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Con la cultura
non si mangia
Giulio Tremonti
(apocrifo)
Numero
229 296
9 settembre 2017
“Sia Kim che il presidente della Repubblica mi hanno assicurato che non attaccheranno nessuno” e che i missili “sono solo per difesa. Il che mi ha sollevato. Loro sono di parola”.
Senatore Antonio Razzi
Maschietto Editore
Paroladi Kim
dall’archivio di Maurizio Berlincioni
immagine
NY City, 1969
La prima
Siamo in periodo
di vacanze e mi
sono detto che
questa poteva,
anzi, doveva essere
l’immagine di questo
numero. Una bella
tavolata di anziani
italo-americani
seduti in un parco,
decisamente un pò
brullo e assolato, che
stanno giocando a
carte mentre uno
di loro ha davanti a
se il quotidiano ”il
Progresso” che era,
almeno all’epoca, il
giornale più diffuso
tra degli emigrati
del Bel Paese. C’era
come al solito un
gran caldo afoso
e mi sono sempre
chiesto come
facessero, almeno tre
di essi, a indossare
maglioncini e
giubbetti. Io ricordo
benissimo di essere
stato in un bagno di
sudore!
Direttore
Simone SilianiRedazione
Gianni Biagi, Sara Chiarello, Aldo Frangioni, Vittoria Maschietto, Michele Morrocchi, Sara Nocentini, Barbara Setti
Progetto Grafico
Emiliano Bacci
www.culturacommestibile.com
www.facebook.com/cultura.commestibile
Editore
Maschietto Editore via del Rosso Fiorentino, 2/D - 50142
Firenze tel/fax +39 055 701111
Registrazione del Tribunale di Firenze n. 5894 del 2/10/2012
Numero
229 296
9 settembre 2017
In questo numeroUn parco come narrazione
di Gianni Biagi
Riportati alla luce
di Laura Monaldi
Colonne portanti
di Alessandro Michelucci
Una giornata particolare
di Remo Fattorini
4 agosto 1944 il salvataggio del patrimonio culturale
e umano a S. Felicita
di M. Cristina François
Il drappellone
di Roberto Barzanti
Claudio Abate Fra arte e fotografia
di Danilo Cecchi
Chi sta sognando questa realtà?
di Melia Seth
La forza di Sansone
di Claudio Cosma
MMM il museo altissimo
di John Stammer
I depositi svelati
di Valentino Moradei Gabbrielli
Mani
di Mariangela Arnavas
Le due Caterine
di Gabriella Fiori
I collages del musicista
di Monica Innocenti
Il tempo perfetto di Dunkirk
di Francesco Cusa
Cosa avrei potuto fare?
di Bernardino Pasinelli
e illustrazioni di Massimo Cavezzali, Lido Contemori
Ancora Rinascimento
Le Sorelle Marx
Parrini international
I Cugini Engels
Riunione di famiglia
49 SETTEMBRE 2017
Cultura Commestibile ha già affrontato il
tema del Parco Centrale di Prato in una in-
tervista a Barberis pubblicata sul numero 158
del 20 febbraio 2016. Allora si parlava di un
concorso di progettazione in corso. Oggi che il
concorso si è concluso e è stato scelto il proget-
to vincitore. Siamo tornati a parlarne sempre
con Valerio Barberis.
Il concorso è finito con un vincitore. Oggi ab-
biamo il progetto del nuovo Parco Centrale di
Prato e ci interessa capire due cose. La prima è
come i cittadini hanno vissuto questa fase del
concorso e come hanno accolto il progetto vin-
citore. La seconda è riprendere e approfondire
un aspetto che abbiamo già affrontato margi-
nalmente nella scorsa intervista e cioè come e
perchè il comune di Prato ha deciso di “rinun-
ciare” ad un edificio pubblico esistente (il vec-
chio ospedale) per realizzare un grande spazio
a parco, che sempre un bene pubblico è ma si
presta evidentemente ad usi diversi.
Partiamo dalla seconda domanda. In realtà il
parco si inserisce in un progetto più generale
per fare emergere una identità di Prato che è
spesso misconosciuta. È in realta un percorso
di narrazione della città. Città che essendo
stata una città ricca, e ancora in parte lo è, ed
essendo stata praticamente autosufficiente
per tutto, lo è stata anche per i grandi investi-
menti pubblici e privati, strade infrastrutture,
fogne acquedotti. Una ricchezza diffusa e
distribuita, con tensioni sociali che erano atte-
nuate dal fatto che comunque a Prato il lavoro
c’era. Oggi in una fase di crisi dove i territori
devono trovare una loro rinnovata identità (di
questo siamo molto convinti) occorre ritrovare
una narrazione nuova che si appoggi su una
nuova strategia. In questo contesto si deve
collocare il ragionamento sul Parco Centrale
che noi riteniamo sia l’equivalente del Centro
Pecci per l’Arte Contemporanea. Una strate-
gia che racconti di una Prato diversa da come
è sempre stata vista e vissuta e cioè quello del-
la città-fabbrica. Il Pecci porta la città di Pra-
to in un contesto diverso. Che c’entra l’arte
contemporanea con Prato? L’inaugurazione
dell’ampliamento del Museo Pecci ha ripor-
tato l’attenzione su questo aspetto. Prato è la
città della contemporaneità in Toscana.
Lo è perchè ha il Museo Pecci e anche perchè
ha un’attività produttiva che è parte integran-
te della contemporaneità. Penso alla produzio-
ne per la grande moda ma anche al teatro Me-
tastasio che ha sempre avuto una produzione
contemporanea.
Ha anche importanti presenze nel comparto
produttivo legato alla tecnologia che in que-
sto momento vive una stagione di grande ri-
sveglio produttivo e di sviluppo, e ha un’ap-
proccio innovativo anche nel campo agricolo
dove la grande capacità imprenditoriale ha
prodotto innovazioni importanti nella indi-
viduazione di prodotti a km 0 e nella “filiera
corta” della produzione agricola. Su questi
settori l’amministrazione sta puntando molto
individuandoli appunto come elementi della
contemporaneità. In questo contesto il Parco
centrale di Prato ha aperto i fari dell’atten-
zione internazionale su uno spazio pubblico
centrale in una città contemporanea. La de-
molizione in realtà è un’operazione di demo-
lizione selettiva. Forse si potrebbe chiamare
un’intervento di “economia circolare” perchè
parte dell’edificio del vecchio ospedale viene
“smontato” e riutilizzato nella filiera dell’edi-
lizia. Anche l’operazione di smontaggio rien-
tra in questa visione strategica di un’identità
della città. A Prato le pratiche di riuso sono
l’essenza della produzione tessile della città
e si fanno da sempre. Si pensi al riuso degli
“stracci”. Quindi possiamo dire che Prato è
stato all’avanguardia di quella che oggi noi
chiamiamo pratiche di contemporaneità (la
filiera corta, il recycle, ecc.). Il progetto quin-
di è difatto un “riuso” di uno spazio urbano
provvedendo alla demolizione di quella parte
di edificio che era incongruo con il contesto
(l’Ospedale è stato costruito negli anni ‘60) .
Quella parte di città era sempre stata destina-
ta ad essere agricola. Erano gli orti di alcuni
conventi. Prato ha sempre avuto, fino alla par-
ziale saturazione degli anni ‘60 appunto, uno
spazio non edificato fra la parte urbana cen-
trale e le mura che era occupato da orti. Nello
specifico erano gli orti e frutteti dell’Ospedale
Misericordia e Dolce che era il primo ospeda-
le della città, precedente anche all’Ospedale
della Scala, dai quali venivano tratte le erbe
officinali e le piante per la vita della comunità.
In prossimità dell’ex Ospedale ci sono ancora
i conventi di San Niccolò e San Vincenzo che
hanno orti e terreni coltivati fra il convento e
le mura. La storia di quest’area ha sostanzial-
mente avuto una deviazione con la costruzio-
ne dell’ospedale e ora stiamo proponendo di
riportarla alla sua condizione originaria. Ma
inserendo l’intervento in una nuova narrazio-
di Gianni Biagi Un parco comenarrazione
59 SETTEMBRE 2017
ne della città nella quale lo spazio pubblico, il
verde, la contemporaneità, il riuso diventano
gli elementi caratterizzanti di questo racconto
facendoli diventare quasi un “bench mark”
della città che trova nei temi della contempo-
raneità la sua matrice attuale. E su queste basi
vuole fondare la sua rinnovata attrattività per
le imprese, per un nuovo tipo di turismo, per
i suoi cittadini.
Appunto i cittadini. Dopo l’annuncio del
concorso, lo svolgimento, la scelta del proget-
to vincitore cosa è cambiato nella percezione
della città e dei suoi abitanti sulla possibilità
che questa proposta diventi realtà? Hai avuto
riscontri? Come percepisci l’attenzione della
città su questo tema?
Il percorso partecipativo con i cittadini si
è svolto prima delle elezioni comunali che
hanno portato all’attuale amministrazione.
La proposta iniziale posta a base della discus-
sione pubblica prevedeva il mantenimento
di una parte destinata a attività sanitarie e
una parte destinata a parco. In campagna
elettorale la nostra proposta fu quella di spo-
stare l’attenzione solo sulla parte del parco
lasciando alle funzioni sanitarie solo la parte
storica dell’edificato e quindi modificando in
modo significativo il criterio di indirizzo del-
la progettazione posto a base del percorso di
partecipazione. Dopo la scelta del progetto
vincitore i progettisti hanno puntato molto sul
concetto di un giardino dentro il centro stori-
co e quindi nel valorizzare e far emergere le
presenze monumentali ( a partire dalle mura)
ma anche, e soprattutto, a fare emergere una
sorta di reinterpretazione del giardino all’ita-
liana. Direi una lettura quasi “ontologica” del
giardino all’italiana con la suddivisione degli
spazi e la “costruzione” di spazi abitabili come
stanze, la valorizzazione delle vedute, la rea-
lizzazione di padiglioni. Il rapporto fra arte,
spazi, contesto storico è, a mio giudizio, molto
equilibrato.
La gestione di queste spazi urbani come verrà
fatta?
I progettisti stanno incontrando proprio in
questo periodo le realtà sociali e culturali
della città. Hanno incontrato i rappresentan-
ti del Teatro Metastasio per valutare come
valorizzare nel contesto del parco le attività
“extra moenia” del teatro che vanta una lunga
tradizione al proposito (basta pensare al Fab-
bricone) e che ora si sostanzia nelle iniziative
di Festival Contemporanea che fisicamente
porta il teatro al di fuori dello spazio teatra-
le storico. Hanno incontrato i rappresentanti
del Museo Pecci per valutare la possibilità
di installare le opere d’arte contemporanea
nel parco e quindi determinare, attraverso
l’opera d’arte, anche lo spazio intorno ad essa.
Hanno poi incontrato i rappresentanti della
Fondazione Ami che si occupa di avviare pro-
getti per bambini disabili e con gravi malattie
che nella adiacente palazzina ha una sorta di
“centro diurno” per questi bambini. Una sorta
di piccollissimo Dynamo Camp. Questo per
rimarcare come il parco deve essere inclusivo
anche sotto questo aspetto. Superare il con-
cetto di accessibilità per affermare invece il
concetto di inclusività e quindi coinvolgere
gli esperti della Fondazione (ad esempio neu-
ropsichiatri) per fare in modo che il parco sia
capace di essere uno spazio appunto inclusivo
per tutti.
Possiamo affermare quindi che il progetto del
Parco Centrale di Prato non è solo un progetto
urbanistico, architettonico ma è stato fino da
subito un progetto di gestione. La gestione è
parte integrante del progetto. È proprio così?
Esatto. Proprio in questa logica è stato fatto,
in questi giorni, un incontro con un Consor-
zio di cittadini, il consorzio Santa Trinita. Un
gruppo di cittadini che si è riunito per cercare
di affrontare la questione dell’impoverimen-
to delle attività commerciali della strada, per
contrastare il degrado. L’attività del Consor-
zio si è alla fine concentrata sui Giardini di
Sant’Orsola che il consorzio sta gestendo in
modo molto interessante organizzando tutte
le sere qualche evento. Un esempio di “urban
management” veramente interessante. Que-
sti giardini sono la parte terminale est del Par-
co e pertanto sono stati coinvolti da subito per
valutare se e come fosse possibile collaborare.
Il Parco Centrale in questo modo diventa una
infrastrastruttura al servizio della città. Il Par-
co sarà anche dotato di uno spazio coperto di
circa 1000 mq. Quindi per gestire tutto que-
sto sarà fatto un bando pubblico di gestione
che però partirà dalle idee e dalle suggstioni
che ho ricordato.
Il Parco Centrale non sembra un fatto isolato
nel contesto urbano della città murata. Anzi
esso tende a diventare parte di un percorso che
comprende il museo del Tessile, la biblioteca e
altre attrezzature pubbliche che si collocano in
adiacenza alle mura. Un progetto quindi che
si integra con le scelte già fatte e realizzate. È
una visione corretta?
Il Parco diventerà certamente la conclusione
di un percorso verde dentro le mura. Ma io
credo che la sua valenza maggiore sia quella
di diventare un nuovo ingresso per la città sto-
rica. Oggi lo spazio occupato dall’Ospedale
non è un ingresso per la città storica. Con la
realizzazione del Parco lo diventerà. Il par-
cheggio da oltre mille posti auto del vecchio
ospedale, che rimane, e l’apertura costituita
dal nuovo Parco Centrale permetterà a cit-
tadini che provengono da sud ( e gran parte
degli abitanti di Prato vivono a sud e sud ovest
della città murata) di avere un nuovo accesso
verso la parte storica e centrale della città. E
questo consentirà anche la riqualificazione e
la ricucitura, con una infrastruttura verde, di
una vasta area che tende a comprendere l’a-
rea agricola di San Giusto fino alle Cascine di
Tavola.
A questo punto si tratta di reperire le risorse
per la sua realizzazione. Avete i soldi per re-
alizzarlo?
Il parco, nel suo complesso, costa circa 7,5 mi-
lioni compreso il grande edificio da realizzare
nel parco. Il costo non comprende tuttavia il
costo degli accordi fra Comune di Prato e Asl
conseguenti alla dismissione dell’Ospedale. Il
parco è individuato come una scelta strategica
e l’amministrazione comunale sta mettendo le
proprie risorse. Su altre scelte come la riqua-
lificazione delle sponde del Bisenzio si sono
utilizzati finanziamenti nazionali (Piano delle
periferie). Noi confidiamo sul fatto che aven-
do un progetto di grande livello e condiviso
dalla città le risorse saremo in grado di tro-
varle. Confidiamo anche sul fatto che avendo
fino da subito studiato forme operative di ge-
stione le risorse in spesa di investimento per
la sua realizzazione sia meno complicate repe-
rirle. Anche perchè oggi il tema della città è il
tema dello spazio pubblico e della sua riquali-
ficazione. E questo progetto sta perfettamente
in questo filone di iniziative che vedono con-
sistenti investimenti pubblici dei diversi livelli
istituzionali.
