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1 PARTE PRIMA PRINCIPI E FONDAMENTI DI PROBLEM SOLVING E DECISION MAKING Introduzione Non esistono problemi senza obiettivi: in presenza di un problema, la prima cosa da fare è defi- nire con cura gli obiettivi. Un problema è una condizione in cui le proprie conoscenze o le pro- prie azioni abituali non sono sufficienti per raggiungere gli obiettivi prefissati; da ciò risulta uno stato di disagio e l’identificazione di ostacoli che impediscono il conseguimento quell’obiettivo. Un ostacolo, pertanto, si può definire come l’insieme degli impedimenti a procedere come di consueto, o secondo le proprie conoscenze ed esperienze, in direzione di un obiettivo. In ogni caso, un problema è fondamentalmente un invito al cambiamento. Una soluzione, invece, è l’insieme dei cambiamenti nel proprio stato mentale e nei propri com- portamenti che consente di raggiungere l’obiettivo preposto. Non sempre le soluzioni coinci- dono con la rimozione degli ostacoli. Un problema è pertanto il riconoscimento della necessità di inventare e sperimentare quei cambiamenti che consentono di raggiungere gli obiettivi. Ogni problema può essere risolto attraverso metodi precipui. Imparare a utilizzare un metodo per risolvere i problemi, infatti, non serve soltanto ad agire in modo più logico o razionale, ma so- prattutto a capire quali siano gli atteggiamenti mentali più efficaci nelle varie fasi di soluzione di un problema. Una metafora del problem solving è la conduzione di una barca. Nel problem solving c’è una destinazione, una rotta, un equipaggio e alcune azioni concrete per manovrare la barca in un mare più o meno agitato. Non ha alcun senso seguire una rotta (soluzione) senza avere una destinazione (obiettivo), e non è possibile mettere la barca in rotta senza un equipaggio alle- nato e competente, dotato di intuito, ma anche di buon senso e saggezza, che, muovendosi in modo coordinato, metta in atto delle azioni concrete (mettere in pratica il piano) e verifichi costantemente che si procede nella direzione giusta, tenendo conto delle condizioni ambientali (possibili ostacoli). Le 4 fasi del problem solving Il processo di problem solving può essere suddiviso in 4 fasi logicamente consequenziali, in cui: nella prima fase si identifica il problema/obiettivo; nella seconda fase si generano le possibili soluzioni; nella terza fase si sceglie, si valuta e si pianifica la soluzione; nella quarta fase si esegue il piano e si valutano i risultati. Ogni fase prevede a sua volta alcune sotto fasi. Fase 1 - È la fase osservativa; serve a identificare il problema/obiettivo ed è costituita da due sotto fasi: a. definire l’obiettivo b. analizzare gli ostacoli Fase 2 - È la fase creativa; serve a trovare le soluzioni ed è costituita da due sotto fasi: a. generare le idee, il cosiddetto brainstorming b. trasformare le idee in soluzioni Fase 3 - È la fase critico-realista; serve a valutare e pianificare ed è costituita da tre sotto fasi: a. valutare l’efficacia, la fattibilità e le conseguenze b. scegliere la soluzione c. pianificare chi, cosa, quando, come e con quali risorse. Fase 4 - È la fase della messa in pratica ed è costituita da due sotto fasi: a. eseguire il piano b. valutare i risultati

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PARTE PRIMAPRINCIPI E FONDAMENTI

DI PROBLEM SOLVING E DECISION MAKING

IntroduzioneNon esistono problemi senza obiettivi: in presenza di un problema, la prima cosa da fare è defi-nire con cura gli obiettivi. Un problema è una condizione in cui le proprie conoscenze o le pro-prie azioni abituali non sono sufficienti per raggiungere gli obiettivi prefissati; da ciò risulta uno stato di disagio e l’identificazione di ostacoli che impediscono il conseguimento quell’obiettivo. Un ostacolo, pertanto, si può definire come l’insieme degli impedimenti a procedere come di consueto, o secondo le proprie conoscenze ed esperienze, in direzione di un obiettivo. In ogni caso, un problema è fondamentalmente un invito al cambiamento.Una soluzione, invece, è l’insieme dei cambiamenti nel proprio stato mentale e nei propri com-portamenti che consente di raggiungere l’obiettivo preposto. Non sempre le soluzioni coinci-dono con la rimozione degli ostacoli. Un problema è pertanto il riconoscimento della necessità di inventare e sperimentare quei cambiamenti che consentono di raggiungere gli obiettivi. Ogni problema può essere risolto attraverso metodi precipui. Imparare a utilizzare un metodo per risolvere i problemi, infatti, non serve soltanto ad agire in modo più logico o razionale, ma so-prattutto a capire quali siano gli atteggiamenti mentali più efficaci nelle varie fasi di soluzione di un problema. Una metafora del problem solving è la conduzione di una barca. Nel problem solving c’è una destinazione, una rotta, un equipaggio e alcune azioni concrete per manovrare la barca in un mare più o meno agitato. Non ha alcun senso seguire una rotta (soluzione) senza avere una destinazione (obiettivo), e non è possibile mettere la barca in rotta senza un equipaggio alle-nato e competente, dotato di intuito, ma anche di buon senso e saggezza, che, muovendosi in modo coordinato, metta in atto delle azioni concrete (mettere in pratica il piano) e verifichi costantemente che si procede nella direzione giusta, tenendo conto delle condizioni ambientali (possibili ostacoli).

