosistemi di lungo periodo. La scoperta dell’impatto negativo di un’eccessiva e incontrollata modificazione della natura circostante, ossia il sorgere di una questione ambientale e di quella sensibilità al rischio che essa comporta, è stata una sorta di piccola rivoluzione copernicana, che implica la necessità di valutare nel futuro gli effetti delle contingenti attività umane90.

La minaccia di eventi catastrofici correlati al degrado antropico hanno avuto presa nella sensibilità dell’opinione comune a partire dalla fine degli anni sessanta. Il rapporto al Club di Roma “Limits to Growth” è stato pertanto, di grande risonanza insieme ad un’altra opera incentrata sull’insostenibilità della crescita economica: Il cerchio da chiudere di Barry Commoner. Pubblicato per la prima volta in Italia nel 1972, rilegge l’ambiente in modo sistemico arricchendo l’analisi di copiosi richiami scientifici:

l’ambiente costituisce una macchina vivente, immensa ed estremamente complessa, che forma un sottile strato dinamico sulla superficie terrestre. (…) Ogni specie vivente è collegata con molte altre. Questi legami stupiscono per la loro varietà e per le loro sottili interrelazioni91.

89 Cfr. U. Beck, Risikogesellschaft, Auf dem Weg in eine andere Moderne, Suhrkamp, Frankfurt a.M., 1986 (trad. it.: La società del rischio. Verso una seconda modernità, Carocci Editore, Roma, 2006, pp. 114-117).

90 Sorprende come, rispetto alla storia dell’evoluzione umana, è da poco o più di 50 anni che viene considerato il limite della crescita, della tecnica e della scienza. Questo limite pone un forte interrogativo sulla capacità delle società post moderne di interpretare il reale rischio che stiamo correndo. U. Beck ne “La società del rischio” mette in discussione la stessa capacità del sapere scientifico, non sulle sue competenze, ma sulla possibilità che il rischio calcolato dalla scienza si trasformi in business del rischio, passando così da problema evitabile a problema risarcibile e dimenticando, nel rischio ambientale in particolare, di trovare soluzioni al problema causa del danno.

91 B. Commoner, The Closing Circle: Nature, Man and Technology, Knopf, New York, 1971 (trad. it.: Il cerchio da chiudere: la natura, l’uomo e la tecnologia, Garzanti, Milano, 1976, p. 24).

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A preparare la strada è stata indubbiamente l’opera della Carson, Primavera silenziosa e con essa si può dire che prende il via quel movimento che è stato definito ambientalismo scientifico, ossia legato non solo ad una sensibilità rispetto all’ambiente, ma anche capace di lanciare allarmi giustificati e vitali per la sopravvivenza del pianeta, attraverso l’ausilio di studi rigorosi, analitici e scientifici. L’ambientalismo scientifico ha radici antiche che affondano nella ricerca di Darwin, il quale pose l’ambiente in una posizione centrale per lo sviluppo della sua teoria dell’evoluzione. La Carson ha avuto il merito di portare il problema ambientale all’attenzione dell’opinione pubblica ed insieme alle opere sopra citate, a caratterizzare l’ambientalismo come battaglia necessaria proprio perché giustificata da studi scientifici sull’insostenibilità del nostro modello di crescita. Che l’ambientalismo scientifico si sia poi mutato in movimento politico, attraverso la nascita dei partiti verdi, ciò non implica l’assunto di fondo: al di là delle ideologie, la scientificità ed il rigore delle posizioni deve spingere qualunque partito e qualunque attore istituzionale a confrontarsi con queste tematiche. L’impegno per la difesa dell’ambiente non può essere collegato a bandiere particolari. Non lo è stato nel corso della storia, come abbiamo e avremo modo di sottolineare in futuro citando autori e movimenti ascrivibili ed ispiratori di diverse posizioni ideologico politiche.

2.2 Tappe e riferimenti internazionali per continuare nella nostra storia

La comunità internazionale, dopo la crescente presa di coscienza della questione ambientale, non poteva restare inerte92. Occorreva dare una

92 Va sottolineato come ad essere “sotto accusa” è proprio il concetto di crescita ed i limiti dello sviluppo. Ci sono diversi fattori che comprovano questa tesi. La crisi del welfare state, sempre più costoso per gli stati e meno efficiente per i cittadini, la crisi del fordismo come modello produttivo fondato sulla grande industria presente nel territorio, la grave crisi energetica scatenata dai paesi arabi come conseguenza alla guerra del Kippur. Gli anni 70, dunque, segnano in modo inequivocabile una crisi profonda delle economie occidentali, che porterà ad una radicale opera di ristrutturazione dei modi di produzione. In realtà ciò che entra in crisi a partire dai 70 è l’idea Keynesiana che una forte spesa sociale avrebbe avuto un effetto positivo sulla crescita. Per l’economista la spesa pubblica faceva aumentare gli investimenti e quindi era foriera di sviluppo economico. Negli anni 70 questo circolo virtuoso si era interrotto ed anzi, aumentava la disoccupazione strutturale dovuta ad una serie di cause e concause rintracciabili nel cambiamento in atto nella società ( es. innovazione tecnologica in grado di sostituire parte della manodopera, maggiore presenza

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risposta compiuta alle distorsioni della crescita economica e dei conseguenti problemi ambientali. Le Nazioni Unite nel 1972 organizzarono a Stoccolma, la prima Conferenza mondiale sull’ambiente93. Sulla scia della Conferenza, l’anno successivo venne istituito l’Unep (Programma ambientale delle nazioni unite)94 e contemporaneamente la Comunità Europea diede vita alla sua politica ambientale con il primo Programma d’azione. Si tentò, dunque, un cambio di rotta, cercando di favorire politiche che realizzassero una difficile mediazione tra ecologia e crescita.

femminile nel mondo del lavoro, crescita demografica, aumento di competitività nelle imprese tali da spronare operazione di ristrutturazioni industriali con riduzione di costi del lavoro, ecc.) Cfr. M. Ferrara, Le trappole del welfare. Uno stato sociale sostenibile per l’Europa del XXI secolo, Il Mulino, Bologna, 1998; o ancora, Cfr. B. Trentin, La città del lavoro - Sinistra e crisi del fordismo, Feltrinelli, Milano, 1996. Cfr A. Graziani, Lo sviluppo dell’economia italiana. Dalla ricostruzione alla moneta europea, Bollati Boringhieri, Torino, 2000.

93 Fu la Svezia a proporre nel 1968 presso le Nazioni Unite l’idea di organizzare una conferenza mondiale sull’ambiente e fu proprio a Stoccolma che nel 1972 si tenne la conferenza alla quale non parteciparono l’URSS e molti Paesi del blocco socialista. Durante la Conferenza, l’ambiente entrò a far parte delle grandi questioni internazionali. Come spesso erroneamente viene riportato, il termine “sviluppo sostenibile” non venne adottato in quella occasione. Henry Kissinger, Consigliere per la Sicurezza Nazionale del Presidente Richard Nixon e solo nel 1973 Segretario di Stato, diede un notevole contributo alla realizzazione della Conferenza. Il ruolo dell’allora Consigliere fu cruciale per il fatto che, in modo del tutto inaspettato, si giunse ad una convergenza tra le posizioni dei paesi in via di sviluppo e le posizioni dei paesi sviluppati, attraverso una Dichiarazione comune e un Piano di azione con 109 raccomandazioni. Naturalmente, in modo del tutto non prevedibile, il compromesso tra le due posizioni metteva vicino, e sullo stesso piano, due concetti e due idee lontanissime tra loro: l’ambiente e la crescita economico. Henry Kissinger in quello stesso periodo stava lavorando alla distensione dei rapporti tra la Cina e gli USA che portò all’incontro in Cina nel 1972 tra Richard Nixon e Mao Tse-tung. Questo incontro suscitò un grande risalto nell’opinione pubblica e diede a Kissinger la possibilità di ritagliarsi un ruolo di forte influenza nella politica internazionale. Ricordiamo in fine che la Cina del 1972 non era ancora la potenza economica mondiale che oggi conosciamo, ma rappresentava quei paesi in via di sviluppo capaci di giocare un ruolo cruciale per gli USA. Nel periodo 1954-72 gli aiuti sovietici ai paesi esteri in via di sviluppo raggiunsero gli 8.196 Milioni di dollari, con una punta massima di 998 Milioni di dollari spesi solo nel 1964 e 1.244 Milioni di dollari nel 1966. Tra i Paesi beneficiari spicca il Medio Oriente con 3,3 Miliardi, 3 Miliardi l’Asia Meridionale, 1,2 Miliardi l’Africa, vedi par.4.2 di questo lavoro, Le politiche economiche di pianificazione nell’Unione Sovietica.

94-Una puntuale e dettagliata ricostruzione degli eventi internazionali legati alla politica ambientale con riferimenti e spunti a carattere nazionale è stata elaborata da A. Cicerchia, Leggeri sulla terra. L’impronta ecologica della vita quotidiana, Franco Angeli, Milano, 2004, pp. 13 e ss.

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Nel 1987 venne pubblicato il Rapporto Brundtland,95 dall’omonima Commissione presieduta da Gro Harlem Brundtland, primo ministro della Norvegia.

Venne introdotto il concetto di sviluppo sostenibile e fin da subito, dopo la pubblicazione del Rapporto, esso diventò la nuova parola d’ordine, la bussola richiamata per guidare politiche economiche ed ambientali. Nel documento dal titolo Our common future, commissionato dalla WCED (World Commission on Environment and Development), si definisce sviluppo sostenibile

lo sviluppo che incontra i bisogni attuali senza pregiudicare l’abilità delle generazioni future nel rispondere ai loro. Esiste un chiaro legame tra i problemi ambientali e la distribuzione della ricchezza e delle povertà nel mondo, ed è evidente come il modello di sviluppo fino ad oggi seguito, sia il diretto responsabile della crescita incontrollata della grave situazione ambientale creatasi. Esso, infatti, è basato su un costante sviluppo tecnologico e una sempre maggiore produzione. Il risultato di questo modello di sviluppo è oggi sotto i nostri occhi; le acque dei nostri fiumi e dei nostri mari sono inquinate, l’aria delle città è irrespirabile, la temperatura del globo è in aumento, i rifiuti si accumulano senza trovare una giusta via di smaltimento e le differenze tra i paesi ricchi del nord del mondo e quelli poveri del sud si sono ampliate. Oggi più dell’80% della popolazione della Terra consuma meno del 20% delle risorse del pianeta96.

In sostanza, con il termine di sviluppo sostenibile si fa riferimento ad una modalità di sviluppo che consenta alle future generazioni le possibilità di poter disporre dei beni ambientali, dell’insieme di conoscenze tecniche e scientifiche, di beni materiali prodotti dall’uomo in misura non inferiore a quella della generazione presente97.

Il Brundtland Report segna un momento decisivo per la presa di coscienza sulle sfide che l’umanità è chiamata ad affrontare. Per molti rappresenta un punto di riferimento fondamentale per pianificare e stabilire obiettivi a livello globale. Una mappa in grado di stabilire la direzione da

95 Brundtland Report, nome abbreviato di Our Common Future, è il rapporto pubblicato nel 1987 dalla WORLD COMMISSION ON ENVIROMENT AND DEVELOPMENT istituita nel 1983 dall’Assemblea generale dell’ONU. Eponimo è la signora Gro Harlem BRUNDTLAND, presidente della Commissione, già capo del Partito laburista norvegese e presidente del Governo norvegese.

96-G. Marchisio, F. Raspadori, A. Maneggia, a cura di, Rio cinque anni dopo, Franco Angeli, Milano, 1998, pp. 17-18.

97 Cfr. S. Pinna, La protezione dell’ambiente, Angeli, Milano, 1995.

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intraprendere. Un punto di svolta che inciderà profondamente nelle scelte politiche di molti governi, finanche in quelli più refrattari, diffidenti e anche ostili a cambiamenti di questa portata. Ciò che verrà crea già una possibilità di certezza nell’intravedere una svolta a livello nazionale e internazionale.

La questione ambientale chiama in causa direttamente la generazione presente, spronandola ad assumere una responsabilità che ha il suo fine nel garantire le generazioni future. In altri termini il merito della sostenibilità è anche quello di mettere al centro delle attività umane gli individui ancora non nati, visto che le azioni dell’oggi, si ripercuoteranno inevitabilmente sul domani98. Tuttavia, continua il Brundtland Report, perché si possano raggiungere gli obiettivi prefissati occorre la “partecipazione di tutti”: il soddisfacimento di bisogni essenziali (basic needs) esige non solo una nuova era di crescita economica per nazioni in cui la maggioranza degli abitanti sono poveri, ma anche la garanzia che tali poveri abbiano la loro giusta parte delle risorse necessarie a sostenere tale crescita. Una siffatta equità dovrebbe essere coadiuvata sia da sistemi politici che assicurino l’effettiva partecipazione dei cittadini nel processo decisionale, sia da una maggior democrazia a livello delle scelte internazionali.

Gli accesi dibattiti in campo scientifico, ma anche il crescente interesse dell’opinione pubblica sulle questioni ambientali99 stimolarono una nuova linea politica interessata ad uno sviluppo economico e sociale che «meet the need of the present generation without compromising the ability of future generations to meet their own needs»100.

Un segnale importante arrivò nel 1992, quando si tenne a Rio de Janeiro una conferenza organizzata dall’UNCED (United Nations Conference on Environment and Development). Per la prima volta la comunità internazionale si ritrovò ad affrontare i problemi dell’ecosistema attraverso una nuova chiave di lettura. L’approccio fu molto pragmatico: cosa fare e come monitorare. Ne scaturì un programma d’azione dal nome “Agenda 21”, un documento programmatico delle politiche di tutela dell’ambiente, una pianificazione delle azioni da intraprendere a livello globale, nazionale

98 Il problema assume una veste etica e non può essere diversamente, visto che in gioco ci sono ragioni di equità sia intergenerazionali sia infragenerazionali.

99 Cfr. cap. 1, par. 1.1, del presente lavoro.100 Una parte del contenuto del Brundtland Report, 1988, pag.71. La definizione

prosegue in questo modo: “sustainable development is not a fixed state of harmony, but rather a process of change in which the exploitation of resources, the direction of investments, the orientation of technological development and institutional changes are made consistent with future as well as present needs” (sviluppo che incontra i bisogni attuali senza pregiudicare l'abilità delle generazioni future nel rispondere ai loro).

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e locale, ed ad altri documenti non vincolanti come La Carta della Terra, la Convenzione sulla diversità biologica, la Convenzione quadro sui cambiamenti climatici, i Forest principles.

La conferenza individuò nei paesi industrializzati la responsabilità del degrado ambientale e del “buco nell’ozono”, convenendo nel concordare tempi e modi per organizzare un cambiamento di rotta tramite le varie “Conferenza delle parti”, che sarebbero partite allorché almeno 100 paesi avessero ratificato la convenzione.

Si riprendono, inoltre, le posizioni politiche e filosofiche presenti nel Rapporto Brundtland, con il distinguo che la sovranità nazionale anche sui problemi ambientali non può essere messa in discussione101.

Sul fronte delle risorse i Paesi in via di sviluppo hanno rivendicato il riconoscimento del diritto a sfruttare quelle naturali presenti nei loro territori per accelerare la crescita, senza interferenza alcuna.

Si è poi discusso sulla necessità di evitare di trattare in modo separato questioni ecologiche ed economiche, data la loro strettissima connessione e reciprocità.

I tempi della politica spesso sono lunghi, ma ancor di più se ad organizzarsi sono circa 100 stati, così ci sono voluti quasi due anni da Rio per dar vita alla prima Conferenza delle Parti, tenutasi a Berlino nel 1995. Il cancelliere tedesco Helmut Khol, aprì i lavori dei delegati con la celebre frase: «Quando i vostri nipoti vi chiederanno cosa avete fatto a Berlino per salvare il clima, voi cosa potete rispondere?».

Seguirono altre due Conferenze delle parti, il leitmotiv rimase identico: la ricerca di misure idonee e concrete per risolvere la questione ambientale.

Tuttavia ancora nulla si era deciso, almeno fino al 1997, quando a Kyoto si diedero appuntamento le delegazioni di 160 Paesi. Venne approvato un protocollo d’intesa con oggetto la riduzione di circa il 5% delle emissioni gassose nocive a livello mondiale. Il documento, al di là degli obiettivi assunti, peraltro stimati ancora esigui dalle associazioni ambientaliste, rappresentò una chiave di volta importante, quasi rivoluzionaria. Per la prima volta la comunità internazionale decise di voltare pagina col passato, con i proclami, con gli inviti quasi sempre disattesi perché stretti nella “morsa” d’interessi contrastanti, per darsi dei tempi (entro il 2012, anno base 1990) e delle modalità operative specifiche per ridurre le quantità di CO2. L’entrata in vigore del protocollo era subordinata a due clausole essenziali: la ratifica di almeno il 55% degli stati firmatari che fossero responsabili del 55% delle emissioni mondiali dei gas serra. Venivano previsti, anche dei meccanismi flessibili, onde evitare che gli impegni

101 G. Marchisio, F. Raspadori, A. Maneggia, a cura di, Rio cinque anni dopo, cit., p. 15.

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assunti potessero avere un costo troppo oneroso per le economie dei singoli Paesi. Tra le principali ricordiamo la “Carbon Sinks”, che permette di conteggiare le piantagioni particolarmente efficaci nell’assorbire anidride carbonica, le “Joint Implementation”, secondo le quale un paese possa investire sulle riduzioni dei gas serra altrove o le “Emission Trading”, che consentono di acquistare quote di riduzione da nazioni più virtuose102.

L’entrata in vigore del protocollo non è stata immediata, si è assistito ad un processo lungo e difficile, non privo di passi indietro e colpi di scena. Gli Stati Uniti, all’indomani della vittoria di G. Bush Jr., hanno assunto una posizione contraria agli impegni di Kyoto, ritenendoli contrastanti con l’interesse nazionale. Del resto la principale base elettorale di Bush era composta dalla “lobby” dei petrolieri, particolarmente influenti negli Usa103. La Conferenza dell’Aja, in seguito, nel novembre 2000, fece registrare un flop clamoroso. Si scontrarono due differenti posizioni: l’UE che spingeva per la ratifica e i Paesi del c.d. “umbrella group” (USA, Canada, Giappone, Australia) che opponendo motivazioni solo all’apparenza di natura tecnica, si rifiutavano di ratificarlo (il protocollo è entrato in vigore, con la ratifica della Russia, nel 2005). Giova comunque ricordare che al Vertice di Kyoto si ritorna al principio della separazione tra ecologia ed economia, che a Rio era stato abbandonato. Solo con il Summit mondiale sullo sviluppo sostenibile di Johannesburg nel 2002, si è avuto un parziale riconoscimento dell’interdipendenza tra questione ambientale e componenti economico–sociali, oltre alla promozione di partnership e collaborazione per favorire la sostenibilità.

Oltre quanto detto, non furono introdotte altre novità sostanziali. Il Summit terminò ribadendo le solite dichiarazioni di principio affermate dieci anni prima senza però indicare vie concrete alla loro realizzazione.

Da questo breve excursus, si può facilmente constatare come il concetto di sviluppo sostenibile è rimasto praticamente inalterato fin dalla sua formulazione. Caratterizzato di volta in volta da una focalizzazione d’interesse posta sull’aspetto della crescita e sulle questioni ambientali, esso rimane ancora oggi in bilico tra opportunità per l’umanità e strozzatura per lo sviluppo economico.

102-Nel saggio vengono analizzati i meccanismi di riduzione delle emissioni nocive introdotte dal Protocollo ed i c.d. “mercati ambientali”, ossia la possibilità di vendere e comprare quote di riduzione dei gas serre da altri Paesi. L’Italia è stata una delle prime nazioni ad introdurre tali mercati ottenendo una positiva minimizzazione dei costi legati agli investimenti per centrare gli obiettivi fissati a Kyoto; Cfr. S. Alaimo, Il Protocollo di Kyoto. Riduzione delle emissioni e mercati ambientali, Phasar, Firenze 2005.

103-T. P. Di Napoli, C. C. Pulling, Il territorio nella politica degli Stati Uniti. Il Protocollo di Kyoto e le prospettive ambientali, in G. Motta, a cura di, Paesaggio, Territorio, Ambiente. Storie di uomini e di terre, Franco Angeli, Milano, 2004, pp. 440-459.

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Vi è poi il ruolo del diritto ambientale, che non sembra più idoneo, per sua natura, a garantire lo sviluppo sostenibile. Il nuovo concetto di ecosistema ne mette in discussione l’ambito di validità, in particolare perché non è legato alle tradizionali divisioni territoriali fra Stati. La conseguenza è che «il diritto ambientale che è diritto statale e internazionale deve affrontare una crisi di legittimità»104.

Se il diritto internazionale riuscisse ad incorporare i principi del diritto dell’ambiente come vincolanti per i singoli Stati, si potrebbe riuscire a costruire un sistema normativo efficace con regole certe e modelli virtuosi, garantendo anche incentivi economici a quei Paesi rispettosi delle regole. Su questo l’UE ha stabilito una serie di regole e di norme che va incontro a queste esigenze ma c’è ancora molto da fare. Un simile cambiamento non può innescarsi senza ampliare i criteri di valutazione degli attuali indicatori economici dei singoli Stati, che dovranno essere considerati non solo in un’ottica di crescita economica, ma anche incorporando altri aspetti, che negli indicatori tradizionali non vengono considerati105.

2.3 Definire la sostenibilità

La prima definizione compiuta di Sviluppo Sostenibile si deve dunque alla Commissione presieduta da Gro Harlem Brundtland; letteralmente “uno sviluppo che soddisfi i bisogni del presente senza compromettere la capacità delle generazioni future”.

La scelta del termine “sostenibilità” ha una sua motivazione specifica: è un aggettivo mutuato dal concetto di “raccolto sostenibile”, noto in agricoltura per indicare tipi di colture che possono essere condotte indefinitamente e che, in altre parole, si possa mantenere indefinitamente la loro resa. È sostenibile la gestione di una risorsa di cui conosciamo la sua capacità di riproduzione, quando non si eccede nel suo sfruttamento, superando una determinata soglia di sicurezza.

Vi sono risorse naturali rinnovabili, che hanno la capacità di riprodursi o rinnovarsi106. Vi sono inoltre risorse che in natura sono esauribili e limitate:

104-F. Viola, Stato e natura, Anabasi, Milano 1995, p.162. Cfr., M. Sirimarco, Il diritto all’ambiente, cit., p. 65.

105 In seguito affronteremo il problema del PIL e analizzeremo nuove proposte alternative provenienti dal mondo scientifico. Vedi cap. 5, par. 5.3, del presente lavoro.

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tipico esempio le risorse minerarie.107 Per queste ultime il problema sarà quello di individuare i tempi e condizioni di sfruttamento ottimale delle stesse, mentre non è tanto corretto parlare di sostenibilità.

La scarsità delle risorse è in genere stimata in base al rapporto tra consumo e riserve, senza trascurare la variabile incognita dello scoprimento di nuovi giacimenti108.

In linea generale esiste una relazione fra lo sfruttamento della risorsa e la ricerca di nuovi giacimenti o sostituti, tale da portare a correggere o a rivedere le stime, qualora se ne scoprano nuovi, ovvero s’introducono dei sostituti.

Riguardo alle risorse rinnovabili possiamo, invece, riportare l’esempio della pesca. Se è praticata rispettando il ciclo naturale di riproduzione dei pesci, non ci saranno problemi nel continuare l’attività negli anni, assicurando anche ai posteri la possibilità di poterla esercitare allo stesso modo di come possiamo farlo noi oggi. Al contrario, se si supera la soglia critica (per riprendere l’esempio dianzi citato, si pratica la pesca senza rispettare i cicli di riproduzione), si avranno ingenti diminuzioni dello, con danni, non solo economici, ma anche di altro genere109.

La sostenibilità, pertanto, è un concetto fondante dello sviluppo ed è orientata verso le nuove generazioni, riconosciute titolari di un diritto di equità intergenerazionale. Essa tutela tanto i diritti infragenerazionali quanto quelli intergenerazionali110.

Sul fronte dell’esauribilità delle risorse nel tempo sono state formulate diverse teorie per arginare il problema. Possiamo, tuttavia, ricondurle in due tesi distinte. Secondo la prima, il pianeta è considerato come una definita realtà fisica, che si regge su equilibri particolarmente sensibili. L’altra tesi si spinge oltre, interpretando il pianeta come un unico organismo vivente, capace di autoregolarsi. Quest’ultima sembra la più

106 Esempi di risorse rinnovabili possono essere tutte quelle forme di vita che stazionano, vivono o si trasformano in luoghi circoscritti e che caratterizzano uno specifico spazio suolo, sottosuolo o il soprasuolo, ad esempio una particolare specie animale o vegetale, alcuni alberi o piante, alcuni pesci o molluschi, comunque tutti caratterizzati dalla loro capacità di trasformarsi ed evolvere in un determinato arco di tempo.

107 È necessario precisare che tali risorse hanno una capacità rigenerativa molto lunga, stimata in migliaia di anni. Per questo motivo vengono definite comunque esauribili.

108-Nel 1972, ad esempio, le riserve del rame stimate, erano pari a 300 milioni di tonnellate, mentre nel 1980 la previsione è stata rivista e corretta in aumento di 500 milioni di tonnellate. Ciò è accaduto anche per le fonti energetiche.

109 A. Lanza, Lo sviluppo sostenibile, cit., p.11.110 L’infragenerazionalità attiene al diritto riconosciuto a tutti gli individui del mondo di

godere del libero accesso alle risorse. L’intergenerazionalità si riferisce al diritto di garantire pari opportunità tra la generazione presente e quella futura.

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interessante, formulata nella sua versione embrionale da James Lovelock, si basa sulla teoria che la terra sia un grande sistema autoregolante per l’agire degli organismi viventi. L’azione combinata di essi, propri con le proprie specificità, contribuisce al mantenimento delle caratteristiche chimico-fisiche del sistema terra, idonee a garantire la presenza della vita. In biologia, tale attività di regolazione è nota come omeostasi111. Visto che l’omeostasi è una caratteristica saliente di ogni essere vivente, anche la terra per analogia può essere considerata come un unico super organismo vivente112.

Le due tesi proposte possono essere entrambe valide. La seconda, nota come Ipotesi Gaia, ha il merito di rilevare come il comportamento dell’uomo irresponsabile può danneggiare gli equilibri che favoriscono il mantenimento delle condizioni di vita e, quindi, in ultima analisi se stesso113.

Abbiamo citato le due più interessanti teorie, ma in letteratura possono trovarsi molteplici interpretazioni e speculazioni sul medesimo problema. Molto spesso le stesse cambiano a seconda dei punti di vista: filosofico, giuridico, sociologico, economico, ecc.

Il Capograssi evidenzia, inoltre, le strette relazioni con gli individui, mostrando come è proprio l’uomo a determinarle attraverso l’instaurazione di un rapporto responsabile con la natura e, nello specifico, dotandosi di leggi adeguate che le favoriscano114.

“L’umanità ha bisogno di vivere, l’umanità come ogni altra specie animale. E per vivere non ha altro patrimonio che la terra, questa terra su cui cammina, su cui poggia le sue case e le sue tombe, su cui poggia si può dire la sua storia(…). Col suo pensiero e le sue inventive va cercando più che la terra le capacità e le fecondità interne della terra, per tirare quella vita nella sua cerchia, avviarla verso i suoi scopi umani. La grande scoperta dell’uomo è proprio questa, che la terra vive, ha la sua vita, è anzi piena di vite: una vita che è la vera ricchezza della vita umana”115.

111-L’omeostasi indica la proprietà degli organismi viventi di conservare relativamente costanti alcune caratteristiche interne, quali la temperatura, la pressione osmotica ecc., al variare delle condizioni esterne. Cfr. A. Gabrielli, Grande dizionario Italiano, Hoepli, 2011.

112-Cfr. J. E. Lovelock, Gaia, a New Look at Life on Earth, Oxford University Press, Oxford, 1979 (trad.it.: Gaia, Nuove Idee sull’Ecologia, Bollati Boringhieri, Torino, 1981).

113 L’Ipotesi Gaia che considera il mondo come un unico superorganismo è relativamente giovane. Infatti, il saggio di Lovelock è stato pubblicato solo nel 1979.

114 Cfr. F. Viola, Stato e natura, cit., pp. 132 e ss..115-G. Capograssi, Agricoltura, diritto, proprietà, in Opere di Giuseppe Capograssi,

Milano, 1959. Cfr. T. Serra, L’uomo programmato, cit., p. 169.

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Al di là delle correnti di pensiero è indubbio che la sostenibilità sarà per il nuovo millennio una questione della quale tenere conto nelle scelte e nelle azioni che si compieranno. Il Wuppertal Institut sintetizza in modo mirabile le problematiche ed i principi che sono alla base del concetto di sostenibilità: “Il concetto di sostenibilità trova radice in tre giudizi di valore.

In primo luogo tale termine postula il diritto alle risorse di questa terra per gli individui che vivranno in futuro e fa della giustizia fra le generazioni uno dei principi guida dell’azione politica.

In secondo luogo, il dibattito sulla sostenibilità porta a chiedersi quali ambienti vogliamo per gli esseri umani, tale quesito ha condotto a due posizioni distinte, entrambe influenzate dall’economia, che vedremo più avanti.

In terzo luogo il concetto di sostenibilità racchiude oltre alla dimensione ecologica, un’ulteriore dimensione: quella della giustizia internazionale; infatti, non solo le generazioni future hanno diritto a godere di una natura intatta, ma anche all’interno di una stessa generazione ogni individuo ha diritto ad un ambiente intatto. Perciò ogni individuo ha diritto ad utilizzare le risorse globalmente disponibili senza sfruttare l’ambiente oltre le sue possibilità”116.

Al concetto di sostenibilità si viene poi ad affiancare quello di sviluppo, da intendersi come un’equa distribuzione della ricchezza e non come sfruttamento indiscriminato delle risorse. Le teorie economiche in relazione allo sviluppo devono considerare anche le esternalità negative legate ai modelli di produzione, verificando il costo opportunità dello sviluppo sostenibile.

Non sarà sfuggito, per concludere, come la sostenibilità sia una questione complessa nella quale entrano in gioco numerose variabili. Riprendiamo ancora una volta le parole del Lanza che con brillante acume scrive: “il tema dello sviluppo sostenibile si dovrebbe affrontare con lo stesso spirito con cui s’inizia a lavorare ad un puzzle (….). Si tratta di una torta con diversi ingredienti, in cui categorie differenti danno vita ad un’unione complessa, per certi versi contraddittoria, ma certamente ricca di spunti e suggestioni”117.

2.4. Basilea 15-21 maggio 1989

116 W. Sachs, R. Loske, M. Linz, a cura di, Futuro sostenibile, riconversione ecologica, nord-sud, nuovi stili di vita, Wuppertal Institut, EMI, Bologna, 1997, p. 28.

117 A. Lanza, Lo sviluppo sostenibile, cit., pp. 4-7.

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Il 15 maggio 1989 a Basilea in Svizzera si è tenuta la prima Assemblea Ecumenica Europea che ha visto la partecipazione di 504 delegati di tutte le chiese europee. L’Assemblea, promossa alla Conferenza delle Chiese Europee (KEK) e dal Consiglio delle Conferenze Episcopali Europee (CCEE), si conclude il 22 maggio e nel documento finale, approvato con una larga maggioranza, circa il 95,4% dei voti favorevoli rispetto al 75% necessario al suo passaggio, dichiara: “tra le priorità strettamente collegate perché si possa effettivamente avere Pace nella giustizia, le Chiese Europee riconoscono come necessario e urgente comprendere che le risorse di questa terra devono essere condivise con le prossime generazioni e con la vita futura”. Con l’assunzione dell’impegno ad “adottare un nuovo stile di vita nelle nostre chiese, società famiglie e comunità”. In queste brevi righe troviamo un esplicito richiamo alla sostenibilità, con un ancor più esplicito richiamo allo stile di vita, più sobrio ed attento, al rispetto del limite per le generazioni future. - Continua il documento - Nel tentare di dare una risposta alle crisi odierne, sentite come sfide da superare al paragrafo 2.5 del documento finale, si giunge ad una lucida e lapidaria disamina: “A molti la risposta sembra ovvia. La ragione deve essere ricercata nelle enorme quantità di mezzi e di possibilità messi nelle mani dell’umanità dalla scienza e dalla tecnologia. I principali cambiamenti sopravvenuti nell’ordinamento delle società e nel rapporto con la natura hanno la loro origine nell’eccessiva espansione dell’azione umana. I moderni mezzi di produzione sono alla base dell’economia attuale. Essi forniscono possibilità di sfruttamento che non erano mai esistite prima. La tecnologia ha portato molti vantaggi, ma nello stesso tempo, invece di servire l’umanità, è diventata una minaccia al suo futuro”118. Come ho avuto modo di dire all’inizio del lavoro119, le parole di questo importante e significativo documento non rappresentano un attacco al progresso ed ai traguardi della scienza e della tecnica, ma una presa d’atto che, come mezzi nelle mani dell’uomo, hanno bisogno di essere orientati per fini responsabili.

Nel documento Finale le Chiese europee collegano l’attenzione alle generazioni future in un quadro di raccomandazioni ben più ampio, come l’impegno contro la povertà, il disarmo, il dialogo tra le nazioni ecc., ognuna delle quali può, di fatto, costituire un “pezzo del puzzle”, da comporre per l’edificazione della “Pace nella giustizia”. Un aspetto interessante del documento è legato all’idea del rapporto tra crescita e sviluppo, che affronteremo più compiutamente nelle prossime pagine. Il

118-Cfr. Documento Finale, Assemblea Ecumenica Europea “Pace nella Giustizia”, Basilea 15-21 maggio 1989.

119 Vedi cap.1, par.1.3, del presente lavoro.

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termine crescita non viene mai citato e si fa riferimento al solo sviluppo, chiariremo in seguito che i due concetti non sono sinonimi, ma anzi, corre una grossa differenza tra l’uno e l’altro, in questa sede occorre ribadire che il documento si fa portatore di un’idea di sussidiarietà nell’economia, auspicando un nuovo ordine economico che attenui le disuguaglianze, i conflitti tra classi, le sperequazioni economiche. La base di tale sistema dovrà essere la sostenibilità nella sua accezione più generale ed ampia, così da garantire alle generazioni future non solo la possibilità di usufruire delle stesse condizioni odierne, ma anche presumibilmente, lasciare loro in eredità un mondo migliore120.

Queste raccomandazioni aprono il paragrafo dedicato alla Giustizia, lasciando chiaramente intendere come il concetto di sostenibilità sia fondamento su cui costruire l’ordine economico che può garantire proprio la vera giustizia. La questione ambientale ne è parte integrante e costituente. Le Chiese europee scrivono in proposito:

Ogni sviluppo tecnologico deve essere sottoposto ai criteri di sostenibilità menzionati sopra (cf. n. 84a)121. Ciò comporta un capovolgimento completo del concetto di crescita economica costante e dell’uso delle risorse naturali.

Ricompare il termine crescita nella sua accezione negativa, letteralmente da “capovolgere” in favore di un principio di sussidiarietà e di sviluppo, oltre che viene ribadita l’attenzione alle risorse naturali. Il documento entra poi in misure di dettaglio come il risparmio energetico, l’adozione di fonti rinnovabili, la riduzione di CO2, il problema dello smaltimento dei rifiuti, la salvaguardia delle specie a rischio, le scorie nucleari ecc. e si conclude con un appello a tutti i cristiani:

Sono raccomandati il dialogo con gli scienziati su questioni ecologiche e uno studio di documenti come il Rapporto Brundtland. Chiediamo a tutti i cristiani in Europa di aiutare e sostenere le loro chiese e i loro governi a realizzare questi provvedimenti. Chiediamo a tutti costoro di adottare uno stile di vita che sia il meno dannoso possibile all’ambiente. Questo significherà una riduzione nell’uso dell’energia, l’uso dei trasporti pubblici e una limitazione degli sprechi. Le amministrazioni comunali possono introdurre una contabilità ecologica. Dobbiamo

120 Nel Documento viene espressamente citato il termine sostenibilità: “Ogni sviluppo economico deve essere sottoposto ai criteri di sostenibilità sul piano sociale, internazionale, ambientale e su quello delle generazioni future”. Definendo appunto il concetto di sostenibilità nella sua accezione più ampia e generale. Cfr. Documento Finale, cit..

121 Si fa riferimento all’idea generale di sostenibilità che abbiamo menzionato nel testo e nella nota precedente.

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imparare che la nostra felicità e la nostra salute non dipendono tanto dai beni materiali, quanto piuttosto dai doni della natura e delle creature nostre compagne, dalle relazioni umane e dalla nostra relazione con Dio122.

Come si può facilmente evidenziare la conclusione a cui giunge il documento rappresenta per sommi capi una sorta di programma politico, che ha nelle sue poche righe quelle che sono le indicazioni principali e fondamentali per realizzare la sostenibilità. Non si tratta però di semplici raccomandazioni, ma di vere e proprie parole d’ordini affidate ai cristiani d’Europa e del mondo per portare a termine la loro missione di evangelizzazione sia nella sfera privata che in quella pubblica, politica e istituzionale. La sostenibilità è pre-condizione della giustizia e quest’ultima è fondamento della “Pace”. Pertanto ogni buon cristiano nel suo impegno sociale ha la vocazione di promuovere e realizzare la sostenibilità. Essa si concilia con uno stile di vita idoneo e con misure politiche appropriate che i cristiani impegnati nelle istituzioni dovranno sforzarsi di porre in essere.

Di particolare interesse, anche ai fini del nostro lavoro, è il richiamo a metodi di contabilità ambientale, necessari per una stima plausibile dei risultati delle politiche sostenibili e del livello di degrado ecologico. Tali metodi verranno trattati nell’ultimo capitolo del presente lavoro, insieme ad una critica dell’indicatore PIL come misura della crescita economica.

Il documento offre poi uno spunto interessante di riflessione: in precedenza avevamo sottolineato come l’ambientalismo non può essere figlio di un’ideologia politica particolare. Certo i partiti verdi ne hanno fatto una bandiera programmatica fondamentale, ma non sono e non dovranno essere gli unici movimenti ad esserne ispiratori. Lo stesso discorso lo si può sia fare per i partiti di destra che di sinistra, il documento chiama, infatti, tutti i cristiani a realizzare la giustizia, indipendentemente dal partito politico in cui militano. Lo stesso ambientalismo scientifico si fonda poi su un rigore tale da spingere ogni movimento politico, o ogni laico, cristiano, musulmano, buddista, uomini e donne appartenenti ad ogni credo, ad accogliere ed impegnarsi nelle sfide ecologiche.

Non stupisce, quindi, per le considerazioni fatte in questo paragrafo, la grande fortuna che ha avuto fin da subito il concetto di sostenibilità. Essa viene rievocata spesso nei più disparati campi delle scienze sociali e umanistiche, per la sua capacità di conciliare istanze che per lungo tempo sono state percepite come antagoniste. Una sorta di “parola magica”, che in apparenza promette la conciliazione di tensioni della società contemporanea che vanno oltre i concetti di sviluppo e di tutela

122 Cfr. Documento Finale, cit..

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dell’ambiente. Abbraccia un modus operandi, che non rinnega la modernità e l’attuale sistema economico in generale (la sostenibilità si cala nel capitalismo), ma sprona l’uomo ad una sua correzione in vista di un bene superiore, etico, responsabile. È declinabile, come vedremo in seguito, in una sua agenda operativa, composta di step e di misure concrete, ma ha in primis una fisionomia culturale e sociologica, che a monte, attiene ai comportamenti dell’uomo, tanto nella sua individualità, quanto come animale sociale.

2.5 Principi di economia a carattere sostenibile

I modelli economici in chiave sostenibile puntano, secondo la definizione letteraria del termine, a conciliare economia ed ecologia, ossia sviluppo economico e sociale insieme alla tutela dell’ambiente. Gli economisti di ispirazione marginalista123 sostengono fiduciosi che con determinati presupposti è il mercato a produrre le condizioni di sostenibilità. Un uso troppo intenso di una risorsa esauribile ne aumenterebbe il prezzo man mano che le quantità disponibili sul mercato diminuiscono124. Tale aumento sarebbe seguito da una riduzione della domanda e quindi delle quantità prodotte che riporterebbero il mercato in una posizione di equilibrio. Non è semplice, però, riprodurre le condizioni perché si attivi tale meccanismo virtuoso, a tal punto che, sono pochi i mercati nei quali possono trovare applicazione le teorie neoclassiche. È necessaria la presenza di un gran numero di operatori, la totale trasparenza nelle trattative, l’assenza di asimmetrie informative; in altri termini si potrebbe garantire la sostenibilità esclusivamente se ci si muove nell’ambito della concorrenza perfetta.

L’economista Immanuel Wallerstein mette in discussione l’ipotesi che l’equilibrio tra domanda e offerta assicuri la sostenibilità. Egli parte dalla supposizione che il capitalismo per sostenere il suo obiettivo di

123 La scuola marginalista è un movimento economico nato alla fine del XIX secolo, che attraverso ragionamenti deduttivi analizza il comportamento del soggetto economico. Essa si fonda sul comportamento razionale degli attori economici presenti sul mercato, che tenderanno a massimizzare le proprie curve di utilità tenendo conto dei vincoli di bilancio o tecnologici. Le teorie della scuola si basano sull’assunzione di ipotesi rigide, quasi mai verificabili nella realtà, così che i modelli che ne scaturiscono sono corretti in astratto, ma poco utilizzabili in concreto. Tuttavia alcuni mercati come quello di borsa si avvicinano alle condizioni fissate dai marginalisti. Tra i principali economisti ricordiamo Pareto, Marshall e Walras.

124 Cfr. D. Begg, S. Fischer, R. Dornbush, Economics, McGraw-Hill, 2008.

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accumulazione del capitale ha una sfrenata esigenza di espandersi, sia geograficamente, sia in termini di produzione totale. Inoltre, il processo di deruralizzazione porta alla crescita del potere contrattuale della forza lavoro con conseguente aumento del costo di salari e stipendi. Ne deriva una riduzione di profitto per i capitalisti che, difficilmente riusciranno a ripristinarlo, anche per l’aumentare dei costi degli altri fattori della produzione, tra cui i beni ambientali.

L’intervento pubblico rappresenta una possibile soluzione, infatti, attraverso la costruzione di infrastrutture e l’erogazione di sussidi, si tenta di sostenere i margini di profitto erosi dall’aumento del costo dei fattori. Per i beni ambientali la questione si complica. Il sostegno dello Stato implica comunque, come contropartita un aumento della pressione fiscale che, se insostenibile, colpisce i consumi, genera malcontento, erode il reddito per altra via. Far pagare i beni ambientali alle imprese non è poi cosa facile: riproporrebbe il problema dell’aumento dei costi di produzione. Wallerstein sostiene che le soluzioni adottate mirano a guadagnare tempo, trasferendo il problema sulle spalle di chi è politicamente più debole. Questo può avvenire, ad esempio, smaltendo i rifiuti in territori poco sviluppati, sud del Mondo, oppure imponendo di accettare severi limiti alla produzione industriale o stringenti vincoli ecologici, per tutelare l’ambiente. In siffatto modo si guadagna tempo, limitando la produzione dei Paesi del Sud, ma non si risolve il problema, bloccando le possibilità dei Paesi poveri di sviluppare una florida economia e di accumulare profitti. Per Wallerstein, ogni possibile soluzione che non intacca le regole di fondo dell’accumulazione di capitale, è destinata a fallire ed avrebbe come unico effetto quello di ritardare il problema125.

L’analisi proposta ha il merito non solo di evidenziare le contraddizioni del sistema capitalista, ma anche di porre l’accento sui rapporti tra Paesi poveri e ricchi del globo. Essa risente fortemente dell’impostazione marxista; occorre dire che la maggior parte delle teorie economiche e sociologiche dell’ambiente che abbiamo incontrato sono in qualche misura condizionate dalle dottrine marxiste. L’autore si pone in modo troppo radicale, concludendo che non c’è soluzione alla contraddizione capitalista e pertanto alla questione ambientale.

La fortuna delle teorie Marxiste applicate al contesto ecologico è dovuta alla sua concezione di natura, in quanto lo stesso Marx non si è mai

125 Cfr. E. Wallerstein, Ecology and capitalist costs of production: No exit, in Ecology and the world system, W.L. Goldfrank, D. Goodman e A. Szazs, a cura di, Greenwood Press, Westport, 1999.

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occupato direttamente di aspetti specificatamente ambientali, per la semplice ragione che non esisteva ancora un problema ecologico126.

Per Marx la natura è un corpo inorganico dell’uomo, nel senso che l’uomo è parte della natura, vive per essa e con essa deve rapportarsi. Alterare la natura, secondo Marx, significa per l’uomo alterare se stesso; distruggerla, cancellare il genere umano. Laura Conti scrive in un suo saggio:

Marx respinse duramente entrambe le ipotesi di Malthus, quella della diminuzione della produttività della terra e quella della spinta riproduttiva illimitata della popolazione. Non solo respinse l’ipotesi della spinta demografica illimitata, ma non riuscì a capire come mai Darwin, che lo aveva convinto dell’evoluzione biologica e che perciò egli ammirava profondamente, si dichiarasse discepolo di Malthus. L’idea di Malthus che la specie umana avesse una spinta riproduttiva illimitata sembrava a Marx una follia: egli, infatti, credette che Darwin non avesse scorto l’incongruenza di attribuire tale caratteristica a una specie sola come sembrava fare Malthus; e d’altra parte, se questa spinta la possiedono anche altre specie, allora alla spinta riproduttiva dell’uomo corrisponde, secondo Marx, la spinta riproduttiva del grano, e perciò l’uomo non rimarrà mai senza grano. Gli sfugge, stranamente, che comune con le altre specie è la spinta riproduttiva di base, ma specifica dell’uomo è la maggiore capacità di realizzarla, e quindi moltiplicarla con la riproduzione.

Ancora Conti: all’altra faccia dell’ipotesi malthusiana, quella della diminuzione della produttività della terra, Marx controbatte che la fertilità della Terra è funzione del lavoro dell’uomo: quindi è destinata non già a diminuire, bensì ad accrescersi storicamente. Ma il dato non controverso della nostra esperienza quotidiana è una globale tendenza alla diminuzione della produttività dei suoli127.

126-Gli aspetti critici legati al degrado antropico correlati al modello di sviluppo economico emergeranno a partire dal secolo avvenire. Tuttavia gli studiosi di ispirazione marxista, ma non solo, hanno fatto propria la concezione della natura di Marx, sviluppando le loro ricerche partendo da essa. Secondo il filosofo l’uomo si pone in stretta relazione con la natura, a tal punto che tutte le modificazioni apportate ad essa avranno effetti sull’uomo. Marx , però, rimane un economista classico, nel senso che no ha mai messo in discussione la crescita continua e illimitata, pertanto le sue teorie sono avulse da qualunque riferimento, anche a livello embrionale, di limite.

127 L. Conti, “contributo senza titolo”, in A. Baracca, E. Tiezzi, Entropia e Potere, Clup-Clued, Milano, 1971, pp. 25-34.

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Marx non tiene in considerazione che la Terra coltivata perde nel tempo le sue caratteristiche di fertilità, al contrario sostiene, che essa incorpora i costi delle migliorie apportate.

Ancora secondo Marx la natura è stata sempre sfruttata, ma con il sistema capitalista, tale sfruttamento è cresciuto esponenzialmente, raggiungendo livelli insostenibili. Il capitalista si appropria del lavoro e della creatività dell’uomo, così come si appropria della natura vista solo come un bene possibilmente dotato di valore commerciale128. L’alienazione dell’uomo, dovuta alla sottrazione del frutto del proprio lavoro ed alla mera riduzione in fattore di produzione, va di pari passo con l’estraniazione della natura129.

È indubbio che tale concezione, espressa da Marx, abbia esercitato una grande influenza non solo tra i neomarxisti, ma sopratutto nell’ambientalismo odierno e in tutte le discipline che toccano la questione ecologica.

Per i neomarxisti di “marca pura”, tuttavia, non può esservi sviluppo sostenibile; per tornare a Wallerstein, occorre agire sull’accumulazione del capitale, eliminando alla radice le contraddizioni del capitalismo e ottenendo come risultato anche la tutela ed il rispetto della natura.

Un approccio meno radicale è quello di Schnaiberg, anch’egli prevalentemente d’ispirazione marxista, almeno nel metodo con cui ha condotto la sua analisi, utilizzando il famoso modello dialettico marxiano. Riguardo al conflitto tra crisi ecologica e sviluppo economico, l’autore ipotizza tre scenari: sintesi economica, scarsità pianificata, sintesi ecologica. Nel primo, il conflitto viene del tutto ignorato, ossia i modi di produzione non considerano minimamente il problema ambientale. Con il secondo, la società sceglie di gestire i problemi ambientali più urgenti ed immediatamente minacciosi per l’uomo. La sintesi ecologica prevede, altresì, impiego di fonti rinnovabili, limiti severi alle risorse scarse, attenzione complessiva dei modi di produzione, alla salute dell’ambiente e dell’uomo. L’ultimo scenario auspica in sintesi un’evoluzione dell’economia verso la sostenibilità, attraverso una profonda ristrutturazione di essa130. È la strada indicata dal Rapporto Brundtland sullo Sviluppo Sostenibile, ma per l’autore non si è mai realizzata. I motivi della mancata risoluzione tra crescita economica e tutela ambientale nella terza sintesi, sono rintracciati: nell’eccessiva competizione tra imprese; nella

128-Cfr. Bobbio R., a cura di, Karl Marx. Manoscritti economico-filosofici del 1844, Piccola Biblioteca Einaudi, Torino, 2004.

129 L. Pellizoni, G. Osti, Sociologia dell’ambiente, cit., p. 91.130 Il primo scenario è osservabile nelle economie degli anni 70, mentre il secondo dagli

anni 80 in poi. La sintesi ecologica per Schnaiberg invece non si è mai realizzata.

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presenza di disoccupazione; nelle scelte di politica economica dei Governi. Il fallimento della sintesi è dovuto alla “treadmill of production (macina della produzione)”, che spinge verso la ricerca dei profitti e di soluzioni di breve periodo che mal si conciliano con la sintesi ambientale. Essa dovrebbe prevedere una programmazione, che abbraccia un arco temporale più lungo, con l’obiettivo di un’equa distribuzione del reddito non basata unicamente su leggi di mercato. Insomma, affinché la sintesi ambientale si realizzi è necessario ristrutturare l’attuale sistema economico che, così restando, oscilla come un pendolo tra sintesi economica (stato naturale) e scarsità pianificata (in dipendenza di contingenti e minacciose crisi ambientali)131.

Interessanti sono gli approcci definiti di “sostenibilità debole” e “sostenibilità forte”. Il primo, proposto da Hartwick e Solow,132 inquadra lo sviluppo in un ambito essenzialmente economico: la sostenibilità dovrà comunque garantire il mantenimento del livello corrente di consumo di beni e servizi, considerando però il vincolo della dotazione di risorse disponibili, su un periodo di tempo infinito. Lo sviluppo e, quindi, la crescita del capitale necessita dell’uso delle risorse (vale anche ovviamente la relazione inversa) e le due entità suddette possono essere completamente intercambiabili. In questo modello il capitale naturale, eroso nel processo di sviluppo, può essere sostituito da investimenti compensatori.

Daly, al contrario è il fautore di un modello di sostenibilità “forte”, che si basa sul capitale naturale finito133. Per l’economista

il capitale naturale e quello prodotto dall’uomo sono fondamentalmente complementari e, solo in misura marginale, si possono considerare interscambiabili (...) (lo sviluppo sostenibile) richiede un cambiamento potenziale nella nostra visione di quale sia il rapporto tra le attività economiche degli esseri umani e il

131-A. Schnaiberg, K. Gould, Environment and Society: The Enduring Conflict, St Martin’s Press, New York, 1994, pp. 69-70.

132-Cfr. J. M. Hartwick, Intergenerational Equity and the Investing of Rents from Exhaustible Resources, in American Econ Review, 1977, p. 66, pp. 972-974; Cfr. R. M. Solow, On the Intertemporal Allocation of Natural Resources., Scandinavian Journal of Economics, 1986, p. 88, pp. 141-149.

133 Questo modello risale al 1973, l’anno dopo il Summit di Stoccolma sullo “Sviluppo umano” e la pubblicazione del rapporto “I limiti dello sviluppo”, ed è stato descritto in un importante manifesto promosso da Nicholas Georgescu Roegen, Herman Daly e molti altri economisti, il contenuto è stato pubblicato in italiano: N. Georgescu-Roegen, Energia e miti economici, cit., pp. 207-210.

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mondo naturale - un ecosistema che è finito, non crescente (stazionario) e materialmente chiuso134.

Lo stesso è critico nei confronti del primo modello sostenendo che:

l’internalizzazione delle esternalità è una buona strategia per adattare in modo ottimale l’allocazione delle risorse, facendo sì che i prezzi relativi rappresentino, in modo più appropriato, i costi marginali relativi. Ma ciò non rende il mercato capace di fissare i propri confini fisici assoluti con l’ecosistema più allargato. Per fare un’analogia: uno stivaggio appropriato distribuisce il peso nel battello in modo ottimale, così da massimizzare il carico trasportato. Ma c’è ancora un limite assoluto a quanto peso un battello possa trasportare, anche se questo è sistemato in modo ottimale. Il sistema dei prezzi può distribuire il peso regolarmente ma, a meno che non sia integrato da un limite assoluto esterno, continuerà a distribuire uniformemente peso addizionale finché il battello, caricato in modo opportuno, affonda135.

Il modello quindi si basa su un utilizzo delle risorse controllato, che avrà un limite nel tasso di rigenerazione delle stesse. In altri termini le risorse che verranno impiegate dovranno essere inferiori al tasso di rigenerazione; le emissioni non dovranno superare la capacità di assorbimento dell’ambiente, l’utilizzo di fonti non rinnovabili dovrà essere accompagnato dalla ricerca di materiali alternativi. Entrambi gli approcci, tuttavia, presentano delle lacune.

Il primo non considera che il consumo delle risorse naturali presenta caratteri di irreversibilità. Non tiene conto quindi, dell’impossibilità di prevedere i processi ecologici, vanificando, di fatto, l’ipotesi di compensare perfettamente le risorse perdute. Altro aspetto lacunoso riguarda l’economia che, avendo come strumento principale il mercato nel quale si formano i prezzi, presenta una logica di breve periodo; conseguentemente i prezzi saranno indici di scarsità. L’ambiente, al contrario, è per definizione un bene di lungo periodo: gli investimenti di oggi daranno i loro frutti domani e paradossalmente potranno goderne persone che non hanno

134-H. E. Daly, Beyond Growth, Beacom Press, 1996 (trad. it.: Oltre la crescita. L’economia dello sviluppo sostenibile, Edizioni Comunità, Torino, 2001, pp. 120 e 129). Cfr. anche N. Nicholas Georgescu-Roegen, Energia e miti economici, cit., p. 210.

135-Beyond Growth viene tradotto integralmente solo nel 2001. L’esempio di Daly in nota, molto utilizzato e ripreso in tutto il mondo, è riportato per la prima volta tradotto in italiano in, E. Tiezzi, N. Marchettini, Che cos’è lo sviluppo sostenibile?, Donzelli Editore, Roma, 1999, pp. 27-28.

