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PENALE E GIUSTIZIA · La “revisione dei pari” garantisce il livello qualitativo dei contenuti della Rivista. ... detto giudizio è rimesso ... re del fatto incerto al di fuori

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Diretta da Adolfo Scalfati 6-2017

G. Giappichelli Editore – Torino

PROCESSOPENALE E GIUSTIZIA

Comitato di direzione:Ennio Amodio, Mar Jimeno Bulnes, Giuseppe Di Chiara, Paolo Ferrua, Giulio Garuti, Luigi Kalb, Sergio Lorusso, Cristina Mauro, Mariano Menna, Gustavo Pansini, Francesco Peroni, Stephen C. Thaman

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© Copyright 2017 - G. GIAPPICHELLI EDITORE - TORINOVIA PO, 21 - TEL. 011-81.53.111 - FAX 011-81.25.100

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Comitato di direzione

Ennio Amodio, professore di procedura penale, Università di Milano StataleMar Jimeno Bulnes, professore ordinario di diritto processuale, Università di BurgosGiuseppe Di Chiara, professore ordinario di procedura penale, Università di Palermo Paolo Ferrua, professore di procedura penale, Università di Torino Giulio Garuti, professore ordinario di procedura penale, Università di Modena e Reggio Emilia Luigi Kalb, professore ordinario di procedura penale, Università di Salerno Sergio Lorusso, professore ordinario di procedura penale, Università di FoggiaCristina Mauro, professore ordinario di Scienze criminali, Università di PoitiersMariano Menna, professore ordinario di procedura penale, Seconda Università di Napoli Gustavo Pansini, professore di procedura penale, Università di Napoli SOB Francesco Peroni, professore ordinario di procedura penale, Università di Trieste♱Giorgio Santacroce, primo presidente della Corte di cassazioneStephen C. Thaman, professore emerito di diritto processuale penale comparato, Università di Saint Louis

Coordinamento delle Sezioni

Teresa Bene, professore ordinario di procedura penale, Seconda Università di Napoli Maria Elena Catalano, professore associato di procedura penale, Università dell’InsubriaPaola Corvi, professore associato di procedura penale, Università Cattolica di PiacenzaDonatella Curtotti, professore ordinario di procedura penale, Università di FoggiaMitja Gialuz, professore associato di procedura penale, Università di Trieste Vania Maffeo, professore associato di procedura penale, Università di Napoli Federico IICarla Pansini, professore associato di procedura penale, Università di Napoli ParthenopeNicola Triggiani, professore ordinario di procedura penale, Università di Bari “Aldo Moro”Cristiana Valentini, professore associato di procedura penale, Università di Ferrara Daniela Vigoni, professore ordinario di procedura penale, Università di Milano Statale

redazione

Gastone Andreazza, magistrato – Fulvio Baldi, magistrato – Antonio Balsamo, magistrato – Giuseppe Biscar-di, ricercatore di procedura penale, Università di Roma Tor Vergata – Orietta Bruno, ricercatore di pro-cedura penale, Università di Roma Tor Vergata – Lucio Camaldo, professore associato di diritto proces-suale penale, Università di Milano Statale – Sonia Campailla, ricercatore di diritto dell’Unione europea, Università di Roma Tor Vergata – Laura Capraro, ricercatore di procedura penale, Università di Roma Tor Vergata – Assunta Cocomello, magistrato – Marilena Colamussi, ricercatore di procedura penale, Universi-tà di Bari “Aldo Moro” – Antonio Corbo, magistrato – Gaetano De Amicis, magistrato – Alessandro Diddi, ri-cercatore di procedura penale, Università di Roma Tor Vergata – Ada Famiglietti, ricercatore di procedura penale, Università di Roma Tor Vergata – Rosa Maria Geraci, ricercatore di procedura penale, Università di Roma Tor Vergata – Paola Maggio, ricercatore di procedura penale, Università di Palermo – Antonio Pagliano, ricercatore di procedura penale, Seconda Università di Napoli – Giorgio Piziali, magistrato – Roberto Puglisi, dottore di ricerca in procedura penale, Università di Roma Tor Vergata – Alessia Ester Ricci, assegnista di ricerca in diritto processuale penale, Università di Foggia – Nicola Russo, magistrato – Alessio Scarcella, magistrato – Elena Zanetti, ricercatore di procedura penale, Università di Milano Statale

