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Istituzioni di diritto pubblico AO a.a. 2014-2014 Prof.ssa Silvia Niccolai II Modulo
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Parlamento e Governo
IL PARLAMENTO
Unico organo eletto direttamente dal popolo, il Parlamento rappresenta, nel disegno costituzionale,
il perno o il centro della vita politica. Condiziona l’esistenza in carica e l’indirizzo politico del
Governo, ed approva le leggi, i più importanti atti normativi dopo la Costituzione. Istituzione
dedicata alla discussione, al dibattito, al confronto dialettico tra opinioni e interessi diversi, il
Parlamento ripropone nella dinamica istituzionale l’archetipo del ‘processo’, del metodo, cioè, di
giungere a decisioni ponderate mediante leali confronti di opinione. La sua centralità nella vita
democratica testimonia l’importanza accordata a che la decisione sia preceduta da discussioni che
permettono di illuminare diversi interessi e punti di vista: nel procedimento parlamentare, cioè,
riconosciamo la permanenza di una dimensione ‘giurisdizionalistica’ del potere. Al contempo, il
nesso di ‘fiducia’ che lega la maggioranza al Governo chiama in causa per il buon funzionamento
del Parlamento doti addirittura cavalleresche di lealtà e fedeltà alla parola data. Come vedremo,
il Parlamento in Italia non conserva però, pur continuando a essere l’unico organo eletto
direttamente dal popolo, e dunque quello più legittimato, quasi più nulla di questa sua importanza:
ciò può essere l’effetto del prevalere di concezioni ‘decisioniste’ del potere pubblico, e il prezzo
pagato a prassi abusive che hanno frainteso e distorto l’importanza e le prerogative dell’organo
parlamentare.
Le funzioni del Parlamento
Il Parlamento ha due principali funzioni:
1. La funzione legislativa (che può essere chiamata anche il “lavoro legislativo” delle Camere:
In questa funzione rientrano:
l’ approvazione delle leggi costituzionali e di revisione costituzionale
l’ approvazione delle leggi ordinarie
2. La funzione di indirizzo e controllo nei confronti del Governo (che può essere chiamata
anche “il lavoro politico” delle Camere)
In questa funzione rientrano gli atti in cui si svolge il rapporto fiduciario tra parlamento e
governo:
mozione di fiducia
mozione di sfiducia
interrogazioni, interpellanze, mozioni, ordini del giorno.
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L’organizzazione e il funzionamento delle Camere. Caratteri fondamentali
a) Bicameralismo
Il Parlamento è composto di due Camere, la Camera dei Deputati e la Camera dei senatori. Le due
Camere sono diverse per numero di membri (la Camera dei deputati ha 630 membri mentre il
Senato ha 315 membri) e per alcuni altri aspetti della loro composizione (per votare alle elezioni
della Camera – elettorato attivo - basta avere 18 anni mentre per votare per il Senato occorre avere
compiuto 25 anni, ciò significa che la base elettorale della Camera e quella del Senato non
coincidono pienamente; per essere eletto deputato – elettorato passivo - basta avere compiuto 25
anni mentre per essere eletti al senato occorre avere compiuto 40 anni).
Per il resto però, Camera e Senato hanno le stesse funzioni, gli stessi poteri. Il nostro sistema è un
bicameralismo perfetto: si basa su due Camere che hanno le stesse funzioni. Questo si ripercuote
per esempio sul procedimento legislativo: ogni progetto di legge, per diventare legge, deve essere
votato nello stesso testo da tutte e due le Camere. Non esistono leggi la cui approvazione è riservata
alla Camera o riservata solo al Senato. In particolare, entrambe le camere sono titolari del
rapporto fiduciario (la fiducia o sfiducia al Governo può essere votata in ciascuna delle due
indifferentemente e così avviene per lo svolgimento delle attività di controllo e indirizzo sul
Governo).
Essendo ambedue elette dal corpo elettorale nazionale le due Camere rappresentano la Nazione
nella sua interezza. Non avviene come in altri paesi, in cui una delle due camere, detta di solito “la
seconda camera” rappresenta gli enti territoriali, perché composta da membri dei governi o dei
parlamenti regionali. E’ vero, però, che il Senato è, secondo la Costituzione, “eletto a base
regionale”, ma questa prescrizione è stata attuata solo nel senso che le circoscrizioni elettorali del
Senato corrispondono con le Regioni, non nel senso di dare al Senato il ruolo di rappresentare le
Regioni.
Una differenza tra Camera e Senato, che però non incide sulle loro funzioni, che il Senato annovera
tra i suoi membri i Senatori a vita, nominati dal capo dello stato. Inoltre, come ricorderemo, è
senatore a vita, salvo rinunzia, chi è stato Presidente della Repubblica (art. 59 Cost.).
Dal Bicameralismo paritario al Bicameralismo perfetto al Bicameralismo ineguale
La scelta dei Costituenti per il bicameralismo si riannodava alla tradizione del Regno d’Italia e prima ancora
del Piemonte Statutario, tuttavia non fu una scelta per un bicameralismo ‘perfetto’: il Senato, secondo il testo
originario della nostra Costituzione, doveva durare 6 anni (contro i 5 della legislatura della Camera dei
deputati) e avere un numero di componenti variabile in funzione della ampiezza del corpo elettorale
regionale. E’ vero che si trattava comunque di differenze molto limitate che lasciavano il tratto di fondo del
bicameralismo ‘paritario’: le due Camere rappresentano gli stessi interessi, quelli espressi per la via
della rappresentanza politica dei partiti. Come ricorda Andrea Pisaneschi nel suo Corso di diritto
costituzionale (2014), era stata la recente esperienza del Fascismo (che aveva istituito la Camera dei Fasci e
delle Corporazioni) a sconsigliare ai Costituenti di differenziare le due Camere dal punto di vista degli
interessi che rappresentavano; è vero inoltre che la Costituzione scelse un modello regionalista, ma tali erano
le incertezze sul se e come attivarlo, che, come sappiamo, le Regioni sono state istituite solo a partire dal
1972-1976, con i primi decreti di trasferimento di funzioni amministrative dallo Stato alle Regioni. E’ noto,
inoltre, che, istituendo le Regioni, i Costituenti volevano esprimere una differenziazione tra la nuova
Repubblica democratica e il vecchio Regno accentratore, ma è anche vero che i partiti temevano, col dar vita
alle elezioni regionali e ai corpi politici delle singole regioni, che i loro equilibri si spaccassero, o si
complicassero: si temeva in particolare che a un governo statale guidato dalla Democrazia Cristiana
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potessero affiancarsi, a livello regionale, rappresentanze più orientata verso la sinistra. Con le Regioni tenute,
diciamo così, ‘nel congelatore’, era impossibile pensare a dare una consistenza alla previsione per cui ‘il
senato è eletto a base regionale’ che non andasse oltre il disegno delle circoscrizioni elettorali del Senato. Di
fatto, il sistema dei partiti italiano non ha sopportato neppure la differenza di durata tra le due Camere, e la
durata del Senato è stata riportata alla durata della Camera prima sciogliendo il Senato anticipatamente
quando finiva la legislatura della Camera, o sciogliendo entrambe le Camere anticipatamente, poi con una
legge di revisione costituzionale n. 2 del 1963. In altri termini, il bicameralismo paritario scelto dalla
Costituzione è stato trasformato in un bicameralismo perfetto dalle prassi e dalle convenienze del sistema dei
partiti (lo sfasamento elettorale tra Camera e Senato poteva produrre nelle due camere maggioranze diverse,
e questo appariva un problema per la stabilità del Governo: se, durante la legislatura della Camera con un
partito A con la maggioranza e al Governo, si svolgevano le elezioni per il Senato e il partito A perdeva,
ecco pronta la crisi di Governo).
Le ragioni che spinsero il Costituente verso il bicameralismo paritario furono che il dislocarsi del processo
legislativo e politico su due Camere poteva favorire una vita politica, e decisioni legislative, più riflettute e
condivise. Nel concreto, però, la vita dell’istituzione parlamentare nel suo complesso è stata fortemente
condizionata da un tratto, che la aveva già caratterizzata nel periodo liberale: il carattere instabile e fluttuante
delle maggioranze, e, precisamente, la difficoltà dei partiti, che compongono il Governo di controllare la
propria maggioranza, di ottenere cioè dai parlamentari, che pure appartengono ai partiti che sono al Governo,
un sostegno leale al momento del voto. Il bicameralismo perfetto che i partiti hanno costruito per, diciamo
così, semplificare la vita a se stessi e al Governo è diventato a sua volta una fonte di problemi, nella misura
in cui ha permesso ai partiti e ai parlamentari di enfatizzare quelle possibilità di condizionamento, di
ricatto, di ‘mercanteggiamento’ del voto che ha finito per essere sentito come un ostacolo alla capacità del
partito che esprime la maggioranza, che sale al Governo, di governare efficacemente. Gli anni recenti della
nostra vita istituzionale sono stati tutti segnati da questo sforzo: quello di assicurare al Governo (cioè al
partito o ai partiti che lo esprimono) il controllo della dinamica parlamentare. Come già detto, l’abolizione
delle preferenze nella legge elettorale è stata una chiara scelta in questa decisione, rendendo gli eletti tutti
‘scelti’ dalla direzione del partito e condizionabili quanto alla loro rielezione.
Nella stessa direzione va, se si vuole più radicalmente, la proposta di riforma del Senato che è stata votata
nell’estate 2014 appunto al Senato (e che deve ancora, nel novembre dello stesso anno, essere esaminata per
la prima volta alla Camera: si ricordi che le leggi di revisione costituzionale richiedono, tra l’altro, la doppia
approvazione da parte di entrambe le Camere nello stesso testo).
I perni di questa riforma sono: a) togliere al Senato il rapporto fiduciario, di cui resterebbe titolare la sola
Camera; b) escludere il Senato dalla approvazione delle leggi ordinarie, riservando ad esso solo un ruolo
nell’approvazione delle leggi costituzionali e la possibilità di esame di alcune tipologie di leggi, come quelle
sui ‘diritti fondamentali’ e di attuazione degli obblighi comunitari e nel controllo sulla attuazione delle leggi
dello Stato da parte delle pubbliche amministrazioni (cd valutazione delle politiche pubbliche).
La premessa di questa drastica riduzione di ruolo è l’eliminazione del carattere elettivo del Senato, che
sarebbe composto mediante un meccanismo di elezione di secondo grado (cioè da rappresentanti delle
regioni e sindaci eletti dai consigli regionali) analogo a quello che è già stato introdotto per la riforma delle
Province con la legge n. 56 del 2014. La nuova composizione non farebbe però del Senato, ridotto a 95
membri, un organo rappresentativo delle Regioni. In questo tipo di organi (come il Bundesrat tedesco,
attraverso il quale i Laender, gli organismi territoriali, partecipano al procedimento legislativo), i
rappresentanti votano ‘per regione’ cioè esprimendo la volontà che le regioni hanno loro dato mandato di
esprimere; mentre nel nuovo Senato italiano i rappresentanti, pur non eletti dal corpo elettorale, rimarrebbero
‘rappresentanti della Nazione’ e cioè voterebbero secondo orientamenti partitici. La riforma del Senato
sembra orientata a diminuire il peso del corpo elettorale e a rafforzare quello dei partiti.
Il parlamento in seduta comune
Il parlamento in seduta comune è un organo distinto dalle due camere che risulta dalla riunione di
esse. Ha alcune rilevanti e specifiche funzioni costituzionali: in particolare: è l’organo che ha la
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funzione di votare per l’elezione del Capo dello Stato, eleggere i giudici costituzionali, mettere
il Capo dello Stato in stato d’accusa.
La legislatura
Le Camere durano in carica 5 anni, il che significa che normalmente tra una elezione e la successiva
devono intercorre 5 anni. Tuttavia le Camere possono essere sciolte anche anticipatamente, cioè
prima di questo tempo, quando sia necessario “ricorrere alle urne”, fare una nuova consultazione
elettorale, perché dagli schieramenti politici che in un dato momento sono rappresentati in
Parlamento non è più possibile ricavare un sostegno stabile a un esecutivo. La durata delle Camere
si chiama legislatura.
Art. 60 Cost.: La Camera dei deputati e il Senato della Repubblica sono eletti per cinque anni.
Art. 61: Le elezioni delle nuove camere hanno luogo entro sessanta giorni dalla fine delle
precedenti. La prima riunione ha luogo non oltre il ventesimo giorno dalle elezioni.
Finché non siano riunite le nuove camere, sono prorogati i poteri delle precedenti.
Lo scioglimento delle Camere
Lo scioglimento delle Camere è un atto di competenza del Capo dello Stato: secondo l’articolo 88
della Costituzione “il capo dello stato può, sentiti i presidenti delle Camere, sciogliere le Camere o
anche una sola di esse”.
Lo scioglimento è un atto dovuto quando la legislatura è giunta al suo termine, cioè è un atto
costituzionalmente necessario, imposto (non compierlo esporrebbe il capo dello stato alla
responsabilità per attentato alla costituzione).
In una democrazia, è necessario accertare la corrispondenza tra la composizione delle camere e il
corpo elettorale, per questo le camere hanno una durata prefissata oltre la quale devono essere
sciolte e si deve procedere a nuove elezioni. Ci siamo già soffermati sul motivo per cui la decisione
dello scioglimento è stata affidata a un organo imparziale come il capo dello stato (che, cioè, non è
espresso dalla maggioranza attualmente al governo e non si riconosce in alcuna delle forze politiche
presenti in parlamento), anziché lasciare alle Camere la decisione del proprio scioglimento, o
affidarla al governo. In alcuni casi, il parlamento o il governo, quando la legislatura finisce,
potrebbero non avere interesse allo scioglimento. Un governo che gode di una salda maggioranza
in parlamento, e teme invece alle elezioni di perdere voti, avrebbe tutto l’interesse a non sciogliere,
a tenere in vita le Camere che gli sono favorevoli. Camere che “tengono in ostaggio” un governo
minoritario e debole, potrebbero anch’esse non volersi sciogliere.
Dunque, la decisione di sciogliere è un “atto presidenziale”, sia pure del tipo ‘complesso’ (occorre
che il Presidente senta i Presidenti delle Camere e anche il Governo) che ha carattere di doverosità
quando le Camere sono “scadute” (e cioè quando la legislatura è finita). Tuttavia, il Capo dello stato
può sciogliere le Camere anche prima della scadenza, e cioè in corso di legislatura, quando si
siano determinate circostanze e precisamente: quando vi sia stata una crisi di governo e non sia
possibile dare vita a un nuovo governo che abbia una maggioranza in parlamento.
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Il semestre bianco
La decisione dello scioglimento è molto delicata, come si comprende, perché ha grandi
conseguenze politiche. E’ necessario che il Capo dello stato sia nelle condizioni di compierla nella
massima imparzialità, cioè senza avere il benché minimo interesse proprio al fatto che ci siano o
non ci siano nuove elezioni anticipate. Questo ci spiega la previsione dell’art. 88 secondo comma,
per il quale il capo dello stato non può sciogliere le camere negli ultimi sei mesi del suo
mandato, salvo che essi coincidano in tutto o in parte con la fine della legislatura (cd. Semestre
bianco). Durante gli ultimi sei mesi del suo mandato, il presidente potrebbe essere tentato di
valutare se sciogliere o meno con un occhio buttato al tipo di maggioranza che potrebbe uscire dalle
nuove elezioni, e che potrebbe apparire più o meno favorevole a una sua rielezione. Se però durante
gli ultimi sei mesi del mandato presidenziale le Camere giungono alla scadenza naturale il Capo
dello Stato deve sciogliere.
La previsione del ‘semestre bianco’ non fa parte del tessuto originario della nostra Costituzione ma
è stata introdotta con legge di revisione costituzionale n. 1/1991 quando era Presidente della
Repubblica Francesco Cossiga, che si era adoperato per sottolineare l’importanza di questa
condizione.
L’autonomia delle Camere: un valore incompreso e abusato
Le Camere godono di un elevatissimo tasso di autonomia, che intende proteggere la attività che si
svolge al loro interno (il dibattito politico) da ogni possibile rischio di interferenza, che potrebbe
comprimere la libertà politica, e così attentare alla democrazia. L’autonomia delle Camere è un
fondamentale valore democratico: nel Parlamento si esprime la rappresentanza della Nazione e le
prerogative delle Camere proteggono la libertà politica della Nazione. La storia repubblicana ci
mette davanti a una triste narrazione: quella dell’abuso, da parte degli eletti, dell’autonomia di cui
godono, che ha generato l’incomprensione del senso profondo di essa e dunque la continua
diminuzione, in fatto o in diritto, di quelle prerogative. Per una curiosa, ma significativa
coincidenza, gli anni recenti hanno visto molte volte il Presidente della Repubblica impegnato nella
difesa delle sue prerogative; e hanno visto invece quelle delle Camere venire erose in maniera
clamorosa, non solo nel silenzio, ma anche nella generale approvazione: le Camere a ragione o a
torto sono diventate il simbolo dell’eccessivo potere dei partiti che frena l’azione del Governo,
mentre il primo è sentito come il disvalore, il secondo (che il Governo possa agire, decidere, ‘fare’)
è sentito come un valore, e pertanto viene favorito.
Ma, per andare per ordine nel nostro discorso, dobbiamo cominciare col dire che, tra le
manifestazioni di autonomia delle Camere deve essere ricordata la autodichia o giurisdizione
domestica, che è il potere di giudicare le controversie con i propri dipendenti, e di essere il
solo giudice della esistenza di cause di ineleggibilità, incompatibilità preesistenti o
sopravvenute di deputati e senatori (cd. verifica dei poteri). L’autodichia è ‘la più contesta delle
prerogative parlamentari, perché priva di fondamento costituzionale. Purtroppo, dopo la seconda
metà degli anni ’90 del Novecento, essa è stata ampliata dalle Camere sino ‘al contenzioso sulle
gare d’appalto e altri atti amministrativi comunque non riguardanti i dipendenti’, laddove questi atti
avrebbero a buon diritto dovuto essere considerati conoscibili dal giudice amministrativo” (M.
Midiri, Quaderni del Filangieri 2012-2013, p. 248).
La principale manifestazione di autonomia delle Camere è quella regolamentare.
Il regolamento parlamentare
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Autonomia regolamentare vuol dire che le Camere danno a se stesse le norme in base alle quali
funzionano. Le norme che le Camere osservano nello svolgimento delle loro attività sono definite
nelle grandissime linee in Costituzione (art. 70-82) e poi sono precisate nel regolamento
parlamentare, che è l’unica fonte, oltre alla Costituzione, in grado di dettare norme sulla
attività e organizzazione delle Camere. Ciascuna camera ha il suo regolamento; il regolamento
dispone nel dettaglio in ordine allo svolgimento delle attività delle Camere ( quanto tempo si ha a
disposizione per illustrare un emendamento o una interrogazione; in quali casi è ammesso il voto
segreto, ecc.). Il regolamento viene approvato a maggioranza assoluta (metà più uno degli aventi
diritto al voto) dei membri di ciascuna camera.
Nel prevedere che le norme sul funzionamento delle Camere e il procedimento legislativo possano
essere contenute solo nel regolamento parlamentare la Costituzione, dunque, riserva questa materia
al regolamento parlamentare. Il regolamento parlamentare è una fonte “riservataria”: titolare
di una propria competenza che è definita dalla Costituzione e sulla quale altre fonti non
possono intervenire pena la loro illegittimità.
