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PAOLO PITTARO
MEZZO SECOLO DI DIRITTO PENALE
Riflessioni in libertà
1. Non sembri pretenzioso il titolo di questa conversazione: ma sono trascorsi esattamente
cinquant’anni da quando, nell’autunno 1966, da studente del second’anno, frequentai il corso del
prof. Marco Siniscalco, poi mio Maestro. È stato il mio approccio al diritto penale e da allora non
l’ho più abbandonato.
Non è certo mia intenzione percorrere mezzo secolo di diritto penale nella sua evoluzione
dottrinale o giurisprudenziale o fare il punto sullo stato della disciplina, quasi sulle orme del
celebre volume di Thomas Würtenberger del 1965 su La situazione spirituale della scienza
penalistica in Germania. Ben lungi da me questa pretesa. Vorrei solo fissare alcune note, alcune
mie riflessioni, in libertà, dopo vari decenni di attenzione e di insegnamento del diritto penale.
Mi sia concessa una citazione.
Uno dei più gran freni dei delitti non è la crudeltà delle pene, ma l’infallibilità di esse [, e per
conseguenza la vigilanza dei magistrati, e quella severità di un giudice inesorabile, che, per essere
un’utile virtù, dev’essere] accompagnata da una dolce legislazione. La certezza di un castigo,
benché moderato, farà sempre una maggiore impressione che non il timore di un altro più terribile,
unito con la speranza dell’impunità. [§ XXVII]
Queste parole, che sono di una attualità e di una mancata attuazione sconvolgenti, e molte altre
proposizioni similari altrettanto importanti, si devono ad un giovane di neanche 26 anni e sono
contenute in un suo libretto pubblicato 252 anni fa. Il giovane era il marchese Cesare Beccaria
Bonesana ed il suo libretto s’intitolava Dei delitti e delle pene. Un’opera celebre, come ben
sappiamo, che fissò i tratti basilari del diritto penale moderno, un’opera che venne accolta in tutta
Europa, un’opera sempre citatissima, specie da chi mai l’ha letta. Un “miracoloso libretto”, come
ebbe a definirlo Piero Calamandrei in Assemblea Costituente, ma anche un libretto che, se
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pubblicato oggi, nonostante la sua importanza ed attualità, i complessi meccanismi dell’Anvur,
VQR, CVR e quant’altro, sicuramente valuterebbero pari a zero.
Invero, come è ben noto, sui princìpi enunciati da Beccaria, venne a fondarsi il diritto penale
moderno, elevato a sistema dalla Scuola Classica del diritto penale, e magistralmente delineato da
Francesco Carrara nei 10 volumi del suo Programma del corso di diritto criminale dedicato ai suoi
allievi della Regia Università di Pisa. Ebbene, giunto al compimento della sua opera, egli soleva dire
che il diritto penale era oramai ben fissato nella sua struttura, che nulla più c’era da aggiungere, e
che ora bisognava occuparsi della procedura penale.
Col senno di poi, potremmo dire che il sommo Maestro lucchese si sbagliava, poiché subito dopo
veniva alla luce, e basata su princìpi nettamente opposti, la Scuola Positiva del diritto penale. E gli
accesi, a volte viscerali, contrasti fra classici e positivisti tennero banco fino al Progetto Ferri del
1921 per un nuovo codice penale, di marca positivista, ma mai entrato in vigore. Il codice penale
del 1930, tuttora vigente, è il codice del “doppio binario” che prevede, accanto alle pene, le
misure di sicurezza di matrice positivista: un connubio, o un compromesso, certamente
contraddittorio, ma che, obiettivamente, si riduce a ben poca cosa.
Delle misure di sicurezza, che dovevano consistere in trattamenti scientifici tesi ad eliminare la
pericolosità del reo, oggidì molto diffusa è quella patrimoniale, anomala proprio perché non
correlata al soggetto: alludo alla confisca, largamente praticata, anche sull’onda dell’intuizione di
Giovanni Falcone, secondo cui la criminalità organizzata si combatte seguendo il filo del profitto
economico, ed ora vieppiù allargata alla confisca c.d. per equivalente, ossia nella ablazione, a
favore dello Stato, dei beni legittimamente acquisiti, ove non sia possibile farlo per quelli di origine
criminosa.