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Peer review

La “revisione dei pari” garantisce il livello qualitativo dei contenuti della Rivista. La valutazione viene compiuta tenendo conto della fisionomia tradizionale dei generi letterari (Articolo e Nota), misurandone la chiarezza espositiva, i profili ricostruttivi, il grado di ricerca, la prospettiva critica e le soluzioni interpretative offerte. La verifica è effettuata a rotazione da due professori ordinari di discipline corrispondenti o affini alle materie oggetto dei lavori, i quali esprimono un giudizio sulla meritevolezza o meno della pubblicazione dei contributi. Nell’ipotesi di valutazioni contrastanti tra i revisori, detto giudizio è rimesso al Direttore della Rivista.Il controllo avviene in forma reciprocamente anonima. I contenuti editi nella Sezione denominata “Scenari” non sono soggetti a revisione.

Peer reviewerS

Enrico Mario Ambrosetti, professore ordinario di diritto penale, Università di Padova Alessandro Bernasconi, professore ordinario di procedura penale, Università di Brescia Piermaria Corso, professore ordinario di procedura penale, Università di Milano Statale Agostino De Caro, professore ordinario di procedura penale, Università del Molise Mariavaleria del Tufo, professore ordinario di diritto penale, Università di Napoli SOB Marzia Ferraioli, professore ordinario di procedura penale, Università di Roma Tor Vergata Carlo Fiorio, professore straordinario di procedura penale, Università di Perugia Novella Galantini, professore ordinario di procedura penale, Università di Milano Statale Maria Riccarda Marchetti, professore ordinario di procedura penale, Università di Sassari Oliviero Mazza, professore ordinario di procedura penale, Università di Milano Bicocca Paolo Moscarini, professore ordinario di procedura penale, Università di Roma LUISS Angelo Pennisi, professore di procedura penale, Università di Catania Tommaso Rafaraci, professore ordinario di procedura penale, Università di Catania Antonio Scaglione, professore ordinario di procedura penale, Università di Palermo Andrea Scella, professore ordinario di procedura penale, Università di UdineGianluca Varraso, professore ordinario di procedura penale, Università di Milano Cattolica

Email per la corrispondenza: [email protected]

Email dell’Editore: [email protected]

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SOMMARIO

Sommario

Editoriale | Editorial ELENA MARIA CATALANO I confini operativi della regola di giudizio incarnata dal paradigma bard / Wor-ring developments in the current debate over the bard rule 973

Scenari | Overviews Novità sovranazionali / Supranational news (FRANCESCA MANFREDINI) 980 De jure condendo (MARILENA COLAMUSSI) 985 Corti europee / European Courts (GIORGIO CREPALDI) 988 Corte costituzionale (WANDA NOCERINO) 995 Sezioni Unite (ROSA GAIA GRASSIA) 999 Decisioni in contrasto (PAOLA CORVI) 1006

Avanguardie in giurisprudenza | Cutting Edge Case Law Il giudice di legittimità può valutare gli “altri atti del processo” a contenuto probatorio Corte di cassazione, Sezione III, sentenza 9 giugno 2017, n. 28697 – Pres. Savani; Rel. Di Stasi 1009

Il revirement della Corte di cassazione in merito alla valutazione degli “altri atti del pro-cesso”. A proposito del novellato art. 606 c.p.p. / The Court of cassation revirement about the rating of “the other process acts”. The new art. 606 c.p.p. (CLAUDIA CAVALIERE) 1012

Il diritto di presentare querela nell’interesse della società fallita Corte di cassazione, Sezione V, sentenza 9 giugno 2017, n. 28746 – Pres. Nappi; Rel. Settem-bre 1022

Il diritto dell’amministratore di una società fallita di presentare querela / About the com-petence of the company’s director of a failed trading company to file a complaint (FEDERICO LU-CARIELLO) 1023

Il ricorso straordinario per errore di fatto ed il giudizio di revisione: quali ambiti appli-cativi? Corte di cassazione, Sezioni Unite, sentenza 17 marzo 2017, n. 13199 – Pres. Canzio; Rel. Fidelbo 1032