Le 4 fasi del problem solvingIl processo di problem solving può essere suddiviso in 4 fasi logicamente consequenziali, in cui:

• nella prima fase si identifica il problema/obiettivo;• nella seconda fase si generano le possibili soluzioni;• nella terza fase si sceglie, si valuta e si pianifica la soluzione;• nella quarta fase si esegue il piano e si valutano i risultati.

Ogni fase prevede a sua volta alcune sotto fasi.Fase 1 - È la fase osservativa; serve a identificare il problema/obiettivo ed è costituita da due sotto fasi:

a. definire l’obiettivob. analizzare gli ostacoli

Fase 2 - È la fase creativa; serve a trovare le soluzioni ed è costituita da due sotto fasi:a. generare le idee, il cosiddetto brainstormingb. trasformare le idee in soluzioni

Fase 3 - È la fase critico-realista; serve a valutare e pianificare ed è costituita da tre sotto fasi:a. valutare l’efficacia, la fattibilità e le conseguenzeb. scegliere la soluzionec. pianificare chi, cosa, quando, come e con quali risorse.

Fase 4 - È la fase della messa in pratica ed è costituita da due sotto fasi:a. eseguire il pianob. valutare i risultati

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Finalità e approccio mentale delle fasiOgni fase ha una sua specifica finalità e richiede uno specifico approccio mentale. La prima fase serve per riconoscere bene la natura del problema e degli obiettivi. Presuppone un atteg-giamento osservativo o conoscitivo. Non si tratta di conoscenza logico-scientifica, ma punta a identificare e accettare i propri bisogni, le proprie necessità, le proprie esigenze e anche i propri timori. La seconda fase è decisamente la più creativa del problem solving: la sua finalità è quella di ge-nerare soluzioni possibili. L’atteggiamento mentale richiesto è di libertà di pensiero e abbandono alle proprie visioni, intuizioni, sensazioni ed emozioni. In questa fase è importante lasciare la mente libera di collegare elementi tra loro apparentemente lontani, avere accesso alle proprie risorse e formulare anche quelle ipotesi che normalmente si escluderebbero perchè apparen-temente poco realistiche o incompatibili con le proprie idee di fondo. La ricerca di soluzioni, infatti, richiede a volte l’abbandono di alcune convinzioni che usate come guida in precedenza, oppure la loro integrazione o modifica. La terza fase ha lo scopo di produrre veri e propri piani di azione dettagliati. Presuppone un at-teggiamento realistico e critico. Quando le idee diventano progetti, è importante valutare il loro grado di fattibilità, cioè il loro impatto con la realtà. La quarta fase è l’esecuzione del piano. Il suo scopo è rendere effettivo il piano e include la va-lutazione empirica della sua efficacia. È caratterizzata da un atteggiamento mentale operativo, pratico, esecutivo. Il problem solving è circolare, nel senso che termina con una verifica del piano e quindi con un confronto tra obiettivi e risultati, cioè con un confronto dell’inizio e della fine del problem solving. Tuttavia, ciò che è veramente interessante è che la circolarità del problem solving comporta non solo la verifica dei risultati raggiunti, ma, eventualmente, anche la possibilità di modificare gli obiettivi e quindi di trovare nuove soluzioni e nuovi confronti con gli obiettivi stessi, in un processo di affinamento progressivo. Ciò accade, per esempio, quando si stabiliscono obiettivi poco validi, ma è solo con l’esecuzione del piano che ciò si rende del tutto evidente. In questi casi, la circolarità del problem solving contribuisce a una nuova valutazione degli obiettivi e a trovarne di più funzionali. Le quattro fasi fondamentali del problem solving, cioè il completo processo che va dalla identificazione degli obiettivi alla ricerca delle soluzioni e quindi al loro metterle in pratica, possono - e a volte devono - essere rimesse in discussione in qualsiasi mo-mento: può essere necessario tornare indietro e ripercorrerle, compiendo in tal modo piccoli circuiti di affinamento progressivo. Oltre a tornare sui propri passi, è possibile sviluppare l’abilità di mantenere sempre acceso il proprio canale creativo e saperlo utilizzare al momento oppor-tuno. Non sempre, però, la creatività si realizza quando vorremmo. Il brainstorming (di cui parle-remo più avanti) è il mezzo più efficace oggi conosciuto per stimolare l’atteggiamento creativo: talvolta, le intuizioni vengono nei momenti più inattesi grazie a collegamenti tra la propria vita quotidiana e le cose a cui si sta pensando.

Il problem solving come processo ramificatoIl problem solving è un processo ramificato per definizione. Ogni problema, infatti, corrisponde a un obiettivo. E ogni obiettivo può essere scomposto in una serie di sotto-obiettivi di vario or-dine e grado. È buona norma partire dagli obiettivi generali e scomporli nei sotto-obiettivi che devono essere raggiunti. La ramificazione consente di evidenziare compiti specifici che devono essere semplicemente svolti. Ogni fase e ogni passaggio del problem solving possono rendere necessari nuovi problem solving. La ramificazione è talvolta un modo per uscire da situazioni difficili imparando a frammentare il problema principale nei suoi aspetti particolari, nei suoi rami più semplici. Così facendo, si pos-sono risolvere, uno dopo l’altro, problemi di natura più semplice e arrivare, passo dopo passo, alla soluzione del problema che sembrava difficile ottenere.