A parte questo, i princìpi della Scuola Classica sono tuttora vigenti, a partire da quello – ben
fondamentale – di legalità: la previsione di Carrara, quindi, non era lontana dal vero.
2. Ma non voglio soffermarmi sul contrasto fra Classici e Positivisti, peraltro, a mio avviso
nitidamente compendiato nella splendida opera I semplicisti (1886), di Luigi Lucchini. L’ho voluto
richiamare perché proprio in quel contesto viene a situarsi la nota prolusione sassarese del 1910 di
Arturo Rocco, intitolata Il problema e il metodo nella scienza del diritto penale. Partendo dalla
constatazione che la Scuola Classica era un diritto penale senza diritto positivo e che la Scuola
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Positiva era un Diritto penale senza diritto, egli veniva a delineare il c.d. “indirizzo tecnico-
giuridico”, ove il compito del giurista è quello di interpretare le norme, come disposte dal
legislatore, secondo la metodologia che gli è propria. In poche parole egli distingueva il diritto
penale, oggetto di applicazione, di studio e di interpretazione delle norme positive, dalla politica
criminale, che compete al legislatore. E la disputa fra classici e positivisti apparteneva, per
l’appunto, alla politica criminale, che poi la dottrina elevava a paradigmi dommatici, ma non al
diritto penale, quello vigente, in senso stretto.
Potremmo anche dire che, in fondo, era l’impostazione, approfondita ed aggiornata, di
Montesquieu, che ne Lo spirito delle leggi (L'esprit des lois), distingueva nettamente i poteri dello
Stato, attribuendo solo al legislatore le scelte politiche: e potremmo ora aggiungere che le opzioni
politiche, anche della “politica criminale”, vengono poi giuridicamente delineate tramite la
“scienza della legislazione” ed espresse, per usare un linguaggio moderno, alla stregua della
“legistica”.
Ecco, dunque, il nucleo di partenza di queste riflessioni: diritto penale e politica criminale sono
entità diverse: fortemente intrecciate senza dubbio, ma diverse. E l’indirizzo tecnico-giuridico
sottolineava che il giurista deve occuparsi soprattutto ed in primis del diritto penale.
Nel dopoguerra tale indirizzo venne da più parti criticato, lo spessore scientifico di Arturo Rocco
venne ad appannarsi perché anche giurista del fascismo, autore peraltro, assieme a Vincenzo
Manzini e ad Edoardo Massari, di quel codice che porta quel cognome che è il suo, ma non il
nome, che è quello del fratello Alfredo, insigne commercialista, non penalista, in quanto Ministro
Guardasigilli dell’epoca. Ma, soprattutto, la critica al tecnicismo giuridico si accentrava sul fatto
che, avendo come oggetto la mera interpretazione del diritto positivo, prescindendo dalle scelte di
politica criminale che stanno a monte e, pertanto, per così dire, politicamente “neutro”, si
prestava allo studio asettico di qualsiasi sistema penale, anche quello autoritario o totalitario,
anche quello liberticida: e la pregressa vicenda del ventennio, appena conclusasi, ne era monito. Il
rischio, insomma, era quello di un giurista asservito al potere.
Il rilievo, con la sottesa preoccupazione, era certamente fondato; ma non più attuale posto che
all’apice del diritto positivo ora c’è una Costituzione democratica, ove brillano, in riferimento al
sistema penale, princìpi dettati da una ratio di garanzia (quali gli artt. 25 e 27 Cost.): una
Costituzione rigida, a differenza del preesistente Statuto albertino, ove una norma liberticida
incorrerebbe nella scure della Corte costituzionale. Rileviamo, in ogni caso, che da un decennio o
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poco più, si sta rivalutando l’ampia opera scientifica di Arturo Rocco, specie per quanto concerne
lo studio dell’oggetto giuridico del reato.
I criteri dell’indirizzo tecnico-giuridico possono, pertanto, continuare a guidare il penalista: definito
anche come positivismo giuridico, ora è positivismo giuridico costituzionalmente orientato, senza
cadere negli eccessi, secondo i quali tutti e solamente i valori costituzionali richiederebbero una
specifica incriminazione penale a loro tutela.