Il ricorso straordinario per errore di fatto: un rimedio giuridico processuale oramai ge-neralizzato per far valere gli errori percettivi / The extraordinary appeal for factual error: a processual remedy by now common to complaint against perceptual mistakes (GIANRICO RA-NALDI) 1041

Disponibilità di un’attività lavorativa ed accesso all’affidamento in prova Corte di cassazione, Sezione I, sentenza 10 gennaio 2017, n. 19637 – Pres. Vecchio; Rel. Saraceno 1047

Attività lavorativa e giudizio prognostico finalizzato alla concessione dell’affidamento in prova / Employment and prognostic judgment in the probation system (GIUSEPPE MA-GLIOCCA) 1050

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SOMMARIO

Dibattiti tra norme e prassi | Debates: Law and Praxis La riforma Orlando: profili di diritto penale sostanziale / The Orlando reform: aspects of substantive criminal law (ENRICO MARIO AMBROSETTI) 1057

Processo penale e legge n. 103 del 2017: la riforma che non c’è / Criminal process: the in-existent reform (ELISA LORENZETTO) 1067

Le tre deleghe sulla riforma processuale introdotte dalla legge n. 103 del 2017 / The three legislative delegations concerning criminal justice provided by the Law no. 103/2017 (PIER-

PAOLO DELL’ANNO) 1084

Analisi e prospettive | Analysis and Prospects Disorientamenti giurisprudenziali in tema di ne bis in idem e “doppio binario” sanziona-torio / Disoriented Case-law about ne bis in idem and dual proceedings (FABIO CASSIBBA) 1098

Processo penale e mezzi di comunicazione di massa: un instabile stato dell’arte / Crimi-nal trial and the mass media: an unsettled state of the art (GIOVANNI PAOLO VOENA) 1113

Indici | Index Autori / Authors 1133

Provvedimenti / Measures 1134

Materie / Topics 1135

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EDITORIALE | I CONFINI OPERATIVI DELLA REGOLA DI GIUDIZIO INCARNATA DAL PARADIGMA BARD

Editoriale | Editorial

ELENA MARIA CATALANO

Professore associato confermato di Diritto processuale penale – Università dell’Insubria di Como e Varese

I confini operativi della regola di giudizio incarnata dal paradigma bard Worrying developments in the current debate over the bard rule

La cultura processualpenalistica ha prevalentemente accolto con grande scetticismo l’introduzione del criterio risolutore del fatto incerto dell’oltre ogni ragionevole dubbio. Ciononostante, l’ingresso del canone bard nel nostro sistema ha condizionato in modo significativo gli orientamenti dottrinali e giurisprudenziali, tanto che il paradigmabard ha svolto un inedito ruolo di fattore di apertura del sistema a esigenze di giustizia sostanziale. Al tempo stes-so la formula bard è andata incontro a un processo di volgarizzazione, che, da un lato, ha potuto determinare rein-terpretazioni in chiave inquisitoria del principio, dall’altro lato, ha favorito improprie applicazioni del criterio risoluto-re del fatto incerto al di fuori dei confini fisiologici del giudizio di merito. The concept of reasonable doubt cannot be properly understood apart from the context of the Anglo-American legal culture where it was originally developed. Transplants of legal patterns are never a painless operation. Thiscultural gap accounts for the great deal of queries raised as a consequence of enacting the bard rule in our Na-tional framework. In the Italian case law a worrying development took place, which overturned the liberal roots of the bard rule.

L’USO UBIQUO E TAUMATURGICO DEL CANONE DELL’OLTRE OGNI RAGIONEVOLE DUBBIO

Come è noto, il nostro sistema processuale ha recepito il criterio risolutore del fatto incerto, di matri-ce angloamericana, dell’oltre ogni ragionevole dubbio. L’introduzione nel nostro sistema di una norma intrusa fin nella formulazione linguistica, da un lato, ha creato entropia, dall’altro lato, ha imprevedi-bilmente mostrato una inusitata capacità di incidere positivamente sul diritto vivente, venendo a ren-dere effettive disposizioni codicistiche rimaste sulla carta e ad imprimere una accelerazione alla tra-sformazione in fieri di istituti centrali dell’ordinamento quali il giudizio di appello.