Fase 1: identificazione degli obiettivi e analisi degli ostacoliL’identificazione degli obiettivi è fondamentale. La definizione degli obiettivi è alla base di ogni azione motivata alla ricerca di soluzioni. Non c’è problema senza obiettivi, e non c’è soluzione

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Il Clinical Problem Solving nella diagnosi e terapia delle patologie cardiovascolari e respiratorie

soddisfacente senza una definizione assicurata degli obiettivi. Per essere agevolati nella ricerca di soluzioni è importante imparare a trasformare bisogni e desideri in obiettivi. Inoltre, tali obietti-vi devono essere positivi, ben specificati e verificabili e perseguibili direttamente e quindi devono essere formulati in modo opportuno. Una volta identificati gli obiettivi personali o condivisi, è importante individuare gli ostacoli incon-trati. È molto più facile riconoscere gli ostacoli quando si sono definiti chiaramente gli obiettivi. Inoltre, identificare gli ostacoli dopo aver individuato gli obiettivi consente di valutarli in modo diverso e più produttivo. Una parte del problem solving consiste infatti nell’analisi approfondita dell’ostacolo: quando si verifica l’ostacolo? dove? chi è coinvolto? in cosa esattamente consiste l’ostacolo? come si presenta?È facile rendersi conto che una definizione troppo generica dell’ostacolo non consente di valu-tare appieno il suo impatto nella genesi del problema. Al contrario, una definizione dettagliata e circostanziata dell’ostacolo permette di effettuare una valutazione molto più accurata del problema e delle possibili soluzioni. Alcuni ostacoli non possono essere né rimossi, né aggirati; vanno piuttosto utilizzati.

Fase 2: il brainstormingIdentificati gli obiettivi ed esaminati gli ostacoli, occorre ideare soluzioni e scegliere, tra queste, le più idonee a realizzare un piano di azione. Ideare le soluzioni possibili è la parte più creativa del problem solving. Una delle tecniche più utilizzate in questa fase è quella del brainstorming. Essa consiste in incontri strutturati in cui si dà la possibilità a tutti i partecipanti di lasciare il cervello libero di creare idee, immagini, collegamenti. Inoltre, nelle riunioni di brainstorming la generazione di idee da parte di qualcuno stimola la generazione di idee da parte di altri. Alla fine, il brainstorming di gruppo assomiglia a un unico cervello creativo rappresentato da tutto il gruppo di lavoro, che si muove all’unisono con grande inventiva. La ragione per cui è opportuno iniziare la ricerca di soluzioni con un brainstorming consiste nel fatto che è prima necessario creare delle idee, e poi far seguire l’analisi delle soluzioni at-traverso un atteggiamento critico: in altre parole, non si possono criticare delle idee, se prima queste non vengono formulate. Le idee, però, sono spesso concatenate. Tipicamente, le idee che vengono fuori da un buon brainstorming possono essere anche strane e apparentemente irrazionali. Le idee vanno espresse così come vengono, anche se assurde. Inoltre, le idee non sono ancora soluzioni. Una parte successiva del brainstorming consisterà nella trasformazione creativa di semplici idee in soluzioni possibili.

Le regole nel brainstorming di gruppoIl brainstorming può essere praticato individualmente o in gruppo. In entrambi i casi è utile munirsi di un pennarello e di un gran foglio di carta su cui scrivere le idee così come vengono generate. Sia nel brainstorming individuale che in quello di gruppo valgono le stesse regole, ma in gruppo è utile la presenza di un moderatore che vigili sull’osservanza delle regole che devono essere espresse esplicitamente. La prima regola è che tutto è possibile. Durante il brainstorming è importante assumere l’at-teggiamento mentale di assenza di limiti. La mente deve poter volare liberamente da un’idea all’altra, da un’immagine all’altra, da un collegamento all’altro, con assoluta autonomia. Tutti gli scenari devono essere considerati plausibili, tutte le possibilità realizzabili, tutte le opzioni accettabili. La seconda regola è quella di non valutare, non giudicare, non criticare e non analizzare. Quan-do si lavora in gruppo, è bene che questa regola del brainstorming sia esplicitata e osservata scrupolosamente imponendo il divieto, per tutto i partecipanti alla riunione, di esprimere qual-siasi giudizio e valutazione. La terza regola è quella di non escludere niente: nel brainstorming nessuna idea va eliminata. La quarta regola, infine, è che tutti sono uguali: ogni partecipante al brainstorming è uguale agli altri, indipendentemente dal suo ruolo, funzione, posizione, ecc.

Le mappe libere, personali e comuniAll’atto pratico, il processo del brainstorming consiste nel creare una mappa libera, realizzare mappe personali e costruire una mappa comune integrata. Per attuare una mappa libera occor-