In base al principio degli ‘interna corporis’ (irrilevanza giuridica degli atti compiuti all’interno di un
organo autonomo), la Corte costituzionale ha sempre ritenuto di non poter sindacare una legge per
essere stata approvata in modo difforme al regolamento, o altre ipotesi di violazione del
regolamento. Si noti che, in altre democrazie parlamentari, le minoranze possono rivolgersi alla
Corte costituzionale quando ritengano che i loro diritti siano stati violati.
Il motivo per cui per l’approvazione del regolamento parlamentare è richiesta la maggioranza
assoluta è sottrarre le norme regolamentari dalla disposizione della sola maggioranza di governo
(che potrebbe volerle sempre modificare a proprio favore, e può in ogni momento direttamente
derogarvi semplicemente non osservandole). Tuttavia, nel nostro sistema, mentre fino agli anni ’90
del Novecento era molto difficile che una sola forza politica, o una coalizione di forze, disponesse
della maggioranza assoluta, questo è avvenuto tipicamente in tutto il periodo successivo. Ciò a
portato a modifiche dei regolamenti che hanno reso le regole, in base alle quali le Camere operano,
sempre più funzionali alla attuazione dell’indirizzo politico di maggioranza e sempre meno
garantiste verso le minoranze.
La struttura delle Camere
Le più importanti articolazioni delle Camere sono:
Il presidente d’assemblea
Il Presidente della Camera e del Senato è l’organo che dirige le sedute, mantiene l’ordine ed ha una
funzione preminente nella definizione del calendario dei lavori (cioè nella programmazione dei
lavori parlamentari, l’attività che definisce l’ordine di tempo in cui le Camere lavorano intorno ai
provvedimenti di loro competenza). Il Presidente viene eletto a inizio della legislatura dalla Camera
di appartenenza. L’aspetto più delicato e importante delle sue funzioni è il suo ruolo di interprete
del regolamento. In caso di dubbio, infatti, spetta al Presidente stabilire se una norma
regolamentare va o meno applicata, e come, cioè quale significato attribuirle.
Per tutta una prima fase dell’esperienza repubblicana, la prassi voleva che il Presidente d’assemblea
fosse un esponente di una forza politica di opposizione. Si intendeva così sottolineare il suo
carattere imparziale, abbastanza logicamente corrispondente alle sue delicate funzioni di
interpretazione del regolamento. A partire dalla ‘svolta maggioritaria’ della metà degli anni ’90
i presidenti di assemblea sono stati espressi dai partiti di maggioranza e l’opinione dottrinale
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corrente non manca di sottolineare che essi hanno esercitato il loro ruolo di ‘giudici del
regolamento’ in maniera sempre più politicizzata, il che ne ha notevolmente attenuato la capacità di
svolgere un ruolo di controllo effettivo sulla regolarità dei lavori, e ha contribuito al complessivo
scadimento delle prassi osservate in parlamento.
Il Presidente dell’Assemblea, come torneremo a dire parlando della programmazione dei lavori, è
attualmente il titolare della decisione in ordine alla programmazione dei lavori e l’interprete
del regolamento (per esempio decide i casi in cui un emendamento è ammissibile o meno): si tratta
dunque di una figura chiave negli equilibri tra Governo e Parlamento e interni alla maggioranza di
governo. Il Presidente d’assemblea è ormai il garante dell’indirizzo politico di maggioranza.
I regolamenti parlamentari hanno allargato a dismisura i poteri del Presidente di direzione dei lavori
d’assemblea e di interpretazione del regolamento. Essi riservano al Presidente decisioni
dall’influenza nodale sulla sorte dei provvedimenti in votazione, come la tecnica del ‘canguro’
nella votazione degli emendamenti, che consiste nel votare tutti insieme gli emendamenti che
rispondono ‘a uno stesso principio ispiratore’ secondo l’insindacabile decisione del Presidente
d’assemblea. Il rischio che la dottrina ravvisa nella crescita in senso politico del ruolo del
Presidente d’Assemblea è l’eccessiva contrazione dei diritti dell’opposizione, che, in teoria, il
Presidente d’Assemblea dovrebbe garantire. C’è infatti il rischio che i poteri, nella programmazione
e nella interpretazione del regolamento, che questa carica detiene ormai in solitudine, siano
esercitati squilibratamente nell’interesse del Governo. Si ricordi che le decisioni del presidente
d’Assemblea sono insindacabili, non sono sindacabili né dall’Assemblea né, per il principio degli
‘interna corporis’ dalla Corte costituzionale.
Molti concludono dunque che sarebbe importante procedere a una revisione degli attuali poteri del
presidente d’Assemblea, per “restituire al Presidente d’Assemblea parlamentare la propria
posizione centrale ed equidistante nell’ordinamento parlamentare, questa sì veramente
irrinunciabile” (E. Gianfrancesco, op. cit., p. 239).
L’importanza acquisita dalla carica, che ne ha sottolineato la politicità, rende abbastanza insensato,
a giudizio di molti studiosi, che ai presidenti delle Camere spesso siano riservati poteri di nomina
che dovrebbero invece servire a garantire che in certe cariche siano poste persone indipendenti
dall’indirizzo politico. Si pensi in particolare alla nomina dei presidenti e dei membri delle
Autorità indipendenti (Antitrust, Garante della Privacy, Consob), tipicamente affidati ai presidenti
delle Camere, nomine che questi ultimi hanno effettuato, secondo la dottrina, in un senso ‘politico e
politicizzato’ (M. Manetti, in Il Filangieri Quaderno 2012-2013, p. 180).
I singoli parlamentari. Lo status del parlamentare
La condizione giuridica (status) del singolo parlamentare è circondata da alcune peculiari garanzie,
che intendono proteggere l’autonomia e la libertà politica del parlamentare (e, attraverso essa, la
libertà del dibattito e del confronto politico intero, la libertà della funzione parlamentare e dunque la
pienezza dei processi democratici). I parlamentari infatti, benché eletti nelle liste dei singoli partiti,
sono qualificati dalla Costituzione come ‘rappresentanti della Nazione’. Le garanzie dei
parlamentari sono comuni a ogni democrazia parlamentare; nel nostro Paese però è innegabile che
si siano prestate ad abusi e strumentalizzazioni.
Esse consistono prevalentemente nella garanzia della insindacabilità e nella garanzia
dell’inviolabilità.
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Insindacabilità
Secondo l’art. 68 Cost. primo comma, i parlamentari non sono responsabili per le opinioni
espresse e i voti dati nell’esercizio delle loro funzioni.
Lo scopo della norma è proteggere la libertà del dibattito politico. La protezione si estende anche
al periodo in cui il parlamentare sia cessato dalla carica e ricorre nei limiti del “nesso funzionale”
(deve trattarsi di voti e opinioni espresse nello svolgimento di attività proprie del parlamentare).
Nel tempo, c’è stata una forte tendenza a attrarre nella sfera dell’immunità anche qualsiasi forma di
esercizio dell’attività politica svolta dai componenti delle camere fuori dal momento in cui
svolgono le loro tipiche funzioni (momento che coincide con la partecipazione al lavoro legislativo
e politico delle Camere). L’argomento è che in casi del genere ricorre un ‘nesso funzionale’ con le
funzioni proprie del parlamentare. Di fronte a casi di parlamentari che, per esempio durante dibattiti
televisivi, hanno rilasciato dichiarazioni offensive della reputazione di una terza persona, gli
interessati hanno cercato tutela denunciando il parlamentare. In questi casi è poi alla Camera di
appartenenza di stabilire se il comportamento denunciato rientra o non nella “funzione”; e se la
Camera ritiene così (l’organo competente è la Giunta per le autorizzazioni, v. sotto), il
procedimento giudiziario deve interrompersi. Al giudice rimane però la possibilità di sollevare un
conflitto tra poteri dello stato davanti alla Corte costituzionale, se ritiene che la deliberazione della
Camera che ha riconosciuto il ricorrere della prerogativa della insindacabilità fosse infondata (e
perciò lesiva delle attribuzioni della magistratura). Le Camere hanno ha sempre riconosciuto la
sussistenza della insindacabilità anche in casi in cui il nesso funzionale appariva molto dubbio.
Chiamata a decidere i conflitti di attribuzione sollevati dai giudici la Corte costituzionale ha
precisato che il nesso funzionale sussiste quando le opinioni espresse nella sede ‘esterna’ (es.
appunto in televisione) abbiano un contenuto “sostanzialmente identico” a opinioni che il
parlamentare ha precedentemente espresso in sede parlamentare (per esempio tramite una
interrogazione o una interpellanza). Questo ha portato la Corte costituzionale ad annullare, in più
di un caso, la delibera camerale di insindacabilità e a ristabilire una certa possibilità di tutela dei
diritti dei terzi offesi dalle “manifestazioni del pensiero” di un parlamentare. (Ma non ha certamente
impedito che il parlamentare, sapendosi regolarmente invitato a una trasmissione televisiva,
esprimesse certe opinioni in una interpellanza solo allo scopo di ‘coprirsi’ da eventuali azioni
giudiziarie promosse da coloro che si sarebbero ritenuti offesi dalle opinioni espresse in sede
televisiva.)
Inviolabilità
La garanzia della inviolabilità ha lo scopo di proteggere il parlamentare da interventi dell’autorità
giudiziaria che abbiano scopo intimidatorio o persecutorio.
Secondo l’originario testo dell’art. 68 secondo comma, l’autorità giudiziaria che intendesse aprire
un procedimento penale nei confronti di un parlamentare doveva chiedere l’autorizzazione
(autorizzazione a procedere) alla Camera di appartenenza. Nel 1993 questa previsione è stata
abrogata e sostituita con una diversa, per cui l’autorità giudiziaria deve chiedere l’autorizzazione
alle Camere solo quando intenda procedere, nei confronti del parlamentare inquisito, a particolari
tipi di indagini o specifiche misure limitative della libertà personale (perquisizione personale o
domiciliare – arresto - intercettazioni in qualsiasi forma di conversazioni e comunicazioni –
sequestro di corrispondenza). Per questa sua diversa estensione la prerogativa della inviolabilità,
che un tempo era conosciuta come “improcedibilità” oggi è nota come “garanzia dagli arresti”. La
garanzia vale solo per il tempo in cui il parlamentare riveste effettivamente la carica.
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Lo scopo della riforma del ’93 era quello di ridurre l’ambito della protezione dei parlamentari nei
confronti del procedimento penale; paradossalmente, però, essa ha sortito l’effetto di ampliarla.
Infatti, “prescrivendo la previa autorizzazione delle Camere in caso di perquisizione o
intercettazione, o di sequestro della corrispondenza del parlamentare, la nuova normativa finisce per
vanificare l’utilità di questi procedimenti, la cui efficacia è evidentemente e strettamente legata al
fatto che essi vengano adottati all’insaputa dell’interessato”1.
I gruppi parlamentari
I gruppi parlamentari sono le “proiezioni dei partiti all’interno delle Camere”. Non si tratta di veri
e propri organi delle Camere perché i gruppi non svolgono funzioni né adottano atti in nome e per
conto delle Camere (non discutono o votano leggi, non votano mozioni ecc.) ; tuttavia, i gruppi
sono strutture molto rilevanti nel funzionamento delle Camere; anche la Costituzione li menziona
per dire che le commissioni parlamentari devono essere composte in modo da rispettare la
composizione dei gruppi. Un altro indice dell’importanza dei gruppi nel lavoro parlamentare è che,
secondo i regolamenti di Camera e Senato, i presidenti dei gruppi devono essere sentiti dal
Presidente d’assemblea per decidere la programmazione dei lavori parlamentari.
L’origine dei gruppi parlamentari è tradizionale: da sempre, dove c’è un parlamento ci sono i
gruppi.
I deputati o i senatori eletti sono, ovviamente, stati eletti all’interno di partiti politici che, come
singoli o alleati tra loro, si sono presentati alle elezioni. Una volta eletti, dentro la Camera o dentro
il Senato, deputati e senatori si raggruppano secondo le loro affinità politiche. I deputati del partito
A , che sono poniamo 70, si siedono tutti vicini tra loro e quelli del partito B, che sono poniamo 45,
si siedono a loro volta tutti vicini tra loro. Il “gruppo parlamentare” alla Camera del partito A è
dato da quei 70 deputati che sono stati eletti nelle liste del partito A e che, dopo la elezione, hanno
afferito al gruppo del partito A. L’aula parlamentare è un emiciclo, un semicerchio, e per tradizione
si siedono a destra i deputati o senatori di partiti di destra, o conservatori, poi verso il centro quelli
più “progressisti” e a sinistra dell’emiciclo le forze di sinistra.
I gruppi servono fondamentalmente a mantenere nell’aula parlamentare la “disciplina di partito”.
Ogni gruppo ha capogruppo (Presidente del Gruppo parlamentare) che, in occasione delle
votazioni e dei vari lavori parlamentari comunica a tutti gli altri la linea del partito. Il capogruppo
convoca tutti i membri del gruppo, e li convince a votare tutti in un modo o tutti in un altro. Fa parte
del “pittoresco” o del “folclore” parlamentare la figura del “peone”. I peones sono i deputati o
senatori del gruppo, quelli che votano non secondo quello che pensano, ma secondo quello che
viene detto loro di votare. D’altra parte, essi sono stati eletti certamente grazie alle loro qualità
personali, ma soprattutto col sostegno del partito che li ha candidati, e che mette in moto, e finanzia,
tutta l’organizzazione della campagna elettorale e tutte le attività che ogni candidato deve fare se
vuol essere eletto. In cambio, il partito si aspetta una certa fedeltà, che d’altronde è ovvio aspettarsi
(se una persona si è fatta eleggere nelle liste di un certo partito, è presumibile che ne condivida le
visioni e gli orientamenti rispetto ai singoli problemi). Il “capogruppo” non è un “peone”: è uno che
dà la linea, e che ha una posizione importantissima nel partito. E’ stato spesso notato che un effetto
molto negativo della abolizione delle preferenze nel sistema elettorale adottato nel 2005, è che i
deputati e i senatori sanno di dovere la loro elezione (e la loro eventuale rielezione) in tutto e per
tutto al partito (perché essa dipende dal fatto che sono messi in lista in una certa posizione) e non
agli elettori, che votano la lista e non i candidati. Questa situazione rende gli eletti molto più
passivi, remissivi e obbedienti nei confronti del gruppo, dunque del partito. Può vedersi, in questo,
1 V.. in questo senso, tra i molti, P. Carnevale, in F. Modugno (cur.), Lineamenti di diritto pubblico, Torino, 2008.
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un utile rafforzamento della disciplina di partito, ma certamente non si è trattato di ottenere quella
“obbedienza nella libertà” (l’unica pregevole, ci ha insegnato Tocqueville), cioè una lealtà che
convive nel deputato e nel senatore col senso della propria responsabilità verso la Nazione.
Divieto di mandato imperativo e disciplina di gruppo
Bisogna ricordare che, secondo la Costituzione, “deputati e senatori rappresentano tutta la
nazione, senza vincolo di mandato” (Art. 67 Cost.) Questa espressione, che ha una origine storica
antichissima ed esprime un principio caratteristico delle democrazie contemporanee: il divieto di
mandato imperativo, intende salvaguardare l’autonomia politica del parlamento. Il divieto di
mandato imperativo è funzionale all’idea, su cui la democrazia parlamentare si fonda, che il
parlamento – e non il corpo elettorale - è il luogo in cui si forma la volontà politica della nazione,
in modo libero da ogni condizionamento, nel confronto e nel dibattito tra i parlamentari. Il divieto
di mandato imperativo assicura una certa libertà al deputato e senatore rispetto al partito
nelle cui liste è stato eletto e al gruppo parlamentare cui appartiene e vuole salvaguardare che
l’interesse della Nazione non sia sacrificato all’interesse del partito.
Come si conciliano il divieto di mandato imperativo con la disciplina di gruppo? Con questo
criterio: che la sorte di un uomo politico come membro di un partito e come membro del parlamento
possono seguire strade diverse. Il deputato o senatore che vota in modo difforme al gruppo di
appartenenza può essere invitato a dimettersi e lasciare il gruppo. Risente cioè delle conseguenze
della sua “ribellione” per tutto ciò che concerne il rapporto col suo partito, e col suo gruppo
parlamentare, ma non ne risente come “eletto”, come deputato o senatore (perché non ha fatto che
esercitare la sua “libertà di mandato”) e mentre magari viene radiato dal partito, resta però in
parlamento (salvo che non decida di dimettersi). A quel punto, può aderire a un altro gruppo.
Oppure può aderire al “gruppo misto.
Il gruppo misto
Il “gruppo misto” è composto da tutti quei deputati (o senatori) che dopo essere stati eletti, pur
essendo ovviamente stati eletti nelle liste di un partito, poi non aderiscono al gruppo di quel partito,
ma, appunto, danno vita a un gruppo di “non schierati”. Si tratta in genere di un gruppo piccolo,
che si presta anche alle esigenze di coloro che, come è accaduto a certi grandi intellettuali nel nostro
paese, scelgono di farsi eleggere, e perciò si candidano nelle liste di un certo partito, però non
vogliono identificarsi troppo con quel partito, perché uomini di partito non sono, hanno un’altra
formazione, un’altra storia personale. (Al partito, d’altra parte, può sempre convenire di mettere tra
i suoi candidati un premio Nobel o un intellettuale di fama che ogni giorno scrive sui giornali, anche
sapendo che poi lui afferirà al gruppo degli indipendenti, perché intanto “porta voti”). Oppure il
gruppo misto può servire a contenere quei deputati o senatori che si dissociano dal gruppo di
riferimento del loro partito per sopravvenuti contrasti o quelli che sono stati eletti nelle file di un
partito, che però ha avuto troppo pochi eletti per formare un gruppo autonomo, o coloro che, in
corso di legislatura, Secondo il regolamento della Camera, occorrono almeno venti deputati per
formare un gruppo, e secondo il regolamento del senato, almeno dieci senatori.
Riassumendo: i gruppi sono strutture che nel parlamento fanno funzionare la logica politico-
partitica degli schieramenti; non hanno direttamente funzioni nel procedimento legislativo o nelle
altre funzioni delle Camere, però indirettamente hanno rilievo sotto numerosi aspetti della
organizzazione e funzionamento delle camere: come abbiamo detto, le commissioni parlamentari
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(v. sotto) devono essere composte in modo proporzionale alla consistenza dei gruppi; inoltre, i
presidenti dei gruppi hanno un ruolo importante nella programmazione dei lavori parlamentari.
Le commissioni parlamentari permanenti
La Camera dei deputati è composta da più di 600 deputati e il senato da più di 300. Far lavorare
sempre tutte insieme tutte queste persone sarebbe difficile e allungherebbe moltissimo i tempi
richiesti per lo svolgimento delle funzioni parlamentari. Perciò, le Camere danno vita a proprie
articolazioni interne, dette appunto commissioni (permanenti).
Le commissioni parlamentari permanenti sono articolazioni interne della Camera o del
Senato, nelle quali si svolge una parte del lavoro legislativo e una parte del lavoro politico
della Camera o del Senato. A differenza dei gruppi, le Commissioni sono veri e propri
“organi” della Camera e del Senato perché svolgono funzioni che sono proprie della Camera e
del Senato. Ogni membro del Senato o della Camera è anche membro di una commissione.