Ora, se compito della dottrina, nell’ambito della dommatica giuridica, è quello di costruire ed
elevare a sistema gli istituti penalistici, ne deriva ch’essa rappresenti quasi un trait d’union fra
politica criminale e diritto positivo, con il rischio, peraltro, che molti autori si basino solo sulla
prima non curando o, peggio, forzando il secondo. Spesso, infatti, mi è accaduto che, ad allievi i
quali, leggendo anche illustri interventi, trovavano alcune affermazioni incompatibili con il diritto
penale vigente, dovevo spiegare come questi autori delineassero quello che, a loro avviso, erano i
profili di un diritto penale ideale, anche se non coincidenti con quanto previsto dalla attuale
normativa.
3. Comunque sia, dall’entrata in vigore del codice fino ad oggi, imponente è stato l’apporto della
dottrina. Non ne ricorderò neanche i più illustri nomi e delle più prestigiose scuole, tanti essi sono,
a me antecedenti, oppure coevi oppure anche più giovani. Oggi, invece, vorrei qui citare due
Maestri del diritto penale del secolo scorso, a me cari, il cui ricordo mi sembra stia attraversando il
versante dell’oblio.
Ed in questa sede la prima citazione è doverosa. La Facoltà di Giurisprudenza sorse nell’a.a. 1938-
39, dando così vita, assieme a quella di Economia e Commercio, all’Università di Trieste. Ed il
primo docente di diritto penale fu Giuseppe Bettiol, giurista di queste nostre terre, nato a
Cervignano del Friuli, con la casa paterna a Gradisca d’Isonzo. In questo Ateneo rimase fino al
1945, chiamato dall’Università di Padova ove rimase fino al fuori-ruolo (1977) ed alla morte
(1982).
Bettiol, penalista, ma anche uomo politico, parlamentare sin dall’Assemblea Costituente e
Ministro, viene tutt’ora affettuosamente ricordato a Padova dai pochi allievi rimasti e dagli allievi
degli allievi, ma ben poco altrove, considerando la sua visione di una pena eticamente retributiva
affatto superata, ideologicamente avversata e come tale, da respingere: anzi, da nemmeno citare.
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Di lui, e della sua cospicua opera, compreso un famoso manuale, viene a volte ricordato un libretto
del 1945, intitolato Il problema penale, per rimarcarne l’icastica frase d’apertura: Il diritto penale è
una filosofia (questa frase, peraltro, è il titolo della sua prolusione al Corso triestino di filosofia del
diritto del 1944/45). Di tale libretto (e, come è avvenuto per Beccaria, vorrei notare come per
esprimere importanti concezioni non sono sempre necessari polverosi tomi, ma una più smilza
opera) si dimentica, tuttavia, l’impianto globale, ove, negli incipit dei successivi capitoli, egli
affermava anche che Il diritto penale è una politica, che Il diritto penale è una scienza naturale e,
infine, che Il diritto penale è una scienza giuridica.
Il secondo Autore che vorrei ricordare, che mi sembra scivolare, seppur più lentamente (ed
ingiustamente) nell’oblio è Pietro Nuvolone, improvvisamente scomparso nel 1985. Della sua
vastissima opera vorrei segnalare tre famosi saggi, le cui intitolazioni evidenziano ex se la rilevanza
del tema trattato. 1) I fini e i mezzi nella scienza del diritto penale; 2) Introduzione a un indirizzo
critico nella scienza del diritto penale; 3) Natura e storia nella scienza del diritto penale (gli ultimi
due sono le prolusioni tenute, rispettivamente, nelle Università di Parma e di Pavia).
Infine la mente corre ad un terzo Maestro del giure penale, da non molto scomparso (2009), il cui
ricordo è ancora ben vivo, e vorrei confidare che le sue opere, a differenza dei due Autori citati,
rimangano sempre presenti e durature pur nello scorrere del tempo: mi riferisco a Giuliano
Vassalli, combattente decorato, giurista, deputato, senatore, Ministro, Presidente della Corte
costituzionale. Della sua imponente produzione scientifica vorrei ricordare uno scritto che amo,
magistrale e fondamentale su un tema delicato: Funzioni ed insufficienze della pena, apparso sulla
Rivista italiana di diritto e procedura penale del 1961.