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partecipato alla costruzione del bene e che non figurano nei contratti originari. Il secondo ha l’inconveniente di porre il mondo naturale in una sorta di campana di vetro, con il rischio di accentuare la dissociazione tra uomo e ambiente, scadendo nelle sue forme estreme, in un fisiocentrismo autoreferenziale. Tuttavia quest’ultimo presenta molteplici spunti d’interesse, poiché riesce a coniugare in termini realistici sviluppo e sostenibilità senza cadere in contraddizione.

Il vero limite del modello a nostro avviso è la separazione tra l’uomo e la natura, con il rischio di alterazione e perdita dell’originario legame tra uomo e territorio. Vivendo sempre più in un ambiente artificiale, c’è il pericolo effettivo di perdita di quei valori legati al tema che per anni hanno rappresentato e dato forma all’identità di un popolo.

Tutti i modelli presentano dei punti di forza e di debolezza. Possono essere validi per alcuni aspetti e criticabili per altri. È ormai quasi ovvio che la piena realizzazione dello sviluppo sostenibile sia legata alla ricerca di un diverso modo di produzione che risolva l’originario conflitto tra sviluppo e tutela ambientale. Le soluzioni andranno adottate su scala globale coinvolgendo tutti gli attori interessati. L’Unione europea sta lavorando molto in questa direzione, attraverso politiche di incentivi volti a favorire un’economia sostenibile. I problemi sono ancora tanti, così come l’idea di sviluppo necessita di un approfondimento ulteriore; si dovrà valutare frattanto se l’attuale indicatore PIL sia realmente in grado di misurarlo realmente in tutte le sue accezioni. Di questi temi ci occuperemo nel prosieguo del lavoro.

La necessità di promuovere un reale sviluppo che sia sostenibile, non è “una partita semplice”, ma è una strada necessaria per dare soluzioni alla questione ambientale, garantendo le stesse possibilità dell’oggi alle generazioni che verranno136.

2.6 La critica dello sviluppo e le teorie della decrescita

136 United Nations, Conference on Environment and Development, Rio de Janeiro, 1992. “The developing countries would clearly wish to avoid, as far as is feasible, the mistakes and distortions that have characterized the patterns of development of the industrialized societies. (...) However, the major environmental problems of developing countries are essentially of a different kind. They are predominantly problems that reflect the poverty and very lack of development of their societies. (...) It is evident that, in large measure, the kind of environmental problems that are of importance in developing countries are those that can be overcome by the process of development itself. In advanced countries, it is appropriate to view development as a cause of environmental problems.”

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Il concetto di sviluppo sostenibile ha una sua fisionomia culturale prima che una sua modalità operativa. Spesso è stato influenzato dal contesto storico e dalle società che hanno cercato di analizzarlo, presentando di volta in volta significati e connotati diversi.

Concretamente non può esserci crescita senza che il processo non sia sostenuto dall’utilizzo di risorse: materiali, umane, tecnologiche, energetiche e via dicendo. In particolare, sono quelle energetiche ad assumere una posizione strategica, non solo perché hanno un costo crescente o decrescente in base alla scarsità ed all’andamento del mercato (la scarsità influenza il mercato, poiché riduce l’offerta facendo lievitare i prezzi), ma soprattutto perché non si può fare a meno di esse in qualsivoglia sistema produttivo. L’altra faccia della crescita o se vogliamo l’effetto collaterale di un sistema che si pone come obiettivo lo sviluppo economico costante, è rappresentato dai residui di produzione (rifiuti) e uno sfruttamento incontrollato della risorsa natura per ricavarne energia, con analogo risultato di produrre oltre a beni e servizi, in molti casi, anche scarti tossici. Se poi la tensione alla crescita, propria della società occidentale, si traduce nella ricerca di livelli sempre maggiori oltre i limiti ragionevoli fissati dalla soddisfazione dei bisogni umani, si rileveranno effetti collaterali di tale spessore da non poter essere più sostenuti dalla biosfera137.

Si pone, dunque, la questione cruciale del rapporto ambiente-sviluppo che è un modo più ampio di inquadrare un altro rapporto fondamentale: quello uomo-natura. Il problema, come sarà facile constatare, si è presentato all’attenzione dell’opinione pubblica solo di recente, a seguito dell’emergere delle prime e gravi negatività dovute ad una crescita incondizionata dell’economia.

Nel precedente capitolo abbiamo ampiamente trattato sul come si sia formata una coscienza ed una sensibilità ambientalista in alcuni strati della società, tanto da imporsi come questione politica d’interesse globale. A Rio de Janeiro nel 1992, 172 delegazioni dei Paesi del mondo si sono trovati a porre sul tavolo tutte le questioni delicate che investono sviluppo economico e crisi ambientale138.

137-G. Nicola, Quale sviluppo sostenibile per il futuro dell’Umanità?, Rotary International Forum, Distretto 2100, Nola 6 Febbraio 2010.

138 La Conferenza mondiale di Rio de Janeiro nel 1992, che ha visto la partecipazione di 172 Stati, è uno degli esempi di come i Paesi hanno cercato e cercano tuttora di trovare degli accordi tali da favorire congiuntamente tutela ambientale e sviluppo economico o quantomeno cercare di limitare e contenere i danni dello sviluppo stesso. Cfr. Cap. I del presente lavoro.

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Emergono proposte di soluzione per così dire “filocresciste”, vale a dire senza mettere in discussione la crescita economica, poiché attraverso quest’ultima si possono trovare le risorse utili a sviluppare la ricerca di nuove tecnologie pulite e rispettose dell’ecosistema. La posizione espressa trova, anni dopo Rio, in Gerge W. Bush139 il più autorevole sostenitore, ma sono un po’ tutti i Paesi ad allinearsi su queste tesi. La teoria della crescita economica come paradigma su cui fondare i modelli economici del futuro viene così rafforzata ed, anzi, considerata soluzione al problema e non il problema.

Affiora, dunque, in maniera netta la convinzione che una crescita costante ma attenta alla questione ambientale è la difficile e la sola strada da intraprendere. Tutte le attività produttive, le politiche di sviluppo e gli investimenti in tecnologie, dovranno essere in grado di attenuare e ridurre gli effetti negativi sull’ambiente. In altri termini dalla conferenza di Rio il risultato più significativo è stato l’affermazione che la crescita economica dovrà misurarsi continuamente con la sostenibilità140. Un risultato, in apparenza, ovvio e scontato, anche se come vedremo più avanti, molti studiosi hanno avanzato forti dubbi sulla possibilità di accostare i due termini, proponendo soluzioni alternative. In effetti, a Rio de Janeiro non si è fatto altro che sottolineare il paradigma crescita-sostenibilità, ribadendo con convinzione che per attuare politiche a favore dell’ambiente bisogna rilanciare l’economica.

Un’ipotesi che può essere valida nella misura in cui crescita e sviluppo siano considerati sinonimi. La crescita economica è un dato quantitativo e misura l’aumento della produzione nazionale. Essa può concretizzarsi pur in presenza di un aumento della disparità di reddito tra vari strati della popolazione. Insomma, può esserci crescita ed al contempo aumentare l’ingiustizia sociale. Lo sviluppo, altresì inteso nella sua accezione culturale, economica e sociale, dovrà favorire una più efficiente

139 Il 14 febbraio del 2002 a Silver Spring, davanti all’Amministrazione Americana della meteorologia, il Presidente americano G.W. Bush ha dichiarato in un discorso che la chiave del progresso è la crescita. Cfr. T. P. Di Napoli, C. C. Pulling, Il territorio nella politica degli Stati Uniti. Il Protocollo di Kyoto e le prospettive ambientali, in G. Motta, a cura di, Paesaggio, Territorio, Ambiente. Storie di uomini e di terre , Franco Angeli, Milano, 2004, pp. 440-459.

140 L’Unione Europea adotta il modello dello sviluppo sostenibile facendolo diventare l’obiettivo fondamentale delle Istituzioni. Esso è presente in quasi tutti i trattati sottoscritti dai Paesi membri. L’impegno dell’Europa viene ribadita a Göteborg nel 2001, dove è stata elaborata una strategia che unitamente a quella emersa a Lisbona, impegna i Paesi dell’Unione ad operare un rinnovamento economico e sociale, che metta al centro la sostenibilità. Le politiche dell’Unione dovranno essere orientate a garantire e rispettare lo sviluppo sostenibile.

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distribuzione del reddito ed una maggiore giustizia sociale. Idealmente la consapevolezza della diversità tra i due concetti risale alla nota pubblicazione a cura del Club di Roma de I limiti dello sviluppo. Da allora non è stato più possibile utilizzarli come sinonimi, tant’è che Limits to growth è stato tradotto in italiano come Limiti dello sviluppo141.

È pertanto lo sviluppo ad essere sostenibile, non la crescita142.Tuttavia alcuni studiosi nutrono preoccupazioni e dubbi sulla capacità

dello sviluppo sostenibile di risollevare le sorti del pianeta. Inoltre, la significatività dei risultati, dopo la presa di coscienza politica e sociale dei danni arrecati all’ecosistema da un modello di sviluppo insostenibile, è difficilmente quantificabile e misurabile, a tal punto che lo stesso concetto di sviluppo sostenibile rischia di essere messo in crisi e bandito come inefficace a garantire la tutela del pianeta; la fede incrollabile degli economisti ortodossi per pensare che la scienza del futuro possa essere in grado di risolvere tutti i problemi, e per ritenere illimitata la possibilità di sostituire la natura con l’artificio143.

Assistiamo in questi ultimi tempi ad un serrato dibattito in materia, in cui si propone un modello economico “alternativo”, un vero e proprio attacco al sistema “crescista”, basato sullo sviluppo continuo e illimitato: se è il problema la crescita, per questi autori la soluzione sarà la decrescita. Il principale ed autorevole sostenitore è Serge Latouche che contrappone al modello economico attuale un modello di “decrescita serena”.

Il punto di partenza è la critica al modello neoliberista, incapace di garantire un’equilibrata distribuzione del reddito e di realizzare uno sviluppo che possa essere anche lontanamente definito sostenibile. Infatti, si è assistito ad una tale produzione e domanda di beni che gli strati più ricchi della popolazione sono ormai arrivati alla soglia di saturazione, con effetti collaterali devastanti per l’ambiente: inquinamento, rifiuti, modifica degli ecosistemi ecc. A questi si aggiungono effetti latenti che toccano aspetti non immediatamente percepibili e legati alla sfera sociale e psicologica dell’individuo. Il benessere non ha assicurato la felicità, ma anzi, ha innescato un processo di moltiplicazione dei desideri, i quali, una

141 Il termine growth in inglese si traduce con crescita e in effetti l’intenzione degli autori del rapporto al Club di Roma era quello di evidenziare i limiti della crescita. Solo a seguito della presa d’atto delle differenze tra i due termini si è preferito renderlo in italiano con sviluppo. Oggi, comunque, si fa ancora molta confusione con i due termini e, come ho cercato di spiegare in questo lavoro, uno degli errori di fondo nel divulgare l’idea di sviluppo sostenibile è proprio quella di non evidenziare abbastanza le profonde differenze tra i due termini. Cfr. A. Angelini, A. Re, Parole, simboli e miti della natura, cit., p. 299.

142-Riprenderemo in seguito la diserzione tra sviluppo e crescita anche alla luce degli studi sull’adeguatezza dell’indicatore PIL che, come è noto, misura la crescita.

143 N. Georgescu-Roegen, Energia e miti economici, pp. 93-107.

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volta soddisfatti attraverso il possesso di un bene, si riaccendono ed investono altri beni da possedere generando un circolo continuo. I beni non sono cercati come fonte di utilità per soddisfare bisogni, ma come fonte di desiderio per soddisfare uno status, un’immagine di se, o più semplicemente un’esigenza di autorealizzazione attraverso il consumismo144. È evidente, dunque, che la soddisfazione apparente è vacua ed il benessere non garantisce la felicità. Il desiderio stimola la domanda, ma allo stesso tempo esso svanisce una volta acquisito il bene, per riemergere su altri beni che ancora non si possiedono.

Per alcuni autori come Bonaiuti e Marc Grinevald, dall’osservazione oggettiva delle leggi della natura, si comprenderebbero i limiti al teorema neoliberista di una crescita continua145 e quindi del modello economico fondato sulla crescita.

Latouche e i decrescisti partono dallo studio e dalla costatazione del fallimento delle politiche di sviluppo del Sud del mondo per estendere la critica di tutto il sistema neoliberista, sia in astratto, contro i suoi presupposti teorici, sia in concreto, verificando effetti ed obiettivi della sua manifestazione storica e sociale.

Queste teorie si contrappongono al modello “crescista”, confermato durante la Conferenza di Rio e considerato come soluzione e non problema. I decrescisti non ammettono nessun tentativo di conciliazione e convivenza tra i due concetti di sviluppo e sostenibilità. Non può esservi sostenibilità ambientale e sociale se si continuerà a produrre con l’attuale modello economico, basato sulla crescita. Le loro tesi, ardite e rivoluzionarie, propongono la decrescita come base su cui fondare una nuova società, che realizzi la felicita della popolazione e non il semplice benessere.

2.7 Latouche e la decrescita

«Disfare lo sviluppo, rifare il mondo»146, è il titolo di un’opera di Serge Latouche. Studioso raffinato, attento esperto di economia, filosofia e sociologia, Latouche ha condotto la sua indagine sul rapporto tra sviluppo e benessere, dimostrando come i due concetti non sono simbiotici, e che,

144-Cfr. J.J. Lambin, Marketing strategico e operativo, E. Tesser, a cura di, Mc Graw Hill, Milano, 2004.

145-Gli studi si rifanno al lavoro The Entropy Law and Economic Proces, Harward University Press, Cambridge Mass. 1971, di Nicholas Georgescu-Roegen, il primo economista che applicò la teoria entropica agli studi economici.

146 Cfr. S. Latouche, Dèfaire le dèveloppement, refaire le monde, Èditions L’aventure, Paris, 2003 (trad. it.: Disfare lo sviluppo per rifare il mondo, Jaca Book, Milano, 2005).

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nella maggior parte dei casi, l’aumento dell’uno non implica necessariamente un maggior livello dell’altro. Il benessere, secondo l’autore, ha un significato più esteso rispetto al solo dato economico dell’aumento del reddito nella popolazione: esso deve identificarsi con migliori condizioni di vita e con la conquista di quella serenità materiale e spirituale che conduce sulla strada della felicità. L’uomo è meno felice, meno sereno; ha una qualità della vita pessima, anche in presenza di elevati livelli di crescita economica. Inesorabilmente esiste una profonda frattura tra sviluppo e benessere tale da indurre un cambio di rotta: “rifare il mondo”, scrive Latouche, disfacendo lo sviluppo.

Il suo pensiero è una critica perentoria al modello sociale tipico dell’Occidente che, in nome dello sviluppo, ha colonizzato e soggiogato il pianeta in modo distorto senza curarsi degli effetti distruttivi a livello ambientale e sociale.

Lo «Sviluppo sostenibile – osserva Latouche – è l’ossimoro più assurdo che l’uomo abbia mai inventato: per definizione, nessuno sviluppo è sostenibile»147. Anche se “durevole”, “sostenibile”, o “endogeno”, ha un carattere spesso aggressivo, cedendo alla logica devastatrice dell’accumulazione continua di beni, promuovendo disuguaglianze sociali attraverso un’ineguale distribuzione del reddito, comprimendo fino alla distruzione le diverse culture del pianeta e arrecando gravi danni all’ambiente 148.

Singolarmente, il concetto di “sviluppo sostenibile” è criticabile nelle aspettative di mantenere costante la crescita economica senza distruggere l’ambiente. Le conclusioni a cui perviene Latouche ripropongono la tesi della crescita come problema e non soluzione: lo sviluppo non può salvaguardare l’ambiente. Le vie d’uscita, di conseguenza, dovranno partire da una “decolonizzazione dell’immaginario della crescita”, per concepire soluzioni alternative ed efficaci che si pongano in antitesi all’economia del mercato ed ai valori contemporanei del progresso, dell’accumulazione dei beni e del dominio sulla natura. In verità questi valori sono figli della cultura occidentale, ma non di tutte le culture del mondo. Le società animiste, per esempio, sono rispettose della natura e contrarie all’idea di

147 S. Latouche in un’intervista a Trento l’8 novembre del 2005, in occasione del convegno presso la Fondazione della Cassa di Risparmio di Trento e Rovereto; titolo del convegno: al di là dello sviluppo, la sfida della decrescita sostenibile.

148 Rist ci racconta i diversi utilizzi del termine sviluppo passando dal discorso del Presidente USA Truman (20 gennaio 1949) sull’utilizzo del progresso scientifico per rilanciare la crescita nelle regioni “sottosviluppate”, ai processi di crescita in natura. Cfr. G. Rist, Lo sviluppo. Storia di una credenza occidentale, Bollati Boringhieri, Torino, 1997, p. 35 e pp. 75-76.

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controllo dell’uomo sulla natura stessa. Se così è, la soluzione per quanto radicale, in realtà lo è solo per i Paesi con economia di mercato, mentre sarà in linea con quelle culture, pur minoritarie, che rifiutano il modello economico di riferimento. “La fine dello sviluppo” diventa l’occasione per un “lavoro di rigenerazione” che sostituisca la crescita con la decrescita, per costruire una società realmente sostenibile: «Non una società della recessione, come può pensare chi ragiona in maniera tradizionale, ma una società conviviale, pacifica, solidale».

Il filosofo economista, pertanto, non accetta e rifiuta la validità dello “sviluppo sostenibile”. Ricorda, come esso si sia imposto sul concetto di “eco sviluppo” per superare l’indeterminatezza di quest’ultima espressione149.

Lo sviluppo sostenibile in apparenza ha l’obiettivo di ridurre progressivamente l’impatto negativo dello sfruttamento indiscriminato delle risorse naturali, abbassando anche l’inquinamento generato dai livelli di produzione attuali. L’aggettivo “sostenibile” applicato al termine sviluppo viene però considerato da Latouche, come un misero tentativo di salvare quello che resta di un modello economico di riferimento in piena crisi strutturale150. Esso è allora quasi un “inganno”; un abito cucito ad hoc per perseguire la crescita in tutte le sue direzioni con nuove vesti, politicamente più spendibili poiché a questa si aggiunge una componente

149 Durante la Conferenza di Stoccolma nel 1972, sotto la spinta di Henry Kissinger, nominato nel 1969 Consigliere per la Sicurezza Nazionale dal Presidente Richard Nixon e solo nel 1973 Segretario di Stato, l’ambiente entrò a far parte delle grandi questioni internazionali. Come spesso erroneamente viene riportato, il termine “sviluppo sostenibile” non venne adottato in quella occasione. Il ruolo dell’allora Consigliere di Nixon fu cruciale per il fatto che, in modo del tutto inaspettato, si giunse ad una convergenza tra le posizioni dei paesi in via di sviluppo e le posizioni dei paesi sviluppati, attraverso una Dichiarazione comune e un Piano di azione con 109 raccomandazioni. Naturalmente, in modo del tutto non prevedibile, il compromesso tra le due posizioni metteva vicino, e sullo stesso piano, due concetti e due idee lontanissime tra loro: l’ambiente e la crescita economico. Henry Kissinger in quello stesso periodo stava lavorando alla distensione dei rapporti tra la Cina e gli USA che portò all’incontro in Cina nel 1972 tra Richard Nixon e Mao Tse-tung. Questo incontro suscitò un grande risalto nell’opinione pubblica e diede a Kissinger la possibilità di ritagliarsi un ruolo di forte influenza nella politica internazionale. Ricordiamo infine che la Cina del 1972 non era ancora la potenza economica mondiale che oggi conosciamo, ma rappresentava quei paesi in via di sviluppo capaci di giocare un ruolo cruciale per gli USA. Nel periodo 1954-72 gli aiuti sovietici ai paesi esteri in via di sviluppo raggiunsero gli 8.196 Milioni di dollari, con una punta massima di 998 Milioni di dollari spesi solo nel 1964 e 1.244 Milioni di dollari nel 1966. Tra i Paesi beneficiari spicca il Medio Oriente con 3,3 Miliardi, 3 Miliardi l’Asia Meridionale, 1,2 Miliardi l’Africa, vedi par.4.2 di questo lavoro, Le politiche economiche di pianificazione nell’Unione Sovietica.

150 Cfr., S. Latouche, Sopravvivere allo sviluppo, Bollati Boringhieri, Torino, 2006, p. 16.

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ecologica. Una trovata pubblicitaria, prosegue l’autore, messa in atto dalle lobbie industriali e finanziarie per scongiurare una possibile inversione di tendenza in favore della decrescita; dietro l’involucro del cambiamento, cela il desiderio di continuare a perseguire una crescita selvaggia e dannosa per l’ambiente. La critica dello studioso è letteralmente senza possibilità di appello. Oltre a recriminare sulla validità della sostenibilità, indaga le ragioni profonde che si celano dietro la definizione, spingendosi fino al punto di considerarla un’espressione utilizzata dai tecnocrati alla stregua di un gioco illusionista, per convincere l’opinione pubblica sulla possibilità di ciò che in realtà è impossibile. Ed è chimerico uno sviluppo “affidabile”, “vivibile”, “duraturo”; appunto uno “sviluppo sostenibile”151.

Quale soluzione per i problemi che affliggono il pianeta, se la sostenibilità è una trovata persuasiva, senza alcuna speranza di validità? Latouche risponde all’interrogativo proponendo un cambio radicale di paradigma: la decrescita in luogo dell’attuale modello economico. In questo senso la decrescita deve essere spogliata dai significati comuni e reinterpretata in modo nuovo, come una sorta di slogan politico da contrapporre alla fede illimitata del progresso fondato sullo sviluppo. Essa non è l’opposto della crescita, non vuol dire recessione, zero sviluppo o stagnazione dell’economia. Semmai è più corretto parlare di a-crescita, ossia di un modo di intendere l’economia che abbandoni l’idea di uno sviluppo da perseguire ad ogni costo.

Si comprende come le teorie di Latouche più che una ricetta economica, sono una sorta di rivoluzione culturale: un credo che pone al centro le questioni ecologiche, sacrificando le vecchie teorie della crescita per la crescita. L’uomo deve ritrovare il senso del limite, impegnandosi a considerare la natura e le sue risorse, rispettando i valori massimi che essa stessa ci impone152.

Il cambiamento deve essere totale: coinvolgere l’uomo e spingerlo a modificare il proprio atteggiamento nei confronti della natura e più in generale della vita. Ciò è possibile attraverso l’adozione di nuovi valori,

151 In effetti, è utile ricordare per comprendere compiutamente la critica di Latouche, che il capitalismo si fonda sulla cultura del consumismo. Una delle più raffinate strategie secondo l’autore, è l’assoggettamento dell’immaginario, attraverso il quale si offrono prodotti che hanno qualità psicologiche e simboliche, ma uno scarso valore di uso. Si compra il cellulare di una cerca marca, ad esempio, non per effettivo bisogno, ma perché esso consente di soddisfare un bisogno di appartenenza ad un certo status sociale, un bisogno cioè di autorealizzazione. Il potere di questi simboli genera una guerra di parole, per consentire di soddisfare bisogni virtuali ed è chiaro secondo Latouche, che lo stesso “sviluppo sostenibile” sia il frutto di un tentativo di persuasione. Cfr. S. Latouche, Sopravvivere allo sviluppo, cit..

152 Cfr. S. Latouche, La scommessa della decrescita, Feltrinelli, Milano, 2007.

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nuove priorità, in cui il consumo fine a se stesso e le logiche dell’apparire sull’essere, siano messe da parte. La nuova parola d’ordine sostiene Latouche è “decolonizzare” l’immaginario collettivo, liberandolo dai valori capitalisti, per creare una vera e propria “società della decrescita”, nella quale potranno fecondare quelle idee e quei valori che facilitino l’adozione di ricette positive per la tutela dell’ecosistema, prendendo le mosse dall’idea di sviluppo capitalistico153. Il cambiamento auspicato può essere realizzato però solo attraverso un programma radicale che ripensi la fase del “dopo sviluppo”. La decolonizzazione dell’immaginario passa da una politica sistematica di decrescita annullando gli effetti negativi, attraverso una riorganizzazione del modello economico attuale154.

La prima tappa di questo processo consiste, quindi, in una vera e propria soppressione dei corollari negativi della crescita. Una volta decolonizzato l’immaginario occorrerà ridiscutere la teoria tradizionale, analizzandone i presupposti e gli effetti fallimentari. Per fare degli esempi, Latouche critica fortemente la pubblicità, spesso nefasta, perché rappresenta una spesa di inquinamento visivo, uditivo, materiale e mentale. Mette in discussione il sistema del commercio caratterizzato dagli enormi spostamenti di uomini e di merci sul pianeta, causa di impatti negativi sull’ambiente. Sottolinea il rapido deperimento degli utensili diventati prodotti usa-e-getta con un conseguente aumento dei rifiuti: in proposito, Latouche definisce la nostra come la “società dei rifiuti per eccellenza”155.

La società della decrescita viene definita, serena, conviviale e sostenibile, in quanto naturalmente si industrierà nella drastica diminuzione dei corollari negativi dello sviluppo e nell’organizzazione di “circoli virtuosi di decrescita”156.

Latouche si rende ben conto, però, che il semplice rallentamento dello sviluppo economico apporterebbe nelle società attuali situazioni critiche, così auspica la decrescita soltanto all’interno di una società che già abbia ripudiato la fede e la religione fondata esclusivamente sull’economia

153-La definizione di “sviluppo sostenibile”, pertanto, non è stata sempre accolta positivamente in dottrina e molti autori, tra cui Latouche, si sono posti agli estremi per le ragioni esposte nel testo.

154 Un Esempio di politiche di decrescita per Latouche è la ricerca di soluzioni per ridurre spostamento di merci e di uomini senza creare disagi; soppressione della pubblicità che rappresenta un inquinamento mentale e visivo; risolvere il rapido invecchiamento degli oggetti usa e getta, che comporta la crescita esponenziale dei rifiuti.

155-Giorgio Nebbia fa notare che noi in realtà non “consumiamo” nulla, bensì trasformiamo beni materiali che riteniamo inutili e quindi, da eliminare, in rifiuti per l’appunto.

156 Cfr. S. Latouche, La scommessa della decrescita, cit., p. 26.

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sfrenata e abbia ricondotto il livello economico al suo ruolo: un mezzo fra i tanti, utilizzato dall’umanità per realizzare il benessere di tutte le società attuali e future.

La scommessa della decrescita si può vincere grazie ad un programma sistematico di buone pratiche e indicazioni la cui efficienza dipenderà dalla larga condivisione dello stesso.

Il Programma contiene una serie di proposte dalla semplicità quasi evangelica, ognuna delle quali ha un titolo che inizia con la lettera R (Le 8 R di Latouche). I cambiamenti sperati avranno bisogno di tempi lunghi per manifestarsi e richiederanno sacrifici e duro lavoro. Elenchiamo di seguito le otto R nella sintesi di nostra elaborazione.

1) Rivalutare. Analizzare i nostri valori per individuare quelli dannosi che dovranno essere sostituiti. L’uomo ha necessità di riappropriarsi del proprio tempo, preferendo la disponibilità del tempo libero al lavoro, l’altruismo e l’interesse per la comunità all’egoismo sfrenato ed all’arrivismo tipico del modello valoriale capitalista. La concorrenza non dovrà essere più un plus-valore per il consumatore, perché questa potrà essere sostituita con la cooperazione, con il trasferimento solidale e reciproco delle conoscenze, con il lavoro di tutti per un miglioramento continuo. Sono alcuni dei valori che per l’autore dovranno essere ripresi in considerazione, attraverso un cambiamento dell’immaginario, una “decolonizzazione” che ne favorisca la diffusione. Inoltre sarà opportuno sostituire il consumismo con la vita sociale, il ragionevole sulle scelte razionali, il locale sul globale.

2) Ricontestualizzare. Questo sembra l’aspetto più interessante, poiché opera sul piano psico–cognitivo. Latouche propone un tentativo di modificare la percezione di una determinata situazione attraverso un capovolgimento concettuale con lo scopo di cambiare il senso che oggi gli attribuiamo. Ad esempio, i concetti di ricchezza e di povertà e singolarmente scarsità e abbondanza dovranno essere ricontestualizzati per cogliere quelle sfumature che l’economia capitalista non vede. Infatti, l’abbondanza naturale viene trasformata dal sentire capitalista in scarsità, così come vengono creati bisogni inesistenti per soddisfare la continua produzione di beni.

3) Ristrutturare. Il cambiamento dei valori e la ricontestualizzazione imporranno una modifica delle strutture economico-produttive, dei modelli di consumo e degli stili di vita, per costruire una società di decrescita . La ristrutturazione dovrà essere radicale, poiché da essa dipende la totale sradicazione dei valori dominanti del capitalismo.

4) Rilocalizzare. Occorre consumare in prevalenza prodotti locali, in modo che le politiche economiche saranno prese ed adottate su scala locale.

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La riduzione dei movimenti di merci e persone avrà un effetto benefico sull’ambiente (meno inquinamento, meno infrastrutture) e sui costi di produzione, in quanto sarebbero tagliati quelli dei trasporti. Rilocalizzare significa inoltre favorire attività di autoproduzione. Assisteremo alla nascita di orti urbani, servizi di base offerti attraverso il mutuo soccorso. Per Latouche tale complesso di attività dovrebbe favorire lo sviluppo di scambi che non hanno natura mercantile, ma altresì sarebbero basati su rapporti di fiducia e reciprocità. Ed ancora, la rilocalizzazione deve avvenire anche sul piano politico. Infatti, solo piccole comunità di persone possono far fronte in modo efficiente ai propri bisogni, che saranno locali e di prossimità. Si propone una sorta di “democrazia di prossimità”, ossia una rete globale di piccole comunità di cittadini che vivono in medie e piccole città e che s’impegneranno per valorizzare le proprie risorse locali ed attivare relazioni solidali e trasversali. In questo modo si favorirebbe la nascita di una democrazia ecologica.

5) Ridistribuire. La parola d’ordine sarà predare meno. In altri termini si propone una migliore ed equa ridistribuzione del reddito e il libero accesso alle risorse naturali, con migliori condizioni di lavori per tutti.

6) Ridurre. La riduzione deve investire il livello dei consumi, l’uso delle risorse energetiche e anche l’orario di lavoro. Il consumo eccessivo di risorse energetiche va ridotto, poiché si consuma molto di più rispetto al necessario per mantenere un livello decoroso, in particolare nei paesi occidentali. Invece, come contro altare, alcuni Paesi del mondo non riescono ad accedere al consumo minimo per godere delle medesime condizioni di vita.

7) Riutilizzare. Occorre superare il controvalore della “tensione al nuovo”, superando l’ossessione contemporanea dell’obsolescenza. Ridurre i prodotti usa e getta, riparare ed allungare la vita media dei prodotti è una soluzione che sicuramente contribuirebbe a ridurre gli scarti e i rifiuti.

8) Riciclare. La misura numero otto può essere un corollario della sette, infatti, un imperativo categorico sarà l’attività di riciclaggio dei beni che non diverranno rifiuti, ma saranno utilizzati attraverso il recupero dei componenti. In questo modo gli oggetti diverrebbero delle inesauribili fonti di materie prime per nuovi cicli produttivi.

Da questa breve sintesi delle otto R, si comprende come i primi due, Rivalutare e Riconcettualizzare, sono i più importanti, poiché attengono ad un cambiamento culturale, senza il quale il programma risulterebbe vano. Alcuni valori sono eticamente superiori rispetto a quelli della società capitalista, basti pensare all’altruismo, alla vita sociale, alla cooperazione solidale, alla ricerca del tempo libero, da contrapporre all’ossessione del tempo impiegato per lavorare e grazie alla Riconcettualizzazione possono

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tornare ad occupare un posto preminente nella società. Riconcettualizzare, infatti, nella logica di Latouche è quella operazione che consente un cambio di punto di vista, un’osservazione libera dai condizionamenti della società capitalista, che attribuisce significati a quelle situazioni ed a quei concetti che, nella società attuale, sono marginali e tenuti in scarsa considerazione. Il termine Riconcettualizzare ha dunque questa portata e mira a svuotare quei significati endogeni al modello capitalista per ridare certezza e centralità a ciò che veramente arricchisce l’uomo. Di conseguenza, le nuove strutture economico-sociali saranno ristrutturate in funzione dei nuovi valori.

Il cardine delle scelte politiche per avviare la decrescita, sarà la Rilocalizzazione, ossia la riscoperta del territorio come risorsa e ricchezza. Agire a livello locale implica comprendere i problemi in modo immediato, ridurre costi di trasporto, attivare circoli virtuosi di autoproduzione ed autodeterminazione. In proposito, in un testo curato da Aurelio Angelini ritroviamo: «anche la politica la cultura, la socialità, il senso della vita devono trovare un ancoraggio territoriale». Sono quasi le stesse parole utilizzate da Latouche157.

Si creeranno, pertanto, relazioni di vicinato con mercati locali, cura dell’ambiente, parchi ludici, artigianato, orti urbani, migliorando notevolmente la qualità della vita.

Il concetto della Rilocalizzazione diventa quindi il più avverso alla modernità di tutti i paradigmi della decrescita, appunto perché suggerisce di consumare principalmente prodotti locali e di limitare trasporti, spostamenti di persone, politiche statali ecc., ma Latouche avverte che «se le idee devono ignorare le frontiere, al contrario i movimenti di merci e di capitali devono essere limitati all’indispensabile».

La Rilocalizzazione favorisce una migliore ridistribuzione della ricchezza. La Ridistribuzione, però, all’interno del programma di Latouche ha un senso più ampio. Essa non si riduce solo all’equità, ma si spinge fino a comprendere uno stile di vita che abbia una forte connotazione ecologica e, quindi, sia rispettoso dell’ambiente e dell’ecosistema.

Per quanto riguarda la questione lavoro, egli critica la corsa alle nuove tecnologie che, se da un lato aumentano e migliorano la produttività, dall’altro provocano la riduzione dei posti di lavoro e la qualità dello stesso. Infatti, all’aumento della qualità delle produzioni, non sono diminuiti gli orari di lavoro e ciò non ha permesso di occupare un maggior numero di risorse umane. Per l’autore, l’obiettivo è quello di trasformare

157 S. Marino, L’Arpa siciliana e la gestione dei rifiuti, in A. Angelini, a cura di, Nulla si butta, tutto si ricicla. Rifiuti: le criticità, la governance e la partecipazione, Franco Angeli, Milano, 2007, p. 95.

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gli aumenti di produttività in riduzione del tempo lavorativo e in creazione di nuova occupazione. Non è accettabile, ribadisce Latouche, creare una competizione concorrenziale tra i lavoratori, costringendoli ad accettare salari più bassi ed orari più lunghi per soddisfare il paradigma della massimizzazione del profitto e della riduzione dei costi. Nel programma si propone in ogni modo un “reddito di cittadinanza”, ossia un livello salariale minimo di inserimento e un “reddito massimo consentito” per evitare che la ricchezza si concentri sempre in poche mani. Inoltre la ridistribuzione si dovrà ottenere con lo smembramento dei grandi colossi aziendali e delle banche, premessa questa, per iniziare ad implementare un’economia locale in luogo di quella globale.

Altro punto è la Riduzione. Esso non implica fare meno rispetto a prima. Ridurre vuol dire avere uno stile di vita nuovo, qualitativamente migliore. Infatti, riducendo l’orario di lavoro, il consumo di risorse energetiche, gli spostamenti continui di merci e persone ecc., dovrebbe migliorare la salute umana e crearsi nuova ricchezza attraverso la riconquista del tempo libero utile per allacciare relazioni, dedicarsi alla vita politica, artistica, culturale e sociale.

La questione sta non tanto nel diminuire le ore lavorative, ma nel recuperare valori della società della decrescita, che in luogo di sempre maggiori livelli di produttività prediligono l’aumento e l’espansione dei rapporti sociali. In questa società non troveranno posto i beni tossici, gli armamenti, l’energia da fonte nucleare ed in generale tutto ciò che è dannoso per l’uomo

Riutilizzare, altra R del programma, segue la riduzione, tuttavia può contribuire alla riduzione stessa. La produzione di nuovi oggetti, che magari sono usa e getta per spingere i consumatori a sostituirli in breve tempo, dovrà essere sostituita dalla realizzazione di oggetti resistenti che durano nel tempo, così da continuare a ridurre la produzione e proseguire sulla strada della decrescita. La società dei consumi, utilizzando la pubblicità stimola continuamente all’acquisto di nuovi beni, magari sostanzialmente identici a quelli più vecchi, salvo qualche piccola miglioria, che non ne giustificherebbe la sostituzione. Queste modalità aumentano gli sprechi, l’inquinamento ed i rifiuti e creano nell’uomo un senso di spaesamento, facendogli desiderare beni, che non soddisfano alcun bisogno. Occorre garantire la durata dei prodotti messi in vendita e/o facilitare la riparazione degli stessi.

Riciclare, infine sarà l’ultimo passaggio, in modo da avere a disposizione una gran quantità di materie da reimpiegare nel ciclo produttivo, anziché trasformarle in rifiuti. Alcune grandi imprese si stanno orientando in tale direzione, a mo d’esempio citiamo la Xerox che ha

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concepito le sue fotocopiatrici in elementi di assemblaggio che possono essere riciclati e reintrodotti nella nuova produzione, quando la macchina è ormai obsolescente. Esempi del genere si trovano anche in agricoltura, dove si usano i rifiuti biodegradabili, in sostituzione dell’uso dannoso dei concimi chimici158.

Questo è in sintesi il programma di Latouche ed anche la soluzione che consentirebbe la salvaguardia del pianeta e migliori condizioni di vita per tutta la popolazione mondiale. Sopravvivenza sociale e sopravvivenza biologica sono due concetti strettamente collegati, a tal punto che dovranno essere perseguiti congiuntamente. L’uomo dovrà vivere secondo l’impronta ecologica159, organizzando la decrescita nella consapevolezza che possedere di più non implica necessariamente vivere meglio.

Le otto R rappresentano la sintesi delle speculazioni di Latouche, che tuttavia non sono ancora definitive: ognuno di noi potrà completarle aggiungendo tutte le R che vuole.

Il progetto di costruire una società della decrescita dunque è un’utopia, un’utopia nel senso concreto e positivo della parola che è un altro mondo possibile. Ho proposto di realizzare questo progetto attraverso uno schema delle otto “R”: Rivalutare, Riconcettualizzare, Ristrutturare, Ridistribuire, Rilocalizzare, Ridurre, Riutilizzare, Riciclare. Ogni volta che faccio una conferenza c’è qualcuno nella sala che mi dice: “Lei ha dimenticato una R molto importante, si deve anche reinventare la democrazia”. Un altro mi dice: “Si deve ri-cittadinare”. Il concorso è aperto, si possono aggiungere molte altre R.160, come per esempio Rienergizzare. Quest’ultima è poi di stretta attualità, in particolare dopo i gravi incidenti di Fukushima, che hanno messo a nudo quella idea che gli impianti di energia nucleare moderni sono sicuri ed affidabili.

Certo è opportuno proporre nuovi valori alternativi a quelli dominanti, il senso del limite al posto dell’arroganza (hybris), la cooperazione al posto della

158 Il compostaggio è una tecnologia biologica usata per trattare la frazione organica dei rifiuti, raccolta differenziatamente (anche detta umido) sfruttando un processo di bio-ossidazione, trasformandola in fertilizzante agricolo di qualità da utilizzare quale concime naturale.

159 L’impronta ecologica è un indice statistico, introdotto nel 1996 ad opera di Mathis Wackernagelne Wuiliam Rees, per misurare l’area biologica produttiva del mare e della terra che servirebbe per rigenerare tutte le risorse che l’uomo ha consumato e per quantificare il tempo di assorbimento dei rifiuti; Cfr. S. Latouche, La saggezza della lumaca, Bollati Boringhieri, Torino, 2008.

160 S. Latouche, contributo al seminario sulla decrescita organizzato dalla commissione cultura della Camera dei deputati, 4 ottobre 2007.

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competizione, la reciprocità al posto dell’egoismo, il ben-essere e la sobrietà al posto del ben-avere; non è possibile sperare in una trasformazione ampia e diffusa dei valori senza modificare le condizioni sociali di produzione della ricchezza. In altre parole, senza immaginare un’altra economia e un’altra società.

Altro spunto interessante della speculazione di Latouche è la critica al PIL. Non si può misurare il benessere dell’uomo con un indice puramente economico: il PIL è in realtà una misura squisitamente capitalistica161.

Le intuizioni sul PIL saranno trattate anche da molti altri autori, non propriamente “decrescisti”. Nell’ultimo capitolo del presente lavoro analizzeremo il dibattito odierno sull’indicatore economico, entrando nel dettaglio riguardo ai motivi della sua inadeguatezza.

2.8 Due approcci italiani: Magnaghi e Pallante

«Il territorio è un’opera d’arte: forse la più alta, la più corale che l’umanità abbia espresso». Così inizia Magnaghi, architetto del territorio, nel suo libro “Il progetto locale”, per proporre come alternativa al modello di sviluppo capitalista uno “sviluppo locale autosostenibile”. Abbiamo già visto l’importanza del “local” nelle teorie della decrescita, come esso sia una componente fondamentale per la costruzione di una nuova società libera dall’idea del profitto, ma sostenitrice del ben vivere e del rispetto della natura. Magnaghi entra nel dibattito con il suo “progetto locale”. Un approccio originale che parte dal territorio come centro dell’identità forte uomo-natura.

161 Il calcolo del prodotto interno lordo non prende in considerazione le cause che provocano un nuovo flusso di investimenti. Così un incidente fra veicoli produce danni ai singoli automobilisti, ma le spese che gli incidentati dovranno sostenere farà crescere l’economia: la venuta del carro attrezzi, il carrozziere, la vernice. Siffatte situazioni non apportano sicuramente un bene, ma stranamente accrescono la prosperità del Paese, accrescono il PIL. Alcuni opinionisti, all’indomani della catastrofe terremoto-tsunami-nucleare abbattutasi sul Giappone l’11 marzo del 2011, hanno commentato l’evento sottolineando il maggiore benessere che ne sarebbe derivato al Paese in vista dell’imminente ricostruzione. Tratteremo più avanti la questione del PIL in modo più accurato.

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Il territorio visto dal Magnaghi162 non è semplicemente un luogo fisico ben individuabile, ma qualcosa di più, è rivestito di un valore storico concettuale, che lo rende unico e diverso. Esso costituisce il risultato dei tanti cicli di civilizzazione che lo hanno attraversato; è il frutto di tutte le relazioni fra queste diverse culture con l’ambiente circostante. Il territorio dunque è il bene comune di chi lo vive, la sua memoria storica, la sua “marca” di origine ed anche di differenziazione.

Notiamo subito un cambio di prospettiva: qui è il territorio ad essere referente delle politiche di sostenibilità. Nelle teorie precedenti, che potremmo definire di tipo ambientalista e biocentrico, si sottolineava come il primo problema fosse la tutela dell’ecosistema e quindi un rapporto diverso tra uomo e natura. Nel territorialismo di Magnaghi, l’ambiente si pone ad un livello inferiore sul piano logico rispetto al territorio, infatti, il degrado di esso è anche degrado ambientale oltre che sociale e psicologico. Agendo contro tale degrado si otterrà, di riflesso, la salvaguardia della natura e il miglioramento della qualità della vita.

Un approccio capace di leggere l’insostenibilità dell’economia contemporanea come effetto di una causa endogena allo stesso modello economico: il deterioramento della relazione tra ambiente fisico, costruito e antropico. I pericoli per l’ambiente sono anche il frutto di questo processo deteriorante, che ha origine, secondo l’autore, nella sistematica e continua deterritorializzazione dell’economia globale. Infatti, le comunità insediate strutturano il territorio secondo i propri fini, creando relazioni con l’ambiente circostante, ispirate dall’idea del profitto per il profitto, senza curarsi degli effetti dannosi generati. Questo modo di strutturare e progettare il territorio spiegherebbe, in ultim’analisi, i cattivi equilibri ecosistemici.

Prima di entrare nel merito della teoria del Magnaghi è opportuno soffermarsi su quelle che sono le relazioni ed interazioni strettissime tra uomo e territorio. Giovanna Motta nell’opera Paesaggio, Territorio, Ambiente definisce il territorio stesso come:

rappresentazione simbolica di valori custoditi nella percezione individuale, ma anche immagine della cultura di un popolo e della sua storia, comunicazione di segni che possono rispondere alle categorie del bello o del nuovo, a bisogni etici o estetici, un ambiente che sia di tutti, ma che al tempo stesso sia definito da tutti,

162 Alberto Magnaghi è ordinario di Pianificazione Territoriale presso la Facoltà di Architettura dell’Università di Firenze. Tra le sue opere la Carta del Nuovo Municipio, che è adottata come manifesto della “Rete del Nuovo Municipio”, un’associazione senza fini di lucro che unisce ricercatori, cittadini, amministratori locali nella ricerca di nuove forme di democrazia partecipativa e di politiche sostenibili per la città.

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che appartenga alle classi dominanti ed a quelle subalterne, che sia un bene godibile ed utile per la ricostruzione del passato di ciascuno, per le sue specificità che lo rendono unico ai fini delle identità singolari, collettive, regionali163.

Si comprende come, a prescindere dagli ambiti di applicazione della ricerca scientifica, il territorio assume un ruolo decisivo in particolare se correlato all’azione dell’uomo.

La ricerca della sostenibilità, pertanto, dovrà partire proprio dalla riscoperta della terra come patrimonio comune, insieme di conoscenza, stratificazione di memoria storica.

La società che occupa e vive i territori dovrà per Magnaghi comprendere e conoscere il “valore patrimoniale” di cui è destinataria ed agire valutandone gli effetti sulla sostenibilità dello stesso. Magnaghi afferma in proposito:

la coscienza di luogo si può definire come la consapevolezza, acquisita attraverso un percorso di trasformazione culturale degli abitanti, del valore patrimoniale dei beni comuni territoriali (materiali e relazionali), in quanto elementi essenziali per la riproduzione della vita individuale e collettiva, biologica e culturale. In questa presa di coscienza il percorso da individuale a collettivo connota l’elemento caratterizzante la ricostruzione di elementi di comunità, in forme aperte, relazionali, solidali164.

Diventa di cruciale importanza interrogarsi sulle modalità insediative delle comunità attuali. Ricercare e fissare delle buone regole, individuando i requisiti, le variabili ed i limiti posti dal territorio, implica la possibilità di costruire un insediamento ad alta qualità ambientale. Le regole da ricercare non dovranno richiedere alcun sostegno esterno, ma dovranno essere in grado di autosostenersi, poiché orientate alla valorizzazione del patrimonio ambientale, territoriale e culturale del luogo per il quale sono ricercate. Ecco, quindi, come la dimensione locale diventi un elemento determinante: a tale livello è più facile individuare rischi e quindi l’ambito di controllo per attenuarli, con le dovute soluzioni per ridurli. Così operando, si avrà maggiore attenzione a quelle originalità e peculiarità endogene al territorio, oltre al formarsi di tanti “stili di sviluppo”, che creeranno un dinamico pluralismo culturale.

163 G. Motta, Introduzione al testo, in G. Motta, a cura di, Paesaggio, Territorio, Ambiente. Storie di uomini e di terre, Franco Angeli, Milano, 2004, p. 11.

164 A. Magnaghi, Il territorio come soggetto di sviluppo delle società locali, Etica ed Economia, Vol. IX, 1/2007. Cfr. A. Magnaghi, Scenari strategici: visioni identitarie per il progetto di territorio, Alinea Editrice, Firenze, 2007, p. 9.

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L’insieme di tutte le regole originerà il progetto locale, che per Magnaghi sarà la vera alternativa al modello economico contemporaneo. Ma in cosa consiste singolarmente il progetto proposto dall’autore?

Sinteticamente esso richiede il ridimensionamento del sistema economico mondiale, ormai dominante nella cultura contemporanea, per valorizzare i modelli territoriali.

Gli enti pubblici dovranno costituire una governance locale dell’economia che prenda le decisioni e tracci politiche efficaci in base alle specificità del territorio. Le istituzioni dovranno stimolare la cultura della solidarietà e aprire una sempre maggiore partecipazione dei cittadini. È fondamentale la ricostruzione o la generazione di nuove forme di comunità che grazie alla conoscenza del luogo, creano “ricchezza” con criteri diversi rispetto al modello attuale, nell’ottica di uno sviluppo autosostenibile, favorendo la trasformazione degli stili di vita, di consumo e di produzione.

Un obiettivo ambizioso che potrà realizzarsi solo attraverso un patto stipulato tra la pluralità di attori, detentori di interessi diversi ed, a volte, concorrenziali, presenti nell’ambito territoriale. Oggetto dell’accordo sarà la ridefinizione dei singoli obiettivi in un’ottica di valorizzazione del patrimonio comune, in quanto base materiale della ricchezza e per il quale gli attori dovranno concertare regole certe di comportamento e garanzie reciproche per favorire la sostenibilità territoriale e la salvaguardia dell’ambiente165.

I sistemi democratici locali fondati sulla concertazione avranno il merito di tutelarsi dagli effetti omologanti e di controllo della società capitalista. Inoltre, saranno capaci di promuovere forme di cittadinanza abili nel ricostruire relazioni sociali basate su reti non gerarchiche ma solidali. In altri termini le istituzioni prepareranno il retroterra necessario per far posto all’homo civicus, abitante del territorio e attento alla qualità della vita attuale e di quella delle generazioni future.

Le nuove comunità, pur nella varietà e parzialità delle regole e degli accordi concertati a livello territoriale, saranno comunque tutte accomunate dall’obiettivo di realizzare progetti sostenibili, solidali e rispettosi dell’ambiente.

Tra loro potrebbero nascere forme di collaborazione, di trasferimenti di know how reciproci e di best-practice. A livello economico, per esempio, si

165 L’autore parla anche di “statuto dei luoghi”, che dovrà contenere tutti i valori costitutivi propri del patrimonio territoriale: componenti di tipo storico, sociale, ambientale ecc. Lo statuto costituirà un supporto tecnico efficiente per la pianificazione del territorio e per le politiche abitative, in quanto la terra viene rappresentata come luogo di memoria, di segni distintivi, di valori da tramandare alle future generazioni.

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porranno in essere reti di mercato basate su forme di consociazione e sussidiarietà166.

La messa in rete, secondo sistemi comunicativi complessi e potenziati, di questi ambiti territoriali, riconosciuti e valorizzati nelle loro peculiarità, - sostiene Magnaghi - può consentire la realizzazione di una massa territoriale di livello metropolitano tale da reinterpretare la stessa memoria del territorio come vero e proprio luogo della innovazione in contesti ad alta qualità dell’abitare167.

Il progetto locale mira, quindi, a ribaltare l’idea globale dell’economia a favore della comunità, che si concentrerà, in vista della realizzazione di un bene comune, a modificare i propri stili di vita, entro un sistema sociale e culturale che produce valore e ben-vivere partendo dal territorio; ma punta anche, come corollario, a favorire quelle giuste pratiche di rispetto, valorizzazione e salvaguardia dell’ambiente, che garantiranno alle generazioni future un’eredità territoriale capace di assicurare altissima qualità della vita.

Per questo fine occorrerà stabilire un patto tra tutti gli attori coinvolti a livello locale che, superando i propri conflitti d’interesse attraverso una responsabile concertazione, ridefiniranno i propri progetti, tarandoli sull’obiettivo della valorizzazione del patrimonio comune; un patto capace di assicurare la salvaguardia ambientale e quella territoriale per mezzo di garanzie reciproche e regole di comportamento.

In ultima sintesi sarà il modo di produzione del territorio inteso nel suo valore concettuale di stratificazione dinamica di cicli, di civilizzazione e di relazioni con esso, istaurate da tutte le comunità insediatevi a costituire, in modo durevole e definitivo, la possibile strada da percorrere per generare sostenibilità.

Altro autore italiano, che s’inserisce nel dibattito scientifico sul modello di sviluppo e di società è Maurizio Pallante. Le sue tesi possono essere collocate nel solco delle teorie di Latouche, e degli studi sulla decrescita. Il saggio “Manifesto del Movimento per la decrescita felice” rappresenta uno studio appassionato sui riflessi e gli effetti della decrescita economica; in particolare sull’impatto che può avere sulla qualità della vita umana.

166 Si tratta di pianificare il rafforzamento di un mondo di società locali, in grado di connettersi a rete in modo non gerarchico, riconoscendo le diversità di stili di sviluppo e attivando relazioni di sussidiarietà; Cfr. A. Magnaghi, Il Progetto locale, verso la conoscenza dei luoghi, Bollati Boringhieri, Torino, 2010, p. 91.

167 Ivi, p. 198.

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Il presupposto originale per inquadrare il significato di decrescita è la differenza tra il concetto di beni e merci. L’uomo per soddisfare i suoi bisogni necessita di beni, non solo quelli ascrivibili a soddisfare la prima necessità, ma anche beni che soddisfano bisogni psicologici ed interiori come quelli culturali e di autorealizzazione. Tra beni e merci tuttavia corre una differenza, essi non sono equivalenti: “non tutti i beni sono merci e non tutte le merci sono beni”168. Le merci passano necessariamente attraverso una intermediazione mercantile, mentre i beni possono essere autoprodotti. Un esempio è la differenza tra la coltivazione di ortaggi con tecniche intensive su larga scala e quella di frutta e verdura praticata direttamente dal consumatore nel suo orto. La prima modalità di coltivazione ha come sbocco il mercato e la grande distribuzione, mentre la seconda il consumatore stesso. Gli ortaggi destinati al mercato costituiscono le merci, quelli destinati all’autoconsumo sono invece i beni. In linea di principio ciò che viene autoprodotto dovrà necessariamente essere di miglior qualità, per il solo fatto che nessuno consumerebbe beni dannosi per la propria salute. Continuando con l’esempio, la frutta e verdura coltivata direttamente dal consumatore non conterrà additivi chimici o altri prodotti nocivi per l’ambiente, con gran vantaggio per la collettività poiché non si inquineranno le acque e non si impoveriranno i terreni, ma anche per lo stesso consumatore, che potrà godere di prodotti più sani rispetto alle merci prodotte per la grande distribuzione. Altro esempio illuminante è lo yogurt fatto in casa. Esso presenta solo un costo minimo, quello del latte; necessita di poco lavoro e oltre ad essere più genuino della merce equivalente, presenta l’indubbio vantaggio di evitare l’accumularsi dei rifiuti (se è fatto in casa non ci sarà la confezione di plastica che lo contiene, quando è acquistato come merce, l’imballaggio per il trasporto, pertanto il consumo di yogurt non produrrà rifiuti).

Nelle società moderne prevale l’idea che solo le merci siano generatrici di valore, dimenticando come l’autoproduzione di beni sia stata in epoche passate un’attività praticata in maniera prevalente. Basti pensare alle donne che realizzavano coperte, copri-tavoli, abiti all’uncinetto, oppure gli artigiani, come il ciabattino che riparava le scarpe quando si rompevano. Anche quest’attività, sostiene Pallante, ha valore ed è lavoro un tempo

168 Maurizio Pallante è autore di numerosi libri, tra i quali: Le tecnologie di armonia, Bollati Boringhieri, Torino, 1994; Scienza e ambiente. Un dialogo, con Tullio Regge, Bollati Boringhieri, Torino, 1996; Decrescita e migrazioni, Edizioni per la Decrescita Felice, Roma, 2009; I trent’anni che sconvolsero il mondo, Pendragon, Bologna, 2010; Meno e meglio. Decrescere per progredire, Bruno Mondadori, Milano, 2011; e altri saggi pubblicati sul portale http://decrescitafelice.it/la-decrescita-felice/

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valorizzato ma oggi quasi dimenticato da uno stile di vita frenetico e veloce che, per aderire al mito del progresso, ha tempi talmente ristretti da fare di ogni cosa una merce. I beni sono sempre stati oggetto di scambi non monetari ed hanno contribuito ad istaurare relazioni positive tra gli individui, favorendo la socializzazione. Presentano però un limite per l’attuale modello economico: diminuiscono il PIL, perché non sono commercializzabili e non generano profitti.