Le Commissioni si differenziano per competenza, nel senso che sono ciascuna competente per una
certa materia: e le “materie” di cui si occupano le Commissioni corrispondono alle ripartizioni
delle attività e competenze dello Stato, quali risultano dalla suddivisione dei Ministeri in cui è
organizzato il Governo. Così come il Governo ha un Ministro per l’Economia, esiste una
Commissione competente sugli Affari Economici; Ministero per la Famiglia, Commissione per la
Famiglia, e così via: Affari interni, affari esteri, rapporti con l’Unione europea, Sanità, Lavoro,
Istruzione.
Inoltre, esistono commissioni che si occupano di materie trasversali, cioè di risvolti o aspetti che
ciascuna materia presenta, e sono Le Commissioni Affari Costituzionali; Bilancio e Rapporti con
l’Unione europea. Per tutti i provvedimenti all’esame delle Camere si presentano risvolti
costituzionali (si pone cioè il problema della loro conformità a costituzione, se è chiara, se ne può
dubitare, che cosa si può fare per migliorare la conformità a costituzione di un certo
provvedimento….). Per tutti i provvedimenti all’esame delle Camere si presentano poi risvolti di
bilancio. Il bilancio è il conto annuale delle spese e delle entrate dello stato: per ogni provvedimento
si pone il problema della sua ricaduta sul bilancio (e precisamente dei suoi costi, dei fondi con cui
coprire le spese che ne deriveranno ecc.). Infine, per tutti i provvedimenti all’esame delle Camere si
presentano risvolti di conformità al diritto europeo (a tenore dell’art. 117 Cost. infatti la funzione
legislativa è esercitata nel rispetto “dei vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario”).
Le Commissioni Affari Costituzionali, Bilancio e Rapporti con l’Unione europea esaminano tutti i
provvedimenti di cui la Camera o il Senato sono investiti, dal punto di vista della loro conformità a
Costituzione, regolarità rispetto al bilancio, conformità all’ordinamento comunitario. Esse sono
dette perciò anche commissioni “filtro”, perché ogni provvedimento non può procedere se non
passa l’esame in queste commissioni.
Le commissioni vengono composte in proporzione alla consistenza dei gruppi parlamentari, in
modo che tendenzialmente rispecchino la composizione dell’assemblea di appartenenza (della
camera o del senato). Supponiamo che la Camera abbia 100 deputati, di cui 40, cioè il 40% sono il
gruppo dei A, 30, il 30% il gruppo B, 20, cioè il 20% il gruppo C e 10, il 10% il gruppo D, per
comporre le commissioni, che supponiamo composte da 10 deputati ciascuna, metto 4 del gruppo
A, 3 del gruppo B, 2 del gruppo C e 1 del gruppo D, così la commissione rispecchia, in piccolo, la
composizione dell’assemblea. Da notare che questo, in cui rappresentano il punto di riferimento
numerico o quantitativo per la composizione delle commissioni, è uno dei momenti in cui i gruppi
assumono una certa indiretta rilevanza nella organizzazione e funzionamento delle Camere. E’
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grazie al fatto che la commissione riproduce lo stesso rapporto maggioranza-opposizione che c’è in
assemblea, che è possibile spostare in commissione, come vedremo, lo svolgimento di compiti
dell’assemblea. Bisogna anche dire, però, che questo rispecchiamento è tendenziale, perché i
numeri possono, di fatto, renderlo non sempre possibile. Nel nostro esempio, siccome le
Commissioni sono un numero superiore a 10, il gruppo D non potrà avere un proprio rappresentante
in ogni Commissione.
Poiché ogni deputato o senatore è contemporaneamente membro dell’assemblea e membro di una
commissione, assemblea e commissioni devono lavorare in giorni diversi. Infatti alla Camera e al
Senato ci sono giorni della settimana dedicati al lavoro “in Aula” (cioè in assemblea, tutti riuniti) e
altri dedicati al lavoro in Commissione.
Bisogna ricordare che le commissioni svolgono le stesse attività dell’’assemblea: lavoro legislativo
e lavoro politico (che descriveremo più avanti).
Le Giunte parlamentari
Oltre alle Commissioni permanenti, sono organi delle Camere le Giunte. Le Giunte sono organi
collegiali che esercitano funzioni diverse da quelle attinenti al lavoro legislativo e al lavoro politico
delle Camere, e precisamente:
a) si occupano della redazione e delle modifiche dei regolamenti parlamentari (Giunta per il
regolamento);
b) verificano l’esistenza di cause di ineleggibilità, incompatibilità, e la sussistenza delle condizioni
richieste per le garanzie di status dei parlamentari, immunità e improcedibilità (Giunta per le
autorizzazioni a procedere).
Le Commissioni bicamerali e le commissioni temporanee
Le commissioni permanenti sono organi necessari al lavoro delle Camere ed esistono in ogni
legislatura. Le camere possono, però, anche dare vita, con legge o con altro atto, a commissioni
temporanee, incaricate di approfondire, studiare un certo problema, anche con audizioni con
esperti.
Per esempio, in vista di una riforma importante, si può nominare una commissione di studio che
indaghi preliminarmente i vari aspetti, vantaggi e svantaggi della riforma, i suggerimenti di coloro
che, per lavoro o per studio, quotidianamente si misurano con quella certa materia.
Ciascuna camera ha le sue commissioni, ma esistono anche commissioni bicamerali, composte
cioè da rappresentanti di entrambe le camere, e che possono essere istituite per legge. E’ il caso
della Commissione di vigilanza sui servizi radiotelevisivi e del Comitato per i servizi di
sicurezza; la prima vigila sul pluralismo dell’informazione nel servizio televisivo pubblico, la
seconda conosce l’andamento dei servizi di informazione e sicurezza dello stato.
Come le giunte, le commissioni bicamerali e temporanee non hanno un ruolo nel procedimento
legislativo e nel lavoro politico ordinario delle Camere.
Principi del funzionamento del Parlamento: La programmazione dei lavori
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Come siamo venuti dicendo, ciascuna delle due camere lavora dividendo il proprio carico tra
l’assemblea e le commissioni e poi dividendo il tempo di lavoro tra lavoro legislativo e lavoro
politico. Il lavoro in assemblea e in commissione e il lavoro politico e quello legislativo – oltre alle
riunioni delle giunte e delle commissioni temporanee e bicamerali – sono distribuiti nei giorni della
settimana e nelle parti della giornata secondo una programmazione, una calendarizzazione. La
programmazione divide i giorni di lavoro e i tipi di attività (politica e legislativa) tra assemblea e
commissione e, su base annuale, mensile e settimanale, distribuisce in concreto i provvedimenti da
esaminare e votare. Su base annuale si sa che certi periodi dell’anno sono dedicati all’esame della
legge di bilancio e della legge di stabilità, e di altre leggi che vengono approvate tutti gli anni,
come la legge europea, dedicata al recepimento delle direttive comunitarie. Dunque, nel calendario
annuale si riservano per ciascuna di queste attività due, tre o quattro settimane; poi, su base mensile
e settimanale, si stabilisce quando sarà esaminati i singoli progetti o disegni di legge che vertono su
altre e disparate materie (per es. il tale progetto in materia di scuola o il tale progetto in materia di
trasporti).
La programmazione dei lavori è un atto di importantissima natura politica perché definisce le
priorità: se oggi sono presentati alle camere dieci progetti di legge, cinque del governo e cinque di
iniziativa parlamentare, su dieci materie diverse, si deve decidere se mandarli in commissione
referente, redigente o deliberante e poi come scadenzare la loro votazione in assemblea; si darà in
genere la precedenza ai progetti del governo, e poi si stabilirà quali degli altri sono più o meno
urgenti.
La programmazione viene fatta, a determinate scadenze temporali, dal presidente della
camera sentiti i presidenti delle commissioni e i presidenti dei gruppi parlamentari (cd.
conferenza dei capigruppo). La presenza dei gruppi assicura alle diverse forze politiche, ciascuna
interessata in maniera diversa alla sorte dei vari provvedimenti, di pesare sulla loro
calendarizzazione. Il presidente del gruppo parlamentare A, di minoranza, insisterà perché i progetti
di legge presentati dalla minoranza non siano messi troppo indietro in calendario, altri vorranno
invece il contrario, si discute e alla fine si forma il calendario. Alla conferenza dei capigruppo
partecipa il Governo.
La programmazione dei lavori rappresenta il nodo più cruciale nel complesso equilibrio tra
autonomia delle Camere e ruolo del Governo nell’indirizzo politico. E’ il momento del
‘raccordo’ tra attività delle Camere e indirizzo politico del Governo e già il regolamento della
Camera dei deputati del Regno faceva riferimento, agli ‘opportuni concerti’ tra presidente della
Camera e Ministri. Il fascismo, nel 1925, introdusse invece il principio del necessario assenso del
Governo per poter inserire qualunque argomento all’ordine del giorno delle Camere. Quel
momento, che annientò la autonomia parlamentare nel porre nel nulla la capacità del Parlamento di
programmare i propri lavori, viene ricordato come ‘il momento dell’impossessamento, da parte del
Regime, di uno dei gangli costituzionali vitali dello Stato’ (così E. Gianfrancesco, in Il Filangieri,
Quaderno 2012-2013, p. 218). All’estremo opposto si situano i casi in cui il potere di
programmazione delle Camere è attribuito in tutto e per tutto alle Camere stesse, e in particolare ai
loro Presidenti, in piena ‘autonomia’ dal Governo. Queste ipotesi ricorrono nelle forme di governo
dualiste, come quella presidenziale americana, ma non sono ammissibili nelle forme parlamentari,
che presumono una collaborazione tra parlamento e governo nell’indirizzo politico. Nel nostro
sistema d’epoca repubblicana, il punto di equilibrio è stato trovato, come detto sopra, prevedendo
che la programmazione è sì decisa dal presidente, ma in sede di conferenza dei capigruppo e con la
partecipazione di un rappresentante del Governo (che spesso è il ‘Ministro per i rapporti col
Parlamento). Fino agli anni ’90, nel caso in cui in conferenza non si raggiungesse l’unanimità sulla
programmazione, la decisione veniva rimessa all’Aula, cioè alla Camera, e, questo, per garantire le
opposizioni. Con i regolamenti dei primi anni ’90 è stato introdotto un importante cambiamento,
ossia che quando in Conferenza non si raggiunge l’unanimità sulla programmazione, il
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calendario e l’ordine del giorno sono approvati dal solo Presidente senza rimessione all’aula. E’
nata così quella che la dottrina chiama una programmazione puramente presidenziale, che esalta il
ruolo del presidente d’Assemblea e l’importanza di avere, in quel luogo, un esponente della
maggioranza o comunque che esibisca sensibilità alle esigenze della maggioranza.
Il lavoro politico delle Camere: l’attività di indirizzo e controllo sul Governo
Le maggioranze in Parlamento
Affinché una votazione in Parlamento sia valida, occorre che sia presente il numero legale, ossia che siano
presenti un certo numero (attorno al 60%) dei membri di ciascuna Camera.
Le maggioranze di voto sono: semplice, che corrisponde al 50%+1 dei presenti alla votazione. La
maggioranza semplice è quella su cui si svolge la vita politica quotidiana, si votano le leggi, la fiducia al
Governo, ecc. (Fatta base 100, presente il numero legale di 60, la maggioranza è 31)
Assoluta: 50%+1 degli aventi diritto al voto (fatta base 100, presente il numero legale di 60, la maggioranza
è 51).
Qualificata: ogni maggioranza superiore alla maggioranza assoluta.
Il lavoro politico delle Camere consiste in una continua attività di controllo e indirizzo nei confronti
del Governo, attraverso la quale si svolge il ‘rapporto fiduciario’ tra Parlamento e Governo.
Tra Parlamento e Governo esiste un nesso fiduciario per cui il Governo può esercitare le sue
funzioni a condizione di avere la fiducia delle Camere e deve dimettersi quando perde questa
fiducia. La fiducia iniziale delle Camere sul Governo, le persone che lo compongono e il
programma che intende perseguire è espressa in una mozione di fiducia, che è un atto con cui
appunto ciascuna delle due camere esprime la propria fiducia al governo, atto che viene approvato
dalla maggioranza semplice. La fiducia al governo implica: approvazione del programma di
governo e impegno a sostenerlo, approvazione delle persone che compongono il governo, come
idonee a rivestire il ministero loro assegnato.
Quando le Camere intendono revocare la propria fiducia al governo devono, secondo la
Costituzione, votare una mozione contraria, che si chiama mozione di sfiducia. La mozione di
sfiducia deve essere proposta da almeno un decimo dei componenti di ciascuna camera, e deve
essere messa ai voti non prima di tre giorni dalla sua presentazione. Questo è per dare un certo
tempo al governo in carica di cercare di fare in modo che la mozione venga respinta, cosa che il
governo farà cercando di convincere tutti i deputati e senatori che originariamente gli avevano
votato la fiducia, a non votare per la sfiducia.
Entrambe queste due mozioni devono essere motivate e votate per appello nominale (art. 94
Cost.).
La necessità di motivazione significa che non si può mettere ai voti la semplice dichiarazione di
dare (o revocare) la fiducia al governo, ma anche le ragioni per le quali questo voto viene espresso.
Il voto per appello nominale è una forma di voto palese. Il voto palese può essere espresso o “per
alzata di mano” o, appunto, “per appello nominale”. In questo caso ogni deputato e senatore viene
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chiamato per nome e deve dichiarare la sua volontà di voto. I regolamenti prevedono anche ipotesi
di voto segreto (in cui non si può risalire all’identità di chi ha votato in un senso o in un altro), ma
in un numero molto ristretto di casi, specialmente quelle che riguardano la votazione su materie
relative a diritti fondamentali, in cui problemi di coscienza che possono portare un deputato o
senatore a dissociarsi dalla linea del suo gruppo e ad avere interesse a vedere coperta da riservatezza
la sua scelta sono giustificabili. La limitazione dei casi in cui è possibile ricorrere al voto segreto
(un tempo molto numerosi) è stata una importante tappa della lunga partita che, nel corso degli
ultimi vent’anni, ha garantito alla maggioranza di Governo il controllo sui lavori parlamentari.
L’appello nominale serve a responsabilizzare i singoli parlamentari nei confronti dei governo e
dell’opinione pubblica, che conosce chi ha voluto sostenere il governo e chi no, e può giudicare
anche la coerenza dei singoli deputati o senatori, in particolare, con riferimento alla fiducia iniziale,
se essi nel prosieguo delle loro attività parlamentari saranno coerenti o meno con il voto espresso al
momento della fiducia.
La mozione di fiducia e la mozione di sfiducia sono i due atti fondamentali attraverso i quali si
svolge il rapporto fiduciario. Ad essi se ne aggiunge un terzo, che non è un atto preso a iniziativa
delle camere, ma un atto preso a iniziativa del governo, non previsto dalla Costituzione, ma nato
nella prassi, e che si chiama questione di fiducia. La questione di fiducia ricorre quanto il governo,
in vista della votazione di un disegno di legge alla cui approvazione tiene molto, e quando ha però
qualche motivo di temere che le camere non lo approvino, dichiara che considererà l’eventuale
rigetto del provvedimento come una manifestazione di sfiducia delle camere e si dimetterà. Questa
sorta di minaccia tende ad ottenere l’effetto di sollecitare i deputati e i senatori che appartengono ai
gruppi parlamentari corrispondenti ai partiti che sostengono il governo di votare nel senso voluto
dal governo, perché altrimenti si rischia la crisi di governo e, in prospettiva, lo scioglimento delle
camere e nuove elezioni.
La mozione di fiducia, la mozione di sfiducia, e la questione di fiducia possono essere votate
solo in Assemblea, dal plenum della camera o del senato, non possono essere votate in
Commissione: sono gli atti di indirizzo e controllo riservati all’Assemblea.
Tra il momento iniziale (mozione di fiducia) e il momento finale (mozione di sfiducia) della vita del
governo si svolge tra quest’ultimo e le camere un rapporto di indirizzo e controllo continuo che
serve a permettere alle camere di conoscere ciò che il governo fa, di chiedergli spiegazioni, di
indirizzargli suggerimenti, consigli o indicazioni; attraverso questo rapporto, in altri termini, le
Camere, in modo continuativo, indirizzano e controllano il governo.
Gli atti caratteristici di questa funzione delle Camere sono le interrogazioni, le interpellanze, le
mozioni e gli ordini del giorno.
Con le interrogazioni e le interpellanze uno o più deputati possono chiedere, oralmente o per
iscritto, a un ministro o a tutto il governo informazioni e chiarimenti su un fatto accaduto, sui motivi
di quel fatto, sul comportamento che il governo intende tenere al riguardo. Il governo è tenuto a
rispondere.
La mozione è una dichiarazione di volontà che le camere votano e nel quale possono esprimere
approvazione, disapprovazione, soddisfazione, scontento verso il governo o raccomandargli di fare
certe cose. Per esempio, dopo la risposta che il governo ha dato su una interrogazione o
interpellanza, può essere votata una mozione che esprime l’insoddisfazione delle camere per la
risposta ricevuta.
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L’ordine del giorno è una dichiarazione di volontà che di solito viene votata in accompagnamento
a una legge approvata dalle Camere e che serve a raccomandare al governo di, per esempio,
procedere rapidamente all’esecuzione di quella legge.
Interpellanze, interrogazioni, mozioni e ordini del giorno possono essere discussi e votati sia in
assemblea che in Commissione.
Si noti che si parla di ordine del giorno in due significati distinti: come calendario delle votazioni e delle attività di una
singola giornata; come atto di indirizzo e controllo.
Il lavoro legislativo delle Camere: il procedimento di approvazione delle leggi ordinarie
Il “lavoro legislativo” delle Camere consiste nell’esame e nella deliberazione dei progetti di legge
ordinaria, costituzionale e di revisione costituzionale. Abbiamo già descritto in altro capitolo il
procedimento di approvazione delle leggi costituzionali e di revisione costituzionale, ora
descriveremo il procedimento di formazione della legge ordinaria.
L’approvazione di una legge segue un iter, un procedimento, che è composto di diverse fasi:
1. Iniziativa: un progetto di legge viene presentato alla Camera o al Senato; Il potere di
iniziativa spetta: al Governo e a ciascun deputato o senatore; inoltre, progetti di legge
possono essere presentati dai consigli regionali. Il corpo elettorale può esercitare la
iniziativa legislativa tramite la presentazione di una proposta sottoscritta da almeno
cinquecentomila elettori (v. art. 71 della Costituzione). L’attuale progetto di revisione del
Senato intende alzare questa soglia a ottocentomila elettori.