69 SETTEMBRE 2017
Fresco di stampa esce in questi giorni in
libreria un libro che non potrà mancare
negli scaffali di molti dei nostri affezionati
lettori, scritto da una coppia di mostri sacri
della cultura, gli unici nostri veri maître à
penser (escluso Eugenio Giani che, ovvia-
mente, è fuori gara): “Rinascimento” di
Vittorio Sgarbi e Giulio Tremonti. Il libro,
che ci apprestiamo a studiare con umiltà
e reverenza, parrebbe un assemblaggio
(vedremo quanto riuscito) fra le parti in cui
Sgarbi discetta di Rinascimento e cultura
e quelle in cui Tremonti scrive di Europa,
economia e politica. In fondo all’introdu-
zione i due autori minacciano: “ovviamente
questo libro è un appello alla costruzione
di un movimento politico”. E di questo,
sinceramente, avremmo fatto volentieri
a meno. Basti pensare ai precedenti non
proprio fulgidi di Vittorio in questo cam-
po. Nel novembre 2016 in una intervista
al Quotidiano.net lancia il Partito della
Bellezza: «Farò un partito della bellezza
e rispetto alla merda che c’è in giro ho
chance. Io sono un po’ grillino e un po’
trumpino, ma più colto. Quindi, è fatta».
Ma, ad oggi, non sembra fatta per niente.
Del resto in precedenza tentativi analoghi
del nostro vate non avevano avuto maggior
fortuna, dal Partito dell’Amore (che lo vide
seguace della di lui ben più dotata, politi-
camente s’intende, Moana Pozzi) al Partito
della Rivoluzione (lanciato nel 2012 con il
simbolo della capra e che si distinse soltanto
per l’azione legale intentata contro Ingroia
per avergli scippato il nome depositato per
il suo Rivoluzione Civile). Si sa, d’altronde,
che Vittorio è un volitivo anche in politica,
essendo passato dalla Federazione giova-
nile del Partito Monarchico (1975) alla
candidatura a sindaco di Pesaro per il PCI
(1990), da sindaco di San Severino Marche
(sostenuto da una coalizione che andava dal
Psi al MSI, passando per la DC) a deputato
con la Lista Pannella (1996-2000).
Ma che fosse volitivo anche Giulio Tremonti
ci ha sorpreso non poco. Infatti il creativo
ex Ministro del Tesoro di Berlusconi, aveva
di recente negato decisamente di aver mai
pronunciato la frase “Con la cultura non si
mangia” a cui abbiamo ispirato la nostra ri-
vista, intimandoci di non attribuirgliela più
(anche se, in verità, l’intervista in cui il divo
Giulio disse la frase non fu mai da lui smen-
tita). E oggi, cosa ti troviamo sulla fascetta
che promuove “Rinascimento”? Ma “con la
cultura (non) si mangia” ça va sans dire!
Il segretario regionale PD toscano, Dario
Parrini, è sempre piuttosto restio a discu-
tere dei risultati elettorali del partito da
lui guidato (risultati che va detto hanno
consegnato agli avversari del PD quasi
tutti i grandi comuni in cui si è votato in
questi anni) ma è invece sempre prodigo di
analisi sulle competizioni internazionali.
I suoi post su facebook sciorinano cifre,
analisi, di ogni dipartimento francese,
land tedesco o contea inglese; citano studi
e studiosi sconosciuti al grande pubblico e
fanno dovizia di analisi socio politiche tra
le più varie.
In questi giorni estivi il tema del Parrini
sono le prossime elezioni tedesche. In un
post agostano tesse un’ode alla Merkel
che, secondo lo storico Dan Diner, avreb-
be successo perché ha cannibalizzato le
politiche di sinistra della SPD e quelle am-
bientalisti dei Verdi. Il post, non sappiamo
il saggio di Diner, omette settant’anni di
politiche sociale delle democrazie cristiane
europee (che oggi definiremmo di sinistra)
e il fatto che le politiche ambientaliste, da
richieste di nicchia, sono divenuti ormai
patrimonio di ogni forza politica di destra
o sinistra.
Il problema però, prendendo per vera la
tesi del segretario, è come conciliare questa
ammirazione per la cannibale Merkel con
l’appartenenza al PD renziano che invece
ha fatto l’opposto, portando nel campo
progressista metodi, politiche (e uomini)
della destra. Però, se proprio vogliamo
essere sinceri, il problema principale è che,
nonostante l’ammirazione per la Merkel,
mantiene il suo sostengo per Schultz, il
che, visti i precedenti toscani, non depone
a favore de già svantaggiato leader tedesco.
Piccola rubrica per i distratti che raccoglie
le migliori frasi di “Avanti”, il bestseller di
Matteo Renzi.
Questo è il potere: non la scrivania di
un palazzo romano, ma la sensazione
per chi vive in questo paese (sic) che non
tutto sia già scritto
Le SorelleMarx
Avanzidi Avanti
I CuginiEngels
Ancora Rinascimento
Parrini international
79 SETTEMBRE 2017
È scomparso, mercoledì scorso, a soli 66 anni
Riccardo Conti; figura centrale della sinistra
fiorentina dal PCI fino al PD, partito che
aveva recentemente lasciato per approdare a
MDP. Conti è stato un politico e un am-
ministratore che ha sempre accompagnato
la propria attività politica con quella dello
studio e della riflessione. Amico di questa
rivista ci piace ricordare Riccardo Conti per
due aspetti del suo agire politico: da un lato
la sua funzione pedagogica, di crescita dei
gruppi dirigenti soprattutto dei più giova-
ni, che ha sempre voluto intorno a sé e ha
aiutato a crescere non solo politicamente.
Sono almeno tre le generazioni di esponenti
dei DS e poi del PD che devono molto a
Conti e che grazie a Conti hanno abbracciato
un impegno politico che non era fatto solo
di poltrone o incarichi ma anche di riviste,
pubblicazioni e seminari; oltre che di cene,
bevute e risate. Conti è stato uno dei più ge-
nuini interpreti di quella comunità politica
e umana che fu il PCI, PDS, DS. Per la sua
prima elezione in consiglio regionale, dove fu
recordman di preferenze, scelse l’azzeccatis-
simo slogan di solido e sincero; una definizio-
ne che gli calzava appieno. Accanto a questo
ci piace ricordare il Conti assessore regionale
all’urbanistica che impostò e varò la Legge
5 del 2005; un esempio tra i migliori del
Paese non solo per la pianificazione urbani-
stica ma anche per l’applicazione corretta e
virtuosa del federalismo e dell’autonomia.
La Legge 5 fu l’apice di una stagione politica
felice e una grande scommessa sull’autono-
mia e sulla crescita dei Comuni, messi al
centro della programmazione e della pro-
gettazione del territorio. Una scelta virtuosa
che ha responsabilizzato un’intera classe di
amministratori, forse l’ultima riconosciuta
ed apprezzata dai propri cittadini, anche per
la sua capacità di prendersi delle responsa-
bilità.
disegno di Lido Contemorididascalia di Aldo Frangioni
Nel miglioredei Lidipossibili
Il giardino di Kim Jong-un, detto anche Mein Kamp
Ciao Riccardo
Segnalidi fumo
Estate rovente. Lucifero quest’anno si è fatto
sentire ovunque, spesso esagerando. Firenze,
che non ha voluto sfigurare in questa speciale
gara, ha registrato temperature record. E le con-
seguenze non sono mancate. Basti ricordare le
“calorose” polemiche sul taglio degli alberi, con
l’indice puntato contro l’amministrazione co-
munale colpevole di aver dato il via all’abbatti-
mento di 282 grandi alberi che da più decenni
rinfrescavano strade e piazze. Così le motoseghe
hanno lavorato a lungo da San Marco alla Sta-
zione, fino al viale Belfiore e Corsica, cambiando
l’aspetto di gran parte della città. Risultato: Fi-
renze è una città con meno verde, meno ombra
e più rumore. Tutti noi sappiamo che gli alberi
oltre ad una funzione decorativa servono anche
a scopi sanitari, ambientali e protettivi. Insom-
ma sono utili e la loro presenza rende migliori
le nostre città.
Dal comune si dice che gli abbattimenti erano
necessari per garantire la sicurezza ai cittadi-
ni. Le piante, “visitate” dai tecnici, sono state
classificate come “alberi con propensione al
cedimento”. Insomma, alberi stanchi, malati,
depressi, annoiati o - più realisticamente - soffe-
renti per carenza di cure. A rischio crollo, hanno
sentenziato gli esperti. Un rischio accentuato
dagli effetti dei cambiamenti climatici. Quanto
basta per far scattare il disco verde alle motose-
ghe. Apriti cielo, e giù proteste a non finire. Tan-
to che in viale Corsica sono dovuti intervenire
gli agenti di polizia in assetto antisommossa.
Erano davvero malati? E tutti ugualmente gra-
vi? Non saprei dire. Se erano malati bene ha
fatto l’amministrazione. Fino a prova contraria
gli alberi si abbattono e si ripiantano, così come
si coltivano i boschi. E però alcuni interrogati-
vi nascono spontanei: perché negli ultimi anni
non si è fatta la necessaria manutenzione? Gli
acciacchi se presi in tempo si curano, anche
quelli degli alberi. Perché si tagliano piante
adulte e si sostituiscono con fragili alberelli che
prima di farsi notare passano decenni? Perché
per dare il via alle motoseghe non si è scelto un
periodo contestuale alla ripiantumazione? Per-
ché non si è proceduto all’abbattimento con un
maggiore gradualità, partendo dai più malati
e poi, magari l’anno prossimo, quelli meno a
rischio, salvaguardando quelli recuperabili? E
soprattutto, perché prima di abbattere alberi pa-
trimonio più che decennale della città non si è
fatta la necessaria informazione ai residenti, sui
motivi e sulle soluzioni? Della serie, le polemi-
che volute non sono mai troppe.
di Remo Fattorini
89 SETTEMBRE 2017
Per Vanessa Costantini operare artistica-
mente significa contemplare e riflettere sul
linguaggio contemporaneo, definito come un
insieme di microcosmi comunicativi da svela-
re, rivelare e attraverso il quale far emergere
il proprio mondo interiore come specchio di
un’esperienza circostante caotica e percetti-
bilmente incomprensibile. Nelle sue opere
astrattismo e formalismo si uniscono e si con-
fondono in un’evidente sensibilità per il segno
e il gesto artistico che, puro e primitivo, è teso
a far rivivere il senso originario della comuni-
cazione, dove l’intuizione regna sovrana sfug-
gendo alle infinite possibilità interpretative.
In un gioco dialettico di corrispondenze fra
segno e senso, l’artista rimane tuttavia custode
del segreto mistico della creazione e del mes-
saggio confidenziale che l’opera d’arte porta
in sè, donando allo spettatore sia un senso
epifanico di smarrimento e fascinazione. La
mostra di Vanessa Costantini “Riportati alla
Luce”, allestita a “La Barbagianna: una casa
per l’Arte Contemporanea”, in occasione del-
la XXVI Rassegna internazionale “Incontri
d’Arte seconda parte”, a cura di Alessandra
Borsetti Venier, è la prima retrospettiva nella
quale il suo percorso artistico si presenta come
un viaggio nel misterio linguistico-comunica-
tivo, dove di opera in opera i linguaggi espressi
fra forature, collage e giochi di bianco si tra-
mutano in segni ancestrali e primordiali, il cui
messaggio sfiora il misterico e attira lo sguar-
do del fruitore per il senso dell’ignoto che ne
emerge. Lo spettatore può immergersi fra la
luce e il buio, in un dialogo intimo e segreto
in cui si alternano grandi e piccoli formati,
per far esaltare il labile confine esistente fra
ciò che si può esprimere e ciò che è inespri-
mibile. Vanessa Costantini riflette in questa
esposizione sullo status dell’informazione e
della trasmissione del messaggio in una con-
temporaneità multimediale e tecnologica che
sembra cedere inesorabilmente alla precarietà
e alla mutevolezza. I giochi di forature e cuci-
ture insieme ai cromatismi del bianco che si
amalgamano sulla tela evidenziano l’indagine
spirituale dell’artista che si esprime attraver-
so un linguaggio ermetico, il quale emerge da
una purezza primigenia che solo l’artista può
comprendere nella sua totalità evocativa. A
fare la differenza sono i giochi di luce, perché
solo nel dualismo di luce e buio tali intimi
messaggi risultano visibili e compartecipano
alla fruizione estetica dello spettatore, al quale
non resta che rimanere affascinato dai riman-
di e dalle corrispondenze che i microcosmi di
Vanessa Costantini creano ed evocano sulla
di Laura Monaldi
luceRiportatialla carta, riportata successivamente su tela intela-
iata. In questa mistica atmosfera di trasparen-
ze, luci e ombre le opere dell’artista si pongo-
no al di là del tempo e dello spazio, alla ricerca
di un senso e di una rinnovata concretezza che
l’arte contemporanea deve riscoprire nell’ine-
vitabile saturazione dei linguaggi, sempre più
dominati da una tecnologia invasiva.
99 SETTEMBRE 2017
disegno di Massimo Cavezzali
ver Twist, Non lasciarmi e Still Life.
Anche alcuni compositori solitamente dediti
alla sperimentazione hanno scritto musica
per film. In questo gruppo spiccano Michael
Nyman (Lezioni di piano, Gattaca), Ryui-
chi Sakamoto (L’ultimo imperatore, Piccolo
Buddha, The Revenant) e Teho Teardo (La
ragazza del lago, Il divo, Una vita tranquilla).
Altri compositori provengono da gruppi
rock: è il caso di Fabio Premoli (Premiata For-
neria Marconi), Vangelis (Aphrodite’s Child)
e Anne Dudley (Art of Noise). Quest’ultima
ha firmato le musiche di numerosi film, fra i
quali Black Book ed Elle, oltre a quelle della
serie televisiva Poldark, tuttora in corso.
Come si intuisce dai nomi suddetti, (anche)
nel mondo delle colonne sonore dominano le
figure maschili. Questa disparità è un proble-
ma molto sentito, tanto è vero che nel 2014
è nata l’Alliance Alliance for Women Film
Composers, presieduta dalla compositrice
Laura Karpman.
Prima di finire, alcune indicazioni utili per
approfondire la materia.
Anzitutto il sito www.colonnesonore.net,
animato dal simpatico Massimo Privitera,
che contiene anticipazioni, interviste, re-
censioni, etc. Un ampio panorama storico,
invece, è quello che Sergio Miceli ci offre nel
libro Musica e cinema nella cultura del No-
vecento (Bulzoni, 2010). Per quanto riguarda
le case discografiche, le più attive in questo
campo sono Caldera, Milan e Sarabande.
La musica - e quindi la colonna sonora - co-
stituisce un complemento essenziale del ci-
nema. Ma crediamo che si debba fare una
distinzione netta fra le colonne sonore ori-
ginali e quelle che vengono assemblate con
musica preesistente. Oggi queste ultime
sono piuttosto frequenti, ma si tratta di una
scelta discutibile, perché viene eliminato
quel legame diretto fra immagine e suono
che dovrebbe essere un elemento centrale
del film. Lo sanno bene i compositori e i regi-
sti che hanno sviluppato un rapporto profon-
do, quasi simbiotico: Nino Rota e Federico
Fellini, Michael Nyman e Peter Greenaway,
John Williams e Steven Spielberg, giusto per
fare qualche nome. Tanto che in questi casi
la parte visiva concepita dal regista sarebbe
impensabile senza quella sonora creata dal
musicista.