Sembra opportuno, a questo punto del lavoro, richiamare la definizione di crescita offerta dal Pallante:

generalmente si crede che la crescita economica consista nella crescita dei beni materiali e immateriali, che un sistema economico e produttivo mette a disposizione di una popolazione nel corso di un anno. In realtà l’indicatore che si utilizza per misurarla, il prodotto interno lordo, si limita a calcolare, e non potrebbe fare diversamente, il valore monetario delle merci, cioè dei prodotti e dei servizi scambiati con denaro169.

Un indicatore siffatto, per il Pallante, contabilizza esclusivamente merci, perché solo queste possono essere scambiate sul mercato attraverso la moneta. Ma, se l’esigenza dell’uomo è quella di soddisfare i propri bisogni nel miglior modo possibile, dovrebbe essere almeno in apparenza neutrale se questi siano soddisfatti attraverso merci o beni. Nella forma l’asserzione è coerente, ma non lo è nella sostanza, dato il vantaggio sociale ed ambientale legato all’autoproduzione. Il benessere di una nazione è tuttavia misurato dal PIL, che aggrega la somma dei valori monetari delle merci, mentre i beni sono esclusi dall’indicatore, anzi, qualora aumenteranno quelli prodotti in “casa”, diminuirà l’acquisto di merci e di conseguenza il PIL. La decrescita di esso è considerata come un elemento negativo a cui porre rimedio in maniera tempestiva, ma è davvero un aggregato significativo del benessere di una nazione? In particolare, se i beni sono esclusi, un abbattimento del PIL corrisponde realmente ad una diminuzione di valore? Il Pallante fa nel suo Manifesto un altro esempio chiarificante: «Percorrendo un tragitto in automobile si consuma una certa quantità della merce carburante. Quindi si contribuisce alla crescita del prodotto interno lordo. Se per percorrere lo stesso tragitto si trovano intasamenti e si sta in coda, il consumo della merce carburante cresce; di conseguenza, il prodotto interno lordo cresce di più. Ma occorre più tempo per arrivare dove si vuole arrivare, aumentano i disagi e la fatica del viaggio, aumentano le emissioni

169 Tratto da un saggio di M. Pallante in, http://decrescitafelice.it/la-decrescita-felice/

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di anidride carbonica e di inquinanti in atmosfera, i costi individuali e collettivi, ambientali e sociali. La maggior quantità della merce benzina consumata negli intasamenti automobilistici non è un bene. Eppure ogni volta che si sta fermi in coda a respirare gas di scarico si contribuisce ad accrescere il benessere collettivo e, di conseguenza, il proprio. Si agisce in modo socialmente virtuoso. Se poi, in conseguenza della maggiore stanchezza e dei maggiori rischi derivanti dagli intasamenti si verificano incidenti, la riparazione o la sostituzione delle automobili incidentate e i ricoveri ospedalieri fanno crescere ulteriormente il prodotto interno lordo, ma difficilmente si troverebbe un economista coerente al punto di considerare beni i maggiori consumi di merci che ne derivano». L’idea della crescita come paradigma assoluto, di conseguenza per l’autore è di per sé folle e come si evince dall’esempio, dannosa per l’umanità. Essa come ulteriore aggravante non tiene conto del concetto di limite ed in certi casi per sostenerla si sostengono costi enormi a scapito di una migliore qualità della vita .

Un’ottica di decrescita, seguendo queste argomentazioni, non implica tornare “al tempo delle candele” o vivere una vita da asceta, ma semplicemente adottare un nuovo stile di vita improntato sulla ricerca di valore nella soddisfazione dei propri bisogni con modalità diverse e più razionali rispetto al passato. Uno stile di vita che ricomincia ad introdurre i beni autoprodotti e non consumi esclusivamente merci, dato che le distorsioni del sistema mercantilista, con tutte le esternalità negative che produce non saranno più sostenibili per le generazioni future.

La risposta della decrescita non è, secondo queste premesse, una mera provocazione; il benessere di un Paese si misura anche sul valore apportato alla comunità dal consumo di beni, per definizione autoprodotti ed esclusi dal Prodotto Interno Lordo. L’aumento dei beni provoca una diminuzione di merci ed un abbattimento del PIL, ma come visto, genera una serie di esternalità positive che, come risultato finale, aumenterebbero il ben – vivere. Ma, per evitare che la decrescita sia percepita in modo negativo, come indice di arretramento sociale, occorre ridefinire le differenze esistenti tra bene e merce, in modo che alternativamente il benessere di una nazione sarà garantito dalla quantità dei beni che sostituiranno le corrispondenti merci. Se queste diminuiscono, si ridurranno anche le esternalità negative legate alla loro produzione ed i costi necessari per sostenerla, mentre i bisogni dell’uomo non potranno che essere soddisfatti dai beni. La decrescita altro non è che la riduzione del PIL causata dalla riduzione delle merci, ma no dei beni, che altresì aumenteranno insieme alla riduzione dei costi per produrre le merci stesse.

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La decrescita diventa condizione per un vero e proprio stile di vita. Una sorta di missione che dovrebbe animare l’uomo per migliorare decisamente la qualità del suo stare al mondo. Da qui la definizione utilizzata dal Pallante di “Decrescita felice”, per affermare come l’autoproduzione non produce solo un miglioramento del nostro ecosistema e della salute, ma sarà in grado di aumentare la felicità, liberando l’uomo dal tempo impiegato per produrre tutti quei beni inutili ai propri bisogni ma necessari per sostenere la crescita basata sul PIL.

In proposito scrive l’autore:

Questo processo è in grado di apportare miglioramenti altrimenti non ottenibili alla qualità della vita e degli ecosistemi. Una decrescita guidata in questa direzione, una recessione ben temperata, per usare un’espressione di Élemire Zolla, racchiude intrinsecamente un fattore di felicità. Vive felicemente chi si propone di avere sempre maggiori quantità di merci, anche se non sono beni, e spende tutta la vita per questo obbiettivo? Non vive più felicemente chi rifiuta le merci che non sono beni e sceglie i beni di cui ha bisogno in base alla loro qualità e utilità effettiva, lavorando di meno per dedicare più tempo ai suoi affetti?

L’uomo sarà felice nel momento in cui desidererà più beni che merci, soprattutto se queste ultime sono inutili e non corrispondono a bisogni reali. La salute dell’ecosistema è stata seriamente danneggiata per inseguire logiche di profitto sfrenato da realizzare introducendo sul mercato una grande quantità di prodotti, spesso inutili per l’uomo, ma necessari a sostenere la crescita. Il Pallante propone una filosofia di vita che impone un cambiamento radicale del modello culturale, spronando l’uomo ad adottare stili di vita sobri incentrati sui reali bisogni che lo appagano.

La felicità non può venire dal possesso, poiché appena si spegne il desiderio per aver ottenuto la merce agognata, essa perde d’interesse e il desiderio si spinge verso altri prodotti da avere ed acquistare a tutti i costi. S’innesca una spirale senza fine nella quale l’uomo si muove all’impazzata cercando di produrre di più per garantire al sistema economico di immettere sul mercato sempre più merci in modo da soddisfare i bisogni inappagabili generati dall’attuale modello di vita. La produzione esasperata consuma risorse, inquina il mondo, genera sempre più rifiuti, non restituisce all’uomo la felicità. La soluzione prospettata dal Pallante non è un passo indietro del progresso, ma la ricerca di un modus vivendi in armonia con la reale capacità di realizzazione dell’uomo. Conclude il Pallante nel suo Manifesto:

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La decrescita è elogio dell’ozio, della lentezza e della durata; rispetto del passato; consapevolezza che non c’è progresso senza conservazione; indifferenza alle mode e all’effimero; attingere al sapere della tradizione; non identificare il nuovo col meglio, il vecchio col sorpassato, il progresso con una sequenza di censure, la conservazione con la chiusura mentale; non chiamare consumatori gli acquirenti, perché lo scopo dell’acquistare non è il consumo ma l’uso; distinguere la qualità dalla quantità; desiderare la gioia e non il divertimento; valorizzare la dimensione spirituale e affettiva; collaborare invece di competere; sostituire il fare finalizzato a fare sempre di più con un fare bene finalizzato alla contemplazione. La decrescita è la possibilità di realizzare un nuovo Rinascimento, che liberi gli uomini dal ruolo di strumenti della crescita economica e ri-collochi l’economia nel suo ruolo di gestione della casa comune a tutte le specie viventi in modo che tutti i suoi inquilini possano viverci al meglio170.

2.9 Analisi degli elementi distintivi della crescita e dello sviluppo: critica alla decrescita

Nel precedente paragrafo abbiamo trattato le teorie della decrescita, che sono per lo più riconducibili ad una filosofia di vita; un modus vivendi volto a rimettere in discussione i punti di riferimento comunemente accettati dalla società contemporanea. È necessario evidenziare come le critiche mosse alla crescita economica non tengono in alcun conto le differenze tra lo sviluppo e la crescita stessa. Pertanto, per una corretta valutazione delle scuole di pensiero dianzi citate e per il giusto inquadramento delle tesi che s’intendono avanzare, occorre chiarire la diversità concettuale tra i due termini.

La crescita è un concetto squisitamente economico, misura la capacità di un sistema di soddisfare con la produzione crescente di beni e servizi i bisogni della collettività. Si suppone che tale produzione debba aumentare continuamente per far fronte allo sviluppo demografico ed all’aumento dei bisogni della popolazione.

Il primo economista ad interessarsi della crescita come concetto economico è Adam Smith nella celebre opera Un’indagine sulle cause della ricchezza delle nazioni171, nella quale espone la nota tesi della

170 Tratto da un breve documento riportato sul portale “Movimento per la decrescita felice”, di M. Pallante in La decrescita felice? http://decrescitafelice.it/la-decrescita-felice/

171 A. Smith, An Inquiry into the Nature and Causes of the Wealth of Nations, London, 1776, La Ricchezza delle Nazioni, A. Bagiotti, T. Bagiotti, a cura di, UTET, Torino, 2006.

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divisione del lavoro. Per Smith la ricchezza di una nazione dipende in primo luogo dal fattore lavoro ed in secondo luogo dalla divisione dello stesso, che permette di aumentare il prodotto. Se il lavoro viene diviso ed organizzato da più operai si produce di più di quanto singolarmente potrebbero produrre gli stessi operai172. Il prodotto del lavoro è il salario, mentre quello dell’imprenditore che dispone dei mezzi di produzione è il profitto. Il valore di una merce si compone, di conseguenza della sommatoria tra salario e una parte di profitto che serve a remunerare il rischio dell’imprenditore. La ricchezza delle Nazioni per Smith dipende fortemente dal fattore lavoro piuttosto che dalla presenza di materie prime sul territorio.

A partire da Smith si è sviluppato il filone di studi economici che ha puntato l’accento sulla crescita e sul problema della distribuzione del reddito. Per il nostro studio è interessante il contributo di Solow e di Swann. Il modello di crescita dei due autori parte dalla considerazione che la stessa non può essere sostenuta esclusivamente da maggiori impieghi di fattore lavoro e capitale, ma anche dal progresso tecnologico in grado di aumentare la produttività. Altro contributo determinante è dato dall’aumento demografico della popolazione, che per dirla con Keynes, spinge verso l’alto la curva di domanda aggregata e quindi traina la produzione. La crescita come abbiamo già avuto modo di argomentare viene misurata dal PIL, il quale a sua volta può essere scomposto in tre componenti: aumento della produttività; aumento del capitale fisico; aumento della risorsa lavoro.

L’aumento della produttività si ottiene con il progresso tecnico; secondo Robert Merton Solow173, se esso non raggiunge determinati livelli, provoca arretratezza sia nel comparto industriale che agricolo. Altra variabile fondamentale è l’aumento del risparmio, che comporterà un aumento degli investimenti con conseguente miglioramento dei tassi di crescita. In linea teorica nei Paesi con un PIL pro capite più basso dovrebbero registrarsi

172 «Io ho visto una piccola manifattura(...) dove erano impiegati soltanto dieci uomini e dove alcuni di loro, di conseguenza, compivano due o tre operazioni distinte. Ma, sebbene fossero molto poveri e perciò solo mediocremente dotati dei macchinari necessari, erano in grado, quando ci si mettevano, di fabbricare, fra tutti, più di quarantottomila spilli al giorno. Si può dunque considerare che ogni persona, facendo la decima parte di quarantottomila, fabbricasse quattromilaottocento spilli al giorno. Se invece avessero lavorato tutti in modo separato e indipendente e senza che alcuno di loro fosse stato previamente addestrato a questo compito particolare, non avrebbero certamente potuto fabbricare neanche venti spilli per ciascuno». L’esempio riportato è uno dei più significati di Smith ed è riportato in molti testi. Cfr. Adam Smith, La ricchezza delle Nazioni, cit..

173 R. M. Solow, A contribution to the Theory of Economic Growth, in Quarterly Journal of Economics, LXX, 1956, pp. 65-94.

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tassi di crescita che aumentano in modo più rapido, poiché per colmare l’arretratezza occorrono maggiori investimenti, con un effetto moltiplicativo sul fattore lavoro e sul risparmio. Partendo da queste premesse, si dovrebbe presto raggiungere un equilibrio tra i Paesi più sviluppati e quelli ancora in via di sviluppo, proprio per la diversa velocità di crescita di questi ultimi. Purtroppo l’equilibrio è solo teorico, nella realtà il modello non è verificato per la diretta influenza di molteplici fattori, tra cui lo sfruttamento dei Paesi più ricchi su quelli più poveri. Rimane incompiuta la possibilità del sistema capitalista di realizzare una equilibrata distribuzione del reddito attraverso leggi di mercato, le quali non assicurerebbero l’equilibrio nel lungo periodo. Non è questa tuttavia la sede per affrontare tematiche di economia politica, la breve sintesi proposta è utile per evidenziare le criticità dei modelli crescisti ed è prodromica ad un altro concetto di fondamentale rilievo per il nostro studio: quello di sviluppo.

Avevamo già ribadito che si tende a confondere i concetti di crescita e sviluppo, utilizzandoli alternativamente come se fossero dei sinonimi. Ora facciamo un passo in avanti, cerchiamo di tracciare le differenze che intercorrono. Lo sviluppo non è assolutamente un sinonimo del concetto crescita, ma al contrario, ha un suo autonomo significato ed una specifica valenza teorica anche molto differente dalla crescita. Per sviluppo intendiamo un progressivo miglioramento della qualità della vita, oltre ad una migliore distribuzione del reddito, ed in ultima analisi del ben – vivere. La crescita non implica necessariamente un alto tasso di ben vivere e neppure una diffusa distribuzione del reddito tra più strati della popolazione. Si può avere crescita in un Paese in cui la stragrande maggioranza della gente versa in condizioni di povertà, quando la stessa è spinta solo da una percentuale esigua che ne gode anche dei frutti. Così come maggiori tassi di reddito possono modificare gli stili di vita, far aumentare l’inquinamento, sottrarre tempo alla famiglia, agli affetti ed alle altre attività dell’uomo. In poche battute crescere non vuol dire ben vivere ed in alcuni casi può essere addirittura il contrario.

Un aumento di sviluppo altresì, non implica necessariamente aumento del PIL, che è l’indicatore che misura la crescita di una nazione in termini di Prodotto Interno. Lo sviluppo è sociale, culturale, umano, spirituale ed anche economico, ma nel senso di una migliore distribuzione di ricchezza tra gli strati della popolazione. La crescita è invece legata al Prodotto Lordo di una nazione; paradossalmente un terremoto che distrugge una città mette in moto la crescita, cioè gli investimenti per la ricostruzione e per le cure dei ferititi che faranno aumentare il Prodotto Interno Lordo, cioè il PIL che

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è la sua misura. La crescita quindi ha un connotato ambiguo, può essere sostenuta anche ai danni dello sviluppo. Di conseguenza il problema, semmai, non sarà tanto l’aumento della crescita, quando l’aumento dello sviluppo, perché quest’ultimo è capace di garantire la nostra generazione e le generazioni future. La crescita è infine legata all’economia di mercato ed in questi anni si è constatato come la logica mercantile non è riuscita a risolvere i problemi sociali.

«L’attività economica (…) va finalizzata al perseguimento del bene comune»174, pertanto, seguendo il filo della nostra distinzione, deve produrre sviluppo più che crescita, anzi è totalmente indifferente che ci sia crescita o decrescita, l’importante è che si prefigurino le condizioni per la realizzazione dello sviluppo. Abbiamo citato non a caso le parole di Benedetto XVI che, nell’enciclica Caritas in Veritate, espone con puntualità le tesi della dottrina sociale della chiesa sul ruolo dell’economia, dei mercati, della giustizia sociale e dell’ambiente. La chiesa parla già da tempo del concetto di sviluppo e lo intende in un senso più ampio, ossia di vocazione: «Nel disegno di Dio ogni uomo è chiamato ad uno sviluppo, perché ogni vita è vocazione»175. Dire quindi che sviluppo è vocazione significa ammettere che esso non riguarda esclusivamente aspetti tecnici dell’uomo, ovvero legati ad una mera crescita di disponibilità economica, ma il senso stesso del suo procedere nella storia, e la ricerca di una meta di tale procedere. Così posto, la strada per la realizzazione dello sviluppo integrale dell’uomo non può procedere senza la responsabilità per la tutela dell’ambiente, in un corretto rapporto uomo-natura, né senza porsi questioni di più equa distribuzione del reddito.

Anche in Jonas possiamo riscontrare degli elementi affini all’idea di sviluppo della Chiesa Cattolica con la differenza, rispetto alla dottrina sociale, che egli, provocatoriamente, risolve il problema ricorrendo alla figura di un despota illuminato per attuare il principio di responsabilità. Mentre per la dottrina sociale, l’uomo nasce e deve restare libero da vincoli e condizionamenti, a tal punto che si parla di libertà responsabile, ossia di scelta a perseguire azioni responsabili. L’uomo non è ridotto a mezzo per lo sviluppo, ma è artefice dello stesso, attraverso la sua libertà responsabile verso gli altri esseri umani, la natura e le future generazioni.

Per la Chiesa l’uomo rimane l’artefice del proprio destino, dei suoi successi e dei suoi fallimenti, della distruzione della natura e della sua tutela. Egli deve operare una riflessione sull’economia ed in particolare sui

174 Benedetto XVI, Caritas in Veritate, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano, 2009, p. 56.

175 Giovanni Paolo II, Sollicitudo rei socialis, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano, 1987.

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suoi fini. La crescita della ricchezza in valore assoluto è accompagnata dall’aumento delle disparità e da sconvolgimenti ecologici. Una revisione del modello economico impone l’accento sullo sviluppo, visto nella sua complessità e trascendenza come sviluppo della persona e non meramente economico e tecnologico. Lo sviluppo è vocazione verso il “tutto”, e il cammino per superare la crisi culturale e morale dell’uomo. La dottrina sociale della chiesa non demonizza la sfera economica, ma essa, come attività umana deve essere strutturata e istituzionalizzata eticamente. L’economia e la finanza sono strumenti e non entità assolute. Come strumenti possono essere mal utilizzati, quando chi li gestisce “ha solo riferimenti egoistici”176. Il discorso si può applicare anche all’attuale crisi finanziaria, ad essere dannoso non è lo strumento (economia e finanza), ma chi lo utilizza e i fini che si dà nell’utilizzarlo. «Perciò non è lo strumento ad essere chiamato in causa ma l’uomo, la sua coscienza morale e la sua responsabilità personale e sociale»177. Ecco perché si fa riferimento ad una libertà responsabile eticamente orientata verso la natura e gli altri esseri, per garantire un integrale sviluppo dell’uomo178.L’idea di sviluppo tracciata, per i contenuti espressi e le finalità che realizza, dovrà costituire la missione della società del XXI secolo. Del resto anche i decrescisti hanno sottolineato come i programmi politico – sociali devono darsi come obiettivo finale il ben vivere e la tutela delle future generazioni. Lo hanno fatto partendo da una critica del modello capitalista e proponendo la decrescita come soluzione. Tuttavia, Latouche non ha mai elaborato una distinzione tra crescita e sviluppo, continuando ad utilizzare i due termini come alternativi. Così la critica allo sviluppo equivale alla critica alla crescita e non può esservi ben vivere tanto nello sviluppo quanto nella crescita. Il problema centrale era porre alla base un nuovo modello economico, quindi spronare una totale e radicale rivoluzione del sistema attuale per svoltare nella decrescita. Ma non possiamo conoscere in anticipo se la decrescita garantirà il ben vivere. Se si determinasse come fine da raggiungere lo sviluppo in luogo della crescita, probabilmente i due obiettivi potrebbero essere centrati contemporaneamente; anzi la storia ha dimostrato che, in molti casi, si è avuto contestualmente crescita e sviluppo.

176 Benedetto XVI, Caritas in Veritate, cit., p. 57.177 Ibid.178 La maggior parte delle teorie economiche, sociologiche e filosofiche elaborate in

funzione della salvaguardia ambientale, hanno spesso subito l’influenza del marxismo, in Jonas e nella sua opera principio responsabilità questo è fuori di ogni dubbio, in altri autori si individuano spesso dei riferimenti ideologici che influenzano le teorie e le considerazioni. Esistono però altre correnti culturali di grande interesse, in particolare la dottrina sociale cattolica, che affrontano i medesimi temi, ma con delle differenze di approccio sostanziale

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Le teorie decresciste, di conseguenza, sarebbero minate all’origine. Inoltre, come tutte le filosofie, la decrescita deve fare i conti con il passaggio dal livello teorico a quello pratico; deve trasbordare dalle pagine dei saggi accademici per incontrare la vita e per misurarsi con essa. Manca dunque una verifica sul campo. Certo non è un programma di facile attuazione, in quanto scardina le colonne portanti della società dei consumi e si contrappone ad una radicale mentalità individualista che, con gradualità differenti, contamina l’uomo moderno. Le velleità del possesso generano desideri non necessari, ma capaci di nutrire la vanità dell’uomo, di tradurre in simboli tangibili il bisogno di autorealizzazione e di status. Passioni umane e singolari di tale natura, che hanno alimentato e alimentano la società contemporanea possono essere messe da parte per un altro modello di società? Una domanda a cui è difficile in astratto dare una risposta, ma sono quesiti che, connaturati allo stile di vita, non hanno una soluzione immediata, se non attraverso un processo di educazione ad una nuova cultura che intraveda l’utile nei rapporti umani, nella coesione sociale, nel rispetto degli individui e dell’ecosistema, nella scelta del valore piuttosto che del fatturato: un’educazione che converta letteralmente l’uomo. Si entra dunque in una nebulosa dove è difficile intravedere il punto di arrivo. I tempi di una rivoluzione culturale e la stessa riuscita del progetto non può essere stimabile ed è, a nostro avviso, condizione irrinunciabile per una società della decrescita, almeno per la sua implementazione con il massimo di condivisione sociale possibile. Riteniamo che essa nella sua formulazione radicale si presenti come una provocazione suggestiva destinata a rimanere confinata su un piano teorico. La decrescita alla lettera non può essere una strategia concretamente percorribile. Tuttavia, essa ha il merito di farci riflettere sull’attuale modello economico e di spingerci a ripensare ai fattori che realizzano la crescita economica. Se venisse intesa come possibilità per ridefinire i concetti di produzione, consumo, accumulazione del capitale in un’ottica di nuova politica economica, incentrata su pratiche socialmente sostenibili, allora essa non sembra poi così distante nella sostanza dalla formulazione elaborata dall’Unione Europea nella Strategia di Göteborg, per uno sviluppo durevole e sostenibile ed al contempo sembra incontrare anche la dottrina sociale della chiesa.

Se al contrario, le teorie della decrescita vanno considerate nelle versioni più radicali, si aprono le questioni ed i problemi sopra citati. In proposito lo stesso Jonas avanza delle perplessità sulle capacità dell’uomo di autoregolarsi. La buona volontà e l’educazione all’etica condivisa, per

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l’autore, non bastano ad affievolire le velleità individualiste dell’uomo179. Occorre come soluzione la forte imposizione a misurarsi con i problemi delle generazioni future, costringendo gli uomini a ridurre i propri consumi. In questo passaggio Jonas critica le democrazie: se uno stato totalitario decidesse di adottare il principio di responsabilità, gli individui cittadini di quello stato saranno obbligati ad applicarlo. Solo una tirannia illuminata può garantire il futuro e salvaguardare l’ambiente: «Possiamo dire che essa, cioè la tirannide, - sostiene in parola Jonas - sul piano della tecnica del potere, sembra essere più idonea ad attuare i nostri ardui scopi rispetto alle possibilità offerte dal complesso capitalistico-liberale-democratico»180.

Jonas negli ultimi anni ripenserà al ruolo del tiranno illuminato, attenuando la radicalità della sua posizione. Si può dire che la sua idea di responsabilità si avvicinerà a quella espressa dalla dottrina sociale della chiesa, più focalizzata sulla libertà dell’uomo e sulla ricostruzione di una fisionomia etica e culturale per affrontare i problemi.

Tutte le teorie decresciste hanno subito le influenze marxiste ed hanno rivolto nella loro radicalità un j’accuse al sistema economico capitalista, colpevole di avere troppe contraddizioni interne per poter realizzare sostenibilità e giustizia sociale. La loro utilità è ravvisabile nella critica alla crescita, piuttosto che nella pur suggestiva provocazione di un mondo alternativo a quello attuale. Il concetto su cui insistere rimane quello di sviluppo nell’accezione che abbiamo dato. Solo lo sviluppo può essere davvero sostenibile e garantire le generazioni future.

179 Su questo punto Mario Sirimarco analizza il pensiero di Jonas sulla sua idea del mito della tirannide, del nuovo Machiavelli, della èlite dirigista e sul modello alternativo proposto: il marxismo. Cfr. M. Sirimarco, Il diritto all’ambiente, la questione ecologica fra etica diritto e politica, cit., pp. 82-85.

180 H. Jonas, Il principio responsabilità, cit., p. 188.

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3. Dall’ambientalismo scientifico alle politiche economiche, dall’Europa all’Italia

3.1 Contesto politico-economico: la crisi del neoliberismo

È opportuno in questa fase della ricerca soffermarsi sui problemi posti dal liberismo. Richiamando Jonas e le sue attente valutazioni sull’etica pubblica si possono avanzare alcune considerazioni. Per Jonas un sistema liberale è indubbiamente da preferire ad un modello illiberale, nel quale l’individuo è privato dei suoi diritti e delle sue prerogative fondamentali. Ma alla radice del termine liberismo c’è un forte individualismo che può contaminare il sistema, limitando il fiorire di una cultura fondata sul senso di responsabilità per le generazioni future. In proposito scrive Jonas: dominante nel mondo occidentale è la concezione liberale dello Stato quale istituzione orientata a uno scopo, a cui spetta di tutelare la sicurezza dei cittadini lasciando però ampio spazio al libero gioco delle forze, soprattutto interferendo il meno possibile nella vita privata. Il concetto dei diritti da garantire eclissa quello dei doveri da osservare; ciò che non è proibito è lecito e l’osservanza della legge consiste nella non violazione della medesima181.

Si è dunque nella legalità solo se non si violano le leggi dello stato liberale. Resta un punto da chiarire. Può un sistema siffatto garantire il bene della collettività, preservando le medesime possibilità di oggi alle generazioni future? Il punto è controverso, se si pensa che il bene in questione si colloca non nel presente, ma come bisogno futuro. Il diritto come base del sistema liberista non è in grado di coprire orizzonti così allargati nel tempo, di conseguenza anche i doveri non possono estendersi

181 H. Jonas, Il principio responsabilità, cit., p. 218.

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oltre182. La democrazia liberale, anche se ha tra i suoi programmi politiche di stato sociale, è principalmente orientata a risolvere problemi contingenti, che pesano sull’orizzonte quotidiano dell’individuo. I partiti conservatori poi, mirano a lasciare al mercato ed alle sue leggi intrinseche, la possibilità di autoregolarsi escludendo interventi di tipo statalista per sostenere istanze sociali. Gli amministratori ed i governanti di qualunque schieramento politico saranno tutti incentivati a proporre soluzioni di breve periodo ai problemi della gente, per recuperare consenso politico immediato e misurabile alle prossime elezioni. James Freeman Clarke, Ministro della Chiesa Unitariana, nel 1870 in proposito scriveva: “A politician thinks of the next election; a statesman of the next generation.”183. Di conseguenza il modus operandi di certa classe politica poco si concilia con le questioni aperte di salvaguardia ambientale e con i problemi posti dal principio di responsabilità. Se non altro perché dovranno essere le future generazioni a valutare il successo delle politiche contemporanee. Altro elemento da non sottovalutare riguarda la percezione dei bisogni dell’elettore. Prevale nelle coscienze dei cittadini l’interesse alla propria condizione occupazionale ed al mantenimento o, al limite, al miglioramento della stessa in futuro.

182-«Ora assistiamo al trionfo della libera economia di mercato rispetto all’economia comunista pianificata. Non si può dire tuttavia che ciò sia una prova del fatto che questa libera economia di mercato sia adeguata ad affrontare i problemi, dinanzi ai quali ci pone il suo proprio modo di trattare la natura, che economicamente riscuote tanto più successo. Se si suppone che il sistema sia in grado di far fronte da solo alla problematica, da lui stesso innescata e ormai avviata verso la crisi, del rapporto con l’ambiente, si fa una pericolosa confusione fra un momento di successo esteriore e le speranze che si possono riporre nelle facoltà di questo sistema»; Cfr. H. Jonas, Dem bösen Ende näher: Gespräche über das Verhältnis des Menschen zur Natur, Frankfurt a. M., Suhrkamp, 1993 (trad. it.: Sull’orlo dell’abisso. Conversazioni sul rapporto tra uomo e natura, P. Becchi, a cura di, Einaudi, Torino, 2000, p. 31).

183 James Freeman Clarke fu un religioso che contribuì a divulgare le dottrine della chiesa Unitariana in Nord America. L’unitarianismo si diffuse negli Usa solo a partire dalla fine del XVIII secolo. La nota frase è tratta dalle pagine del Cincinnati (OH) Daily Gazette, 3 February 1870, p. 1 e ripresa anche da Alcide De Gasperi e assai più recentemente dal Premier Mario Monti. Un limite della classe politica che ostacola la proposta di progetti di lungo periodo è la ricerca o il mantenimento del consenso tra i propri elettori. Da questo punto di vista, provvedimenti per così dire impopolari, ovvero con ricadute di lungo periodo, sono sempre il risultato di più fattori concomitanti, tra cui: la necessità imprescindibile che non lascia situazioni alternative all’adozione di tali misure; interventi sovranazionali come ad esempio recepimento di regolamenti comunitari; in via residuale lungimiranza dei politici. Nel 1901 viene pubblicato un libro che ha per titolo le stesse parole pronunciate da J. F. Clarke dal titolo completo: Drifting: a Politician Thinks of the Next Election, a Statesman of the Next Generation; a Politican Looks for the Success of His Party, a Statesman for That of His Country; the Statesman Wishes to Steer, While the Politician is Satisfied to Drift; che è anche la frase completa pronunciata in altre occasioni da diversi autori.

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Politiche di riduzione del carico fiscale, d’incentivo all’occupazione, ai consumi, e via dicendo, trovano ampio consenso e sono la priorità dell’elettorato rispetto alle problematiche ambientali184. E allora cosa fare185?

Il sistema politico non può limitarsi a questioni esclusivamente contingenti, così come la salvaguardia del pianeta è un obiettivo talmente importante da non potere essere relegata alla sensibilità politica di uno schieramento particolare e neppure di un singolo Stato, ma deve essere trattata a livello globale. La miglior risposta per risolvere il problema è data dagli accordi internazionali che assicurano regole certe oltre i confini dei singoli Stati. Confini sempre più indeboliti dal potere economico186.

Per attuare una strategia di accordi internazionali occorre la volontà politica plurale che prescinda dagli interessi di parte.

Analizzate le criticità principali di un sistema politico liberale ed in particolare la difficoltà che hanno i governi ad assumere scelte a medio-

184 Negli ultimi anni si è assistito ad un progressivo cambiamento dei partiti di massa contestualmente alla trasformazione della società e della percezione politica dopo la fine della guerra fredda. La fine dei “partiti chiesa” che si fondavano su una comunanza ideologica forte da parte dei sostenitori ha liberato il campo ai così detti “partiti piglia tutto” che hanno l’obiettivo di fidelizzare e convertire ad ogni tornata elettorale più elettori possibili anche di altri partiti. Questo è possibile, come ha scritto Guido Legnante, per una serie puntuale di motivi: 1) maggiore importanza data dagli elettori a questioni non ideologiche; 2) personalizzazione della politica e riconoscimento dell’importanza del leader per orientare le scelte di voto; 3) apprezzamento da parte degli elettori di appelli generali ritenuti giusti anche se non specificatamente orientati al gruppo sociale di appartenenza; 4) nascita di gruppi d’interesse che in base ad accoglimento delle istanze da loro tutelate, di volta in volta, scelgono l’alleanza migliore. Per un’analisi approfondita cfr. G. Legnante, Alla ricerca del consenso, Franco Angeli, Milano, 2004. È evidente che per attrarre elettori i partiti cercano di proporre programmi il più possibile centrati sulle preferenze e sulle necessità percepite dai cittadini. Le questioni ecologiche non occupano certo i primi posti e non sono determinanti per vincere le elezioni.

185 Jonas, come già anticipato, propone una soluzione particolarmente provocatoria: il passaggio da una democrazia liberale ad una sorta di “tirannide benintenzionata, beninformata e animata da giuste convinzioni”. Il monarca illuminato, sciolto dai limiti e dalla smania di ricerca di consenso, può agire conformando le sue azioni al principio di responsabilità in favore delle generazioni future. I problemi posti dal principio di responsabilità non possono essere affrontati dalle odierne democrazie liberali per le ragioni che abbiamo ampiamente trattato, in proposito afferma Jonas: “nella morsa futura di una politica di rinuncia responsabile, la democrazia, nella quale hanno necessariamente la preminenza interessi contingenti, è, perlomeno temporaneamente, inadeguata. La nostra scelta ponderata deve orientarsi oggi, sia pure controvoglia, tra forme diverse di tirannide. E qui il socialismo, come credo ufficiale di Stato,(…) garantisce una disponibilità”, H. Jonas, Il principio responsabilità, cit., p. 188 e pp. 192-193.

186 M. Sirimarco, Il diritto all’ambiente, cit., pp. 65-66.

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lungo termine, occorre valutare in quale contesto economico può essere concretamente realizzata la sostenibilità.

I Paesi occidentali hanno adottato e continuano ad adottare ricette economiche ispirate a tesi neoliberiste.

Ai fini della nostra analisi, pertanto, può essere interessante rivisitare le origini di tale pensiero economico, citando testimonianze di illustri esponenti che, insieme allo stesso Adam Smith del quale abbiamo, in parte, già parlato in questo lavoro, avvalendoci di alcuni spunti presi dalla sua opera più famosa: La ricchezza delle nazioni., hanno contribuito alla nascita della scuola economica liberista.

Il liberismo ha come genus di base l’ideale illuminista di libertà individuale e, prima di essere una dottrina economica, essa può essere ricondotta nell’ambito di una speculazione filosofica che tenta di dare risposte a problemi cruciali dell’uomo quali l’uguaglianza e la libertà di iniziativa. Sviluppatasi durante la rivoluzione francese, ed in certi ambienti illuministi come la scuola dei “fisiocratici”, il liberismo trova una sua prima definizione compiuta negli studi dello stesso Smith, ritenuto a ragione, il padre della scuola economica in esame. Esso si fonda sulla libera iniziativa dei cittadini che partecipano al mercato, escludendo lo Stato da qualunque intervento in economia diverso da quelli posti in essere per favorire e stimolare l’iniziativa dei privati. L’esempio più appropriato è la costruzione di infrastrutture realizzate dai governi per agevolare l’azione individuale degli imprenditori187.

Dal punto di vista più squisitamente filosofico ricordiamo l’opera di John Stuart Mill che, in Principles of political economy del 1848 ci offre un’idea innovativa ed al tempo stesso complessa di società. Egli utilizza il paragone del mulino ad acqua che necessita di due elementi: il primo naturale ed il secondo artificiale. L’elemento naturale è costituito dall’acqua che muove le pale del mulino (l’uomo non ha alcun potere sull’acqua che costituisce una risorsa della natura ed è fisica e scollegata da qualunque implicazione etica).Quello artificiale è altresì, il mulino costruito dall’uomo tenendo conto del livello della tecnica, del sistema generale di conoscenze per arrivare alla sua efficiente realizzazione e delle implicazioni etiche: come opera dell’uomo, deve soggiacere ad un suo corretto e positivo utilizzo. Il sistema economico per Mill è la risultante di questi due elementi: naturali ed artificiali. Infatti, la ricerca e lo

187 Lo Stato crea le condizioni per favorire il libero mercato. Infatti attraverso infrastrutture sempre più moderne si ridurranno i costi per le imprese. Un esempio è la costruzione di una autostrada che consente di velocizzare gli spostamenti da un luogo ad un altro permettendo alle imprese di offrire sul mercato i prodotti in modo celere con una diminuzione del tempo e del costo del trasporto.

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sfruttamento delle risorse da parte di ogni individuo per soddisfare i propri bisogni sono elementi naturali che devono essere mitigati da quelli artificiali costituiti da un valido sistema economico posto in essere per sfruttare, sotto l’egida di leggi etiche condivise, gli impulsi legittimi di ricchezza degli uomini, affinché si trasformino in ricchezza sociale. In altri termini, la libertà individuale dovrà avere come risultato finale degli effetti postivi che ricadono sulla collettività, grazie ad un sistema economico fondato su leggi etiche che indirizzano le tensioni naturali degli attori che vi partecipano. Mill, dunque, cerca di risolvere il problema della distribuzione della ricchezza nella misura più equilibrata possibile tra la popolazione, ricorrendo all’etica come forza mitigatrice degli istinti individuali. Non si può agire sull’elemento naturale inteso come libertà individuale ad accumulare ricchezza da parte di ogni singolo individuo attraverso l’attività economica, ma si può e si deve operare sul lato della distribuzione della stessa, con una serie di riforme capaci di ridistribuire la ricchezza prodotta, ponendo in essere un sistema economico che fonde istanze liberiste e socialiste. L’altruismo dovrà nascere dall’individualismo, poiché per Mill, non vi è vera felicità se non attraverso il sostegno e la promozione della stessa tra gli altri individui. Una posizione davvero interessante espressa da uno dei maggiori sostenitori di un pensiero filosofico incentrato sulle libertà individuali. Dello stesso autore è, infatti, il saggio On liberty del 1859, nel quale sostiene il diritto di ogni uomo ad agire per realizzare la propria felicità, senza che alcuna forza agisca da freno a questa naturale tendenza. L’unico limite sarà costituito dalla minaccia che la libertà di uno, sfoci nella limitazione della libertà di un altro. Solo in questo caso, a scopo difensivo, si potranno limitare le azioni degli uomini. Riproponendo Stuart Mill, si comprende come gli obiettivi iniziali della scuola economica liberista fossero rivolti alla soluzione di questioni fondamentali per l’uomo come il diritto alla libertà ed alla felicità, particolarmente sentiti in un’epoca ancora legata a sistemi politici di tipo assolutisti. La stessa ricerca di felicità, mutuata dalle posizioni illuministe, non può che essere realizzata in un sistema economico che risolva il problema della giusta allocazione delle risorse.

Le promesse della scuola liberista ed i vari tentativi per raggiungere gli obiettivi fissati sono stati realizzati nel corso della storia? La validità delle tesi sostenute è ancora attuale? Ciò che stupisce è semmai la differenza tra le tensioni ideali degli economisti classici e le posizioni economiche di quelli contemporanei. Il pensiero economico liberista si è affermato nella società e nei programmi di politica economica, al punto da diventare quasi ovunque il punto di riferimento incontestabile. Gli altri economisti, tanto di scuola marxista o keynesiana venivano banditi come “eretici”, “fortemente

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ideologici”, “assistenzialisti”, o “statalisti”, mentre “il verbo”, la “panacea” di tutti i mali era la razionalità del mercato, nell’accezione liberista che lo stesso avesse al suo interno delle forze autoregolanti capaci di risolvere tutte le distorsioni ed i problemi della società. È davvero andata così? In un mondo in cui la povertà interessa larghi strati della popolazione, in cui le economie occidentali sono afflitte dalla crisi finanziaria e gli stati attraversati dal morbo pericoloso e incontrollabile dei debiti sovrani? Sembra assodato che i liberisti hanno sbagliato qualcosa, ma è ancor più evidente come quegli ideali dei padri fondatori si siano perduti dietro equazioni differenziali, integrali ed indici economici che “non hanno di certo salvato il mondo”.

Dalla metà del secolo scorso, i sostenitori delle tesi liberiste sono riconducibili per lo più alla scuola di Chicago, i cosiddetti neo liberisti. Essi sono sempre stati convinti assertori di una riforma in senso liberale dello Stato e sostenitori della razionalità dei mercati. Per questa ragione, le loro tesi prendevano le distanze da qualunque intervento pubblico nell’economia, dal momento che quest’ultimo poteva risultare distorsivo delle forze interne al mercato capaci di risolvere le fasi cicliche di decrescita e crisi. Una scuola che ebbe un ruolo fondamentale nell’indirizzare i governi americani a partire da Reagan che ne accolse in pieno le tesi; mentre in Europa sarà l’Inghilterra della Thatcher a farsi sostenitrice del pensiero neoliberista. Sul piano dei riconoscimenti economico-scientifici la scuola di Chicago fu tra le più prolifere, ebbe dalla Banca centrale svedese, che gestisce il Nobel dell’economia, ben dodici premi dal 1968 ad oggi: una sorta di piena legittimazione agli studiosi che hanno osannato la supremazia del mercato, la sua efficienza e razionalità. Tra i Nobel più noti basta ricordare Friedrich Hayek, Milton Friedman, George J. Stigler, Gary Becker, Robert Lucas, Myron Scholes e tanti altri ancora. Eppure dopo anni di successi e indiscusso primato delle loro tesi, l’autunno del 2008, come un fulmine precipitato dal cielo, ha prima indebolito e poi messo in discussione gli assunti di base delle loro teorie economiche. In primo luogo la crisi finanziaria ha dimostrato che il mercato non è poi così razionale e che soprattutto, il rischio non possa essere calcolato in modo matematicamente preciso. Wall Street, tempio della finanza, si era da tempo trincerata dietro la ricerca di formule di valutazione dei rischi finanziari nel pieno rispetto delle teorie della scuola di Chicago; formule poste a base di investimenti in prodotti finanziari complessi, che proprio nel 2008 hanno dimostrato l’inadeguatezza, portando le banche a soffrire di forti crisi. Gli effetti negativi sono stati ancor più accentuati dopo il superamento del Glass-Steagall act, con il quale ad inizio novecento si era posto una distinzione giuridica tra banche

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commerciali e banche d’investimento. Le prime assolvevano il compito di impiegare i fondi raccolti dai risparmiatori in investimenti alle imprese o ai cittadini; le seconde erano invece banche che operavano sui mercati finanziari. La divisione nasceva da un palese conflitto d’interesse tra i due compiti. Infatti, le prime non potevano emettere, sottoscrivere titoli di debito delle aziende. Il motivo è rintracciabile da un’inchiesta del Senato americano dopo la crisi del 29, che evidenziò come alcune banche avessero offerto ai risparmiatori titoli emessi da società che avevano acceso un mutuo presso le stesse e che successivamente avevano utilizzato i fondi raccolti per coprire i prestiti concessi alle società emittenti i titoli di debito. In pratica, le banche hanno trasformato sofferenze in titoli da piazzare presso i propri clienti, in modo da trasferire il rischio di insolvenza presso i risparmiatori. Vi sono poi i prestiti con la clausola “opzione convertendo”, mediante la quale chi contrae il debito, può anche non rientrare con capitali, ma cedere azioni della società dello stesso valore.

La fine della divisione giuridica tra i due istituti di credito ha dato vita alla “banca universale”, che può occuparsi di tutto: dalla raccolta del risparmio, alla creazione di strumenti finanziari, all’emissione di prodotti assicurativi, ampliando i profili di rischio e di business. Fautore di questa inversione di tendenza fu l’amministrazione Clinton che nel 1999 abrogava il Glass-Steagall Act188, dando, di fatto, vita alla banca universale. Il problema, pertanto, può essere così sintetizzato: il fallimento di un istituto di credito universale può avere effetti devastanti sull’economia infettando diversi settori, proprio in vista della frantumazione del rischio trasferito con prodotti finanziari verso un gran numero di clienti. Ora se questo avviene ed è avvenuto, ciò implica che la supremazia e l’efficienza del mercato non è una tesi così assoluta come, per anni, hanno predicato i fautori della scuola di Chicago. La crisi del 2008 segna una sconfitta delle teorie neoliberiste per un ritorno all’intervento pubblico, proclamato addirittura da uno dei massimi esperti della finanza, il Presidente del FMI Dominique Strauss-Kahn che, il 21 dicembre 2008, ha chiesto agli Stati di investire una cifra pari al 2% del PIL mondiale per dare nuovo slancio all’economia. Dunque, si è in presenza di un ritorno delle politiche Keynesiane, bandite

188 Per un approfondimento su questo argomento rimandiamo ad una pubblicazione di Joseph E. Stiglitz. Nel testo di Stiglitz, non ancora tradotto in italiano, l’autore racconta come la crescente disuguaglianza tra le diverse classi sociali finirà per danneggiare anche i ricchi e che tutto questo divario tra classi non può funzionare in una società ad economia stabile. Spiega inoltre che una delle principali cause dell’attuale e profonda disuguaglianza nella società americana è da attribuire, anche se in parte, alla politica fiscale dell’amministrazione Clinton, alla diminuzione delle imposte sulle plusvalenze e all’abrogazione della Glass-Steagall Act. Cfr. J. E. Stiglitz, The Price of Inequality, how today’s divided society endangers our future, W. W. Norton & Company, 2012.

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per anni come “ideologiche” e “stataliste”. Un ulteriore scossone alle tesi della scuola di Chicago arriva dal suo interno ed in particolare da una personalità autorevole da sempre sostenitore e protagonista della scuola stessa: Richard Posner189. Il Professore nell’opera The Crisis of ‘08 and the Descent into Depression riconosce i limiti dell’auto-regolamentazione e riabilita, in parte, le teorie Keynesiane considerate come valide e capaci di dare positivi indirizzi alla crisi attuale. Per Posner i liberisti hanno fallito là dove Keynes ha vinto: il mercato non è razionale ed il rischio non può essere calcolato con precisione190. Alcune delle risposte a questa crisi vanno ricercate nella non conoscenza da parte degli economisti del settore bancario, forse sarebbe meglio dire di conoscenza parziale o superficiale delle sue esternalità191.

189 Richard Posner è giudice presso la Corte d’Appello degli Stati Uniti per il Settimo Circuito di Chicago, insegna diritto presso l’Università di Chicago ed è uno dei pochi autori appartenente alla scuola di Chicago che ha espresso, dopo l’autunno del 2008, una posizione critica rispetto all’ipotesi di efficienza del mercato. Va comunque sottolineato che lo stesso Posner non si definisce un economista di professione ma solo un giurista che scrive di economia, anche se molti economisti gli riconoscono un ruolo importante per aver sviluppato un approccio in grado coniugare analisi economica, libero mercato e legge.

190-Cfr. R. Posner, A Failure of Capiutalism: The Crisis of ‘08 and the Descent into Depression, Harvard University Press, 2009.

191 «There’s nothing inconsistent with basic economic theory in externalities. Of course, you have to know a lot about banking, and that was not the case with economists. Odd in a way, because macroeconomists and finance theorists have always been interested in banking, but I don’t think they really understood a lot about it». Queste parole sono state pronunciate dallo stesso R. Posner in una intervista rilasciata a John Cassidy del New Yorker il 13 gennaio 2010. Per l’intervista completa vai su:http://www.newyorker.com/online/blogs/johncassidy/2010/01/interview-with-richard-posner.html

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Dunque ritornare a Keynes, o meglio a Frank H. Knight192 e alle antiche tradizioni della scuola di Chicago, molto meno formale di quella attuale e molto più vicina alle teorie keynesiane di quanto si possa immaginare, sembrerebbe la strada più indicata, ma non è questa la sede per affrontare tematiche di politica economica.

Tuttavia è utile sottolineare come le ricette neoliberiste fondate sulla razionalità del mercato che non sono riuscite ad attenuare il divario tra i diversi strati sociali all’interno di una singola nazione e più in generale a livello globale, non hanno garantito lo sviluppo nei termini descritti in questo lavoro, non hanno aumentato il tasso di occupazione, difficilmente potranno essere efficaci per attuare uno sviluppo sostenibile. Inoltre, senza alcun tipo di intervento a supporto di politiche in favore dell’ambiente, per tutelarlo e per convertirlo in risorsa sociale ed economica, l’osservazione empirica del funzionamento razionale del mercato ha dimostrato che non si è ottenuto alcun risultato positivo in favore degli obiettivi di sviluppo sostenibile. Altresì laddove si è registrato un intervento pubblico volto ad indirizzare, sostenere e promuovere politiche di valorizzazione della risorsa ambiente, si sono ottenuti dei risultati importanti. Le azioni dell’Unione Europea sono un esempio convincente della direzione da intraprendere per ovviare tanto alle criticità endogene dei singoli Stati nazionali, quanto per rinquadrare l’ambiente in un ottica di sviluppo.

Resta l’assunto che il mercato da solo non può risolvere i problemi della società contemporanea e neppure mitigarli .

192 Frank H. Knight è uno dei padri fondatori della Scuola di Chicago. I premi Nobel, Milton Friedman, George Stigler e James M. Buchanan, furono tutti suoi studenti a Chicago. Knight è riconosciuto come uno dei principali economisti al mondo e le sue speculazioni hanno contribuito significativamente allo sviluppo della teoria economica e della filosofia sociale. Il suo maggiore e più importante studio è sicuramente Risk Uncertainty and Profit del 1921, costruito sulla sua tesi di dottorato di ricerca, questo fondamentale contributo scientifico si basa sulla distinzione tra rischio economico e incertezza. Knight sostiene che le situazioni a rischio sono quelle in cui i risultati sono sconosciuti ma è nota dal principio la loro distribuzione di probabilità, cioè viene assegnata una probabilità per ogni possibile esito. Le situazioni incerte, come quelle a rischio, offrono risultati altrettanto casuali ma, al contrario delle precedenti, sono governate da modelli di probabilità completamente sconosciuti. Oggi questo lavoro viene maggiormente apprezzato alla luce degli ultimi avvenimenti in campo economico-finanziario e in particolar modo in riferimento al sistema bancario. Per lungo tempo tali teorie non hanno avuto fortuna in quegli ambienti particolarmente formali, post liberisti, poiché si basavano su concetti teorici e poco congeniali alla riproduzione di modelli empirici. Per questo lavoro sulla sostenibilità il libro di Knight offre molti spunti di riflessione e supporta la nostra struttura concettuale sull’importanza del calcolo del rischio e delle eccezioni che da esso ne derivano. Cfr. F. H. Knight, Risk, Uncertainty, and Profit, Houghton Mifflin, Boston, 1921 (trad. it.: Rischio, incertezza, profitto, La nuova Italia, Firenze, 1960).

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3.2 Europa protagonista della sostenibilità

La base giuridica per una politica ambientale europea può essere rintracciata già nel Trattato Istitutivo delle Comunità Europee. Tuttavia, dalle clausole che definivano i principi generali a cui l’attività legislativa doveva ispirarsi all’attuarsi di misure concrete, la strada non è stata agevole. L’Unione venne spesso criticata per non aver predisposto in passato strategie efficaci di salvaguardia del pianeta, sia per una carenza di sensibilità ambientalista, sia per una sottovalutazione del problema. Oggi i Paesi dell’Unione vivono una fase di profonda trasformazione. Realizzata l’unità monetaria, occorre una politica comune per affrontare con forza le nuove sfide della società contemporanea: dalla crisi economico-finanziaria di fine primo decennio del XXI secolo, al deficit nei conti pubblici di alcuni Paesi membri, dalle questioni di sicurezza internazionale legate al terrorismo, al problema dell’occupazione, dell’innovazione tecnologica e dell’energia. Tanti sono i nodi da sciogliere, che impongono riflessioni e soluzioni mature, trovate cioè nel rispetto di uno sviluppo equilibrato e sostenibile.

Il modello dei consumi odierno correlato agli stili di vita delle società post-industriali incide su quello che è stato definito degrado antropico; ossia qualsiasi forma di alterazione e/o di modificazione dello stato di conservazione di un bene, attraverso un uso improprio dello stesso. La scarsa reperibilità di alcune risorse ha generato una sorta di nuova “conquista del west”con la differenza che ad essere occupati sono ora i territori dei paesi in via di sviluppo attraverso forme giuridiche lecite come locazione a lunghissimo termine o in misura minore contratti d’acquisto. Il fenomeno, noto come land grabbing193 ha assunto nel primo decennio del XXI secolo proporzioni notevoli tali da mettere a repentaglio la disponibilità di risorse nei paesi maggiormente interessati dal fenomeno. Se da un lato esso costituisce un buon investimento per sfruttare le risorse del territorio, dall’altro è fortemente negativo per la popolazione indigena.

193 Letteralmente esso può essere tradotto come accaparramento dei terreni. Tra il 2007 e il 2008 alcuni governi, società transazionali o singoli imprenditori hanno acquisito una gran moltitudine di terre favoriti dalla crisi dei prezzi agricoli. Per avere un’idea dell’importanza del fenomeno basti pensare che sono stati acquisiti 46 milioni di ettari da ottobre 2008 ad agosto 2009 di cui due terzi solo nell’Africa subsahariana, cfr. Rapporto Agricultures and rural development Rising Global Interest in Farmland, can it yield sustainable and equitable benefits?. Nel 2011 uno studio presentato dal Land Deal Politics Initiative ha valutato in 80 milioni di ettari la reale estensione dei terreni coinvolti nell’acquisizione. The International Bank for Reconstruction and Development/The World Bank, 2011.

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Infatti a causa dell’accaparramento delle terre, gli stessi, rischiano di non poter usufruire di beni naturali primari, come ad esempio l’acqua.

Ritornando al degrado antropico, lo sfruttamento delle risorse per assecondare il livello dei consumi raggiunto nel mondo occidentale e soddisfare la domanda crescente delle nuove potenze industriali, amplifica le sperequazioni con i paesi in via di sviluppo facendo aumentare il rischio di deperimento delle medesime. Se applicato all’ambiente, l’uso improprio può influire addirittura sulla sopravvivenza stessa dell’uomo.