L’entropia si è manifestata nella spaccatura che ha diviso, nella nostra cultura giuridica, la dottrina processuale, che ha generalmente accolto con grande scetticismo l’introduzione della formula bard, e la cultura penale sostanziale, che ha prevalentemente salutato con entusiasmo la riforma dell’art. 533 c.p.p. La cultura processuale ha ritenuto che la riforma dell’art. 533 c.p.p. costituisse una modifica me-ramente “descrittiva”, un espediente retorico, un banale americanismo 1. Al contrario taluni studiosi di diritto penale sostanziale hanno parlato di rivoluzione copernicana nell’accertamento processuale del fatto e della responsabilità giuridico-penale 2.

Analoga ambiguità caratterizza l’atteggiamento della giurisprudenza. La prevalente giurisprudenza

1 V. G. Illuminati, Giudizio, in Compendio di procedura penale, a cura di G. Conso-V. Grevi-M. Bargis, Padova, Cedam, 2014, p. 882. Per l’impiego dell’espressione “banale americanismo” v. F. Cordero, Procedura penale, Milano, Giuffrè, 2012, p. 995.

2 Di una rivoluzione copernicana parla C.E. Paliero, Il ragionevole dubbio diventa criterio, in Guida dir., 2006, n. 10, p. 73. V. sulla materia E.M. Catalano, Ragionevole dubbio e logica della decisione. Alle radici del giusnaturalismo processuale, Milano, Giuffrè, 2016, passim.

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EDITORIALE | I CONFINI OPERATIVI DELLA REGOLA DI GIUDIZIO INCARNATA DAL PARADIGMA BARD

interpreta la riforma dell’art. 533 c.p.p. in termini di modifica meramente “simbolica” ovvero in termini di semplice chiarificazione di contenuti già impliciti nella lettera e nella logica delle norme del codice che dettano il criterio risolutore del fatto incerto nel processo penale. 3 Questa stessa giurisprudenza mostra una inspiegabile tendenza ad un uso ubiquo, quasi taumaturgico del canone bard, che è andato incontro ad una vera e propria volgarizzazione e talora ad una radicale metamorfosi. Un canone estra-neo alla nostra tradizione giuridica ha saputo condizionare, nel bene e nel male, in modo determinante gli orientamenti della dottrina e della giurisprudenza.

Infatti, sul piano applicativo, la valorizzazione della formula del ragionevole dubbio ha influenzato la fisionomia del giudizio di appello e ha potuto rendere effettivo l’impianto dialettico della motivazio-ne, già previsto dall’art. 546 c.p.p. che era rimasto disapplicato.

Al tempo stesso la difficoltà di armonizzazione del canone bard all’interno di un sistema di diritto codificato, improntato a criteri di convincimento razionale del giudice, ha rischiato di trascinare l’ap-plicazione di canoni di logica debole e di creare entropia. L’entropia si è manifestata, tra l’altro, nella confusione tra giudizio di merito e giudizio di rito, che costituisce uno degli aspetti della volgarizzazio-ne del paradigma del ragionevole dubbio.

L’entropia si è manifestata in quegli orientamenti giurisprudenziali minoritari che reinterpretano in chiave inquisitoria il paradigma bard, attraverso il recupero del concetto di prova logica che viene a se-gnare un arretramento rispetto all’assetto previgente 4. La giurisprudenza che rilegge il canone bard at-traverso canoni inquisitori arriva a ricavare la colpevolezza dell’imputato dal fatto che la «possibilità dell’azione di una (persona diversa dall’imputato) … è stata esclusa, al di là di ogni ragionevole dub-bio, attraverso la prova logica» 5. Questo ragionare, nel suo incedere meccanico e sillogistico, evoca quella serie di operazioni burocratiche di deduzione da regole generali che caratterizza la ricerca della verità nei sistemi inquisitori. Del resto, la limpida enunciazione dell’assunto per cui «escluso l’impos-sibile, quello che rimane, per quanto improbabile, non può che essere la verità» si trova nei romanzi di Conan Doyle 6. La c.d. prova logica è infatti estranea al catalogo dei concetti giuridici: «quando nel pro-cesso si parla di prova si ha riguardo sempre a una prova storica, non già a una prova logica e dialetti-ca, come quella che dà il matematico quando dimostra un teorema» 7. La c.d. prova logica non si riferi-sce a dati empirici, ma consiste in un mero ragionamento per quanto articolato e apparentemente inop-pugnabile. Infatti, «la prova logica o dialettica si svolge unicamente attraverso un’attività deduttiva mentre la prova storica dei fatti si forma attraverso un’attività percettiva e richiede un apparato costi-tuito da persone o cose» 8.