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re procurarsi una lavagna o un grande foglio che possa essere visto da tutti. Al centro si scrive l’obiettivo in modo sintetico, lo si circoscrive, e dal centro di quel punto si fanno partire i vari rami su cui riportare le idee. Per creare mappe personali bisogna partire dal presupposto che un gruppo che lavora al brain-storming possa funzionare come un unico cervello. Tuttavia, affinché un cervello funzioni bene, devono lavorare bene anche le sue parti. Quindi è importante che i membri del gruppo possano non solo influenzare e lasciarsi influenzare, ma anche seguire i propri pensieri. È utile, pertanto, lavorare contemporaneamente sia sulla mappa mentale comune (su una lavagna, su dei grandi fogli) che tutti possano vedere, sia su tante mappe personali, ciascuna per ogni partecipante.Ciascun membro del gruppo potrà così aggiungere idee alla mappa comune e, allo stesso tempo, sviluppare la propria mappa personale. Quando ci si rende conto che la prima parte del brainstorming è conclusa, si può lavorare alla costruzione di una mappa comune integrata.In questa fase le idee si organizzano secondo i principi dell’alternativa, per cui si operano delle scelte tra idee incompatibili; della complementarietà, per cui le idee si completano e si compen-sano reciprocamente; della ramificazione, per cui le idee si sviluppano in altre idee e sotto idee; dell’integrazione, per cui le idee si combinano e si rinforzano tra loro; dei collegamenti, per cui le idee sono collegate tra loro da una specifica sequenza oppure da altri fattori. Si scopre così che molte idee sono legate tra di loro, oppure sono integrabili, oppure si possono individuare alternative importanti, e quindi bisogna prendere delle decisioni.

Dalle idee alle soluzioniUn incontro di brainstorming finisce quando si comprende di aver generato un sufficiente nu-mero di idee e soluzioni. A questo punto bisogna trasformare le idee espresse in soluzioni pos-sibili. La differenza tra idee e soluzioni è che le prime sono visioni molto generali, oppure spunti molto parziali; le seconde sono invece vere e proprie bozze di progetti. In genere, per un problema non c’è un’idea, ma più idee collegate tra di loro; alcune idee sono alternative l’una all’altra e quindi si escludono a vicenda, altre sono complementari, altre posso-no far capo a idee più generali, altre ancora possono essere integrate in modo da generarne di nuove, altre, infine, possono essere collegate. Le idee, dunque, non sono tutte uguali rispetto ai rapporti tra di loro, e possono essere disposte in rami, di qui l’utilità del grande foglio di carta su cui disegnare le varie ramificazioni per iscrivervi idee e sotto idee. Parte del brainstorming va dedicata a trasformare le idee in soluzioni, lavorando sulle semplici idee, collegandole, lasciando che si sviluppino e si distinguano, oppure che si integrino tra loro. Il branching, il mettere cioè in rami, è pertanto quella parte del brainstorming che serve a dispor-re le idee secondo il loro diverso livello. Nel corso di un brainstorming, le idee generate tendono a stimolare la nascita di altre idee. Una buona organizzazione delle idee favorisce la generazione di nuove idee, cioè lo sviluppo delle idee. Spesso da un’idea derivano idee secondarie, ma è pos-sibile sviluppare anche idee complementari o alternative. Tuttavia, lo scopo finale dello sviluppo delle idee è la generazione di soluzioni possibili, cioè di idee integrate.

Le strutture di organizzazione delle ideeLe principali strutture di organizzazione delle idee sono le idee alternative, le idee complemen-tari, le idee derivate e le idee collegate. Queste strutture vengono rappresentate con l’artificio grafico delle mappe mentali, lo strumento più idoneo a organizzare le idee. Le idee/soluzioni sono alternative quando l’una esclude necessariamente l’altra. Le idee/soluzioni alternative van-no identificate e contrassegnate come tali in quanto rappresentano percorsi risolutivi diversi. Un percorso esclude l’altro in modo radicale. Per cui, quando si elimina una delle alternative, diventa inutile esaminare in dettaglio le sue varianti o le idee derivate. Le idee/soluzioni complementari non si escludono a vicenda, ma si aggiungono l’una all’altra, rinforzandosi. Se non vi sono ragioni specifiche che, in un dato contesto, rendano tra loro in-compatibili delle soluzioni, queste devono essere considerate complementari e costituiscono un ampliamento molto fecondo della forza risolutiva di una strategia. Le idee/soluzioni derivate sono di livello più generale. Infine, le idee/soluzioni collegate sono necessariamente unite tra di loro da una precisa scansione temporale, oppure da una scala di priorità, o da altri parametri. Una buona organizzazione delle idee facilita il loro naturale sviluppo e la loro integrazione. Alle idee si associano altre idee.

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Se poi le idee sono sistemate in strutture significative, lo sviluppo delle idee procede in modo ancora più efficace, finché esse non si integrano in soluzioni possibili. Di conseguenza, c’è un ordine di priorità delle soluzioni, cioè le soluzioni sono collegate l’una all’altra da un criterio di esclusione: si può mettere in pratica una soluzione se e solo se è stata dimostrata l’inefficacia della precedente. A questo punto abbiamo un certo numero di soluzioni organizzate e integrate. Ora bisogna scegliere. Seguire una strada. Anche se non è mai sicuro che la soluzione prescelta sia quella giusta, è tuttavia molto peggio non scegliere, e disperdersi in una serie di comportamenti scollegati e parziali, piuttosto che fare una scelta e valutare la sua efficacia, per poi eventualmente confermarla oppure optare per un’altra soluzione.

Fase 3: la pianificazioneLa scelta della soluzione è uno degli aspetti più delicati del problem solving. La tecnica della va-lutazione è pertanto fondamentale e può, se ben condotta, eliminare tutti i rischi di interferenza e, anzi, offrire spunti per risolvere conflitti tra gli operatori sanitari.