Nel vecchio continente i problemi da affrontare sono legati non solo alla limitatezza delle risorse, ma anche alla gestione e alla programmazione del mix energetico. L’incidente alla centrale di Fukushima ha riaperto l’annoso dibattito sul nucleare. Paesi come la Germania ad esempio, al momento di chi scrive, hanno rivisto le proprie scelte in materia, fissando al 2022 lo spegnimento di tutte le centrali nucleari, mentre in Italia un nuovo referendum ha obbligato il governo Berlusconi ad abbandonare i programmi intrapresi a favore dello stesso. L’energia nucleare risponde sì all’esigenza di avere una fonte alternativa, ma non è ancora in grado di garantire la sicurezza dei cittadini e non vi sono allo stato dell’arte delle soluzioni efficaci per la contaminazione radioattiva e per lo smaltimento delle scorie194.

La politica europea, pertanto, non può permettersi di affrontare questi problemi senza una visione sistemica, ponendo le scelte di sostenibilità alla base di qualsivoglia intervento che può incidere sull’ecosistema. Le relazioni intercorrenti tra le attività umane e la biosfera devono essere tali da garantire il perpetuarsi delle stesse condizioni di vita in futuro, pur consentendo agli individui di soddisfare i loro bisogni.

L’agire umano dovrà rispettare i limiti posti dalla natura, evitando di apportare ad essa variazioni tali, per riprendere il concetto di degrado antropico, da distruggere l’equilibrio biofisico.

Gradualmente, anche L’Unione ha metabolizzato i temi dell’ecologia fino a valutarli di centrale importanza e degni di grande considerazione. Il cambio di prospettiva è avvenuto a partire dagli anni 1960, quando nei Paesi che avrebbero dato vita all’UE, la legislazione ambientale consisteva in una serie di vincoli sparsi qua e la nella disciplina di diversi settori, senza una visione chiara e definita d’insieme. Negli ultimi 40 anni molto è stato realizzato. La presa di coscienza sull’importanza della salvaguardia ambientale per i rischi connessi al deterioramento della biosfera è indubbiamente entrata a pieno titolo nelle agende politiche dei vari Paesi. Sono stati fatti progressi enormi, ricordiamo il Vertice di Parigi del 1972,

194 G. Mattioli, M. Scalia, Nucleare, a chi conviene? Le tecnologie, i rischi, i costi, Kyoto Books, Edizioni Ambiente 2010.

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nel quale venne statuita la necessità di valutare gli effetti sull’ecosistema e sulla qualità della vita delle politiche di espansione economica. A tal fine fu varato il “piano d’azione ambientale”, seguito poi da numerosi programmi pluriennali. Nel 1987 con l’Atto Unico Europeo, la politica ambientale venne inclusa per la prima volta nei trattati. Il risultato apprezzabile delle scelte dell’87 culminerà nel Trattato di Maastricht del 7 Febbraio 1992 e nel Trattato di Amsterdam del 2 ottobre 1997, nei quali è stata tracciata la via per interventi comuni in favore del pianeta195.

È in questo clima, che i due Trattati hanno sancito un cambio di passo nella concezione e nelle filosofie politiche ispiratrici degli interventi196. I presupposti si sono allargati territorialmente coinvolgendo con modalità concertatrice la Comunità degli Stati, ma anche sottraendo l’ambientalismo a una logica di tipo settoriale. Fin dal 1973,197 dopo l’approvazione del Primo Programma Comunitario di Azione per l’Ambiente e in seguito con i successivi, si erano poste in essere azioni per lo più isolate, del tutto scollegate da una visione sistemica e complessiva del problema. Si era intervenuto per singoli comparti attraverso una regolamentazione minima attinente a materie come la gestione dei rifiuti, l’inquinamento dell’aria, l’inquinamento idrico e così via. L’introduzione del principio di Sviluppo Sostenibile, a seguito del Trattato di Amsterdam, ha invece fornito l’ossatura teorica necessaria per inquadrare le questioni ambientali nella loro specificità e in relazione ai rischi derivanti dal degrado ambientale. La strada intrapresa si è basata sulla concertazione e sulla produzione di normativa che esplica i suoi effetti su scala internazionale, vista la portata sovranazionale dei problemi in esame. Lo Sviluppo Sostenibile viene riconosciuto da tutte le istituzioni internazionali come un modello particolare, che garantisce la soddisfazione dei bisogni del presente senza compromettere le generazioni future198. Così formulato, il concetto di

195 Con il Trattato di Amsterdam è stato introdotto il principio dello Sviluppo Sostenibile tra le priorità imprescindibili dell’Unione Europea, includendolo tra gli obiettivi della promozione per politiche ambientali e di altri obiettivi come: lotta alla criminalità; promuovere il più alto livello occupazionale; delineare la politica sociale; potenziare la difesa dei consumatori; assicurare maggiore trasparenza dell’attività delle istituzioni comunitarie.

196 A livello internazionale queste tematiche sono all’ordine del giorno al Vertice di Rio del 1992.

197-Il Primo Programma comunitario d’Azione per l’Ambiente fu approvato con la Dichiarazione del Consiglio del 22 novembre del 1973 (GUCE, n. C/112, 20 dicembre 1973, p. 1 e ss.), in seguito alla Conferenza Mondiale sull’Ambiente Umano, tenutasi a Stoccolma nel 1972.

198 Il Rapporto della Commissione Bruntdland, pubblicato nel 1987 con il titolo “Il nostro futuro comune” e recepito dall’ONU nel 1989 con la risoluzione 228 dell’Assemblea

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sostenibilità diventa la cornice teorica di un modello che deve necessariamente abbracciare tutte le discipline che concorrono a formarlo: politiche, sociali, organizzative ecc. Solo con una visione d’insieme da parte di tutti gli attori coinvolti in tutti i settori dell’agire umano, si potrà integrare il principio della sostenibilità, realizzando uno sviluppo che guardi lontano e consenta alle future generazioni di poter fruire delle stesse opportunità che ha l’uomo contemporaneo.

L’Unione, alla fine del percorso dianzi proposto, ha quindi riconosciuto la sostenibilità come missione, da attuarsi nel rispetto “dei principi della precauzione e dell’azione preventiva, della correzione, in via prioritaria alla fonte, dei danni causati all’ambiente, nonché sul principio di chi inquina paga”199.

Il primo vero documento d’intenti prodotto dalla comunità internazionale è l’Agenda 21200, che indica le misure da intraprendere per il

Generale. Esso ha introdotto il concetto ed il termine di “Sviluppo sostenibile”, ovvero di un diverso tipo di sviluppo che, pur venendo incontro alle esigenze umane attuali, non danneggi il delicato equilibrio degli ecosistemi che rendono possibile la vita sulla Terra e non comprometta la possibilità delle generazioni future di soddisfare le proprie esigenze. la Conferenza delle Nazioni Unite su Ambiente e Sviluppo o “Earth Summit” svoltasi a Rio de Janeiro dal 3 al 14 Giugno 1992 ha affrontato il problema della necessità di cambiare il modello di sviluppo preesistente al fine di avviare un piano globale di “sviluppo sostenibile”; nell’occasione sono stati approvati due documenti legalmente vincolanti, “Convenzione sul clima” e “Convenzione sulla biodiversità”. Sono stati approvate due dichiarazioni di princìpi, “Princìpi sulle foreste” e “Dichiarazione di Rio” la quale, nello specifico, afferma che per avviare un processo di sviluppo sostenibile occorre cambiare i modelli di produzione e consumo, adottare nuove misure legislative in materia ambientale, internalizzare i costi ambientali, eseguire sistematicamente la valutazione di impatto ambientale, applicare il princìpo precauzionale, nonché “Agenda XXI”, strategia del ventunesimo secolo per lo sviluppo sostenibile. Estratto dal Documento della Presidenza del Consiglio dei Ministri conferenza stato – regioni, seduta del 19 aprile 2001.

199-Cfr. il documento Politiche ambientali e principi generali dell’UE. L’Italia ha approvato il 28 Dicembre 1993 in sede CIPE il piano di attuazione dell’Agenda XXI quale documento programmatico per le scelte di governo. il Consiglio delle Comunità Europee ed i rappresentanti dei Governi degli Stati membri delle Comunità Europee hanno adottato in data 1 Febbraio 1993 una Risoluzione riguardante il programma comunitario di politica ed azione a favore dell’ambiente e di uno sviluppo sostenibile (Per uno sviluppo durevole e sostenibile - 5° Programma d’Azione). Tale programma affermava al punto 4 del Sommario: «La realizzazione dell’equilibrio auspicato tra attività umana e sviluppo da un lato e protezione dell’ambiente dall’altro richiede una ripartizione delle responsabilità chiaramente definita rispetto ai consumi e al comportamento nei confronti dell’ambiente e delle risorse naturali. Ciò presuppone l’integrazione delle considerazioni ambientali nella formulazione e nell’attuazione delle politiche economiche e settoriali, nelle decisioni delle autorità pubbliche, nell’elaborazione e nella messa a punto dei processi produttivi e, infine, nel comportamento e nelle scelte del singolo cittadino».

200 Agenda 21 costituisce uno degli impegni assunti da 178 paesi di tutto il mondo, in occasione della Conferenza delle Nazioni Unite sull’Ambiente e lo Sviluppo (UNCED),

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XXI secolo. Si tratta di una “road map” di azioni a livello mondiale e locale, che hanno lo scopo di affrontare e risolvere le problematiche ambientali ed economiche, con l’obiettivo di creare un modello concreto di sviluppo sostenibile.

Nel documento vengono trattati i temi chiave per la sostenibilità, definiti gli obiettivi ed i principi a cui dovranno ispirarsi le azioni da intraprendere per il raggiungimento degli stessi. Le azioni sono accompagnate da scadenze temporali limitate, onde valutare ed eventualmente effettuare correzioni in caso di mancato raggiungimento dell’obiettivo prefissato. Agenda 21 è strutturato in 40 capitoli, diviso in quattro parti e le principali questioni affrontate possono essere così elencate:

Necessità di cambiare l’attuale modello di sviluppo (Capitolo 4);

Integrare nel quadro legislativo e decisionale degli stati, nonché nel mercato e nella contabilità nazionale, tutte le questioni ambientali e sociali (Capitolo 8);

La metropoli e le grandi città segnate da gravissimi problemi ambientali, legati allo smog ed all’inquinamento in genere (capitolo 7);

Il deterioramento delle risorse naturali come acqua, aria, suolo (Capitolo 18, 9, 10);

Il problema dei rifiuti (Capitolo 21);

L’educazione, la formazione e la sensibilizzazione ai temi ambientali (Capitoli 36 e 40);

Il coinvolgimento dei principali attori locali nella pianificazione e nell’attuazione del processo di sviluppo sostenibile (Sezione III).

svoltasi a Rio de Janeiro nel giugno del 1992. Essa rappresenta un documento programmatico-progettuale approvato per rispondere in modo efficace alle crisi prodotte dal degrado ambientale. Esso è suddiviso in quattro parti: dimensione economica e sociale; conservazione e gestione delle risorse per lo sviluppo; rafforzamento del ruolo degli attori sociali; strumenti di attuazione. L’Agenda 21, in particolare, contiene un programma d’azione operativo e invita i governi ad avviare un processo di sviluppo sostenibile, secondo i principi espressi nella Dichiarazione di Rio, da attuare nel corso del secolo ventunesimo.

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Particolarmente interessante risulta, infine, il ruolo degli enti locali. Nel Capitolo 28 si raccomanda che: Ogni autorità locale deve aprire un dialogo con i propri cittadini, con le associazioni locali e con le imprese private e adottare una Agenda 21 Locale. Attraverso la consultazione e la costruzione di consenso, le autorità locali possono imparare dalla comunità locale e dalle imprese e possono acquisire le informazioni necessarie per la formulazione delle migliori strategie. Il processo di consultazione può aumentare la consapevolezza ambientale delle famiglie. I programmi, le politiche e le leggi assunte dall’amministrazione locale potrebbero essere valutate e modificate sulla base dei nuovi piani locali così adottati.

Queste strategie possono essere utilizzate anche per supportare le proposte di finanziamento locale, regionale ed internazionale201.

Gli enti locali rappresentano il livello di amministrazione più vicino ai cittadini e molti problemi di carattere ambientale possono avere una soluzione locale. Per questi motivi viene ad essi riconosciuto un’importante funzione di programmazione, di sviluppo, indicazione delle linee guida, di predisposizione di regolamenti, di coordinamento di politiche di sviluppo del territorio, di amministrazione, di infrastrutture ambientali e via dicendo; insomma il piano di Agenda 21 dovrà essere attuato anche localmente.

Il risultato delle sollecitazioni e delle spinte di Agenda 21 è stato la prima “Conferenza europea sulle Città sostenibili” tenuta ad Aalborg nel 1994, nella quale viene approvata la Carta di Aalborg: “Carta delle città europee per uno sviluppo durevole e sostenibile”. Essa costituisce una presa d’atto ed un impegno ad attuare le azioni previste da Agenda 21, sia a livello locale che nazionale. Hanno partecipato alla conferenza circa 250 Paesi, istituzioni scientifiche, associazioni, imprenditori, liberi cittadini, ed è indubbio che essa sia stata un evento globale teso al coinvolgimento di tutti gli attori che hanno un ruolo cardine nella sostenibilità. Dopo Aalborg la comunità internazionale si è data appuntamento a Lisbona nel 1996, dove si è tenuta la 2° Conferenza Europea sulle Città Sostenibili. In questa occasione fu approvato il “Piano d'azione di Lisbona”, che tracciava i bilanci dei progressi compiuti a partire dalla 1° Conferenza di Aalborg. Nel “Piano” c’era anche la previsione di una Local Agenda 21 dedicata alle modalità di realizzazione del medesimo a livello locale. Nel 2000 ad Hannover si tenne la 3° “Conferenza Europea sulle Città Sostenibili”, dove viene elaborato “l’appello di Hannover delle autorità locali”. Dalla conferenza non emergono novità rilevanti rispetto alle precedenti, tuttavia, essa servì a rilanciare l’impegno a continuare nel percorso tracciato ad Aalborg, oltre le soglie del XXI secolo.

201-Cfr. E. Maria Tacchi, Sostenibilità ambientale e partecipazione. Modelli applicativi ed esperienze di Agenda 21 Locale in Italia, Franco Angeli, 2004, pp. 93-96 e 98.

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Questa ricostruzione testimonia come fin dall’inizio l’UE abbia riconosciuto grandi potenzialità alle autorità locali202. La parola d’ordine è “pensare globalmente e agire localmente”. I problemi dell’ecosistema interessano tutta l’umanità e non singole comunità, ma devono essere risolti anche attraverso interventi pensati nelle realtà locali, tramite una programmazione che pone alla base di ogni politica di sviluppo il rispetto dell’ambiente ed il paradigma della sostenibilità.

La politica ambientale dell’Unione ha come fonte una serie di Programmi d’Azione elaborati per proteggere l’ambiente e per prevenire azioni dannose per l’ecosistema. Tali programmi costituiscono il quadro di riferimento del diritto ambientale. Il Quinto Programma d’Azione è, per l’analisi elaborata, quello di maggiore interesse. Esso segnò, infatti, la nascita di un nuovo orientamento dell’UE, che introdusse le questioni ambientali nei programmi di sviluppo economico e sociale, adottando politiche nuove sull’amministrazione e gestione delle risorse, in linea con gli obiettivi di difesa del pianeta. Noto con il nome di “Programma comunitario per l’ambiente e lo sviluppo sostenibile e rispettoso dello stesso” è stato approvato dal Consiglio il 16 dicembre 1992, a seguito della riforma dei Trattati di Roma, attuata con i trattati di Maastricht e di Amsterdam. Le basi giuridiche per la politica comunitaria dell'ambiente trovano collocazione dagli articoli 174-176 (130 R - 130 T) CE.

Il merito del Programma è stato quello di interpretare le problematiche ambientali in modo orizzontale, inserendole in un quadro di azioni più ampio che le correlava ad interventi di tipo economico, sociale ed amministrativo. Venivano fissati obiettivi e strategie da attuare con urgenza per modificare il degrado ambientale emerso in modo inequivocabile dopo la pubblicazione della Relazione sullo stato dell’ambiente effettuata dall’Agenzia Europea per l’Ambiente .

Il successo del Programma doveva necessariamente passare per la presa di coscienza di tutti gli attori coinvolti: dagli stati membri, alle comunità locali, ai singoli cittadini. Ognuno era chiamato a fare la sua parte, assumendosi la responsabilità del proprio comportamento al fine di progredire nella direzione di uno sviluppo sostenibile. Ed è proprio nel rispetto del principio di condivisione di responsabilità che risiede la vera novità del Programma ed anche il principale ostacolo alla sua realizzazione. L’agire individuale e collettivo per essere orientato, doveva essere stimolato da una pressante azione di informazione e di sensibilizzazione.

202 L’obiettivo prioritario delle diverse Agenda 21 locali è quello di elaborare un vero e proprio programma d’azione capace di determinare effetti positivi sulle condizioni ambientali globali, attraverso il coinvolgimento degli attori locali, anche con particolare riguardo all’attività di formazione ed educazione dei cittadini in materia di sostenibilità.

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Come al solito prima che politico, il problema è di natura culturale, investendo non solo tradizioni e usi dei singoli Paesi, ma anche la sfera comportamentale di ogni singolo individuo.

Il Programma individuava sei aree tematiche, che si presentavano però foriere di rischi rispetto alla realizzazione dello sviluppo sostenibile all’interno della Comunità:

1) il cambiamento climatico;2) i rischi per la salute pubblica;3) la sollecitazione sulle risorse naturali d’importanza vitale;4) la povertà e l’emarginazione sociale;5) l’invecchiamento della popolazione;6) l’inquinamento e congestione del traffico.

Come è facile intuire, se il nodo del problema è in primis di natura culturale, perché vi siano dei risultati apprezzabili, occorre che gli attori coinvolti “metabolizzino” i principi fondamentali ispiratori del Programma, facendo propri gli obiettivi alla base delle strategie. Non c’è da stupirsi pertanto se la Valutazione del Programma d’Azione aveva messo in luce lo scarso coinvolgimento delle parti interessate ed un quasi completo fallimento del piano. Per questi motivi, insieme all’aggravarsi delle questioni ambientali, le Istituzioni dell’UE ritennero opportuno ridefinire gli obiettivi, le politiche e gli strumenti d’azione, anche per recepire gli obblighi comunitari imposti da nuovi Trattati.

Si rendeva indispensabile, pertanto, una revisione del Programma che offrisse una maggiore protezione degli ecosistemi naturali, della qualità della vita, includendo obiettivi qualitativi e quantitativi in modo coerente con le altre politiche comunitarie. Da queste premesse nasce Il Sesto Programma d’Azione Ambientale, intitolato “Ambiente 2010: il nostro futuro, la nostra scelta”. Vengono individuate quattro priorità:

1) affrontare il cambiamento climatico e il riscaldamento globale;2) proteggere l’habitat naturale e la natura;3) affrontare questioni ambientali e sanitarie;4) difendere le risorse naturali e gestione dei rifiuti.

Merito del Programma è sviluppare ed estendere l’approccio interdisciplinare, che lega ambiente, economia, competitività ed occupazione. Si punta a raggiungere, entro il 2010, quei risultati concreti già elencati nel Quinto Programma attraverso la piena attuazione della

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legislazione ambientale esistente, verificandone l’impatto con le altre politiche dell’Unione.

Il Sesto Programma, per poter essere maggiormente incisivo ed efficace, propone di reimpostare la politica ambientale sulla base di tre precise priorità:

i) il miglioramento dell’attuazione e del controllo della normativa comunitaria in materia di ambiente, compresa l’integrazione dei requisiti ambientali in altre politiche comunitarie;

ii) l’apporto di nuove istanze, nonché la risoluzione dei problemi che non hanno trovato adeguata soluzione attraverso le azioni politiche passate. Fra le questioni ambientali affrontate in modo insufficiente, vengono inoltre indicate il cambiamento climatico, la biodiversità, l’uso efficace e la gestione delle risorse naturali, la gestione dei rifiuti, i rischi dei prodotti chimici e degli OGM, il degrado del suolo e la desertificazione;

iii) la necessità di focalizzare l’attenzione sulla ricerca di soluzioni efficaci dei problemi ambientali mondiali e sul rapporto tra la liberalizzazione del commercio e la protezione dell’ambiente.

Vengono inoltre definite quattro principali aree d’intervento:

1. cambiamento climatico: stabilizzare la concentrazione atmosferica di gas serra ad un livello che non causi variazioni innaturali del clima terrestre;

2.pnatura e biodiversità: proteggere e, se necessario, risanare il funzionamento dei sistemi naturali e arrestare la perdita di biodiversità sia nei paesi dell’Unione che a livello mondiale;

3. ambiente e salute: ottenere una qualità dell’ambiente tale che i livelli contaminanti di origine antropica, compresi i diversi tipi di radiazioni, non diano adito a conseguenze o a rischi significativi per la salute umana;

4. uso sostenibile delle risorse naturali e gestione dei rifiuti: garantire che il consumo di risorse rinnovabili e non rinnovabili e l’impatto che esso comporta non superi la capacità di carico dell’ambiente e dissociare l’utilizzo delle risorse dalla crescita economica, migliorando sensibilmente l’efficienza delle risorse stesse, dematerializzando l’economia e prevenendo la produzione di rifiuti.

Per intervenire significativamente in queste aree, l’UE ha proposto di indirizzare le proprie azioni secondo i seguenti approcci: implementazione della legislazione ambientale esistente, mediante una politica di informazione pubblica dei casi di inadempienza, accanto a una rinforzata

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azione da parte della Corte di Giustizia europea; integrazione delle problematiche ambientali nelle altre politiche settoriali, la cui riuscita deve però misurarsi anche attraverso l’utilizzo di appositi indicatori; stretta collaborazione con imprenditori e consumatori, al fine di creare modelli di produzione e consumo più sostenibile; maggiore attenzione all’informazione ambientale per i cittadini, per sviluppare un reale interesse dell’opinione pubblica in questo settore; adozione di decisioni più responsabili in materia di assetto e gestione territoriale, attraverso la promozione di prassi eco-compatibili e l’utilizzo di Fondi Strutturali.

Per quanto riguarda le aree di intervento individuate, tuttavia, l’Unione riconosce l’esistenza di questioni che ancora devono essere risolte.

A tal fine, quindi, risulta fondamentale anche l’introduzione di modifiche strutturali, in particolare nei settori dei trasporti e dell’energia, orientate verso una maggiore efficienza e un maggior risparmio energetico.

Nel campo delle risorse naturali e della tutela delle biodiversità è stata individuata la questione di proteggere e ripristinare il funzionamento dei sistemi naturali, in particolare difendendo il suolo dall’erosione e dall’inquinamento.

Per il raggiungimento di tale obiettivo risulta necessaria l’integrazione delle problematiche relative alla biodiversità nelle politiche agricole, territoriali, di silvicoltura e marine.

In questo campo, il Sesto Programma prevede nuove iniziative, in particolare per la protezione del suolo, la salvaguardia dell’ambiente marino, la prevenzione degli incidenti industriali e minerari.

Al fine di salvaguardare l’ambiente e la salute umana viene sottolineato l’obiettivo di ottenere una qualità ambientale in misura tale che il livello dei contaminanti di origine antropica, compresi i diversi tipi di radiazioni, non generi impatti o rischi significativi per la salute umana. La consapevolezza che la salute dell’uomo sia legata in qualche modo alla qualità dell’ambiente, ha favorito politiche di azione, di prevenzione dei rischi, in particolare, su bambini e anziani. A tal proposito, deve essere dedicata particolare attenzione all’attuazione delle direttive quadro sulle acque, sul rumore ed alla revisione del sistema comunitario di gestione dei rischi delle sostanze chimiche. L’uso sostenibile delle risorse naturali e la gestione dei rifiuti rappresentano anche due settori fondamentali per la realizzazione di uno sviluppo sostenibile.

Nel Sesto Programma viene ritenuto necessario, quindi, garantire che il consumo delle risorse rinnovabili e non, sia comunque rispettoso della capacità di carico dell’ambiente. Si è puntato ad un aumento di efficienza delle risorse, alla dematerializzazione dell’economia e alla prevenzione dei problemi legati al ciclo dei rifiuti.

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Per ottenere questi risultati, senza tuttavia compromettere la competitività delle imprese europee, è stato opportuno incentivare politiche integrate di prodotto, per favorire il riciclaggio ed il recupero dei materiali dei rifiuti. Inoltre, il nuovo Programma si riferisce al periodo in cui era previsto l’allargamento dell’UE e quindi è applicato anche ai nuovi Stati membri. Da questi, infatti, l’UE esige la completa attuazione della legislazione ambientale vigente, insieme al dialogo con gli enti locali, ONG ambientaliste e comunità imprenditoriali dei Paesi membri.

Il Sesto Programma d’Azione per l’Ambiente definisce, in sostanza, le priorità dell’Unione Europea fino al 2010, mettendo in evidenza i settori che richiedono un intervento diretto da parte delle sue istituzioni.

Per realizzare tali priorità vengono proposte così alcune linee d'azione che poggiano su determinate strategie tematiche. Queste ultime rispondono all’obiettivo di razionalizzazione e di modernizzazione, favorendo flessibili quadri giuridici e progetti strategici, sempre nell’ottica di una politica integrata. Si tratta, ad esempio, di sviluppare un mercato dei prodotti più ecologico, e capace di rendere i prodotti stessi maggiormente compatibili con l’ambiente, nell’arco dell’intero ciclo di vita.

L’integrazione ambientale è pertanto una modalità innovativa che punta a superare la contraddizione tra sviluppo economico e tutela dell’ambiente, dove le azioni stesse di tutela non vengono più considerate come settoriali e riparatrici degli impatti negativi dello sviluppo. Integrando le questioni ambientali in modo trasversale, a monte della formazione delle politiche per lo sviluppo economico, è possibile non solo prevenire o limitare i danni, ma soprattutto permette di individuare proprio nell’ambiente il motore della competitività e dello sviluppo.

Il nuovo Piano d’Azione, oltre però ad individuare nello sviluppo economico e sociale, nella tutela ambientale e nell’integrazione ambientale i pilastri fondamentali dello sviluppo sostenibile, ha rafforzato il principio della responsabilità comune, sottolineando la necessità di un impegno maggiore e di azioni più concrete a tutti i livelli di governo. In particolare, si focalizza l’attenzione sulla dimensione locale, considerata oggi come livello ottimale in termini di prossimità, efficienza e dimensione spaziale per l’elaborazione e l’attuazione delle politiche per lo sviluppo sostenibile.

3.3 La strategia europea da Göteborg a Johannesburg

Una data importante per le strategie dell’Unione, direzionate allo sviluppo, alla coesione sociale, alla tutela dell’ambiente, all’istituzione di un’economia fondata sulla conoscenza, è il marzo 2000 con la conferenza

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di Lisbona. Qui i capi di governo dell’Unione si sono riuniti per darsi un programma chiaro; definendo obiettivi, modalità e tempi di realizzazione. Era necessario sostenere i nuovi Stati membri, aiutarli a recuperare competitività economica, a rimuovere i vincoli che ostacolavano lo sviluppo orientandolo sul difficile, ma necessario sentiero della sostenibilità. Così facendo si auspicava un generale equilibrio tra i Paesi dell’UE, attraverso il sostegno di quelli rimasti indietro e con un’economia ancora debole.

La Strategia di Lisbona si basava, pertanto, su un obiettivo molto ambizioso che, per essere brillantemente centrato, occorreva mettere in campo politiche miranti a:

i) favorire il passaggio ad una vera economia competitiva e dinamica. Sostenere la nascita e lo sviluppo di una società basata sulla conoscenza attraverso il miglioramento delle dinamiche di trasferimento e di conoscenza delle informazioni e di ricerca e sviluppo. Continuare a velocizzare il processo di riforma strutturale per aumentare competitività e innovazione. Migliorare l’efficienza del mercato interno;

ii) investire sulla risorsa uomo, attraverso la sua formazione e lo sviluppo di competenze e abilità. In questo quadro è opportuno incoraggiare processi di formazione continua anche dopo l’acquisizione di titoli di studio. Apprendere, aggiornarsi, lungo tutto l’arco della vita lavorativa sono necessari per aumentare l’efficienza della forza lavoro e per la realizzazione di una vera società basata sulla conoscenza. Corollario a questa azione è la lotta alla disoccupazione ed all’esclusione sociale. Persone competenti hanno indubbiamente maggiori chance di inserirsi nel mercato del lavoro, garantendo un generale miglioramento dell’impresa, che può contare su personale valido e preparato. Bisogna poi favorire un diverso modello di welfare, ossia uno stato sociale attivo che protegga gli individui dai rischi economici e sociali, assicurando un reddito sufficiente e dignitoso, annullando ogni forma di discriminazione. Si devono garantire uguali opportunità riducendo le forti disuguaglianze nella distribuzione della ricchezza;

iii) favorire un sano ed equilibrato contesto economico che sia sostenuto da adeguati tassi di crescita.

Questi in sintesi, i principali pilastri su cui si fondava la Strategia di Lisbona. La data di riferimento per valutare il raggiungimento degli obiettivi era il 2010. Il grande limite di Lisbona fu però, quello di aver

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accantonato la questione ambientale. Sono state poste in essere riforme strutturali per l’occupazione, l’innovazione, la crescita dei Paesi membri, ma senza inserire le politiche in un quadro più ampio e generale che ne determini i confini, come è indubbiamente la sostenibilità, rischiando di vanificare gli sforzi compiuti in passato, risolvendo problematiche contingenti, ma con il pericolo di aggravare la salute del pianeta e dell’uomo. Il Consiglio Europeo a Lisbona, infatti, aveva rafforzato il coordinamento delle politiche economiche, nonché dato vita a politiche di integrazione tra misure che interessavano singoli e diversi settori, ma non era riuscito a calibrare la strategia di crescita con l’esigenza di tutela dell’ambiente.

Sarà a Göteborg che il concetto di sviluppo sostenibile troverà accoglienza tra le priorità europee. Durante la conferenza nella città svedese, tenutasi nel 2001, i rappresentanti dei governi dell’Unione accolsero il principio secondo il quale crescita economica e rispetto dell’ambiente si devono muovere parallelamente, non potendosi immaginare politiche di sviluppo, se queste non siano al contempo sostenibili: un risultato di portata storica, capace di caratterizzare la filosofia politica dell’Unione e di orientare le misure previste nei primi anni del terzo millennio, alla luce di una strategia che concili appunto, sviluppo e ambiente.

Possiamo definire la Strategia di Göteborg come un’integrazione di quella di Lisbona, varata l’anno precedente. La sostenibilità diventa quel quadro di riferimento entro il quale programmare politiche di sviluppo, di coesione sociale e di crescita dell’Unione. Quindi, non vi è solo semplice attenzione alle questioni ambientali, ma un’idea programmatica profonda, tesa a considerare interconnesse, nel lungo periodo, sostenibilità, giustizia sociale e sviluppo.

La Strategia individua delle aree d’intervento, che rappresentano le sfide a cui l’Unione dovrà dare una risposta. Tali aree possono essere sintetizzate:

i) lotta ai cambiamenti climatici: l’impegno a centrare gli obiettivi stabiliti dal Protocollo di Kyoto e portare, entro il 2010, il consumo di energie rinnovabili al livello del 20% dell’intero consumo lordo di elettricità;

ii) garantire la sostenibilità dei trasporti: revisionare le reti trans-europee, garantendo un trasporto adeguato alle esigenze dei cittadini attraverso un contenimento dei costi ed una maggiore efficienza del servizio;

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iii) affrontare le minacce per la sanità: il punto mira ad affrontare tutte quelle problematiche relative alla sanità, in particolare con una rete europea di sorveglianza, con il controllo sugli alimenti, con misure per attenuare il sorgere di malattie infettive, ecc.

iiii) gestire le risorse naturali in maniera più responsabile: si punta a gestire le risorse in maniera sostenibile attraverso un’accurata programmazione. Inoltre, vanno implementate politiche per lo smaltimento dei rifiuti, favorendo un ciclo attivo che sostenga il riciclaggio dei materiali. Nell’ambito di quest’azione, l’Unione s’impegna ad attuare una riforma della Politica Agricola Comunitaria (PAC), in modo da sostenere quelle buone pratiche rispettose del territorio e dell’ambiente.

Per conseguire gli obiettivi fissati, in ottica di sviluppo sostenibile, dovranno essere modificate e migliorate modalità e coordinamenti tra le politiche comunitarie. La strategia in proposito prevede:

- Migliorare la coerenza tra le politiche: le azioni dovranno essere ispirate dalla logica della sostenibilità, valutando i rischi e l’impatto delle politiche proposte sia nell’UE che nel resto del mondo.

- Garantire prezzi giusti per dare un segnale ai cittadini e alle imprese: i prezzi giusti sono una grande opportunità per le imprese, che saranno incentivate a fornire prodotti e servizi poco dannosi per l’ambiente.

- Investire nella scienza e nella tecnologia per il futuro: attraverso l’innovazione si potranno implementare tecnologie efficienti che utilizzano in misura minore risorse naturali, ovvero riducono inquinamento e conseguentemente i rischi legati alla sicurezza ed alla salute dell’uomo.

- Migliorare la comunicazione e mobilitare i cittadini e le imprese: lo sviluppo sostenibile dovrà entrare nella sensibilità di un maggior numero possibile di cittadini. Si avrà il beneficio di realizzare una coscienza comune sia individuale che collettiva tale da favorire l’attecchire della sostenibilità in tutti gli strati della società. È opportuno recuperare la fiducia nella scienza, che dovrà dare un significativo contributo al processo decisionale politico in alcuni settori. In questo senso, le decisioni politiche dovranno essere assunte in modo trasparente e chiaro.

- Tener conto dell’allargamento e della dimensione globale: le azioni poste in essere dovranno tener conto non solo degli effetti ricadenti nell’ambito dei Paesi comunitari, ma anche dell’ingresso di nuovi Stati e della dimensione globale. In tal modo si possono facilmente analizzare gli effetti delle politiche ambientali sui livelli di competitività ed il ruolo che potrà avere l’innovazione tecnologica.

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Il metodo che emerge dalla Strategia è fondato sulla ricerca e la diffusione di best practices. Ogni politica sarà la risultante di obiettivi definiti con chiarezza e coerenza, frutto di un processo di consultazione tra tutti gli attori coinvolti. Attraverso queste modalità, le misure adottate potranno adeguatamente rispondere all’esigenza di correlazione tra effetti economici, sociali ed ambientali. In tal modo, l’impatto di ogni singola azione sarà valutato da più punti di vista, ponendo l’enfasi sul risultato complessivo: maggiore competitività e sviluppo sociale nel rispetto dell’ambiente.

La Strategia, nell’idea dell’UE, dovrà promuovere la sostenibilità su scala mondiale, ponendosi come vera e propria linea guida in un’ottica di collaborazione internazionale. Il Vertice di Johannesburg del 2002 rappresenta il primo esempio del rinnovato atteggiamento politico dell’Unione. Essa ha avuto un ruolo chiave nel promuovere tra gli Stati aderenti, politiche di sviluppo sostenibile, in particolare, dopo la presa d’atto della comunità internazionale, degli insoddisfacenti risultati raggiunti a distanza di dieci anni dal vertice di Rio.

A Johannesburg l’UE presentò due Comunicazioni contenenti le linee guida approvate a Göteborg, dal titolo Dieci anni dopo Rio: prepararsi al vertice mondiale sullo sviluppo sostenibile del 2002, e Verso un partenariato globale per uno sviluppo sostenibile. La ricerca di una cooperazione efficiente ed efficace in favore della sostenibilità, maggiore equità tra i Paesi del mondo e l’introduzione di misure di sviluppo correlate ad obbiettivi ambientali, sono state l’oggetto dei documenti messi in luce dall’Unione. Si auspicava, inoltre, un sistema di controllo internazionale sul rispetto delle misure adottate dagli Stati nazionali.

Il ruolo assunto dall’Europa, come si può constatare, è stato fondamentale nell’ identificare obiettivi e rischi, al fine di portare a termine con successo gli impegni assunti a Rio. Sinteticamente l’UE si è impegnata per:

completare le azioni presenti in Agenda 21; il lancio di 300 partnership, sia pubbliche che private per realizzare

su base locale lo sviluppo sostenibile, in modo da sostenere con un sistema di collaborazioni gli sforzi sorretti dai governi;

la riduzione della popolazione che non può usufruire dei servizi sanitari di base entro il 2015;203

203 Si tratta dell’iniziativa Water for life, per favorire l’accesso all’acqua ed ai servizi sanitari alle popolazioni più povere del globo. In particolare in Africa ed in Asia centrale.

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l’abbattimento dei danni sulla salute umana causati dalla produzione e consumo di prodotti chimici entro il 2020;

l’attivazione delle misure di sviluppo sostenibile a livello di singoli Stati entro il 2005;

la salvaguardia e la tutela della biodiversità al 2010; preparare programmi quadro decennali, nei quali i Paesi

industrializzati coordineranno azioni per favorire lo sviluppo sostenibile;

aumentare il consumo di energie rinnovabili.

Per concludere, a Johannesburg l’UE sottolineò la necessità di raggiungere gli obiettivi fissati per lo sviluppo sostenibile attraverso nuove azioni e programmi di maggiore efficacia. Il tentativo era quello di bilanciare ed equilibrare legittime istanze di crescita economica, con sviluppo sociale ed ambientale. A maggior ragione, per aumentare la credibilità a livello internazionale la stessa Europa si è impegnata ad andare oltre gli obiettivi ed i programmi del vertice, fissando traguardi ulteriori e maggiormente ambiziosi.

Con Johannesburg, al di là dei risultati raggiunti, prende corpo in modo netto la vocazione alla sostenibilità dell’Unione, che punta ad assumere un importante ruolo d’influenza sulla comunità internazionale, richiamata e spronata al rispetto degli impegni assunti nel vertice.

3.4 La via europea per uno sviluppo sostenibile di qualità

La strategia di Lisbona si basava su obiettivi coerenti e specifici individuati rispettivamente nel:

- raggiungere un tasso medio di crescita economica del 3% circa;- portare il tasso di occupazione al 70%;- far arrivare il tasso di occupazione femminile al 60%.

Con il Consiglio Europeo di Göteborg, nel giugno del 2001, si era ribadito che i risultati di Lisbona dovevano essere realizzati in un’ottica di sviluppo sostenibile. Nei successivi Consigli, l’Europa aveva posto l’accento sullo sviluppo di una società dell’informazione unito ad uno spazio europeo della ricerca. Pertanto non solo sviluppo, ma attenzione all’innovazione, alla ricerca, agli aspetti sociali attraverso un modello moderno di welfare; attenzione dunque, a misure che dello sviluppo, ma anche della sostenibilità, costituiscono ingredienti imprescindibili.

213

I risultati registrati erano stati però deludenti.204 Ed ecco, dunque, che a partire dal 2004 si aprì una nuova stagione delle politiche europee in favore della sostenibilità. Gli obiettivi erano molto ambiziosi e al tempo stesso perentori: rafforzamento della coesione sociale all’interno dell’UE, estensione del potenziale di produttività per sostenere una crescita decisa ed una maggiore competitività. Vennero individuate le azioni per favorire il cambiamento, riconoscendo nell’innovazione tecnologica, nella formazione professionale continua, volta ad elevare culturalmente e potenziare le competenze dei lavoratori dell’UE e nella valorizzazione del capitale umano, la chiave per aprire letteralmente “le porte” di una società progredita e moderna.

Si programmò dunque, per raggiungere quegli obiettivi, un’ingente mobilitazione di risorse in più campi, da quello economico a quello sociale, fino ad includere quello ambientale. La strategia adoperata mirava a risolvere problemi con un approccio sistemico in grado di aderire alla complessità della realtà e delle sfide intraprese. Ciò emerge maggiormente analizzando il testo del 2005 proposto dalla Commissione205. sulle finalità delle scelte strategiche miranti a realizzare “lo sviluppo sostenibile dell’Europa, basato su una crescita economica equilibrata e sulla stabilità dei prezzi, su un’economia sociale di mercato fortemente competitiva, che mira alla piena occupazione e al progresso sociale, e su un elevato livello di tutela e di miglioramento della qualità ambientale”.

Il testo è particolarmente significativo anche perché ridefinisce le priorità ed integra la definizione di Sviluppo sostenibile, o meglio, per essere più precisi, esplica il significato che lo stesso ha per l’Europa. Sviluppo sostenibile nelle politiche della commissione implica, pertanto, non solo conservazione e qualità dell’ambiente, ma anche piena occupazione, progresso sociale, aumento della competitività e crescita economica equilibrata. Il sostegno alla ricerca viene poi indicato come la priorità tra le priorità, valore aggiunto irrinunciabile nei piani della Comunità.

Un passaggio fondamentale delle nuove azioni è la costruzione di una nuova governance della Strategia di Lisbona, con il compito di promuovere

204 A riprova di quanto detto, l’ex Primo Ministro olandese Wim Kok nel novembre 2004, in un rapporto intitolato, affrontare la sfida sui risultati della Strategia di Lisbona, aveva presentato alla Commissione Europea una serie di posizioni critiche sulla mancanza di un’azione politica determinata, che secondo gli autori del rapporto (alcuni tra i massimi esperti europei in politiche economiche e di sviluppo), costituiva la causa di maggior rilievo per spiegare l’insuccesso della Strategia di Lisbona.

205-Commissione Europea: Crescita e occupazione, lavorare insieme per il futuro dell’Europa, (COM 24/2005).

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strette sinergie tra Unione, Stati membri, Regioni, Università e Centri di Ricerca, attraverso l’attivazione di istituti innovativi. Il fabbisogno finanziario sarà garantito con lo stanziamento in bilancio 2007-2013, di Fondi Strutturali e di fondi di finanziamento per gli investimenti (BEI).

Nel dicembre del 2005 la Commissione Europea, in una prima ed accurata indagine sui risultati e sulle performance delle nuove azioni, aveva però riscontrato il persistere di quelle criticità a causa delle quali si era provveduto a potenziare e ridefinire la strategia. Problemi come il riscaldamento globale, consumi energetici, sanità pubblica, la povertà, la scarsità delle risorse, la perdita della biodiversità, l’utilizzo poco rispettoso del territorio, l’esclusione sociale ed i trasporti, erano ben lungi da essere risolti e si presentavano in modo difforme in uno stesso Paese e tra Paese e Paese.206

Un quadro, allo stato, poco felice, che spinse l’Unione ad interrogarsi sulla validità degli interventi e sulla necessità di avviare azioni correttive per migliorare in efficienza ed efficacia, in modo da rispettare gli impegni assunti e centrare gli ambiziosi obiettivi definiti. Si arriva così al vertice di Bruxelles del giugno 2006, nel quale il Consiglio Europeo approva una sorta di revisione della Strategia Europea per lo sviluppo sostenibile, accogliendo in essa tutte le osservazioni ed i correttivi dei fattori critici che ne hanno minato il successo.207

206 Il 13 dicembre 2005 è stata adottata dalla Commissione la Revisione del programma con il documento di Riesame della strategia per lo sviluppo sostenibile: una piattaforma d’azione, COM (2005)658.

207-Un estratto dell’importante documento n. 10117/06.; comunicazione della Commissione al Consiglio e al Parlamento Europeo, COM(2006) 583 finale. Bruxelles, 06.10.2006. Dall’inizio degli anni ‘90 in gran parte del mondo si sta assistendo ad una fase di crescita economica mai vista prima. Dal 1994 il consumo mondiale di petrolio è aumentato del 20% e, secondo le previsioni dell’Agenzia internazionale dell’energia (AIE), dovrebbe aumentare ancora dell’1,6% l’anno[1]. Secondo l’AIE la domanda di energia su scala mondiale dovrebbe aumentare di oltre il 60% entro il 2030. Per soddisfare tale fabbisogno si stima che servano investimenti nel settore energetico pari a 16 000 mrd USD nell’arco di 25 anni. Se la situazione degli investimenti rimanesse invariata, si avrebbero non solo importanti problemi in termini di finanziamento ma verrebbe pregiudicata anche la sostenibilità futura, in particolare a livello di:- emissioni di gas serra: in mancanza di cambiamenti, le emissioni di CO2 prodotte dal settore energetico aumenterebbero del 62% entro il 2030 rispetto al 2002, quando invece, nel corso del Consiglio europeo di primavera del 2005, i capi di Stato e di governo dell’UE hanno invocato una riduzione globale minima delle emissioni di gas serra del 15% rispetto ai valori del 1990, che dovrebbe raggiungere auspicabilmente il 50% entro il 2050. Sempre nel 2005 anche i leader del G8 hanno deciso di agire con decisione e hanno approvato il Piano d’azione sui cambiamenti climatici, l’energia pulita e lo sviluppo sostenibile di Gleneagles. La fase di transizione verso un’energia più pulita dovrà essere finanziata grazie ad un maggiore impegno e collaborazione con i regimi di investimenti pubblici e privati che coinvolgono la Banca

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Nella revisione si è insistito sugli aspetti relativi alla crescita, cercando di potenziare tutte quelle misure che avrebbero reso più saldo il legame tra l’aumento di standard di qualità della vita ed aumento di Prodotto Interno Lordo. Si profilò una soluzione che disaccoppiava il concetto di crescita economica da quello di degrado ambientale, riproponendo la formula del precedente Programma d’Azione per l’Ambiente. Lo sviluppo sostenibile proposto avrebbe dovuto, pertanto, configurarsi come una sorta di compromesso tra politiche volte ad aumentare la crescita economica e politiche di salvaguardia ambientale. L’Europa sposta dunque l’accento sul concetto di equilibrio tra le misure, affinché il compromesso risulti, nei limiti del consentito, il più equo possibile sia per gli obiettivi di aumento del PIL, sia per quelli relativi alla tutela dell’ambiente. A tale scopo le priorità sino al 2012 vengono fissate dal Sesto Programma d’Azione per l’Ambiente, in linea con l’esigenza del compromesso equo. Un aspetto interessante del riesame è individuabile nei tre obiettivi trasversali di politica ambientale. Secondo questi, i criteri di politica ambientale dovranno essere integrati in altre aree per valutare gli effetti di alcune misure sulle altre, un controllo sull’attuazione ed infine l’obiettivo trasversale dell’informazione, necessaria e particolarmente pregnante nella predisposizione di una governance efficace per guidare e coordinare gli

mondiale e altre istituzioni finanziarie multilaterali; - qualità dell’aria: a seguito del fenomeno di rapida urbanizzazione registratosi nelle economie emergenti, molte città sono colpite da livelli elevati di inquinamento, con ripercussioni negative sulla salute umana. Per citare un esempio, secondo la Banca mondiale in Cina potrebbero registrarsi 590 000 morti premature dovute all’inquinamento atmosferico in ambito urbano causato dai settori dei trasporti e dell’energia. Per ottenere un cambiamento di rotta è necessario intervenire sugli edifici e sulle centrali elettriche inefficienti sotto il profilo energetico e ricorrere maggiormente a tecnologie a emissioni quasi nulle; - povertà e gestione sostenibile delle risorse naturali: secondo le stime disponibili, nel 2030 nei paesi in via di sviluppo circa 1,4 miliardi di persone non avranno ancora accesso ad un sistema energetico moderno e non diminuirà il numero delle persone che utilizzano le biomasse tradizionali in modo insostenibile per cucinare e riscaldarsi (2,4 miliardi). Secondo l’AIE per ottenere un’elettrificazione del 100% servono ancora investimenti per un totale di 655 mrd USD: si tratta di una cifra enorme per regioni che già ora faticano a reperire capitale; - sicurezza energetica: più del 60% dell’incremento del consumo di energia dovrebbe riguardare il petrolio e il gas, con un ulteriore aumento della dipendenza dalle importazioni di tutte le principali regioni importatrici. La dipendenza dell’UE, ad esempio, dalle importazioni di petrolio e di gas nel 2030 dovrebbe passare, rispettivamente, al 93% e all’81% contro il 79% e il 49% del 2004. La Commissione ha pertanto di recente proposto che un livello minimo del mix energetico complessivo dell’UE provenga dall’utilizzo sicuro e sostenibile di fonti energetiche a basse emissioni di carbonio. La Cina, che per ora è ampiamente autosufficiente, nel 2030 si troverebbe ad importare il 27% del suo fabbisogno di gas. Le forniture di petrolio e di gas del Medio Oriente e della regione nord-africana dovrebbero raggiungere il 44%.

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impegni. Le informazioni sull’ambiente dovranno essere non solo facilmente accessibili a chi ne è interessato, ma costituire una base importante per azioni sinergiche ed elaborazioni politiche che affrontino i problemi con un approccio multidisciplinare.

La Commissione ritiene utile lavorare, inoltre, a stretto contatto con gli Stati membri, in modo da favorire la corretta attuazione della legislazione comunitaria e, almeno in un primo stadio, supportando gli stessi per una più coerente formulazione delle politiche ambientali. In questo quadro si rivela efficace l’apertura del dialogo con il mondo delle imprese e con l’industria per valutare e studiare soluzioni innovative e le strategie capaci di ridurre i costi per la tutela dell’ambiente a livello micro-economico.

Oltre alle misure per così dire di politica interna, l’Unione ha ribadito il suo impegno internazionale in favore dello sviluppo sostenibile, facendosi promotrice di accordi multilaterali e promuovendo tra gli Stati la cultura della salvaguardia ambientale, della lotta agli squilibri economici, della coesione sociale, volti a dare risposte concrete alle questioni che rischiano di compromettere le future generazioni, in particolare i problemi relativi all’approvvigionamento energetico, al riscaldamento globale ed alla lotta alla povertà. È obiettivo dichiarato dell’UE di non porre in essere misure che penalizzino i Paesi in Via di Sviluppo, trasferendo sugli stessi i costi del miglioramento della qualità ambientale dei Paesi industrializzati. In altri termini, sia nelle politiche interne che a livello di accordi internazionali, dovrà essere fatta un’attenta valutazione delle politiche e degli effetti prodotti al fine di evitare rischi di dumping ambientali.208

In via strategica, l’azione dell’UE ha connotato di funzione sociale la salvaguardia dell’ecosistema, così che la stessa possa realmente essere percepita come una grande opportunità, oltre che una necessità di miglioramento del benessere umano. La nuova “Strategia di sviluppo” individua, quindi, quattro obiettivi centrali da perseguire nell’immediatezza, ma validi anche per il futuro:

la tutela ambientale: realizzabile attraverso l’equa compensazione tra istanze di crescita e di salvaguardia ambientale, ma soprattutto cercando di rompere ed arginare gli effetti collaterali del modello economico contemporaneo;

208 Il dumping ambientale è l’effetto collaterale provocato dalle politiche a tutela dell’ambiente che incoraggerebbero le industrie a spostare gli stabilimenti in quei Paesi dove non esiste una legislazione rispettosa della salute dei lavoratori e dell’ecosistema e, se esistesse, comporterebbe meno oneri ed adempimenti.

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l’equità e la coesione sociale: l’obiettivo può essere raggiunto solo attraverso la piena attuazione di politiche democratiche che garantiscono ad ogni cittadino dell’UE le stesse opportunità e le medesime condizioni;

la prosperità economica: il ruolo chiave è la lotta alla disoccupazione e la giusta remunerazione per il lavoro svolto. Solo con una seria politica in favore del lavoro si potrà garantire la prosperità economica;

il rispetto degli impegni internazionali per giungere a una crescita sostenibile in tutto il mondo: abbiamo già accennato del ruolo di protagonista che l’Unione si è data sullo scenario internazionale, facendosi promotrice dello sviluppo sostenibile, della cooperazione internazionale in favore dei Paesi poveri e nell’accortezza del monitoraggio per prevenire eventuali effetti di dumping.

La “Strategia di sviluppo” non si è limitata a definire unicamente gli obiettivi, ma è andata oltre, enunciando azioni, traguardi intermedi e misure concrete affinché gli obiettivi stessi siano realmente raggiungibili. In primo luogo è necessario rallentare il surriscaldamento climatico attraverso la promozione dell’energia rinnovabile e di modelli eco-sostenibili di produzione e di consumo. Deve essere, inoltre, posta in essere una seria programmazione della gestione delle risorse, per rendere il più efficiente possibile il loro sfruttamento; puntare su sistemi di trasporto che favoriscano la mobilità di persone e merci e siano al contempo un mezzo per ridurre impatto ambientale ed inquinamento. Sostenere una sanità pubblica di qualità ed accessibile a tutti, aumentare l’inclusione sociale con azioni di solidarietà e di sostegno per i ceti più deboli e svantaggiati. Occorrerà, ancora, che le politiche dell’Unione e la sua azione a livello internazionale siano coerenti ed in linea con gli obiettivi fissati.

Un ruolo chiave per il raggiungimento degli obiettivi della strategia è affidato a maggiori investimenti in ricerca e sviluppo, nella formazione continua del cittadino, alla possibilità e capacità di aumentare il livello e la qualità dell’informazione all’interno degli Stati membri, alle Agende 21 locali.

La nuova “Strategia di sviluppo” presentava dunque diversi vantaggi ed era pensata per garantire la piena attuazione dello sviluppo sostenibile. Tra le raccomandazioni e tra le misure, si dava rilievo all’azione sinergica tra i principali attori della sostenibilità, promuovendo collaborazioni ed interazioni a vari livelli.

Proprio le interazioni e la valutazione dei risultati attraverso il monitoraggio continuo costituiscono uno dei principali punti di forza della “Strategia di sviluppo”, fornendo al contempo una piattaforma comune per

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favorire la collaborazione tra imprese, cittadini, università, ONG e Istituzioni comunitarie.

Perché sia garantito il monitoraggio ed il controllo, si poneva in essere un articolato sistema di ripartizione delle responsabilità attinenti alla gestione, alla valutazione dei risultati ed al controllo affidati ai vari livelli delle Istituzioni europee. Dal 2007, infatti, la Commissione con cadenza biennale presenterà al Consiglio europeo una relazione sullo stato e sull’avanzamento dei lavori negli Stati membri e nelle Istituzioni. In base ai risultati sarà il Consiglio stesso a valutare il raggiungimento degli obiettivi, i progressi realizzati e le eventuali criticità. Al Consiglio è demandato il compito di fissare gli indirizzi, scegliere le misure correttive e le nuove strategie per il conseguimento dello sostenibilità, anche tenendo conto delle priorità per la crescita, l’occupazione e l’ambiente fissate nella Strategia di Lisbona.

Questo approccio ha il pregio di aumentare la coerenza tra le politiche adottate, in particolare quelle che sono trasversali con politiche energetiche, la coesione sociale, ecc.

In termini concreti viene varato nel 2006 il decalogo per il risparmio energetico ed in particolare nel marzo 2007, il Cancelliere tedesco Angela Merkel si fa promotrice di importanti misure per dare una risposta reale ai cambiamenti climatici ed al riscaldamento globale. Viene approvato su impulso della Merkel il piano dei tre 20% al 2020: riduzione del 20% delle emissioni di CO2; riduzione dei consumi energetici del 20%; copertura dei consumi energetici totali attraverso il ricorso a fonti rinnovabili per una quota del 20%.

Il piano dei tre 20% ha una grande eco negli Stati Uniti; alcuni economisti sono scettici sulle possibilità della UE di raggiungere gli obiettivi, ma a ben vedere, queste posizioni sembrano più rivolte a tutelare l’attuale sistema di consumi energetici americano, più che costituire una puntuale e seria critica.