4. Della vasta mole dei contributi dottrinali del citato periodo deve, tuttavia, riconoscersi una forte
attenzione alla dottrina tedesca, che qualcuno ha definito alquanto esagerata. La vis actractiva
offerta dalle istituzioni accademiche tedesche, [e, in primis, dal famoso Max-Planck-Institut für
ausländisches und internationales Strafrecht di Friburgo, magistralmente diretto per anni da Hans
Henrich Jescheck e dai suoi successori e con la sua splendida biblioteca,] si è estesa a numerosi
ricercatori italiani, costituendo, quasi e per certi versi, una linea di discriminazione elitaria fra chi
ivi aveva studiato e gli altri, paragonabile ad una sorta di Mensur di ottocentesca memoria.
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A tale proposito vorrei rimarcare un sapido brano che un illustre Maestro ebbe a scrivere su
Criminalia del 2013: mi riferisco a Ferrando Mantovani. Il penalista fiorentino ricordava una nota
pagina, splendidamente umoristica ma altrettanto verace, pubblicata nel 1984 sull’Indice penale
da Antonio Pagliaro, ora di veneranda età, ed intitolata Regole della citazione faziosa. In quelle
righe il noto giurista palermitano diceva ad un potenziale allievo, in tono graffiante e paradossale:
cita solo te stesso e gli studiosi della tua parte politica e gli amici personali ed attendi il ricambio; il
lettore deve ignorare che esistono altri studiosi; se sei costretto a citare qualcun altro svisa
completamente il suo pensiero in modo da renderlo assurdo; il lettore deve credere che non valga
la pena esaminarne direttamente i testi, e via dicendo.
Ebbene, anche sull’onda di questi caustici rilievi, Mantovani volle stilare un Codice deontologico
per i giovani studiosi del diritto penale. Tra i dieci principi, fra i quali voglio ricordare, ad esempio,
Non «rimescolare» ciò che altri hanno «chiarificato», ovvero Non servirti della comparazione
giuridica e della ricerca storica per supplire alla carenza di originalità di pensiero e di capacità
costruttiva. E per riempire pagine, mi soffermo sul terzo principio Non scordare che esiste anche
una via neolatina alla scienza penale, ove, molto sarcasticamente rilevava: oggi Se è pur vero che
copiare da un libro è plagio. Copiare da due libri è una ricerca scientifica. E copiare dai tedeschi: un
capolavoro.
5. In realtà non solo la dottrina, ma anche il legislatore ha varcato i confini, ispirandosi od
importando istituti penali di altri ordinamenti. E non si è limitato al continente, ma ha attraversato
l’Oceano approdando a sistemi di common law, ordinamento giuridico con basi ben diverse da
quello nostrano a matrice romanistica. E questo certo Francesco Carrara non lo poteva
immaginare.
Ne sanno qualcosa i cugini processualisti, in ordine al c.d. patteggiamento. Vero che è largamente
praticato negli Stati Uniti, ma si deve anche rilevare che ivi non sussiste l’obbligatorietà dell’azione
penale e che il rappresentante dell’accusa, il prosecutor, non viene nominato bensì eletto.
Così, da tale ordinamento abbiamo ricavato, in relazione alla sentenza di condanna, il
convincimento oltre ogni ragionevole dubbio, che ha fortemente influenzato non solo il diritto
processuale, ma anche il diritto penale sostanziale, a partire dal nodo cruciale del nesso di
causalità. Ma in quel sistema giuridico tale formula deriva dall’esistenza della giuria, che emana un
verdetto, ossia una decisione immotivata, quale giudice del fatto e non del diritto (il che, da noi,
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sarebbe incostituzionale). E alla giuria (che decide autonomamente senza la presenza del giudice
togato) viene data un’istruzione pragmatica molto semplice. Nel processo civile decide quando
l’ipotesi adottata (a favore dell’attore o del convenuto) è più sì che no, mentre nel processo penale
la condanna deve essere pronunciata con una convinzione, per l’appunto, oltre ogni ragionevole
dubbio. Origini e sistemi, dunque, ben diversi. Un po’ come succede in certe adombrate ipotesi di
riforma universitaria, ispirate al sistema accademico statunitense, ma dimenticando che ivi non
esiste il valore legale del titolo di studio.
6. Ritornando al nostro diritto penale, tradizionalmente si affermava che il legislatore prevede
(rectius: commina) la sanzione collegata ad un determinato reato, sanzione che il giudice irroga se
trovato colpevole, e che viene poi eseguita (scontata, per usare un termine più popolare).