La valutazione di efficaciaLa prima e fondamentale regola per evitare questo tipo di interferenze consiste, naturalmente, nel valutare le idee e non gli operatori sanitari che le hanno espresse. È indispensabile effettuare una rapida valutazione di efficacia per ogni soluzione. La domanda fondamentale è: se si mette in pratica la soluzione, quante possibilità vi sono che l’obiettivo venga raggiunto? Può infatti capitare che una certa soluzione abbia concrete possibilità di successo, e che un’altra sia molto rischiosa. Per effettuare una buona previsione di efficacia bisogna essere molto critici. Di seguito vengono elencate alcune domande che possono aiutare a fare una buona previsione di efficacia:

• In base a quali criteri si sta valutando l’efficacia delle soluzioni al problema?• Quali sono i possibili imprevisti?• Quali sono i punti deboli delle soluzioni?• Ci sono esempi precedenti di efficacia delle soluzioni a cui fare riferimento?• Esistono esperti che possono dare una mano?• Quali sono gli effetti di un eventuale insuccesso?

Le valutazioni di fattibilità e delle conseguenze La valutazione di fattibilità è l’esame critico delle possibilità di mettere effettivamente in pratica idee e soluzioni. La valutazione della fattibilità implica la domanda fondamentale: è possibile mettere in pratica questa soluzione? Pertanto, bisogna chiedersi se esistono le risorse neces-sarie per applicare la soluzione. Queste le domande:

• C’è il tempo sufficiente?• Ci sono le persone capaci di fare questo?• C’è il know-how, la conoscenza del come si fa?• C’è il denaro?• Ci sono gli spazi?• Ci si trova nel luogo giusto? Se la risposta è no, lo si può trovare?• Si conoscono le persone adatte?• Ci sono problemi, obblighi o divieti legali?

La valutazione delle conseguenze riguarda, invece, gli effetti della soluzione sull’intero sistema in cui ci si trova. A volte alcune soluzioni sono molto efficaci per raggiungere uno specifico obiettivo, ma producono danni e problemi in altri ambiti. La scelta di una soluzione richiede un processo decisionale.

Il processo di decision making La valutazione critica di efficacia, la valutazione di fattibilità e la valutazione delle conseguenze forniscono importanti informazioni per decidere, ma non forniscono, da sole, una decisione.

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Alla fine spetta a ciascun individuo effettuare una sorta di valutazione delle valutazioni, un cal-colo emotivo che prenda in considerazione tutte le informazioni in possesso per poi fare una scelta. In realtà non esiste una tecnica indiscutibile per prendere decisioni. Il cervello umano è pro-grammato per farlo, ma non si sa precisamente come avvenga concretamente il processo di decision making. Tuttavia si può supportare la naturale capacità decisionale di ogni uomo con alcuni strumenti molto semplici. Per esempio, si può ricorrere ancora una volta alla mappa mentale integrata del brainstorming, dando un punteggio da 1 a 100 a ciascuna soluzione rela-tivamente a ogni area della valutazione, a quella dell’efficacia, a quella della fattibilità e a quella delle conseguenze. Spesso i numeri possono indicare una strada.

Il piano di azioneUna volta decisa la soluzione, prima di metterla in pratica c’è ancora bisogno di qualcosa: biso-gna pianificare le azioni. Un piano d’azione consiste in una serie di attività e di compiti che devo-no essere svolti da qualcuno. Una buona pianificazione deve rispondere alle seguenti domande:

• Che cosa?• Quando?• Chi?• Con che mezzi?

In altri termini, bisogna identificare compiti, risorse e processi (attività). I compiti sono gli obiet-tivi parziali di cui si compone la strategia risolutiva adottata in uno specifico problem solving. Una volta decisa la soluzione di uno specifico problem solving, occorre identificare quali siano i compiti che sono necessari per la realizzazione di quella soluzione. La soluzione è, infatti, una strategia generale che si compone di specifici compiti. E i compiti sono delle entità relativamen-te autonome formate, a loro volta, da azioni specifiche. I compiti devono essere stabiliti con precisione. La domanda da porsi è: cosa esattamente bisogna fare?

Le risorse per la realizzazione del piano: il tempoLe risorse sono mezzi necessari per la realizzazione dei compiti. Ogni piano d’azione che si rispetti deve contemplare una lista di tutte le risorse necessarie: denaro, luoghi e/o spazi, stru-menti, competenze, persone. Dalla lista si evidenzieranno le risorse già in possesso e quelle da acquisire. Anche le persone, cioè chi deve realizzare i compiti, sono risorse, le cosiddette risorse umane. È importante, pertanto, definire con precisione chi dovrà eseguire i diversi compiti. Ognuno deve sapere cosa deve fare e quando. I compiti di cui si compongono le soluzioni non sono fenomeni statici, ma eventi che si re-alizzano nel tempo. Il tempo è una variabile fondamentale di un piano di azione. Il tempo è importante sia in termini assoluti, per esempio i tempi di esecuzione e le scadenze importanti, sia per quanto riguarda la concatenazione relativa dei compiti e delle azioni. Nello stabilire i compiti è importante tener conto di eventuali scadenze e, quindi, è necessario definire i tempi di esecuzione previsti.Il tempo è altresì importante in termini di concatenazione relativa di compiti e azioni. Alcuni compiti o azioni, infatti, devono essere svolti necessariamente prima o dopo, oppure a un certo punto preciso della catena, per esempio i compiti e/o azioni sequenziali; altri compiti o azioni possono essere realizzati contemporaneamente, come nel caso dei compiti e/o le azioni in pa-rallelo; altri compiti ancora, infine, devono essere svolti solo se si verificano alcune condizioni. Per rappresentare la concatenazione di compiti e azioni si utilizzano i cosiddetti diagrammi di flusso (le flow chart). Nei diagrammi si dispongono i compiti e le azioni nel modo esatto in cui devono concatenarsi.