Lo spettatore medio, in genere, dedica poca
attenzione alla musica. Ma si tratta di un er-
rore che può essere corretto. Sebbene possa
apparire utopistico, crediamo che non si do-
vrebbe andare al cinema (o perlomeno uscir-
ne) senza sapere chi abbia composto la colon-
na sonora del film. Anche limitandoci ai film
più noti degli ultimi anni, scopriamo musici-
sti di rilievo che meritano molta attenzione.
La nostra breve ricognizione, ovviamente
incompleta, inizia con Benjamin Wallfisch.
Figlio di due prestigiosi violinisti, il giovane
compositore inglese ha scritto le musiche di
film come Annabel – Creation e Bitter Har-
vest (quest’ultimo uscirà in autunno col titolo
Amaro raccolto).
Dario Marianelli, pisano che vive a Londra,
ha scritto le musiche di film come Orgoglio e
pregiudizio e Il colore della libertà.
Il polacco Abel Korzeniowski, allievo di Pen-
derecki, ha ricevuto numerosi riconoscimen-
ti internazionali per le musiche di A single
man e Romeo and Juliet.
Il nome di Gabriel Yared è legato alle musi-
che di molti film, fra i quali Il paziente ingle-
se, Il talento di Mr. Ripley e Le vite degli altri.
All’inglese Rachel Portman, prima composi-
trice premiata con l’Oscar, colonna sonora, si
devono le colonne sonore di film come Oli-
di Alessandro Michelucci
Colonneportanti
MusicaMaestro
SCavezzacollo
109 SETTEMBRE 2017
Se ne sta in disparte, quasi scontroso, come
per marcare la differenza con il disordine
da “parco giochi della montagna” che regna
sul Plan De Corones. Il Messner Mountain
Museum progettato da Zaha Hadid guarda
la valle di San Vigilio e volta quasi le spalle
al caos di attrezzature, tende tipo “indiani
d’America”, recinti per animali e ristoranti
su due piani con ascensore che il visitatore
si trova davanti una volta sbarcato da uno
dei tre impianti di risalita che raggiungono
la quota di 2275 slm. Il Museo è dedicato ad
una particolare branca dell’alpinismo che è
quello tradizionale, ma in questo caso, come
in molti altri dei MMM (Messner Moun-
tain Museum), è il contenitore che merita
di essere visto piuttosto che il contenuto. In
una delle sue ultime opere la Hadid ha in-
terpretato il progetto come una sorta di po-
stazione militare posta a difesa della valle
di Marebbe. Un progetto tutto proteso ver-
so l’esterno e che lascia all’ingresso, rivolto
verso gli impianti e la cima del Plan De
Corones, solo una piccola parte fuori terra
per l’accesso. Un progetto che ha previsto
che l’intero percorso di visita si svolga sot-
to terra e che il rapporto con l’esterno, con
il territorio, con le montagne, sia lasciato
esclusivamente alle tre grandi aperture che
guardano la valle. Un percorso psicologico
e mentale inverso a quello dell’alpinismo
che è tutto proiezione sull’esterno, sulle pa-
reti delle montagne. Il museo, dedicato ad
un settore dell’alpinismo su cui Messner ha
avuto una grande influenza, è l’ultimo dei
sei musei che portano il nome del grande
alpinista. Inaugurato il 27 luglio del 2015
è stato uno degli ultimi progetti che Zaha
Hadid ha visto realizzato prima della sua
prematura scomparsa. Un progetto che re-
stituisce al visitatore della cima del Plan De
Corones, insieme alla bellissima vista delle
montagne (in particolare del Cristallo che
si erge come un diadema sullo sfondo delle
cime dolomitiche) il piacere di essere salito
sulla vetta.
di John Stammer MMMil museo altissimo
119 SETTEMBRE 2017
di chi lavorava in campagna su cui esistono seri
contributi di taglio antropologico. Lunga diva-
gazione introduttiva solo per soffermarsi sull’ul-
timo episodio di una sequenza che meriterebbe
un’indagine di respiro. Ricordo tuttora la com-
mozione che attanagliò Renato Guttuso quan-
do, osservava i senesi scrutare il suo drappel-
lone dell’agosto 1971: e rimanevano strabiliati
perché le persone non indossavano più aulici
costumi medievaleggianti ma avevano il volto e
la grinta contemporanea di cittadini, abbigliati
come d’abitudine nel quotidiano, che tentavano
di riconoscersi nel realistico quadro. Il drappel-
lone – fu più chiaro da quella data – può dar
luogo ad una sorta di arazzo che contenga aral-
dica e apparato simbolico, può dar spazio anche
a scene allegoriche e può infine ritrarre un pez-
zo di realtà elevandolo o meno a metafora di un
rito molto complicato. E le vie non è detto non
s’intreccino spesso in composizioni cervelloti-
che o a più strati. Il formato crea non pochi pro-
blemi: la base del serico sten-
dardo è di 80 cm. e l’altezza di 2
metri e cinquanta: una finestra
lunga che obbliga ad una verti-
calizzazione ben studiata se si
vuol fare qualcosa di coerente.
Per quest’agosto il sindaco ha
voluto che a preparare questo
oggetto tanto ambito fosse un
autore inglese, per dimostrare
che, malgrado la Brexit, Siena
ci tiene a intrattenere con il
Regno Unito i rapporti cultu-
rali profondi coltivati nei secoli.
Poi alla dedica all’Assunta si è
accoppiata la celebrazione – dir
dedica è errore pacchiano – del
dugentesimo anniversario del-
la nascita di Giovanni Duprè.
Si può immaginare quanto sia
stata laboriosa la scelta e quan-
to difficile partorire un risultato
accettabile. L’artista, per vie di-
plomatiche più che sulla base di
una conoscenza diretta del suo
lavoro, è stata individuata in
una giovane di origine balinesi,
Sinta Tantra, nata a New York
nel 1979, residente a Londra
ed esperta soprattutto di allesti-
menti e decorazioni urbane. E
a costei è stato affidato un com-
Il drappelloneUn oggetto così carico di simboli e di araldica,
di depositata memoria iconografica e di figura-
tività allegorica cittadina come il drappellone
che si consegna in premio alla Contrada vitto-
riosa nel Palio di Siena è sempre oggetto – e ora
più che mai – di discussioni a non finire. Sono
poche le opere di pittura pubblica che han-
no un rapporto così solido e controverso con i
sentimenti popolari, con dispute critiche, con
canoni devozionali. Pur essendo un’opera non
concepita per essere installata su un altare e
anzi trascinata in trionfo per le vie, appesa poi
ad un museo, custodita con gelosa fierezza, il
palio – da “pallium”, manto – deve osservare
obblighi di varia provenienza e quindi trovare
equilibri compositivi avveduti e scatenare una
presa emozionale vera: quindi possedere una
leggibilità che parli al colto esteta e al disarma-
to di estetica, a chi vuole esibire un raggiunto
traguardo e a chi voglia serbare il vivo ricordo
di un gran giorno. Agli inizi degli anni Settanta
la committenza comunale decise di affidare la
confezione dell’oggetto di tanto desiderio anche
a artisti – se la parola è ancora lecita – non per
consuetudine legati a moduli tipici della tra-
dizione e perlopiù operativi a
Siena. La ripetitività aveva an-
noiato e non era per niente ec-
citante proseguire su una strada
che pur annoverava invenzioni
di singolare impatto e di super-
bo mestiere. L’Istituto d’arte
era stato per decenni la fucina
laboriosa che aveva formato de-
cine di autori agguerriti, spesso
chiamati a confrontarsi in ani-
mati concorsi. La rottura con
gli impianti più tipici di gusto
purista, neorinascimentale, ra-
ramente liberty era già percepi-
bile in talune prove a partire da-
gli inizi del Novecento quando
alla dediche tradizionali – alla
Madonnina miracolosa che si
venera in Provenzano il 2 luglio
e all’Assunta il 16 agosto, salvo
carriere straordinarie – si erano
andate accoppiando celebrazio-
ni di anniversari e ricorrenze ri-
levanti di battaglie, personaggi,
santi e vicende le più disparate.
Insomma il Palio – P maiuscola
quando è manifestazione com-
plessiva e p minuscola quando
è corsa – si prestò bene a quel
processo di nazionalizzazione
delle masse o di urbanizzazione
di Roberto Barzanti
pito tutt’altro che semplice. Viene da chiedersi
se sia questo il modo più efficace per esaltare il
cosiddetto multiculturalismo, quando il proble-
ma è stimolare le varie culture a interpretare i
moduli figurativi della festa senese ma senza
eclettismo improvvisato o mix stilistici striden-
ti. Sinta ha presentato un’opera che rivela molto
apprezzabile impegno ma non soddisfa. È un
caso da studiare. Ha avuto – ripreso – un’idea
brillante. Essendo abituata a trattare architettu-
re ha dato al suo palio una struttura architetto-
nica, mutuandola dai riquadri del Pintoricchio
visibili nella Libreria Piccolomini in Duomo
e raffiguranti capitoli della biografia di Pio II.
Fin qui tutto bene. Tanto più che già nel 1955
Dino Rofi, un bravissimo artista senese, aveva
adottato una soluzione del genere per onorare il
Pintoricchio. Ma per il resto ha decorato l’arco
in alto con una serie di barberi dai colori delle
Contrade partecipanti e ha inserito l’Assunta
in un concio poco visibile, centrale e marginale.
Poi ecco due semidischi in tinte acide – il sole e
la luna – che dovrebbero rappresentare opposte
energie in conflitto. Al centro una palma che
è presa pari pari da Pintoricchio e congiunge
prediletto esotismo patrio con creatività rinasci-
mentale nostrana. E Duprè? La parte inferiore
è occupata dal una trascrizione in termini di
commesso marmoreo da pavimento della cat-
tedrale della “Saffo abbandonata”, una scultura
che fece dannare non poco il suo abilissimo au-
tore. Perché proprio Saffo è andata a pescare in
un repertorio cos’ ricco di spunti religiosi certa-
mente più intonati alla bisogna? Infine alla base
un pavimento a losanghe che è lontanamente
imparentato con quello delle Libreria. La Saffo
crea una vasta area bianca che squilibra la com-
posizione. Nel vuoto gli elementi galleggiano
senza incontrarsi. Ecco la dimostrazione che
mettere insieme in chiave postmoderna pezzi
che non dialogano tra loro si traduce in un “pa-
stiche” divertente ma non in una tessitura unita-
ria. L’impegno della donna è fuori discussione e
i mugugni dei conservatori non meritano ascol-
to. Ma nel suo piccolo il drappellone di quest’a-
gosto dimostra che il dialogo tra culture e scuole
e linguaggi è cosa diversa dall’assemblaggio di
elementi che non riescono a connettersi in un
discorso e quindi in un’opera che sappia parla-
re con persuasiva incisività al popolo. Allegoria
di un tema che va bel al di là del circuito del
Campo e del chiacchieratissimo stendardo che
stuzzica tanto – troppo – agonismo.
129 SETTEMBRE 2017
da Claudio Abate come i ritratti “ufficiali” di
molti artisti, ritratti che nascono da una forma
di aperta collaborazione, di sottile intesa e di
palese complicità con gli artisti stessi. Parten-
do dal cerchio degli artisti romani, Abate con-
quista l’amicizia e la fiducia di numerosi artisti
stranieri che passano per Roma, si reca egli
stesso all’estero per conoscerli, e collabora con
alcuni galleristi e critici d’arte, fino ad esporre
le sue opere ai Giardini di Castello in occasio-
ne della Biennale del 1993. Nel corso della
sua attività professionale Abate incrocia tutte
le correnti dell’arte contemporanea dell’ul-
timo mezzo secolo, fra pittura e scultura, dal
figurativo all’informale, ma soprattutto fre-
quenta l’arte povera, minimalista, concettuale,
la body art e la land art, fino al living teather,
attraversandole tutte con leggerezza e con ri-
spetto, diventando egli stesso un curioso spe-
rimentatore del mezzo fotografico, un esperto
manipolatore dei materiali sensibili, sempre
alla ricerca di nuovi mezzi espressivi legati
alla luce ed alle tracce che la luce lascia nel
nostro immaginario. Senza il lavoro di Clau-
dio Abate la storia dell’arte contemporanea in
Italia forse non sarebbe stata diversa, ma di si-
curo ci sarebbero mancate molte delle più alte,
partecipate e decisive testimonianze di molti
dei momenti, spesso irripetibili, in cui questa
storia si è mostrata e manifestata.
Un mese fa si spento a Roma il fotografo Clau-
dio Abate (1943-2017), testimone e protago-
nista della scena culturale ed artistica italiana
degli ultimi cinquant’anni, profondamente le-
gato ai personaggi che questa scena hanno ani-
mato e determinato, in maniera inconfondibi-
le. Abate inizia a fotografare giovanissimo, ed
inizia giovanissimo a frequentare quel mondo
della cultura romana in cui cinema, teatro ed
arte si incrociano e si scambiano intuizioni, sti-
moli, progetti ed esperienze. Sono gli anni Ses-
santa, in cui tutto sembra possibile, in cui tutto
può accadere, in cui si prefigura un mondo
nuovo. Abate incontra i personaggi che vivono
questo momento storico, da Fellini a Carmelo
Bene, diventa fotografo di scena, ed incontra
gli artisti che stanno rivoluzionando l’arte
contemporanea, come Mario Mafai e Mario
Schifano, Jannis Kounellis e Pino Pascali,
Giuseppe Penone e Mario Merz. Con molti di
essi stringe dei duraturi rapporti di amicizia,
scambia con loro idee ed opinioni, e matura
il suo modo di vedere l’arte, ma soprattutto
gli artisti. “Io non guardo solamente l’opera,
osservo l’artista. O meglio, guardo come l’arti-
sta guarda l’opera. Comincio da lì, poi scatto
una foto. Ho sempre cercato il punto di vista
dell’artista, questo è il mio metodo di lavoro”.
Coerentemente con questo principio, Abate si
imbeve delle teorie dell’arte concettuale, fino
a comprendere che l’importante dell’arte non
è l’opera in se stessa, ma è il procedimento che
porta alla sua realizzazione, ed è l’ideazione
dell’opera d’arte che predomina nel processo
di tutto il fare artistico. Ed allora, da testimone,
da osservatore, da spettatore, Abate diventa
egli stesso protagonista, e le sue riprese foto-
grafiche di artisti e di opere d’arte assomiglia-
no sempre di più ad un fare che diventa, di per
se stesso, artistico. Al di là di tutte le sterili po-
lemiche ed i vuoti dibattiti sulla fotografia ar-
tistica e sulla artisticità della fotografia, Abate
proclama con il suo lavoro l’identità profonda
che esiste fra il pensare l’arte, il fare l’arte ed il
fotografare l’arte. La profonda amicizia che lo
lega agli artisti gli permette di entrare nel loro
mondo privato, nel loro essere individui prima
ancora che artisti, e gli permette di raffigurarli
nei loro momenti personali, mentre pensano,
mentre immaginano, mentre creano o instal-
lano le loro opere. Oppure mentre improvvi-
sano atteggiamenti, espressioni o messe in sce-
na ad uso esclusivo del fotografo che li ritrae,
fino al punto di considerare i ritratti scattati
Claudio Abate Fra arte e fotografiadi Danilo Cecchi
139 SETTEMBRE 2017
to Borges cita Russell che, in The Analysis of
Mind, suppone che il pianeta sia stato creato
da pochi minuti, provvisto d’una umanità
che “ricorda” un passato illusorio. Prosegue
Borges: “Un’altra scuola afferma che il tem-
po è già tutto trascorso, e che la nostra vita
è appena il ricordo o riflesso crepuscolare, e
senza dubbio falsato e mutilato, di un pro-
cesso irrecuperabile. Un’altra, che la storia
dell’universo - e in esso le nostre vite, i più te-
nui particolari delle nostre vite - è la scrittura
che produce un dio subalterno per intender-
si con un demonio. Un’altra, che l’universo è
paragonabile a quelle crittografie in cui non
tutti i segni hanno un valore, e che solo è vero
ciò che accade ogni trecento notti. Un’altra
ancora, che mentre dormiamo qui, stiamo
svegli dall’altra parte, e che dunque ogni
uomo è due uomini.” Da quale sconosciuto
scrittore seicentesco Borges ha preso queste
pagine? Qual è l’opera matematica capitale
della civiltà Noga dalla quale Russell ha co-
piato la sua affermazione? E Le parole lievi
di quale capolavoro futuro è la matrice?