Sembrerebbe che le tre fasi presuppongano l’identità della sanzione. Ma così non è: la pena
prevista dal legislatore non è sempre quella irrogata dal giudice, la quale, a sua volta, non è quella
che verrà eseguita dal condannato.
Ed il tutto grazie ad istituti propri del diritto penale sostanziale (giudizio valoriale, non più
matematico, del concorso di circostanze, ampia attribuzione delle circostanze attenuanti
generiche, applicazione estesa della continuazione eterogenea, sospensione condizionale della
pena, messa alla prova, non punibilità per la tenuità del fatto, sanzioni sostitutive della pena
detentiva, prescrizione del reato), ad istituti del diritto penale processuale (sconto di pena per il
giudizio abbreviato e per il c.d. patteggiamento) e ad istituti del diritto dell’esecuzione penale
(liberazione condizionale, le misure alternative della detenzione: liberazione anticipata,
semilibertà, affidamento in prova al servizio sociale, detenzione domiciliare).
Anni or sono avevo definito la sanzione penale come una entità giuridica in divenire: non posso
che riaffermare quanto espresso.
Ora, posto che tutti i citati istituti portano ad una attenuazione, anche notevole, della sanzione
ovvero perfino la sua non inflizione, ne deriva la ineffettività della pena.
A tale situazione contribuiscono vari fattori. Innanzi tutto, quello culturale od ideologico che,
senza giungere agli estremi, pur presenti, di una concezione abolizionista, tende ad un minimo di
punizione, ovvero alla sua non inflizione. Negando il concetto, peraltro insopprimibile, di una
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retribuzione di fondo, ossia del concetto stesso di pena, si fa leva esclusivamente non solo sulla
rieducazione (ben condivisibile e costituzionalmente prevista), ma anche sulla ricostruzione del
velo interpersonale lacerato dal reato. In tale contesto deve situarsi la tendenza verso la c.d.
mediazione penale, ove la sanzione è sostituita da un rapporto da coltivare fra il reo e la sua
vittima, in un riconoscimento reciproco dell’”altro da sé” ossia, rispettivamente, della sofferenza
cagionata dal reato al soggetto passivo e delle ragioni esistenziali che hanno portato il reo a
delinquere. Dell’immagine tradizionale della giustizia costituita dalla bilancia e dalla spada, i
sostenitori di tale esperienza evidenziano quella di una giustizia senza spada.
In secondo luogo, si assiste a forti istanze di “decarcerizzazione”, derivanti sia dalla visione di un
diritto penale e, soprattutto, della pena detentiva come extrema ratio, sia da pronunce della Corte
europea dei diritti dell’uomo, che – a partire della c.d. sentenza pilota (caso Torregiani del 8
gennaio 2013) – ha giustamente condannato l’Italia per le condizioni disumane dell’istituzione
carceraria, dovute all’eccessivo sovraffollamento. Al momento di tale pronuncia, il numero dei
posti previsti nelle carceri italiane ammontava a poco più di 49.000, mentre la popolazione
detenuta superava le 69.000 unità.
Invero, si deve sottolineare che tale aumento nel tempo è dovuto anche al fatto che, mentre dal
dopoguerra in poi le amnistie si sono succedute con una frequenza abnorme ed incalzante, sicché
nel continuo scorrere fra entrate ed uscite la concentrazione carceraria poteva rimanere
pressoché costante, nel 1992 (legge cost. n. 1 del 6 marzo) è stato modificato l’art. 79 della
Costituzione, nel senso di richiedere, per l’approvazione dell’amnistia, la maggioranza qualificata
dei due terzi dei componenti di camera e senato: una entità mai raggiunta. E da allora più nessuna
amnistia. Donde, non solo, ma anche per questa ragione, l’aumento costante dei ristretti in
carcere.
A fronte della sentenza della Corte di Strasburgo, al fine di evitare ulteriori, scontate e costose
condanne, si è in tutta fretta ricorsi ai ripari, quali: la decretazione c.d. “svuota carceri” che amplia
notevolmente i benefici già esistenti e ne istituisce dei nuovi, la legge delega (parzialmente
attuata) per una riforma del sistema sanzionatorio ed una pronunciata depenalizzazione. Come è
stato riconosciuto dalle severe istituzioni europee, la diminuzione delle presenze è stata notevole:
secondo i dati ministeriali al 31 agosto 2016 su una capienza di 49.600 posti i detenuti
assommavano a 54.195 unità (dei quali 18.311 stranieri): un numero ancora superiore rispetto alla
portata ordinaria, ma non così macroscopico come negli anni immediatamente precedenti.