L’Europa continua nel suo ruolo di capofila nella promozione della sostenibilità e della tutela ambientale. Anche nel resto del mondo la situazione sembra alleggerirsi ed alcuni Paesi eco-scettici cominciano a seguire l’esempio del vecchio continente. È il caso dell’Australia, dove nel dicembre 2007 diventa premier il laburista Kevin Rudd che ratifica immediatamente il Protocollo di Kyoto. Il suo predecessore, il liberale Howard è stato sconfitto alle elezioni, perdendo consensi anche sulle tematiche ambientali poiché accusato da una parte consistente dell’opinione pubblica di non considerare minimamente come un problema ed una priorità la minaccia dei cambiamenti climatici.

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L’eco delle politiche europee toccherà anche la campagna elettorale per le presidenziali americane. Il candidato repubblicano McCain, in controtendenza con George Bush, propone un piano di riduzione del 60% di CO2 e il democratico Obama, salito alla Casa Bianca come Presidente, lancerà un piano a favore dell’energie rinnovabili e del risparmio energetico. Il neo presidente americano, se pur non ha mai rinunciato al programma nucleare, ha chiesto al Congresso di approvare il piano, con un investimento da 160 miliardi di dollari. Gli obiettivi strategici sono di tipo integrato, come nei progetti dell’Unione: rallentare il surriscaldamento del pianeta; aprire nuovi settori produttivi legati alle rinnovabili; creare nuova occupazione (si stimano oltre due milioni di nuovi posti di lavoro).

Tornando in Europa, la sensibilizzazione dei temi sostenibili e le politiche in favore degli stessi hanno indubbiamente avuto il merito di aprire a livello politico il dibattito sul modello di sviluppo. Al di là dei risultati conseguiti dalle politiche comunitarie, si comincia a prendere seriamente in considerazione, vista la crisi dei debiti sovrani, esplosa con particolare rilevanza a partire dal 2010, la ricerca di nuovi indicatori che considerino prioritario lo sviluppo più che la crescita. In questa direzione il Presidente francese Sarkozy ha affidato nel 2009 a tre premi Nobel dell’economia Stiglitz, Sen e Fitoussi209, uno studio per valutare l’adeguatezza dell’indicatore PIL alla luce dei nuovi traguardi da raggiungere e delle minacce da arginare: sviluppo integrale della persona, cambiamenti climatici e crisi energetica.

3.5 La nascita della cultura ambientalista in Italia. Il movimento contro il nucleare

“L’indagine storica in campo ambientale può aiutarci a comprendere molti fenomeni con cui dobbiamo confrontarci oggi e ancor più dovremo in futuro. Questa indagine passa attraverso lo studio di più storie, le quali, nonostante facciano capo a diversi aspetti ecologici, spesso erroneamente ritenuti tali, non sono poi altro che tante facce di un’unica storia, quella dell’avventura del genere umano sul pianeta Terra”210.

Non può esserci introduzione migliore a questa parte del lavoro dedicata all’ambientalismo italiano. Se, infatti, l’affermazione di G. Motta ha una

209 Per una trattazione approfondita si rimanda all’ultimo capitolo del presente lavoro.210-G. Motta, L’ambiente tra storia e diritto. L’Agenzia europea per l’ambiente come

nuovo strumento al servizio dell’ecologia, in G. Motta, a cura di, Paesaggio, Territorio, Ambiente. Storie di uomini e di terre, cit., p. 387.

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valenza universale, cioè estendibile a tutta l’indagine storica in campo ambientale, ci sembra ancor più calzante per le vicende italiane, caratterizzate da tante piccole e grandi storie di uomini e donne; provenienti da diversi ambiti di formazione culturale, che hanno intrecciato il loro percorso dando il “là” al nostrano movimento ambientalista. Pertanto questa parte del lavoro è stata strutturata come una sorta di storia nella storia, poiché rappresenta il modo fecondo per capire le ragioni e il contesto di riferimento dell’ambientalismo italiano.

Dobbiamo premettere che la vicenda italiana presenta delle peculiarità rispetto agli analoghi processi di sensibilizzazione e di movimentismo verde, verificatisi un po’ ovunque negli altri Paesi del mondo. Peculiarità che può essere analizzata partendo da lontano, dalla cultura imperante in Italia e rappresentata a livello politico dai due blocchi contrapposti del Partito Comunista e della Democrazia Cristiana, che hanno dominato la vita politica italiana nei quarant’anni successivi alla conclusione della seconda Guerra mondiale.

Nel PCI “il più grande partito comunista occidentale”, convivevano diverse anime, alcune più riformiste, ma pur sempre nel solco dell’ideologia marxista, considerata come il riferimento imprescindibile per ogni accurato livello di analisi sui fatti sociali e politici che, di volta in volta, il partito si trovava ad affrontare.

Vi era poi la Democrazia Cristiana, che ha guidato il Paese dal dopoguerra fino ai primissimi anni novanta, quando le inchieste di “Tangentopoli”211 hanno minato la stabilità del Partito con la conseguenza di una sostanziale decapitazione del gruppo dirigente. La stessa sorte toccò al secondo partito del centro sinistra, il PSI, con conseguenze di rilievo storico per le successive vicende non solo politiche del nostro Paese.

Da un punto di vista ideologico la Democrazia Cristiana avrebbe dovuto ispirarsi alla dottrina della Chiesa Cattolica, pur mantenendo una posizione di autonomia e laicità. In proposito Alcide De Gasperi in un suo noto discorso tenuto al Consiglio nazionale della Democrazia Cristiana a Fiuggi nel 1949, disse a chiare lettere “A questa «laicità» basta la Costituzione, a cui gli spiriti credenti hanno collaborato votandola così come è, non perché ritenessero che l’invocazione a Dio avrebbe menomata la dignità umana e il

211 Con il termine Tangentopoli si fa riferimento alle inchieste partite dalla Procura della Repubblica di Milano e dirette dal Procuratore Capo Francesco Saverio Borrelli. Che hanno investito noti esponenti politici della Democrazia Cristiana e del Partito Socialista Italiano, oltre ad imprenditori di primo piano. Tra le inchieste più note ricordiamo quella condotta nei confronti dell’allora segretario del PSI Bettino Craxi, del tesoriere della DC Severino Citaristi e dell’imprenditore Raul Gardini. Facevano parte del pool di indagine, anche i magistrati Ilda Boccassini, Gherardo Colombo e Antonio Di Pietro che, diventerà agli occhi dell’opinione pubblica il PM simbolo delle diverse inchieste.

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libero arbitrio - continua De Gasperi - ma perché sanno che nella Costituzione di uno Stato moderno non è necessario proclamare le proprie credenze, quanto è indispensabile accordarsi su norme di convivenza civile che con la libertà di tutti, difendono anche la libertà della fede”.

Nel 1967 vede la luce l’enciclica Populorum Progressio del Pontefice Paolo VI che anticipa quell’idea di sviluppo che abbiamo trattato nel nostro testo: “Lo sviluppo non si riduce alla semplice crescita economica. Per essere sviluppo autentico, dev’essere integrale, il che vuol dire volto alla promozione di ogni uomo e di tutto l’uomo. (...) Nel disegno di Dio, ogni uomo è chiamato a uno sviluppo, perché ogni vita è vocazione.”212, mentre in un altro passaggio prende posizione sulla proprietà privata: “La proprietà privata non costituisce per alcuno un diritto incondizionato e assoluto. Nessuno è autorizzato a riservare a suo uso esclusivo ciò che supera il suo bisogno, quando gli altri mancano del necessario”. È evidente dunque, come la contrapposizione dei grandi partiti italiani, a livello culturale e non solo politico, è da ritenersi del tutto originale, anche perché tanto il PCI, quanto la DC, prendevano le distanze l’uno dall’U.R.S.S., l’altro dalla Chiesa Cattolica a seconda che le posizioni espresse andassero contro il proprio “particulare”, per usare un termine caro al Guicciardini213.

Fatta questa dovuta premessa, non sembra il caso addentrarci di più nella storia politica italiana del 900, non sarebbe del resto questa la sede opportuna, è semmai utile inquadrare la nascita del movimento ambientale nel quadro appena delineato.

l’Italia è stata il Paese dei Fisici della così detta “scuola romana”, meglio noti come i “Ragazzi di via Panisperna”, che hanno avuto una storia di successo nel campo della fisica nucleare. Padre carismatico e coordinatore di questa avventura scientifica è stato Enrico Fermi, Nobel per la fisica nel 1938, “per le sue dimostrazioni dell’esistenza – si legge nella motivazione del Nobel - di nuovi elementi radioattivi prodotti da irraggiamento neutronico, e per la scoperta delle reazioni nucleari causate dai neutroni lenti”. Si deve allo stesso Fermi la progettazione e la costruzione del primo reattore nucleare a fissione. Egli, inoltre, partecipò a Los Alamos al progetto Manhattan che portò alla costruzione della prima bomba atomica.

212-Cfr. Paolo VI, Lettera Enciclica Populorum progressio, N.15: l.c., 265, in Benedetto XVI, Caritas in Veritate, cit., p. 22.

213 Il “particulare” del Guicciardini corrisponde alla scintilla che genera le azioni umane e che il più delle volte corrisponde alla ricerca di ricchezza, o alla presa di potere, ma può anche corrispondere ad obiettivi più nobili come all’interesse dello Stato, alla ricerca di gloria e fama attraverso azioni lodevoli. Cfr. Accademia Nazionale dei Lincei, Francesco Guicciardini, Atti del convegno dei Lincei, Roma, 1985.

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L’Italia, pertanto, vantava una grande tradizione in questi studi e, grazie anche alla strategia energetica di Enrico Mattei, era diventata agli inizi degli anni 60 la seconda potenza nucleare in Europa e la terza al mondo. In quell’epoca storica una scelta in favore del nucleare aveva una sua logica e giustificazione per l’avanguardia tecnologica del nostro Paese214. Ma le cose andarono diversamente: si optò per il tutto petrolio.

In settori come l’elettronica, inoltre, in cui l’Italia stava facendo dei passi da gigante, basti pensare all’esperienza dell’Olivetti, si registrò una pesante battuta d’arresto e la General Electric riuscì ad acquisire il controllo dell’Olivetti, con buona pace di tutti coloro che pensavano di investire e crescere in settori come l’elettronica, l’informatica e l’energia nucleare, che si ipotizzavano strategici negli anni a venire.

Perché questo cambio di rotta? Perché la morte tragica e sospetta di Enrico Mattei? Perché l’arresto di Felice Ippolito, l’uomo alla guida del CNRN? Come abbiamo scritto in premessa al paragrafo, la storia è fatta di tante storie ed esperienze personali che si intrecciano, la cultura ambientalista italiana è forse, a livello mondiale, la più interessante, perché il suo sviluppo e la sua comparsa assume i colori intricati di un’opera di Jakson Pollock, con svariati punti di lettura. Andiamo con ordine: alle domande che abbiamo posto sopra, non è facile dare una risposta, ma di certo il cambio di rotta del nostro Paese probabilmente è dipeso dal potente alleato Americano. Molto schematicamente: mentre da un lato si acconsentì ad una “apertura a sinistra” del governo con l’ingresso del Partito Socialista, dall’altro, l’Italia doveva abbandonare i settori avanzati in cui stava per acquisire un primato riconosciuto a livello internazionale per diventare invece, un Paese grande raffinatore di petrolio, uscendo dai primati che aveva nel campo nucleare, ma anche geotermico e idroelettrico215.

Per tali ragioni probabilmente Felice Ippolito viene arrestato nel marzo del 1964.

Il caso scoppia già nell’estate del 1963, a seguito di una dichiarazione di Giuseppe Saragat che considera l’energia nucleare poco competitiva e gli investimenti nel settore paragonabili alla costruzione di una segheria non per produrre tavole o travi, ma solo segatura. Attacca direttamente Ippolito considerandolo un monarca assoluto con la mentalità “di chi pensa di essere al di sopra delle leggi democratiche”216. È indicativo il fatto che

214 A conferma del ruolo che ricopriva il nostro Paese nell’ambito dell’energia nucleare, basta ricordare che Euratom, la Comunità Europea dell’Energia Atomica è stata istituita con un trattato nel 1957 sottoscritto dai Paesi aderenti proprio a Roma.

215 G. Mattioli, M. Scalia, Nucleare, a chi conviene? Le tecnologie, i rischi, i costi, cit..216 Articolo tratto dal Corriere della Sera del 18 agosto 1963.

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Saragat parli di politica nucleare pur senza essersi mai interessato di problemi energetici e ricerca scientifica. Gli attacchi continuano, portati avanti da molte personalità del mondo politico e messi in risalto sulle colonne dei principali giornali nazionali. Nell’opinione pubblica il nome di Ippolito incomincia ad essere accostato a quello di Mattei, perché anche lui è fautore di una politica energetica autonoma per l’Italia, innovativa e d’avanguardia a livello mondiale. Probabilmente questo scenario di protagonismo nazionale non poteva star bene al potente alleato, tant’è che le accuse ad Ippolito, proseguono in modo più serrato. Non si parla tanto dei costi e delle opportunità dell’energia nucleare, come sarebbe stato normale, ma esplicitamente si contesta l’onorabilità e la correttezza personale del Segretario Generale del CNEN. Il 4 marzo Ippolito venne prelevato dalla sua abitazione romana e condotto nel carcere di Reggina Coeli in stato di detenzione. Le accuse mosse dal Procuratore Generale Luigi Giannantonio sono gravissime, tanto da imporre la sospensione della libertà: falso in atti pubblici, peculato continuato per distrazione, peculato continuato per appropriazione, interesse privato in atti d’ufficio. L’atteggiamento di Giannantonio è stranamente molto severo, infatti respingerà la richiesta di scarcerazione dell’imputato, presentata dai suoi legali in base alla nullità dell’istruttoria e si opporrà perfino alla concessione della libertà provvisoria217. La sentenza di condanna è pesantissima: colpevole di peculato, interesse privato in atti d’ufficio, abuso di potere, falso in atto pubblico, senza attenuanti. Ippolito verrà condannato ad undici anni di reclusione in primo grado, il PM Romolo Pietroni218 ne aveva chiesti venti. Il caso Ippolito venne riconosciuto come una rilevante montatura e “un colpo al cuore” ad un settore tra i più dinamici e innovativi nella rinascita del Paese219. La conclusione della triste

217-Luigi Giannantonio a riprova di inconsueta rigidità, si opporrà a tutte le richieste di libertà provvisoria, negherà il ricovero ad Ippolito presso una clinica privata per una operazione all’orecchio, darà istruzione di sorvegliare il paziente giorno e notte da ben tre carabinieri sempre armati di pistola con pallottola in canna e concederà solo tre giorni alla moglie e alla figlia per visitare Ippolito dopo l’operazione. Si veda: A. Guerraggio, P. Nastasi, L’Italia degli scienziati: 150 anni di storia nazionale, Mondadori, Milano, 2010, p. 277.

218-Il PM del processo Romolo Pietroni verrà cacciato dalla magistratura per collusioni mafiose, ibid.

219 Il CNRN negli anni 60 era un ente efficiente con 2500 dipendenti e un bilancio annuo doppio di quello del CNR. tra le iniziative di eccellenza ricordiamo la costruzione di una nuova macchina acceleratrice di particelle elementari, l’Anello di accumulazione (ADA), ideata da Bruno Touschek, che sarà il capostipite di tutte quelle realizzate in seguito, ad iniziare da quella Adone che riprende il nome della macchina originaria. Ippolito, riuscì a recuperare 20 Milioni di lire in pochi giorni per l’acquisto di un magnete necessario alla realizzazione del progetto: questo è un esempio del dinamismo dell’uomo e

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vicenda sembra il finale di “una sceneggiata napoletana”. Infatti, sarà lo stesso Saragat, colui che iniziò la campagna di delegittimazione contro Ippolito e nel frattempo divenuto Presidente della Repubblica, a concedere la grazia dopo appena due anni di carcere.

L’anno prima Mattei morì in un incidente aereo a pochi chilometri da Linate in circostanze misteriose. Il Presidente dell’ENI fu un acceso sostenitore dell’intervento dello Stato in settori chiave dell’economia, protagonista di una politica autonoma nel settore petrolifero con l’obiettivo di affrancare l’Italia dalla pesante sottomissione degli USA. Perfezionò, infatti, accordi direttamente con i Paesi produttori di greggio senza alcuna intermediazione e appoggi di altri gruppi petroliferi. La sua morte aleggia nel mistero poiché le cause dell’incidente sono ancora oggi ufficialmente sconosciute. Il sospetto di un’azione terroristica è molto forte, avallato anche dai molti nemici che si era fatto Mattei nel perseguimento della sua strategia, in contrasto con quella delle sette sorelle, le più potenti compagnie petrolifere al mondo, e più in generale con quella degli USA per via del suo progetto, in stato avanzato, di utilizzare fonti energetiche alternative al petrolio.

Il movimento ambientalista nasce in questa Italia, attraversata da venti di cambiamento, istanze di conservazione e profonde contraddizioni al suo interno. Un’Italia che secondo molti osservatori è stata uno dei campi di battaglia della guerra fredda, che ha visto sacrificati alcuni interessi nazionali per interessi internazionali.

Nel 1976 veniva pubblicato il saggio l’Ape e l’architetto di Marcello Cini, Giovanni Ciccotti, Mimmo de Maria e Gianni Jona Lasinio che portava in Italia quelle posizioni volte a dimostrare la non neutralità della scienza. Scriveva sul Manifesto, molti anni dopo l’uscita del saggio, Marcello Cini:

una conseguenza fondamentale della crescente mercificazione dell’informazione è che il nesso tra la ricerca scientifica “pura”, cioè perseguita al solo scopo di conoscere in modo disinteressato la natura e l’innovazione tecnologica, stimolata dall'interesse a inventare continuamente nuovi strumenti per soddisfare la domanda di un mercato sempre più esigente e sofisticato, si è fatto sempre più stretto, fino a diventare un intreccio difficilmente districabile. Basta osservare quanto sia ambiguo e intimo il rapporto fra la biologia molecolare, disciplina fondamentale quant’altre mai, e l’ingegneria genetica, tecnologia di punta per eccellenza, per convincersi che è impossibile decidere se una delle due venga prima dell’altra. Lo

dei successi conseguiti; ivi, pp. 270-271.

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stesso si può dire per le discipline coinvolte in tutti i problemi ambientali, o in quelle che intervengono nei fenomeni cerebrali e mentali220.

Le posizioni espresse nel saggio portano in Italia un dibattito già avanzato in altre nazioni, sul ruolo della scienza, della tecnica e dell’idea di progresso221. In particolare aprono una discussione sulla visione dell’economia classica basata sulla crescita continua, alla quale anche Marx aderiva. È indubbio che l’opera porta all’interno della sinistra italiana un primo seme per un dibattito che vada oltre l’industrialismo, motivato dagli interessi della classe operaia, il cui bene era tutelato dal PCI.

Il breve excursus affrontato è molto utile per inquadrare la nascita del movimento ambientalista in Italia. Anche da noi, possiamo dire che esso in un primo momento assunse i caratteri dell’ambientalismo scientifico, intendendo, come abbiamo avuto modo di chiarire, quel ramo del movimento verde che sostiene le proposte e i progetti con dovuta dovizia teorica e con puntuali motivazioni scientifiche. La nascita dell’ambientalismo scientifico può essere ricondotto ai primissimi anni sessanta con l’opera Primavera Silenziosa della Carson nel 1962, mentre in Italia esso comincia a prendere corpo all’interno del movimento anti-nucleare.

L’antefatto storico fu il rilancio del Piano nucleare del governo nel 1977, dopo che lo stesso era stato abbandonato anni prima, per le note vicende appena trattate. Si prevedevano circa 20.000 Mw da erogare attraverso una serie di centrali dislocate in tutta Italia. A proporre il Piano fu il ministro dell’Industria della Democrazia Cristiana Donat Cattin.

In un primo momento l’opinione pubblica era in maggioranza favorevole al Piano, in particolare il Partito Comunista Italiano, in virtù della solita logica del progresso continuo che il nucleare avrebbe assicurato, in nome del lavoro e della tutela della classe operaia. Ciò che all’epoca sembrava strano per gli osservatori più attenti e scientificamente competenti tra cui i fisici Massimo Scalia, Gianni Mattioli, insieme ad altre personalità del calibro di Laura Conti, era l’azzardo della scelta con quindici anni di ritardo, quando l’Italia aveva perso ormai la capacità di gestire in modo autonomo le tecnologie necessarie, costringendola ad importarle dagli Stati Uniti d’America, rivolgendosi alla Westinghouse e General Electric.

220-Cfr. estratto dell’articolo di M. Cini, Scienze, saperi e mercato, in La rivista del Manifesto, N.0, novembre 1999,http://www.larivistadelmanifesto.it/archivio/0/0A19991119.html

221 Cfr. Cap. II di questo lavoro.

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Questa scelta si giustificava, almeno secondo i fautori del Piano, dalla necessità di diversificare le fonti energetiche, viste le scarse e ridotte prospettive del petrolio. Su questo punto si aprirono degli interrogativi cruciali. Il primo riguardava la convenienza economica dell’operazione, dato il ritardo nelle tecnologie per l’abbandono della ricerca nei primi anni 60. Il secondo sulla sicurezza degli impianti e sul problema delle scorie, oltre che a ben vedere il mercato interno degli USA nei settori dell’elettromeccanica era in forte crisi. Sarà stata questa la ragione per cui il governo optò per un ritorno all’energia nucleare? Sicuramente non l’unica, ma se si accetta la tesi secondo cui il programma nucleare fu abbandonato per volere dell’alleato di oltre oceano, qualche dubbio sulla ripresa dello stesso per rilanciare l’industria americana è più che legittimo. Ma lasciamo questo punto, che meriterebbe una propria ed autonoma ricerca storica, per tornare alla situazione italiana. L’ambientalismo scientifico aveva mosso i primi passi alla Sapienza Università di Roma con l’esperienza dei comitati tecnico – politici che si erano costituiti proprio nell’istituto di Fisica. Si erano formati nel 1975 due gruppi di lavoro uno di elettronica/informatica e l’altro sull’energia. Animatori di questa esperienza erano tra gli altri i due fisici Massimo Scalia e Gianni Mattioli che fin da subito presero posizioni negative sull’idea che il nucleare costituisse una scelta di progresso.

Vi era poi il movimento del MIR, Movimento Internazionale per la Riconciliazione animato da Hedy Vaccaro, uno dei nuclei di quello che diverrà il movimento non violento, attivo contro la guerra del Vietnam ed a metà dei settanta, impegnato contro l’energia nucleare. Le storie dei due movimenti s’intrecciano per collaborare insieme sulla prima battaglia che si presentò, quella di Montalto di Castro, cittadina del viterbese individuata come uno dei siti per la nascita di una centrale.

Da questa data in poi nasce un movimento di lotta e d’informazione che cercherà di far capire le problematicità del nucleare all’opinione pubblica locale, costretta a subire la nascente centrale atomica nel suo territorio. Movimento d’informazione perché animato da quell’ambientalismo scientifico che con testi chiari e spiegazioni teoriche ha saputo spiegare agli italiani le ragioni di una protesta ed i rischi di una scelta energetica sbagliata. L’aspetto più importante e fecondo del movimento antinucleare era la partecipazione di numerose personalità del mondo scientifico accademico, che secondo la propria competenza, trattavano il problema e presentavano i rischi. Così s’incontravano medici, fisici, economisti, ingegneri, filosofi e politologi. Il problema veniva affrontato con un approccio multidisciplinare, perché interessava una molteplicità di saperi. Scrissero, utilizzando un linguaggio divulgativo senza per questo rinunciare

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a rigore scientifico, personalità come Giorgio Nebbia, Laura Conti, Marcello Cini, Guido Cosenza, Massimo Scalia, Gianni Mattioli, Enzo Terzi, Virginio Bettini, Enrico Falqui, Paolo degli Espinosa, Piero Binel, Romano Zito e tanti altri. Il movimento seppe mettere insieme, ad un tavolo e nelle piazze farmacisti ed infermieri, notai ed operai, agricoltori e docenti universitari, insomma seppe andare oltre la lotta di classe così urlata, così ostentata in quegli anni a partire dal 77, che ricordiamo, avevano fatto registrare un’escalation della lotta armata extraparlamentare.

Un movimento non violento che già guardava lontano, non fermandosi alla mera critica, ma rilanciando proposte che, diverranno poi a distanza di un decennio, disegni di legge e la principale base per la politica energetica e sostenibile dell’Italia. Infatti, grazie all’impegno di quelle battaglie e al gruppo di ambientalisti entrati in parlamento nel 1991 diventano legge le proposte di quegli anni: in particolare la Legge 10 e la Legge 9 sul risparmio energetico e sulla promozione delle fonti rinnovabili, tra i primi interventi normativi al Mondo a trattare in modo completo, integrato ed organico la questione in riferimento ad un piano energetico nazionale222. L’Italia sembrava essere la capofila di questa svolta a favore dell’energia pulita, arrivando a stanziare circa 2.600 miliardi di lire per il triennio 1991 -1993. È cronaca recente la storia di come il passaggio in termini operativi dei risultati ottenuti in parlamento, non sia stato dei più brillanti, tanto che si registreranno enormi ritardi e ci vorrà circa un altro decennio per rilanciare una politica seria in questo settore.

Tornando alla fine degli anni 70, la partita giocata dai comitati contro il nucleare non era delle più facili. Si incontravano delle forti resistenze tanto all’interno del PCI quanto nella CGIL, proprio in funzione di quella logica crescista, che si riteneva allora garanzia per la classe operaia. Solo la FIOM fin dal 1977, ossia dal Piano di Donat Cattin, era riuscita a smarcarsi, mentre nel PCI ancora nel congresso del 1986 la mozione promossa da Mussi e Bassolino contro il nucleare finisce sconfitta di 16 voti.

Per capire questa resistenza nella sinistra italiana bisogna tornare indietro, in particolare occorre trattare alcuni aspetti ideologici che

222 Gli interventi legislativi Legge 9 e 10 del 1991 furono tra le più importanti ed innovative leggi nel nostro Paese. Con certezza fu la prime normativa al mondo che in modo organico e integrato incentivavano il risparmio energetico, l’utilizzo di fonti rinnovabili e l’uso efficiente dell’energia. Va sottolineato che lo sforzo del legislatore nel promuovere queste leggi vedrà la sua piena applicazione solo nel 2005 con interventi attuativi (strumenti di incentivo, controllo e norme di attuazione) che diedero la piena applicazione alle Leggi in materia di risparmio energetico, uso razionale dell’energia e sviluppo delle fonti rinnovabili. Anni prima un’altra norma fu introdotta nel nostro ordinamento giuridico, si tratta della Legge 373 del 1977 sul “risparmio energetico” nata sull’onda della crisi petrolifera del 1974.

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animavano l’allora classe dirigente del PCI. Nel sesto libro inedito del Capitale di Marx si fa riferimento al “consumo produttivo”, e alla “produzione consumatrice”, intendendo con questa formula l’idea di stampo classico, che la crescita economica è illimitata e che questa sia favorita dal consumo. Nel marxismo il binomio consumo/produzione, (le premesse di partenza della sua speculazione), sono analoghe alle teorie liberiste. Marx non ha mai fatto mistero del suo essere un economista di stampo classico. Nel PCI era radicata l’idea che lo sviluppo del nucleare, essendo un investimento capital intensive, avrebbe contribuito a potenziare la crescita ed a stimolare nuove attività industriali, a tutto vantaggio della classe operaia. Fu per queste ragioni e per il particolare momento storico, il PCI aderiva per la prima volta alla maggioranza, che in parlamento nel 1977 la mozione sul ritorno al nucleare fu approvata quasi all’unanimità.

Oggi possiamo affermare che uno dei successi dell’ambientalismo scientifico è stato proprio quello di aver stimolato un dibattito nella sinistra italiana contro il riduzionismo e contro l’inevitabilità delle magnifiche sorti e progressive. Il “neopositivismo” e il “progressismo”, che spesso sfociava in modo acritico in una sorta di “industrialismo” ideologico, hanno sempre influenzato la cultura del PCI, che finiva per considerare il progresso tecnico scientifico come capace di spiegare e controllare ogni cosa, perfino la struttura della materia vivente.

L’idea di base per il movimento ambientalista italiano era, al contrario, fondato su un altro paradigma. Si sosteneva la non neutralità della scienza e al contempo si rifiutava qualunque concezione economica basata sulla crescita quantitativa e illimitata. Molti anni dopo scriverà Massimo Scalia la similitudine predicata insieme ad Alex Langher, che “il movimento verde sta al movimento operaio come il Nuovo Testamento sta al vecchio Testamento”223. Proprio per sottolineare la rottura nella continuità, chiaramente espressa nel passaggio dal Vecchio Testamento al Nuovo. Il riferimento per il movimento verde non potrà che essere il Rapporto, commissionato dal Club di Roma, Limit to Growth di Donella Meadows che introdurrà il concetto di “limite” nello sviluppo224.

Una figura chiave del dibattito di quegli anni è stata Laura Conti, che dall’interno del PCI, con un approccio rigido, teorico e problematico ha cercato di promuovere le ragioni di questo cambiamento. Mentre parte del movimento ambientalista come Mattioli, Tiezzi, Scalia, i comitati contro il nucleare combattevano dall’esterno la battaglia per convincere la CGIL ed

223-M. Scalia, La concezione del limite nello sviluppo e la navicella spaziale , in Economia Ecologia, M. Scalia, a cura di, Atti dal seminario su Economia/Ecologia, Roma, 9 novembre 1999.

224 Cfr. Cap. I del presente lavoro.

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il PCI. La Conti e Giorgio Nebbia, con la credibilità e la levatura culturale e morale che era loro riconosciuta, si muovevano dentro al partito, portando all’attenzione degli iscritti il dibattito aperto dal movimento.

Si propugnavano le ragioni di Malthus contro Marx, visto che il primo era stato un precursore delle teorie del “limite” ed aveva teorizzato, in controtendenza con gli altri economisti classici, tra cui Marx, il problema della limitatezza delle risorse. Laura Conti si servì di questa posizione per polemizzare con i “compagni” di partito sul cieco “sviluppiamo industrialista” che dominava larga parte della cultura di sinistra.

Vi era inoltre, un certo atteggiamento ostico di parte della comunità scientifica, in particolare di quei fisici nucleari che vedevano nel Piano una sorta di rivincita e riscatto dopo il passo indietro degli anni 60. Tra questi, la figura più illustre era Edoardo Amaldi, che aveva partecipato all’avventura di Via Panisperna ed era visto dall’opinione pubblica in Italia ed all’estero come il continuatore di quella esperienza. Per Amaldi l’energia nucleare costituiva più che un’occasione scientifica, una sorta di riscatto umano; immaginare che questa non servisse unicamente per la bomba atomica, ma potesse essere impiegata per usi civili.

Infine, c’era la posizione della Democrazia Cristiana, che a livello centrale aveva proposto e fatto approvare il Piano energetico, mentre soprattutto in seguito agli incidenti nucleari come quello del 1979 negli Stati Uniti a Three Miles Island, o il catastrofico episodio di Chernobyl nel 1986 aveva lasciato una opportunistica libertà di scelta ai suoi esponenti locali.

Un atteggiamento ambiguo che probabilmente era frutto di un disegno strategico più sottile. Infatti, nei comitati locali a difesa dei siti che avrebbero dovuto ospitare le centrali nucleari come Montalto di Castro, i cittadini appartenenti alla DC potevano esercitare una libertà di coscienza non sconfessata a livello nazionale. Mentre a Roma, contando anche sulla posizione favorevole del PCI, i dirigenti della DC erano sicuri che il Piano non avrebbe avuto grossi intralci.

Lo spartiacque che chiuse definitivamente la partita fu il tragico incidente di Chernobyl e la forte eco che ebbe nell’opinione pubblica. Prima di questo evento il movimento contro il nucleare aveva registrato tante vittorie nelle campagne di sensibilizzazione della popolazione locale, respingendo colpo su colpo le motivazioni dei tecnici dell’Enel e degli scienziati pro centrali. Da Montalto di Castro, alla Puglia aveva fatto registrare innumerevoli consensi ed aveva suggellato la nascita di una cultura ambientalista e di sostenibilità in Italia. Chernobyl, che aprì la strada al referendum, fu soltanto la triste sciagura di Cassandra, ossia quell’evento drammatico che dimostrò i rischi e le conseguenze negative

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delle centrali. Dopo Chernobyl, nulla sarà come prima, al congresso del PCI prevale la mozione contro il nucleare, mentre pochi mesi prima la stessa, come abbiamo avuto modo di ricordare, fu battuta per soli 16 voti, ed il referendum, tenuto nel 1989, fece registrare una massiccia partecipazione. L’esito fu schiacciante: gli italiani dissero seccamente no al nucleare.

Abbiamo scritto che la storia è storia di uomini e di esperienze. Nella vicenda ambientalista italiana sono confluite tante storie, dai ragazzi di via Panisperna, agli scienziati e la gente comune che si è battuta nei comitati. Da vicende internazionali intricate a vicende locali che hanno visto proletari, “padroni” e intellettuali scendere in piazza insieme, a dispetto della lotta di classe senza quartiere predicata negli anni 70. È storia di scienza e di posizioni ideologiche che, grazie alla grande risonanza che il problema aveva nell’opinione pubblica, è riuscita a venire alla luce, si pensi alla battaglia di Laura Conti e Giorgio Nebbia nel PCI, oppure al dibattito scientifico portato in Italia da Marcello Cini sulla non neutralità della scienza. La storia di chi, partendo da posizioni scientifiche come Mattioli, Scalia, o da posizioni di sinistra proletaria come Ronchi, e Tamino, hanno saputo costruire, oltre ad una critica costruttiva, una proposta politica ed un programma specifico sulle tematiche oggetto dei loro studi. Per queste ragioni la storia dell’ambientalismo italiano è ricca di fascino ed è maggiormente ascrivibile al movimento contro il nucleare.

A partire da questa storia nascerà il partito dei Verdi, Legambiente aumenterà il numero dei suoi tesserati, si darà vita in Italia alle prime misure in favore dell’abbandono del carbone, dell’aumento del metano perché meno inquinante, e si insisterà sulla promozione e sviluppo delle fonti rinnovabili e del risparmio energetico. Eppure, anche su questo fronte partito agli inizi degli anni novanta, si sarebbero potute raggiungere posizioni d’avanguardia a livello europeo.

Il nucleare tornerà prepotentemente di moda alla fine del primo decennio del 2000, a tal punto che l’ultimo governo Berlusconi lo inserirà in agenda è farà approvare un Piano energetico che prevede il ricorso all’atomo. La storia si ripete, l’incidente di Fukushima in Giappone sconvolgerà l’opinione pubblica costringendo il governo ad abbandonare il Piano. Al di là della cronaca, rimane nella storia italiana la grande esperienza del movimento ambientalista anti-nucleare, che senza dubbio, ha avuto il merito di portare ad un livello più alto le tematiche ecologiche, sensibilizzando ed informando non solo l’opinione pubblica, ma anche l’intero sistema politico italiano.

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II Parte

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4. Le economie pianificate dal 1945 al 1970

4.1 La questione ambientale nelle economie pianificate

Nell’Europa centro-orientale il sistema economico politico era basato su un’economia pianificata e su un modello istituzionale socialista. È interessante ripercorrere le tappe storiche della politica economica in Unione Sovietica e nelle Democrazie popolari, a partire dal secondo dopoguerra, per analizzare come l’idea di sviluppo integrale sia stata interpretata e gli obiettivi di medio-lungo termine raggiunti.

Il socialismo reale traeva la sua fonte di legittimazione nella “rivoluzione di ottobre”, quando i bolscevichi presero il potere costituendo un nuovo ordine politico-economico basato sulle teorie di Marx e Engels. La promessa del comunismo si fondava sulla realizzazione di una società giusta in cui sarebbe cessato lo sfruttamento dei capitalisti sulla classe operaia e scomparsa qualunque differenza di classe, con la realizzazione per “l’uomo nuovo comunista” del più alto livello di vita al mondo, caratterizzato da abbondanza di beni materiali e culturali. Promessa che si traduce in una politica economica controllata a livello centrale che ne fissa obiettivi, risorse, priorità, attraverso piani a medio termine, che investono tutti i settori produttivi. In un modello siffatto le problematiche attinenti la sostenibilità sarebbero, almeno a livello teorico, attenuate. In primis, si supererebbe il problema dei confini nazionali, poiché essa sarebbe realizzata in un area geografica sufficientemente estesa, in secundis, si porrebbe in essere una governance politica centralizzata in grado di promuoverla e sostenerla. Il ricorso alla pianificazione, sempre a livello teorico, inoltre, avrebbe consentito di soppesare gli effetti delle misure ecologiche sui settori economici e sociali. La realtà storica mostra non solo una verità diversa, ma anche un retroterra culturale completamente avulso al quadro teorico delineato. Ovviamente, negli anni successivi al

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dopoguerra non si era posta nessuna questione ambientale ne in occidente ne tanto meno in Europa centro-orientale, almeno a livello poilitico-economico. Di conseguenza l’attenzione ad uno sviluppo sostenibile, finanche in chiave socialista, non era, e non poteva essere all’ordine del giorno nelle agende dei pianificatori. Quando però in occidente, le idee sul degrado antropico, sullo sfruttamento delle risorse, sul concetto di limite, oltre all’inquinamento delle grandi città, iniziano ad interessare l’opinione pubblica ed i governi, non avverrà la stessa cosa nei Paesi ad economia pianificata.

In linea di principio alcuni aspetti del socialismo li ritroviamo nella sostenibilità, giustificando la particolare attenzione degli economisti e studiosi di Marx225. Il socialismo reale altresì, sebbene aveva nei suoi principi teorici un idea di sviluppo integrale, nei piani attuativi, si concentrò prioritariamente su politiche industrialiste, tralasciando misure sociali e provvedimenti rivolti alla popolazione. Un esempio può essere la preferenza accordata nei piani ai beni produttivi rispetto a quelli di consumo destinati ai cittadini. Inseguì inoltre il mito della crescita estensiva con il desiderio di superare in reddito nazionale gli USA: nel 1970, il trionfo del URSS, secondo la programmazione politica, si sarebbe dovuto concretizzare. Pertanto, posti questi obiettivi di crescita illimitata, il concetto di limite, non avrebbe potuto trovare accoglienza, così come misure che integrassero lo sviluppo economico con la sostenibilità ambientale. L’unico piano in favore della natura fu il piano Staliniano del 14 ottobre 1948, che prevedeva grandi forestazioni. Il piano non venne però concepito per motivi di salvaguardia ambientale, ma nasceva per risanare la situazione agricola e combattere le siccità, sempre nella logica crescista di rimozione degli ostacoli all’aumento di reddito nazionale.

4.2 Le politiche economiche di pianificazione nell’Unione Sovietica

Dopo la seconda guerra mondiale l’URSS vide aumentare la sua potenza economica. La sua forza derivò, in primo luogo, dai territori direttamente annessi, circa 670.340 km2 con 24 Milioni di abitanti; in secondo luogo, dalla prolungata permanenza militare dell’armata rossa in nazioni come la

225 Nelle ricerche di carattere ambientale, sia economiche, sociologiche che storiche, gli studiosi marxisti hanno dato un contributo notevole. Sebbene Marx non si fosse mai occupato di problemi ambientali, essi, partendo dalla correlazione uomo natura, secondo la quale l’opera umana non potrà che generare effetti sulla natura stessa, hanno formulato diverse teorie. Cfr. cap. II di questo lavoro.

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Polonia, la Cecoslovacchia, la Germania orientale, la Bulgaria e l’Ungheria. Questa estensione d’influenza militare, oltre i confini dell’URSS, avrà ripercussioni sulla sua economia. I vantaggi che derivavano all’Unione Sovietica dai Paesi occupati militarmente erano per lo più i seguenti: pagamento delle riparazioni dei danni di guerra; confisca dei beni ex tedeschi (i sovietici confiscarono anche beni che i nazisti per motivi politici o razziali avevano a loro volta requisito alla gente del posto); pagamenti per le truppe stanziate nei territori. Inoltre, furono smontate fabbriche e qualora i sovietici individuavano beni di loro interesse, venivano espropriati. Occorre sottolineare che i danni di guerra subiti dall’URSS furono molto alti. Si stima un totale di 1.890 Miliardi di rubli (357 Miliardi di dollari anteguerra). Il reddito nazionale, la produzione industriale, i trasporti di merce, il tasso di occupazione, erano circa il 15-30% più bassi del loro livello del 1940. La produzione agricola nel 1945 non arrivava neanche al 60% del livello anteguerra.

Da un punto di vista politico, il potere del Partito Comunista e del suo segretario generale Stalin uscirono molto rafforzati dalla vittoria bellica. La restaurazione dell’ordine istituzionale del periodo anteguerra fu pertanto una priorità da perseguire insieme alla ricostruzione economica. Si utilizzarono, per questi fini, le metodologie e gli obiettivi della pianificazione amministrativa, come del resto avveniva fino al 1940. Infatti, il 19 agosto del 1945, vennero ripristinati i piani quinquennali con l’obiettivo di realizzare la totale ricostruzione dell’economia nelle regioni dell’URSS che avevano subito l’avanzata tedesca e, con l’ulteriore obiettivo, di rilanciare tutte le regioni sovietiche per raggiungere e superare il livello di sviluppo prebellico. I traguardi da raggiungere erano la base del quarto piano quinquennale (1946-50), che secondo le previsioni, avrebbe dovuto portare il reddito nazionale al 38% in più rispetto al 1940; la produzione industriale al 48%; quella agricola al 27% e contemporaneamente i salari reali avrebbero dovuto superare del 23% il livello del 1940226.

La realizzazione del quarto piano era legata alla corretta previsione dei costi da sostenere. Fu questa errata previsione che non consentì il raggiungimento dei traguardi fissati. Per fare un esempio, il livello dei prezzi nel commercio al dettaglio statale superò la stima pianificata del 43%, i costi dell’industria del 34%, i salari del 28%. L’irragionevole

226 La pianificazione economica era stata sospesa durante il periodo bellico e con il quarto piano si riprende quel “cammino verso il comunismo”, diventato obiettivo ufficiale del partito dopo che la costituzione sovietica del 1936 aveva dichiarato compiuta la realizzazione del socialismo in URSS. P. Leon, Storia economica e sociale del mondo, cit., p. 117.

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previsione dei costi, troppo generosa rispetto alla situazione reale, ha di fatto ridotto le risorse necessarie all’esecuzione del piano che risulteranno inferiori rispetto alla stima. La vita del piano fu, dunque, breve. Sarà messo in difficoltà anche dal cattivo raccolto del 1946 che fece lievitare le previsioni di spesa dei salari e dei prezzi dei generi razionati. Furono comunque abbozzati dei tentativi per difenderlo in particolare, nel febbraio del 1947, con il decreto per la riorganizzazione dell’agricoltura. Nel dopoguerra ci fu comunque un periodo di rapida crescita che investì anche l’URSS, tuttavia non secondo le previsioni ed i risultati attesi del piano quinquennale. Il 16 aprile del 1951 venne pubblicato un comunicato trionfale che sottolineava il successo del quarto piano. Ovviamente si trattava di propaganda non supportata dal reale raggiungimento degli obiettivi. Infatti, gli indici utilizzati a dimostrazione del successo lasciavano molto a desiderare, perché riguardavano la produzione in valore, difficilmente confrontabili. Gli scostamenti dalle previsioni erano presentati come conseguenze dei traguardi centrati, mentre in realtà attenevano a costi superiori alle norme di utilizzazione di risorse previste dal piano. Il governo sovietico durante il periodo di realizzazione varava piani parziali che modificavano le disposizioni del quinquennale. Il più importante fu il “piano staliniano di trasformazione della natura”227, che prevedeva la creazione di foreste e laghi artificiali oltre a sbarramenti in ampie zone dell’area europea dell’URSS, per contrastare la siccità. Gli obiettivi annunciati da Stalin erano davvero ambiziosi: 8 grandi progetti di forestazione per una superficie totale di 5.300 Km di lunghezza e 30-60 Km di larghezza228. Altro grandioso progetto del piano staliniano era la deviazione del grande fiume siberiano Ob, dall’oceano glaciale artico verso il letto dei suoi affluenti fino al mar d’Aral e il Caspio. I risultati furono modesti, ma la propaganda annunciò “comunicati di vittoria”. Nel 1954 il Ministero dell’agricoltura si rifiutò di indicare con precisione il livello di forestazione raggiunto e il numero di piante sopravvissute. Quanto al programma di irrigazione, solo il 10% dei terreni che dovevano essere irrigati si mise concretamente a coltura.

Durante la fine del quarto piano si vararono progetti di costruzione di centrali idroelettriche229.

227 Il piano fu pubblicato il 14 ottobre 1948 e situato a margine di quello quinquennale, ivi, p. 158.

228 Il territorio interessato si estendeva dalle steppe della parte europea dell’URSS fino all’Ural e comprendeva circa 5.709.000 ettari di terreno.

229 Tra le più importanti centrali idroelettriche ricordiamo quella di Kujbysev, lanciata il 21 agosto 1950, con una produzione di 2.000.000 di Kw e quella di Stalingrado del 31 agosto 1950, con una produzione di 1.700.000 Kw.

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A partire dal 1948 i pianificatori sovietici lavoravano già al nuovo piano quinquennale (1951-55) e vista la prospettiva di sviluppo degli stessi piani, il Gosplan dell’URSS iniziò nel 1947 a valutare una pianificazione generale di quindici anni, che non fu mai terminata per “la caduta in disgrazia e l’eliminazione del presidente del Gosplan sovietico A. N. Voznessenskij”230.

Nell’agosto del 1952 fu pubblicato il quinto piano quinquennale (1951-55), venti mesi dopo la sua emanazione. Si prevedevano tassi di crescita notevoli, in perfetto stile staliniano, obiettivi elevati per la produzione agricola e una spiccata priorità al settore produttivo di beni. I costi stimati sono stati abbassati un po’ in tutti i settori, per fare un esempio: 25% nell’industria, 20% nelle costruzioni, 15% nei trasporti ferroviari. Ciò dovrà consentire un aumento del 50% della produttività del lavoro industriale e liberare risorse per un aumento del 90% degli investimenti. Il piano avrà delle grosse difficoltà nella sua realizzazione. Pertanto, l’equilibrio previsto nella pianificazione viene sostituito da un razionamento nella produzione dei beni e degli investimenti, rinviando a data futura le scelte strategiche di sviluppo, per la difficile realizzazione degli obiettivi nei diversi settori economici.

Nel marzo del 1953, nel pieno svolgimento del quinto piano, muore Stalin e con la sua morte si avranno enormi conseguenze politiche, economiche ed ideologiche. Nikita Kruscev, non ebbe lo stesso potere e la stessa influenza nel partito. Egli si pose anche su posizioni di graduale critica nei confronti di Stalin, condannando il culto della personalità in occasione del XX congresso del partito comunista nel febbraio del 1956. Nello stesso anno emergono le prime istanze di indipendenza dalla pressione e dal controllo dell’Unione Sovietica di alcune Democrazie popolari. Il caso più importante fu quello Ungherese che venne represso con l’intervento dell’armata rossa. Con Kruscev caddero alcuni dogmi dell’era staliniana: “il carattere limitato della legge del valore”, che a parere di Stalin non poteva valere che nei rapporti tra i settori retti da sistemi di proprietà differenti (statale, cooperativo e privato); il principio della distribuzione autoritaria delle risorse. La legge staliniana dello “sviluppo equilibrato dell’economia sovietica pianificata” fu messa in dubbio dai ripetuti insuccessi nell’agricoltura e quella dello “sviluppo prioritario dei beni di produzione” dalla necessità politica e sociale di fare delle concessioni ai consumatori231. Tuttavia il 25 aprile del 1956 nella Pravda fu solennemente annunciato il successo del quinto piano quinquennale, e

230 P. Leon, Storia economica e sociale del mondo, cit., p. 160.231 Ivi, p. 166

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anche quest’ultimo proclamo fu il frutto della propaganda sovietica, poiché il livello pianificato di reddito nazionale non fu raggiunto232. Nonostante una revisione nella politica economica portata avanti dopo la morte di Stalin, il sesto piano quinquennale (1956-60) seguì i modelli staliniani, ossia dando priorità all’industria pesante. Vennero infatti fissati i seguenti obiettivi: crescita del 71% dell’industria pesante contro il 51% di quella dei beni di consumo; 54% del reddito nazionale; 70% agricoltura. Anche in questa sede si minimizzarono i costi per recuperare risorse necessarie a sostenere il 67% degli investimenti.

Come nelle altre occasioni anche il sesto piano risultava di difficile attuazione. L’atteggiamento del governo sovietico fu però molto diverso rispetto al passato. Infatti anziché fingere la completa realizzazione, ne criticò pubblicamente le debolezze nel dicembre del 1956 sottolineando la mancata esecuzione di quanto previsto nella produzione del carbone, dei metalli, del cemento, e insistendo sul ritardo della realizzazione di nuove unità produttive. Così nel primo semestre del 1957 venne presentata una versione riveduta e corretta del sesto piano, che però il 9 aprile dello stesso anno non incontrò il giudizio positivo del Gosplan. Il Comitato Centrale e il Consiglio dei ministri lo abbandonarono ufficialmente con decisione del 18 settembre 1957, ordinando la predisposizione di un piano settennale (1959-65)233. In questo periodo una serie di eventi politici, tra i quali lo scoppio della crisi di Berlino del 1960, l’aereo americano U2 che sorvolò il territorio dell’URSS nel maggio 1961 e in particolare la delicata vicenda dei missili inviati a Cuba nell’autunno del 1962, ebbero immediate ripercussioni nella politica economica sovietica. Infatti fu aumentato il bilancio militare con 3.114 Milioni di rubli, la smobilitazione di circa 1.200.000 soldati venne interrotta e di conseguenza, a causa delle spese militari, le autorità hanno dovuto rinunciare a un buon numero di investimenti programmati nell’industria chimica, nelle costruzioni meccaniche, nell’edilizia, nell’elettronica e nell’industria leggera.

Nel 1964 in politica interna si assistette a un cambio nella guida del Paese. Leonid Breznev subentro a Kruscev. Non si trattò di un semplice avvicendamento, ma “di un vero e proprio colpo di mano” ai danni di

232 I calcoli effettuati in occidente sui risultati del piano accertarono uno scarto del 10-15% rispetto a quanto dichiarato. Le mancate realizzazioni riguardavano il livello di produttività e la produzione agricola.

233 Occorre ricordare che nel maggio del 1957 Nikita Kruscev criticò l’impostazione di predisporre una pianificazione annuale o quinquennale rigida. Egli sosteneva che la vita è un processo continuo, mentre i piani si fermano ad una data ben precisa del calendario. Egli propose una pianificazione continua: ogni anno si conosceranno gli obiettivi pianificati per quello stesso anno e si elaboreranno le previsioni per i cinque anni successivi. P. Leon, Storia economica e sociale del mondo, cit., p. 168.

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Kruscev da parte delle alte sfere del partito scontente dell’operato del segretario. Le tensioni non diminuirono neanche con Breznev. A titolo di esempio ricordiamo l’aiuto militare al Vietnam del Nord, l’impegno nella guerra arabo-israeliana a sostegno dei primi nel 1967, l’invasione dell’armata rossa in Cecoslovacchia nel 1968, insomma l’iniziale massima di Stalin del “socialismo in un paese solo” fu sostituita da un importante impegno in tutte le parti del globo. Di conseguenza, anche per questi eventi, si dovette ripensare il piano per trovare le risorse necessarie a perseguire una politica estera molto dinamica, mirata ad incrementare l’influenza internazionale234.

Il piano settennale (1959-65), che sostituì il sesto piano quinquennale, ovviamente è stato condizionato dall’aumento di spesa in politica estera. Pur restando ancorato ai modelli staliniani, evidenziava un certo sforzo di modernizzazione dell’economia. Si puntò ad un aumento della produzione nell’industria chimica235, si sviluppò il settore dell’estrazione del petrolio e del gas in modo prioritario rispetto alla costruzione delle centrali termiche, si previde una accelerazione dell’elettrificazione dei trasporti ferroviari e l’avvio dello sfruttamento delle ricchezze naturali dell’est con la costruzione di una base metallurgica in Siberia e un’unità di produzione chimica nell’Asia centrale. Il settimo piano rivalutò i consumi attraverso un programma di investimenti nell’edilizia, circa 660 Milioni di m2 di superficie abitabile nelle città. Nel 1965 l’URSS stimava di “raggiungere e superare i paesi capitalisti più evoluti” nella produzione procapite dei generi alimentari di base. Diventavano quindi, obiettivi programmati quelli che Nikita Kruscev aveva promesso in un suo discorso a Leningrado il 22 maggio 1957: superare la produzione procapite degli USA nel settore dell’allevamento. Gli ambiziosi traguardi del piano resero necessarie continue modifiche e revisioni in fase di attuazione. Nel 1965, a conclusione di esso i risultati raggiunti non differirono dai piani precedenti. L’insuccesso più clamoroso fu nel settore agricolo, si realizzò solo un aumento del 14% della produzione rispetto al 70% previsto. Il piano dei salari non fu neppure eseguito e i piani dell’occupazione e dei trasporti, sebbene vengono attuati, la produttività del lavoro nell’industria non raggiungerà i risultati sperati. Se si confrontano le previsioni di sviluppo e

234-Ad esempio, nel periodo 1954-72 gli aiuti sovietici ai paesi esteri in via di sviluppo raggiunsero gli 8.196 Milioni di dollari, con una punta massima di 998 Milioni di dollari spesi solo nel 1964 e 1.244 Milioni di dollari nel 1966. Tra i Paesi beneficiari spicca il Medio Oriente con 3,3 Miliardi, 3 Miliardi l’Asia Meridionale, 1,2 Miliardi l’Africa. Ivi, pp. 174-175.

235 L’industria chimica era considerata di rilevanza strategica e si prevedeva un aumento della produzione, per questo settore, di tre volte rispetto al 1958. Ivi, p. 176.