Non è una. È due. La realtà. Il regista demiur-
go è uno e due. È lui adulto e lui giovane. È
lui sicuro e lui insicuro, disperato, tremante.
È anche lui grande e lui bambino. Il suolo su
cui camminano è terra e acqua. Le figure che
passano sulla terra e nell’acqua sono vere e
false, reali e immaginarie. Vita e sogno. Re-
altà e finzione. Sempre uno e due. Il distinto
signore grigio con la valigia grigia, la statuaria
coppia di sposi, la donna velata, i ciechi che
avanzano bendati appoggiandosi a una perti-
ca. Ciechi perché bendati o bendati perché
ciechi? Il nero dal fisico prodigioso che re-
cita in inglese era anche nello Shakespeare
dell’anno scorso. Me lo ricordo. Il nero con
l’accento francese era anche nel Santo Ge-
net. Portano con loro un pezzo di quegli spet-
tacoli, delle figure che incarnavano lì. Uno e
due. Orrendamente brutti e mostruosamente
belli. Disfatti e intatti. Loro e non loro. Tra-
sfigurati nel dramma. Con la faccia dipinta,
con la maschera, con il costume. Il ragazzo
con i capelli ricci che gira e gira come in una
danza sufi chissà cosa può aver fatto nella vita
di prima. Nella vita vera. Così bello e triste.
Forse meglio non sapere. Si ha l’impressione
che qui stiano meglio che fuori. Che in que-
sto luogo di sbarre e serrature abbiano trovato
un senso. Quasi una felicità. Una vita. Uno e
due la vita fuori e la vita dentro. I fantasmi.
Le fantasie. I ricordi. Gli incubi. I rimpianti.
I rimorsi. I desideri. Niente di psicologico in
tutto questo. Niente di sentimentale. Niente
di personale. Si tratta solo di conoscenza. Di
vita, sogno e immaginazione. Di incubo. Di
scrittura. Di fantasia. Ormai riconosco alcu-
ni degli attori. Sono attori, autori, soprattutto
sono carcerati. Carcere di massima sicurezza.
Fine pena mai. Professionali. Disciplinati.
Perfetti. Fanno quello che il regista demiurgo
dice di fare. Eppure recitano anche se stes-
si. Uno e due. L’attore e il carcerato. La vita
di prima e la vita di ora. Vera la vita di ora e
falsa la vita di prima? O il contrario. Sogna-
ta la vita di ora? O sognata la vita di prima?
Cos’è che non esiste in questa storia? Cosa è
immaginario? Tutto una finzione? Alla fine
il demiurgo uno e il demiurgo due danzano
lentamente, abbracciati stretti stretti, una
languida milonga. L’uno e il due che si riuni-
ficano? Una speranza? I carcerati rientrano.
Noi torniamo a casa. Speranza? Borges, al
quale lo spettacolo si ispira, scrive in Finzio-
ni: “Una delle scuole di Tlön nega il tempo:
ragiona che il presente è indefinito, e che il
futuro, il passato non hanno realtà che come
speranza o ricordo presente.” A questo pun-
di Melia Seth
Chi sta sognando questa realtà?
149 SETTEMBRE 2017
Sappiamo tutti che i depositi dei musei ita-
liani, sono spesso pieni zeppi di materiali che
non potranno mai essere esposti.
In molti casi questi materiali creano disagio,
difficoltà, forse anche spese, comunque pro-
blemi per chi deve conservarli e giustificarne
la mancata esposizione.
Talvolta esiste anche la difficoltà di renderli
visibili per lo studio.
In anni recenti questi manufatti considerati
di minore importanza si vedono utilizzati
per arredare parcheggi sotterranei e stazio-
ni metropolitane che facendosi spazio nel
sottosuolo, portano alla scoperta di presenze
archeologiche magari marginali e di minore
importanza, per informare i cittadini fre-
quentatori di quei servizi nel luogo stesso
del ritrovamento di una precedente presenza
storica.
Vorrei portare l’attenzione sugli ancora rari
esempi di musei interessati a far conoscere
i loro “più trascurabili reperti”, a mio avviso
particolarmente interessanti, nei quali ho
avuto recentemente occasione di godere di
felici soluzioni espositive.
Dove le persone preposte alla loro conserva-
zione, sono riuscite non solo ad aprire i depo-
siti a loro affidati, ma addirittura a rendere
godibili i materiali in essi contenuti in una
cornice esteticamente e scientificamente ap-
propriata.
Il Museo Egizio di Torino, ha trovato nel suo
ultimo allestimento uno spazio per i numero-
sissimi materiali in deposito (diecimila reperti
finora non visibili) molto funzionale alla visi-
ta.
L’esposizione dei reperti, se pur ricordando
le vetrine dei venditori di souvenir, ha il van-
taggio di informarci e permetterci di formarsi
una scala di valori opportuna in rapporto alla
qualità degli oggetti esposti.
Altro ottimo esempio a mio avviso è rappre-
sentato dal deposito del Museo di Palazzo
Madama, sempre a Torino, organizzato ed
esposto nei sotterranei dell’edificio, visitabili
comodamente con notevole soddisfazione e
stimolando anche nel visitatore il piacere del-
la scoperta.
Ultimo da me visitato in ordine di tempo, il
Palazzo di Wilanów in Varsavia - Polonia.
Costruito per il re Jan III Sobieski con un
meraviglioso parco-giardino, dove i manufatti
scultorei recuperati o sostituiti dai parterre o
dalle facciate del complesso, sono stati ricove-
rati ordinatamente in una recente orangerie
disegnata come una tenda da campo turca,
godibile dal giardino. Mi auguro che questi
esempi “illuminati” rappresentino per tutti
un percorso da seguire nella gestione dei beni
pubblici, in modo tale da rendere visibile e
conoscibile quanto fino ad oggi rimane nasco-
sto e celato a cittadini e studiosi.
di Valentino Moradei Gabbrielli
I depositi svelati
Foto diPasqualeComegna
Mitoraj a Pompei
159 SETTEMBRE 2017
librati nello spazio siderale alla balìa di brezze
interplanetarie.
Un vuoto pneumatico che necessita di un ele-
mento straordinario per concedere la vita a chi
voglia avventurarsi in territori sconosciuti o suo
malgrado ci si ritrovi.
Lo stato di lotta suggerito dalla torsione del
busto e da una contrazione del mento, effetto
della forte aspirazione della bocca, ci fanno im-
maginare di trovarsi di fronte ad un Laocoonte
combattente contro strani serpenti acquatici
coalizzati a formare grosse e viventi cime in-
trecciate.
Ancora ci viene in mente la Medusa con i suoi
capelli di serpenti e lo sguardo pietrificante,
fortunosamente, in questo caso non attivo e
nascosto.
Difficile capire cosa stia effettivamente succe-
La forza di SansoneQuesto lavoro di Cristiana Palandri può es-
sere letto come una narrazione in un’unica
immagine.
Tutto quello che manca deve essere ag-
giunto dallo spettatore sulla scorta evo-
cativa di quello che appare e dall’as-
secondare le suggestioni che da lì si
diramano.
Il titolo: “Blind Hairdo 4” ci sugge-
risce uno scatto cieco e la meticolo-
sa osservanza dei rituali che accom-
pagnano le azioni dei non vedenti.
Lo sguardo negato dalla parola
“blind” trova conferma nella chio-
ma fluentissima dell’eroina prota-
gonista della foto, che nasconde
la parte superiore del suo volto e
quindi anche gli occhi.
Questo ci suggerisce che saranno
altri occhi a guardare e interpreta-
re quello che appare, quelli degli
osservatori.
L’artista deve aver osservato uno
specifico modo di lavorare per aver
ottenuto il risultato che si prefiggeva
essendo sia attrice/modella, sia pro-
priamente l’autrice dello scatto.
Della gran massa di capelli che agisco-
no, non tutti sono della protagonista,
una parte, infatti, non possiede l’irriduci-
bile vigore della vita, ma pare inerte, parte
certamente di un corpo dal quale sono stati
recisi in un altro tempo.
Questi hanno la funzione di collane o più pre-
cisamente di catene che come un alto collare
riducono la libertà della donna rappresentata
che spiritualmente immaginiamo schiava del-
la sua stessa seduzione, come se si fosse voluta
adornare di un qualcosa che improvvisamente
abbia preso una sua vita indipendente, impri-
gionandola, come talvolta fa l’amore.
Gli altri volteggiano immobili tutt’intorno e
paiono risucchiati dalla sua bocca con una ve-
emenza che lascia supporre che questo deside-
rio sia l’indispensabile ricerca di un elemento
vitale, al quale dobbiamo la nostra sopravvi-
venza, infatti la scena sembra essere ambien-
tata in una atmosfera priva di ossigeno, vuoi
nell’acqua, vuoi nello spazio etereo. I capelli,
dunque, sembrano fluttuare leggeri in un liqui-
do stagnante, simili ad alghe marine, ma anche
di Claudio Cosma
dendo e dove, un misto di bellezza e di orrore
si succede a seconda di dove dirigiamo lo sguar-
do, certamente la forza di Sansone fa di que-
sta chioma un talismano potentissimo che ci
permette di attribuire all’immagine un potere
salvifico.
Le sette sorelle Sutherland scritturate dal circo
Barnum per i loro capelli lunghi dodici metri.
Le lozioni, i balsami, gli shampoo dell’odierna
pubblicità, il terrore della calvizie, la bellezza di
questo strumento di seduzione, ingrediente di
filtri e talismani, eterno feticcio d’amore, tutto
concorre a farci stregare da “Blind Hairdo” che
mantiene intatto il suo segreto.
Per finire cito la filastrocca di una novella dei
fratelli Grimm:
“Oh Raperonzolo, sciogli i tuoi capelli
che per salir mi servirò di quelli”
169 SETTEMBRE 2017
“Niente è più mobile dell’immobile archi-
tettura”. Con queste parole Gianni Pettena
ha commentato per Cultura Commestibile
la sua mostra “Architetture Naturali” che è
in corso fino al 24 settembre 2017 al Me-
rano Arte, Portici 163 nell’edificio della
Cassa di Risparmio a Merano. Una mostra
che seleziona alcune opere di Pettena con
l’obbiettivo di dimostrare l’influenza del
paesaggio montano altoatesino, che Pette-
na visse in gioventù (natoa Bolzano vive e
lavora a Fiesole e Firenze), nella sua opera.
In realtà dalla visione della mostra si per-
cepisce la formidabile capacità di interpre-
tazione dei luoghi che Gianni Pettena ha
dimostrato fino dalla sua prima esperienza
di docente negli Stati Uniti. Una lettura
del sito che vede oltre il reale per cogliere
elementi germinativi del luogo. Una lettura
che cerca di individuare gli elementi costi-
tutivi dell’architettura insiti nel paesaggio
quasi a cercare l’architettura come già pre-
sente nel sistema naturale, come nella serie
di foto “About non-conscious architecture”,
oppure a dimostrare, icasticamente nei di-
segni della città che rovina nel tempo, che
l’architettura è destinata a dissolversi nel
paesaggio come nell’opera Secoli e Millen-
ni. Una mostra che sfugge alla classificazio-
ne voluta dalla curatrice Christiane Reka-
de per fare emergere in modo prepotente
la capacità di Pettena di essere “docente
vita natural durante”, di cogliere ogni occa-
sione per “trasmettere conoscenza”. È una
trasmissione di conoscenza e di esperienza
l’installazione “Paper” qui realizzata a se-
gnalare la verticalità del vano scale dell’e-
dificio, ma che riecheggia quella installata
per la prima volta nel 1971 a Minneapolis
dove gli studenti per poter entrare nella sala
dove Pettena avrebbe tenuto la conferenza
dovettero farsi strada nella foresta di carta
tagliandola. È una esperienza progettuale e
sensoriale l’opera “Human wall” che pone
lo spettatore davanti ad una parete di argil-
la lavorata a mano dove la forza dell’opera
manuale è evidente dalle impronte che
segnano l’opera. E anche quest’opera rie-
cheggia l’installazione che Pettena realizzò
nel 1972 quando ricoprì completamente di
argilla, con l’aiuto degli studenti (il docente
che sempre è presente), la casa di un comu-
ne amico, trasformando un tipico edificio
dei sobborghi statunitensi in un’enorme
scultura. È infine una esperienza sensoria-
le l’opera “Paesaggi della memoria” dove il
profilo delle montagne dell’Alto Adige, rea-
lizzato in pannelli di plexiglas e trasporta-
bile in una valigetta, sempre di plexiglas, è
posizionato su una spiaggia dove l’impronta
di un uomo disteso rimanda alla visione che
si può avere dell’opera una volta montata
nel luogo (a scelta di chi trasporta la vali-
getta). Una mostra piccola ma che coglie
appieno la personalità di Pettena che non
trascura mai aspetti anche ludici e di gran-
de delicatezza, come per l’opera “Breathing
wall”, e che è segnata, in modo quasi invi-
sibile, dalla preghiera del Padre Nostro in
Tedesco Antico che Pettena aveva impara-
to a memoria da bambino.
La mobilità dell’immobile
di Gianni Biagi
179 SETTEMBRE 2017
“Io mi sento hegeliano”, così mi si presenta Ga-
briele Di Virgilio, giovane artista fiorentino appe-
na ventenne e la frase smuove i fondali della mia
memoria facendo riaffiorare tracce di un’antica
passione per il pensiero puro, dell’entusiasmo
per la dialettica hegeliana e poi marxiana, radi-
ci della mia esistenza. Il progetto fotografico si
materializza in “Hands”. Un oggetto concepito
e realizzato all’interno di OFFICINA NAG di
cui Gabriele è co-founder (www.nag-atelier.it).