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Mette conto notare che da tempo pressoché immemorabile si discuteva (senza un consenso
generalizzato) sulla funzione della pena, alla cui soluzione corrispondeva anche una diversa
struttura carceraria: retribuzione, prevenzione generale, prevenzione speciale, rieducazione,
risocializzazione, emenda, riabilitazione, incapacitazione, neutralizzazione e via dicendo, a iosa.
Come dire che il pensiero criminologico e giuridico-penale volava alto, sul piano dei princìpi, ma
con ridotte e lente realizzazioni. C’è voluta la sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo
per mettere invece le ali al legislatore: ma con un volo molto più basso, quasi radente, attento alle
più modeste esigenze della prassi, ma con esiti concreti.
7. Quanto finora evidenziato costituisce, tuttavia, solo uno degli aspetti caratterizzanti il diritto
penale del nostro tempo: quello rivolto alla decarcerizzazione. Ma esso convive con un secondo
aspetto, di tutt’altro segno: la reazione alla inefetttività della sanzione penale, specie a fronte della
criminalità più efferata e pericolosa. Alludo ai delitti di mafia, della criminalità organizzata, di
terrorismo, ai reati ecologici, alla corruzione ed alle fattispecie correlate dei delitti contro la
pubblica amministrazione, al femminicidio, agli omicidi stradali e quant’altro.
Tale esigenza di un maggior rigore punitivo in presenza di tali fattispecie di particolare criminalità,
conduce, da un lato, ad una erosione delle normative di favore o clemenziali (prima cennate) che
quivi non trovano applicazione, mentre, dall’altro lato, vengono elevate (a volte: di molto) le
rispettive pene con il correlato dilatarsi della prescrizione. Il che comporta, nella prima ipotesi, il
complicarsi del sistema fra disposizioni generali e la complessità di quelle speciali e, nella seconda
ipotesi, al rischio di norme-manifesto, che possono accogliere e riscontrare la voce della pubblica
opinione, che invoca una maggiore severità, tacitando così la coscienza del legislatore, ma spesso
con scarsa o punta efficacia.
I due trends convivono nel diritto penale attuale, ma come espressione di esigenze di segno
diverso, per non dire opposto. E forse è in tale prospettiva che sarebbe non azzardato parlare di
un sistema a “doppio binario”, e non in quella, ormai obsoleta, delle pene e delle misure di
sicurezza.
A tale proposito, nella mia mente si presenta l’immagine double face della “chiave gettata via”.
L’istanza della decarcerizzazione, della fuga dalla pena detentiva, postula l’apertura delle porte
della prigione, gettando via la chiave che prima le serrava, mentre l’istanza di una maggiore
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punizione vede specialmente la pubblica opinione ad auspicare una pena severa e scontata fino
all’ultimo giorno: imprigionate il colpevole e buttate via la chiave.
8. In questo quadro molto articolato deve riconoscersi che trova ampio, eccessivo spazio la
discrezionalità del giudice. E con il sospetto, che non credo infondato, che il legislatore, nella sua
incapacità o non-volontà di affrontare o risolvere funditus i problemi, ne abbia scaricato la
soluzione (e la relativa responsabilità) sulle spalle della giurisdizione.
A tale proposito, vorrei rimarcare una recente riflessione di attenta dottrina. Come è ben noto,
l’analogia è proibita nel diritto penale. Fra le altre disposizioni (art. 25 Cost., art. 1 c.p.), la norma
che la disciplina è l’art. 14 delle pre-leggi (disposizioni preliminari al codice civile) dopo aver
sancito, invece, all’art. 12, che l’analogia è un istituto fondamentale per l’ordinamento giuridico
(nelle due forme dell’analogia legis e dell’analogia iuris).