Fase 4: la realizzazioneUna volta stabilito un piano d’azione, diventa necessario eseguirlo. Mettere in pratica significa agire, e quindi confrontarsi con la realtà che ci circonda. Ogni piano, per quanto complesso, si compone di compiti; ogni compito, a sua volta, si traduce in azioni; ogni azione, a sua volta, consiste in una serie di sotto azioni.

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L’identificazione dei compiti fondamentali, di chi deve eseguirli, quando e dove, e delle risorse essenziali è sufficiente per passare poi all’azione.Un piano deve tener conto degli ostacoli fondamentali prevedibili, ma non può prendere in considerazione tutte le infinite variabili della vita. Dunque, un piano generale si dispiega in una serie di pianificazioni dettagliate per ciascuna persona coinvolta nell’azione (Figura 1).

La differenza tra pianificazione ed esecuzioneC’è una differenza fondamentale tra la preparazione del piano e la compilazione dell’agenda. Mentre nella fase di pianificazione ciò che conta è la strategia, cioè l’individuazione dei compiti indispensabili alla realizzazione degli obiettivi prefissati dal problem solving, nella fase esecutiva, e quindi nella compilazione dell’agenda, conta il modo in cui le specifiche azioni di cui si com-pongono i compiti si svolgono in relazione al tempo, ai luoghi e ai referenti. In altri termini, una volta concepito un piano, cioè una volta stabilito i compiti necessari per raggiungere gli obiet-tivi, e una volta identificati i processi idonei alla realizzazione dei compiti, bisogna suddividere i compiti in azioni per ciascun membro del gruppo, e organizzare le azioni in modo da poterle effettuare nel modo più rapido, meno disagevole e più semplice possibile. Nella fase di pianifi-cazione è quindi necessario identificare i compiti, individuare le risorse e definire i processi, sia quelli sequenziali che i paralleli, mentre nella fase di attuazione occorre scomporre i compiti in azioni e disporre le azioni nel tempo. Se nella fase di pianificazione gli obiettivi, i compiti, le risorse e i processi erano la guida, nell’esecuzione a condurre è la migliore modalità di disporre del tempo, dello spazio e del rapporto con gli altri soggetti. La verifica dell’obiettivoUna volta che tutti i membri del gruppo hanno eseguito tutte le azioni e svolto tutti i compiti, non resta che verificare che si realizzi l’obiettivo. La verifica è un passaggio molto delicato per-ché costituisce un’occasione per aggiustare il tiro. Se l’obiettivo del processo del problem sol-ving è in genere l’elaborazione di una soluzione, una risposta o una conclusione, l’obiettivo del processo di decision making è quello di stabilire l’azione da intraprendere, che di solito implica una scelta tra diverse opzioni. Tre sono le funzioni principali: analizzare, sintetizzare/immaginare e valutare. La parola “analisi” deriva da un verbo greco che significa “sciogliere” e indica l’atto di scomporre un intero nelle sue parti costituenti. Si tratta della capacità mentale di scomporre le cose mate-riali e immateriali e di dividerle nelle loro parti componenti. Il pensiero analitico è strettamente correlato al ragionamento logico.

Obiettivo

Soluzione

Compiti

Azioni

StrategiaPIANOQuali compiti perraggiungere l’obiettivo

Tempo, luoghi, referentiAGENDAQuali azioni e quando pereseguire i compiti

Figura 1. La pianificazione dettagliata di ciascun componente del gruppo d’azione e la sua agenda.

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La logica ha due componenti principali: la deduzione e l’induzione. Letteralmente deduzione significa sottrarre o togliere: è il processo di ricavare una conclusione da ciò che si conosce o si presuppone. L’induzione funziona nell’altra direzione: è il processo di inferire o verificare una legge o un principio generale dall’osservazione di casi particolari. Sintetizzare è un altro termine che deriva dal greco e significa comporre diverse cose per creare un intero; è quindi il processo inverso: mettere insieme le cose per formare un intero. Quando l’intero risultante è costituito da parti precedentemente considerate disconnesse, quando sembra qualcosa di nuovo e ha un reale valore, la sintesi è diventata creativa: ecco è il processo opposto dell’analizzare.

Le 5 fasi del decision makingLa terza funzione che entra in gioco nell’attività mentale è quella di come definire criteri di suc-cesso, quella di valutare e stimare le prestazioni e quella di giudicare. L’arte di prendere decisioni in modo efficace è costituita da 5 fasi:

• la fase 1, che è quella di definire l’obiettivo;• la fase 2, che è quella raccogliere le informazioni rilevanti;• la fase 3 ,che è quella di generare opzioni realizzabili;• la fase 4, che è quella di prendere la decisione;• la fase 5, che è quella di implementare e valutare.