“Hands“ non è solo un oggetto da parete, è un
sistema di relazioni, un filo evolutivo. Insieme
le mani si stringono, parlano e, insieme all’os-
servatore, si muovono. Il pensiero e le immagini
di Gabriele sono lucidi e incisivi. La mano è al
centro della sua riflessione come della sua opera;
“ la mano è la finestra della mente “; è con que-
sta citazione di Kant che comincia un suo breve
scritto esplicativo che collega, con estrema agi-
lità, elementi di pensiero filosofico sul tema alla
sua esperienza personale cominciata con “la pas-
sione di fare, costruire, lavorare, toccare e sentire
il legno”, ovviamente con le mani. Naturalmente
si tratta di un sentire e un fare che, secondo la sua
citazione di Heidegger, “’poggia sul pensiero”,
la mano come cervello esterno dell’uomo, dato
identificativo e distintivo rispetto agli altri anima-
li. Mano che si collega agli occhi e allo strumento
della macchina fotografica nei viaggi che Gabrie-
le sente di dover intraprendere nel suo percorso
di studi per scoprire se stesso, lo spirito del mon-
do , il logos e forse Dio. Mani che raccontano
percorsi esistenziali, fatiche e dolori, bellezza,
diversità, speranze di vita, presagi di morte.
Gabriele Di Virgilio prova a inquadrarle nel le-
gno, una materia amata e vissuta, consentendo
punti di vista e angolazioni diverse, che aiutino a
comprendere come “la mano sia un nodo natura-
le”, un tramite che ci collega al mondo materiale
e spirituale. Le immagini e il pensiero di questo
giovane artista mi richiamano con insistenza l’in-
cipit di una poesia di Rainer Maria Rilke dedica-
ta alla Madonna:
“Du bist nicht nacher an
Gott als wir;
wir sind alle weit.
Aber wunderbar sind dir
die hande benedeit.”
Che nella traduzione di Giaime Pintor sono:
“Tu non sei più vicina a Dio di noi.
Siamo lontani tutti.
Ma tu hai stupende,
benedette le mani...”
Sento vicini questi versi alle vivide intuizioni e
alla sintesi espressiva di Gabriele Di Virgilio: le
mani umane come ponte tra la materia e l’uni-
verso, per conoscere, per plasmare, per cambiare
il mondo alla ricerca della sua essenza.
di Mariangela Arnavas
Mani
189 SETTEMBRE 2017
Chi ha avuto modo di apprezzare la mostra
che Pepi (al secolo Stefano Chelotti) ha re-
centemente tenuto a Lucca, ha potuto scopri-
re le sue opere, quadri piacevolmente origina-
li e di grande interesse. Dopo aver conosciuto
l’artista in maniera più approfondita, sono ar-
rivata alla conclusione che, per definire e de-
scrivere la sua personalità e la sua dimensione
artistica, debbano essere usati aggettivi come
eclettiche, poliedriche, multiformi.
Artisticamente Pepi nasce come musicista; la
passione per la musica e il desiderio di ripro-
durre ed ascoltare suoni lo accompagnano fin
da bambino e, all’età di 15 anni, inizia a suo-
nare il basso elettrico.
Da allora si susseguono le collaborazioni con
diversi gruppi musicali (Box Demolition, Ste-
reo88, Greatestizi, DOOWOP, Stefano Not-
toli band, My favorite trio), con i quali mette
insieme più di 500 serate di concerti dal vivo.
Ma non per questo dimentica quella che, co-
munemente, viene definita “musica seria” e
ottiene il diploma di Compimento Inferiore
per solfeggio e contrabbasso al Conservatorio
Luigi Boccherini di Lucca.
Si dedica anche all’attività compositiva (van-
ta due dischi autoprodotti) e, in questa veste
è membro dell’Associazione di Compositori
Musicali Cluster. Inoltre, da appassionato di
musica e cultura orientali, suona il setar e il
sitar indiano.
Altra tappa fondamentale del suo versatile
percorso formativo (che ha finito per influen-
zare anche la sua parte creativa e in particola-
re i quadri) è stato il completamento del per-
corso di studi in Psicologia Clinica.
La mostra citata all’inizio, che ho avuto il
piacere di ammirare (alcune opere sono state
usate anche per rappresentazioni musicali), si
compone di più di 40 collage assolutamente
originali e pieni di creatività, prodotti in poco
più di un anno e quindi a ritmi creativi incal-
zanti, ma la grande quantità non è certo anda-
ta a discapito della qualità, anzi!
In questa sorta di manifesto collettivo post-
punk contemporaneo, utilizzando ritagli di
riviste di arte, rotocalchi, libri sulla natura e la
musica, i pensieri, i
colori ed i suoni si trasformano in immagini,
capaci di evocare avvenimenti o di caratteriz-
zare periodi con la forza iconica della miglio-
re pop art.
Pepi mi ha raccontato che queste sue opere
nascono principalmente di sera, dopo una
giornata di lavoro come psicologo, quando
diventa impellente la necessità di dare forma
alle sensazioni provate nelle ore dedicate ai
di Monica Innocenti
I collagesdel musicista
corso creativo di Pepi è tutt’altro che concluso,
sta evolvendosi ulteriormente e, con un piz-
zico di mistero, non ha voluto rivelare in che
modo: restiamo in attesa di goderci le novità.
Prossimamente, oltre a realizzare uno storytel-
ling, esporrà ancora a Lucca, in una galle-
ria-bar in via del Battistero e, in autunno, in
una mostra collettiva presso il Caffè Lettera-
rio.
Ma sta lavorando anche all’ambizioso progetto
di una mostra personale a New York; a questo
proposito sta mettendo in movimento tutti i
suoi contatti nella Grande Mela: non mi resta
che fargli un grosso in bocca al lupo!
malati psichiatrici.
Una cornice è quello che gli permette di, figu-
rativamente, contenere quello che prova con-
frontandosi con la schizofrenia e con le fanta-
sie e le fobie che vivono le persone con cui è
quotidianamente in contatto.
Ma non ho parlato a caso di eclettismo; il per-
199 SETTEMBRE 2017
Minosse la accomuna nel destino dei re (“Ora
sei la regina”) e lei si smarrisce (“Ora non so
chi sono”) e non riesce a fare il passo verso la
libertà, l’ingresso nel labirinto (“Oh fratello
solitario, mostro capace di sopraffarmi perfino
nell’assenza, di rivestire di paura la mia prima
tenerezza!”). Ecco qui il duplice drammatico
motivo del testo di Cortazar: l’inevitabilità del
destino dei re e del potere e la forza soccom-
bente della libertà e della poesia. Per quanto
diversi (ma non poi molto) i due re, Minosse e
Teseo, sono complici nel realizzare il mito per
cui sono stati creati. Certo Minosse traduce
con la razionalità della parola e del pensiero
l’inevitabilità di questo destino comune (“Sen-
to la necessità quasi orribile che tu sia qui, che
noi ci troviamo di fronte vicino al muro, sotto
gli occhi di Arianna”) e Teseo non sopporta
la ragione e agisce secondo l’istinto dell’eroe
(“Non credere che ti segua nei tuoi rapidi
giochi. Mi obbedisco senza troppe domande.
All’improvviso so che devo sguainare la spada.
Avessi visto Egeo quando mi unii ai condanna-
ti. Voleva ragioni, ragioni. IO sono un eroe, cre-
do che basti”). Ma l’uno è lo specchio dell’altro
e le loro azioni, per quanto opposte, dirigono
verso lo stesso fine: Teseo uccide Minotauro
per lo stesso motivo per cui Minosse lo ha do-
vuto rinchiudere e Minosse confesserà a Teseo
che “In fondo lo ucciderai per gli stessi motivi
per cui io temo di ucciderlo. Solo i mezzi cam-
biano, prima o poi toccherà anche a te saperlo”,
preconizzando per Teseo la terribile condanna
della conoscenza, della consapevolezza.
Ma se i due re incarnano l’essenza del potere,
quello assoluto del tiranno e quello sanguina-
rio dell’eroe, è Minotauro - nel rovesciamento
di Cortazar – l’incarnazione dell’ideale puro
della libertà. Nel dialogo con Teseo gli spiega
perché non sarà la spada, né il suo sguardo giu-
dicante che farà di lui un mito (“non è con gli
occhi che si affrontano i miti. Neppure la tua
spada mi si addice. Dovresti colpire con una
formula, un salmo: con un altro racconto”). Il
solo mezzo per uccidere i mostri è accettarli,
ma questo Teseo, la società che lui rappresenta
– ieri e oggi – non può, non riesce a farlo. Così
gli concederà il collo per il colpo mortale, che lo
libererà dal labirinto e imprigionerà lui, Teseo:
“Morto sarò più io”, ma inizierà la fine di Te-
seo, “tu ti sminuirai, conoscendomi sarai meno,
andrai precipitando in te stesso come si sgre-
tolano a poco a poco i dirupi e i morti”. Morto
il Minotauro, Teseo resterà solo ad ascoltarsi
e dal suo atto, ineluttabile forse, nascerà al li-
bertà finale (“Che ne sai tu di morte, tu che
doni la vita profonda”). Il dialogo fra Teseo
e Minotauro è il punto più alto del dramma:
se Teseo, al culmine della razionale decisione
omicida, dice che Minotauro sarà presto “un
ricordo morto con il tramonto del primo sole”,
il mostro risponde che lo precederà da Arianna
ponendosi “fra lei e il tuo desiderio” e il trion-
fo del vincitore si trasformerà nella condanna
per il suo trono: “Ti acclameranno gli uomini
del porto. IO scenderò ad abitare i sogni delle
loro notti, dei loro figli, del tempo inevitabile
della stirpe. Da lì incornerò il tuo trono, lo scet-
tro incerto della tua razza... Dalla mia libertà
finale ed ubiqua, dal mio labirinto minuscolo
e terribile in ogni cuore d’uomo”. E quando
l’oblio avrà ingoiato la sua figura, “nascerò dav-
vero nel mio molteplice regno. Lì abiterò per
sempre, come un fratello assente e magnifico”.
Il mito, la poesia è il mostro, il diverso, il mol-
teplice e ubiquo; l’unica possibile altra realtà
rispetto a quella razionale del potere, capace di
scardinare la normalizzazione e la repressione
di cui sono portatori Minosse e Teseo. È l’in-
concepibile alterità della poesia che, morendo
alla realtà, disvela nuovi e infiniti mondi di
significati: qui il Minotauro continua a vivere
nei nostri sogni. Archivio Zeta così continua,
al Passo della Futa, la sua ricerca e la sua inda-
gine sulla violenza e sulla debolezza del potere,
questa volta con un autore moderno che offre,
nel rovesciamento del mito, una via d’uscita
dal labirinto in cui tutti ci troviamo.
di Simone SilianiPoema drammatico di re quello messo in scena
da Archivio Zeta al Cimitero di guerra germa-
nico del Passo della Futa dal 5 al 20 agosto: “Il
Minotauro” è il testo pubblicato da Julio Cor-
tazar nel dicembre 1947 con il titolo “I re”, nel
quale il drammaturgo argentino non soltanto
rovescia il mito della tradizione giunto a noi in
vario modo attraverso Ovidio, Plutarco, Ome-
ro e Apollodoro, ma assorbe, indaga, dram-
matizza e vive i suoi temi principali nella vita
contemporanea. È nel suo labirinto di scrittore
e intellettuale che ci addentriamo con “I re”;
è nel nostro personale labirinto interiore che
siamo invitati ad entrare nella drammaturgia
di Gianluca Guidotti e Enrica Sangiovanni
nel silenzio delle 30 mila lapidi di soldati te-
deschi, giovani “figli di nemici” come Minosse
chiama Teseo nel loro dialogo, di cui ci sco-
priamo ogni volta che saliamo su questi monti
così diversi e al contempo somiglianti. Come
per il Minotauro morente nel testo di Corta-
zar, quassù “cresce come il vento un bisogno
di silenzio” ed ormai il mostro ucciso (scon-
fitto il nazismo) anima i nostri sogni e “siamo
liberi” esultano i giovani ateniesi destinati al
sacrificio “Ma non per la sua morte...”. Tenia-
mo in mano il filo rosso che Arianna dona a
Teseo quale soluzione dell’enigma di Dedalo
che è il labirinto, quel viaggio verso la morte
che – nella figura spiraliforme (“il simulacro
della chiocciola”) - giunto al punto centrale,
si rovescia in un movimento contrario, dal
centro verso l’esterno, dalla morte verso la
vita. Ma, nel mito rovesciato di Cortazar, quel
filo rosso è anche un messaggio di amore che
Arianna rivolge al mostruoso fratello e che an-
che noi dobbiamo avere la forza di tenere in
mano in questi tempi così difficili e mostruosi
(come dice Minosse a Teseo promettendogli
Arianna in sposa al suo ritorno dal labirinto,
“Ci sono sempre gli africani per alimentare il
prestigio del mostro”). Il mostro, il disumano
sconosciuto, l’insopportabile diversità per il
potere è fratello dello stesso labirinto, è il suo
stesso carcere ad averlo generato, proclama il
re Minosse: il Minotauro esiste per volontà (o
destino?) del potere e al contempo esistendo
legittima il potere (“Fu necessario vestirlo di
pietra perché non mandasse in frantumi il mio
scettro”), perché è “l’artificio di pietra, la sua
prigione” che lo rende funzionale al potere e
sopportabile a se stesso (“Qui ero specie e indi-
viduo, cessava la mia mostruosa discrepanza”).
Ma è Arianna che gli riconosce l’umanità che
infine il testo di Cortazar mette in risalto. E
quando, nel dialogo con Minosse, questa cer-
tezza di fratellanza di Arianna vacilla, allora
Labirinti
209 SETTEMBRE 2017
Continua, fino al 15 settembre, negli spazi
della Galleria Alessandro Bagnai, a Foiano
della Chiana, la mostra CIAO di Massimo
Barzagli, a cura di Saretto Cincinelli L’espo-
sizione presenta il lavoro degli ultimi tre anni
dell’artista, ed è articolata in tre grandi instal-
lazioni, quattro video proiezioni e un testo tra-
smesso da una fonte audio.
La prima installazione “il domatore di pelu-
che” è composta da un polittico formato da
otto opere dipinte su grandi teloni plastifica-
ti: impronte dipinte ad olio che come lo stes-
so titolo CIAO evocano, una certa atmosfera
neorealista italiana. La seconda installazione
è costituita da un gruppo di sculture in gesso
colorato in impasto, attraversate da cinghie di
vari colori usate per il sollevamento di mate-
riali pesanti: impronte di mani e braccia decli-
nate prevalentemente nei colori azzurro, rosa,
giallo e verde. L’opera scultorea si configura
come un relitto o meglio come un relitto di re-
perti. La terza grande opera, infine, si presenta
come una grande caduta di mattoni colorati
che mostrano in una delle proprie facce l’ag-
getto scultoreo di un uccello tra i rami che fuo-
riesce dalla sagoma del mattone caduto.