Ora, se l’art. 12 stabilisce il principio generale e l’art. 14 la sua non applicazione settoriale, ci si
chiede cosa stava scritto nell’art. 13, da tempo abrogato, in quanto in riferimento all’ordinamento
corporativo, istituzione fascista caduta assieme al regìme. Ebbene, l’art. 13 disponeva che “le
norme corporative non possono essere applicate a casi simili o a materie analoghe a quelli da esse
contemplati”. Come dire che l’analogia era vietata per le norme corporative.
Se, in definitiva, l’analogia era vietata sia per le norme corporative sia per le norme penali, ci si
chiede perché il legislatore non ha usato la medesima dizione. Come aveva fatto per le norme
corporative, poteva dire che “le norme penali non possono essere applicate a casi simili o a
materie analoghe”. Oppure disporre che “le norme corporative e le norme penali non possono
essere applicate a casi simili o a materie analoghe”.
L’ipotesi prospettata, allora, è quella che il legislatore, usando nell’art. 14 la diversa espressione
“le leggi penali non si applicano oltre i casi e i tempi in esse considerati” abbia voluto esprimere
qualcosa di diverso e di più ampio rispetto al semplice divieto di analogia: che abbia voluto, in altri
termini, restringere l’interpretazione e l’applicazione della norma penale a quella più aderente al
dettato letterale, limitandone ogni estensione. Si tratta di un rilievo di particolare interesse: inutile
dire che, in tale prospettiva, non avrebbe spazio un’interpretazione più dilatata. Ad esempio,
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cadrebbe la fattispecie, fortemente discussa e controversa, del c.d. “concorso esterno in
associazione mafiosa”: com’è noto di creazione giurisprudenziale.
9. Un’ultima riflessione. Per definirla vorrei prendere in prestito un’efficace espressione usata, in
altro contesto, da un illustre processual-penalista, che ha insegnato in questa Facoltà di
Giurisprudenza negli anni 60. Mi riferisco a Mario Pisani, che nell’Indice penale del 1967 pubblicò
un saggio su “La penetrazione del diritto penale internazionale nel diritto penale italiano”. Ebbene,
sono dell’opinione che attualmente stiamo assistendo ad una (seppur lenta) “penetrazione” del
diritto civile nel diritto penale.
Profonda è la differenza fra i due rami del diritto ed è proprio in base alla sanzione che è
riconoscibile la riferibilità della norma ai due settori giuridici: restituzione e risarcimento del danno
per il diritto civile, sanzione punitiva per il diritto penale. E diverse sono le regole per i due settori,
l’uno teso a ripristinare o a risarcire quanto la lesione ha effettuato, l’altro a punire le modalità
con le quali il soggetto ha tenuto la condotta e cagionato l’evento, donde la rimproverabilità e la
meritevolezza di pena. E, come autorevolmente e nitidamente ha espresso Norberto Bobbio,
sanzione omogenea quella civile, eterogenea quella penale. Forte, in definitiva, lo iato fra i due
ordinamenti.
Due sono gli esempi per giustificare questo concetto della “penetrazione” del diritto civile nel
diritto penale. In primo luogo, stiamo assistendo alla possibilità che il risarcimento del danno
comporti l’estinzione del reato. È stato previsto dall’art. 35 della normativa sulla competenza
penale del giudice di pace del 2000 (d. lgs. 28 agosto 2000, n. 274), per poi uscire da tale sotto-
sistema ed approdare anche nel codice penale: la nuova disciplina dell’oltraggio (art. 341-bis c.p.,
introdotto dalla legge n. 94 del 2009) prevede che il risarcimento del danno nei confronti non solo
del pubblico ufficiale, ma anche dell’amministrazione di appartenenza estingue il reato. Potrei
anche fare riferimento alla “riparazione pecuniaria” di cui all’art. 322-quater c.p., introdotta dalle
legge n. 69 del 2015. E questa linea di tendenza è destinata ad ampliarsi ed a rafforzarsi: un
disegno di legge in tal senso è attualmente in discussione al Senato.
Si parla, per usare un termine più ampio, di una “giustizia penale non punitiva, ma riparativa”.
Anche se agli entusiasti sostenitori di tale innovazione, peraltro eticamente apprezzabile, si
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potrebbe ribattere che rimaniamo pur sempre nella galassia del diritto, ma non più nel diritto
penale, bensì in diverso terreno, forse ancora da individuare.