Così come per il problem solving, anche per il decision making è necessario avere chiaro, o almeno il più chiaro possibile, dove si vuole arrivare. Se si hanno dubbi in merito all’obiettivo, sarebbe utile metterlo per iscritto. Inoltre, è meglio aspettare un giorno o due, se si ha tempo a sufficienza, per poi riesaminarlo.La successiva abilità riguarda il raccogliere e il passare al setaccio le informazioni rilevanti. Al-cune di esse saranno immediatamente evidenti, ma altri dati potrebbero mancare. Un valido criterio da seguire è prendere decisioni in assenza di informazioni di importanza critica che non siano immediatamente disponibili, a condizione che un ritardo pianificato sia accettabile. È importante tenere presente la distinzione tra informazioni disponibili e rilevanti. Un classico errore è considerare la decisione nel complesso, quindi rivolgersi alle informazioni disponibili che possono essere d’aiuto per decidere. Se la sovrapposizione tra informazioni necessarie e informazioni disponibili non fosse sufficiente, che cosa si può fare? Ovviamente si inizia a raccogliere maggiori informazioni della categoria necessaria. In genere si ottiene una grande quantità di informazioni rilevanti in un periodo di tempo relativamente breve e magari a un costo relativamente basso in termini di denaro. Tuttavia, presto la curva tende a stabilizzarsi. Ci si troverà a spendere sempre più tempo per scoprire sempre meno informazioni rilevanti (Figura 2).

Figura 2. La curva tempo/informazioni.

xInformazioni

Tempo/Denaro

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Il Clinical Problem Solving nella diagnosi e terapia delle patologie cardiovascolari e respiratorie

Le opzioni realizzabiliNel caso di opzioni realizzabili, è interessante notare l’utilizzo del termine “opzioni” al posto di “alternative”. Un’alternativa è letteralmente una tra due possibilità. I decision-maker privi di capacità tendono a passare fin troppo rapidamente all’alternativa di tipo “A o B”. Non dedicano abbastanza tempo ed energia mentale a generare tre o quattro possibilità. Invece, è necessario avere una grande apertura mentale per considerare tutte le possibilità, ed è qui che si produco-no le idee. È a questo punto, però, che deve entrare in gioco la propria facoltà di valutazione per identificare le opzioni realizzabili. “Realizzabili” significa capaci di essere eseguite, portate a termine o attuate. Se una cosa è realizzabile, ha una reale possibilità di essere fattibile e consente di raggiungere lo scopo prefissato. Questo processo è rappresentato dal muoversi lungo la cosiddetta “nassa per aragoste”, dalle opzioni realizzabili, che possono essere cinque o sei al massimo (perché la mente trova difficile gestirne di più) a tre opzioni e quindi a due, che sono le vere alternative (Figura 3). Il principio da tenere presente è che è più facile falsificare qualcosa che verificarlo.

I criteri di selezione: il fattore rischio Per prendere la decisione, è necessario stabilire il criterio di selezione. La decisione, pertanto, va suddivisa in diversi livelli di priorità (Figura 4). Dopo che gli aspetti essenziali sono stati soddisfatti, entra in gioco l’elenco di quelli desiderabili, gli altamente desiderabili “dovrebbe” o i piacevoli elementi aggiuntivi “potrebbe”.Nelle situazioni più complesse, si può prendere una decisione:

• elencando i vantaggi e gli svantaggi;• esaminando le conseguenze di ciascuna opzione;• valutando la strada che ci si propone di seguire rispetto al metro di misura del proprio

scopo o del proprio obiettivo;• soppesando i rischi rispetto ai guadagni previsti.

Possibilitàcreative

Opzionirealizzabili

Treopzioni

Alternative Linead’azione

scelta

Figura 3. La nassa per aragoste.

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Figura 4. I criteri per l’elaborazione delle decisioni.

Ciò che rende poi una decisione complessa è il fattore del rischio elevato. Valutare i rischi è quindi estremamente importante. Un’idea utile può essere quella di definire l’aspetto più svantaggioso, ponendosi - per esempio - la domanda: “Che cosa può accadere nello scenario peggiore?”. Il rischio è un aspetto legato all’analisi delle conseguenze delle linee d’azione attuabili. Le conseguenze si possono presentare in due forme: manifeste e latenti. Le conseguenze manifeste sono quelle che, in linea di principio, è possibile prevedere quando si prende una decisione. Le conseguenze latenti sono differenti, nel senso che non sono altrettanto probabili, o perfino possibili. Va detto che il termine “decisione” deriva da una parola latina che significa “tagliare via”. Esso è correlato a parole che hanno a che fare con il taglio, come forbici e incisione. Ciò che viene “tagliato via” quando si prende una decisione è l’attività preliminare di pensiero, soprattutto l’atto di soppesare pro e contro delle varie linee d’azione.

Il 5 punti chiavi del decision makingAlla decisione segue la fase dell’azione. Vale sempre la pena di identificare quello che viene chiamato “punto di non ritorno”. Il punto di non ritorno è il punto in cui costa di più, sotto diversi aspetti, tornare indietro o cambiare idea anziché continuare con una decisione che si sa essere imperfetta. Esiste anche un’altra ragione per considerare l’implementazione una parte del processo di decision making e non il suo esito. Accade infatti che in un certo momento la propria facoltà di valutazione è destinata a entrare in gioco per giudicare la decisione: si è scelto bene? Si sarebbe potuto prendere la decisione più velocemente o in modo più efficace, magari con meno costi per gli altri?A volte per la mente è utile disporre di un’impostazione per affrontare i compiti potenzialmente difficili. Potremmo identificare quindi cinque punti chiave nel processo di decision making (Figura 5):

1. Definire l’obiettivo dove un accorgimento utile potrebbe essere mettere l’obiettivo per iscritto, dal momento che vederlo scritto spesso aiuta a ottenere la necessaria chiarezza mentale.