La fonte audio è un testo elaborato nel 2014,
e presentato in forma di installazione sonora
alla Biennale di Venezia di Rem Koolhaas
all’interno della mostra “Mondo Italia”. Il testo
Dal 1992 Alessandra Borsetti Venier si è posta
l’obiettivo di fare della propria casa un luogo
d’incontro e confronto artistico all’insegna del
“fare arte”, in collaborazione con la casa editri-
ce MORGANA EDIZIONI, dell’associazio-
ne culturale MultiMedia91 e dell’Archivio del-
la Voce dei Poeti. Anche quest’anno la XXVI
Rassegna internazionale “Incontri d’Arte”
(seconda parte) si concretizza nella splendida
cornice della Val di Sieve a “La Barbagianna:
una casa per l’Arte Contemporanea”, nella
consapevolezza che il mondo contemporaneo
necessita di un’armonizzazione e fratellan-
za delle diverse tendenze estetiche per poter
cogliere maggiormente l’operatività artistica
oltre il Sistema. Proprio all’insegna della con-
divisione, sabato 9 settembre dalle 17.00 in
poi, verranno presentate le mostre “Diverso
Femminile” di Carlo Cantini, con interventi
di Valerio Dehò e Gemma Bechini e “Riportati
alla luce” di Vanessa Costantini, presentata da
Andrea Granchi e Laura Monaldi. Seguiranno
le performance di Massimo Mori “ POESIA
AGENDA EST... performando l’esistere”, di
Luca De Silva “La Concentrazione dell’Uno
intesto come Ovunque” con musiche di Cri-
stiano De Silva e di Elisa Zadi “Pensiero-A-
zione-Destino” con intervento critico di Erika
Lacava; la presentazione del libro “Acronos”
di Antonino Bove in dialogo con Aldo Fran-
gioni; gli annuali incontro con la Performance
Art con i performer Nicola Bertoglio, Manuela
Mancioppi, Murat Onol, Lorena Peris, Niou-
sha Rezaeinia che realizzeranno le loro azioni
e installazioni in vari luoghi interni ed esterni
della casa; Giacomo Verde, docente di Teatro
multimediale alla Alma Artis Academy di Pisa,
presenterà il Collettivo SUPERAZIONE e,
a seguire, terrà una conferenza su PERFOR-
MANCE E CORPI DIGITALI; inoltre sarà
proiettato il mediometraggio ACRONOS del
regista Maicol Borghetti.
a cura di Aldo Frangioni
di Laura Monaldi
Il Ciao di Massimo Barzagli
-parte della collaborazione di Massimo Barza-
gli con Luisa Cortesi- si materializzava all’in-
terno dello spazio dell’Arsenale come una
struttura sonora architettonica della durata di
3 ore e 40, diffusa ininterrottamente durante il
tempo dell’esposizione, anche questo testo tira
in ballo, sia pur sarcasticamente, un atmosfera
neorealista.
Le quattro videoproiezioni sono una variazio-
ne in 4 toni dello stesso filmato girato in Sarde-
gna che mostra il frangersi di un onda su uno
scoglio e -come ha notato Saretto Cincinelli-
adombrano la citazione di un dipinto di Gu-
stave Courbet, restituito tramite la variazione
tonale di Andy Warhol.
Ciao è anche una accumulazione di impronte
di fiori fuse in lastre di gesso dal colore natu-
rale cui sono legati fiori di plastica con elastici
colorati…
Il frangersi delle onde sullo scoglio, la diffu-
sione del sonoro e le installazioni scultoree in
forma di accumulo o relitto il galleggiare dei
peluche non possono non assumere un valore
allusivo e metaforico
Alberto Boatto concludeva in un bellissimo te-
sto del 1994 su Massimo Barzagli con queste
parole: gettare i fiori su questi volti assume il
senso di un gesto di addio.
La Barbagianna: una casa per l’arte contemporanea
219 SETTEMBRE 2017
di Bernardino Pasinelli Il libro “Cosa avrei potuto fare? Storie di ebrei in
Valle Camonica tra fuga e Resistenza” di Serena
Furloni, Federico Mondini e Bernardino Pasinelli
nasce dal progetto RIMON-Melograno: “Itinerari
ebraici in Lombardia” della Comunità Ebraica di
Milano, coordinato dal Distretto Culturale di Valle
Camonica e sostenuto da vari Enti lombardi e dalla
Fondazione Cariplo.
I due giovani laureati, Serena Furloni e Federico
Mondini, hanno svolto interviste e ricerche in archi-
vio che sono state integrate e approfondite dall’ar-
chivista Bernardino Pasinelli, impegnato da anni a
fare conoscere la storia della ex colonia alpina fa-
scista a Selvino (Bg) che tra il 1945-48 accolse circa
800 orfani ebrei sopravvissuti ai campi di stermino
(www.sciesopoli.com).
Nel triangolo montato tra il lago d’Iseo, le provincie
di Brescia, Sondrio e Bergamo e le Valli Camonica,
Valtellina e Valseriana, sono state rintracciate alcu-
ne piccole e grandi storie sulla persecuzione ebraica
tra il 1940 e il 1945. Sono le storie di ebrei in fuga,
di singoli e di famiglie, storie di salvezza e di tradi-
menti, storie di speranza e di paura, storie di dolore
e di guerra, storie di odio e di generosità, storie di re-
sistenza e amicizia. Come la storia della più grande
fuga mai organizzata dagli ebrei in Italia per fuggire
in Svizzera da Aprica (Sondrio), dove erano confina-
ti come “internati civili” circa 300 ebrei per lo più
jugoslavi detti “zagàbri”.
“Cosa avrei potuto fare?” è la domanda di una gio-
vanissima viennese, Toni Jetter, diplomata in die-
toterapia e fuggita in Italia per cercare la salvezza
dall’occupazione nazista di Vienna. Ma in Italia non
sfuggì alle leggi razziste del fascismo, alla carcerazio-
ne e all’internamento tra Cuneo, Lanciano, Breno e
infine fuggire in Svizzera.
Il fascismo aveva trasformato l’Italia in un carcere
diffuso su tutta la penisola e nelle terre occupate.
Circa 50 campi e luoghi di detenzione e circa 650
Comuni furono le prigioni di questa forma omeo-
patica di controllo e deportazione di ebrei, nemici,
oppositori e minoranze perseguitate.
I nomi di circa 9.500 ebrei stranieri, internati in Ita-
lia tra il 1940 e il 1943, sono elencati in un database
online realizzato dall’encomiabile lavoro di Anna
Pizzuti: www.annapizzuti.it/
Un altro sito internet ci aiuta a visualizzare con in-
credibile efficacia l’immagine di questa Italia fasci-
sta e repressiva fattasi galera: www.campifascisti.it
L’internamento a Lanciano (Chieti) è raccontato
nel libro “L’internata numero 6” pubblicato in otto-
bre 1944 a Roma, città liberata dagli Alleati, da Ma-
ria Eisenstein, nome d’arte di Maria Ludwika Mol-
dauer che era fuggita dalla Polonia, aveva studiato
a Firenze laureandosi su Goethe e poi era andata a
vivere in Sicilia. Nel 1940 venne arrestata e impri-
gionata a Catania perché ebrea, quindi trasferita nel
Cosa avreipotuto fare?
glie del Mortirolo in cui i partigiani sconfissero le
truppe nazifasciste, più numerose e meglio armate.
Suo padre Dario Levi e la zia Gina Levi erano iscrit-
ti alla Comunità ebraica di Mantova. Anche Lionel-
lo e il fratello Luigi vi erano stati iscritti, ma vennero
depennati in data 14 ottobre 1938, subito dopo il
censimento degli ebrei e l’emanazione delle prime
leggi razziste del fascismo. Molti altri ebrei fecero
la stessa scelta, alcuni si fecero anche battezzare
nel tentativo di salvare le loro vite, come avevano
dichiarato gli ebrei di Aprica, annunciando al Que-
store di Sondrio la loro imminente fuga, subito dopo
l’8 settembre 1943.
La figura di Lionello emerge per il valore del suo
impegno umano e civile, prima come comandante
partigiano e poi come politico socialista. Dal 1961
al 1970 rivestì ruoli importanti
nell’Unione Europea interessan-
dosi di affari sociali e legislazione
del lavoro, per un’Europa dei dirit-
ti sociali, come avevano sognato gli
uomini delle Resistenze europee.
L’archivio personale di Lionello
Levi Sandri è conservato in 35
scatole negli Archivi storici dell’U-
nione Europea che si trovano a Fi-
renze e l’inventario è consultabile
online: http://archives.eui.eu/en/
fonds/156740?item=LLS
Non manca una storia davvero speciale: quella di
Giacomino Sarfatti. Nato a Firenze nel luglio 1920,
a diciotto anni Giacomino Sarfatti emigrò in Inghil-
terra per cercarvi ciò che nel 1938 gli era stato proi-
bito in Italia. Nel novembre 1940 si arruolò nell’e-
sercito inglese dello Special Operations Executive
(SOE) un corpo segreto incaricato di occuparsi di
“sabotaggio, sovversione e sostegno alla resistenza
popolare all’interno del territorio nemico”. Fu ad-
destrato come operatore radio e nel dicembre 1942
entrò clandestinamente in Italia con sede a Milano,
in contatto con i superiori inglesi a Berna. Aveva il
nome di copertura di Giacomino Rossi. Il 21 gen-
naio 1944, si trovò in serio pericolo a causa di un
doppio-giochista. Fu salvato dalle Fiamme Verdi
allertate dagli inglesi e portato in Valle Camonica.
Svolse vari compiti, con periodi a Milano e ad Ap-
piano Gentile nel comasco e mantenne contatti ra-
dio tra i principali centri resistenziali della penisola.
In agosto scampò a un’irruzione fascista saltando da
un tetto. In Valle Camonica la sua base per alcune
settimane fu a Corteno Golgi nei pressi di Aprica. A
metà ottobre del 1944, il comando inglese lo fece ri-
entrare in Svizzera. Un’anziana donna di Edolo, che
lo aveva aiutato, lo ricordava come un uomo smilzo
con i baffetti, una persona idealista e riservata che
sapeva ispirare fiducia. In Italia dopo la guerra, è sta-
to assistente e professore di botanica nelle università
di Firenze, Bari, Camerino e Siena. È morto a Siena
il 28 gennaio 1985.
campo di concentramento di Lanciano. Delle 70
donne che vi erano rinchiuse in quel periodo, solo
due donne si salvarono: Maria e una sua amica, che
riuscirono a emigrare in America. Le altre vennero
deportate ad Auschwitz per morire di fame, di tifo,
di freddo. Appena arrivate al lager, le più anziane
furono eliminate col gas.
Per fortuna Toni Jetter riuscì a salvarsi fuggendo
in Svizzera, subito dopo avere ascoltato alla radio
l’ordinanza del 30 novembre 1943 di Guido Buffa-
rini Guidi, ministro dell’Interno della Repubblica
Sociale Italiana, già podestà di Pisa, che disponeva
l’arresto di tutti gli ebrei, anche se discriminati.
Dal passo di Aprica altri ebrei fuggirono verso la
Svizzera, la frontiera della speranza che accolse
6mila ebrei, ma ne respinse ben 9mila. Vi transitò
anche la famiglia di uno dei maggiori jazzisti
europei, Oskar Klein, suonatore di tromba e
chitarra, in fuga con la famiglia dall’interna-
mento nella provincia di Vicenza. Il jazzista aveva
solo 14 anni. Dopo la fuga in Svizzera tornò a Firen-
ze dove e a diciannove anni insegnava in una scuola
ebraica e continuava a suonare musica da ballo e
jazz. La sua storia ha ispirato il recente film “Oscar”
di Dennis Dellai www.oscarilfilm.com
Un altra incredibile storia è quella di Lionello Levi
Sandri, un comandante partigiano in Valle Camoni-
ca, di padre ebreo e di madre cattolica. Dopo avere
scelto la strada dei monti, fuggendo da Brescia insie-
me alla moglie incinta e al fratello minore, Lionello
accettò l’incarico di svolgere una missione presso
gli Alleati nelle zone dell’Italia libera. La missione
partì ai primi di dicembre del 1944 e rientrò il 13
febbraio 1945, paracadutata sul Mortirolo. In suo
onore quella missione venne chiamata “Francona”,
dal suo nome di battaglia che era “Franco Novelli”.
In appendice al libro, è riportato il diario di questa
missione nell’Italia liberata, pubblicato sul giorna-
le clandestino “Quaderni del Ribelle” in febbraio
1945. Una testimonianza da leggere a scuola per
comprendere la complessità di quegli anni di guer-
ra, un diario vivo come se fosse un blog che ha il rit-
mo del dramma teatrale.
Nel libro per ragazzi “Piccole Fiamme Verdi”, scrit-
to dal partigiano Enzo Petrini nel 1946, il capitolo
“Qualcuno scende dal cielo” è dedicato a Levi San-
dri, il “comandante Franco”.
Tornato in Val Camonica con i suoi compagni, Lio-
nello riprese il comando dei partigiani della divisio-
ne “Tito Speri”, che guidò nelle due famose batta-
229 SETTEMBRE 2017
Don Giovanni Vegni, nato nel 1876, fu no-
minato il 31 marzo 1907 Parroco di S. Fe-
licita. “Giovane di anni, giovane di pensie-
ro, ardente di animo […] destò un vero
fanatismo nella popolazione e specialmen-
te nei giovani” [A.S.P.S.F., Ms.730,
pp.586-597]. Noto a tutti perché nei sei
anni precedenti aveva già servito questa
Chiesa in qualità di Curato. Si impegnò a
riportarla agli antichi splendori, ristabilen-
do tradizioni liturgiche peculiari di S. Feli-
cita come il “Quaresimale quotidiano […]
rinomato quanto quello del Duomo e di S.
Maria Novella”. E così ogni anno grazie
alle sue iniziative “si vide con grandissima
soddisfazione di tutti nuovamente l’antico
pulpito - effimero ancora
esistente - e l’antico tendo-
ne [pavonazzo]”. Don Ve-
gni fece restaurare il
“Quartiere del Predicato-
re” e gli ex-ambienti clau-
strali connessi alle attività
di Parrocchia; ristabilì la
“Messa cantata solenne in
Musica” riprendendo l’an-
tica tradizione liturgica
cara ai Granduchi Lorene-
si, parrocchiani di S. Feli-
cita. Egli stesso, con la sua
bella voce, cantava nella
Messa del Perosi. Sempre
nella tradizione religio-
so-musicale lorenese di
questa Chiesa, ricostituì
nel maggio 1915 una
“Cappella di musica stret-
tamente classica e liturgi-
ca” e la inaugurò in occa-
sione del ripristino del
culto dell’Arcangelo Raf-
faello. Per la sua sensibili-
tà nei confronti di questa
figura biblica, si può attri-
buire a Don Vegni l’affet-
tuoso disegno a matita di
un S. Raffaele e Tobiolo
eseguito in una parete dei
“soffittoni” di S. Felicita
allora abitati dai Curati
[fig.1]. Inoltre, per i soldati
caduti in guerra volle in
loro suffragio le “Quaran-
tore solennissime” con tut-
to il loro apparato di effi-
meri; per ampliare gli
spazi della Chiesa affinché
il servizio liturgico venisse accompagnato
con grandiosa sacralità e dignità, nel 1912
chiese al Demanio di ottenere la cessione
in uso, - anche se temporanea e revocabile
- dei due Coretti (quello Granducale e
quello delle Cameriste) per destinarli alla
Cappella Musicale, come pure della sca-
letta che li metteva in comunicazione e
dell’andito intra muros uti-
lizzato per gli spostamenti
di persone e cose nelle oc-
casioni più solenni [fig.2].
Quando il 1° febbraio
1914 Don Vegni ricevette
gli Atti definitivi della
Cessione - approvati
dall’Intendenza di Finan-
za (Int. Beltrami A.), dal
Ministero dell’Istruzione
Pubblica, dal Direttore
della Real Casa (Dir. Nuti
O.) e dal Direttore delle
RR. Gallerie, il celebre
Giovanni Poggi - non sape-
va che questo gesto avreb-
be salvato la vita a molti
ebrei e partigiani durante
il Secondo Conflitto mon-
diale. Ecco ciò che avverrà
in effetti. Il Parroco che su-
bentrò a Don Vegni si chia-
mava Don Luigi Gargani.