2. Esame: il progetto di legge viene discusso, vengono proposte e votate le proposte di
modifica (emendamenti);
3. Votazione o Deliberazione: il testo del progetto di legge viene votato; se raggiunge la
maggioranza richiesta (normalmente la maggioranza semplice) lo si considera approvato. Il
testo così approvato da una delle Camere viene trasmesso all’altra, che a sua volta lo
esamina e lo vota. Il testo passa da una Camera all’altra finché non viene approvato da
entrambe nello stesso testo. A questo punto viene trasmesso al Presidente della Repubblica
per la
4. Promulgazione, che è l’atto formale con cui il Presidente della Repubblica, preso atto che
l’atto è stato votato dalle due Camere, dichiara che esso è una legge dello stato e ne ordina la
5. Pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica. La pubblicazione in Gazzetta
serve a rendere l’atto noto a tutti; le leggi entrano normalmente in vigore dopo 15 giorni
dalla pubblicazione in gazzetta, ma eccezionalmente possono entrare in vigore il giorno
stesso della pubblicazione (questo viene detto, in caso, nella legge stessa), ma nessuna legge
può entrare in vigore senza pubblicazione, dunque la pubblicazione viene considerata un
atto integrativo dell’efficacia della legge, nel senso che è un atto necessario perché la legge
acquisti la sua piena efficacia.
La fase dell’esame e della votazione non avvengono necessariamente e per intero in
assemblea, nel plenum; normalmente si svolgono in parte in commissione e in parte in
assemblea e qualche volta possono avvenire solo in commissione.
Nel procedimento di formazione della legge le commissioni possono infatti svolgere uno di
questi tre ruoli:
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- referente (commissione in sede referente). Dopo avere ricevuto il progetto di legge, il presidente della Camera (o del Senato) lo assegna
alla commissione competente per materia (per esempio: se il progetto di legge è in materia di
salute, alla commissione salute) per l’esame in sede referente e alle tre commissioni “filtro”.
Quando le viene attribuito il ruolo referente, la commissione competente per materia deve solo
esaminare il progetto e preparare una relazione nella quale ne illustra le caratteristiche ed
esprime un proprio parere; fatto questo, la commissione restituisce il progetto alla Camera (o al
Senato) e tutto il resto dell’esame e della votazione avviene in assemblea, alla quale riferiscono
pure le tre commissioni filtro, le quali diranno per esempio: questo progetto di legge presenta
dei problemi di costituzionalità, che potrebbero essere risolti introducendo questa e questa
modifica; non presenta (oppure presenta) problemi con riferimento al bilancio dello stato, e se
sì, quali; presenta (oppure non presenta) problemi di conformità con l’ordinamento comunitario.
Da questo punto in poi, entra in scena l’assemblea, dove si svolge l’esame e la votazione dei
singoli articoli e dell’intero testo. Questa è la procedura normale di approvazione delle leggi.
- Redigente (commissione in sede redigente). Dopo avere ricevuto il progetto di legge, il
presidente della Camera (o del Senato) lo assegna prima all’assemblea che lo discute nelle linee
generali, dopo il testo viene trasmesso alla commissione competente per materia (per esempio:
se il progetto di legge è in materia di salute, alla commissione salute) per l’esame in sede
redigente. In questo caso la commissione ha il compito di redigere e approvare i singoli
articoli poi il testo torna in assemblea per venire votato nel suo insieme. Nella sua attività di
redazione dei singoli articoli la commissione discute, vota sulle varie proposte di modifica
presentate dai suoi membri finché perviene alla redazione di un testo redatto in articoli (un
“articolato”) che viene approvato dalla maggioranza della commissione. Quando il testo torna
in assemblea quest’ultima vota il testo che le viene trasmesso dalla commissione, senza
possibilità di introdurre ulteriori emendamenti.
Quando si adotta il procedimento con commissione in sede redigente, le tre commissioni filtro
danno il loro parere alla Commissione competente per materia.
- Deliberante (commissione in sede deliberante o “legislativa”). Dopo avere ricevuto il progetto
di legge, il presidente della Camera (o del Senato) lo assegna prima all’assemblea che lo discute
nelle linee generali, dopo il testo viene trasmesso alla commissione competente per materia per
l’esame e l’approvazione in sede deliberante. In questa ipotesi tutta la vicenda della proposta di
legge (esame, discussione, votazione dei singoli articoli e del testo finale) avviene in commissione,
cioè non è l’assemblea che alla fine vota il testo definitivo ma la votazione definitiva avviene in
commissione. A certe condizioni (se lo chiedono il Governo, o un decimo dei componenti della
Camera o un quinto dei membri della Commissione) si può in ogni momento chiedere il ritorno alla
procedura normale, con la restituzione all’assemblea del potere di approvare o meno la proposta.
Anche quando si adotta il procedimento con commissione in sede deliberante, le tre commissioni
filtro danno il loro parere alla Commissione competente per materia.
Non è ammesso il procedimento in commissione deliberante e redigente per i disegni di legge in
materia costituzionale ed elettorale e per quelli di delegazione legislativa, di autorizzazione alla
ratifica di trattati internazionale di approvazione di bilanci e consuntivi. In questi casi, dispone l’art.
72 ult.co. Cost., è necessaria la procedura normale di esame e approvazione, quella che prevede la
commissione referente. Si dice pertanto che le leggi nelle materie elencate nell’art. 72 ult.co. sono
sottoposte a una riserva di assemblea (devono essere votate articolo per articolo e nel testo finale
in assemblea).
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Le commissioni permanenti possono anche essere chiamate a svolgere una funzione consultiva,
cioè a esprimere pareri, su determinati atti del governo.
Il procedimento legislativo come mera ‘ratifica’ delle decisioni del Governo
In tema di procedimento legislativo, è importante ricordare che, benché secondo la nostra
Costituzione l’iniziativa delle leggi spetti (anche) ai singoli parlamentari, gli attuali regolamenti
non garantiscono tempi certi per la messa in discussione dei disegni di legge presentati
dall’opposizione, li lasciano emendabili a tutto campo dalla maggioranza che può arrivare a
stravolgerli e portare in votazione quei provvedimenti in un senso del tutto diverso da come
l’opposizione li aveva redatti, e che vede poi l’opposizione, pertanto, non votarli più. Si tratta
di un aspetto che può spiegare la ‘crisi della legge’, la sfiducia nel procedimento legislativo che non
appare più un ‘bene’ meritevole di difesa neppure da parte delle Opposizioni (E. Gianfrancesco, op.
cit., p. 236). Sulla discussione dei disegni di legge di maggioranza è previsto invece il
‘contingentamento’ dei tempi di discussione e una attenta selezione degli emendamenti che
possono essere posti in discussione, compresa la tecnica, sopra citata, del ‘canguro’. Sebbene un
certo favore per gli atti di iniziativa del Governo sia normale nel procedimento legislativo di una
democrazia parlamentare, è difficile considerare fisiologico il completo annullamento dei poteri
dell’opposizione.
Si deve anche notare che, oggi, il procedimento legislativo viene usato quasi esclusivamente per
l’esame di disegni di legge del Governo e in particolare per l’esame di disegni di legge di
conversione dei decreti legge e di disegni di legge in materia finanziaria (che sono sempre più
spesso, a loro volta, disegni legge di conversione di decreti legge perché, a partire dal 2008, il
ricorso da parte del governo a decreti legge in materia finanziaria e di bilancio è divenuto
irrefrenabile). Sulla conversione dei decreti legge il Governo pone ritualmente la questione di
fiducia accompagnata da un maxi-emendamento che riassume il testo del decreto per come il
Governo vuol farlo approvare (facendo cadere ogni altro emendamento). L’ammissibilità sia
della questione di fiducia che del maxi emendamento è decisa dal Presidente d’Assemblea, e questa
decisione “costituisce l’unico e ultimo freno parlamentare rispetto alla approvazione di un testo
legislativo la cui formazione è in genere rimessa al presentatore del maxi-emendamento e cioè al
Governo” (N. Lupo, in Quaderni del Filangieri 2012-2013, p. 195). In sostanza, nel procedimento
legislativo utilizzato per la conversione dei decreti legge, tutto il ruolo giocato dall’Assemblea
legislativa si riduce alla decisione del suo presidente di autorizzare il Governo a porre la
fiducia su un suo maxi-emendamento. Si noti che la Costituzione, all’art. 72, prevede che le leggi
devono essere votate ‘articolo per articolo’, mentre il maxi emendamento è un voto unico su un
articolato anche enorme. Secondo molti autori, ‘agevolando, o, almeno non adeguatamente
ostacolando, il ricorso alla posizione della questione di fiducia su maxi-emendamenti’ i Presidenti
d’assemblea hanno dunque agevolato la costruzione di una prassi in ‘palese violazione dell’art. 72
Cost.” (N. Lupo, op. cit., p. 196).
Nonostante, infatti, nel corso del tempo il Governo abbia ottenuto norme procedimentali sempre più
favorevoli (cioè: che danno priorità ai provvedimenti a iniziativa governativa nell’esame delle Camere; che
hanno ridotto sino a eliminare il voto segreto, occasione di ‘tradimenti’ e voti incrociati; che hanno ridotto le
possibilità per le opposizioni di rallentare o ostacolare l’esame dei provvedimenti della maggioranza) il
Governo non ha mai abbandonato, ma anzi ha rafforzato, una sua tendenza a portare avanti il suo indirizzo
politico non con le leggi ordinarie, che ne sarebbero lo strumento naturale, ma con i decreti legge. Così, le
modifiche al regolamento dell’organo legislativo, cioè del Parlamento, sono andate a favore dell’esercizio
del Governo dei suoi poteri normativi. Per questo oggi si dice senza mezzi termini che le Camere hanno
ormai solo il ruolo di ‘ratificare’ le decisioni del Governo: questo adotta i decreti, li presenta alle Camere
per la conversione, i tempi della discussione sono ‘contingentati’ ed ogni eventuale modifica che le Camere
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facciano al decreto può essere fatta cadere dal Governo presentando una ‘mozione di fiducia’ che li fa
decadere e fa equivalere l’approvazione del decreto a una conferma della fiducia al governo (ovvero fa
equivalere una eventuale bocciatura del decreto a una mozione di sfiducia contro il governo). Le Camere
hanno favorito recentemente in modo ulteriore questo processo introducendo l’istituto cd. della
‘ghigliottina’, una decisione del presidente dell’Assemblea che impedisce la discussione degli emendamenti
che prolungherebbero ‘troppo’ la discussione parlamentare. Nel progetto di revisione del Senato, sono
introdotte norme che accentuano questo carattere, come la cd ‘legge a data certa’: quando il Governo
presenta una iniziativa di legge ordinaria, può chiedere e ottenere che il parlamento voti entro 60 giorni, il
che significa eliminare la possibilità che il Parlamento introduca modifiche. In sostanza, con la legge a data
certa la legge ordinaria verrebbe approvata con lo stesso procedimento che oggi si è instaurato per i decreti
legge, e che, come abbiamo detto, si riduce a una decisione del presidente d’assemblea di votare sulla
proposta del Governo tal quale è stata presentata.
IL GOVERNO
La composizione del Governo
Secondo l’art. 92 della nostra Costituzione, il Governo della Repubblica è composto da
Presidente del Consiglio, che “dirige e coordina l’attività dei ministri e mantiene l’unità di
indirizzo politico e amministrativo”
Ministri, che sono i vertici delle singole amministrazioni dello stato
Consiglio dei Ministri, che è l’organo che riunisce il Presidente del Consiglio e i Ministri e nel
quale vengono prese le decisioni e le scelte che impegnano il Governo come tale, cioè nella sua
interezza.
Il governo è, pertanto, un organo collegiale.
La formazione del governo, la crisi di governo
Art. 92.2. Cost. Il Presidente della Repubblica nomina il Presidente del Consiglio dei Ministri, e, su
proposta di questi, i Ministri.
Art. 93. Il Presidente del Consiglio dei ministri e i ministri, prima di assumere le funzioni, prestano
giuramento nelle mani del Presidente della Repubblica.
Art. 94. Il Governo deve avere la fiducia delle Camere.
Ciascuna Camera accorda o revoca la fiducia mediante mozione motivata e votata per appello nominale.
Il voto contrario di una o entrambe le Camere su una proposta del Governo non importa obbligo di
dimissioni.
Il Governo, a differenza delle Camere, non ha una durata in carica prefissata: dura fino a
quando ha la fiducia delle Camere. Per comprendere i ritmi della vita del Governo, occorre poi
tenere distinti due aspetti: l’essere in carica e l’essere nella pienezza delle funzioni.
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La condizione per cui il Governo è in carica inizia nel momento in cui il Governo è nominato, dal
Capo dello Stato, e presta giuramento di fedeltà alla Repubblica nelle sue mani, e cessa nel
momento in cui entra in carica il successivo Governo.
La condizione per cui il Governo ha la pienezza delle funzioni inizia nel momento in cui il
Governo riceve la fiducia delle Camere, e cessa nel momento in cui il Governo si dimette.
Pertanto, vi sono momenti in cui il Governo è in carica ma non ha la pienezza delle funzioni, e
questi momenti sono quelli del Governo in attesa di fiducia e del Governo dimissionario.
Il Governo in attesa di fiducia e il Governo dimissionario possono compiere solo atti di
ordinaria amministrazione, cioè atti già previsti, che rappresentano esecuzione di scelte già
deliberate o adempimento di impegni già presi, e previsti dalla legge o dalla Costituzione; inoltre,
possono adottare atti improcrastinabili, necessari e urgenti (decreti legge). Invece, gli atti di
indirizzo politico, (come la presentazione di un disegno di legge attuativo di un aspetto del
programma del governo) sono riservati al governo che abbia la fiducia delle camere. Dunque,
quando c’è la crisi di governo significa che il governo in carica è dimissionario, e cioè è in
carica solo per l’ordinaria amministrazione o “compimento degli affari correnti”. Facciamo
l’esempio che per il 18 ottobre sia previsto un Consiglio dei ministri a Bruxelles, e per il 20 ottobre
un vertice internazionale in Italia. Il 16 ottobre il governo si dimette. I suoi ministri possono andare
a Bruxelles? Il presidente del Consiglio “uscente” può presiedere il vertice? Sì, perché sono gli
affari correnti; certo però potrà dire niente di vincolante per il paese, non potrà stipulare accordi
nuovi, perché non ha la fiducia.
Una volta chiarite queste due diverse legittimazioni del Governo, che dipendono dall’avere o meno
la fiducia, occorre chiedersi quando si forma un nuovo Governo, quali sono le condizioni e le
circostanze che conducono all’esigenza di formare un nuovo Governo.
La formazione del Governo, ovviamente, è necessaria quando il Governo è dimissionario. Bisogna
però distinguere i casi in cui il Governo ha l’obbligo di dimettersi da quelli in cui si dimette per una
sua spontanea valutazione.
Il governo ha l’obbligo di dimettersi in tutte le situazioni in cui non può esservi dubbio che il
rapporto fiduciario è venuto meno. Tra queste situazioni una sola è obiettivamente prescritta in
Costituzione e cioè
a. quando, in corso di legislatura, il Governo ha ricevuto un voto di sfiducia delle Camere
(crisi parlamentare), situazione che evidenzia in modo inequivocabile che la condizione per
la permanenza in carica del Governo, l’esistenza del rapporto fiduciario, è venuta meno;
Tuttavia, si ritiene principio inerente la logica della forma di governo parlamentare che il governo
sia obbligato a dimettersi:
b. in caso di morte o impedimento permanente del Presidente Consiglio. Il Presidente del
Consiglio essendo la figura più eminente del Governo, si presume che la sua scomparsa
determini il venir meno del rapporto fiduciario.
c. Dopo lo svolgimento delle elezioni, quando si è formata una nuova rappresentanza
parlamentare.
I governi italiani si sono tutti dimessi dopo le elezioni, tranne il Governo De Gasperi VII, primo della
storia repubblicana, che rimase in carica a cavallo delle elezioni del 18 aprile 1948. Le dimissioni del
governo davanti alle nuove camere sono un potente riconoscimento della primarietà della rappresentanza
parlamentare nella forma di governo, e della ‘dipendenza’ del governo da essa. (I governi del periodo
statutario non si dimettevano mai dopo le elezioni.) Dopo il 1948 l’unico Governo che non ha dato le
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dimissioni davanti alle Camere neo-elette è stato il Governo ‘tecnico’ Monti (febbraio 2013), che arrivò
alle elezioni dimissionario, ma senza che questa sua condizione fosse mai stata accertata con una
discussione in Parlamento.
Il Governo può inoltre decidere spontaneamente di dimettersi quando avverte di avere perduto il
sostegno della maggioranza in parlamento anche se ciò non è stato formalizzato da un voto di
sfiducia. In questi casi si parla di dimissioni spontanee dovute a una crisi extraparlamentare (che
cioè non è stata sancita in parlamento da un voto di sfiducia).
Un voto contrario in Parlamento non determina obbligo di dimissioni, dice espressamente la
Costituzione. Se il Governo, durante una votazione in Parlamento, va in minoranza, non significa
che sia obbligato a dimettersi. Tuttavia una serie di voti contrari possono essere presi dal Governo
come indice che la sua maggioranza non è più coesa, è venuta meno, e indurlo a presentare
spontaneamente le dimissioni.
La differenza tra il caso in cui il Governo ha l’obbligo di dimettersi e quello in cui esso si dimette
spontaneamente è che nel primo caso il Capo dello Stato ha l’obbligo di accettare le dimissioni del
Governo (che avranno effetto a partire dalla nomina del nuovo). Nel secondo no, e può invitare il
Governo a riflettere, e soprattutto lo può invitare a presentarsi in Parlamento per ufficializzare le
ragioni delle proprie dimissioni (parlamentarizzazione della crisi), e accettare le dimissioni solo
dopo che questo è avvenuto. La parlamentarizzazione della crisi è una prassi che risponde
all’esigenza di chiarire in modo pubblico le ragioni politiche e le responsabilità di una crisi di
governo avvenuta dietro le quinte.
Prassi recenti in materia di dimissioni del Governo
La regola costituzionale secondo cui il governo non ha l’obbligo di dimettersi a seguito di voto contrario
delle camere significa che il governo non può pretendere dal parlamento che sia sempre d’accordo con lui:
non si può arrivare al punto, cioè, che per timore che il governo si dimetta, per timore di provocare una crisi
di governo la dialettica parlamentare venga completamente esautorata. Oggi questa componente del nostro
disegno costituzionale è oggi in grande sofferenza: l’esigenza di governabilità (cioè che il governo attui il
suo indirizzo) e di stabilità (cioè che non vi sia crisi di governo) hanno preso il sopravvento rispetto al favore
per la dialettica politica che certamente segna la nostra Costituzione. Infatti, la regola appena citata, e il
preciso significato ordinamentale che incorpora (che si può, sia pure con un po’ di brutale semplificazione,
esprimere dicendo che il parlamento non è agli ordini del governo, o il ratificatore delle sue decisioni) è
apertamente contraddetta dalla tendenza degli esecutivi a porre molto frequentemente la questione di fiducia,
“minacciando” il parlamento di dare le dimissioni se il provvedimento su cui il governo ha posto la fiducia
non viene approvato. Nel dicembre 2012, l’allora presidente del Consiglio Mario Monti è arrivato a motivare
le sue dimissioni col fatto che, in parlamento, il segretario del principale tra i partiti che sostenevano il
governo aveva espresso in parlamento l’intenzione del suo gruppo di non votare alcuni provvedimenti del
governo stesso.