2. Raccogliere le informazioni rilevanti, il che implica l’esaminare le informazioni disponibili, quindi compiere i passi necessari per acquisire le informazioni mancanti ma rilevanti per la decisione in questione.

3. Sviluppare le opzioni realizzabili spostandosi sistematicamente da una grande quantità di possibilità a un gruppo più ristretto di opzioni realizzabili.

DEVE

DOVREBBE

POTREBBE

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Il Clinical Problem Solving nella diagnosi e terapia delle patologie cardiovascolari e respiratorie

DEFINIRE L’OBIETTIVO

RACCOGLIERE LE INFORMAZIONI

SVILUPPARE LE OPZIONI

VALUTARE E DECIDERE

IMPLEMENTARE

4. Valutare e decidere i criteri di successo scelti, il prodotto cioè della funzione di valutazione della mente, giudicando questi metri di misura in base ai criteri che la linea d’azione proposta “deve”, “dovrebbe” e “potrebbe” soddisfare, e valutando anche i rischi coinvolti come le conseguenze manifeste e le possibili conseguenze latenti della decisione.

5. Implementare e valutare la decisione, poiché il punto di “taglio” ha luogo quando il pensiero finisce e si passa alla fase dell’azione o dell’implementazione, considerando che si sta ancora valutando la decisione e che fino al “punto di non ritorno” è sempre possibile tornare indietro, se i primi segni lo suggeriscono.

Spesso le decisioni devono essere prese consultando anche altri. In questo caso:• è necessario parlare con gli altri ascoltandoli, per ottenere stimoli e incoraggiamenti, nuove

prospettive e nuove idee;• è importante condividere le decisioni giacché la condivisione aumenta la probabilità della

qualità della decisione;• è essenziale essere aperti alle idee, ai suggerimenti e alle informazioni che le persone

possono offrire.

Il modello di decision makingPoiché le decisioni possono creare problemi, è necessario definire un singolo modello che vale sia per il decision making che per il problem solving (Figura 6). Qui di seguito riportiamo quello più utilizzato.

Figura 5. I cinque punti chiave nel processo di decision making.

Definire loscopo / il problema

Generare opzionirealizzabili

Scegliere lalinea / soluzione

ottimale

Principalmente analisi

Principalmente sintesi

Principalmente valutazione

Figura 6. Il modello di decision making più utilizzato.

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Quando si pensa a qualcosa da soli o quando si gestisce/partecipa a un team, è necessario possedere una capacità chiave: porsi o porre le domande giuste. Di seguito i quesiti più importanti da porsi o da porre per comprendere un problema:

• È stato definito in modo corretto il problema? • Vi sono altre possibili definizioni del problema che vale la pena di prendere in considerazione.

Se sì, quali soluzioni generali suggeriscono?• È chiaro ciò che si sta tentando di fare, dove ci si trova ora e dove si intende arrivare?• Si sono identificati i fattori importanti e i fattori salienti?• C’è bisogno di dedicare più tempo alla raccolta di maggiori informazioni?• Si conoscono i criteri, le regole, le limitazioni e le procedure rilevanti?• È stato ridotto il problema nei suoi termini più semplici, senza tuttavia semplificarlo

eccessivamente?

Queste invece le domande da porsi o da porre per arrivare a una soluzione del problema: • Si sono verificati tutti i presupposti principali?• Tra tutte le possibili soluzioni e linee d’azione, sono state definite quelle realizzabili?• È possibile eliminare alcune di queste?• Se nessuna soluzione o linea d’azione di per sé sembra quella giusta, si possono sintetizzare

gli elementi di due o più soluzioni per creare un modo efficace di affrontare un problema?• Sono stati identificati chiaramente i criteri in base ai quali le opzioni realizzabili devono

essere giudicate? • Se si è ancora bloccati, è possibile immaginarsi nello stato finale che si desidera raggiungere? • E se è possibile immaginarsi nello stato finale che si desidera raggiungere, si riesce a

procedere all’indietro da tale stato alla situazione attuale? • Qualcun altro ha affrontato questo problema?• Se lo ha affrontato, come lo ha risolto?

Per valutare la decisione e implementarla possono essere utili le domande che riportiamo qui di seguito:

• Sono state utilizzate tutte le informazioni disponibili?• È stata verificata da tutti i punti di vista la soluzione scelta?• Sono chiare le conseguenze manifeste?• È stato disposto un piano di implementazione con date e ore di completamento?• Il piano è realistico?• Esiste un piano di emergenza qualora le cose vadano diversamente dal previsto?

Non è necessario porsi o porre queste domande ogni volta che vi è un coinvolgimento nelle elaborazioni di decisioni o nella risoluzione di problemi, poiché alcune di queste domande avranno già delle risposte chiare. Quello che è importante sviluppare sono i tre livelli di competenza sotto indicati:

1. Essere consapevoli dei problemi o della necessità di decisioni, a livello effettivo e potenziale. 2. Comprendere dove ci si trova in relazione al problema o alla decisione, se si deve svolgere

altro lavoro per analizzare le informazioni e definire il problema o la decisione, ovvero se si è in possesso di tutto quello che occorre per generare nuove opzioni realizzabili.

3. Essere capaci di porsi e porre le domande giuste alle persone giuste nel momento giusto e di mettere alla prova le risposte per valutarne il contenuto di verità.