Nato nel 1881 a S. Minia-
to al Tedesco (PI), decise a
12 anni di farsi sacerdote.
A Roma studiò presso il
Seminario Pontificio dove
si trovò insieme al futuro
Papa Roncalli e con lui ri-
cevette il Suddiaconato
nel 1902 in S. Giovanni
Laterano. Due anni dopo,
nel giorno dell’Assunta,
disse la sua prima Messa.
Nel 1929 giunse a S. Feli-
cita dove rimarrà fino
all’anno della morte: fu lui
che visse nella Parrocchia
di S. Felicita la Seconda
di M. Cristina François 4 agosto 1944il salvataggio del patrimonio culturale e umano a S. Felicita
Figura 1
239 SETTEMBRE 2017
ordigni alla base dei pilastri del portico
della Chiesa che sostengono il Corridoio
Vasariano, meditava su cosa fare per salva-
re il salvabile, tanto più che i nazisti aveva-
no già sfondato il portone della Canonica
per piazzare anche lì altre mine. Decise di
rivolgersi agli artificieri a cui chiese di par-
lare con il loro superiore. Fu così che arri-
vò un Colonnello tedesco al quale il Parro-
co fece chiaramente intendere incrociando
anche le braccia e sbarrando con il suo cor-
po l’ingresso al portico, che se avessero fat-
to saltare in aria la sua Chiesa non si sareb-
be mosso dal sagrato saltando così insieme
a lei. Il Colonnello rispose che avrebbe ri-
sparmiato l’edificio solo se, previo imme-
diato sopralluogo, fosse risultato che la Ca-
nonica non ospitava né ebrei né partigiani.
Con sguardi e cenni Don Gargani riuscì a
comunicare al Sagrestano e al Curato, nel
frattempo accorsi, di far scappare tutti in
Boboli attraverso la “scala segreta”. Il Cu-
rato Bartolozzi testimoniò nel 1964, du-
rante la Festa per il 60° anniversario
dall’Ordinazione sacerdotale di Don Gar-
gani, che il Parroco prese tempo parlando
col Colonnello, intrattenendolo quanto
più poté per ritardare anche di pochi mi-
nuti preziosi il terribile sopralluogo che
avrebbe deciso di tante vite e della salvez-
za della Chiesa di S. Felicita. Intanto il sa-
grestano Genesio Cei e Don Bartolozzi si
precipitarono nell’intra muros, nei soffitto-
ni, nel sottotetto e portarono in salvo tutti
gli ebrei nonché quindici giovani ricercati
dalle SS: tutti finalmente rividero tra gli
alberi di Boboli luce e libertà. Don Luigi
Gargani fu sfollato fra gli sfollati a Palazzo
Pitti e tra il 3 e il 4 agosto si sistemò un gia-
ciglio nella Sagrestia della Cappella Pala-
tina dove passò la notte pregando. Duran-
te la ricostruzione post bellica il Parroco di
S. Felicita ospitò in Canonica a sue spese
gli operai delle imprese restauratrici, offrì
gratuitamente ai parrocchiani un cinema
domenicale negli ambienti a pianterreno
attigui al chiostro, restaurò i locali della
chiesa di S. Jacopo sopr’Arno per i gruppi
giovanili dell’A.C., creò una Scuola Ma-
terna nelle stanze intorno al chiostro per
tutti quei bambini che nel
dopoguerra non sapevano
ancora dove iscriversi. Il
25 aprile 1945 fu ricono-
sciuto il suo valore umano
e cristiano con il conferi-
mento del titolo di Monsi-
gnore e Cameriere segreto
soprannumerario. A chiu-
sura di questo articolo de-
sidero ricordare fra i tanti
cittadini eroici rimasti
sconosciuti, o quasi, un
anziano che era sopranno-
minato ‘Burgasso’ il quale
ogni mattina ed ogni sera
apriva e chiudeva gli spor-
ti agli orefici del Ponte
Vecchio, come pure vorrei
rammentare il garzone del
lattaio di Borgo S. Jacopo
che si chiamava Ugo. Fu
Burgasso che disinnescò
le mine già sistemate per
far saltare il Ponte Vec-
chio, e lo fece ancor prima
che venisse dato il con-
tr’ordine dal Console te-
desco Gerhard Wolf. Quanto a Ugo - nel
‘44 ancora giovane e di formazione laica -
dobbiamo a lui il disinnesto di molte delle
mine già sistemate dai tedeschi nella stra-
da dove lavorava. Si deve al suo coraggio se
alcune delle torri e alcuni dei palazzi anti-
chi del Borgo sono ancora in piedi come
pure la casa al n.2 di Piazza dei Rossi, det-
ta dal 1810 ‘Conventino’ (“Cultura com-
mestibile”, n.226, p.13), perché accolse
monache dal Monastero di S. Felicita sop-
presso da Napoleone.
Guerra mondiale. Dall’8 settembre 1943
alla Liberazione della città, 11 agosto
1944, l’Arcivescovo Elia Dalla Costa orga-
nizzò una rete difensiva contro la deporta-
zione che coinvolse a Firenze quasi cin-
quanta luoghi tra Parrocchie e Istituti
Religiosi fra i quali la Chiesa di S. Felicita,
dove Don Gargani, coadiuvato dal Curato
Don Cammillo Bartolozzi, dal Sagrestano
Genesio Cei e da volenterosi parrocchiani,
aveva già realizzato forme di solidarietà e
assistenza cristiane: distribuzione delle
minestre a bisognosi e profughi, accoglien-
za in Canonica di famiglie rimaste senza
tetto, salvataggio di oggetti liturgici di
grande valore storico-artistico, oggetti che
dette in consegna ai Conti Guicciardini, e
infine, a partire da quel fatidico 8 settem-
bre, ricovero a tutti quegli ebrei - persegui-
tati dai nazifascisti -
che gli chiesero asilo e
vissero nascosti fino al
giorno della Liberazio-
ne negli ambienti più
segreti della Canoni-
ca. Agli ebrei si ag-
giunsero i partigiani
che convissero nel suc-
citato intra muros (la-
sciato dal 1914 in uso
da parte del Demanio
ai Parroci di S. Felicita
per il tramite degli
Operai dell’Opera),
nei “soffittoni” che, at-
traverso la “scala se-
greta” ancora in situ,
garantivano una possi-
bilità di fuga all’altez-
za dell’Orto di S. Feli-
cita verso Boboli, nel
“sottotetto” della
Chiesa dove era stato
improntato uno spazio
che definiremmo ‘ba-
gno’ e dove a tutt’oggi
si trovano la vasca in
zinco smaltato per la loro igiene e i grandi
orci per la raccolta dell’acqua piovana. Il
1° agosto 1944, quando il feldmaresciallo
Albert Kesselring mise in atto la “ritirata
aggressiva” anche in Toscana e a Firenze,
quasi alla vigilia della notte infernale del
3/4 agosto, Don Luigi Gargani correva per
le strade vicine nell’intento di convincere
le persone a lasciare la loro casa prima che
le mine fossero fatte brillare; poi si diresse
verso il sagrato di S. Felicita. Guardando
gli artificieri tedeschi che piazzavano gli
Figura 1
Figura 2
249 SETTEMBRE 2017
di Roberto GiacintiPuò essere considerata tale quella che eserci-
ta in via stabile e principale una o più attività
d’impresa di interesse generale per il perse-
guimento di finalità civiche, solidaristiche e di
utilità sociale.
Possono acquisire la qualifica tutti gli enti
privati, inclusi quelli in forma societaria, che
esercitano in via stabile e principale un’attività
d’impresa di interesse generale, senza scopo di
lucro e per finalità civiche, solidaristiche e di
utilità sociale, adottando modalità di gestione
responsabili e trasparenti e favorendo il più
ampio coinvolgimento dei lavoratori, degli
utenti e di altri soggetti interessati alle loro at-
tività.
Resta la qualificazione di diritto come impresa
sociale alle cooperative sociali e ai loro consorzi.
Sono considerate di interesse generale, se svol-
te in conformità alle norme particolari che ne
disciplinano l’esercizio, anche le attività d’im-
presa che hanno per oggetto l’agricoltura socia-
le ai sensi dell’art. 2 della L. 141/2015.
Si considera comunque di interesse generale,
l’attività nella quale, sono occupati, secondo
specifiche percentuali in relazione al perso-
nale, lavoratori molto svantaggiati, persone
svantaggiate o con disabilità e persone senza
fissa dimora che versino in una condizione di
povertà.
L’attività di impresa di interesse generale deve
essere svolta in via principale, ossia deve gene-
rare almeno il 70% dei ricavi complessivi.
Una quota inferiore al 50% degli utili e degli
avanzi di gestione annuali, può essere destina-
ta ad aumento gratuito del capitale sociale, nei
limiti delle variazioni dell’indice Istat, oppure
alla distribuzione, anche mediante l’emissione
di strumenti finanziari, di dividendi ai soci, in
misura non superiore all’interesse massimo dei
buoni postali fruttiferi, aumentato di 2,5 punti
rispetto al capitale effettivamente versato.
È inoltre possibile, nel limite anzidetto, dispor-
re erogazioni gratuite in favore di enti del III
settore, diversi dalle imprese sociali, che non
siano tuttavia fondatori, associati, soci dell’im-
presa sociale o società da questa controllate;
purchè finalizzate alla promozione di specifici
progetti di utilità sociale.
Si introducono inoltre importanti misure di so-
stegno, anche fiscale, quali la detassazione de-
gli utili o avanzi di gestione che incrementino
le riserve indivisibili in sospensione d’imposta
e che vengano effettivamente destinati allo
svolgimento dell’attività statutaria o ad incre-
mento del patrimonio (analogamente a quanto
già previsto per le cooperative sociali e per i
consorzi tra piccole e medie imprese).
Vengono anche introdotte limitazioni al cal-
colo delle retribuzioni massime e minime dei
lavoratori.
L’impresa deve assicurare il più ampio coin-
volgimento di lavoratori, utenti e altri soggetti,
attraverso meccanismi di consultazione e di
partecipazione tali da metterli nelle condizioni
di influenzare le decisioni dell’impresa sociale,
con particolare riferimento alle questioni che
incidono direttamente sulle condizioni di lavo-
ro e sulla qualità dei beni o sei servizi.
Si intensificano poi i vincoli a beneficio degli
stakeholder, aumentandone il livello minimo
di coinvolgimento, prevedendo tra l’altro, per
le imprese sociali di grandi dimensioni, il dirit-
to dei lavoratori ed eventualmente anche degli
utenti di nominare almeno un componente
degli organi di amministrazione e di controllo.
A tal fine, il Ministero del Lavoro renderà di-
sponibili delle linee guida per l’attuazione di
tali finalità che dovranno poi essere recepite
nei regolamenti aziendali o negli statuti delle
imprese.
L’impresa sociale è tenuta a pubblicizzare, an-
che attraverso il proprio sito internet, il bilan-
cio sociale.
La nuovaimpresasociale
Disegno di Aldo Frangioni Disegno di Aldo Frangioni
259 SETTEMBRE 2017
di Gabriella FioriCaterina della notte è romanzo avvincente
dal titolo misterioso per un’immagine in-
confondibile: Santa Caterina che scrive del
pittore Rutilio Manetti.
L’autrice Sabina Minardi mi dice che è
nato da due “forti emozioni d’amore”: la
sua visita del 2007 al complesso di Santa
Maria della Scala a Siena, tappa medioeva-
le di “cura, assistenza, accoglienza sulla via
Francigena “per i pellegrini da ogni dove
diretti a Roma, emblema affascinante del
patrimonio di civiltà sparso nella penisola”
e la scoperta di Caterina nelle Lettere, nel
Dialogo della Divina Provvidenza per la
forza delle sue parole, quel volgare vibrante
e inedito e la modernità del suo linguaggio
profetico. Soleva rifugiarsi nell’Ospedale al
termine delle sue giornate; da qui il nome
di Caterina della notte, che indica l’oratorio
a lei dedicato”.
E verso di lei, inconsapevole va un’altra Ca-
therine, la Davigo bella quarantenne bion-
da occhi chiari, postmoderna vincente gior-
nalista al Financial Times; vive col padre,
bell’uomo broker di assicurazioni che l’ama
molto, ha un fidanzato più stabile benché
non ideale, David e qualche flirt di simpatia;
si muove agevolmente nella grande Londra.
Sì, ormai per lei, nata a Siena da Duccio e
Danae senesi, la vera lingua è l’inglese e il
suo italiano incerto esprime “l’oscuro della
sua vita”: la mancanza della madre, morta
in un incidente stradale, lei piccola. Ora le
somiglia in modo impressionante e il padre,
che rivede in lei la moglie amata, non ha più
voluto risposarsi. Serba il legame con Siena
un amico, “zio” Niccolò, settantenne sem-
pre innamorato felice che ogni anno va in
Toscana a zappare una sua terra e rientra a
Londra carico d’olio, vino e “cantucci intro-
vabili”. E una sera che Catherine “attonita”
dopo un addio irosamente concorde da Da-
vid, decide di restare a cena coi suoi “due
vecchi”, eccolo daccapo a perorare un loro
ritorno estivo a Siena. “Grazie al cielo, l’e-
state è lontana” si è appena detta Catherine
che le piove sulla scrivania una grossa busta
rossa senza mittente, zeppa di fogli dattilo-
scritti,sul primo, bianco, la frase “Caterina
della notte”. Deve leggere, febbrile: ahi,
quell’italiano “arcaico”.Seguono giorni in
cui indugia a letto, vive “lentamente” così
che giunge troppo tardi al telefono, mangia
quando fame la morde e deve infine esu-
mare dagli scaffali paterni un librone rosso
sullo Spedale di Santa Maria della Scala a
Siena, immenso e misterioso dove ricchi e
poveri, artisti e mercanti, pellegrini da ogni
parte del mondo sostano nel “pellegrinaio”,
innocenti con le loro mezze medagliette di
riconoscimento stanno fra i “gettatelli” e in-
fermi sono curati dalle “Mantellate” di nero
incappucciate. La Narratrice è una di loro,
Giovanna da Fontebranda, per “comanda-
mento” della sorella Caterina la Santa, la
preferita dal Signore, in punto di sua morte,
a Roma il 29 aprile 1380. Per Catherine
che pensa “Ho perso troppo tempo con gli
uomini nella mia vita”, “volare” a Siena su-
bito diventa vitale.
D’ora in poi io lettrice sentirò che “Tre
donne intorno al cor mi son venute...” per-
ché Catherine leggerà Giovanna fino a
incarnarsi in lei, nel suo temerario amore
per il “pellegrino” forse figlio di re venuto
d’Oriente come nel suo abbraccio conti-
nuato con la grande sorella e maestra di
perfezione “che perdeva i sensi e risorgeva
dalle morti mistiche ogni volta più potente,
sfidando l’invidia di ogni uomo di chiesa”.