Bisogna anche ricordare che nel nostro ordinamento costituzionale non è il governo, ma il capo dello stato,
che scioglie le Camere. Di conseguenza le dimissioni del Governo non possono essere date col motivo (e
neppure con l’intento, almeno non con intento giuridicamente rilevante, seppure è certo ammissibile che il
governo possa politicamente perseguire questo scopo) di provocare lo scioglimento delle Camere e il ricorso
a nuove elezioni, poiché questo tipo di valutazioni non spettano al Governo, ma ad altro organo
costituzionale, e inoltre, apertasi la crisi di governo, la prima valutazione da fare è comunque se sia possibile
ricostituire un altro Governo (e, in caso di dimissioni spontanee, anche se sia possibile per il Governo
ritrovare la sfiducia delle Camere). Anche sotto questo profilo rappresentarono il segno di prassi innovative
le dimissioni del Governo Monti, che, trovandosi a fine legislatura e in un contesto in cui un eventuale
anticipo della data delle elezioni politiche era nei fatti in discussione, furono rese nella consapevolezza di
provocare lo scioglimento anticipato delle Camere.
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Notevole caratteristica delle dimissioni del Governo Monti, significativa dell’affermarsi di nuove ‘culture’
costituzionali, fu anche la circostanza, resa pubblica dallo stesso Presidente del Consiglio, per cui egli
comunicò al Quirinale la sua intenzione di dimettersi ma non la comunicò preventivamente ai suoi Ministri.
Oltre a confermare la particolare relazione di fiducia personale che, non in accordo con la configurazione
costituzionale dei rapporti tra questi due organi, ha legato il Presidente del Consiglio Monti al Presidente
della Repubblica Napolitano, questa circostanza equivale a una decisa interpretazione in senso monistico e
gerarchico dell’organo ‘Governo’. Noi proveniamo da una evoluzione lunga ormai almeno vent’anni che
vede l’affermarsi nei fatti di una posizione di preminenza del Presidente del Consiglio sulle altre componenti
del Governo, non del tutto armonica con il disegno paritario e collegiale che dell’organo la Costituzione
disegna, tuttavia una simile completa esautorazione della collegialità dell’esecutivo, se si vuole un simile
declassamento del ruolo costituzionale dei singoli ministri e del consiglio dei ministri si fece registrare come
un dato notevole. E’ una prassi che va in una con le tendenze alla ‘personalizzazione’ del potere (la riduzione
dell’articolazione pluralistica dello Stato alla volontà e personalità o carisma di un singolo), tendenze che
erano state contrastate dalla Costituzione (che voleva, con questo, differenziarsi dalle esperienze autoritarie
del Regno e del Fascismo).
E’ da notare anche che, contrariamente alla prassi consolidata che impone la ‘parlamentarizzazione’ della
crisi in caso di dimissioni spontanee, di tanto non si è parlò nel caso delle dimissioni del Governo Monti. E’
vero che la crisi nacque da affermazioni di un deputato in parlamento; ma altro sono le affermazioni di un
singolo, altro il dibattito e lo schieramento di punti di vista che può emergere in una discussione dedicata
espressamente a valutare se il governo a o meno la fiducia delle camere, con utile approfondimento pubblico
sia delle ragioni della crisi, sia delle diverse posizioni e responsabilità delle varie forze politiche.
Ultima osservazione da fare sulle recenti dimissioni del Governo Monti è che si tratta del secondo caso di
dimissioni ‘annunciate’ o ‘sotto condizione’. Come già aveva fatto il Presidente del Consiglio Berlusconi nel
2011, anche nel caso del Governo Monti il Governo annunciò che si sarebbe dimesso dopo l’approvazione in
parlamento della Legge di Stabilità. Le ‘dimissioni del governo sotto condizione’ sono una novità che
genera ambiguità in quanto, fino a che la condizione sospensiva non si produce, il governo è nella pienezza
delle funzioni; ma indubbiamente, nelle cose, è anche un po’ dimissionario, ciò che non facilita la
individuazione dei corretti limiti della sua azione, mentre in uno stato di diritto, e in una democrazia, è
importante avere chiarezza sulla condizione giuridica di questo o quell’organo, perché è necessario che vi sia
la possibilità di controllare la correttezza del suo operato.
Un’altra significativa recente “innovazione” nelle prassi inerenti le dimissioni e la crisi del Governo fu
segnata dalle circostanze in cui cadde il governo Berlusconi nel novembre 2011: il motivo di quelle
dimissioni fu visto da tutti nella ‘caduta dello spread’ l’indicatore del tasso di fiducia che gli investitori
internazionali hanno nei confronti del nostro paese. Si è trattato, insomma, del primo caso conclamato di
sfiducia dettata dai mercati, che avverte in modo molto chiaro di come i poteri economici influenzano
attualmente le vicende politiche e istituzionali interne. Le dimissioni del Governo Letta (succeduto a Monti)
nella primavera 2014 furono dovute a un ‘terremoto’ interno al partito di cui il Presidente del Consiglio era
espressione (il PD), e cioè alla affermazione di Matteo Renzi nelle ‘primarie’ del PD, successo che, in fondo,
è ben diverso da una affermazione elettorale). Alcuni hanno notato che è risaltata, in quella circostanza, la
confusione tra vicende di un partito e vicende delle istituzioni, che si è presentata spesso, sotto varie forme,
nel nostro Paese, ma che convive molto male con lo stato di diritto costituzionale.
In sintesi, il fatto che la costituzione, o una serie di norme convenzionali o di prassi, in chiara opposizione
alla prassi statutaria, indichino quando il governo deve o si può dimettere, serve a dire che il governo non
può rimanere in carica a piacer suo; il che implica anche che neppure il Governo può dimettersi a piacer suo,
ossia dare le dimissioni per motivi futili, per motivi che restano non chiari all’opinione pubblica e al
parlamento, o che possono apparire irrilevanti rispetto alla sua missione e mandato specifici (se tecnico), o
che dipendono da guerre interne a un partito per la conquista del potere al suo interno. Ma, nelle cose, e del
tutto analogamente alla prassi statutaria, le dimissioni del Governo (così come, in parallelo, la nomina del
Governo) hanno dimostrato nell’esperienza repubblicana di rispondere a molteplici e variabili criteri,
ancorati in modo contingente all’andamento dei rapporti tra i partiti e alla decisione che il Presidente della
Repubblica prende circa il modo di rapportarsi ad essi.
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Una volta che il Governo è dimissionario si deve dunque procedere alla formazione del nuovo. Dal
punto di vista formale, cioè degli adempimenti che devono essere effettuati, le tappe sono le
seguenti: il Presidente della Repubblica nomina un certo uomo politico “Presidente del Consiglio
incaricato”, incaricato cioè di formare il nuovo Governo. Questi “accetta l’incarico con riserva”,
con riserva cioè di riuscire davvero nell’intento. Si tratta di stilare il programma di Governo e
formare la lista dei ministri (e dei sottosegretari, che sono gli immediati collaboratori dei Ministri e
rappresentano cariche molto importanti politicamente, nonché dell’eventuale Vice Presidente del
Consiglio, che è una carica non necessaria che talvolta viene affidata, per rispondere a esigenze di
equilibrio politico, cioè di rappresentanza nel Governo di esponenti forze politiche che lo
sostengono). Ciò fatto, il Presidente del Consiglio incaricato torna al Quirinale (ma negli ultimi anni
la scelta dei Ministri è avvenuta sentendo molto da vicino il Capo dello Stato), scioglie la riserva e
accetta l’incarico di Presidente del Consiglio, quindi egli, insieme ai Ministri, giura fedeltà alla
Repubblica nelle mani del Capo dello Stato. In questo momento il nuovo Governo è formato ed
entra in carica (e le dimissioni del vecchio Governo, rimasto sino a questo momento in carica per gli
affari correnti, hanno effetto) e iniziano a decorrere i 10 giorni entro i quali il Governo deve
presentarsi alle Camere per avere la fiducia. Una volta ricevuta la fiducia, il Governo assume la
pienezza delle funzioni e può cominciare a porre in essere atti di indirizzo politico, che saranno gli
atti volti all’attuazione del suo programma.
La Costituzione è chiara nel dire che il Governo deve avere la fiducia delle Camere (cioè dei partiti, e non
del Presidente) sono state molto numerose le esperienze di governi cd ‘tecnici’ sostenuti dalla sola, o
preminente, fiducia del Presidente che ne ha scelto o ha contribuito a sceglierne i componenti. Con il
Governo Renzi, il principio per cui il Governo deve avere la fiducia delle Camere ha trovato una attuazione
invero complessa, posto che il Governo si appoggia espressamente su un accordo (noto all’opinione pubblica
come Il Patto del Nazareno) con il maggiore esponente di un partito, Forza Italia, che è all’opposizione.
Questo ricorda molto da vicino le prassi ‘consociative’ che caratterizzavano il periodo anteriore alla riforma
elettorale del 1993, quando la Democrazia Cristiana, perpetuamente alla guida di governi di coalizione in cui
si alleava con piccoli partiti satellite, viveva dell’appoggio che in Parlamento le dava il maggior partito di
opposizione, cioè il Partito Comunista Italiano.
Le funzioni del Governo: quadro d’insieme
Il Governo ha molte e importanti funzioni, che possiamo così elencare:
Funzione di indirizzo politico
Funzioni normative
Funzioni di direzione della pubblica amministrazione
Svolgimento dei rapporti tra l’Italia e l’Unione Europea e con l’estero
Svolgimento dei rapporti con le Regioni e le autonomie locali
Funzione di indirizzo politico
E’ la funzione di individuare e perseguire le finalità e gli obiettivi verso cui indirizzare la vita
nazionale, coerenti con la visione politica dell’esecutivo, e di individuare le modalità con cui
affrontare problemi o situazioni nuove che si presentino mentre il governo è in carica, anche se si
tratta di scelte non previste al momento dell’insediamento. Il Governo impronta tutta la sua attività,
tutte le sue diverse funzioni intorno al proprio indirizzo politico, tranne quelle che lo impegnano
all’esecuzione del diritto vigente.
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Anche se si può dire che, fatta l’eccezione appena detta, e sulla quale torneremo parlando del lavoro
dei Ministri, tutta l’attività del Governo è espressione di indirizzo politico, esistono alcuni atti che
sono specificamente espressione di questa funzione e questi atti sono due:
- il programma di governo, che contiene gli obiettivi che il Governo si propone di
raggiungere e che il Governo sottopone alle Camere quando chiede la fiducia;
- gli atti di attuazione del programma di governo e tra questi, tipicamente e in modo
eminente, gli atti di iniziativa legislativa, cioè la presentazione di progetti di legge al
parlamento. Es.: Il governo, avendo messo tra i suoi obiettivi di programma una riforma
della scuola superiore, per attuare questo obiettivo deve arrivare all’approvazione di una
legge che riformi la scuola superiore, perciò presenta un progetto di legge alle Camere
contenente questa riforma.
Funzioni normative. Decreti legge, decreti delegati e regolamenti
Nel nostro sistema la funzione legislativa, la funzione di adottare leggi, è riservata alle Camere, al
Parlamento. Tuttavia atti normativi, atti contenenti norme giuridiche obbligatorie, diversi dalla
legge ordinaria (cioè dalla legge adottata dal parlamento) possono essere adottati da altri soggetti, e
in particolare dal Governo. La funzione di adottare atti con contenuto ed efficacia normativa, ma
diversi dalla legge (cioè adottati da un organo diverso dal Parlamento e, di conseguenza, con un
procedimento diverso da quello legislativo) è appunto la funzione normativa.
La funzione normativa del Governo è molto ampia e molto importante e comprende due tipologie
di atti:
a) atti equiparati alla legge (atti “primari”), dotati cioè della forza e del valore di legge, che per
brevità sono spesso indicati come atti con forza di legge: decreto delegato e decreto legge;
b) atti privi di forza e valore di legge, chiamati regolamenti (regolamenti governativi, quando
emanati dal Consiglio dei Ministri; regolamenti ministeriali, se emanati dal singolo ministro, e
regolamenti del Presidente del Consiglio dei Ministri quando emanati da quest’ultimo.
Funzioni di direzione della pubblica amministrazione
La pubblica amministrazione è il complesso degli apparati che sono preposti alla cura degli
interessi pubblici. Il Governo ne ha la direzione e la responsabilità.
La struttura normale, tradizionale, nel senso di storicamente più antica, in cui avviene la gestione
dei servizi pubblici è il “ministero”. Il ministero è un apparato al cui vertice è collocato un
Ministro, un membro del governo, e che è composto di uffici, personale, risorse attraverso le
quali si provvede alla offerta e gestione dell’interesse che è oggetto dell’attività del ministero.
Prendiamo per esempio, ancora, il ministero dell’Istruzione: al vertice c’è il Ministro, con la sua
sede a Roma dove stanno tutti gli uffici centrali del ministero, e poi nel territorio sono distribuiti
uffici periferici (i provveditorati e i singoli istituti) che svolgono una serie di funzioni (per esempio:
di gestione del personale: nomina degli insegnanti, formazione delle graduatorie), che sono riferite
al funzionamento del servizio scolastico in un comprensorio territoriale determinato (la provincia e
il comune). Oppure, pensiamo alle funzioni di ordine pubblico interno, che sono assicurate dal
Ministero dell’interno, i cui uffici periferici sono le prefetture. Una delle funzioni più tradizionali e
importanti del ministero dell’interno ricorre in concomitanza con lo svolgimento delle elezioni
politiche: i dati elettorali sono raccolti dalle prefetture e inviati a Roma al ministero dell’interno, per
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conteggi e la dichiarazione ufficiale dei risultati. Ai Ministri competono anche funzioni riferite a
enti, agenzie, società per azioni in mano pubblica, vale a dire a quelle figure dell’organizzazione
amministrativa che sono distinte dai Ministeri, che hanno una organizzazione autonoma rispetto ad
essi, ma sono comunque raccordate allo Stato e il cui operato (nomine, atti di indirizzo, atti di
organizzazione) ricade nella responsabilità del Governo.
I singoli componenti del Governo, i Ministri, sono dunque ciascuno a capo di un Ministero.
Compito di ciascun ministro è dirigere il ministero cui è preposto; questo significa sia assicurare
che il ministero svolga correttamente, efficacemente i compiti che ad esso sono già affidati alla
legge (e questo è il lavoro amministrativo del ministro), sia proporre eventuali modifiche,
innovazioni, aggiornamenti nella legislazione che regola quel ministero e i suoi compiti (e questo è
il lavoro politico del ministro).
Il lavoro politico del Ministro
La presentazione di progetti di legge volti a modificare le norme che sono relative alla attività
del ministero è il principale lavoro politico del ministro. Del lavoro politico del ministro fa
anche parte il dovere di interloquire col parlamento, e di rispondere alle interrogazioni e alle
interpellanze attraverso le quali il parlamento voglia conoscere dal ministro lo stato di un
problema che riguarda o che è di competenza del ministero da questi diretto, le ragioni per
cui una certa situazione si è determinata, le iniziative che il ministro intende prendere con
riferimento a una certa questione, ecc.
Il lavoro amministrativo del Ministro
Garantire che il ministero assolva i compiti che la legge ad esso attribuisce è il principale
compito amministrativo del ministro. Fa parte di questi compiti il rivolgere gli uffici che
dipendono dal ministero “istruzioni”, ordini o raccomandazioni, delucidazioni o spiegazioni
circa il modo in cui i compiti degli uffici devono essere svolti, alla luce delle leggi vigenti.
Atti caratteristici con cui il Ministro svolge questa funzione sono le circolari e le direttive. Per
esempio, supponiamo per esempio che un articolo di una legge che riguarda gli esami di maturità
crei dubbi interpretativi: a causa del modo in cui la legge è formulata, non si capisce bene se i
membri della commissione devono essere nominati tra insegnanti di scuole diverse, ma tutte della
stessa provincia, oppure se li si può scegliere anche fuori provincia, e i vari provveditorati si
comportano in modo diverso il che crea vari problemi. In casi del genere il ministro adotta una
“circolare”, un provvedimento in cui dà la sua interpretazione del punto controverso e raccomanda
ai provveditorati di interpretare quel punto nel modo chiarito dalla circolare.
Il lavoro politico e quello amministrativo di un ministro possono intrecciarsi in vario modo. Per
esempio il parlamento può chiedere ragione al ministro del contenuto della circolare che ha adottato,
criticarlo e chiedergli di modificarla. Se, per esempio su un problema di questo genere, nasce un contrasto
tra parlamento e ministro (quest’ultimo non vuole ritirare la circolare) che rischia di diventare un problema
politico grosso, il presidente del consiglio può chiedere al ministro di adeguarsi a quello che il parlamento gli
chiede, può consigliargli il contrario, può convocare una riunione del consiglio dei ministri per discutere tutti
insieme sulla linea che il ministro deve tenere. I contrasti tra singoli ministri e parlamento possono influire
sul generale rapporto fiduciario che lega governo a parlamento, possono incrinarlo o indebolirlo (fino a una
questione di sfiducia individuale presentata alle Camere e diretta a ottenere le dimissioni del Ministro), ed è
compito del presidente del consiglio fare in modo che il governo proceda in modo unitario, e che i ministri
non facciano ciascuno quello che secondo loro è meglio, ma svolgano i loro compiti in coerenza col generale
indirizzo del governo.
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Legalità e indirizzo politico: i due poli dell’attività del Governo
I due aspetti del lavoro del ministro che abbiamo illustrato fin qui esemplificano come l’attività del
Governo si collochi, caratteristicamente, tra due grandi stelle polari: quella dell’indirizzo politico e
quella della legalità (ordinaria e costituzionale).
In quanto organo di indirizzo politico il Governo, per sua natura e posizione istituzionale (è
l’organo espressivo di una maggioranza politica, è portatore cioè di certi e non altri orientamenti,
interessi, visioni, finalità ed obiettivi), ha il compito, il potere e il dovere di perseguire la
realizzazione degli obiettivi conformi alle scelte di cui è portatore e dunque di tendere alla
trasformazione dell’ordinamento vigente, delle leggi che già ci sono, degli istituti esistenti.
D’altra parte il Governo, in forza del principio di legalità, per cui tutti i poteri devono essere
esercitati nel rispetto del diritto vigente, e in quanto, in particolare, organo direttamente
responsabile delle attività dello stato, è tenuto nel suo operare a rispettare e a far rispettare il
diritto vigente per come è e nel modo migliore e più efficiente ed efficace. Il Governo può agire per
il cambiamento dell’ordinamento, delle leggi ecc., ma finché non le cambia, deve farle rispettare,
anche se non le condivide, e cioè deve in primo luogo rispettarle esso stesso. Questo è il portato del
principio di legalità, che è legalità ordinaria (rispetto del diritto legislativo) e legalità costituzionale,
rispetto delle procedure stabilite dalla Costituzione e dei contenuti di essa. Anche nell’esercizio
della sua libertà di indirizzo politico infatti il governo deve rispettare i procedimenti fissati dal
diritto, costituzionale in particolare: per modificare le leggi è necessario che siano approvate nuove
leggi, o atti equiparati: non sono sufficienti, né accettabili, atti diversi.
E’ per proteggere questo delicato e importantissimo equilibrio di libertà politica e soggezione al
diritto in cui il Governo si trova, che è previsto che esso, quando viene nominato, giuri fedeltà alla
Repubblica, alla Costituzione e alle leggi, perché l’insieme dei poteri di cui il Governo dispone è
tale che il rischio è sempre aperto che esso usi la sua libertà politica in danno del rispetto delle leggi
e del diritto.