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progresso della politica comunista con quanto realizzato nel concreto fino al settimo piano, gli esiti non sono dei più positivi. Avendo, nel lontano 1936, la Costituzione sovietica dichiarato compiuta la realizzazione del socialismo in URSS ed essendo divenuto obiettivo ufficiale del partito il cammino verso il comunismo, il 18 ottobre 1961 Nikita Kruscev presentò al XXI congresso un ambizioso programma di realizzazione di una società comunista nell’arco di vent’anni. Si auspicava, nella parte economica, il superamento dei Paesi capitalisti più sviluppati nella produzione procapite, realizzazione del più alto tenore di vita mondiale con grande abbondanza di beni materiali e culturali. Infine, la parte sociale del programma prevedeva l’annullamento delle differenze di classe sociale, tra lavoro manuale ed intellettuale, tra città e campagna e il compimento dell’unità ideologica con la creazione di un uomo nuovo comunista che avesse istruzione superiore, purezza morale, eccellente salute fisica e coscienza ideologica. Dal punto di vista istituzionale, inoltre, il processo finale del programma prevedeva lo sviluppo dell’autogestione comunista. L’obiettivo economico intermedio stimava già per gli inizi del 1970 il raggiungimento del primato mondiale nell’industria rispetto agli altri Paesi, USA compresa. A partire dal 1970 milioni di persone si sarebbero affrancate dai lavori manuali ausiliari per l’introduzione di nuove tecnologie, pertanto si sarebbe registrata una crescita di occupazione nella cultura, nella sanità ed in altri servizi pubblici. Dalla rapida analisi sui risultati dei piani di sviluppo che avrebbero dovuto tendere alla realizzazione del comunismo, si intuisce come alla fine degli anni sessanta si era realizzato ben poco e le promesse ambiziose non avrebbero potuto essere mantenute. Con la caduta di Nikita Kruscev si modificò anche la politica economica dell’URSS e i riflessi più immediati si ebbero nell’ottavo piano quinquennale (1966-70). Esso era incentrato sull’aumento dell’efficienza della produzione sociale, accelerando il miglioramento della scienza e della tecnica. Così, la nuova politica economica “prese di petto” il problema della modernizzazione dell’economia da attuarsi con una ristrutturazione tecnologica e con la sostituzione dei vecchi prodotti con dei nuovi più innovativi. Inoltre veniva previsto una diminuzione di quota di produzione delle attività non terminate, una riduzione dei tempi di produzione e dei costi degli investimenti. I tassi di crescita previsti erano più bassi dei piani precedenti, anche se la priorità restava ancora rivolta sui beni di produzione rispetto a quelli di consumo. Lo scarto tra i due, contrariamente al passato, non sarà elevato: 49-52% la crescita prevista per i primi e 43-46% quella per i secondi. La caratteristica dell’ottavo piano, in linea con la politica di Breznev, fu una parziale prudenza in materia di pianificazione della produzione agricola, la crescita stimata sarà appena del 25%. Inoltre si

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manifestò, come dianzi citato, un accrescimento di interesse a favore del consumo, proprio della politica di Breznev. In definitiva la fine del quinquennio mostrò un reddito nazionale che raggiungeva il 65% di quello degli Stati Uniti e cinque anni dopo questa quota aumenterà solo dell’1%. L’ideale programma enunciato nel 1961 da Kruscev, non trovò compimento. L’unico dato positivo dell’ottavo piano fu una maggiore percentuale di realizzazione sulle stime del reddito nazionale e della produzione industriale rispetto al passato. Per la prima volta dal 1937, la parte relativa all’occupazione non viene realizzata, il che indica un certo esaurimento della forza lavoro proveniente dall’agricoltura e la diminuzione del tasso di crescita della produzione nel lungo periodo. Occorre ricordare che fin dagli anni cinquanta, l’Unione Sovietica ebbe molti successi nel campo delle tecnologie spaziali e nell’energia nucleare: primo missile verso la luna (2 gennaio 1959), costruzione di due centrali atomiche e rompighiaccio atomico (1959). Nonostante questi successi, i tassi di crescita dell’URSS subirono una riduzione generale in quasi tutti i settori. Secondo le stime dal 1951 al 1955 il tasso di crescita medio % è del 6,0%; dal 1956 al 1960 è del 5,8; dal 1961 al 1965 è del 5,0%; dal 1966 al 1970 è del 5,5236. La motivazione della riduzione è dovuta, secondo i calcoli dell’economista sovietico T. S. Khacaturov, alla diminuzione del rendimento degli investimenti: dal 1959 al 1965 il rendimento è passato da 0,83 a 0,70, mentre nel 1970 a 0,69237.

Il sistema di pianificazione, non fu adeguatamente supportato da un processo di revisione degli obiettivi e da un tempestivo intervento ogni qualvolta si verificavano degli scostamenti. Mentre politicamente si avanzò una critica allo stalinismo, durante i congressi del 1956 e 1961, i sistemi burocratici rimasero inalterati. A metà degli anni cinquanta i settori economici dell’URSS erano ormai giunti a piena maturazione, ragion per cui sarebbe stato saggio attuare riforme profonde per passare da una crescita di tipo estensivo ad una di tipo intensivo, caratterizzata da maggiore efficienza e produttività. Un primo dibattito si aprì a partire dal settembre 1962, con l’articolo di Evsej Liberman che criticò gli incentivi a livello di impresa. I dirigenti delle imprese tendevano a non rivelare le reali risorse a disposizione, al fine di ottenere un piano facile ignorando la

236-Calcoli elaborati da Rush V. Greenslade, Prodotto Nazionale Lordo, per settore d’origine (armamenti compresi), ponderazione del 1970, indice 1940 = 100. C’è da notare che le valutazioni sovietiche ufficiali (indice 1940 = 100) calcolavano risultati diversi ma, comunque con tassi di crescita medi in riduzione dal 1946 al 1965. Secondo i calcoli sovietici dal 1951 al 1955 il tasso di crescita è del 11,4%; dal 1956 al 1960 del 9,2%; dal 1961 al 1965 del 6,7%; dal 1966 al 1970 del 7,7%. Ivi, pp. 204-205.

237 Ivi, p. 181.

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domanda: in tal modo si poteva scegliere gli indici del piano e l’assortimento più vantaggioso da eseguire. Una volta avviata la critica a livello d’impresa, il sistema venne attaccato nel suo complesso e gli economisti sovietici, con grande facilità, riuscirono a dimostrare l’incoerenza del piano a livello nazionale. La pianificazione era sempre più arbitraria e in netta contraddizione con la crescente maturità economica. Il dibattito, apertosi dopo l’articolo di Liberman, si chiuse dopo soli quattro mesi. L’idea di profitto per garantire il successo dell’impresa venne bocciata il 7-8 gennaio del 1963 in un dibattito all’accademia delle scienze. Tuttavia le idee di Liberman non vennero condannate integralmente e nella primavera del 1964 si riaprì la discussione sulle riforme. Nel 1965 si iniziò con una serie di provvedimenti a carattere generale che interessarono la pianificazione dell’economia e furono seguiti da diversi decreti sulla gestione dell’industria, ricostituzione dei ministeri economici, competenza dei Consigli dei ministri delle repubbliche federate, pianificazione e stimolazione della produzione industriale. Gli esperimenti andavano nella direzione di istaurare una sorta di socialismo di mercato, ma riguardavano solo poche imprese e qualche settore, le scelte riformiste più ampie e drastiche non vennero accettate. Un ulteriore numero di riforme fu varato nel mese di ottobre del 1965 e al contrario delle precedenti interessavano un settore ampio come l’industria, ma la portata innovativa veniva fortemente ridimensionata. Di fatto le riforme del 1965 non modificarono strutturalmente il modello di pianificazione amministrativa, che «per una sorta di movimento oscillatorio, tende a ritornare al suo punto di partenza. (…) il vecchio sistema di pianificazione amministrativa sembra, di fatto, corrispondere meglio alla concezione che i dirigenti hanno del ruolo del partito. Poiché, secondo la dottrina ufficiale, il partito deve esercitare da solo il potere e controllare direttamente l’economia, ogni riforma capace di affievolire questo controllo suscita sospetti»238. Di conseguenza la pianificazione sovietica è stata fortemente collegata al ruolo attivo rivestito dal partito, tale da permeare nella vita economica. Il partito comunista “guida e fonte di ispirazione secondo l’economista sovietico G. Sorokin, costituirebbe l’elemento indispensabile della pianificazione socialista”239.

4.3 La socializzazione dell’economia nelle Democrazie popolari.

238 P. Leon, Histoire économique et sociale du monde, Tome 6, Le second XX siècle: 1947 à nos jours, Librairie Armand Colin, Paris, 1977; trad. it, Storia economica e sociale del mondo, Volume 6, i nostri anni dal 1947 a oggi, Editori Laterza, Roma, 1979, p. 203.

239 Ibid.

242

Antonello Biagini e Francesco Guida nel libro Mezzo secolo di socialismo reale, l’Europa centro-orientale dal secondo conflitto mondiale all’era postcomunista, affermano:

Senza mancare di rispetto a quanti credettero di costruire una nuova realtà politica e sociale, si può serenamente concludere che il biennio o triennio trascorso tra la fine della guerra e la costituzione dei regimi totalitari fu appena un’epoca di transizione, come tale caratterizzata da scelte politiche di ordine tattico, spesso scambiate - anche in buona fede - per opzioni strategiche, quando la strategia di fondo consisteva nella realizzazione di uno Stato identico o simile all’URSS, allora erroneamente idealizzata presso gran parte dell’opinione pubblica e dell’intelligencija orientale e occidentale. È difficile comprendere oggi quale forza persuasiva ebbe per molti l’utopia comunista, ma di fatto essa agì accanto a diversi altri fattori (militari, strategici, economici, diplomatici, sociali) nel costruire la realtà plumbea e dalle scarse possibilità di sviluppo della società esteuropea240.

L’esperienza delle democrazie popolari nell’Europa centro-orientale è ascrivibile a partire dalla seconda metà del novecento, non prima però di una fase molto complessa di influenze militari e politiche che, come ci descrivono Biagini e Guida, non mancherà di sorprendere perfino i più esperti strateghi241. La fine dell’alleanza tra Mosca e le Potenze anglosassoni, non solo per via piano Marshall, e le firme per i trattati di pace nel corso 1947, segnarono paradossalmente, da qui a poco tempo, l’inizio della guerra fredda tra le Potenze vincitrici. Dalla seconda metà del XX secolo nell’Europa centro-orientale si possono individuare otto Paesi che presentano criteri omogenei: militari, politici ed economici. L’Albania e la Jugoslavia, che hanno ottenuto la liberazione nel 1944 per via dei

240 A. Biagini, F. Guida, Mezzo secolo di socialismo reale: l’Europa centro-orientale dal secondo conflitto mondiale all’era postcomunista, Giappichelli, Torino, 1997, p. 8.

241 «Nel notissimo incontro tra Churchill e Stalin, avvenuto a Mosca nell’ottobre 1944, si erano date le percentuali di pertinenza a Inghilterra (possibilmente d’accordo con gli USA) e Unione Sovietica per ciascuno Stato dell’Europa centro-orientale. E in verità è difficile comprendere come Paesi quali Ungheria o Jugoslavia potessero rispondere al 50% agli inglesi e al 50% ai sovietici, o come si sarebbe salvaguardato un 10% di influenza britannica in Romania, ovvero un 25 % in Bulgaria, o ancora la quota sovietica del 10% in Grecia. Di più, non si intese subito che l’influenza sovietica non si sarebbe esercitata soltanto sulla politica estera e magari, sul commercio estero di ciascuno Stato (come avvenne grosso modo con la Finlandia) ma anche sulla struttura interna, sull’organizzazione politico-sociale e sulla sua economia. Non si percepì immediatamente e fino in fondo che Stalin avrebbe esportato il modello sovietico, forse al di là delle sue stesse intenzioni, per garantirsi un’area di sicurezza e insieme d’influenza per l’Unione Sovietica». Cfr. Ivi, pp. 6-7.

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gruppi partigiani organizzati principalmente dai partiti comunisti nazionali, sono gli unici Paesi in cui il regime comunista si è formato spontaneamente senza imposizione dei sovietici. In Germania (nella zona di occupazione sovietica), Ungheria, Romania e Bulgaria è stato l’intervento dell’Armata Rossa che ha consentito la presa di potere dei comunisti. In Polonia e in Cecoslovacchia, al contrario, sarà il commercio estero praticato con modalità e prezzi discriminatori dall’URSS a favorire la presa del potere. Dal punto di vista economico, nel dopoguerra la priorità da affrontare è stata il recupero del potenziale produttivo drasticamente ridotto durante il confronto bellico: in alcuni Paesi come l’Ungheria, Polonia, Germania Orientale (Rdt), si stimava una riduzione tra il 40% e il 60%. Inoltre il tasso di crescita economica era molto inferiore rispetto a quello registrato prima della guerra. L’Europa centro-orientale ha dovuto fronteggiare la ricostruzione partendo da bassi tassi di crescita. Le economie di buona parte dei Paesi erano perlopiù caratterizzate da un sovrannumero di coltivatori impegnati nel settore agricolo che, per tale numerosità presentava una produttività molto bassa, basti pensare che in Ungheria la popolazione agricola superava il 55%, mentre in Bulgaria addirittura l’80%.

In siffatto quadro, i nuovi regimi hanno inizialmente messo mano ad un progetto ampio di riforme strutturali necessarie per l’edificazione del socialismo. È stata collettivizzata l’agricoltura, nazionalizzata l’industria e in linea con il modello sovietico si è data priorità proprio all’industrializzazione, in particolare a quella pesante e alla produzione di beni di consumo. Tale progetto comprendeva obbiettivi da raggiungere, risultati attesi e mezzi per perseguirli, all’interno di una capillare pianificazione imperativa per i Paesi in esame. Occorre sottolineare, che le Democrazie popolari per via del rifiuto agli aiuti del Piano Marshall hanno goduto, a partire dal 1947, di un consistente sostegno dall’URSS, sottoforma di crediti in natura come beni di investimento e cereali242. In tal modo l’URSS aumentò la sua influenza potendo, grazie a questi accordi bilaterali, intervenire direttamente nell’economie delle Democrazie popolari, molto di più che attraverso l’organismo multilaterale di cooperazione, Consiglio di assistenza economica reciproca (Comecon), istituito nel 1949 ed entrato effettivamente in funzione solo dieci anni dopo.

242 In realtà prima del rifiuto del pano Marshall, nel 1945 e 1946, le Democrazie popolari hanno usufruito di ingenti aiuti da parte del Unrrna (l’amministrazione delle Nazioni Unite per l’assistenza e la ricostruzione) e quindi dagli Stati Uniti che erano i maggiori e più ricchi rappresentanti. Gli aiuti finanziari a questi Paesi ammontano a quasi un terzo dei fondi distribuiti in Europa. Polonia, Cecoslovacchia e Jugoslavia sono stati quelli che hanno goduto della maggior parte dei fondi.

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L’influenza sovietica è riscontrabile già nelle nuove Costituzioni delle Democrazie popolari nelle quali, sul piano economico si sancisce l’adozione dei principi sovietici organizzativi, di pianificazione dello sviluppo e di socializzazione dei mezzi di produzione243.

Nel comparto agricolo si sono operate riforme analoghe a quelle sovietiche, ossia di collettivizzazione dell’agricoltura anche se quest’ultima si realizzerà con modalità meno rigide e violente di quelle dell’URSS. Inizialmente si è proceduto alle confische dei poderi dei grandi proprietari terrieri, successivamente la terra è stata redistribuita ai contadini. In Polonia, Cecoslovacchia e nella Rdt, la confisca è avvenuta con modalità differenti rispetto alle altre Democrazie popolari. Infatti i proprietari che hanno subito gli espropri sono stati indennizzati, mentre solo i contadini poveri si sono visti assegnare gratuitamente le terre, gli agricoltori medi invece hanno dovuto effettuare dei pagamenti.

Le confische sono state effettuate seguendo diversi criteri. In primis quello politico, con l’esproprio agli stranieri, ai tedeschi, ai collaborazionisti, ai nemici, agli emigrati e agli enti religiosi. In secundis sociale, con confisca di proprietà di superficie superiore a quella stabilita per legge, in base alla destinazione d’uso dei terreni244. Le proprietà confiscate vengono destinate ad un fondo agrario nazionale di entità diversa in ogni Paese. Per fare alcuni esempi, in Polonia tale fondo equivale al 50% delle terre coltivabili, in Ungheria il 30%, in Rdt il 15% e in Romania l’8%. La maggior parte della terra viene riassegnata ai contadini tranne alcune porzioni di essa che resta allo Stato e che costituisce la risorsa principale delle aziende agricole pubbliche. Il risultato di questa riforma agraria è stato una eccessiva frammentazione della proprietà fondiaria che pertanto non ha consentito livelli produttivi redditizi e il conseguimento di un’adeguata strategia di innovazione. Inoltre essa ha tradito le aspettative di quanti speravano in una abolizione della proprietà privata sul modello sovietico. La riforma è stata realizzata scaglionata nel tempo e nei casi in cui l’agricoltore doveva pagare per vedersi assegnata la terra spesso non riusciva a coprire il costo ed era costretto ad indebitarsi per pagare le indennità. Non sono pochi gli esempi di contadini che ricorrevano agli usurai per ottenere il denaro occorrente. L’aristocrazia in Ungheria, Romania e Polonia era riuscita addirittura a bloccare le confische che li riguardava. Il socialismo delle Democrazie popolari ha dunque consentito

243-P. Leon, Storia economica e sociale del mondo, cit., p. 509.244-Per esempio 100 ettari di terreni per uso promiscuo in Polonia, 45 ettari di terra

coltivabile in Juogoslavia, 100 ettari in Rdt e così via con una superficie di terreno massima che varia da Paese a Paese, superata la quale si è soggetti ad esproprio. Storia economica e sociale del mondo. Ivi, p. 510.

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la proprietà privata modificando il modello sovietico proprio nel suo aspetto cruciale, ossia la piena nazionalizzazione della terra. Si ritiene che la riforma non sia stata completata, infatti tra il 1956 e il 1960 fu praticata in modo flebile a tal punto che Polonia e Jugoslavia la abbandonarono quasi del tutto.

La ristrutturazione del settore agricolo è stata indubbiamente una pagina importante per le Democrazie popolari anche se realizzata con modalità diverse e mai completamente portata a termine. Il principale effetto negativo fu la bassa redditività della proprietà fondiaria eccessivamente parcellizzata: in quasi tutti i Paesi i livelli di produttività del periodo anteguerra saranno raggiunti solo nel 1953.

Nel settore industriale i programmi dei regimi socialisti prevedevano progetti di nazionalizzazione, anche queste ultime basate sul modello sovietico. Tuttavia verranno realizzate con grande moderazione per diversi motivi. Appariva sconveniente toccare i diritti dei capitalisti patriottici, che avevano combattuto eroicamente contro il nemico. Così come non era opportuno nazionalizzare fino al 1948, dato che i partiti comunisti condividevano il potere con altri partiti. Per esempio in Cecoslovacchia il programma di Kosice si basava sulla nazionalizzazione delle sole imprese tedesche e di quelle di grandi dimensioni in accordo con tutti i partiti della coalizione. Ragion per cui, la prima fase della riforma industriale ha visto l’immediata espropriazione dei beni nemici e di quelli dei collaborazionisti, mentre le altre saranno realizzate successivamente in modo prudente. Saranno indennizzati i proprietari delle industrie espropriate ad eccezione dei collaborazionisti e dei nemici245. Il programma di riforma prevedeva di statalizzare per primo i settori chiave dell’economia: l’industria pesante, le miniere e le centrali elettriche, i trasporti e le comunicazioni, le banche e le compagnie di assicurazione. Successivamente saranno nazionalizzate le imprese dell’industria leggera. Il criterio adottato è di tipo dimensionale basato sul numero di operai impiegati per unità produttiva246. La riforma sarà completata in tutti i Paesi tra il 1948 e il 1952. Già nel 1948, infatti, le imprese nazionali coprivano la quasi totale maggioranza del settore

245 In URSS le nazionalizzazioni non hanno previsto alcun indennizzo a differenza di quello previsto nelle Democrazie popolari, con differenti modalità tra gli Stati.

246-Verranno nazionalizzate tutte quelle imprese che occupano un numero di operai superiore al minimo stabilito dalla legge. Ad esempio in Cecoslovacchia (decreto 24 ottobre 1945) il minimo numero di operai va da 450 a 100 in base ai settori produttivi. In Romania il minimo numero di operai è di 100 (legge 11 giugno 1948). In Ungheria il numero minimo di operai è 10 (legge del 1949). In Jugoslavia, sin dalla liberazione, i beni degli occupanti e dei collaborazionisti sono stati incamerati dallo Stato e nel 1948 la stessa sorte toccherà alle imprese locali di piccole dimensioni.

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produttivo, per fare alcuni esempi: in Bulgaria alla fine del 1948 il 97% della produzione, in Polonia già dal 1946 l’86,5%, in Cecoslovacchia tra tutti i lavoratori impiegati nel settore produttivo il 95% lavorava nelle imprese nazionali.

Come si evince dagli esempi restava in piedi una residua percentuale di settore industriale privato, ovviamente controllato dallo Stato. Le ragioni giustificatrici della non completa statalizzazione sono rintracciabili nel tentativo di persuadere l’opinione pubblica (interna e internazionale) che il comunismo non fosse totale espropriazione. Solo Tito in Jugoslavia ebbe l’ardire: «non vi è più da noi una sola impresa, una sola officina, una sola istituzione di carattere pubblico che sia in mano a capitalisti, stranieri o non»247.

Altra motivazione giustificatrice fu la preoccupazione di privarsi del capitale privato per la ricostruzione, così fino al 1948-49 assistiamo ad una sorta di “capitalismo di stato” costituito da fondi pubblici e capitali privati. In Romania e Bulgaria, per citare alcuni casi, si trovano società ad economia mista nelle quali la gestione era affidata ad amministratori dello Stato, mentre la proprietà rimaneva ai privati che godevano esclusivamente dei dividendi. In Germania orientale, nel 1956 vengono costituite le halbstaatlich, società misto-pubbliche a partecipazione statale per mezzo della Banca di investimenti. A dirigerle, in questo caso, è l’imprenditore privato (ex proprietario della partecipazione espropriata) che è responsabile illimitatamente dei risultati ottenuti e degli scostamenti dal programma di produzione fissato dal piano dello Stato. Tale imprenditore riceve una doppia remunerazione: un salario pari a quello di un direttore d’impresa pubblica di dimensioni simili a quella diretta e, come capitalista, i dividendi in base alla partecipazione. Le halbstaatlich sopravvivranno fino al 1972.

Il settore privato, quindi, continuerà ad esistere in tutte quelle unità che impiegano un numero di lavoratori inferiore alla soglia minima prevista dalla legge. Ciò non è ritenuto in contrasto con il socialismo, ma anzi in alcuni Paesi come la Polonia, per incoraggiare nuove attività produttive nel periodo della ricostruzione, verrà consentita la costituzione di imprese private con dipendenti superiori alla soglia minima. In Cecoslovacchia alcuni settori sono addirittura esclusi dalla nazionalizzazione, tra questi l’industria alimentare, l’industria grafica, l’edilizia e le minuterie. In tutte le Democrazie popolari, fin dal 1946-47 si è ritenuto ragionevole associare un settore privato a quello nazionalizzato, tuttavia non è mai stato formalizzato un quadro organico d’insieme per un corretto collocamento delle imprese private nel contesto dell’economie socialiste.

247 P. Leon, Storia economica e sociale del mondo, cit., p. 514.

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Le attività artigianali come idraulici, sarti, falegnami e via dicendo, verranno socializzate attraverso vincoli economici e la formazione di associazioni coperativistiche. Singolare la scelta politica nei riguardi di queste categorie, almeno se confrontata con l’idea di sfruttamento del lavoro marxista, infatti, i liberi professionisti sono lavoratori non sfruttati dal capitalista e che non sfruttano alcun salariato.

Elemento fondamentale delle economie socialiste è il ricorso alle pianificazioni. In una prima fase sono piani di ricostruzione e per essere attuati necessitano di una riforma delle istituzioni tale da creare ex novo organismi capaci di trasmettere la volontà centrale alle unità produttive. Il compito di elaborare i piani compete a commissioni specifiche predisposte sul modello del Gosplan sovietico (Gosudarstvenny Komitet po Planirovaniyu), mentre l’esecuzione viene garantita dai ministeri economici di settore, organizzati per una azione più incisiva, in direzioni centrali settoriali sull’esempio dei glavki sovietici. L’intenzione dei governi con l’avvio dei primi piani, oltre alla ricostruzione, era quello di fermare la grande inflazione generatasi nel dopoguerra attraverso il blocco dei prezzi e, quando ritenuto necessario, l’introduzione di una nuova moneta248.

Gli obiettivi dei piani vengono centrati in anticipo rispetto alle previsioni, con la sola eccezione del piano quinquennale Jugoslavo completato con un anno di ritardo a causa della rottura con l’Unione Sovietica. In tutte le Democrazie popolari la ricostruzione è stata portata al termine nel 1949-50. La produzione industriale non solo è tornata ai livelli anteguerra, ma li ha addirittura superati. Basti pensare che nel cinquanta la sola Albania ha una produzione industriale quattro volte superiore a quella del 1938, mentre l’Ungheria nel 1949 ha una produzione superiore del 40%, la Polonia del 48% e la Romania del 60%. Crescono ad un ritmo più elevato i Paesi che avevano una produzione industriale molto bassa, l’Albania è l’esempio più evidente. Il raggiungimento degli obiettivi produce euforia e viene mitizzato dai sostenitori del modello socialista. Venti anni più tardi quando l’economia ristagnerà e saranno necessarie delle riforme, i conservatori opporranno resistenza motivandola con i risultati ottenuti nelle prime pianificazioni.

Dopo la prima fase, si passa a una pianificazione completamente allineata al modello sovietico, attuando una politica uniforme di sviluppo basata su piani a lungo termine, generalmente quinquennali. L’elemento unificatore sarà la formulazione staliniana della “legge economica

248 Nell’agosto del 1946 fu introdotta il forint ispirata alla prima moneta coniata in Ungheria nel Trecento da Carlo Roberto I di Angiò, che portò dall’Italia la tecnica fiorentina di conio delle monete. Infatti il nome forint deriva proprio dal fiorino usato a Firenze. P. Leon, Storia economica e sociale del mondo, cit., p. 517.

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fondamentale” che si pone l’obiettivo di “assicurare al massimo la soddisfazione dei bisogni materiali e culturali sempre crescenti della società, incrementando e perfezionando continuamente la produzione socialista sulla base di una tecnica superiore”249. I nuovi piani sono basati sull’industrializzazione, specialmente la produzione di beni strumentali. Gli obiettivi verranno raggiunti solo nella Rdt, mentre in Ungheria si registrerà il maggior scarto negativo tra previsioni e risultati ottenuti. Gli obiettivi assegnati sono stati troppo ambiziosi ed eccessivi. Sulla falsa riga dell’URSS questi piani quinquennali diedero vita anche a grandi cantieri di industria pesante, ritenuti simboli di potenza industriale. Esempi sono i complessi metallurgici di Nowa Huta presso Cracovia in Polonia o i cantieri di Stalinvaros in Ungheria250. Il mancato successo provocò le prime reazioni di malcontento. Nel 1953 gli operai manifestano in Germania orientale e Cecoslovacchia, pochi mesi dopo la morte di Stalin, facendo emergere le crepe di un sistema che non garantiva il pieno sviluppo. Parte da qui l’autocritica e i progetti di revisione delle politiche economiche nella Rdt, in Ungheria, Romania, Cecoslovacchia, Bulgaria e Polonia. La risposta sarà la crescita dei salari reali attraverso diminuzioni dei prezzi al dettaglio e l’aumento dei salari monetari. In questi anni si discute anche di (divisione internazionale socialista del lavoro). Per la prima volta viene previsto un coordinamento dei piani nazionali e una armonizzazione della loro periodicità. Ma, malgrado gli sforzi di coordinamento tra i vari piani non si porrà mai in essere una vera e propria rete di relazioni tra le Democrazie. L’URSS resterà la potenza dominante dirigendo politicamente ed economicamente le attività internazionali dei Paesi d’influenza. Le trasformazioni interne e gli esclusivi rapporti internazionali con l’URSS caratterizzano le Democrazie popolari che diventano sempre più un mondo chiuso con scarsi legami economici culturali con il resto d’Europa.

Dal 1956 il reddito nazionale cresce a tassi sempre inferiori. In Polonia dal’8,6% del 1951-55 si passa al 6,6% del 1956-60 e al 6,2% del 1961-65 con una media complessiva dal 1951 al 1970 del 7,2%. Nella Rdt si passa dal 13,2% del 1951-55 al 3,3% solo dieci anni. In Cecoslovacchia dal 8,1% nel 1951-55 al 1,9% del 1961-65, media complessiva tra il 1951 e il 1970 del 6,1%, solo per citare alcuni esempi.

Il declino è dovuto alla inefficacia dello sviluppo estensivo. Le imprese esistenti per l’inadeguata manutenzione, diventano obsolescenti facendo

249 Ivi, p. 518.250-G. Motta, La formazione storico-politica dell’Ungheria con particolare riguardo

all’evoluzione delle strutture sociali, culturali ed economiche, in A. Biagini, R. Tolomei, a cura di, L’Ungheria dal socialismo all’economia di mercato, caratteristiche e prospettive del processo di transizione, Egea, Milano, 1996, pp. 10-12.

249

crollare la produttività del lavoro. Inoltre, nel settore industriale lavorano una quantità ingente di operai provenienti dall’agricoltura, addestrati in fretta e scarsamente qualificati. I beni strumentali destinati a questa fabbriche sono poi fabbricati con tecniche superate dalle imprese già esistenti e mai rinnovate. Dalle osservazioni statistiche del tasso di aumento del reddito nazionale si notano fluttuazioni cicliche generali da un anno all’altro. I Paesi socialisti hanno conosciuto una prima recessione dopo il 1955, come abbiamo visto negli esempi, e una seconda nel 1962-63. Questa situazione è originata dal meccanismo coercitivo di pianificazione necessario per lo sviluppo estensivo. Nei piani venivano fissati dei tassi di crescita elevati stanziando grandi investimenti. Dal momento che la priorità era data ai settori a più alta intensità di capitali che avevano un rapporto capitale-prodotto maggiore, per perseguire tale strategia di crescita dovevano essere obbligatoriamente impiegate ingenti risorse finanziarie. Si verificò il paradosso che il piano finanziario non fu consono alle risorse materiali esistenti con l’eccesso di domanda pianificata d’investimento rispetto all’offerta di beni investibili. Si ebbe pertanto un aumento dei prezzi che resero impossibile attuare le previsioni del piano con il conseguente avvio di tante nuove opere che non saranno portate a termine. Le risorse stanziate verranno, per questa ragione, congelate per lunghi periodi di tempo, durante i quali si trascurerà di ammodernare le imprese già esistenti. Nel 1970 con tutte le difficoltà descritte l’Unione Sovietica e le Democrazie popolari hanno fatto coincidere la strategia di sviluppo con un elevata espansione industriale. Di conseguenza, le problematiche di una società industriale emergeranno anche in questa area geografica. Si imponeva la necessità di un nuovo stadio di sviluppo che superasse le difficoltà emerse negli anni passati. Nel 1967 durante le celebrazioni del cinquantenario della Rivoluzione d’ottobre, Breznev proclamò il compimento di una fase di costruzione di socialismo avanzato. Nel corso del decennio le Democrazie popolari si diedero l’obiettivo di progredire nella stessa direzione dell’URSS: Cecoslovacchia, Bulgaria, Ungheria (1962), Rdt (1963) e in Romania (1969)251. Le caratteristiche fondamentali di questo nuovo modello di socialismo possono riassumersi in quattro tratti: struttura sociale sempre più omogenea; sistema produttivo rinnovato dalla rivoluzione tecno-scientifica; progressiva equalizzazione delle produttività nelle differenti attività economiche e, da queste premesse, una riduzione delle diseguaglianze di remunerazione; soddisfazione completa dei bisogni prioritari degli individui, secondo principi razionali252. Il principale problema da affrontare fu quello della mobilità sociale tra operai, contadini

251-G. Motta, la formazione storico-politica dell’Ungheria con particolare riguardo all’evoluzione delle strutture sociali, culturali ed economiche, cit., pp. 13-15.

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e intellettuali, oltre alla scomparsa delle differenze tra lavoro manuale e lavoro intellettuale, tra città e campagna. Questi scarti progressivamente sempre più ridotti tra condizioni sociali differenti sono di ordine tanto economico quanto politico. L’evoluzione delle Democrazie popolari è uniforme, infatti agricoltori e operai hanno gradualmente raggiunto il medesimo salario. All’interno del settore statalizzato le differenze di remunerazione tra lavoratori sono minime, si accentueranno solo dopo le prime riforme economiche. In agricoltura, nel decennio 1955-65 le cooperative agricole dei Paesi socialisti passarono dalla remunerazione in natura, in proporzione alla giornata di lavoro, ai pagamenti in moneta fino ad introdurre salari, mensili garantiti indipendentemente dal raccolto. La stessa cosa non si verificò in URSS, giacché nel 1970 i Kolchosiani venivano remunerati con i 3/5 circa del salario mensile di un operaio. Con l’introduzione delle riforme la tendenza al livellamento delle remunerazioni nelle industrie statalizzate fu mitigata con un sistema d’incentivi materiali legate ad una maggiore produttività e a premi proporzionalmente più consistenti percepiti dai dirigenti nel raggiungimento degli obiettivi. Il risultato sarà una articolata organizzazione costituita da differenti modalità incentivanti per quadri e personale esecutivo, che tenderà deliberatamente ad accentuare gli scarti tra le remunerazioni di base.

Nel decennio 1960-70 assistiamo anche ad un aumento del numero dei salariati tra il 5,2% e il 7,8% l’anno in base ai Paesi. Contemporaneamente i “fondi di consumo sociale” ossia la quota dei consumi collettivi sono aumentati dal 5,3% al 9% l’anno. Lo scopo è quello di garantire un minimo di risorse a chi non lavora (bambini, malati, studenti, pensionati) e allo stesso tempo di riavvicinare i livelli di reddito procapite, indipendentemente dal numero di persone presenti in ciascuna famiglia. Inoltre, i fondi sociali uniformano i livelli di consumo nei campi della sanità, istruzione, divertimenti, abitazione.

La realizzazione del socialismo ideale attraverso il socialismo reale resterà un utopia, perché il lontano futuro atteso dai dirigenti comunisti dell’URSS e delle Democrazie popolari non sarà alle porte, ma si scontrerà con le contraddizioni interne al sistema, crollando idealmente sotto i colpi di piccone di quel dicembre del 1989 a Berlino est. Del resto nell’idea di sviluppo che abbiamo tracciato in questo lavoro e nella ricerca del ben vivere in contrapposizione al solo benessere materiale i sistemi economici pianificati non avrebbero mai potuto offrire delle soluzioni adeguate, perché come visto da questa breve analisi storica, esse diedero priorità alla

252 P. Leon, Storia economica e sociale del mondo, cit., p. 659.

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crescita industriale ed estensiva e si trovarono a fronteggiare in ogni piano il pieno mancato raggiungimento degli obiettivi fissati.

In questa situazione l’idea di sviluppo, che sul piano teorico poteva avere molte analogie con la sostenibilità nell’accezione ampia di qualità complessiva della vita dell’uomo, avrebbe incontrato molte difficoltà, visto che l’obiettivo a cui potevano avvicinarsi i paesi socialisti era appena garantire “a ciascuno secondo i suoi bisogni”, che non significava affatto “a ciascuno secondo i suoi desideri”.

252

5. Economia e sostenibilità

5.1 Sviluppo sostenibile e crescita economica

Lo sviluppo sostenibile deve essere considerato come un processo dinamico ed articolato che punta a garantire tanto le generazioni presenti quanto i cittadini delle generazioni future ed esso, come sostiene lo stesso rapporto Burtland “non può che fondarsi sulla volontà politica” 253.

È sulla ricerca di questa “volontà” che le Nazioni Unite hanno organizzato il Vertice di Rio del 1992, nel tentativo di richiamare i singoli Stati partecipanti alla responsabilità politica per la sostenibilità, fissando obiettivi e misure necessarie per perseguirla. A venti anni di distanza da Rio, quali sono stati i risultati raggiunti? Il cammino verso la sostenibilità si sta avvicinando alla meta? Sono domande a cui è necessario dare delle risposte che non possono basarsi semplicemente sul raffronto tra risultati attesi e risultati conseguiti. Occorre scendere più in profondità, analizzare le ragioni recondite ed i vari vincoli che si sono incontrati sulla strada dello sviluppo sostenibile. Sviscerando alcuni dati possiamo constatare che le emissioni globali di carbonio sono aumentate quasi del 10%, la Convenzione sulla Biodiversità stenta a decollare, nel mondo ci sono ancora miliardi di cittadini incapaci di soddisfare i bisogni primari, ossia la sperequazione tra Paesi ricchi e poveri non si è attenuata, la distruzione delle foreste è ancora in atto; insomma, abbiamo citato solo alcuni esempi abbastanza esemplificativi che dimostrano come la strada della sostenibilità sia ancora lunga e difficile.

Eppure il concetto di sviluppo sostenibile è entrato a far parte del linguaggio comune della politica e dell’opinione pubblica. L’economista

253 G. Marchisio, F. Raspadori, A. Maneggia, a cura di, Rio cinque anni dopo, cit., pp. 16-18.

253

Herman E. Daly254, in proposito ha scritto che: “Lo sviluppo sostenibile in pratica stenta a funzionare perché è un termine che piace a tutti, ma il cui significato non è chiaro a nessuno.” Inoltre, lo stesso “non sembra avere una precisa valenza operativa”255. Il problema di fondo per Daly non consiste tanto nella vaghezza del termine, perché esso intrinsecamente non è vago, ma nelle molteplici interpretazioni che si sono date, spesso vaghe, ovvero interessatamente e volutamente astratte. Lo sviluppo sostenibile è al contrario uno strumento potente, come riconosce lo stesso Daly, un concetto che concilia

economia ed ecologia, provando a cercare soluzioni a questioni cruciali. L’esaurimento delle risorse naturali, l’inquinamento ambientale, il surriscaldamento del pianeta, sono esternalità che influenzano l’economia, perché hanno un costo in alcuni casi diretto ed in altri indiretto. Nessuno può disconoscere l’esistenza di un collegamento strettissimo tra economia ed ecologia, la cui natura non può essere ignorata. La rivoluzione industriale ha rappresentato il punto di cesura di un modello per così dire sostenibile in cui le attività economiche erano infinitesimali rispetto alla ricchezza della biosfera e l’inizio della modernità con un’economia che è cresciuta a livelli smisurati, tali da impattare con l’ecosistema stesso.

254 H. E. Daly, economista ambientale, è stato allievo di Georgescu-Roegen, con il quale interromperà il proficuo rapporto nel 1989, in seguito a divergenze sullo stato stazionario dell’economia (per Georgescu-Roegen è impossibile avere un completo riciclaggio della materia). Daly è fondatore della corrente economica e dell’omonima rivista Ecological Economics. Dal 1988 al 1994 ha lavorato come Senior Economist per il dipartimento ambientale della World Bank. In precedenza, per circa vent’anni, ha insegnato economia alla Louisiana State University. Daly ha ottenuto una fama crescente per i suoi studi sul rapporto tra economia ed ecosistema (visto come fonte delle materie primarie, bacino ricettivo dei rifiuti e fonte di energia). Per questo lavoro ho utilizzato molti spunti e consultato altrettanti contributi di Daly, tra questi, tradotti anche in italiano, ci sono: L’economia dell’equilibrio biofisico e della crescita morale, Sansoni, Firenze, 1981; For the Common Good: redirecting the economy towards community, the environment and a sustainable future, scritto da Daly insieme a John B. Cobb Jr., nel 1989, con una seconda edizione per il Regno Unito del 1990 (trad. it.: Un’economia per il bene comune, Red Edizioni, Como, 1994).

255 The sustainable is a term that everyone likes but nobody is sure of what it means. Following the publication of Our Common Future. The term rose to the prominence of a mantra – or a shibboleth and began to form an important part of the vocabulary of economists, environmentalists and educators. The report defined “sustainability”, or better said “sustainable development”, as the ability to meet the needs of the present generation without sacrificing the ability of the future to meet its needs. Daly suggests that while not vacuous by any means, the definition and purpose were sufficiently vague to allow for a broad consensus. Probably that was a good political strategy at the time – a consensus on a vague concept was better than a disagreement over a sharply defined one. H. E. Daly, Beyond Growth, Beacom Press, 1996, pp. 1-2 (trad. it., Oltre la crescita. L’economia dello sviluppo sostenibile, Edizioni Comunità, Torino, 2001).

254

Negli anni 70 l’ecologo Paul Ehrlich e John Holdren hanno formalizzato un modello per misurare l’impatto ambientale delle attività umane. Gli autori proposero un’equazione che misura l’impatto ambientale indicato con la lettera I come il prodotto dei seguenti fattori: la popolazione P, il consumo medio pro capite di beni materiali A, il danno ambientale prodotto dalle tecniche impiegate a produrre i beni consumati, T.

L’equazione si esprime nella formula: I = P x A x T.La misurazione è ovviamente un tentativo che non spiega in modo

esaustivo con un indicatore di sintesi la misura dell’impatto ambientale, tuttavia costituisce un primo e brillante tentativo di cercare degli indicatori per quantificare l’impatto stesso, al fine di dotarsi di una bussola per orientarsi nelle misure e nelle politiche da intraprendere. Negli anni la formula fu corretta con l’ausilio di altre variabili: il “consumo umano pro capite” di materia ed energia indicato dalla lettera A e l’“impatto ambientale per unità di consumo” indicato con T. In sintesi: Impatto ambientale = (Popolazione) moltiplicato (Consumo pro capite) moltiplicato (Impatto ambientale per unità di consumo).

Tale formula ha un grado di attendibilità più raffinato rispetto alla precedente e si presta ad analisi più esaustive. Valutando i dati storici alla luce dell’equazione avremmo che:

1. i consumi pro capite hanno fatto rilevare un andamento sempre crescente; dal 1850 ad oggi lo stesso è aumentato quasi del triplo;

2. la crescita demografica è in costante aumento;3. la variabile T mostra invece un andamento decrescente, infatti, si è

osservato che l’impatto ambientale per unità di consumo tende a diminuire con il trascorrere del tempo, soprattutto nelle economie di mercato più avanzate che ricercano l’efficienza.

Il risultato dell’equazione mostra come la ricerca di maggiore efficienza implica una diminuzione dell’impatto ambientale. Ma questo è sempre vero?

L’innovazione tecnologica può diventare il fattore chiave che consentirà di favorire la sostenibilità, anche nella condizione di crescita demografica e di aumento dei consumi?

Dobbiamo avere fiducia esclusivamente nella tecnologia per realizzare lo sviluppo sostenibile?

La domanda riguarda il futuro, quindi si possono solo costruire scenari più o meno fondati. Le analisi demografiche sono abbastanza concordi nel prevedere che la popolazione mondiale crescerà ancora in questo secolo, ma tenderà a stabilizzarsi intorno ai 9 miliardi di persone.

Le Nazioni Unite hanno pubblicato un nuovo rapporto che traccia uno scenario per il futuro: World Demographic Trend. Si stima che la

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popolazione mondiale sarà di 9,4 miliardi nel 2070. La cosa sconcertante, inoltre, per gli equilibri mondiali, è che nel 2100 potremmo avere 8 miliardi di abitanti in 39 paesi Africani, 7,5 in 9 paesi Asiatici e 1 miliardo in 4 paesi dell’America Latina, mentre Usa e Europa vedranno dimezzare la propria popolazione. Lo studio non tiene in considerazione delle migrazioni, ma è abbastanza plausibile pensare che, con i cambiamenti climatici che avanzano, soprattutto in alcune aree del globo (Africa Australe, Bangladesh, Pakistan), ci sarà un sovraffollamento delle città. Già nel 2025 le metropoli ospiteranno due terzi della popolazione totale.256

Una crescita elevata che certo inciderà sulla dinamica dell’impatto ambientale, ma che non sconvolgerà l’ordine di grandezza di questo impatto. Il livello di pressione antropica sulla biosfera nei prossimi anni dipenderà essenzialmente dall’andamento degli altri due fattori dell’equazione: i consumi pro capite e il carico inquinante per unità di consumo. Uno schema esemplificativo ci aiuterà a capire come l’interdipendenza di questi fattori influenza lo sviluppo sostenibile fino a renderlo non sostenibile.

A aumenta più di quanto T diminuisca

I aumenta Crescita economicanon sostenibile

A diminuisce o aumenta meno di quanto T diminuisca

I si stabilizza o diminuisce

Sviluppo economico sostenibile

Lo sviluppo sostenibile, anche in un quadro di stabilizzazione della popolazione mondiale e di accelerazione dell’innovazione tecnologica

256 Il Rapporto “Revisione 2010” del World Population Prospects, rappresenta le ultime stime mondiali e le proiezioni demografiche elaborate dalla Divisione Popolazione del Dipartimento degli Affari Economici e Sociali del Segretariato delle Nazioni Unite. I risultati completi della “Revisione 2010” sono presentati in due volumi online: World Population Prospects: The 2010 Revision, Volume I: Comprehensive Tables. ST/ESA/SER.A/313; World Population Prospects: The 2010 Revision, Volume I: Demographic Profile. ST/ESA/SER.A/317. Il primo volume fornisce tabelle dettagliate che mostrano i principali indicatori demografici per ogni gruppo di sviluppo, per grandi aree, regione e paese per periodi che vano dal 1950-2100. Il secondo volume contiene i profili demografici che presentano serie temporali per il periodo che va dal 1950 al 2100 e per gli indicatori scelti per ciascun paese con almeno 100.000 abitanti nel 2010 così come per i gruppi di sviluppo, aree e Paesi. Inoltre i principali risultati della “Revisione 2010” sono inclusi in ogni volume insieme con le ipotesi di proiezioni, e una serie di grafici forniscono indicatori sintetici per il periodo più recente.

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sostenibile, è possibile ad una sola condizione, che il fattore A si stabilizzi o tenda a diminuire: in altri termini, solo se si fermano o, addirittura regrediscono i consumi medi pro capite di beni materiali ed energetici.

Daly a questo proposito pone un esempio abbastanza esemplificativo: «uno stivaggio appropriato distribuisce il peso nel battello in modo ottimale, così da massimizzare il carico trasportato. Ma c’è ancora un limite assoluto a quanto peso un battello possa trasportare, anche se questo è sistemato in modo ottimale. (…) il peso addizionale continuerà ad essere distribuito uniformemente fino a che il battello, caricato in modo opportuno, affonda»257.

Daly parte dal presupposto che il sistema economico sia un sottosistema di un insieme più grande e complesso che lo contiene e dunque lo influenza. In quanto tale, l’economia non può ritenersi autosufficiente, né si può pensare che sia un sistema illimitato capace di crescere in continuazione: la crescita del sottosistema economico, scrive, è limitata dalla dimensione fissa dell’ecosistema che lo ospita258.

In siffatto contesto, l’autore avanza una critica forte a tutti quegli economisti e scienziati che rifiutano questa ipotesi e continuano a pensare che le crisi del modello economico possono essere risolte con più tecnica e più economia. La sostenibilità sarà realizzata solo se il modello attuale sarà orientato in modo da essere compatibile con l’ecosistema, in particolare, perché esso è la struttura portante da cui dipende il sistema stesso. Occorrono dunque azioni qualitative che possono essere esplicitate in una migliore economia ed una migliore tecnica, piuttosto che in più economia e tecnica. La situazione contemporanea, altresì per Daly, si è mossa in senso contrario, generando un modus operandi incompatibile con la sostenibilità. A sostegno della sua tesi, egli evidenzia come l’aumentare della competitività tra gli attori economici a livello mondiale abbia comportato una ristrutturazione industriale e sociale tale da privilegiare in nome dell’efficienza e del profitto, una riduzione degli standard sociali e ambientali, e come risultante finale la completa inefficienza di tutto il sistema economico rispetto all’ambiente ed alla società.

La sua analisi si sposta poi sulla globalizzazione, sottolineando la permeabilità dei confini nazionali al movimento di beni, capitali e lavoro, causa della perdita di controllo della vita economica di una nazione. Le conseguenze del controllo economico è la perdita di forza per applicare politiche ambientali e sociali.

257 H. E. Daly, J. B. Cobb, Un’economia per il bene comune, cit., pp. 124-135.258 Ivi, p. 138.

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Un aspetto interessante della speculazione di Daly è il tentativo di dimostrare non solo l’esistenza della scarsità delle risorse, cosa del resto al giorno d’oggi evidente e sotto gli occhi di tutti, ma di individuare le coordinate fisiche fondamentali di essa ricorrendo al concetto di entropia. Richiamando la II legge della termodinamica, si definisce entropia la misura del disordine di qualunque sistema fisico ed in senso macroscopico dell’universo. L’aumento di entropia corrisponde al passaggio da uno stato ordinato ad uno disordinato, ovvero l’accrescimento del disordine in un sistema fisico.

In tal modo Daly riesce a dimostrare facilmente come l’entropia stessa incide sul problema della scarsità delle risorse. Se non vi fosse alcuna relazione con il sistema universo, potremmo bruciare, ad esempio, litri di benzina infinitamente senza preoccuparci della fine di disponibilità del carburante. Si deduce, pertanto, che l’economia non è slegata dal sistema fisico - natura – mondo, ma anzi, deve soggiacere a limiti biofisici da esso imposti. Solo in relazione e nel rispetto dei vincoli naturali si potrà porre in essere una programmazione economica corretta, ossia rispettosa del sistema universo, del quale, come manifestazione dell’attività umana, ne è parte integrante.

Se la teoria di Daly fosse accettabile, l’equilibrio economico di marca neoclassica dovrebbe essere riscritto. Capitale e lavoro non saranno più considerati fattori primari per la produzione, ma intermedi dell’unico input fondamentale di produzione, individuato da Daly nella materia ed energia a bassi livelli di entropia.

Anche questo approccio dimostra come la crescita delle economie avanzate non sia stata in grado di misurarsi con l’ecosistema. Di fronte ai successi per i continui aumenti del Prodotto Interno Lordo delle nazioni, si sono trascurati, se non ignorati del tutto, gli effetti negativi generati dal modello attuale di crescita. Nelle pagine precedenti abbiamo passato in rassegna le principali tappe storiche della nascita tanto della sensibilità ambientale nell’opinione pubblica quanto dell’evoluzione dei provvedimenti presi a livello politico dalla comunità internazionale. Chiarito una volta per tutte che la questione ambiente non è problema risolvibile a livello di singolo Stato, ma anzi esso trasborda dai confini geopolitici per abbracciare un territorio più vasto sul quale ricadono gli effetti di scelte effettuate in materia dall’uomo. È opportuno ora “fare la tara”, ossia valutare il risultato netto di una storia economica e politica fortemente influenzata dal modello economico.

Se si assumesse unicamente come valore la crescita del PIL, dovremmo concludere la nostra analisi in modo relativamente positivo. L’indicatore della crescita delle nazioni è aumentato vertiginosamente nel corso

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dell’ultimo secolo a livello mondiale. Le economie avanzate, ossia quelle dei Paesi occidentali più industrializzati del mondo, hanno avuto una flessione negli ultimi decenni, ma complessivamente sono state in crescita. Presentiamo una serie di grafici prodotti dal Fondo Monetario Internazionale, che riassumono la crescita mondiale a partire dagli anni 90, differenziando i livelli Paese per Paese.

Si nota facilmente come il PIL mondiale sia in crescita ed in particolare come alcune Nazioni crescano più di altre. Mancano i dati relativi ai Paesi del blocco socialista. I paesi più ricchi crescono di meno rispetto ad alcuni paesi del Sud povero del mondo, ad eccezione di alcuni Stati dell’area euro.

Nel 1996 scoppia la new-economy, che coinvolge in modo dirompente i mercati asiatici, si noti come Cina e Corea del Sud fanno registrare una crescita di oltre il 10%. Il Nord America riprende a crescere in modo più forte, anche grazie alla sottoscrizione del Trattato di Nafta nel 1992 ed entrato in vigore nel 1994259. Ancora buoni i livelli di crescita di Islanda e Irlanda mentre l’Argentina ed il Cile si dimostrano i Paesi più virtuosi del Sud America.

259 Il Trattato di NAFTA, acronimo di North American Free Trade Agreement, è un accordo per favorire liberi scambi commerciali tra Stati Uniti, Canada e Messico. L’Accordo venne sottoscritto tra il Presidente degli Stati Uniti Bill Clinton, il Presidente Messicano Carlos Salinas de Gortari e il Primo Ministro Canadese Brian Mulroney.

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A partire dal 2001 le cose cominciano a cambiare. L’attentato alle Torri Gemelle negli Stati Uniti, la nascente minaccia del terrorismo internazionale, la guerra in Afganistan, inaugurano un periodo di grandi timori, in particolare nei Paesi appartenenti al gruppo del G8. Paure subito avvertite anche dai mercati finanziari. Si noti, nel grafico in basso, come la crescita sia inferiore rispetto a quanto rilevato nel grafico precedente. Contrariamente il blocco orientale ed i Paesi post socialisti hanno fatto registrare dei dati molto positivi.

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Nel 2009 a “tenere banco” è il cosiddetto credit crunch, letteralmente “stretta del credito”, originato dalla crisi dei mutui subprime, prima del 2007. Il credit crunch indica la restrizione del credito a imprese e famiglie, che espone le stesse al rischio di fallimento. In questo particolare contesto, il PIL mondiale ha avuto una forte battuta di arresto, come si può vedere dall’aumento delle aree verdi nel grafico. Ad eccezione della Cina e di alcune altre Nazioni del blocco orientale, le economie dei Paesi del mondo entrano in una fase di grande difficoltà. La crisi finanziaria si fa sentire e molte imprese presentano difficoltà a reperire quel fabbisogno finanziario necessario a svolgere la normale attività, sia per l’aumento dei tassi d’interesse praticati dalle banche, sia per il prolungamento del tempo medio di incasso dei crediti da parte dei fornitori e, almeno in Italia, di enti pubblici.

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Nel 2011 l’economia mondiale viene scossa dalla crisi dei debiti sovrani nell’area dell’Euro. Ciò è causa di un forte periodo di turbolenza finanziaria. I mercati hanno perso fiducia nei titoli di Stato dei principali Paesi della UE, in particolare di Italia, Spagna e Irlanda. Mentre la Grecia versa in una situazione difficilissima ed è prossima al default, se non verranno attuate misure straordinarie che garantiscano la solvibilità, anche parziale, dei debiti contratti.

Dai primi dati rilasciati dal Fondo Monetario Internazionale, il PIL mondiale crescerà del 3,3% nel 2012, meno 0,7 punti percentuali rispetto alla stima, proprio a causa della crisi dell’area euro. Nel grafico proposto sotto realizzato a cura del centro studi dell’Economist, possiamo vedere come la contrazione della crescita dei Paesi Occidentali viene compensata da quella di alcuni Paesi emergenti, singolarmente dalla Cina la cui crescita sta facendo registrare livelli sempre più alti che, nel 2013 raggiungerà valori di crescita pari ad 1/3 di tutta la crescita mondiale.

Il grafico mostra anche la difficile situazione italiana con un PIL in contrazione del 2,2% nel 2012. Le raccomandazioni per uscire dalla crisi sono unanimi e concordanti e riguardano l’aumento di crescita per i Paesi in difficoltà, in particolare dell’area Euro. Il Fondo Monetario Internazionale nel rapporto World Economic Outlook Update scrive che

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«La più immediata sfida politica è ristabilire la fiducia e mettere fine alla crisi dell’area euro sostenendo la crescita»260.

260 I grafici ed i dati presentati in questo paragrafo sono consultabili nella sezione Data e Statistics del sito istituzionale del Fondo Monetario Internazionale: www.imf.org. L’ultimo grafico è reperibile sul sito dell’Economist: www.economist.com.

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Non è questa la sede per commentare le implicazioni economiche dei singoli dati, ma per avanzare alcune osservazioni di base. Il problema delle economie mondiali ed anche la soluzione sembra essere, come anche sottolineato dal Fondo Monetario Internazionale, quello della crescita. L’indicatore su cui si basano i giudizi è il PIL che, a livello mondiale, registra tassi sempre crescenti, quando in misura maggiore, quando in misura minore, in particolare nei periodi di crisi come questa del 2011 (c’è una contrazione dello 0,7% sulla stima per il 2012 a causa delle difficoltà dell’area Euro). Le economie dei Paesi occidentali stentano a tenere il passo delle Economie emergenti, che negli ultimi anni, come si è visto, hanno fatto registrare elevati tassi di crescita.