Imparerà da loro a percepire i richiami del
suo destino, a pensarne con tutta se stessa
l’urgenza serbando una lucidità di visione,
la stessa di Giovanna conscia che la sua
passione è mera “brezza rasata dalle ne-
cessità della storia” e ciò che conta è sapere
di “non essere stata una “gettatella” come
si mormora intorno: e lo saprà, sia quando
la madre Lapa malata di peste, felice di ve-
derla “accorsa” al suo letto, la scambierà per
Caterina e le dirà degli altri figli morti, sia
nell’abbraccio vero di Caterina la Santa, a
Siena con un gruppo di discepoli, in un si-
lenzio che “ha capito tutto”. La “londinese”
che, dapprima intenta a leggere la visto la
bellezza del profilo di Siena solo dalla fine-
stra, la vedrà poi dal vivo con Xavier medie-
vista spagnolo e amico empatico di lettura.
Fino all’ultima unica pagina. Dove c’è la
chiave del viaggio, una chiave che è “solo
tua. Non sta a me usarla”le dice nel sole, a
Fontebranda. Anch’io so di dover restare in
attesa, nel rispetto di un destino. Commos-
sa seguo Catherine con lo sguardo. Ha pre-
so una strada mai fin lì percorsa.
Le dueCaterine
269 SETTEMBRE 2017
di Francesco Cusa
Il ticchettio di un orologio. Una settimana.
Un giorno. Un’ora. Questo il meccanismo
perfetto del progetto di Nolan, che narra le
vicende storiche dei fatti occorsi nella spiag-
gia di Dunkirk secondo uno schema pita-
gorico di armonia (sono parole del regista).
E ancora una volta sua maestà Il Tempo, il
leitmotiv che unisce tutta l’opera cinemato-
grafica di Nolan, l’incedere del Divenire di
una particolare eccentricità della storia, che
con chirurgica perfezione porterà al culmi-
ne di un infinito crescendo le azioni di tutti
i protagonisti e dell’intero Coro di questa
tragedia della sopravvivenza. Ogni dettaglio
è necessario al raggiungimento del vertice,
del climax, ed è soprattutto il pregevole lavo-
ro delle musiche di Hans Zimmer a rendere
palese l’ordito dell’opera (utilizzo della “scala
Shepard” per dare l’illusione di un ascolto
sempre “ascendente” allo spettatore, di un
crescendo senza fine). È davvero possente il
lavoro che condurrà ogni elemento di tempo,
luogo e azione ad incastonarsi secondo la ti-
pica logica di unità aristotelica.
Un film sulla guerra…senza una goccia di
sangue. È lo sguardo freddo e distaccato dei
contemporanei, dei figli della “società liqui-
da” alle vicende truci altrimenti narrate dal
soldato Bardamu-Cèline. Così Nolan mo-
stra ai privilegiati di Schengen il fantasma
dell’orrore novecentesco, per tramite di una
delle tante vicende strappate al secolo più
truce e spaventoso dell’intera storia dell’uo-
mo, per mezzo di questa singolarità che è
frammento del Molteplice. In questo senso,
mare, vite e cielo (acqua-terra-aria), sono l’e-
spressione di un unicum morfologico, come
i corpi dei soldati sparpagliati come alghe
sulla spiaggia sono il paradosso antropomor-
fo di una descrittività impietosa, che rende il
tripudio finale - la salvezza dei trecentomila
grazie al ritrovato senso di patria di una na-
zione - poco più di un vagito nell’assurdo
baratro dell’insensato. Da questo punto di
vista poco importa che la prospettiva della
narrazione sia smaccatamente quella inglese,
a cominciare dall’utilizzo del titolo (Dunkirk
e non Dunkerque), perché, secondo il regista,
ogni prospettiva riconduce al dramma dei so-
pravvissuti. Lo sguardo di Nolan è panottico,
algido, asettico. Egli non necessita, come fa
il repubblicano Eastwood, di realizzare due
film (“Lettere da Iwo Jima”e “ Flags of Our
Fathers), ovvero di mostrare la differente
prospettiva di una stessa battaglia, perché
per Nolan il Nemico è sempre e comunque
l’Altro, come evidente dall’apparizione dei
fantasmi dei tedeschi nella sublime scena
dell’atterraggio finale. Nolan, a differenza di
Eastwood, non ha alcuna morale da rivendi-
care, non ha una posizione da mantenere e
neanche una prospettiva etica e dialettica.
Tant’è che i personaggi paiono conficcati a
forza dentro questa storia fatta di tante mi-
crostorie, e tutti, salvo qualche eroe segnato
dal mito, desiderano portare a casa la pellac-
cia, né più né meno (in questo senso, sì!) che
come il Bardamu de il “Viaggio al termine
della notte”.
Non c’è un attimo di tregua per lo spettatore.
“Dunkirk” pare il frutto di un unico piano
sequenza che trascina dentro un gorgo di
vacuità e precarietà, fino a lambire i margini
della follia, della barbarie cieca, dell’inutilità
del sacrificio. Insomma, tutto ciò da cui Bar-
damu e il nostro sentire del contemporaneo,
rifuggono e che invece pare dominare le co-
scienze di milioni di esseri: soldati, tenenti,
colonnelli, generali, politici, uomini di stato.
Eroi e vigliacchi, indifferenza del cosmo e
mito: un unico abbraccio che segna due ore
di cinema che paiono eterne, e che pongono
ogni epistemologia in un territorio alieno,
privo di memorie e di passato.
Il tempo perfettodi Dunkirk
279 SETTEMBRE 2017
Sabato 15 settembre alle ore 15.00 pres-
so la biblioteca civica di Scandicci , via
Roma verrà presentato il libro “Come una
malattia” di Alessandro Giannetti sulla
storica rivalità fra tifoseria fiorentina e ju-
ventina. Una rivalità che esiste da sempre
quella fra tifosi viola e bianconeri, nata in
origine su motivazioni regionali e campa-
nilistiche, ma deflagrata clamorosamen-
te al termine del campionato 1981/82
(quello del famoso Meglio secondi che
ladri), fino a trasformarsi – specie dopo i
fatti del ’90 e la cessione di Baggio – in un
odio inestinguibile e profondo, una sorta
di malattia per la quale è difficile anche
solo immaginare una cura.
Attraverso il complesso e specialissimo
rapporto con lei, si ripercorrono appas-
sionatamente quasi cinquant’anni di
storia della Fiorentina, dove protagonisti
non sono soltanto gli eroi della domenica
(da De Sisti, Chiarugi e Maraschi fino a
Mutu, Rossi e Kalinić), ma anche e so-
prattutto la gente comune, i fiorentini e
i tifosi di ogni ordine e grado, il “popolo
viola”.
Con uno stile moderno e sorprendente,
ironico, sarcastico, a tratti lirico e dolen-
te, arricchito da citazioni colte e popolari
(da Tex Willer a Fabrizio De André, dal
cinema della commedia all’italiana fino
alla Divina Commedia del più illustre
italiano di sempre), l’autore affronta un
viaggio affascinante e catartico dentro le
profondità dell’essere fiorentino e tifoso
viola, per raccontare, spiegare e in qual-
che modo esorcizzare il traumatico rap-
porto con quella squadra a strisce di cui
non riesce neppure a scrivere il nome (se
non nell’onirico, impossibile finale).
E se essere tifosi veri, di qualunque squa-
dra, è comunque un privilegio e una sof-
ferenza, esserlo della Fiorentina è – per
l’autore – un dono di Dio.
Il libro sarà distribuito nelle librerie del-
la Toscana e nelle edicole fiorentine,
nonché acquistabile anche online al se-
guente link http://www.abedizioni.it/ca-
talogo-pubblicazioni-libri-firenze/libri/
come-una-malattia
Mercoledì 13 settembre alle 21,15 al Chio-
stro delle geometrie, nel complesso di Santa
Verdiana in Piazza Ghiberti, verrà presen-
tato, da Maurizio Donadoni, Finnegans
Wake di James Joyce. Finnegans Wake è
un monumento, fatto di letteratura che va
oltre la letteratura poiché come e più di
tutti i grandi libri è un mondo, o meglio, un
“parolmondo”.Un universo verbale e extra-
verbale che offre alle voci infinite maschere
e occasioni di giocare “sul serio” e rendere
possibile l’impossibile , riconoscibile l’irri-
conoscibile, dicibile l’indicibile.Dal primo
capitolo Maurizio Donadoni ha scelto brani
in cui l’autore espone i temi principali del
libro, presenta alcuni personaggi chiave del-
la vicenda: il muratore Tim Finnegan che,
ubriaco, cade da un muro in costruzione,
muore,e resuscita, durante la veglia funebre
non appena benedetto con alcune gocce di
wisky; il gigante Finn mac Cool il cui cor-
po addormentato costituisce il profilo della
città di Dublino; un indigeno irlandese che
dialoga come può con un invasore sassone;
H.C.E , taverniere di Chapelizod, eroe non
eroe dell’opera, accusato di molestie sessua-
li nel Phoenix Park ai danni di due came-
riere ( e forse anche di un fuciliere gallese.).
Entrano a far parte del complesso puzzle ,
topoi della tradizione musicale irlandese “
Humpty Dumpty”, elaborata dallo stesso
Joyce in perfetto stile “Finneganese”. “The-
re’s a lot of fun at Finnegan’s Wake.”...Il
recital sarà preceduto nei giorni 7 – 8 – 11
– 12 settembre da un workshop sul lavoro
dell’attore.
Venerdì 15 settembre alle ore 21,15, Poesie
e Città, reading/incontro, in cui Fulvio
Cauteruccio leggerà i versi di Francesco
Capaldo e ci condurrà in un percorso di su-
blimi visioni alla riscoperta, tra architettura
e poesia ,di un mondo ancestrale, concreto
ed allo stesso tempo mitico. La città nei ver-
si di Capaldo diventa ‘madre’, spazio dell’a-
nima, luogo di incontro tra il reale e l’ideale,
materia di imagerie poetica.
La malattia viola
Finnegans wake e Poesie e città al chiostro delle geometrie
289 SETTEMBRE 2017
di Remo fattorini
Sabato 5 agosto – Era nuvoloso quella mattina,
ma noi (io e Mara) avevamo deciso di passare
l’intera giornata al biolago. Dovevamo smalti-
re le fatiche ciclistiche del giorno precedente,
quando da Dimaro siamo saliti su, lungo la
ciclabile, fino a Cogolo e oltre, pedalando per
circa 40 km.
La giornata era iniziata bene. Alle 10 e mezza
eravamo già lì, insolitamente mattinieri e at-
trezzati di tutto punto per trascorrervi l’intera
giornata. Non solo, quella mattina al biolago
eravamo stranamente in pochi, circa una de-
cina di persone. Ambiente ideale per recupe-
rare energie.
Poco dopo le 13 le urla di una bambina rom-
pono il silenzio. Le voci di ripetono con toni
allarmati tanto da richiamare l’attenzione di
tutti: “Aiuto aiuto la mia amica non torna su”.
Urlava e sbatteva le mani sull’acqua per indi-
care il luogo della scomparsa. Ci servono un
po’ di secondi per superare lo smarrimento e
capire cosa stia davvero accadendo, poi quel
messaggio disperato arriva forte e chiaro: c’è
una bambina in fondo al lago e sta affogando.
La bagnina, che era lì al suo posto nello sdraio
a bordo piscina, si alza, si toglie i pantaloncini
e si tuffa, con due bracciate raggiunge il luogo
indicato e si immerge, dopo pochi secondi risa-
le scuotendo la testa, prende di nuovo aria e si
rimmerge, questa volta la vede, l’afferra per un
braccio e la trascina fino al bordo piscina che è
proprio lì vicino.
Istintivamente anch’io mi ritrovo lì e l’aiuto a
sollevarla e stenderla sul pavimento. Il corpi-
cino è freddo, rigido, immobile, labbra e occhi
viola scuro. Non respira e il battito cardiaco
non si sente. Attimi che sembrano lunghissi-
mi. La bagnina, una ragazza giovane ma esper-
ta, trova la forza per urlare: “Qualcuno chiami
un’ambulanza” e inizia a praticargli la respi-
razione bocca a bocca, cercando di spingere
più aria possibile nei polmoni della bambina.
Anch’io, essendo lì accanto, inizio il massaggio
cardiaco, premendo le mani sul petto della
bambina, così come ho visto fare in qualche
video sulla sicurezza. Ma sul volto della bam-
bina non si vedono reazioni. Si continua senza
sosta, in attesa dell’arrivo dei soccorsi. Più tra-
scorrono i secondi più cresce l’accanimento.
La pressione delle mani sul petto si fa sempre
più forte, come se volessi svegliarla da un son-
no profondo. Finalmente la bambina inizia a
rigurgitare acqua: è il primo segnale di vita.
Poi dalla bocca escono pezzetti di cibo che
però si richiude subito a tenaglia. La bagnina
preoccupata urla: “Qualcuno cerchi di riapri-
re e tenere aperta la bocca, altrimenti soffoca”.
Subito un signore, che credo fosse il padre
dell’amica che ha dato l’allarme, ci prova e, no-
nostante i morsi, ci riesce e infatti la bambina
rigurgita altro cibo e poi, finalmente, inizia a
respirare. Se reagisce vuole dire che vuole vi-
vere. Cominciamo a capire che forse possiamo
salvarla. La giriamo su un fianco, Mara gli to-
glie il costume bagnato e freddo e la copre con
il suo asciugamano.
Nel frattempo arrivano i soccorsi e con loro
anche pompieri e carabinieri, ma il più ormai è
fatto. Arrivano di corsa anche i genitori quan-
do la bambina è già affidata alle cure dei medi-
ci, sbarcati anche dall’elisoccorso. Si stringono
alla loro figlia che ormai respira e apre gli oc-
chi come per rispondere al loro richiamo, per
fargli capire che è viva e che il peggio è passa-
to. Dopo le prime cure viene trasportata con
l’elicottero in ospedale a Verona. La prognosi
parla di edema polmonare e coma farmacolo-
gico. Ma i medici la dichiarano fuori pericolo.
Questa volta il dramma è scongiurato.
La vicenda mi rimane dentro per alcuni giorni.
Porto con me i segni di quegli attimi di paura,
di quella reazione istintiva, della drammaticità
che segna il sottile confine, quasi impercettibi-
le, tra la vita e la morte. Un confine che ognuno
di noi si porta costantemente addosso. È diffici-
le trovare le parole per descrivere le emozioni
vissute in quei momenti, davanti al dramma di
una ragazzina che ha rischiato di lasciare que-
sto mondo senza aver avuto il tempo per poter-
lo conoscere. Invece grazie alla prontezza della
bagnina e all’aiuto di altre persone la bambina
è riuscita a tornare indietro nel tempo, nel suo
tempo, nella sua vita, in quel mondo dove vive-
va prima di tuffarti in quella piscina.
Questa è la storia di Anna, una bella ragaz-
zina di appena 12 anni che si è sentita male
durante un tuffo in piscina e che oggi è tornata
a casa, dai suoi genitori, alla sua vita normale.
Ma è anche la storia di Virginia, la giovane e
coraggiosa bagnina che si è tuffata, ha ripesca-
to Anna, salvandogli la vita. È stata la sua pri-
ma esperienza: un fatto ordinario per chi fa il
bagnino, ma decisivo per le sorti della ragazzi-
na. Certo, non passerà alla storia, ma non sarà
neppure dimenticata, almeno da tutti coloro
che l’hanno conosciuta. Brava Virginia!
Una giornataparticolare di Anna
e Virginia