Svolgimento dei rapporti tra l’Italia e l’Unione Europea e con l’estero
Tradizionale compito dell’esecutivo è mantenere i rapporti coi paesi esteri (dipende dal ministero
degli esteri tutto l’apparato della diplomazia), dai quali dipendono non solo pace e guerra, ma
andamento dei commerci, delle importazioni e delle esportazioni, la stipula di accordi internazionali
e di trattati il cui contenuto può essere economico, oppure culturale (accordi sulla restituzione di
certi beni artistici conservati nel nostro paese ai paesi ai quali sono stati “sottratti” durante per
esempio la fase coloniale italiana), ecc.
Da quando il nostro paese appartiene all’Unione europea, a questo tradizionale compito se ne
affianca uno più specifico che è quello della partecipazione agli organi dell’Unione. In questi
organi il governo è protagonista, perché il consiglio dei ministri dell’unione europea è composto dai
ministri dei governi nazionali competenti sulle materie di volta in volta in deliberazione, dunque
ogni ministro del nostro governo è anche membro del consiglio dei ministri dell’unione europea; e
il consiglio europeo, l’organo che definisce periodicamente gli indirizzi generali della UE, è
composto dai capi di stato e di governo dei paesi membri, dunque il presidente del consiglio ne fa
parte di diritto.
Il fatto di essere l’unico organo nazionale direttamente parte degli organi comunitari ha contribuito,
nel tempo, a rafforzare molto l’importanza del governo e la sua forza nei confronti del
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parlamento. Spesso il governo, nel presentare un progetto di legge, chiarisce che esso è in linea
con gli indirizzi delle politiche comunitarie, è importante per mantenere il nostro paese convergente
con gli obiettivi e le politiche dell’Unione, e questo rafforza l’autorevolezza di quel progetto e le
sue chances di essere approvato.
Svolgimento dei rapporti con le Regioni e le autonomie locali
Come abbiamo visto parlando delle Regioni, le competenze normative e amministrative dello stato
e quelle delle regioni e degli enti locali si intrecciano molto spesso, a cominciare dai problemi del
bilancio e della spesa. Buona parte delle risorse della regione, provincia e comune vengono dal
bilancio dello stato, che è predisposto dal governo. Le scelte finanziarie del governo condizionano
la possibilità degli enti locali di svolgere le loro funzioni. Perciò, è necessario un “coordinamento”,
un momento di incontro in cui le intenzioni, necessità e strategie del governo e le necessità,
intenzioni e preferenze delle regioni e degli enti locali si possano confrontare. Non esistendo nel
nostro ordinamento una camera che rappresenti le autonomie locali, a questa funzione servono
organi che sono stati creati sul finire degli anni ’90 (un periodo nel quale le funzioni degli enti locali
sono cresciute moltissimo per quantità e importanza) e che si chiamano Conferenze. Conferenza
vuol dire qui “riunione”. La più importante è la Conferenza Stato-Regione, in cui si riuniscono il
Governo dello stato (rappresentato dal Presidente del consiglio, dal ministro per gli affari regionali
ed eventualmente dal o dai ministri di volta in volta interessati alle materie in discussione, per
esempio il ministro delle finanze) e i presidenti delle giunte regionali. Gli indirizzi che vengono
concordati in conferenza (per esempio, le regioni riescono a strappare al governo la promessa di un
certo stanziamento di fondi per le regioni nella legge finanziaria) sono considerati vincolanti (il
governo difenderà in parlamento la norma del progetto di legge finanziaria che assicura certi fondi
alle regioni).
Il potere normativo del Governo
Gli atti del Governo con forza di legge
I due principali atti del Governo con forza di legge previsti nel nostro ordinamento sono: il decreto
delegato e il decreto legge.
La delegazione legislativa (art. 76 Cost.)
Secondo l’art. 76 della Costituzione:“L’esercizio della funzione legislativa non può essere delegato
al Governo se non con determinazione di principi e criteri direttivi e soltanto per tempo limitato e
per oggetti definiti”
Il Parlamento è il titolare della funzione legislativa. A determinate condizioni, indicate nell’art. 76,
esso può delegarne l’esercizio al Governo, cioè incaricare il Governo di adottare atti che hanno la
stessa forza e valore della legge. Infatti, è un principio generale nel diritto che chi è titolare di una
funzione o di una facoltà, possa delegare altri ad esercitarla per suo conto, salvo che non sia
previsto espressamente il contrario. La delega è l’atto con cui il titolare di una funzione, diritto o
facoltà, ne trasferisce l’esercizio ad altri, conservandone però la titolarità. Esercitando il proprio
potere di delega, il parlamento non trasferisce al governo la funzione legislativa, della quale il
parlamento resta il solo titolare, ma ne trasferisce solo l’esercizio con riferimento a un oggetto
definito, per un tempo determinato e previa indicazione di principi e criteri direttivi. Una volta
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che il Governo ha esercitato la delega, cioè ha emanato i decreti necessari a regolare l’oggetto che
era stato chiamato a regolare, nei tempi stabiliti e secondo i principi e criteri fissati dal Parlamento,
la delega si esaurisce e per esercitare nuovamente la funzione legislativa il Governo ha bisogno di
una nuova delega. La delega si esaurisce automaticamente anche se, allo spirare del termine, il
governo non ha emanato i decreti.
La delegazione legislativa è un istituto molto importante, che si origina nella prassi statutaria
quando nacque per consentire al Governo di ‘aggirare’ un parlamento ostile o recalcitrante.
Prevedendolo e regolamentandolo come lo ha regolamentato (in particolare con il divieto di ‘delega
in bianco’), la Costituzione ha ‘reinterpretato’ la delegazione legislativa facendone uno strumento
che risponde a una esigenza di divisione del lavoro tra due organi in posizione collaborativa,
parlamento e governo, legati tra loro dal rapporto fiduciario. Per affrontare provvedimenti normativi
ampi, complessi, la cui stesura richiede lunghi e complessi approfondimenti tecnici, il parlamento
può ritenere opportuno, anziché affrontare esso direttamente il lavoro legislativo corrispondente,
che potrebbe a lungo sospendere o rallentare l’esame di altri provvedimenti, incaricare (delegare) il
governo a adottare esso gli atti necessari. Sono stati approvati come leggi delegate tutti i codici e
innumerevoli leggi di grande rilievo e ampiezza. Come vedremo, peraltro, la delegazione legislativa
ha ripreso moltissimo, specialmente negli ultimi anni, delle sue antiche e originarie vocazioni.
La legge di delegazione (legge-delega)
Per procedere alla delegazione legislativa, il parlamento approva una legge, detta legge di
delegazione con la quale attribuisce al governo la delega a adottare uno o più decreti su una certa
materia (l’ oggetto definito di cui parla l’art. 76), entro un certo termine temporale (il tempo
limitato di cui parla l’art. 76) e rispettando/eseguendo una serie di principi e criteri direttivi.
Tutti questi requisiti servono a salvaguardare il punto fondamentale e cioè che il titolare della
funzione legislativa resta il Parlamento: come dicevamo, non sono ammesse ‘deleghe in
bianco’. E’ il parlamento a definire l’oggetto, ossia la materia su cui il Governo acquista
l’esercizio della funzione legislativa; questo esercizio, il governo lo detiene solo entro il termine
indicato; se entro il termine non adotta i decreti, la delega spira e il governo non può più esercitarla,
a meno che non venga ad esso nuovamente conferita; quanto ai contenuti che i decreti dovranno
avere, certo li deciderà il governo, ma non con una piena libertà di scelta: esso è tenuto ad attenersi
ai principi e criteri direttivi che il parlamento ha dettato, e la cui presenza serve a far sì che le
scelte fondamentali in materia siano quelle del parlamento.
L’iniziativa delle legge di delegazione può essere presa dal parlamento, ma anche dal governo, che
può presentare, e di fatto presenta spesso, un disegno di legge delega col quale chiede al parlamento
di essere delegato a legiferare su una certa materia, dopo è il parlamento a decidere se è il caso, a
precisare l’oggetto se necessario, il termine e a definire i contenuti di principio della delega.
La legge di delegazione è dunque una legge con un contenuto necessario che consiste nella
attribuzione della delega, indicazione dell’oggetto, del tempo, dei principi e criteri direttivi. La
legge di delegazione ha anche un importante requisito formale, che cioè attiene al suo
procedimento di formazione: secondo l’art. 72, la legge di delegazione può essere approvata solo
con il procedimento ordinario, e cioè con il procedimento in commissione referente, mai in
commissione redigente/deliberante, perché si tratta di una legge delicata e importante, in quanto
implica l’attribuzione al governo dell’esercizio della funzione legislativa, e perciò deve essere
decisa dall’intera assemblea (quando una legge non può essere approvata in commissione
deliberante/redigente si dice, lo ricordiamo, che essa è soggetta a una riserva di assemblea).
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Si noti che la delega può essere contenuta nel corpo di una legge che ha anche altri contenuti: per
esempio, una legge introduce nuove regole in materia di conservatori ed enti musicali; per una certa
parte, la nuova disciplina dei conservatori e enti musicali è dettata direttamente nella legge, per una
certa altra parte, la legge delega il governo a completare la disciplina. In questo caso, le parti della
legge che non contengono la delega possono essere approvate con il procedimento con
commissione redigente/deliberante, ma quelle che contengono la delega sono soggette alla riserva
di assemblea. Vedremo più avanti che questa risalente prassi ha alcune implicazioni negative.
Nell’approvare la legge di delegazione, il Parlamento può prevedere che il Governo, una volta
predisposti i decreti attuativi, prima di emanarli li faccia esaminare alle Commissioni parlamentari
competenti per materia per ricevere un loro parere. In questi casi le commissioni parlamentari
operano in sede consultiva (cioè come organi che danno appunto un parere) e il loro coinvolgimento
serve anche ad assicurare una migliore conoscenza, da parte del parlamento, del modo in cui il
Governo ha eseguito la delega. La previsione dell’esame dei decreti in commissione consultiva è
un contenuto eventuale della legge di delega; eventuale, in questo contesto, significa non
necessario, non imposto dalla Costituzione, ma possibile, e una volta che la legge di delega lo
preveda esso diventa obbligatorio per il Governo come il rispetto dell’oggetto, del tempo, dei
principi e criteri direttivi. Anche sulla implicazioni non del tutto positive di questa prassi torneremo
più avanti.
Dopo che la legge di delegazione entra in vigore, il Governo può cominciare il procedimento che
porterà alla emanazione dei decreti legislativi.
I decreti legislativi (o decreti delegati)
Il procedimento di formazione dei decreti delegati è il seguente:
il Ministro competente per materia, o i Ministri competenti, se la materia oggetto della
delega rientra tra le competenze di più di un Ministero, preparano lo schema di decreto;
questo viene sottoposto alla approvazione del Consiglio dei Ministri;
una volta ottenuta questa approvazione il decreto viene sottoposto all’esame eventuale delle
commissioni parlamentari e ad ogni altro eventuale adempimento procedurale che sia
richiesto dalla delega (pareri di organi specializzati, ecc.);
quindi il decreto viene emanato, come tutti gli atti del Governo, da parte del presidente della
repubblica ed entrato in vigore acquista forza e valore di legge.
I decreti del Governo in attuazione della delega sono atti con forza di legge, cioè sono subordinati
alla Costituzione e pertanto sindacabili da parte della Corte costituzionale per eventuale loro
contrarietà a Costituzione. Tuttavia, i decreti sono anche tenuti a rispettare la legge di delegazione,
nei suoi contenuti essenziali ed eventuali: i decreti, cioè, devono mantenersi nei limiti dell’oggetto
della delega, rispettare i limiti di tempo, attenersi ai principi e criteri direttivi che la legge di delega
stabilisce e, se è previsto l’esame dei decreti in commissione, essi devono rispettare anche questa
condizione. Se i decreti non rispettano la legge di delegazione questo costituisce un loro vizio
peculiare, che si chiama eccesso di delega e consiste nell’avere ecceduto i limiti del potere
delegato ricevuto. Così, i decreti, che sono atti con forza di legge, oltre a dover rispettare la
Costituzione, che è una fonte superiore, devono anche rispettare la legge di delega, che è una
fonte loro equiordinata, e nel caso presentino un vizio di eccesso di delega il giudice
componente è sempre la Corte costituzionale. Siccome l’art. 76 impone in generale a tutti i
decreti delegati del Governo di rispettare la legge di delegazione, ogni decreto deve essere
conforme alla sua corrispondente singola legge di delegazione, e, se non lo fa, esso viola
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indirettamente l’art. 76 della Costituzione. Perciò la legge di delegazione è considerata, rispetto ai
decreti, una norma interposta, cioè collocata tra la Costituzione e loro, perché la legge di
delegazione specifica, per ciascun decreto, i limiti che in generale circondano l’esercizio da parte
del governo del potere legislativo delegato, e la violazione della delega implica violazione dell’art.
76 Cost.
La decretazione d’urgenza
Secondo l’art. 77 della nostra Costituzione:
Il Governo non può, senza delegazione delle Camere, emanare decreti che abbiano valore
di legge ordinaria.
Quando, in casi straordinari di necessità e d’urgenza, il Governo adotta, sotto la propria
responsabilità, provvedimenti provvisori con forza di legge, deve il giorno stesso
presentarli per la conversione alle Camere, che, anche se sciolte, sono convocate e si
riuniscono entro cinque giorni.
I decreti perdono efficacia sin dall’inizio se non sono convertiti in legge entro sessanta
giorni dalla loro pubblicazione. Le Camere possono tuttavia regolare con legge i rapporti
giuridici sorti sulla base dei decreti non convertiti.
Possono verificarsi eventi imprevisti e straordinari (un terremoto, una epidemia, un crollo delle
borse mondiali), per fronteggiare i quali sia necessario adottare norme dotate della forza di
abrogare, sospendere, derogare norme di legge vigenti, ma che richiedono anche un intervento
immediato, che né la legge né la delegazione legislativa possono costituire, in quanto questi atti
richiedono tempo, per essere emanati. Anche il decreto legge era sorto in via di prassi durante il
Regno, per permettere al Governo di adottare norme che non riusciva a far approvare dal
parlamento, per affrontare i problemi di ordine pubblico legati alla ‘crisi di fine secolo’ e per
governare durante lo stato di guerra. Il decreto legge divenne lo strumento prediletto del Fascismo,
che anche finantoché le mantenne formalmente in vita, legiferò senza le Camere. La nostra
Costituzione regolamenta il decreto legge allo scopo di circoscrivere le ipotesi di ricorso ad esso,
e di sottoporlo a norme procedimentali rigorose, perché lo considera uno strumento eccezionale che
deroga al normale equilibrio tra governo e parlamento. Il modo in cui la norma dell’art. 77 è
formulata (“Il governo non può…”) rivela chiaramente la volontà di sottolineare l’eccezionalità del
ricorso al decreto legge.
Decreto legge e indirizzo politico
Come le caratteristiche del decreto legge dovrebbero rendere piuttosto evidente, il decreto legge
non è un atto pensato per servire alla funzione di indirizzo politico del governo. Per attuare il
proprio programma, per compiere scelte politiche, il Governo ha a disposizione l’iniziativa
legislativa, o anche la decretazione delegata (può cioè chiedere una delega legislativa), mentre il
decreto legge è lo strumento pensato apposta per fronteggiare circostanze che per definizione, in
quanto straordinarie ed eccezionali, non possono essere già annoverate tra gli obiettivi e i fini della
azione politica del governo. E’ naturale peraltro che ogni singolo governo che si trovi ad affrontare
una emergenza, la affronterà con le mentalità i punti di vista e i valori di cui esso è politicamente
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portatore. Il fatto d’altro canto che il decreto legge sia uno strumento pensato per fronteggiare
situazioni eccezionali fa sì che ad esso possa fare ricorso anche il governo dimissionario, cioè il
governo che non è più sostenuto dalla fiducia delle Camere e attende di essere sostituito da un
nuovo Governo.
Il collocarsi del decreto legge fuori dalla sfera dell’indirizzo politico del Governo è denotata dal
fatto che la responsabilità per l’adozione del decreto è sua, propria del Governo. Esso adotta il
decreto, dice la Costituzione, “sotto la sua responsabilità”, ossia senza impegnare il rapporto
fiduciario, perché è ovvio che quando le Camere hanno dato la fiducia al Governo, non possono
averla data anche con riguardo al modo in cui il Governo poi si è improvvisamente trovato ad
affrontare una certa circostanza. Dunque la maggioranza che sostiene il governo è libera di votare
contro la conversione del decreto (v. sotto), perché esso non impegna il rapporto fiduciario.
Tutto questo è vero nel senso che è con queste caratteristiche che l’istituto è stato concepito, ma,
come vedremo, esso ha funzionato in modo del tutto opposto, diventando una sorta di strumento
ordinario di legislazione cui il Governo ricorre ben al di là dei presupposti straordinari di necessità
e di urgenza e, invece, per attuare proprie scelte programmatiche.
Il procedimento di adozione del decreto legge
Dunque, di fronte a eventi straordinari che rendano necessario provvedere immediatamente, il
Governo (il Consiglio dei Ministri) può deliberare un decreto, il quale viene, come tutti gli atti del
Governo, emanato dal Capo dello Stato, viene immediatamente pubblicato ed entra in vigore.
Il giorno stesso della pubblicazione, il decreto, che nel frattempo inizia a produrre i suoi effetti
normativi, deve essere presentato alle camere per l’esame in vista della sua eventuale conversione
in legge. In sostanza, il Governo presenta alle camere un disegno di legge, composto di un solo
articolo, il quale recita: “E’ convertito in legge il decreto tale, emanato in data tale, concernente
questo problema” e allega a questo disegno di legge viene fornito il testo del decreto. Inizia così un
procedimento legislativo, le camere esaminano il disegno di legge, e hanno 60 giorni di tempo per
concludere l’esame, approvarlo, inviarlo al capo dello stato per la promulgazione (che deve
anch’essa avvenire entro i 60 giorni). Se il decreto viene convertito, al suo posto esisterà una legge
(legge di conversione del decreto legge), che si “salda” al decreto già esistente, altrimenti, esso
decade e i suoi effetti vengono meno. Le camere possono non convertire il decreto per due ragioni:
o perché non vogliono farlo, ritenendo che il decreto non meriti di essere convertito; o perché non
fanno in tempo a farlo, non esauriscono l’esame entro i 60 giorni, pur essendo intenzionate a
convertirlo.
La decadenza del decreto non convertito in legge
Il decreto che non viene convertito in legge decade, cioè vengono meno gli effetti da esso prodotti
fin dal momento della sua emanazione. Come dice la Costituzione, esso “perde efficacia sin
dall’inizio”, ovverosia: se per 60 giorni di tempo, durante la vigenza del decreto, una norma di
legge era stata sospesa, essa rivive, ma non rivive solo per il futuro, ma anche per il passato, è come
se fosse rimasta pienamente in vigore anche durante i 60 giorni di vigenza provvisoria del decreto.
Se il decreto aveva, sempre per esempio, introdotto una tassa straordinaria, che i cittadini avevano
pagato, e poi il decreto decade, lo stato deve restituire le somme incassate; se per eseguire il decreto
erano stati emanati altri provvedimenti questi vengono meno.