Negli ultimi mesi del 2011 ed all’inizio del 2012 l’Europa sta attraversando, come rilevato nei grafici precedenti, un periodo di forte crisi economica; gli Stati del vecchio continente sono attanagliati dal debito pubblico e non riescono, anche adottando politiche restrittive e di austerity , a tranquillizzare i mercati finanziari. La turbolenza che si registra nella finanza è davvero enorme, il differenziale tra i bund tedeschi e quelli italiani, ad esempio, ha spesso superato il tetto dei 500 punti base, con notevole sacrificio per il Paese che ha visto piazzare titoli di Stato a tassi d’interesse sostenuti. Nel corso dei primi anni del 2012 si sono fatti passi notevoli per tenere sotto controllo il debito, non solo in Italia, ma anche in Spagna e Grecia, Paesi ritenuti più a rischio e maggiormente sotto attacco dai mercati finanziari. Le misure adottate evidentemente non bastano; al momento di chi scrive, i differenziali continuano a crescere, forse perché manca nell’Europa una politica solidaristica ed unitaria: ciò che si decide ad un vertice nei piani anti – crisi, viene poi disfatto, come la tela di Penelope nel vertice successivo.

Diventa, pertanto, difficile fare un’analisi puntuale sulla situazione economico-finanziaria del 2012, anche perché è cronaca in continua evoluzione al momento della stesura di questo testo. Nella zona dell’Euro il Paese più forte economicamente è la Germania, che da sempre ha adottata una politica di tolleranza zero nei confronti dell’inflazione. Negli anni ottanta diversi Paesi tra cui l’Italia, la Danimarca, la Spagna ecc. decisero di lanciarsi in una strategia politica di contenimento dell’inflazione, rinunciando a quelle misure espansionistiche del debito pubblico per finanziare servizi e la macchina burocratica dello Stato. Agganciarono, di fatto, la loro moneta al marco tedesco cedendo gradualmente parte del controllo della loro politica macroeconomica a favore di una banca centrale. La cessione diventerà piena con l’Euro e con il conferimento della politica monetaria alla Banca Centrale Europea. La logica del contenimento

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dell’inflazione si basava sull’assunto che si potesse raggiungere l’obiettivo della disoccupazione minima tanto con tassi bassi d’inflazione che con tassi alti. La Banca Centrale Europea fissava il tasso intorno o al di sotto di una cifra e gli Stati membri dovevano adeguarsi attivando politiche in grado di contenere e centrare l’obiettivo dell’inflazione programmata dalla Banca Centrale. Le strategie di contenimento dell’inflazione ebbero successo, la politica monetaria con la nascita dell’Euro fu in mano ad un’unica istituzione che controllò ed indirizzo la quantità di moneta da immettere nel sistema economico ed i tassi d’interesse. A distanza di qualche anno, però, dopo una crescita positiva, come si può rilevare dal grafico sopra, le cose sono peggiorate radicalmente. L’inflazione bassa non ha garantito ai paesi che inizialmente si sono agganciati al marco tedesco per poi confluire nell’Euro, quella minima disoccupazione sperata, inoltre gli attacchi speculativi della finanza e l’aumento di differenziale con il bund tedesco sta costringendo i Paesi a rivedere le politiche di spesa pubblica verso un contenimento dei costi ed un taglio di servizi che erano prerogativa dello Stato. L’Unione monetaria non è stata prodromica di unità politica, la disoccupazione è galoppante ed i tassi di crescita sono al ribasso. La soluzione che si prospetta e che si spera è un ritorno alla crescita in modo che si rilanci l’economia e con essa aumentino gli introiti degli Stati, diminuisca la disoccupazione e riprenda il cammino del meraviglioso progresso. C’è allora da chiedersi su quale leve si potrà lanciare l’economia, uscendo dalla saturazione dei comparti classici e con gli annosi problemi da risolvere posti pocanzi? Come può lo Stato aiutare e sostenere la crescita? In particolare oggi che non ha più il potere di porre in essere una politica espansionistica e di debito pubblico? È ancora lo Stato capace di indirizzare interventi efficienti in economia? Quale è e quale dovrà essere il suo ruolo? Se la crescita non ha assicurato gli obiettivi di uguaglianza, di piena occupazione, di corretta distribuzione del reddito, di soluzione delle questioni ambientali, come potrà essere una soluzione convincente se solo collegata ad un semplice parametro economico come l’aumento del Prodotto di una Nazione?

Le risposte non sono immediate e soprattutto non sono ovvie. Primo perché se è vero che nei Paesi occidentali la crescita economica ha generato un benessere diffuso e anche corretto rilevare come sono aumentate le crisi ambientali e come si è lontani dal risolvere problemi quali disoccupazione, giustizia sociale ecc. Secondo perché nei Paesi ad economia emergente il benessere sta raggiungendo limitati ceti della popolazione, come già riportato, mentre la maggior parte versa ancora in situazioni di povertà. Abbiamo già detto come crescita e sviluppo non sono sinonimi, ma hanno significati ed implicazioni concettuali diversi. Lo stesso Daly sostiene che:

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«Lo sviluppo sostenibile è sviluppo senza crescita - ossia senza crescita del volume della produzione oltre la capacità di rigenerazione e di assorbimento dell’ambiente naturale», quindi, ponendo un freno al livello di crescita oltre i limiti imposti dall’ecosistema.

C’è un poi, un altro problema legato alla crescita, quello delle esternalità negative. Queste rappresentano gli effetti collaterali, o per meglio dire i danni, che le attività produttive provocano alla società. Bresso definisce le esternalità un danno provocato a terzi da un soggetto nel corso della propria attività, senza che preesistesse un accordo da parte di questi ad assumerlo e senza che avvenga una compensazione a posteriori261. Insomma si ha un danno senza alcun responsabile, basti pensare che un tipico esempio di esternalità negativa può essere una malattia causata dall’inquinamento dell’aria. In questo caso è difficile individuare in che misura c’è un responsabile; se in un’area vi sono tante fabbriche che lavorano attraverso la combustione, le auto che rilasciano smog, chi è causa della malattia? Quale fabbrica? Tutte? Ma in che misura e con quali singole responsabilità? Diventa difficile stabilirlo. Del resto nelle condizioni di libero mercato, un imprenditore difficilmente adotterebbe spontaneamente delle contromisure, perché costose e, quindi, incidenti sul prezzo finale del prodotto. Anche un consumatore razionale tenderebbe a, parità di qualità, comprare un prodotto che ha un costo inferiore rispetto ad un altro, poiché il bene qualità ambiente non si incorpora nel prodotto e non è quindi percepibile. L’intervento pubblico da un lato, con delle leggi che introducono il rischio ambientale e, quindi, dei vincoli di produzione a cui si devono attenere tutte le imprese e l’educazione del consumatore alla sostenibilità dall’altro, che dovrebbe indurlo a scegliere prodotti eco-sostenibili rispetto ad altri anche meno costosi, possono attenuare il sorgere di esternalità negative. Sulla prima soluzione è innegabile che negli ultimi anni si siano fatti dei passi avanti in materia. Sulla seconda, l’atteggiamento di consumerismo, cioè consumo critico, dipende da numerosi fattori tra i quali la cultura del consumatore e il suo livello di reddito sono tra i più importanti.

Quello delle esternalità è solo un aspetto del problema, che come un caleidoscopio presenta una molteplicità di facce. L’aumento di benessere legato alla crescita è reale? Cioè, chi percepisce redditi maggiori è più felice? Pensiamo al caso in cui per aumentare il benessere si decida di lavorare due ore in più di straordinario su una giornata lavorativa di otto ore e che per raggiungere da casa il posto di lavoro e rientrare ci vogliano mediamente altre due ore. Se l’individuo dorme otto ore, usufruisce di

261 M. Bresso, Per un’economia ecologica, La Nuova Italia Scientifica, Roma, 1993, pp. 191-193.

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un’ora per i pasti, il tempo libero si ridurrebbe a tre ore giornaliere. Una quantità accettabile? Dipende dalle preferenze del lavoratore, di certo se lo stesso è costretto a lavorare per sopravvivere, allora il suo lavoro contribuirà si ad aumentare il PIL, ma non gli gioverà nel benessere.

Occorre allora chiedersi quale sia il ruolo della crescita, quali problemi intende risolvere e in più in generale quale sia il ruolo dell’economia.

Proveremo a rispondere a queste domande, così come tenteremo di capire cosa non funziona ancora nelle politiche di sviluppo sostenibile, a distanza di tanti anni dalla Conferenza di Rio.

5.2 La via per una governance internazionale e l’economia come strumento

Vista la differenza tra crescita e sviluppo, proviamo a rispondere alle questioni poste al paragrafo precedente. La crescita, per come è intesa, non ha dimostrato di poter risolvere le problematiche e le sfide della società contemporanea. Una volta soddisfatte le esigenze necessarie di beni materiali per i cittadini, sarebbe opportuno che la società persegua la soddisfazione di beni immateriali quali la salute, la cultura, la qualità della vita, in una parola, il ben–vivere. La sostenibilità è un passaggio fondamentale per raggiungere tale obiettivo, oltre che la stessa integra e favorisce la sostenibilità sociale: la vera sfida, a parere di chi scrive, della società del XXI secolo.

I grafici del precedente paragrafo hanno dimostrato come l’economia attraversi cicli di crescita maggiori e cicli recessivi. Come un pendolo il sistema economico oscilla tra questi due poli. Tuttavia le economie avanzate e quelle in pieno sviluppo nel secolo trascorso sono mediamente cresciute a ritmi maggiori rispetto ai secoli passati. Ma a fronte di tanta crescita le diseguaglianze sociali non sono diminuite, anzi in alcuni casi, sono aumentate. Le crisi ambientali sono uno degli effetti collaterali del sistema economico basato sulla crescita: scarsità delle risorse, surriscaldamento del pianeta, disboscamento, incidenti ambientali, sono minacce dall’impatto notevole sulla società, tali da compromettere la vita stessa del pianeta.

Nei capitoli precedenti abbiamo analizzato alcuni modelli che proponevano la decrescita come chiave di volta per la questione ambientale e sociale. Latouche, con il suo studio, ha sferrato un duro attacco all’economia di mercato, mettendo in discussione il mercantilismo di fondo su cui si regge. La decrescita serena per Latouche può davvero garantire la felicità e il rispetto dell’ambiente. Altri gli studiosi di impostazione

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Marxista hanno poi rilevato che la questione ambientale è strettamente collegata al sistema capitalista, finalizzato all’accumulazione di capitale ed alla logica di sempre maggiori tassi di profitti. È chiaro che un nuovo paradigma capace di garantire la salvaguardia ambientale necessita di un profondo e strutturale cambiamento della società e dell’economia262.

Le teorie menzionate hanno in comune l’analisi delle debolezze del sistema capitalista, incapace, secondo queste, di garantire la sostenibilità. La comunità internazionale e l’UE hanno tuttavia adottato e proposto come cornice a qualsivoglia obiettivo economico lo sviluppo sostenibile, ossia la sostenibilità come criterio informatore delle azioni politiche anche miranti alla crescita. Se da un lato la crescita non è risolutrice dei problemi, dall’altro l’aumento di essa in misura sostenibile non è la causa di tutti i mali. Viceversa un maggiore sviluppo, così come lo abbiamo definito in questo lavoro, è da ritenersi positivo per la collettiva anche in presenza di crescita.

Buone politiche in favore della sostenibilità, a ben vedere, non sono poi così incompatibili con la crescita. Per fare un esempio basti analizzare i dati della produzione di energia da fonti rinnovabili a partire dal 2009. L’Europa e gli Stati Uniti hanno istallato molti più impianti di energia rinnovabile rispetto a quelli destinati alla produzione di altre fonti: rispettivamente il 60% l’Europa e più del 50% gli Usa. La crescita del settore a livello mondiale indica che il fotovoltaico nel solo 2009 è cresciuto più del 53%, l’eolico attorno al 33%, mentre il solare termico del 41% e nel 2012 si prevedono ulteriori aumenti263. Anche l’Italia negli ultimi anni ha raggiunto buoni livelli di produzione con quasi 5.000 Mw di eolico nel 2009 e 1.500 Mw di fotovoltaico nel 2010264. In questi dati è possibile cogliere una grande opportunità non solo di sviluppo, ma anche di crescita economica. «Trattandosi di un settore relativamente nuovo – scrivono Gianni Mattioli e Massimo Scalia – esiste ancora l’occasione “unica” di creare un indotto non solo di piccole e medie imprese, ma anche di grandi

262 Per un approfondimento sul pensiero di Latouche e sulle posizioni di alcuni studiosi di impronta neomarxista, cfr. cap. II del presente lavoro.

263 L’Italia si trova in buona posizione per investimenti e capacità istallata nelle energie rinnovabili. Nel settore fotovoltaico può vantare il primato di essere tra le nazioni con più capacità produttiva da questo tipo di fonti, senza dimenticare ulteriori successi nel campo della geotermia e dell’eolico. Un quadro molto puntuale e dettagliato e offerto dal rapporto della Fondazione Energylab. Cfr. S. Stefani, a cura di, Le energie da fonti rinnovabili: lo stato dell’arte, Fondazione Energylab, Gieedizioni, Milano, 2011.

264 Cfr. G. Mattioli, M. Scalia, Nucleare, a chi conviene? Le tecnologie, i rischi, i costi, cit., p. 176.

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imprese, capaci di competere sul versante tecnologico grazie alla ricerca e che pertanto possono crescere significativamente»265.

Si devono quindi creare quelle condizioni per attuare una filiera industriale efficiente con indubbie e positive ricadute in termini di crescita economica e di occupazione266. Il Presidente degli Stati Uniti, Barak Obama, ha proposto un programma di politica ambientale ed energetica che prevede un fabbisogno finanziario di circa 160 milioni di dollari con la prospettiva di aumentare la produzione da fonti rinnovabili, affrancarsi maggiormente dall’importazione di fonti fossili, e per ultimo, favorire la crescita di un settore industriale capace di assorbire oltre due milioni di posti di lavoro. Obama, che non ha mai promesso di abbandonare il nucleare, ha intravisto nella green economy la possibilità di dare smalto all’economia e rilanciare l’occupazione, oltre alla consapevolezza di dare risposte concrete ai problemi dell’effetto serra e della limitatezza delle risorse.

Anche la Cina si sta muovendo in tal senso; è consapevole che la sua copiosa espansione economica è stata possibile attraverso l’utilizzo di tecnologie energivore basate su fonti fossili ed in particolare sul carbone. Le autorità cinesi, consci degli effetti collaterali legati all’inquinamento, avevano già da tempo studiato una strategia di leap - frog, letteralmente salto della rana, ossia salto di una fase tecnologia per un’altra caratterizzata da minor impatto ambientale e basata su fonti rinnovabili: l’impegno del colosso asiatico sarà quello di coprire il 15% dei suoi consumi energetici con fonti rinnovabili entro il 2020.

Sull’Europa abbiamo già scritto: il noto accordo 20 - 20 - 20 del Consiglio Europeo firmato il 12 dicembre del 2008 che prevede appunto la riduzione del 20% dell’effetto serra, l’aumento del 20% dell’efficienza energetica e infine la copertura pari al 20% di energia prodotta da fonti rinnovabili sul totale dell’energia.

Nel resto del mondo, di particolare rilievo è il piano presentato dal premier giapponese Hatoyama che, per molti aspetti, ricalca quello di Obama e le politiche dell’Indonesia che si muovono nella medesima direzione.

265 Ivi, p. 177.266 In Italia la maggior parte delle tecnologie per produrre fonti rinnovabili sono

prodotte all’estero. Nel nostro Paese si è sviluppato intorno a questo mondo un promettente settore che fornisce per lo più servizi: progettazione, credito per l’acquisto della tecnologia, assistenza, pratiche burocratiche, istallazione, riparazione e supporto tecnico. Siamo ben lontani dalla nascita di un vero e proprio settore industriale che si occupa prettamente della produzione della tecnologia. Secondo Gianni Mattioli e Massimo Scalia le nuove prospettive aperte dalle rinnovabili sono limitate nel tempo: “La sgradevole sensazione è che si sta perdendo un’occasione”. Ivi, pp. 176-177.

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Si può affermare, dato il quadro di riferimento, che la comunità internazionale ha cominciato ad interessarsi in modo più incisivo della questione ambiente, al di là del sistema economico di riferimento. Ciò è centrale per lo sviluppo globale, ma può diventarlo anche per la crescita, visti i forti investimenti previsti e gli obiettivi di aumento dell’occupazione e nascita di un comparto industriale di questo settore.

Certo esistono ancora delle resistenze, i critici dell’attuale modello economico potranno obiettare che i risultati attesi sono ancora esigui rispetto al problema e soprattutto che il sistema capitalista non sarà mai in grado, per leggi endogene, a realizzare una vera società sostenibile; si potranno avanzare le perplessità che abbiamo ben spiegato nel corso di questo lavoro, ma non c’è dubbio che un segnale, se pur timido, della ricerca di un nuovo paradigma può essere facilmente colto.

Il piano americano sta incontrando notevoli ostacoli per la sua attuazione. Obama sembra avere problemi anche nella sua stessa maggioranza. La Cina, dal canto suo, sta crescendo a tassi maggiori di quelli stimati, così che le riduzioni di energia da fonti fossili in programma risultano poco efficaci e dovranno essere ridefinite.

Stati Uniti e Cina sono interpreti principali in questa sfida, la loro coabitazione nel condomino mondiale, sancita dal Cop – 15 a Copenaghen, farà sì che le loro scelte saranno determinanti sul sistema mondo e sulla ricerca di sostenibilità.

Tra i due blocchi si pone l’Europa, ancora timida sul piano internazionale, perché afflitta da una gravissima crisi economica e perché non riesce a parlare con voce unica. Sul tavolo dunque, si gioca una partita geopolitica di notevole importanza. Assistiamo a proclami, passi indietro e difficoltà di ogni genere, ma i temi sostenibili, come una goccia che batte sulla roccia, si stanno comunque aprendo un varco, ne sono prova i dati dianzi citati, così come si sta sviluppando un nuovo mercato con effetti benefici a livello sociale ed economico: in questo senso anche in favore della tanto criticata crescita di parte degli studiosi ambientalisti.

Il mercato non può però farcela da solo e questo è un dato indiscutibile. Il liberismo più spinto applicato all’economia non ha soddisfatto tutte le aspettative riposte in esso: dalla disparità tra Nord e Sud del mondo, al problema ambientale, alla disoccupazione. L’illusione che il libero mercato in assenza di regole potesse funzionare in modo equilibrato è ormai caduta ed anzi, ha portato a comportamenti speculativi privi di etica e di visione collettiva. Vi è il problema delle sperequazioni del reddito: sebbene si registri una crescita di ricchezza, quest’ultima non si distribuisce in modo equilibrato nella popolazione. Una delle misure più utilizzate per stimare la

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disparità dei redditi è il coefficiente di Gini, che misura la disuguaglianza di una grandezza presa come termine di riferimento (nel caso in esame il reddito) rispetto ad una ipotetica distribuzione egualitaria267. L’aumentare del reddito non implica certo la riduzione delle disuguaglianze, anzi in alcuni casi, queste ultime possono aumentare: ad esempio le indagini storiche condotte con il coefficiente hanno rilevato come nel XVII secolo in Inghilterra e in Galles si registrava un reddito medio pari a tre o quattro volte quello di sussistenza, ma il coefficiente di Gini non differiva molto da quello stimabile durante l’Impero Romano268. L’esempio mostra proprio come tali aumenti di reddito non migliorano in definitiva la distribuzione egualitaria nella popolazione.

Le società contemporanee ovviamente hanno tassi di benessere molto più alti rispetto al passato, con una distribuzione del reddito diffuso in modo più equilibrato. Ciò è riscontrabile nei Paesi ad economia avanzata dove l’aumento della ricchezza è stato accompagnato da un generale miglioramento delle condizioni di vita della popolazione. I risultati hanno tuttavia diverse chiavi di interpretazioni. Le ragioni del maggior benessere non sono e non devono essere ricondotte unicamente ad un aumento del PIL, ma altresì ad una serie di cause e concause che possono spiegare i risultati positivi raggiunti da queste economie rispetto al passato. In questa fase di crescita emergono molte caratteristiche proprie dello sviluppo che si confondono, come spesso accade, con fenomeni congiunturali di espansione economica. Il driver decisivo può essere individuato nell’aumento di istruzione della popolazione, che ha favorito l’emergere di competenze, conoscenze ed abilità in un numero sempre maggiore di persone, uniformando il bagaglio culturale, tecnico, e di saperi dell’individuo. Ciò è stato possibile grazie all’affermarsi della democrazia, che ha dato rappresentanza ai comuni cittadini consentendo di innalzare ad un livello politico decisionale le istanze e le problematiche dei cittadini stessi. Altro driver fondamentale è stato la crescente complessità della tecnologia, oltre alla sua diffusione, che hanno fatto aumentare la domanda di lavoratori qualificati.

267-Il coefficiente di Gini può restituire risultati compresi nell’intervallo tra 0 ed 1, considerati come valori estremi: se il coefficiente è pari a 0 si avrà uguaglianza perfetta ed ogni individuo del campione riceverà il medesimo reddito; quando sarà pari ad 1 si rileverà disuguaglianza massima, ossia un solo membro della popolazione si approprierà di tutto il reddito. Il coefficiente viene letto dunque in base ai risultati compresi nell’intervallo, quando più sarà prossimo all’unità tanto più le economie non sono in grado di realizzare una egualitaria distribuzione del reddito. Il risultato inverso si rileverà se il coefficiente si avvicina allo 0.

268 Cfr. K. G. Persson, Storia economica d’Europa. Conoscenza, istituzioni e crescita dal 600 d.C. a oggi, Apogeo, Milano, 2011.

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Possiamo affermare che la crescita economica da sola non spiega e non giustifica i maggiori livelli di benessere registrati in alcuni Paesi del mondo; infatti la conquista dei diritti politici, società più democratiche, livelli di istruzione più alti, la possibilità di disporre di tecnologie avanzate, hanno giocato un ruolo importantissimo nel favorire la distribuzione più equilibrata del reddito. Si può osservare, a conferma, che non si sono rilevati gli stessi risultati in quei Paesi che se pur attraversati da una importante crescita economica, non hanno ancora posto in essere forme organizzative mature ed un livello di tutela dei diritti umani simile ad altri. In queste realtà la sperequazione è maggiore anche in presenza di sostenuti tassi di crescita. In tale caso risulta una forte fase di espansione economica legata ad una crescita prolungata con bassissimo livello di sviluppo.

In siffatta ottica lo sviluppo, inteso come sviluppo sostenibile, può diventare una grande possibilità; costituire un driver nuovo capace di spingere migliori livelli di benessere e di distribuzione più equa del reddito, mantenendo inalterato l’equilibrio ambientale, non è impossibile. Occorrerebbe dotarsi di una governance mondiale che sappia guidare, indirizzare, coordinare i singoli Paesi e misurare, con appropriati indicatori, il loro reale livello di sviluppo integrale. La sviluppo sostenibile ha molte più chance di successo se travalica i confini nazionali e sia, almeno sul piano strategico e programmatico, di competenza della comunità internazionale. Il ruolo dell’ONU diventa cardine, in quanto l’unico autorevole luogo che può favorire accordi e progetti. Con l’ONU si potrebbe avere una “quasi governance” dal potere limitato e dall’efficienza ed efficacia debole, ma utile quanto basta a cercare di imprimere quelle svolte che i problemi globali richiamano.

Kafka scriveva di conoscere la meta, ma non conoscere le vie. Riguardo ai problemi affrontati dalla comunità internazionale su questi temi la massima Kafkiana non può risultare più vera. Infatti, gli obiettivi sono chiari, così come le strategie; ciò che sembra difficile sono le modalità di attuazione e la fase in cui dai programmi si passa alle azioni virtuose. L’incertezza delle vie non va confusa con assenza delle stesse, ma come incentivo a lavorare per cercare le forme migliori per raggiungere quanto si è fissato. A nulla vale, per fare un esempio, stabilire di destinare il 7 per mille dei bilanci dei Paesi più avanzati a quelli emergenti, se poi gli stessi sono così scandalosamente inadempienti. Qui non è più un problema di mete o di vie, ma di capacità di rispettare gli impegni assunti: il Rapporto Stern al Capitolo 0, ha sottolineato come una tale pericolosa inadempienza potrà avere degli effetti terribili e pericolosi sia a livello sociale che politico per i Paesi del Sud del mondo. L’esempio può valere anche sulle politiche in favore della sostenibilità. La ricerca di risorse finanziarie può avvenire

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secondo il principio della cooperazione tra i Paesi ricchi e quelli poveri allo scopo di favorire l’implementazione di quelle tecnologie che assicurano energia pulita e che come abbiamo visto, potrebbero essere in grado di trainare anche l’occupazione e la crescita.

In sintesi, serve convertire le regole fondamentali abbandonando alcuni dogmi, rivalutare il ruolo degli Stati e considerare nuovi modelli economico-sociali sostenibili in grado di far fronte al delicato equilibrio mondiale. Non è più possibile considerare l’aspetto ambientale, sociale, culturale ed economico, come elementi differenti. Il rapporto tra questi è troppo interconnesso, e differenziare politiche d’intervento in favore di uno rispetto all’altro, significa ignorare l’inesistenza dei confini. Dunque, non serve solo applicare dei correttivi a modelli economici tradizionali, ne tantomeno nascondersi dietro posizioni ideologiche per stabilire se un sistema di organizzazione economico abbia contribuito o meno a migliorare la società del XXI secolo. In futuro, qualunque modello economico deve comprendere necessariamente tra i suoi parametri: il lavoro, il capitale naturale e il capitale prodotto dall’uomo. Il capitale naturale (o elemento ambientale) deve essere inteso come l’insieme delle risorse naturali (mari, fiumi, laghi, foreste, flora, fauna, territorio), ma anche i prodotti dell’agricoltura e della pesca, oltre che le bellezze e il patrimonio artistico-culturale. Questi parametri devono penetrare nella società sia perché necessari di tutela, sia per la loro attitudine a favorire sviluppo e in alcuni casi determinare crescita economica269. Nel libro di Enzo Tiezzi e Nadia Marchettini, Che cos’è lo sviluppo sostenibile? del 1999, vengono riportati alcuni passaggi di Herman Daly utili a comprendere che cosa è il capitale naturale (o elemento ambientale):

Per la gestione delle risorse ci sono due ovvi principi di sviluppo sostenibile. Il primo è che la velocità del prelievo dovrebbe essere pari alla velocità di rigenerazione (rendimento sostenibile). Il secondo, che la velocità di produzione dei rifiuti dovrebbe essere uguale alle capacità naturali di assorbimento da parte degli ecosistemi in cui i rifiuti vengono emessi. Le capacità di rigenerazione e di assorbimento debbono essere trattate come capitale naturale, e il fallimento nel mantenere queste capacità deve essere considerato come consumo del capitale e perciò non sostenibile. Continua ancora Daly: Ci sono due modi di mantenere il capitale intatto. La somma del capitale naturale e di quello prodotto dall’uomo può essere tenuta ad un valore costante; oppure ciascuna componente può essere tenuta singolarmente costante. La prima strada è ragionevole qualora si pensi che i due tipi di capitale siano sostituibili l’uno all’altro. In questa ottica è completamente

269 E. Tiezzi, N. Marchettini, Che cos’è lo sviluppo sostenibile?, cit., p. 37.

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accettabile il saccheggio del capitale naturale fintantoché viene prodotto dall’uomo un capitale di valore equivalente. Il secondo punto di vista è ragionevole qualora si pensi che il capitale naturale e quello prodotto dall’uomo siano complementari. Ambedue le parti devono quindi essere mantenute intatte (separatamente o congiuntamente ma con proporzioni fissate) perché la produzione dell’una dipende dalla disponibilità dell’altra. La prima strada è detta della “sostenibilità debole” la seconda è quella della “sostenibilità forte”270.

Su questo profilo diventa fondamentale il ruolo di una governance internazionale, se non altro per favorire la diffusione di una nuova cultura o paradigma, che comincia a far breccia e sia ispiratrice di accordi e strategie economiche.

Abbiamo già chiarito che il mercato ha bisogno di regole, per cui l’economia, come mezzo, se orientata alla realizzazione del bene comune può generare sviluppo. Per tale finalizzazione, dunque, un sistema liberista presenta troppe esternalità negative, pertanto dovrà essere la politica a farsi carico di stabilire le norme per il buon funzionamento. Sarebbe causa di gravi scompensi separare l’agire economico da quello politico, proprio perché il primo è deputato a produrre ricchezza, mentre il secondo attraverso la redistribuzione del reddito (es. attraverso le imposte) pratica la giustizia sociale271. Su questo punto, la dottrina sociale della chiesa nel parlare di giustizia si riferisce all’economia come ad un’attività nelle mani dell’uomo e come tale, occorre praticare la giustizia in tutte le fasi di tale attività.

Il reperimento delle risorse, i finanziamenti, la produzione, il consumo e tutte le altre fasi del ciclo economico hanno ineluttabilmente implicazioni morali. Così ogni decisione economica ha una conseguenza di carattere morale272.

Inoltre, rispetto al passato, dato che le attività economiche non sono costrette entro limiti territoriali mentre l’autorità dei governi continua ad essere soprattutto locale, i canoni della giustizia devono essere rispettati sin

270 Ivi, pp. 43-44.271-In merito la dottrina sociale della chiesa ritiene che il mercato non esiste allo stato

puro, ma che trae forma dalle configurazioni culturali di base che lo orientano. L’economia e la finanza possono essere strumenti dannosi in quanto chi ne è a capo presenta solo riferimenti egoistici, ma possono essere strumenti positivi se correttamente utilizzati. Benedetto XVI, Caritas in Veritate, cit., p. 57.

272 Ivi, p. 58.

274

dall’inizio, mentre si svolge il processo economico, e non già dopo o lateralmente273.

L’implicazione morale delle scelte economiche propugnata dalla dottrina sociale della chiesa trova grande validità nelle questioni di sostenibilità, oltre che nei tradizionali problemi legati al modello attuale. Si fa strada l’idea di un’economia etica, centrata sulla persona, che metta al centro l’uomo e le sue aspirazioni di sviluppo materiale e immateriale. L’ambiente in questo contesto non è secondario all’uomo, ma neppure elemento marginale, esso deve essere rispettato poiché dall’ambiente discende buona parte della qualità della vita e dalla tutela dello stesso, l’uomo garantisce la sua stessa tutela. La differenza sostanziale tra la dottrina sociale e le altre scuole di pensiero risiede nell’etica della persona: in questo quadro è indifferente il sistema economico che si adotta, ma la responsabilità degli uomini che in quanto mezzo lo orientano per il bene comune della collettività. Secondo Edgar Morin, che non si discosta moltissimo da quello appena detto, l’uomo deve cominciare a sviluppare una coscienza multiforme che può isolarsi nella:

- coscienza antropologica, riconoscenza dell’unità nella diversità;- coscienza ecologica, ossia la coscienza di popolare insieme agli altri

esseri mortali, una medesima sfera vivente;- coscienza civica terrestre, la coscienza di responsabilità e di solidarietà

per gli abitanti della terra;- coscienza dialogica, attinente all’esercizio complesso del pensiero e

che favorisce la comprensione gli uni degli altri attraverso il dialogo, la critica costruttiva e l’autocritica.

Morin ci riporta all’interrogativo lanciato nel precedente paragrafo ed a cui volutamente abbiamo rinunciato a dare una risposta. Il ruolo ed il senso dell’economia. Se il sistema economico ha il solo scopo di favorire l’accumulazione di capitali e gli extraprofitti per gli imprenditori, lo spazio per uno sviluppo materiale, intellettuale, affettivo e morale resta ridotto ad un filo e lasciato alla libera scelta degli operatori. L’economia non è fine, ma mezzo nelle mani dell’uomo e in quanto tale deve essere orientato.

Il discorso quindi si sposta sul campo della politica; un’economia etica è tanto realizzabile attraverso le scelte individuali quanto l’orientamento degli Stati. L’economia globalizzata, come visto anche in questo paragrafo, non offre più ad un singolo Paese la possibilità di determinarsi in modo efficace su queste materie, ciò non toglie che si possa lavorare a livello di comunità internazionale, per cercare accordi e stipulare trattati validi ed efficaci.

273 Ibid.

275

5.3 Il ruolo dello Stato

Per Douglas North le istituzioni si sono evolute nel corso della storia perché consentivano di abbattere i costi di transazione, rendendo più efficiente l’economia. Alla base di questa teoria evolutiva, viene posto l’accento su una motivazione prettamente economica. North considera le istituzioni come un complesso di regole che presiedono il modo in cui gruppi di individui, in un dato tempo storico, raggiungono i propri obiettivi. Le istituzioni più efficienti sono anche quelle che meglio si adattano all’ambiente economico di riferimento, consentendo appunto di ridurre i costi di transazione. Data questa ipotesi, i Paesi cercheranno di imitare l’istituzione migliore così come si imita una nova tecnologia.

Il passaggio da un’istituzione ad un’altra risponde alle stesse logiche di efficienza: quando ci si rende conto che non è più in grado di essere proficua, si mette in moto un processo volto a ricercare le soluzioni più idonee per migliorare l’istituzione, favorendo in tal senso il passaggio ad una nuova che risponde all’esigenza di ridurre i costi di transazione274. La teoria è molto interessante, ma considera come dato preminente solo l’aspetto economico peccando di eccessivo meccanicismo. Mancano poi riferimenti ad elementi culturali e filosofici che comunque sono alla base delle istituzioni stesse. Inoltre non viene spiegato perché in alcuni Paesi abbiamo istituzioni più evolute, rispetto ad altri, che al contrario hanno istituzioni retrograde ed antiprogressiste. Se la teoria si basa sul concetto dell’imitazione dell’istituzione più efficiente allo scopo di ridurre i costi di transazione, non si comprende il motivo della mancata imitazione dei Paesi con istituzioni arretrate275.

Nell’opera Clio and the economics of QWERTY, Paul A. David276 si serve di un esempio particolarmente illuminante. QWERTY sono, infatti, le prime cinque lettere presenti nella macchina da scrivere prima e nelle

274-D. North, Transaction cost in economic history, in Journal of European Economic History, 1985. Si veda anche N. North, Istituzioni, cambiamento istituzionale, evoluzione dell’economia, Il Mulino, Bologna, 1994. Cfr. V. Zamagni, Dalla rivoluzione industriale all’integrazione europea, Il Mulino, Bologna, 2010, pp. 37-38.

275 V. Zamagni, Dalla rivoluzione industriale all’integrazione europea, cit., pp. 29-36.276-P. A. David è professore (emerito), Senior Fellow dell’Istituto Stanford for

Economic Policy Research. I suoi interessi di ricerca includono l’economia del cambiamento tecnologico, demografico-istituzionali, e in altre aree di ricerca teorica ed empirica sulla natura del percorso-dipendenza nei processi economici, storia economica, con particolare riferimento a lungo termine la crescita della produttività e lo sviluppo nel degli Stati Uniti e le economie del Nord Atlantico dal 1790.

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tastiere dei computer in seguito alla loro introduzione. La posizione di questi tasti rispondeva ad un’esigenza tecnica dovuta a problemi di tipo meccanico. Con l’utilizzo di nuove tecnologie, i problemi meccanici alla base dell’ordine QWERTY scomparvero, si dimostrò poi che la posizione stessa delle lettere non era la più efficiente per velocizzare e semplificare la scrittura. Tuttavia quelle lettere sono ancora lì; nello stesso ordine di sempre, anche se palesemente inutile, proprio perché la gente si era abituata. Con questo esempio Paul David cercò di dimostrare come il processo evolutivo non risponda meramente a leggi economiche razionali, ma dipende principalmente dal percorso storico che si affronta. La cultura evolutiva è condizionata da quello che David chiama Path dependence, ossia dipendenza dal sentiero evolutivo.

Gli eventi storici, nel loro susseguirsi sono tali da delimitare le scelte possibili, anche quelle che razionalmente parrebbero più efficienti. La mancanza di uno sviluppo adeguato delle istituzioni di alcuni Paesi è il risultato di una certa difficoltà ad implementare buoni modelli su un determinato percorso storico. Locked in è il termine utilizzato da David riferendosi ai Paesi a basso sviluppo, ossia restare letteralmente chiusi dentro: egli nota come agisca da freno l’eccessivo attaccamento a modelli tradizionali e l’inerzia storica che li attraversa277.

Lo Stato è l’istituzione più importante ed anch’esso, del resto, in quanto istituzione, è stato soggetto nella storia a profondi processi evolutivi.

Salvo qualche eccezione si è sempre occupato poco del bene pubblico ed in particolare il suo ingresso nelle questioni economiche risale all’età del mercantilismo ed alle prime forme di amministrazione rappresentativa278. Schumpeter fa risalire le prime forme di intervento dello Stato già alla fine del medioevo, quando le guerre cominciavano ad essere troppo onerose ed i tiranni spinti dalla ricerca di maggiori ricchezze concessero poteri al parlamento o corti in cambio di tasse ed altri sistemi di finanziamento. Ci fu dunque una maggiore attenzione alle condizioni di salute dell’economia,

277 P. A. David, Clio and the economics of QWERTY, in American Economic Review, 1985, vol. 75, N. 2, pp. 332-337. Si tratta del celebre esempio di Paul David sulle prime sei lettere della macchina da scrivere e del computer, posizionate in alto a sinistra per esigenze meccaniche e poi diventate un’abitudine sottoforma di dipendenza dal sentiero. Cfr. W. N. Parker, a cura di, Economia e storia, Laterza, Bari, 1988. V. Zamagni, Dalla rivoluzione industriale all’integrazione europea, cit., p. 38.

278 Alcune civiltà antiche come la Repubblica Romana, l’Impero, l’Egitto, Atene ed altre città stato greche, per dirne solo alcune, rappresentano delle eccezioni a quanto riportato da Douglas C. North che scrive testualmente: “Il sistema mafioso sarebbe, infatti, una migliore descrizione di ciò che lo Stato ha rappresentato in passato”, in J. E. Stiglitz, The Economic Role of the State, Oxford, Basil Blackweel, 1989 (trad. it.: Il ruolo economico dello stato, A. Heertje, a cura di, Il Mulino, Bologna, 2009, pp. 128-129).

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anche se il processo di trasferimento di poteri ebbe esiti e tempi diversi nel resto del mondo.

In Inghilterra la corona cedette buona parte dei suoi poteri al parlamento già nel 1689. Il risultato fu una crescita economica senza precedenti rispetto alle altre nazioni, con un parlamento che creò le condizioni necessarie per favorirla279.

Possiamo intendere l’intervento dello Stato sulla base di tre modalità. La prima è lo Stato minimale. L’intervento si riduce esclusivamente nel garantire “Law and order” e la difesa dei propri confini. In questo modello lo Stato fissa le regole per favorire migliori condizioni e si preoccupa di farle rispettare. In alcuni casi può fornire qualche bene pubblico, ossia beni necessari per la comunità e lo sviluppo, ma che il settore privato non ha convenienza a produrre. L’investimento dello Stato è ridotto al minimo ed in genere si ha una bassa pressione fiscale.

La seconda modalità è lo Stato ad economia mista, nella quale oltre a garantire quanto detto nella prima modalità vengono prodotti una molteplicità di beni pubblici (istruzione, welfare, edilizia popolare, infrastrutture ecc.). L’intervento pubblico nell’economia si estrinseca anche in aree tipicamente ad appannaggio del settore privato, creando aziende in diversi settori strategici, ovvero nei monopoli naturali. La pressione fiscale è di regola più alta.

La terza modalità è lo Stato massimale. In quest’ultima si ha un totale controllo dell’economia, il settore privato non esiste, ovvero è ridotto al minimo. Lo Stato massimale è una deriva totalitarista dell’economia e delle istituzioni che rifiuta integralmente il modello capitalista. L’esempio più rappresentativo di Stato massimale è quello offerto dai Paesi del blocco socialista, che erano appunto ad economia pianificata. Il Nazional –socialismo (Nazismo) ed il Fascismo, sebbene ritenuti Stati totalitari, non erano massimalisti nel settore economico, lasciando, entro certi limiti, una buona autonomia al settore privato.

Ovviamente la prima e la terza modalità rappresentano dei poli estremi. Gli Stati possono graduare il loro intervento nell’economia avvicinandosi ora alla prima ora alla terza280.

Alla fine del XVIII secolo trovò grande fortuna l’opera di Adam Smith, che nella Ricchezza delle nazioni, dimostrò con dovizia teorica come gli

279 J. A. Schumpeter, The crisis of the tax State, in International Economic Paper, A. Peacock, T. Turvey, W. Stolper, E. Henderson, 1954. Questo documento fu scritto nel 1918 e tradotto in inglese nel 1954. Oggi troviamo questo contributo in: J. A. Schumpeter: The Economics and Sociology of Capitalism, edited by, R. Swedberg, Princeton University Press, Chichester, 1991, pp. 114-131.

280 V. Zamagni, Dalla rivoluzione industriale all’integrazione europea, pp. 39-41.

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imprenditori nel massimizzare i loro obiettivi di accumulazione delle ricchezze, favorissero al tempo stesso la realizzazione del benessere pubblico. Questa conclusione entusiasmò la classe dirigente inglese a tal punto che il Primo ministro William Pitt disse all’economista “ora siamo tutti suoi discepoli”281. Le classi borghesi apprezzarono Smith non tanto per la validità delle sue tesi, quanto invece perché trovarono una giustificazione teorica a quello che diventerà il capitalismo, in particolare agli obiettivi individuali degli imprenditori. Insomma Smith portò, a livello teorico, quell’assunto definito da Mandeville di “vizi privati e pubbliche virtù”.

L’Inghilterra inaugura la politica del laissez faire in economia, di cui ancora oggi, con forme e modalità diverse, ne è un’interprete principale.

In altre Nazioni la politica di lasciar le mani libere agli imprenditori fu adottata in modi diversi. In Germania lo Stato ebbe un ruolo chiave nel definire gli obiettivi e nell’indirizzare l’economia. I risultati furono molto positivi, tanto che si assottigliarono le differenze tra l’economia tedesca imperiale e quella inglese.

Nel XX secolo si assistette, tuttavia, ad un progressivo aumento dell’intervento pubblico dello Stato che cominciò ad abbracciare molti settori. Le politiche Keynesiane iniziarono a prendere il sopravvento, in particolare dopo la crisi del 1929 negli Stati Uniti, gli investimenti pubblici aumentarono a tassi sempre più sostenuti. Lo Stato era entrato nel campo dei monopoli (in particolare monopoli naturali), delle pensioni, delle assicurazioni, dei lavori pubblici, del welfare, della sanità, dell’istruzione, dell’agricoltura, dell’industria ecc. Il modello del laissez faire si stava assottigliando, in favore di uno Stato “socialista”, non nel senso marxista del termine, ma nel senso di sostegno agli strati più deboli dell’economia. La situazione europea del dopoguerra era molto particolare. Il singolare caso della Germania, che dopo la riforma monetaria del 21 giugno del 1948, non condivisa dai sovietici, che daranno vita da questo momento in poi al blocco di Berlino, rilancia un’economia di mercato che, se pur lenta nella sua partenza, tra il 1950 e il 1956 farà registrare tassi di crescita elevatissimi: questo sarà uno dei pochi esempi di economia liberista di quegli anni. La stessa Germania orientale che aveva affrontato un tasso di inflazione altissimo nei primi anni della ricostruzione, si trova, a pochi anni

281 In realtà non furono mai realizzate le condizioni economiche affinché il mercato raggiungesse una posizione di equilibrio, garantendo a tutti gli operatori (capitalisti e salariati) la massimizzazione delle curve di utilità. La teoria di Smith sosteneva che solo in un mercato dove vi fosse effettiva concorrenza di prezzi, si potesse raggiungere l’equilibrio. La classe borghese inglese ha interpretato a suo uso le teorie dell’economista, focalizzandosi esclusivamente sull’aspetto del libero mercato e sui risultati che esso avrebbe comportato, senza interessarsi delle condizioni necessarie affinché il mercato funzionasse correttamente.

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di distanza, ad avere un tasso di inflazione notevolmente più basso di quello francese. La maggior parte dei Paesi industriali impiegarono tra i tre e i cinque anni prima di ritornare ai livelli anteguerra. Il Regno Unito e la Francia avevano intrapreso un’ampia nazionalizzazione per favorire l’intervento diretto dello Stato nei meccanismi produttivi. Alla fine degli anni sessanta la situazione europea occidentale si presenta molto variegata. La differenza tra economie liberali e dirigiste è notevole, anche se, le funzioni assunte dallo Stato nell’ambito sociale ed economico contribuiscono notevolmente sulla finanza pubblica, anche nella Germania liberista: la spesa pubblica media ha un’incidenza del 40% sulla produzione.

Di particolare rilievo furono i risultati per la collettività ottenuti nel campo dell’istruzione e della ricerca. La ricerca di base, la formazione dei lavoratori, l’aumento di competenze e cultura dell’efficienza del lavoro, sono state condizioni necessarie per uno sviluppo economico durevole e di lungo periodo. A partire dalla fine degli anni settanta del novecento, come accadde già nell’immediato dopoguerra, si ebbe un’importante inversione di tendenza. Progressivamente lo Stato cominciò ad arretrare, lasciando spazio all’attività privata in molti settori che erano di prerogativa dello Stato stesso. Tra i principali fautori del ritorno a laissez faire, sono il presidente americano Ronald Reagan e soprattutto Margaret Tatcher, primo ministro inglese. Il mondo occidentale era attraversato da profonde crisi economiche. Il tasso di crescita dei Paesi era molto rallentato rispetto al passato, inoltre si registrava un’inflazione galoppante che erodeva il potere di acquisto dei redditi e si assisteva ad un complessivo stato di inefficienza e mancanza di redditività delle imprese pubbliche. Tutto ciò costituì un’importante premessa per il ritorno prepotente delle politiche liberiste. Margaret Tatcher durante il suo secondo mandato, operò una delle più grandi riforme dello Stato, improntata alla privatizzazione di gran parte di quelle attività pubbliche che versavano in stato di bassa redditività, ovvero di perdita. La sua strada al liberismo fu presto imitata da molti paesi, tanto che ancora oggi, rimane uno dei principali terreni di scontro politico tra destra e sinistra.

Inizia la fine del così detto Stato assistenzialista, e si fa strada l’idea che sarà il mercato ad introdurre quell’efficienza necessaria per il corretto funzionamento di alcuni settori economici detenuti dallo Stato.

Questa breve analisi storica ci è molto utile ad inquadrare meglio il discorso sulla sostenibilità e sul ruolo dello Stato nel favorirla. Se nel precedente paragrafo avevamo individuato nell’ONU, l’organo sovranazionale che dovrebbe dare l’impulso necessario nella ricerca di accordi multilaterali o bilaterali tra i singoli Stati, in questa sede occorre

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chiedersi in che modo un singolo Stato può agevolare la sostenibilità, anche alla luce dell’evoluzione a cui va incontro come istituzione. In una logica di laissez faire è poco probabile che le imprese si accollino il costo di produzioni sostenibili, così come è difficile stimare una domanda di prodotti realizzati da imprese che adottano tutte le misure necessarie per favorire la sostenibilità. In altri termini, il mercato da solo, come abbiamo avuto modo di riflettere in altre parti di questo lavoro, non può e non è neppure strutturato in favore della sostenibilità. L’impulso dovrà dunque arrivare dalla politica e dallo Stato come istituzione. In che modo? In quali forme e con quali strumenti?

È chiaro che alla luce delle modificazioni che intercorrono e di cui la storia ce ne dà testimonianza, occorre domandarci quale e più efficace ruolo dovrà assumere lo Stato in favore dello sviluppo sostenibile, posto che nel XXI secolo non è ancora terminato quel processo di privatizzazione e di arretramento pubblico in alcuni settori iniziato negli anni ottanta.

Come premessa è bene osservare che l’economia di mercato non ha risolto tutti i problemi di efficienza così come auspicato dai sostenitori del liberismo puro. Esiste una copiosa casistica che porta ad affermare il fallimento del mercato. Basti pensare ad esempio ai monopoli o alle esternalità negative per l’ambiente e la salute dell’uomo. La questione ambientale in senso generale rappresenta un fallimento dell’economia di mercato, perché come dianzi citato, il mercato da solo non è in grado di operare in modo rispettoso dell’ecosistema, anche perché non rientra tra i suoi obiettivi. È evidente che in tutti quei settori dove si constata un fallimento di mercato, si apre lo spazio per un intervento pubblico, che può essere caratterizzato in diversi modi.

Le giustificazioni alle privatizzazioni sono partite però dall’assunto, che laddove lo Stato ha prodotto direttamente dei beni, ha quasi sempre operato in stato di inefficienza con enorme dispendio di risorse. È sempre vero?

Le ragioni del fallimento dell’economia pubblica possono essere molteplici, tra le quali:

i) particolare relazione di fiducia tra Stato e cittadini che pone limiti severi all’occupazione ed al livello dei salari, oltre che alla spesa;

ii) problemi legati ad asimmetrie informative endemiche nell’economia pubblica; distorsioni legate al perseguimento di rendite;

iii) impossibilità di un governo di vincolare con programmi pluriennali i governi futuri;

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iv) assenza di competizione che genera scarsi incentivi al miglioramento continuo ed alla ricerca di efficienza282.

Vi è tuttavia da rilevare come non sempre le privatizzazioni si dimostrano pienamente efficienti. Gli economisti Stiglitz e Sappington hanno spiegato come lo Stato può realizzare i suoi obiettivi anche attraverso la privatizzazione, se vengono rispettate alcune condizioni: assenza di asimmetrie informative, concorrenza, illimitata capacita di contrattazione ed imprese neutrali rispetto al rischio. In questo modo se lo Stato vendesse all’asta il diritto a produrre un bene, il prezzo di vendita che si formerebbe consentirebbe allo Stato stesso di centrare i seguenti obiettivi:

- efficienza economica;- soddisfazione degli obiettivi di ridistribuzione;- estrazione delle rendite.Se così fosse, per lo Stato produrre direttamente dei beni o esternare ai

privati sarebbe del tutto indifferente283. A ben vedere le ipotesi di partenza di questa teoria riprendono quelle tracciate da Adam Smith e, interpretate in modo strumentale dalla classe dirigente inglese dell’epoca.

La teoria, tuttavia, è interessante per due ordini di ragioni. Intanto perché dimostra come a determinate condizioni, lo Stato può esternalizzare la produzione di beni realizzando comunque i propri obiettivi. La seconda è di senso opposto, ossia chiarisce che, in assenza delle medesime condizioni, esternare ai privati non è garanzia di efficienza284.

Il problema si riduce nello stabilire quali sono le produzioni che il settore privato può eseguire in modo efficiente e quali no; il che non implica certo che il settore pubblico possa poi eseguirle in efficienza, per le ragioni citate pocanzi.

La produzione diretta di beni da parte dello Stato non è l’unica modalità d’intervento nell’economia. Qualora si riscontri un fallimento da parte del mercato, i governi possono intervenire producendo sia direttamente il bene in oggetto, ovvero dando in concessione la produzione o ancora orientando la stessa, verso determinati obiettivi, attraverso incentivi per aumentare la concorrenza e determinate forme di produzione. Lo Stato può inoltre, regolamentare il settore ponendo vincoli all’autonomia privata, limitandosi al ruolo di controllo del rispetto di essi. Alcune produzioni possono essere

282 J. E. Stiglitz, Il ruolo economico dello stato, cit., pp. 65-76.283 D. Sappington, J. E. Stiglitz, Privatization, information and incentives, in Journal of

Policy Analysis and Management, vol. VI, n. 4, 1987, pp. 567-582.284 J. E. Stiglitz, Il ruolo economico dello stato, cit., pp. 76-84.

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disincentivate attraverso l’introduzione di tributi, in modo da compensare eventuali effetti discorsivi con un maggior gettito da reinvestire per azioni correttive.

Quello che si evince da tutta questa analisi è che le istituzioni, tra cui lo Stato sono sempre in evoluzione, in modo da adeguarsi ai cambiamenti ed alle esigenze delle comunità di appartenenza.

Non esiste una modalità perfetta che possa dare risposte concrete ad ogni singola problematica. Ne è prova il fallimento dell’economia di mercato nelle sue pretese assolute di garantire efficienza in ogni settore, così come è provata una certa incapacità del settore pubblico nel produrre in modo economico e corretto alcuni beni. Il discorso non può però essere estremizzato, nel senso che esistono delle eccezioni a quanto detto, così come abbiamo individuato alcuni beni che solo lo Stato può garantire e tra questi vi è la sostenibilità.

Più in generale quando assistiamo a dei fallimenti dell’economia di mercato, sappiamo che si apre uno spazio di azione in favore dello Stato. Quest’ultimo è però soggetto al rischio di sprechi e inefficienze, ovvero ad una gestione che non sempre risponde a logiche di economicità. Nell’Europa attraversata dalla crisi dei debiti sovrani, l’aumento delle privatizzazioni e l’arretrare dello Stato viene considerato come una risposta alla stabilizzazione ed alla riduzione del debito pubblico. A quale prezzo? Se alcuni beni come l’ambiente necessitano dell’intervento pubblico, ci chiediamo quale ruolo potrà assumere lo Stato per la sua produzione.

Non è questa la sede per entrare nel dettaglio di una teoria di politica economica o dello Stato; è tuttavia importante riflettere sulla direzione che sta prendendo l’evoluzione delle istituzioni alla luce di queste problematiche.

Le istituzioni e le organizzazioni private sono composte da uomini, ciò non va dimenticato, e come tale l’uomo può sbagliare. Questo avviene tanto nel privato quanto nel pubblico, solo che nell’ultimo caso a pagare degli errori è l’intera collettività. Mi soffermerei inoltre, per fare un esempio, sulle motivazioni dei board nei due settori: nel privato la ricerca di efficienza ed efficacia è la base per raggiungere gli obiettivi di redditività e di profitto richiesti dagli azionisti; nel pubblico l’interesse al raggiungimento di tali obiettivi è richiesto dall’intera collettività. Vi è un’impari forma di controllo: gli azionisti possono sollevare gli amministratori se questi non operano con la dovuta diligenza o sono incompetenti; nel settore pubblico le nomine spesso rispondono a logiche di responsabilità indiretta o di fiducia, pertanto diventa difficile pensare che i governanti esercitano le stesse forme di controllo del settore privato, sollevando gli amministratori incompetenti. Vi è poi l’esempio dei forti

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conflitti d’interesse, che spingerebbe con facilità e disinvoltura gli incaricati ad utilizzare a proprio vantaggio i mezzi e la posizione ricoperta nella società, arrecando danno alla collettività. Sono due esempi che capitano di frequente per spiegare come il rischio di comportamenti distorsivi è più alto nel settore pubblico, perché le opportunità offerte per la frode o altri comportamenti dannosi, sono in questi settori, molto elevate.

Tralasciando le possibili forme organizzative e l’evoluzione dei sistemi di controllo interno ed auditing nel pubblico, che forse, potrebbero attenuare la minaccia in esame, preme ribadire come l’economia tanto pubblica che privata, se come strumento, è guidata da persone che hanno un forte senso etico per la collettività e le generazioni future, se la politica è animata da governanti non egoisti, ma consapevoli delle proprie responsabilità che derivano dal rapporto fiduciario con gli elettori, molte delle problematiche affrontate sarebbero risolte, o al limite, ricondotte all’eccezione.