In secondo luogo, e quivi la disciplina è più pregnante, mi richiamo alla recente depenalizzazione,
di cui ai decreti legislativi n. 7 ed 8 del gennaio di quest’anno. Mentre il d.lgs. n. 8 prevede
un’ampia depenalizzazione tradizionale, ossia la de-rerubricazione della fattispecie di reato in
illecito amministrativo, il d. lgs. n. 7 trasforma la fattispecie penale (che viene abrogata) in un
illecito civile, ove accanto alla usuale e propria sanzione del risarcimento del danno, viene prevista
una sanzione pecuniaria punitiva, con la relativa forbice edittale.
Trattasi di un novum nel nostro ordinamento, di matrice anglossassone. Il riferimento va ai
punitive damages, ove tale sanzione, previa decisione della giuria, viene ad aggiungersi al
risarcimento del danno, in ipotesi di particolare rimproverabilità del comportamento. Nella novella
del 2016 trattasi di una sanzione punitiva civile con netta ispirazione penalistica: si pensi alla
disciplina del concorso di persone, ai parametri predisposti per guidare la discrezionalità del
giudice per fissare la sanzione nell’ambito edittale, molto simili a quelli dell’art. 133 c.p., la non
trasmissibilità della sanzione agli eredi e, soprattutto, che il pagamento di tale pena pecuniaria
non va a favore del soggetto vittima dell’ex reato, ora illecito civile, come il risarcimento del
danno, bensì a favore della Cassa dell’ammende, ossia allo Stato.
Invero, da tempo si andava profilando la concezione di un illecito punitivo di diritto pubblico,
regolamentato dall’art. 25 della Costituzione, ove la parola “punito” può ricomprendere non solo
la sanzione penale, ma anche quella amministrativa dell’illecito depenalizzato, ora propria del
diritto amministrativo.
Pertanto, di tale sistema punitivo farebbero parte sia il diritto penale vero e proprio, sia il diritto
punitivo amministrativo (originale ovvero a seguito di depenalizzazione dei relativi illeciti),
disciplinato dagli istituti parapenali della legge n. 689 del 1981 (ed ora anche da quelli di cui al
d.lgs n. 8 del 2016). E tale è pure l’impostazione della Corte europea dei diritti dell’uomo, la quale
prescinde dal nomen iuris formale della sanzione, ma bada alla sua afflittività, per cui, non importa
se penale o amministrativa, nei suoi confronti devono applicarsi le garanzie della Convenzione
europea dei diritti dell’uomo (artt. 6 e 7).
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Ebbene, in tale contesto, ci si chiede se e come possa inserirsi la sanzione punitiva civile derivante
da depenalizzazione. Un problema dommatico di non poco conto che attende una soluzione.
Qualcuno, ad esempio, parla già di un tertium genus.
Peraltro, deve rilevarsi che la legge delega n. 67 del 2014 aveva previsto uno spettro più ampio di
tali fattispecie, che il legislatore delegato del 2016 ha invece, ristretto anche a seguito delle
critiche e delle rimostranze da parte di vari penalisti. Vorrei ricordare, ad esempio, i forti accenti
contrari di Tullio Padovani, cui ha fatto da controaltare la difesa di tale scelta da parte del
Presidente della relativa Commissione ministeriale, il prof. Francesco Palazzo, che ci ha esposto
tale tema proprio in questa aula la scorsa primavera.
10. A conclusione di queste mie considerazioni, peraltro schematiche, parziali e frammentarie,
credo risalti un quadro attuale del diritto penale alquanto complesso, non sempre lineare, con
alcuni profili ancora aperti, ed alcune innovazioni in itinere che attendono una soluzione, forse non
immediata, forse rimessa non alla mia, ma alla futura generazione.
Anche se i princìpi espressi da Cesare Beccaria e fondati dalla Scuola Classica rimangono la pietra
angolare del diritto penale.
Infine, vorrei rivolgere un saluto ed un augurio ai presenti che pazientemente hanno ascoltato
questo mio dire.
Lo faccio facendo mie le semplici parole con le quali Francesco Carrara, nel 1859, sigillava la dedica
ai suoi studenti del Programma del corso di diritto criminale:
“Dio vi dia salute ed amore alla scienza”.
Nel nostro caso: amore per la scienza del diritto penale.
Vi ringrazio dell’attenzione.
Università di Trieste, 25 ottobre 2015