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Tutto ciò può avere conseguenze molto complesse. Per esempio, durante la vigenza del decreto
viene sospesa una norma di legge che vieta la vendita degli alcolici ai minori; il gestore di un bar,
come conseguenza, vende alcolici a minori; poi il decreto decade e il gestore del bar si trova nella
condizione di avere tenuto un comportamento illecito, perché la norma che vietava la vendita degli
alcolici rivive anche per il passato.
La regolazione degli effetti del decreto non convertito in legge
In considerazione del fatto che la non conversione del decreto può avere conseguenze complesse e
irrazionali, la costituzione autorizza le camere a “regolare con legge i rapporti giuridici sorti
sulla base del decreto non convertito”. Si può per esempio fare una legge di sanatoria, la quale
stabilisce che, per i sessanta giorni in cui il decreto è stato in vigore, i suoi effetti restano fermi
(invece di essere travolti), o individuare altre modalità regolative per fronteggiare i problemi
connessi alla decadenza del decreto.
Gli atti del governo privi di forza di legge
I regolamenti dell’esecutivo sono atti privi di forza e valore di legge.
Ne esistono tre tipologie:
regolamenti governativi (deliberati dal Consiglio dei Ministri ed emanati dal Presidente
della Repubblica)
regolamenti ministeriali (deliberati dal singolo Ministro)
regolamenti del presidente del Consiglio (deliberati dal Consiglio dei Ministri).
I regolamenti del Presidente del Consiglio sono una ipotesi residuale che verte su un numero
ristretto, per quanto rilevante, di ipotesi (es. l’organizzazione e il funzionamento della presidenza
del consiglio). In questa sede ci riferiremo normalmente ai regolamenti governativi, con qualche
riferimento anche ai regolamenti ministeriali.
Il potere regolamentare dell’esecutivo
A differenza dello statuto albertino, che lasciava al Re una propria sfera di prerogativa, cioè ambiti
nei quali esso poteva adottare regolamenti senza bisogno di una autorizzazione legislativa (dalla
legislazione araldica ad alcune materie di interesse militare e di ordine pubblico fino alla
organizzazione dei ministeri), la nostra Costituzione attuale sembra invece non lasciare al Governo
alcuna sfera di competenza normativa propria, esercitabile in assenza di previa norma di legge,
dunque dell’antica “prerogativa regia” il Costituente non volle lasciar traccia; in altri paesi l’assetto
è ben diverso, per esempio in Francia esistono materie riservate alla competenza regolamentare
dell’esecutivo, e che riguardano principalmente l’organizzazione e il funzionamento della pubblica
amministrazione, dove l’esecutivo può adottare regolamenti anche in deroga alle leggi e senza
bisogno di autorizzazione legislativa. L’organizzazione dei ministeri e degli apparati dipendenti
dallo stato è in effetti una delle materie “classicamente proprie” dell’esecutivo.
Il potere regolamentare dell’esecutivo consiste dunque nel potere del governo di adottare norme
giuridiche che sono subordinate alla legge in quando necessariamente fondate su una previa norma
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di legge che al governo attribuisce il relativo potere, e va visto all’interno di un processo storico nel
quale i poteri normativi del sovrano sono stati “subordinati” alla legge, cioè anch’essi, in quanto atti
dell’esecutivo, devono trovare la propria legittimazione in una previa norma di legge. La legge non
è del tutto libera di creare poteri normativi in capo al governo; ossia, ha una ampia facoltà di farlo
ma vi sono materie ed ambiti, individuati dalla Costituzione e storicamente, sulle quali la legge non
può creare poteri normativi in capo al governo.
La subordinazione dei regolamenti alla legge consiste dunque nel fatto che la legge regola
l’esistenza e l’estensione dei poteri normativi del governo nei limiti in cui la Costituzione la
autorizza a farlo. La subordinazione dei regolamenti alla legge si traduce nel fatto he essi, siccome
nella legge devono trovare la propria autorizzazione e il proprio fondamento, in caso di contrasto
con la legge non sono in grado di abrogarla, ma sono invece viziati.
Il legame tra legge e regolamento: le riserve di legge
Ora dobbiamo soffermarci sul tipo di rapporti che può esistere tra la legge e il regolamento, cioè sul
senso che dobbiamo dare all’espressione per cui “il potere regolamentare del governo deve trovare
nella legge la propria autorizzazione e il proprio fondamento” e alla espressione per cui la legge
“non è del tutto libera di creare poteri normativi in capo al governo ma deve rispettare in questo i
limiti costituzionali”.
a) Il potere regolamentare del governo deve trovare nella legge la propria autorizzazione e il
proprio fondamento.
Il Governo non può autoassumersi poteri normativi. E’ la legge che glieli deve conferire,
autorizzandolo a esercitarli. Questa ipotesi può dare vita a situazioni molto diverse, ed in effetti il
legame tra legge e regolamento è molto variegato.
Si può andare da un legame molto stretto e individuato, per cui una legge, regolando una certa
materia, autorizza il Governo a completare, dettagliare, specificare o integrare i propri
contenuti. Questo può rendersi opportuno, e di fatto si rende opportuno, quando la legge dispone su
materie tecniche che richiedono approfondimenti specialistici, istruttorie e studi e soprattutto
aggiornamento continuo. Non sarebbe conveniente disciplinare questi aspetti con legge, perché per
cambiarli occorrerebbe una nuova legge, mentre, una volta incaricato il governo di occuparsi del
tema con regolamento, ad ogni occorrenza il governo, con una semplice riunione in consiglio dei
ministri, può dettare una nuova e aggiornata disciplina.
Integrare, completare o dettagliare una disciplina di legge nei suoi aspetti tecnici può peraltro
significare l’esercizio di valutazioni discrezionali anche molto ampie del governo. Un conto è
che la legge dica: è introdotto l’obbligo di effettuare la messa a terra degli impianti elettrici
domestici. Il governo con propri regolamenti detterà i requisiti tecnici degli impianti, le modalità di
certificazione e le sanzioni amministrative in caso di inosservanza.
Altro conto è che la legge dica: le coppie infertili sono autorizzate a effettuare trattamenti di
procreazione medicalmente assistita presso le strutture sanitarie pubbliche. Questi trattamenti
devono rispettare il diritto alla vita dell’embrione, la salute della donna, tutti gli interessi coinvolti.
Il governo con propri regolamenti definisce, “avvalendosi dell’Istituto superiore di Sanità e previo
parere del Consiglio superiore di Sanità, linee guida contenenti l’indicazione delle procedure e
delle tecniche di procreazione medicalmente assistita. Dette linee guida sono vincolanti per tutte le
strutture autorizzate. Le linee guida sono aggiornate periodicamente, almeno ogni tre anni, in
rapporti all’evoluzione tecnico-scientifica, con le medesime procedure “ (così il tenore originario
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dell’art. 7 della legge n. 40 del 19 febbraio 2004, n. 40. Questa previsione, che peraltro, per la
precisione, attribuisce il potere regolamentare al ministro della sanità e non all’intero governo,
viene qui portata ad esempio dell’ampiezza di contenuti, dunque di scelte discrezionali, che possono
essere rimessi a un regolamento).
b) Nel conferire poteri normativi al Governo la legge deve rispettare limiti costituzionali (che sono
anche limiti storici e culturali)
In teoria, la legge può rapportarsi al regolamento anche in altri modi. Essa può semplicemente
attribuire al governo il potere di adottare regolamenti in certe materie: possiamo ipotizzare una
disposizione di legge che dice “il governo, con propri regolamenti, disciplina il numero la struttura
e la forma organizzativa delle direzioni generali dei ministeri “, con il che tutta questa materia
(numero la struttura e la forma organizzativa delle direzioni generali dei ministeri) viene attribuita
alla competenza del governo, il quale potrà emanare non solo i primi regolamenti attuativi, ma
anche tutti i successivi che si rendano necessari per adattare la disciplina a nuove esigenze, senza
più bisogno di ricevere una nuova autorizzazione, finché una legge non abroghi quella che ha
attribuito al governo la competenza, e gliela revochi.
L’ampiezza delle materie che la legge può attribuire alla competenza regolamentare del
governo è segnata dalle riserve di legge esistenti in costituzione, cioè dai casi in cui la
Costituzione espressamente dice che una certa materia può essere disciplinata solo con legge,
e soprattutto da una importante tradizione storica, comune al nostro come ad altri paesi, che
tende a riservare alla legge la disciplina delle materie che incidono sulle libertà personali e
sugli aspetti della vita collettiva più delicati e pertanto considerati inidonei a essere rilasciati
all’esecutivo, che potrebbe avere interesse a manipolarli secondo la propria convenienza
politica.
E’ possibile per esempio (meglio sarebbe dire, è legittimo?) che la legge incarichi il governo di definire con
regolamento una fattispecie di reato? No, perché secondo gli art. 13 e 25 della nostra costituzione, e secondo
una antichissima tradizione, la materia è riservata in modo assoluto alla legge, cioè solo la legge può creare
reati e ne deve dettare tutti gli aspetti ( Art. 13: La libertà personale è inviolabile: non è ammessa forma
alcuna di detenzione ecc. se non per atto motivato dell’autorità giudiziaria e nei soli casi e modi previsti
dalla legge”. Art. 25 comma 2: “Nessuno può essere punito se non in forza di una legge che sia entrata in
vigore prima del fatto commesso”). Può la legge incaricare il governo di dettare regolamenti sulla
organizzazione della magistratura? No, perché secondo l’art. 108: “le norme sull’ordinamento giudiziario e
su ogni magistratura sono stabilite con legge”. Una legge che ciò facesse sarebbe incostituzionale per avere
assunto contenuti (l’autorizzazione al governo di intervenire con regolamento in materia riservata alla legge)
che la Costituzione le vieta.
Parliamo di riserve assolute di legge per indicare le materie in cui non è ammesso il ricorso ai
regolamenti, e di riserve relative di legge nei casi in cui i regolamenti sono ammessi.
Come abbiamo visto anche nel nostro piccolo excursus storico sull’origine del potere
regolamentare, un “luogo naturale” di esplicazione di quest’ultimo è l’organizzazione dei ministeri
e della pubblica amministrazione, cioè degli apparati che dal governo dipendono. In Francia per
esempio, come ho detto, questa materia è attribuita per costituzione alla competenza dell’esecutivo.
La nostra Costituzione ha fatto una scelta diversa: recita infatti l’art. 97 della Costituzione: “I
pubblici uffici sono organizzati in base a disposizioni di legge In casi di materie sottoposte a
riserva relativa di legge, la legge deve: regolare la materia nelle linee generali, e può rimettere al
regolamento il proprio completamento. Questo è un esempio di riserva relativa di legge, mentre
l’art. 13 o 25.2 sono esempi di riserve assolute.
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La delegificazione
Nel rispetto dei principi sin qui esposti, la legge può anche attribuire una materia, che oggi è
regolata con legge, alla competenza dei regolamenti.
Come principio generale, i regolamenti non hanno la forza di abrogare le leggi, in caso di contrasto
con esse, sono viziati. Per cui se una legge autorizza un regolamento a intervenire in una certa
materia, il regolamento potrà disciplinarla solo nei limiti in cui la nuova disciplina introdotta dal
governo non costituisca deroga o modifica di previgenti disposizioni di legge. Se una materia è oggi
disciplinata in modo compiuto e dettagliato con leggi, l’unico modo di dettare una nuova disciplina
è abrogare le leggi preesistenti, e, se si vuole in materia introdurre regolamenti, prima si devono
abrogare le leggi preesistenti, poi possono intervenire i regolamenti.
La delegificazione viene realizzata in questo modo: il legislatore decide che una materia, oggi
regolata con legge, dovrà essere da ora in poi attribuita ai regolamenti. Su quella materia ci sono
una o più d’una legge oggi vigenti. Il legislatore adotta una legge che disciplina nelle grandi linee la
materia, secondo i criteri oggi ritenuti validi. Questa legge contiene una disposizione che autorizza
il governo a emanare uno o più regolamenti su quella materia. Questa stessa disposizione stabilisce
anche che, alla data di entrata in vigore dei regolamenti, le leggi previgenti in materia sono
abrogate, indicando puntualmente quali articoli saranno abrogati. In tal modo, l’effetto abrogativo è
prodotto dalla legge, e l’emanazione dei regolamenti è soltanto la condizione al verificarsi della
quale è subordinato il prodursi dell’effetto abrogativo. Una volta ‘delegificata’ una materia può
essere nuovamente regolata con successivi regolamenti senza più bisogno dell’intervento del
legislatore. In teoria esso potrebbe ‘riappropriarsi’ della materia semplicemente emanando una
legge su di essa; ma, in pratica, la delegificazione funziona come lo spostamento di intere materie
alla ‘libera’ competenza normativa del Governo.
La delegificazione consiste dunque nel cambiare la fonte della disciplina di una materia dalla legge
al regolamento. Nell’ultimo ventennio ha avuto una enorme espansione nel nostro ordinamento,
specialmente nel campo della organizzazione e funzionamento degli apparati dipendenti dal
Governo (ministeri e pubblica amministrazione in generale).
Regolamenti indipendenti
Secondo i principi ogni regolamento dovrebbe essere collegato a una legge che ha attribuito al
governo il relativo potere, cioè la disciplina di ogni materia dovrebbe essere fatta così: legge, che
disciplina in modo più o meno dettagliato la materia+ regolamento che integra la disciplina di
legge, limitandosi alla mera esecuzione o anche assumendo contenuti ampi (questo dipende da
quanto dettagliatamente la legge disciplina la materia considerata).
In verità, possono esistere anche materia in cui l’unica disciplina è dettata con regolamento, e
nessuna legge pone neppure un piccolo scampolo di disciplina. Questa ipotesi è ammissibile e
legittima a condizione che vi sia almeno una norma di legge che la prevede e delimita. Cioè, se
esiste una norma di legge che dice: il governo può fare regolamenti in materie non regolate con
legge, ecco che il potere regolamentare ha la sua base legislativa necessaria. Questo tipo di
regolamenti sono tradizionalmente chiamati “indipendenti” e naturalmente non sono ammissibili
nelle materie sulle quali la Costituzione pone una riserva assoluta o relativa di legge.
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I singoli regolamenti governativi nel nostro ordinamento: l’art. 17 della legge n. 400 del 1988
Poiché ormai sappiamo che il potere regolamentare del governo deve trovare la propria
autorizzazione nella legge , non ci stupirà l’apprendere che esiste nel nostro ordinamento una
disposizione legislativa che definisce i tipi di regolamento che il governo può adottare e fissa i
termini in cui ai diversi tipi di regolamento le leggi possono fare ricorso.
Questa disposizione è l’art. 17 della legge n. 400 del 1988, la legge generale che disciplina
l’organizzazione e il funzionamento del governo, che ha dato per la prima volta una disciplina
generale al potere regolamentare, che in precedenza si basava su spezzoni di leggi anche molto
antiche.
Possiamo provare a riconoscere tra le diverse ipotesi di potere regolamentare che la legge individua,
le varie ipotesi che abbiamo fatto anche noi.
Secondo l’art. 17 i regolamenti del governo possono disciplinare:
a) l’esecuzione delle leggi e dei decreti legislativi nonché dei regolamenti comunitari
b) l’attuazione e l’integrazione delle leggi e dei decreti legislativi recanti norme di principio,
esclusi quelli relativi a materie riservate alla competenza regionale;
c) le materie in cui manchi la disciplina di leggi o atti aventi forza di legge, sempre che non si
tratti di materie comunque riservate alla legge
d) l’organizzazione e il funzionamento delle amministrazioni pubbliche secondo le disposizioni
dettate dalla legge.
Questo elenco è integrato dal secondo comma dello stesso articolo 17 che introduce una ulteriore
ipotesi, quella dei
e) Regolamenti per la disciplina delle materie, non coperte da riserva assoluta di legge prevista
dalla Costituzione, per le quali le leggi della Repubblica, autorizzando l’esercizio della potestà
regolamentare del Governo, determinano le norme generali regolatrici della materia e
dispongono l’abrogazione delle norme vigenti con effetto dall’entrata in vigore delle norme
regolamentari.
I regolamenti indicati nella lettera a) e b) corrispondono ai regolamenti che integrano la disciplina
introdotta da una legge: quelli “per l’esecuzione” (lett. a) sono quelli dotati dei contenuti meno
creativi, più di dettaglio, mentre quelli “per l’attuazione e l’integrazione” (lett. b) sono quelli con
cui il governo esercita valutazioni politiche e discrezionali più ampie, compie scelte di contenuto
importanti e caratterizzanti (come permettere o meno la diagnosi preimpianto nella fecondazione
assistita, per restare ai nostri esempi).
I regolamenti indicati nella lettera d) (organizzazione e funzionamento delle amministrazioni
pubbliche secondo le disposizioni dettate dalla legge) sono una forma particolare dei regolamenti
per l’attuazione e integrazione, che viene menzionata a parte per via della materia, quella della
organizzazione della pubblica amministrazione, di tradizionale importanza nel campo del potere
regolamentare del governo.
I regolamenti indicati nella lettera c) sono i regolamenti indipendenti.
I regolamenti indicati nella lettera e) (secondo comma dell’art. 17) sono i regolamenti di
delegificazione.
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Il procedimento di formazione dei regolamenti
I regolamenti del governo seguono questo procedimento di formazione:
deliberazione del Consiglio dei Ministri, su proposta di uno o più Ministri (quelli competenti
per materia), previo parere del Consiglio di Stato (e il parere di tutti gli altri eventuali
organi che la legge prescriva al Governo di ascoltare)
parere delle commissioni parlamentari competenti per materia (se le singole leggi
autorizzative lo prevedono)
emanazione con decreto del presidente della repubblica
controllo di legittimità della Corte dei Conti.
Pubblicazione.
La Corte dei Conti è un organo con numerose e ampie funzioni; oltre al controllo (preventivo)
della legittimità degli atti del Governo, merita qui ricordare il controllo sulla gestione del bilancio
dello stato. Ogni anno, la legge di bilancio stabilisce, per l’anno a venire, entrate e spese dello stato.
A fine anno, la Corte controlla spese e gestioni finanziarie effettuate dallo stato e dalle pubbliche
amministrazioni nel corso dell’anno, sotto il profilo della loro corrispondenza alle previsioni di
bilancio (e anche della qualità della gestione: efficienza, economicità).
Il Consiglio di Stato, oltre a essere l’organo suprema di giustizia amministrativa, è anche l’organo
di consulenza giuridico-amministrativa del Governo. In questa sua funzione consultiva si colloca il
ruolo di dare pareri al Governo sugli schemi di decreti, pareri che concernono la legittimità delle
previsioni introdotte nei decreti, loro eventuali vizi, modi di migliorarne il drafting, cioè la
redazione. Spesso il ruolo del Consiglio di Stato si spinge a predisporre gli schemi dei decreti, cioè
in sostanza a scriverli. Il ruolo del Consiglio di Stato nel procedimento di formazione dei
regolamenti del Governo solleva dubbi di opportunità dal momento che, come organo supremo di
giustizia amministrativa, il Consiglio di Stato può sempre essere chiamato a pronunciarsi, in sede di
ricorso, sulla legittimità di un regolamento sul quale aveva già dato il suo parere o che aveva
addirittura redatto.