La sostenibilità è una proposta di ben vivere, una necessità per garantire le stesse opportunità alle generazioni future, un dovere ineluttabile di tutela dell’ecosistema per assicurare la vita sulla terra il più a lungo possibile. La sostenibilità necessita dello Stato per poter essere favorita e realizzata con successo, altrimenti rimane un bel termine scritto sulla sabbia, senza alcuna possibilità di tradursi in azioni concrete ed efficaci. Chiarito che le modalità d’intervento dello Stato possono essere diverse, e che ognuna presenta un certo livello di efficienza o di inefficienza, dobbiamo auspicarci che la classe politica assuma su di essa la responsabilità per un futuro sostenibile, che abbia un comportamento etico e che individui gli interventi pubblici necessari per uno sviluppo duraturo e sostenibile. Solo così le istituzioni potranno modificarsi anche in modo da rispondere a questa esigenza: garantire la sostenibilità come sfida del terzo millennio.

Resta da valutare il rapporto Stato – economia – ecologia, ossia capire come e con quali modalità l’intervento pubblico può favorire la sostenibilità.

È cronaca dei primi giorni del 2012 ascoltare economisti e dirigenti politici auspicare una ripresa economica attraverso l’aumento dei consumi durevoli e un ritorno di crescita del PIL a tassi più sostenuti. Ci sono poi i Paesi a forte debito pubblico, i così detti Pigs, tra cui la Grecia, che ancora al momento di chi scrive, è alla ricerca di un accordo con la Comunità Internazionale per evitare uno stato di default generale. La fiducia nella finanza e nelle banche sembra ridotta al minimo e nei Paesi occidentali la disoccupazione giovanile comincia ad assumere dimensioni preoccupanti. La preoccupazione generale della vecchia Europa è quella di mantenere un adeguato rapporto debito pubblico - PIL, ridurre i debiti sovrani, favorire

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un aumento del PIL. Sotto questo profilo, non pochi, sperano nella ripresa di consumo dei beni durevoli, che al contrario stentano proprio a causa della crisi. Nei paragrafi precedenti abbiamo evidenziato come il consumo di elettricità da fonti rinnovabili sia cresciuto anche in dipendenza della crisi, segno che evidentemente la green economy sia in forte espansione, con ottimi margini di crescita.

Il ruolo dello Stato, in questo quadro, può essere duplice: favorire la sostenibilità attraverso la modalità dell’incentivo per il consumo di beni durevoli sostenibili e, allo stesso tempo, rimettere in moto l’economia puntando su nuovi mercati e nuovi settori industriali. Oltre a forme incentivanti si può intervenire con modalità disincentivanti, facendo pagare chi inquina di più.

La riconversione economica in chiave sostenibile diventa poi una sfida davvero interessante, poiché promuovendo azioni come riqualificazioni urbane, turismo sostenibile, agricoltura praticata in modo rispettoso della sicurezza alimentare, costruzioni antisismiche, prodotti per il risparmio energetico, valorizzazioni delle eccellenze locali e beni dall’alto valore culturale, ecc., si raggiungeranno molteplici obiettivi, non solo legati alla salvaguardia e allo sviluppo della persona, ma anche alla qualità della vita, nonché all’apertura di nuovi mercati con nuova occupazione285.

Si comprende, pertanto, come l’azione dello Stato sia necessaria per la sostenibilità, attraverso modalità diverse dalla produzione diretta. Esso può intervenire efficacemente con meccanismi incentivanti quali detrazioni fiscali, ovvero nuovi tributi per ridistribuire il costo dell’inquinamento e può investire direttamente finanziando parte del costo dei beni durevoli sostenibili, scegliendo il giusto mix tra quota parte pubblica e privata, in modo da favorire economie di scala abbattendo i costi di produzione dei beni stessi. L’intervento ha maggior possibilità di successo nella misura in cui riesce ad aprire la strada ad investimenti privati, creando un mercato durevole ed efficace.

Le azioni pubbliche devono però, come già chiarito in altre parti di questo lavoro, essere orientate e favorite a livello internazionale. Gli obiettivi che si raggiungeranno saranno molteplici e non riguarderanno solo la sostenibilità, ma l’intero sviluppo, così come chiarito nelle pagine precedenti.

Rimane un’altra questione da affrontare. L’indicatore della ricchezza PIL è adeguato per dar traccia dei progressi in tema di sviluppo? La qualità della vita, la crescita “non materiale” dell’uomo, sono obiettivi possibili nel XXI secolo? Lo sviluppo sostenibile è per sua natura strettamente collegato

285 G. Mattioli, M. Scalia, Nucleare, a chi conviene? Le tecnologie, i rischi, i costi, cit., pp. 191-193.

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allo sviluppo della persona ed alla ricerca di ben vivere, ma questi ultimi aspetti non sono certo misurati dal PIL. Eppure nelle analisi economiche e nelle misurazioni di performance si continua ad utilizzare il PIL come bussola, per valutare lo stato di salute di un Paese e per scegliere le giuste misure di politica economica. È abbastanza ovvio ritenere che se tra gli obiettivi dello Stato rientrano anche quelli sopra citati, il PIL smette di essere un buon indicatore, anzi, appare del tutto inadeguato dal momento che esclude dal suo computo elementi che consentono di valutare lo sviluppo in luogo della semplice crescita.

5.4 Il PIL è un indicatore adeguato? Considerazioni sul prodotto interno lordo.

Abbiamo evidenziato come la sostenibilità non possa prescindere dall’azione coordinata dello Stato che, la favorisce attraverso una regolamentazione ad hoc e la promuove con politiche incentivanti. Lo sviluppo sostenibile, inoltre, può avere maggiori chance di realizzazione attraverso il contributo della comunità internazionale, perché come rilevato, essa trasborda dai confini politici dei singoli Paesi; una governance internazionale che orienti gli Stati verso il raggiungimento di obiettivi sostenibili è condizione necessaria per l’effettiva concretizzazione di un mondo effettivamente sostenibile.

L’ONU può già assumere questa funzione, avendo la legittimità e l’autorevolezza per farsi sempre di più portavoce e promotore tra le nazioni, delle istanze della sostenibilità286. L’Unione Europea ha raccolto le

286 La dottrina sociale della chiesa auspica una riforma dell’ONU affinché si possa realizzare una famiglia delle Nazioni: «per il governo dell’economia mondiale; per risanare le economie colpite dalla crisi; per prevenire peggioramenti della stessa e conseguenti maggiori squilibri; per realizzare un opportuno disarmo integrale, la sicurezza alimentare e la pace; per garantire la salvaguardia dell’ambiente e per regolamentare i flussi migratori, urge la presenza di una vera Autorità politica mondiale (…). Una simile Autorità dovrà essere regolata dal diritto, attenersi in modo coerente ai principi di sussidiarietà e solidarietà, essere orientata alla realizzazione del bene comune». In effetti, l’esigenza di una struttura sovranazionale per governare la globalizzazione costituirebbe una soluzione opportuna, in particolare se ispirata ai principi di solidarietà e di sussidiarietà, più che equità. Questa sarebbe in grado di affrontare diversi problemi e puntare decisamente allo sviluppo integrale della persona. La sostenibilità è, per le problematiche analizzate, fortemente collegata ad una struttura di questo tipo. Riteniamo, altresì, che la realizzazione di una vera Autorità con maggiori poteri rispetto all’attuale ONU non sia un progetto immediato, se pur auspicabile. Tuttavia per favorire le politiche di sviluppo sostenibile, lo stesso ONU, così come è organizzato, costituisce una governance valida ed efficace, capace di promuovere accordi tra Nazioni per un vero sviluppo sostenibile. Per approfondire il tema dell’Autorità

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sfide di uno sviluppo attento ai problemi dell’ambiente, che mette al centro la qualità della vita e possa risolvere i problemi di sperequazione tra i vari Paesi membri. Abbiamo potuto constatare gli obiettivi che l’UE si è data, ma tuttavia, dobbiamo anche sottolineare come la strada verso un reale sviluppo integrale della persona in un’ottica di sostenibilità è ancora lunga e tortuosa, a tal punto da richiedere un impegno maggiore ed un senso di responsabilità ancora più accentuato da parte dei governanti. Occorre rimuovere tutte quelle condizioni ostative che limitano e rallentano il raggiungimento degli obiettivi, abbattendo il rischio che gli stessi siano più una meta ideale a cui tendere, che effettivi traguardi da raggiungere.

In questo contesto è necessario che i governi dispongano di una serie di strumenti in grado di valutare l’efficacia delle politiche poste in essere in relazione agli obiettivi di sostenibilità, di benessere della popolazione, di riduzione delle disparità. Un buon indicatore costituisce una bussola per effettuare azioni di programmazioni e di controllo di efficacia; è ovvio che se l’indicatore si dimostra inadeguato, ovvero non prende in considerazione alcune grandezze poste come obiettivi, sia l’attività di programmazione che di controllo, risulteranno al pari, inadeguate.

La ricerca di uno sviluppo sostenibile è correlata in modo saldo alla qualità della vita ed al miglioramento degli standard di vita della popolazione, più della semplice crescita economica. Ci chiediamo, pertanto, se l’attuale indicatore PIL, sia in grado di esprimerlo correttamente, anche e soprattutto in un’ottica di sostenibilità. Il quesito posto è di fondamentale rilevanza poiché gli indicatori costituiscono la bussola per guidare azioni migliorative e di modifica delle politiche poste in essere dai governi. Puntare in primo luogo sullo sviluppo, nell’accezione e nel significato che abbiamo tracciato in questo lavoro, correlandolo alla salvaguardia dell’ambiente, comporta necessariamente la ricerca di un indicatore che mostri e dia informazioni sui parametri che incidono su esso. Il PIL può aderire a questa esigenza?

Il Prodotto Interno Lordo è principalmente una misura della produzione di mercato. Esso è il più utilizzato tra gli indicatori, non solo presso gli operatori economici, ma soprattutto a livello politico per valutare la bontà delle politiche economiche. La sua diffusione è facilmente spiegabile dalla semplicità dei risultati che restituisce. Infatti, si ha un unico dato espresso in termini percentuali che riassume la crescita o la decrescita di una nazione in relazione all’anno precedente.

sovranazionale. Cfr. Benedetto XVI, Caritas in Veritate, L. E., cit., pp. 109-111. Cfr. Giovanni Paolo II, Sollicitudo rei socialis, L.E., Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano, 1987, pp. 574-575.

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Il PIL viene spesso chiamato in causa per valutazioni sul benessere economico di uno Stato. L’opinione pubblica, anche quella più attenta, tende a considerare i dati PIL quasi come una sorta di diagnosi sulla salute del Paese e sugli standard di vita della popolazione.

Occorre fare un po’ di chiarezza. L’indicatore prende in considerazione i prezzi finali delle produzioni destinate al mercato, a prescindere dal loro effettivo consumo da parte degli stessi consumatori. Un aumento del PIL indica crescita della produzione nazionale, con un conseguente aumento dei profitti delle imprese e perciò tutto ciò che è correlato all’aumento di produzione dovrebbe, almeno in linea teorica, crescere: occupazione, livello dei redditi, ecc. Indirettamente un maggior livello della produzione può diventare un segnale di benessere; in buona parte dei casi, come abbiamo avuto modo di verificare, ad aumenti di PIL sono seguiti incrementi di benessere nella popolazione. Tuttavia, la misura del benessere non è esprimibile con il PIL, esso può costituire un indizio del suo probabile aumento, ma non è strutturato per calcolarlo, visto che si fonda sulla somma dei prezzi della produzione destinata al mercato. Confondere produzione e benessere, come se fossero espressi da un unico indicatore, non è corretto «(…) può condurre a indicazioni fuorvianti in relazione alla qualità della vita delle persone e portare a prendere decisioni politiche sbagliate»287. Così come il PIL p.c.288 non è misura di qualità della vita, le sue variazioni annue non possono essere considerate neppure adatte per valutare lo sviluppo, nella definizione ampia che abbiamo dato.

L’aumento del PIL è misura della crescita economica, che ha natura unicamente quantitativa, altresì il concetto di “sviluppo” indica quel processo di evoluzione e graduale trasformazione della società e anche dell’economia per il raggiungimento dell’effettivo incremento del benessere comune.

Continuare ad utilizzare il PIL p.c. compromette l’obiettivo della massimizzazione del benessere collettivo, vista la sua inadeguatezza nella misura della qualità della vita. Al contrario avremo in modo puntuale i dati relativi alla crescita dell’economia di mercato. Chiarito che crescita e sviluppo non sono concetti sinonimi, il problema consiste nella definizione di priorità ed obiettivi politici. Se la classe dirigente focalizzerà la sua attenzione unicamente sulla crescita, non ci sarà bisogno di nuovi indicatori: il PIL rappresenta un valido strumento. Ma se gli interessi saranno più ampi fino a comprendere, la giusta distribuzione di benessere

287 J. E. Stiglitz, A. Sen, J. P. Fitoussi, Mismeasuring Our Live: Why GDP Doesn’t Add Up. The Report by the Commission on the Measurement of Economic Performance and Social Progress, The New Press, New York, 2010, p. 23.

288 PIL p.c., Prodotto Interno Lordo pro capite.

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nella popolazione, la salvaguardia dell’ambiente e lo sviluppo ambientale, i miglioramenti degli standard di vita, la salute della persona, la riduzione delle disparità sociali, in altre parole, se le priorità sono collegate in maniera più salda al concetto di sviluppo, i governanti si troveranno in mano uno strumento di misurazione poco preciso e del tutto inadeguato per controllare la situazione attuale e verificare l’andamento delle politiche poste in essere.

La sostenibilità aggiunge poi un ulteriore problema, visto che si riferisce alla preservazione delle condizioni e delle risorse attuali per il futuro. Non si tratterà più di un indicatore che misuri nel presente le risorse, ma che stimi la possibilità che le stesse siano disponibili per il futuro, in modo da garantire alle generazioni che verranno le stesse condizioni e opportunità di quella presente.

Ritornando al PIL evidenziamo alcune delle incongruenze più eclatanti, che lo rendono poco opportuno a rappresentare lo sviluppo e del tutto fuorviante per implementare le azioni in favore della sostenibilità stessa.

Valore del tempo libero Il tempo libero deve rientrare a pieno titolo in qualsivoglia studio di

benessere. La sua determinazione non è facile, ma è scontato che il livello di benessere cambia se due individui che percepiscono lo stesso reddito, impiegano tempi lavorativi diversi. Così come il progetto di un individuo di ridurre le ore di lavoro guadagnando di meno per disporre di più tempo libero, è una decisione che non diminuisce il benessere, ma che ha, al contrario, effetti sul PIL: la produzione si abbassa, quindi l’indicatore registrerà un decremento di prodotto. La domanda è d’obbligo. In casi come quello proposto, la diminuzione del PIL indica un abbassamento della qualità della vita? Certamente no.

Attraverso il PIL, interpretato come indicatore di benessere, avremmo però effettuato una valutazione errata, collegando la decrescita con un abbassamento del benessere stesso.

Distribuzione del reddito.

Abbiamo già detto che il PIL non riflette la distribuzione del reddito nella popolazione. A tal proposito è facile constatare come due nazioni che presentano un diverso PIL, non siano necessariamente una migliore dell’altra. Occorre migliorare il livello di analisi; infatti, potrebbe capitare che la nazione con una percentuale più alta presenti una distribuzione di

289

ricchezza in misura superiore negli strati più ricchi della popolazione. Al contrario la nazione con PIL inferiore ha una ricchezza meglio distribuita e diffusa su tutta la popolazione.

Il PIL trascura quei fondamentali aspetti di sperequazione economica e di povertà, necessari per capire gli standard di vita e lo sviluppo di un Paese, che possono assumere valori molto diversi da Nazione a Nazione, indipendentemente dal livello di crescita dell’indicatore.289

Autoconsumi e servizi esterni al mercato.

Il PIL considera solo la produzione di mercato, cioè quei prodotti che possono essere esprimibili con un valore monetario. Se escludiamo i servizi pubblici, valutati in base al loro costo290, i prodotti che non transitano dal mercato, sono del tutto fuori dal campo d’indagine del PIL. Un esempio può essere il lavoro svolto dalla casalinga, se decidesse di assumere dietro pagamento un terzo per i servizi da prestare alla casa, il PIL aumenterebbe, ma la quantità dei servizi prodotti resterebbe invariata.

Buona parte di servizi che un tempo erano autoprodotti, ora sono reperibili sul mercato. Ciò non implica un aumento di prodotti disponibili, ma un cambiamento negli stili di vita. In alcune nazioni ad economia arretrata, può essere presente una quota maggiore di prodotti e servizi di autoconsumo rispetto alle nazioni più avanzate. Operare un paragone può, dunque diventare arduo, poiché l’autoconsumo è per definizione escluso dal PIL.

Per non parlare dell’attività di volontariato. Il carattere di gratuità della stessa implica escludere dal calcolo del Prodotto nazionale tutte quelle attività e quel mondo di persone e servizi prestati, utili per la società e che costituiscono un valore aggiunto per la qualità della vita.

Servizi pubblici. Uno dei paradossi più interessanti del calcolo del PIL è la valutazione

dei servizi offerti dalle Pubbliche Amministrazioni. Questi vengono valutati al costo di produzione, per cui se una PA è inefficiente, nel senso che offre i propri servizi ad un costo più alto di quello economicamente possibile se gestita in modo corretto, il PIL aumenterà. Paradossalmente

289 Sono stati presi in considerazione solo alcune delle distorsioni del PIL. Per un elenco più esaustivo cfr. R. Eisner, Extended Accounts for National Income and Product, Journal of Economic Literature, vol. XXVI, December, 1988, pp. 1611-1684.

290 H. E. Daly, J. B. Cobb, For the Common Good: redirecting the economy towards community, the environment and a sustainable future, cit., pp. 75-78.

290

questo vuol dire che il contributo al benessere delle PA è maggiore, quando maggiore sarà la loro inefficienza, ossia capacità ad offrire servizi realizzati con costi troppo alti.

Sul piano qualitativo si pone un ulteriore problema. A parità di costo i servizi offerti da due amministrazioni avranno lo stesso contributo al benessere, ma se la qualità e l’efficacia dell’uno sia totalmente superiore a quella dell’altro, queste differenze non verranno evidenziate. A parità di tutte le condizioni il PIL di un Paese con una PA efficiente per i cittadini sarà identico a quello di un Paese con PA inadeguata. Sul piano reale le differenze in termini di qualità della vita saranno ben visibili nei due Paesi.

Pertanto nelle PA gli sprechi contribuiscono a far crescere il PIL; altresì una PA efficiente che riesce a dare più servizi al minor costo, irragionevolmente abbassa il livello dell’indicatore.

Indicatore quantitativo, senza alcune considerazioni sulla qualità.

Il PIL è dunque un indicatore di tipo quantitativo, che nulla ci dice sulla natura e qualità dei prodotti acquistati e neppure sull’effettivo consumo degli stessi per le famiglie. Se un individuo compra una macchina sportiva ed un altro un’utilitaria il PIL cresce sommando i prezzi, i quali, nel caso di buon funzionamento del mercato sono anche indici di preferenza dei consumatori. Con l’indicatore il parametro delle preferenze si appiattisce fino al paradosso che un’epidemia spinga il PIL verso l’alto per la maggior produzione di medicinali.

In termini di produzione l’indicatore è corretto, ma non si può certo definire l’aumento di PIL dell’esempio come un aumento di benessere. Anche un evento bellico è in grado di far crescere il PIL, poiché aumenta il consumo di prodotti militari, così come i costi che si sostengono per una catastrofe ambientale sono tali da far crescere ancora il PIL. Si può comprendere come ai fini del PIL la guerra, le malattie, l’inquinamento sono fattori di stimolo della crescita e per tornare al paradosso, se l’indicatore è letto anche come misura del benessere, gli stessi eventi indicano un maggior benessere del Paese. Nel caso di una malattia le spese sanitarie sostenute dal settore pubblico o dal privato fanno incrementare l’indicatore. Poniamo il caso che un individuo a seguito di un incidente non possa più lavorare e sia costretto ad assumere una badante, i costi della malattia graverebbero sul settore pubblico e sull’individuo, ma in relazione al PIL, ciò costituirebbe un fattore di crescita e quindi di benessere. Se due industrie che operano nello stesso settore, producono utilizzando tecnologie diverse, la prima rispettosa dell’ambiente, mentre la seconda adopera fattori inquinanti, in un’ottica PIL le industrie in esame apportano la stessa

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quantità di benessere, ma non è così nella realtà. Infatti, non vengono calcolati i danni causati all’ambiente ed alla salute dell’uomo per l’attività d’inquinamento. Anzi se posti in essere interventi difensivi o riparatori di questi danni, abbiamo visto che il PIL cresce, quindi paradossalmente, l’industria che più inquina contribuisce anche in misura maggiore alla crescita del PIL291.

L’esempio sopra citato fa emergere la questione delle spese difensive292. Se analizziamo meglio la natura di tali spese, utilizzate spesso per riparare disastri ambientali causati dalle industrie, ci accorgiamo che esse vengono calcolate come costi intermedi e pertanto, da escludere in modo diretto dal calcolo del PIL.

Il significato concettuale e la natura epistemologica del PIL sono ora più chiare. Come indicatore di crescita la sua validità è fuori discussione, ma allo stesso tempo, non si può pretendere di stimare il benessere con uno strumento gravato da evidenti contraddizioni e paradossi endogeni. La qualità della vita e più in generale lo sviluppo potrebbero presentare segno opposto rispetto al PIL, mentre l’opinione pubblica, illusa da incrementi positivi dell’indicatore, non si accorgerebbe dell’errore e potrebbe essere tratta in inganno nel fare considerazioni e prendere delle scelte.

Il problema, come ribadito, rimane politico ed attiene al senso di responsabilità dell’uomo. Per fare un esempio, se le nazioni si danno come obiettivi lo sviluppo e la sostenibilità, un tale indicatore, può essere paragonato alle ombre del mito della caverna di Platone, tenderebbe a fornire solo tracce di quella che può essere la situazione reale: ombre appunto, ma non un’idea completa e precisa della realtà293.

Alcuni studiosi tenderebbero a giustificare il paradosso della crescita del PIL, motivando questa teoria attraverso la convinzione che un evento negativo possa portare ad un incremento della produzione, maggiore degli effetti negativi dell’evento stesso. Ad esempio, a seguito di pandemie o sconvolgimenti climatici, con la compensazione per l’incremento della produzione di altri settori per il sostenimento delle spese difensive. In parte il ragionamento proposto può avere una sua validità, se non fosse che alcune ricerche empiriche hanno dimostrato che il saldo netto tra aumento

291 R. Eisner, Extended Accounts for National Income and Product, cit., pp. 1611-1684.292.Le spese difensive sono quelle spese non legate direttamente al benessere, ma

sostenute per prevenire o riparare quei danni causati dall’attività produttiva. Queste vengono contabilizzate come intermedie quando gravano sulle imprese stesse e come finali se a sostenerle sono i cittadini direttamente o lo Stato.

293 Il mito della caverna di Platone è contenuto nell’opera La Repubblica, libro VII. Cfr. Platone, La repubblica, Ed. Laterza, Bari, 2007.

292

del benessere economico e aumento del disagio e delle esternalità negative è sbilanciato a favore di queste ultime294.

Abbiamo citato solo alcuni dei difetti di cui è gravato il PIL, quelli che maggiormente sono utili per il nostro studio. Tuttavia le indagini e le critiche proposte non sono certo una novità, tanto in sede economico-scientifica, quanto a livello politico. Il più famoso discorso contro l’indicatore che ebbe una risonanza mediatica notevole risale addirittura al 18 marzo 1968, e fu pronunciato dal Democratico Robert Kennedy presso l’Università del Kansas. Vale la pena ricordare i passaggi salienti:

Non troveremo mai un fine per la nazione né una nostra personale soddisfazione nel mero perseguimento del benessere economico, nell’ammassare senza fine beni terreni.

Non possiamo misurare lo spirito nazionale sulla base dell’indice Dow-Jones, né i successi del paese sulla base del Prodotto Interno Lordo.

Il PIL comprende anche l’inquinamento dell’aria e la pubblicità delle sigarette, e le ambulanze per sgombrare le nostre autostrade dalle carneficine dei fine-settimana.

Il PIL mette nel conto le serrature speciali per le nostre porte di casa, e le prigioni per coloro che cercano di forzarle. Comprende programmi televisivi che valorizzano la violenza per vendere prodotti violenti ai nostri bambini. Cresce con la produzione di napalm, missili e testate nucleari, comprende anche la ricerca per migliorare la disseminazione della peste bubbonica, si accresce con gli equipaggiamenti che la polizia usa per sedare le rivolte, e non fa che aumentare quando sulle loro ceneri si ricostruiscono i bassifondi popolari.

Il PIL non tiene conto della salute delle nostre famiglie, della qualità della loro educazione o della gioia dei loro momenti di svago. Non comprende la bellezza della nostra poesia o la solidità dei valori familiari, l’intelligenza del nostro dibattere o l’onestà dei nostri pubblici dipendenti. Non tiene conto né della giustizia nei nostri tribunali, né dell’equità nei rapporti fra di noi.

Il PIL non misura né la nostra arguzia né il nostro coraggio, né la nostra saggezza né la nostra conoscenza, né la nostra compassione né la devozione al

294 H. E. Daly, J. B. Cobb, Index of Sustainable Economic Welfare (ISEW), in For the Common Good: redirecting the economy towards community, the environment and a sustainable future, Green Print, Merlin Press, UK edition, London 1990 (trad. it.: L’Indice del Benessere Economico Sostenibile, in Un’economia per il bene comune, cit., pp. 129 ss.).

293

nostro paese. Misura tutto, in breve, eccetto ciò che rende la vita veramente degna di essere vissuta.

Può dirci tutto sull’America, ma non se possiamo essere orgogliosi di essere americani.

Al di là della retorica politica, nel discorso sono presenti non solo i limiti evidenziati dal PIL, ma anche quell’idea di sviluppo integrale che dovrà diventare il cuore dell’azione politica dei governati nel XXI secolo.

Lo sviluppo sostenibile non può prescindere da questa chiara volontà, allo stesso modo se questa è assunta come vero cardine ideale e programmatico dell’agire politico, l’indicatore PIL non può costituire per i governanti di ogni Paese la bussola che indica la rotta da seguire.

5.5 Superare il PIL: la ricerca di indicatori sostenibili

Stabilito che il PIL, in quanto misura della produzione di mercato espressa in termini monetari, non è del tutto adatto a valutare quantitativamente il benessere, urge trovare un indicatore o una serie di indicatori che meglio esprimono le grandezze che incidono sullo sviluppo. Ciò è ancor più valido per la sostenibilità, che per essere correttamente stimata, necessita di valutazioni attinenti non solo sul livello delle risorse nel presente, ma anche sul loro mantenimento in futuro.

Possiamo definire il reddito di una nazione come l’ammontare massimo potenzialmente consumabile in un arco di tempo di riferimento, senza che la stessa nazione si ritrovi più povera. Gli economisti Daly e Cobb in merito scrivono: «Il PIL non è soltanto una misura inadeguata del benessere, è anche una misura inadeguata del reddito».

Tutti sappiamo che non possiamo consumare l’intero PIL a meno di non impoverirci, e per questo si sottrae l’ammortamento in modo da calcolare il prodotto nazionale netto (PNN), la quantità generalmente assunta come rappresentativa del reddito in senso hicksiano.

Possiamo osservare come la caratteristica centrale della definizione di reddito sia la sostenibilità. L’espressione “reddito sostenibile” dovrebbe quindi essere considerata ridondante. Se non lo è, ciò vuol dire che ci siamo allontanati dal significato centrale di reddito e di conseguenza c’è bisogno di apportare qualche correzione295.

Il discorso avanzato apre al problema dell’indicatore PNN o PIN che, calcola come produzione la vendita di risorse esauribili senza considerare il

295 H. E. Daly, J. B. Cobb, Un’economia per il bene comune, cit., pp. 111-113.

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degrado del capitale ambientale deteriorato dalla produzione. Per Daly e Cobb, il PNN sopravvaluta il prodotto netto disponibile per il consumo, dal momento che include molte spese difensive (spese necessarie per difenderci dagli effetti collaterali indesiderati della produzione) considerandole come prodotti finali anziché come costi intermedi della produzione. Di conseguenza il PNN non può servire da guida a una condotta prudente per gli stati296.

Può accadere, inoltre, che a fronte di una crescita della produzione si ha una contrazione del reddito delle famiglie e quindi del consumo. In questo caso noteremo crescere il PIL, spinto dall’aumento della produzione, ma diminuire il benessere.

Le premesse su esposte rappresentano il punto di partenza per la ricerca di un nuovo indicatore che risolva le problematiche endemiche al PIL. Nel precedente paragrafo abbiamo argomentato che le critiche al PIL non sono certo una novità degli ultimi anni297. Anche i modelli di indicatori alternativi non sono originali nella letteratura scientifico – economica. Le prime ricerche risalgono agli anni 70 e si basavano sulla possibilità di una correzione del PIL in modo che venisse espresso anche il livello del benessere. In tal senso è apprezzabile il contributo di Nordhaus e Tobin298, mentre tra gli studiosi italiani va segnalato lo studio di Giannone 299 .

Tutte le prime ricerche rappresentano generosi tentativi di correzione dell’indicatore, nell’intento di rilevare, come detto, una stima plausibile di benessere. Il grosso limite di queste esperienze era la quasi totale assenza di parametri che calcolassero la sostenibilità, ossia la possibilità di evidenziare il degrado del capitale ambientale e la sua proiezione futura. Non può

296 Ivi, p. 113.297-Nella critica al PIL e nell’elaborazione di questa parte di lavoro sui limiti e sulle

prospettive di nuovi indicatori è stato di notevole importanza un contributo di Bruno Cheli, prof. presso il Dipartimento di Statistica e Matematica Applicata all’Economia dell’Università di Pisa, dell’aprile 2003, dal titolo: Sulla misura del benessere economico: i paradossi del pil e le possibili correzioni in chiave etica e sostenibile, Università di Pisa, http://cheli.ec.unipi.it/ Pubblicazioni/PIL%20e%20ISEW_CeSdA.pdf pubblicato sul sito della Provincia di Bergamo, http://www.provincia.bergamo.it/oggetti/42841.pdf.

298 Recita la nota a p. 509 di Is Growth Obsolete?, in Moss M. (Ed.) The Measurement of Economic and Social Performance: la ricerca descritta in questo lavoro è stata effettuata in base a concessioni della National Science Foundation della Fondazione Ford. Il documento e il suo appendici sono stati originariamente pubblicati nella crescita economica, cinquantesimo anniversario del V Colloquio, New York, National Bureau of Economic Research, 1972; il documento è qui riprodotto come si presentava nel volume Colloquio. W. Nordhaus, J. Tobin, Is Growth Obsolete?, in Economic Growth, Fiftieth Anniversary Colloquium V, National Bureau of Economic Research, General Series 96, Columbia University Press, New York, 1972, pp. 1-80.

299-A. Giannone, Verso una misura del benessere economico?, Rivista di Politica Economica, n. 12, fascicolo VIII-IX, 1975, pp. 939-995.

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esservi nessun indicatore di benessere realmente valido se non tiene in dovuto conto la questione della sostenibilità ambientale. Infatti, qualunque livello di benessere al tempo presente, in assenza di corrette stime sulla sostenibilità, sarebbe esposto al rischio di drastica diminuzione nel futuro.

Il modello di Pearce tenta di risolvere questo problema proponendo una correzione del Prodotto Interno Lordo che consideri il degrado ambientale in seguito alla produzione ed il valore dell’inquinamento residuo300. In sintesi l’indicatore assumerebbe questa configurazione:

Reddito sostenibile = PIL − deprezzamento del capitale prodotto dall’attività umana (=PIN)

− deprezzamento del capitale naturale− spese sostenute per prevenire o riparare

danni all’ambiente e alla salute− valore dell’inquinamento residuo

Lo studio di Pearce è solo uno dei molteplici tentativi di includere

nell’indicatore elementi utili per stimare il deperimento del capitale ambientale. Lo abbiamo proposto a titolo esemplificativo, visto che le altre ricerche non si discostano nella sostanza dai risultati raggiunti da Pearce. Rimangono delle oggettive difficoltà sia a dare un valore puntuale al benessere, sia a stimare il capitale ambientale. Forse per queste ragioni il PIL continua a resistere come indicatore principale nella valutazione di performance di un paese.

Interessante è stata l’esperienza di tre premi nobel dell’economia Joseph Stiglitz, Amartya Sen e Jean Paul Fitoussi che nel 2008 hanno istituito una commissione per tracciare un programma che sia la base per sviluppare metodi di misurazione migliore rispetto al PIL301. A farsi promotore dell’iniziativa è stato il Presidente della Francia Nicolas Sarkozy, convinto assertore di un cambiamento sociale – culturale e politico in favore dello sviluppo. Il Presidente Sarkozy è la dimostrazione che queste tematiche esulano dall’appartenenza politica, infatti, da leader di destra, non ci si

300 D. Pearce, A. Markandya, E. Barbier, Blueprint for a Green Economy, Earthscan, London (trad. it.: Progetto per una economia verde, Il Mulino, Bologna, 1991, pp. 7-22 e pp. 106-113).

301 Nel testo è contenuta anche la prefazione di Nicolas Sarkozy oltre alle motivazioni che hanno spinto i tre premi Nobel ad accettare questo importante impegno. J. E. Stiglitz, A. Sen, J. P. Fitoussi, Mismeasuring Our Live: Why GDP Doesn’t Add Up. The Report by the Commission on the Measurement of Economic Performance and Social Progress, The New Press, New York 2010, pp. VII-XV, pp. 61-65 e ss (trad. it.: La misura sbagliata delle nostre vite. Perché il PIL non basta più per valutare benessere e progresso sociale , Etas, Milano, 2010).

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aspettava un impegno così risoluto in favore di un cambiamento di paradigma. Se nel secolo scorso la maggior parte degli studiosi che trattarono la questione ambientale erano riconducibili chi più chi meno ad una scuola di pensiero di marca marxista, oggi possiamo constatare come anche altre culture siano sensibili all’ambiente ed ad una politica che guardi allo sviluppo integrale della persona. La stessa dottrina sociale della chiesa aveva inquadrato il problema già da tempo, suggerendo in modo forte fin dall’enciclica Populorum progressio di Paolo VI, di lavorare nell’ottica del beneficio della persona umana e della salvaguardia del pianeta.

Dopo Robert Kennedy, un altro autorevole esponente politico prende posizione sul PIL, facendo di più, ossia riunendo i massimi esperti di economia contemporanea per stilare un Rapporto che evidenziasse i limiti del PIL e fornisse una serie di raccomandazioni per la ricerca di nuovi indicatori. È stato Nicolas Sarkozy che, nella prefazione al risultato del lavoro della commissione sopra citata, scrive:

Sono fermamente convinto di una cosa: non cambieremo il nostro comportamento se non cambiamo il modo in cui misuriamo la nostra performance economica. Ed ancora: Un progetto relativo alla civiltà nasce da una volontà collettiva, da uno sforzo collettivo di lungo termine. (….) Non possiamo concentrarci unicamente sui dati che il mercato ci fornisce. Operando come se il mercato fosse la fonte di ogni verità, si finisce per convincersene. Ma se tale convinzione fosse vera, non ci troveremmo nella situazione in cui ci troviamo. Si è voluto far dire al mercato ed alle statistiche cose che non sono in grado di dire.

Sarkozy ribadisce buona parte delle tesi avanzate in questo studio, in particolare che il mercato non garantisce lo sviluppo e neppure la sostenibilità; invocando uno sforzo collettivo, un’etica nuova come da noi definita, per un progetto di civiltà. Continua il Presidente Francese: «L’unico modo per salvarci e sciogliere le nostre menti dalle catene, in modo di raccogliere le forze che ci servono per apportare i necessari cambiamenti».

Vediamo quali sono sinteticamente le Raccomandazioni di sintesi del Rapporto. La prima del Rapporto che letteralmente recita: «Per valutare il benessere materiale bisogna esaminare il reddito e il consumo piuttosto che la produzione». Dalla prima raccomandazione discende la seconda, poiché lo spostamento dell’enfasi di analisi dalla produzione al reddito implica anche un cambio di prospettiva che pone “al centro le famiglie”. Gli studi sui redditi dimostrano come questi siano cresciuti in maniera diversa rispetto al PIL, in generale, sono cresciuti in misura inferiore. Tale tipo di

297

analisi dovrà basarsi sulle prospettive delle famiglie e considerare anche i pagamenti in diversi settori come i tributi corrisposti allo Stato, sussidi sociali, ecc. riflettendo anche su quei beni e servizi offerti gratuitamente come l’assistenza sanitaria, l’educazione ecc.

La raccomandazione numero tre recita: «Considerare il reddito e il consumo unitamente alla ricchezza». Questa è un’esigenza fondamentale dato che consumo e reddito da soli non bastano per un’esaustiva valutazione del benessere. Se, infatti, le famiglie consumassero tutta la loro ricchezza per comprare beni di consumo aumenterebbero il loro benessere nel presente, ma sarebbero esposti a rischi per il futuro. Il risparmio viene considerato come una quota di reddito destinata per una spesa futura, per tale sacrificio, il consumatore usufruisce di un tasso d’interesse e la ricchezza non consumata, se si stilasse un bilancio familiare, sarebbe portata a nuovo nell’anno successivo. Ora dare traccia di quanto esposto è fondamentale ai fini della sostenibilità, in particolare se consideriamo la ricchezza come quel complesso di attività di cui sono parte il capitale naturale, sociale, fisico ecc. Questi sono elementi patrimoniali non facilmente esprimibili in modo puntuale e preciso, ma necessariamente da stimare se si vuole avere un quadro chiaro del benessere.

Un bilancio delle Nazioni, che esprime come saldo tra attività e passività la ricchezza presente in un dato tempo, comprendendo anche i capitali sopra indicati è un valido strumento di misurazione di benessere e di controllo efficace delle politiche in favore della sostenibilità. Infatti, la ricchezza che non viene consumata, dovrà essere necessariamente espressa in termini di riserve a disposizione degli anni futuri. In tal modo si potrà valutare la variazione che intercorre ad esempio nella quota di capitale naturale, stimare il risultato e l’effetto di determinate azioni correttive anche sulle altre attività che compongono la ricchezza. Si evidenzieranno meglio le esternalità positive legate alla tutela dell’ambiente, che si rifletteranno anche in aumenti di capitale fisico e sociale.

Un bilancio delle Nazioni potrà tenere traccia delle riserve di capitate ambientale riportate a nuovo di cui le future generazioni potranno usufruire. Inoltre diventerebbe un valido strumento di comunicazione politica, visto che i governanti potranno evidenziare in bilancio quei miglioramenti di attività che non sono immediatamente percepibili nel breve periodo. L’ambiente e le esternalità positive ad esso collegate potrebbero costituire un indicatore di performance per stimare interventi di lungo periodo, attraverso valutazioni prospettiche di incrementi di valore della risorsa ambiente in bilancio, si potrà concretamente valutare il programma politico posto in essere da ogni governo per le future generazioni.

298

Occorre, ancora, individuare un indicatore, che oltre ad evidenziare ricchezza, reddito e consumo, sia in grado di mostrare come i tre parametri si distribuiscono nella popolazione. Infatti, se considerassimo l’aumento medio della ricchezza, avremmo un’informazione incompleta. L’aumento potrebbe aver investito tutta la popolazione o una parte di essa, ovvero a fronte di un aumento degli strati più ricchi si potrebbe registrare una diminuzione di quelli più poveri. Questa necessità è espressa nella quarta Raccomandazione del Rapporto ed è molto utile nel calibrare le politiche economiche agli obiettivi di benessere che si dà il governo.

Vi è la necessità di considerare quegli aspetti che influiscono negli standard di vita della popolazione, ma che non sono percepibili dal mercato. L’esempio può essere quello di un bene che una volta veniva fornito da un membro della famiglia, mentre ora viene acquisito dal mercato. Pensiamo ad esempio agli insaccati (salame, prosciutto, ecc.) che in alcune zone del sud Italia sono ancora realizzati all’interno di alcune famiglie. Qualora i membri della famiglia che hanno la tecnica e le capacità acquisite nel produrre questi beni, per qualche ragione, smettano di produrli, l’intera famiglia si rivolgerà al mercato per acquisirli. In contabilità nazionale l’aumento del consumo di un bene implica l’aumento degli standard di vita. Nell’esempio, al contrario, assistiamo al passaggio delle forniture del bene dall’autoproduzione alla fornitura di mercato. Il risultato sugli standard di vita sarà, pertanto, immutato, visto che la famiglia in esempio consumava insaccati prima e continua a consumarli poi, con l’unica differenza che si rivolge al mercato per entrarne in possesso.

Si potrebbe anche obiettare che ad una neutralità di standard di vita, corrisponde nell’esempio, una diminuzione di qualità della vita. Gli insaccati acquisiti sul mercato potrebbero essere meno genuini di quelli autoprodotti. Del resto i teorici decrescisti302, come abbiamo avuto modo di osservare, insistevano su questo aspetto in alcuni dei loro esempi, per sottolineare le differenze tra beni e merci e per esaltare il valore di uno stile di vita volto all’autoproduzione di beni in favore della tutela dell’ambiente e della qualità della vita. Tuttavia andrà considerata una risorsa determinante per valutare gli standard di vita ed in ultim’analisi la qualità della stessa: la risorsa tempo. La famiglia in esempio potrà avere più tempo libero a disposizione, perché i membri sono sollevati dall’incombenza dell’autoproduzione di alcuni beni.

Uscendo dall’esempio proposto, si comprende come un indicatore efficace debba tener conto del consumo di quei beni che non vengono

302 Cfr. Cap. II del presente lavoro.

299

reperiti nel mercato e che, quindi, sfuggono nelle rilevazioni quantitative di contabilità nazionale.

Abbiamo introdotto la risorsa tempo libero, ed, infatti, è indubbio che a parità di consumo e di reddito tra due soggetti lo standard di vita sia superiore per quel soggetto che lavora meno ore. Quantificare il tempo libero è dare un corretto valore ad esso non è cosa facile, tuttavia non si può prescindere dal tempo libero per una seria analisi sugli standard di vita e sulla sostenibilità. Già, perché lo sviluppo sostenibile è strettamente correlato anche alla risorsa tempo libero: la riduzione del traffico nelle città, ad esempio, favorendo mezzi di trasporto alternativi, non è solo un’esigenza dettata dalla necessità di abbattere i livelli di CO2, ma anche dall’obiettivo di rendere più vivibili le città, in particolare le metropoli, tagliando i tempi per gli spostamenti urbani. Si pensi, ad esempio, ai pendolari che per andare e tornare da lavoro impiegano, causa traffico, una media di due ore. Se i tempi si dimezzassero, questi recupererebbero un’ora di tempo libero a parità di reddito.

Il tempo libero può diventare anche una risorsa economica: riprendendo l’esempio precedente, il tempo recuperato potrà essere impiegato per l’attività fisica, culturale e sociale, con un impatto positivo per quei settori economici che ruotano intorno a queste attività.

La sesta Raccomandazione prescrive: «La qualità della vita dipende dalle condizioni e dalle capacità oggettive delle persone. Bisognerebbe adoperarsi per migliorare gli indicatori relativi alla salute delle persone, all’istruzione, all’attività personale ed alle condizioni ambientali. In particolare bisognerebbe compiere sforzi significativi per sviluppare ed implementare indicatori solidi ed affidabili in relazione ai rapporti sociali, al peso politico e all’insicurezza, tre fattori che possono essere predittivi della soddisfazione nei confronti della vita».

Questa osservazione sottolinea quale sia la strada da intraprendere per un’effettiva stima del benessere. Si comprende come un’analisi condotta in modo così puntuale restituisca risultati più precisi rispetto al semplice indicatore della Produzione nazionale. Per dovere di completezza è bene estendere lo studio alla distribuzione di questi indicatori all’interno della popolazione. Da questa esigenza discende la settima Raccomandazione che prescrive di valutare in modo esaustivo le disuguaglianze.

È fondamentale verificare quali siano gli effetti sulla qualità della vita complessiva a seguito dell’aumento o diminuzione di uno o più indicatori. A tal proposito l’ottava raccomandazione sancisce che «Le indagini dovrebbero essere studiate in modo da valutare i legami fra i diversi ambiti della qualità della vita di ogni persona, e tali informazioni dovrebbero essere utilizzate quando si definiscono le politiche nei vari campi». In

300

effetti, la somma di tanti svantaggi ha un impatto superiore in termini di qualità della vita rispetto alla semplice addizione algebrica del loro valore. Questo assunto è utile nella misura in cui si ritiene di dover mettere in campo misure compensative per bilanciare la diminuzione di qualità della vita in seguito a svantaggi subiti dalla popolazione.

La Raccomandazione nove prevede che «Gli enti statistici dovrebbero fornire le informazioni necessarie per operare aggregazioni trasversali alle dimensioni della qualità della vita, consentendo l’elaborazione di indici diversi». L’esigenza trova la sua ratio nella richiesta sempre più pressante di esprimere la qualità della vita con un unico indicatore di sintesi. Abbiamo visto che una definizione puntuale prevede l’uso di più strumenti, perché le variabili sono numerose. Sarebbe anche interessante sviluppare informazioni soggettive della qualità della vita, che gli enti statistici potrebbero fornire attraverso questionari e test. Si potrebbe ad esempio chiedere quale è la percentuale di tempo in cui una persona riporta un sentimento negativo nei confronti della vita. La necessità di sviluppare indagini soggettive serve per capire il livello del ben vivere, che può essere fornito solo in aggiunta a indagini oggettive o anche di tipo soggettivo.

La Raccomandazione numero dieci si muove in tal senso spingendo a suggerire agli enti statistici di «integrare nelle loro indagini domande volte a cogliere la valutazione della propria vita da parte delle persone, le loro esperienze piacevoli e le loro priorità». Si comprende come la ricerca di questi strumenti di analisi mira prepotentemente a considerare il concetto di sviluppo in modo totale ed esaustivo, nel senso di ricomprendere non solo valori economici, meglio esprimibili dal concetto di crescita, ma anche valori oggettivi e soggettivi volti a misurare benessere e qualità della vita. Tali strumenti di misurazione sono alla base di un governo politico che ha come obiettivo quello di garantire non tanto la crescita, visto che abbiamo dimostrato che il mercato non è la chiave di tutte le soluzioni dei problemi dell’età contemporanea, ma azioni incentrate sulla persona, sulle sue esigenze, sulle sue aspettative, sui suoi bisogni, sulla sua inequivocabile vocazione di libertà intesa come affrancamento dalla povertà, ricerca di cultura, miglioramento sanitario, desiderio di pace, ecc303.

La sostenibilità rientra a pieno titolo ed accompagna il concetto di sviluppo. Essa è complementare tanto agli indicatori di benessere, quanto alla misurazione della performance economica. Il Rapporto suggerisce di stimarla separatamente, questo per dar rilievo a tutte le variabili che entrano in gioco. Ricordiamo che una corretta misura della sostenibilità deve comunque tenere conto delle stime future sulla disponibilità della risorsa

303 Per un approfondimento della raccomandazione dieci cfr. A. Sen, Lo sviluppo e la libertà. Perché non c’è crescita senza democrazia, Mondadori, Milano, 2001.

301

ambiente. Non si tratta, pertanto, di un’esclusiva analisi sulle risorse attuali, ma anche di una proiezione nel futuro delle stesse, al fine di raggiungere l’obiettivo, di garantire le stesse opportunità alle generazioni che verranno.

La Raccomandazione undici sulla ricerca di una corretta misurazione della sostenibilità stabilisce che: «La valutazione della sostenibilità richiede un cruscotto di indicatori ben definito. La caratteristica distintiva delle sue componenti dovrebbe essere la possibilità di interpretarle come variazioni di determinate riserve di base. Un indice monetario della sostenibilità rientra a pieno titolo in un cruscotto di questo tipo ma, allo stato attuale, dovrebbe rimanere essenzialmente centrato sugli aspetti economici della sostenibilità»304.

Si propone un approccio per così dire a “riserve”, nel senso di considerare come patrimonio le varie risorse del capitale ambientale, riportandole a nuovo, sotto forma di riserve di anno in anno. Si suggerisce di considerare dapprima ogni riserva, valutandone le variazioni in aumento o in diminuzione in un arco temporale di riferimento. L’obiettivo minimo da raggiungere sarà quello di mantenere il livello delle riserve sopra la soglia critica, in modo da evitare che il deterioramento dell’ambiente generi crisi irreversibili. Un indicatore siffatto diventa molto utile per valutare politiche conservative delle riserve vicine al livello critico e per tenere sotto controllo quelle decisive per la salute dell’ecosistema. Un altro indicatore interessante è quello che esprime le risorse attraverso un valore monetario. Questo consente di valutare compensazioni tra aumenti di una risorsa e diminuzioni delle altre. Tuttavia esiste un’oggettiva difficoltà ad imputare un valore monetario alla maggior parte delle risorse di cui si potrebbe comporre l’indicatore, ragion per cui conviene imputare un valore monetario soltanto a quelle facilmente esprimibili attraverso una stima in moneta, poiché il metodo di attribuzione del valore presenta un certo grado di obiettività e ragionevolezza. In siffatto modo si può stimare il valore economico della sostenibilità, valutando quale Nazione consuma di più o di meno in relazione della sua ricchezza economica.

Il pregio dello studio è indubbiamente quello di proporre più indicatori per la sostenibilità, visto che un semplice strumento di sintesi non può fornire tutte le informazioni richieste. Il Rapporta per spiegare tale esigenza ricorre all’esempio del cruscotto di indicatori presenti in un’automobile; un automobilista ha bisogno di diverse informazioni, velocità di andatura, livello di benzina, giri del motore ecc. Un unico indicatore sarebbe scarsamente informativo. Così anche le autorità politiche, in un’ottica di

304 Le dodici raccomandazioni del rapporto sono descritte in, J. E. Stiglitz, A. Sen, J. P. Fitoussi, La misura sbagliata delle nostre vite. Perché il PIL non basta più per valutare benessere e progresso sociale, cit., pp. 11-22.

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sostenibilità, avranno bisogno di più indicatori che restituiscano informazioni diverse per scegliere le politiche più efficaci.

Riteniamo che misurare la sostenibilità ricorrendo a più indicatori sia la scelta giusta su cui lavorare in futuro. Vista anche la complessità e le numerose variabili che entrano in gioco. Gli indicatori devono costituire una sorta di sotto-cruscotto ben definito che tratti separatamente la sostenibilità rispetto al cruscotto globale comprendente gli altri indicatori del reddito, del consumo, della ricchezza e del benessere.

Il PIL verde visto precedentemente nella versione di Pearce, così come quello proposto da altri studiosi, ha il merito di includere le questioni ambientali, ma nel complesso può risultare fuorviante e poco puntuale. La stessa Commissione ritiene molto più utile avere più indicatori che forniscano tutti i dati fondamentali per un quadro generale del problema.

Nel sotto-cruscotto dedicato alla sostenibilità gli indicatori da prendere in considerazione dovranno essere molteplici è devono dare informazioni non solo sulle variazioni del capitale ambientale nel tempo, ma anche del capitale umano, fisico, mostrando le relazioni che intercorrono tra esse. In tal modo si potrà superare quel paradosso endogeno al PIL che considera gli sconvolgimenti ambientali, per tornare all’esempio del paragrafo precedente, un fattore di crescita del Prodotto Interno Lordo. Attraverso questi indicatori qualunque catastrofe sarà registrata come una svalutazione tanto del capitale ambientale, quanto del capitale fisico e addirittura sociale.

Fondamentale è, infine, l’ultima Raccomandazione del Rapporto che prescrive: «Gli aspetti ambientali della sostenibilità meritano un’indagine a parte, basata su un set di indicatori fisici accuratamente selezionati». In particolare, c’è bisogno di un indicatore chiaro della nostra prossimità a livelli di danni ambientali pericolosi (per esempio in relazione al cambiamento climatico ed al depauperamento delle risorse ittiche).

Abbiamo già detto di alcuni aspetti della Raccomandazione dodici al commento della precedente. La Commissione, sul set di indicatore, è convenuta su un cruscotto di piccole dimensioni, basato sulla logica dell’approccio alle “riserve”. Che, infatti, a nostro avviso, è il metodo più opportuno per valutare incrementi e decrementi delle risorse naturali in un’ottica di preservamento temporale. La Raccomandazione dodici suggerisce l’utilizzo di altro indicatore che segnali la prossimità di fronte a danni ambientali pericolosi. Per riprendere l’esempio del cruscotto automobilistico, si tratterebbe di una sorta di spia rossa che indica quando l’autovettura deve assolutamente fermarsi per non rompersi. In pratica tanto a livello di governance internazionale, quanto per ogni singolo Paese, un indicatore siffatto sarebbe utile per indirizzare e favorire l’adozione di politiche conservatrici, ovvero, preventive di danni pericolosi all’ambiente.

303

L’opinione pubblica costaterebbe facilmente i livelli di rischio e potrebbe spronare i governi ad intervenire in caso di loro inerzia o di predisposizione di azioni poco efficaci.

Inoltre, in prossimità dei livelli di allarme o con una seria programmazione di prevenzione al rischio, sarà più facile convincere i governi sulla necessità di accordi multilaterali in favore della sostenibilità. Tutto dipende dall’autorevolezza e dall’accettazione dell’indicatore.

Per concludere è utile avanzare qualche riflessione sul set di indicatori. La possibilità che il loro studio e la loro implementazione avvenga in tempi brevi è collegata ad una volontà politica fortemente orientata a superare le incongruenze e le approssimative informazioni desumibili dal PIL. Volontà che non può prescindere da valutazioni etiche e di responsabilità. La qualità della vita, la sostenibilità, la lotta alla povertà ed alle sperequazioni economiche, sintetizzate in un unico concetto, la ricerca dello sviluppo, dovranno essere assunte come le sfide irrinunciabili del XXI secolo. In questo senso la ricerca di un set di indicatori capaci di dare informazioni precise è strumento indispensabile nella programmazione e controllo degli obiettivi assunti. Perché sia veramente efficace questo strumento dovrà assumere la stessa importanza ed autorevolezza che oggi ha il PIL. In modo tale che variazioni negative avranno anche la funzione di controllo per l’opinione pubblica della bontà e dell’efficacia dell’azione politica dei governanti.

Un esempio calzante, figlio dell’attualità degli ultimi mesi dell’anno 2011 italiano, riguarda l’indicatore più noto della crisi economica europea: il differenziale di rendimento tra i titoli di Stato italiani e quelli tedeschi. La sua impennata a fine 2011 in favore dei titoli italiani è rappresentativo da un lato di rendimenti più alti, dall’altro di rischiosità maggiore, per cui gli investitori sono disposti ad acquistarli solo agli stessi rendimenti alti. La grave situazione venutasi a creare ed evidenziata dall’indicatore è stata la molla di un cambio di governo in Italia, allo scopo dichiarato di risanare l’economia ed abbassare il differenziale con i titoli tedeschi. Una situazione di controllo analoga si potrebbe creare con gli indicatori sostenibili: l’aumento di rischiosità per il deperimento della risorsa ambiente, la prossimità a stati di crisi, la diminuzione della qualità della vita, potranno essere misuratori di performance dell’attività di un governo. L’opinione pubblica a fronte di risultati negativi potrebbe incidere addirittura su un cambio di governo, il che teoricamente, spingerebbe la classe politica a misurarsi con queste tematiche, per scongiurare fallimenti tali, da provocare la sua stessa caduta.

Tutto dipende dall’autorevolezza e dal grado di adozione del set d’indicatori, ma in particolare dalla volontà politica di fare di questi temi,

304

gli ideali dell’oggi. Una volontà auspicabile per il bene stesso del nostro pianeta, oltre che segno indiscutibile dell’evoluzione della società contemporanea.

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