I poteri normativi del Governo nell’effettività
a) il potere regolamentare
Dalla legge n. 400 in poi il ricorso del Governo ai poteri regolamentari è enormemente cresciuto. La
legge ha funzionato come una generale autorizzazione del Governo a ricorrere a regolamenti,
sebbene sia frequentissimo il caso di regolamenti ‘atipici’ cioè che non rispettano i requisiti di
forma e di contenuto previsti dalla legge 400.
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Di grande rilievo è stato poi lo strumento della delegificazione. Le leggi che autorizzano il Governo
alla delegificazione dovrebbero essere (secondo la legge n. 400 e secondo i principi costituzionali
sul rapporto tra Parlamento e Governo) norme che vincolano la discrezionalità dell’esecutivo.
Analogamente alle leggi di delegazione, dovrebbero definire oggetto e fini della delegificazione,e,
in più elencare analiticamente le norme destinate all’abrogazione (perché solo la legge può abrogare
un’altra legge). Viceversa:
“A partire dalla legge n. 537 del 1993 (legge finanziaria per il 1994), le leggi delegificanti hanno
iniziato a perdere il carattere di ‘norme generali regolatrici della materia’ previsto dall’art. 17
della legge n. 400. Esse sono caratterizzate da un richiamo a ‘obiettivi generici’ o a non ben
definiti ‘ principi e criteri direttivi’ in certi casi omettendo di indicare in maniera espressa le
disposizioni legislative oggetto della delegificazione.
“Per effetto di questo modo di operare, il Governo risulta nella sostanza libero di operare scelte
non condizionate dalle norme generali regolatrici della materia, addirittura determinando in via
autonomo le fonti – primarie – oggetto di abrogazione.
La delegificazione, a sua volta, è spesso contenuta in decreti legge o in decreti legislativi, con i
quali praticamente il Governo autorizza se stesso a modificare o abrogare la disciplina legislativa
di un certo settore”. (A. Pisaneschi, 2014).
b) La delegazione legislativa
La Costituzione disegna la legge di delegazione come un atto con il quale le Camere delegano il
Governo a emanare decreti su una materia definita, entro un dato termine e all’interno di precisi
criteri e principi direttivi: la legge di delegazione da un lato deve limitare la discrezionalità del
Governo, dall’altra spostare sul Governo la definizione dei contenuti normativi, che ricadono nella
scelta e nella responsabilità del Governo.
Viceversa, per prassi ormai costante, le leggi delega, da una parte, a) contengono principi
genericissimi o del tutto assenti; dall’altra parte, b) contengono norme che disciplinano in parte
la materia che delegano al Governo; o prevedono che, fatti gli schemi di decreto, questi siano
sottoposti dal Governo all’esame delle competenti commissioni parlamentari. Infine, c) con il
metodo della delega rinnovabile, il Governo viene autorizzato a intervenire sulla stessa materia
con decreti che correggono, modificano, integrano i primi già emanati.
La delegazione legislativa ha istituito così un procedimento ad alto grado di ‘confusione’
istituzionale tra Parlamento e Governo, uno dei cui effetti è che i principi orientativi della delega,
al pari della materia su cui incide e del tempo entro cui la delega deve essere esaurita precipitano
nella indistinzione, possono essere rivisti e modificati nel corso del tempo.
Così, la funzione della legge di delegazione di norma interposta che dovrebbe servire a
controllare la correttezza dell’esercizio della delega da parte del Governo viene resa
inoperante e impossibile.
Nell’ottobre 2014 si è assistito al primo caso dichiarato di delega priva di oggetto o ‘in bianco’,
in occasione dell’approvazione del Jobs Act del Governo Renzi. Per molti giorni la discussione,
almeno davanti all’opinione pubblica, è stata incentrata sull’art. 18 dello statuto dei lavoratori, la
norma sui licenziamenti, che il Governo voleva modificare. Tuttavia, nel disegno di legge di
delegazione che, come ormai si usa, il Governo ha predisposto e sottoposto alla Camera, non vi era
menzione dell’art. 18. Tuttavia, il Governo ha dichiarato alle agenzie di stampa queste letterali
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parole: “l’art. 18 c’è, la delega è su tutto”. Su tutto? Dove va a finire, allora, il senso stesso della
delegazione legislativa? Come si fa a sapere se il Governo ha ecceduto nella delega?
c) Il decreto legge
Fin da anni ormai risalentissimi, il Governo ‘abusa’ del decreto legge facendovi ricorso non ‘in casi
straordinari di necessità ed urgenza’ ma per perseguire il suo indirizzo politico.
All’epoca dei governi di coalizione, formati da fragili alleanze, il governo si trovava di fronte alla
quasi certezza che qualunque atto di iniziativa legislativa avesse presentato esso sarebbe stato
insabbiato o stravolto dalla sua stessa maggioranza. Così, invalse la prassi che tutte quelle misure
che erano necessarie non per fronteggiare situazioni straordinarie, ma per governare il paese, e
che avrebbe richiesto troppo tempo approvare con legge, venivano adottate con decreto legge.
Questo era politicamente conveniente per due motivi: intanto, il decreto è immediatamente in vigore
e quindi è, di fatto, un modo per “fare qualcosa”, per provvedere; poi, siccome per convertire il
decreto legge il parlamento ha un certo tempo a disposizione, ma non moltissimo, durante il
procedimento di conversione le varie forze politiche presenti in parlamento erano più interessate a
“saltare sulla diligenza” (la diligenza è il decreto legge che passa in parlamento) e cercare, con
modifiche ed emendamenti, di introdurre nel decreto disposizioni gradite a sé, al proprio elettorato,
che sarebbero abbastanza rapidamente entrate in vigore. La prassi dell’abuso del decreto legge
nasce dunque da una ‘complicità’ tra il Governo e il Parlamento.
Nacquero in quell’epoca e grazie a quella ‘complicità’ i “decreti omnibus” (i decreti fatti di tutto):
il governo faceva un decreto legge in materia di edilizia, per dare un sostegno al settore edilizio, e
usciva una legge di conversione che conteneva norme in materia di edilizia, e di ogni altra cosa
potesse in qualche modo esservi pur lontanamente connessa (parcheggi, svincoli stradali, tariffe,
concessioni, sanità).
Si cominciò poi a verificare il caso sempre più frequente che, proprio per la ricchezza di
“manipolazioni” di cui i decreti erano oggetto, che i sessanta giorni non bastassero per l’esame, e
allora, per non far decadere il decreto, il governo lo ritirava dall’esame delle camere un giorno
prima della scadenza e il giorno stesso ne ripresentava un altro con identico contenuto, che ripartiva
il suo iter di conversione (che andava a saldarsi a quello già in corso). Con questo sistema (prassi
della reiterazione del decreto legge) i decreti restavano “provvisoriamente” in vigore anche per un
paio d’anni.
Invalse inoltre la prassi, a noi ormai ben nota, per cui il Governo, vedendo che il decreto in corso di
conversione assumeva contenuti troppo lontani da quelli che il governo aveva effettivamente inteso
dettare, oppure che i tempi della conversione diventavano imprevedibili, lunghissimi, iniziò a porre
la questione di fiducia sulla conversione del decreto (sono sottoposti a fiducia, negli ultimi anni,
il 90% dei decreti, e, per quanto riguarda il Governo attualmente in carica, il 100%).
Il fatto singolare, è che il ricorso al decreto legge non solo è rimasto, ma si è accresciuto, dopo
che, con il nuovo sistema elettorale maggioritario e i nuovi regolamenti parlamentari, i
Governi dispongono di una forte maggioranza e di procedure parlamentari a loro favorevoli.
Negli anni 2000, il ricorso al decreto legge ha assunto carattere sistematico, specialmente per i
grandi interventi in materia economico finanziaria. Si calcola che circa il 95% delle decisioni di
spesa approvate in Parlamento dal 2006 al 2010 sia passato per disposizioni contenute in un decreto
legge. E’ inveterata la prassi delle ‘catene di decreti legge’ (decreti legge con cui si interviene più
volte sulla stessa materia) e di decreti legge adottati per prorogare la scadenza di termini
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previsti dalla legislazione vigente; di decreti che sono tanto poco straordinari e urgenti da
contenere disposizioni ad attuazione differita; di decreti legge trasmessi al Presidente della
Repubblica per l’emanazione dopo una settimana dalla loro approvazione in Consiglio dei Ministri,
che è una approvazione fatta ‘salvo intese’, vale fatta su una mera ‘bozza’ di decreto, dopodiché il
contenuto del decreto viene deciso nel dettaglio fuori dal Consiglio dei Ministri, e cioè dal singolo
ministro e dai suoi apparati tecnici e nel ‘dialogo’ con i portatori di interessi coinvolti; il genere,
antichissimo, dei decreti legge che contengono disposizioni eterogenee (decreti omnibus, oggi
chiamati ‘decreti a contenuto plurimo’) si è arricchito nelle ultime due legislature di un nuovo
tipo, definito decreto ‘rampino’ con il quale si introducono in un decreto legge disposizioni di
contenuto limitato al fine di consentire, in sede di conversione, che ad esse si aggancino intere
normative di più ampio rilievo. Per esempio, il decreto-legge 30 dicembre 2005 n. 272, recante
misure urgenti per garantire la sicurezza e i finanziamenti per le Olimpiadi di Torino, nel quale fu
sin dall’origine inserito un articolo contenente ‘disposizioni per favorire il recupero di
tossicodipendenti recidivi’, il che ha consentito, in sede di conversione, di introdurre una cospicua
serie di modifiche al testo unico sugli stupefacenti, modifiche a loro volta già previste in un disegno
di legge del Governo, e che si è trovato ‘agganciato’ al rampino della conversione.
Il carattere multiforme dei contenuti dei decreti legge spiega anche come mai recentemente si usi,
da parte del Governo, indicarli con denominazioni sintetiche (Salva Italia,Sblocca Italia, ecc.).
Questo non sarebbe dovuto tanto “a una operazione di marketing politico o comunicativo, ma
all’oggettiva impossibilità di trovare formule riassuntive di tutte le materie toccate dalle
disposizioni del provvedimento’ ricorda in una puntuale analisi del 2014 Roberta Calvano, che porta
ad esempio come il decreto ‘Destinazione Italia’ del 2014, recasse la ‘vera’ intitolazione di
“Interventi urgenti idi avvio del Piano Destinazione Italia, per il contenimento delle tariffe elettriche
e del Gas, per la riduzione dei premi di RC auto, per l’internazionalizzazione, lo sviluppo e la
digitalizzazione delle imprese, nonché misure per la realizzazione di opere pubbliche e di EXPO
2015”. Il decreto legge n. 93 del 2013, noto come ‘decreto contro il femminicidio’ conteneva
‘norme in materia di sicurezza e e per il contrasto della violenza di genere nonché in tema di
protezione civile e di commissariamento delle province”. Il decreto conteneva, anche e per esempio,
norme sulla messa in sicurezza dei cantieri del Tav, sull’emergenza in Nord Africa, sul
potenziamento dei vigili del fuoco. Sono coacervi di questo genere che vengono sottoposti in
blocco al ‘sì’ o ‘no’ del Parlamento. Il che fa anche un po’ ridere, se si pensa che, in materia di
referendum abrogativo, la Corte costituzionale ha sempre ritenuto essenziale l’omogeneità del
quesito e dichiarato inammissibili i referendum che vertessero su questioni diverse, perché sarebbe
lesivo della libertà di voto dell’elettore, il quale potrebbe poter votare sì a punto del quesito e no a
un altro. E’ un esempio di come il nostro ordinamento sia retto da principi contrastanti,
contraddittori, ciò che mina profondamente da un lato sia la certezza del diritto sia l’eguaglianza tra
governanti e governati.
Sebbene la Corte costituzionale abbia ricordato più volte che ciò non è legittimo, il decreto legge ha
ormai conquistato le materie cd ‘ordinamentali’ cioè quelle naturalmente riservate alla legge
ordinaria perché la loro natura e l’importanza dei valori costituzionali coinvolti impone una
disciplina sistematica alla quale il decreto legge è per definizione inadatto. Negli ultimi anni si sono
ripetuti i decreti sulle autonomie territoriali e locali, e si è intervenuti con decreto legge sullo
status dei magistrati (materia addirittura coperta in costituzione da una ‘riserva di ordinamento
giudiziario’ cioè che dovrebbe non solo essere regolata con legge ma da legge organicamente
rivolta a regolamentare lo status dei magistrati).
E’ diventato abituale che con decreto il governo si attribuisca deleghe legislative, autorizzi la
ratifica di trattati internazionali, o, cosa veramente singolare, si impegni a emanare futuri
decreti legge entro un certo tempo (così l’art. 7 comma 1 del decreto legge 201 del 2011 cd Cresci
Italia).
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Non è infrequente il caso che, nel procedimento di conversione, il Governo chieda e ottenga di
accorpare più decreti, sottoposti così insieme all’ “esame” (meglio sarebbe dire al “voto di ratifica”
delle Camere).
Nel corso della storia repubblicana, il ricorso al decreto legge fuori dai casi di necessità e urgenza è
sempre stato guardato, dalla dottrina, come un abuso che sia il Governo che il parlamento fanno
delle proprie prerogative e doveri costituzionali. E’ vero infatti che il Governo abusa presentando
i decreti fuori dai requisiti costituzionali; ma altrettanto abusa il parlamento, che non si è mai
rifiutato di convertire un decreto. Si è istituita così una sorta di convenzione, di prassi, che vede il
potere legislativo spostarsi sul Governo.
L’abuso del decreto legge è dunque una continuità nella storia repubblicana, ma sarebbe
sbagliato pensare che siamo davanti a un fenomeno sempre uguale a se stesso. Se i fragili
governi degli anni ’70 e ’80 con la loro (agli occhi di oggi quanto modesta e piccola!) prassi
d’abuso del decreto legge cercavano di aggirare maggioranze riottose e contrattare con esse, oggi
tutti gli osservatori concordano che sempre più spesso ciò che il Governo scrive nei decreti è
“eterodeterminato”. I governi portano all’approvazione delle Camere contenuti che non riflettono
tanto il loro indirizzo politico, quanto impegni assunti con le organizzazioni sovranazionali, come la
Ue, la Banca Centrale Europea, il Fondo Monetario internazionale e dunque con gli interessi che
queste istituzioni rappresentano. La crescita del decreto legge, in altri termini, oggi viene messa
in relazione con la perdita di sovranità collegata alla globalizzazione e alla integrazione
sovranazionale. e viene vista come una incisione non solo sulla forma di governo, ma sulla
stessa forma di stato democratica.
A conferma di questo cambiamento di senso che il decreto legge, e il suo abuso, ha assunto sta
l’insorgere ormai deciso di un atteggiamento interpretativo, sostenuto dal Presidente della
Repubblica, dai Presidenti di Assemblea Parlamentare e dal Governo, che che il Parlamento deve
convertire i decreti senza emendarli (nonostante che, nel procedimento di conversione, eserciti in
maniera piena la potestà legislativa). La definitiva sanzione di questa torsione interpretativa è
venuta dalla sentenza n. 22 del 2012 della Corte costituzionale che ha qualificato la legge di
conversione una legge a competenza limitata, ‘funzionalizzata alla stabilizzazione del decreto
legge’. Come ha scritto Giuseppe Filippetta in una nota del 2014, questo orientamento della Corte
costituzionale “per il suo essere apertamente in contrasto con la lettera della Costituzione, e con la
ratio dell’art. 77 Cost. risultante dai lavori preparatori e da oltre mezzo secolo di concordi riflessioni
dottrinali, prassi parlamentari e decisioni della stessa Corte costituzionale sembra porsi come una
sostanziale riscrittura dell’art. 77, che da disposizione sui limiti del potere governativo di
decretazione d’urgenza diviene disposizione sui limiti del potere parlamentare di conversione”.
Una nuova “cultura costituzionale”?
Per spiegarsi un simile salto, per spiegarsi come sia possibile che il garante della legalità
costituzionale abbia dato alla costituzione una interpretazione ‘contra rationem’ (cioè palesemente
in contrasto con quello che la Costituzione intende dire quando parla dei decreti legge), questo
Autore pensa che si sia ormai affermata una ‘cultura costituzionale’ talmente diversa da quella che
ha presieduto non solo all’elaborazione della Costituzione ma anche alla vita repubblicana fino a
pochissimi anni fa “da consegnare al passato, un passato che, nella decisione della Corte, non è
neppure ricordato, ma semplicemente ignorato, ciò che i costituenti avevano voluto consegnare al
futuro, cioè la esclusiva spettanza alle Camere del potere legislativo”.
Che cosa è riflesso in questa nuova ‘cultura costituzionale’ che vede come normale titolare della
funzione legislativa il Governo e come modo normale di legiferare l’urgenza, la mancanza di
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discussione, la confusione che mette in un unico provvedimento una miriade di disposizioni diverse,
che restano sconosciute all’organo che le vota, cioè il parlamento e che porta con sé lo
scavalcamento e l’annullamento di ogni procedura, di ogni regola messa alla ‘decisione’?
Secondo Filippetta questa ‘nuova cultura costituzionale’ riflette:
“La definitiva crisi di rappresentatività dei partiti e l’affermarsi, con la globalizzazione e la digitalizzazione,
di una nuova, iperaccelerata temporalità dell’esperienza individuale e sociale che spingono con forza
irresistibile le istituzioni , le procedure, le mediazioni parlamentari ai margini dello Stato, inteso come
machina legislatoria (macchina per produrre leggi). Oggi che il tempo necessario per prendere una
decisione è un aspetto fondamentale della qualità della decisione stessa, oggi che – come ha sottolineato nel
2011 l’allora Governatore della Banca d’Italia Mario Draghi – le strutture transgovernative nelle quali si
discutono le riforme economiche in campo internazionale (dal FMI all’Ocse al G20) prefigurano “nuovi
modi con cui esplicare la sovranità, che viene per loro tramite disarticolata funzionalmente, prospettando
una forma di politica pubblica globale e determinando lo sviluppo di capacità decisionali sussidiarie su
scala internazionale “su cui i Governi nazionali si riservano solo un potere di ratifica ex post”.
L’abuso del decreto legge un tempo poteva essere letto come la perdita di potere del
Parlamento davanti al Governo; oggi, esso segnala la perdita di potere di entrambi, come
istituzioni rappresentative, davanti alle istituzioni e alle forze che detengono il potere di
governo nella globalizzazione.
Ci siamo detti in partenza, iniziando lo studio della democrazia costituzionale, che l’esperienza
della democrazia costituzionale congiunge epoche, culture, situazioni economiche e politiche molto
diverse come quella dell’immediato secondo dopoguerra e l’attuale: essa aveva forgiato una idea di
stato democratico, limitato da una legalità ‘costituzionale’, intriso di pluralismo, fortemente aperto
all’integrazione sovranazionale. Il pluralismo è un bene, ma anche una via per ‘ridurre lo stato a una
istituzione tra altre’ e permettere l’affermazione di gruppi di interesse più potenti di altri;
l’integrazione sovranazionale uno strumento di pace e sviluppo, ma anche di affermazione di poteri
nuovi.
Questa è la conclusione del nostro studio: alle soglie di un nuovo ‘diritto pubblico della
globalizzazione’ di cui ora come ora non è possibile vedere per ora altre manifestazioni che il caos,
il disordine, l’anarchia gettata sulle istituzioni rappresentative e il loro depotenziamento.