Per altro verso, la tendenza a considerare le decisioni giudiziarie in termini di operazioni logiche controllabili e verificabili conduce ad una disumanizzazione del giudice, alla perdita di quella partico-lare sensibilità morale e di ragione prudenziale dal sapore antico che è il tratto essenziale della ragione-volezza. Così, in un noto processo per omicidio commesso in un’abitazione privata, «la possibilità dell’azione di un estraneo … è stata esclusa, al di là di ogni ragionevole dubbio, attraverso la prova lo-gica», ovvero in base alla sequenza argomentativa per cui «una volta, invero, dimostrata l’assoluta im-plausibilità dell’ingresso di un estraneo nell’abitazione … unica realistica e necessitata alternativa resi-duale è quella della responsabilità della sola persona presente in casa» 9.

3 V. Cass., sez. II, 5 maggio 2017, n. 24129, inedita; Cass., sez. II, 9 novembre 2012, n. 7035, in Cass. pen., 2013, p. 2731; Cass., sez. II, 21 aprile 2006, n. 19575, in CED Cass., n. 233785.

4 Cass., sez. I, 21 maggio 2008, n. 31456, in Cass. pen., 2009, p.1867, con nota di F. Caprioli, Scientific Evidence e logiche del pro-babile per il delitto di Cogne.

5 Cass., sez. I, 21 maggio 2008, n. 31456, cit. Il canone bard, così distorto e convertito nel suo opposto, imprime alla prova logica la capacità taumaturgica di neutralizzare l’importanza di lacune e aporie nella ricostruzione dei fatti: «la consistenza della prova logica rende, dunque, privo di decisiva importanza il problema della sicura determinazione dell’ora della morte e giustifica il mancato acco-glimento della richiesta, peraltro avanzata solo dopo l’intervenuta declaratoria di chiusura del dibattimento, di nuovo esame del consu-lente della difesa … L’impossibilità di individuare con certezza la causale od occasione che originò il gesto criminoso non impedisce, peraltro, data la concludenza del quadro indiziario, di ascriverne la responsabilità all’imputata».

6 Per la limpida enunciazione dell’assunto per cui «escluso l’impossibile, quello che rimane, per quanto improbabile, non può che essere la verità» v., infatti, A. Conan Doyle, Il segno dei quattro (1890), trad. it., Milano, 2015, p. 49.

7 P. Calamandrei, La genesi logica della sentenza civile, in Studi sul processo civile, I, Padova, Cedam, 1930, p. 10. 8 F. Carnelutti, La prova civile, Roma, Athenaeum, 1915, p. 73. 9 Cass., sez. I, 21 maggio 2008, n. 31456, cit.

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EDITORIALE | I CONFINI OPERATIVI DELLA REGOLA DI GIUDIZIO INCARNATA DAL PARADIGMA BARD

Questa massima, nel suo essere burocratica e implacabile, si pone agli antipodi delle esigenze di umanizzazione evocate dal canone bard ed esprime piuttosto la disumanità della Allegoria della Giusti-zia preparata da Klimt per decorare il soffitto dell’Aula Magna dell’Università di Vienna, Allegoria in cui la Giustizia è rappresentata dal volto impassibile dei giudici e dalla forza cieca delle Erinni e di una piovra mostruosa che incombe crudelmente sul condannato. È evidente il contrasto con la valorizza-zione dell’exprit de finesse che emerge dal canone bard.

La prova logica viene rafforzata dall’impiego del canone bard quale modulo stilistico ripetuto. L’uso del canone bard assume il ruolo di quel meccanismo narrativo costituito dalla reiterazione ossessiva de-gli stessi frames, reiterazione capace di generare verità. I frames, ovvero i messaggi verbali, che costitui-scono la cornice tematica ed interpretativa entro la quale tipizzare i fatti oggetto del processo, non han-no solo una valenza descrittiva, ma hanno anche una funzione normativa, valendo a somministrare una definizione della situazione e una anticipazione di giudizio 10. Un volumetto poco noto di Lewis Carrol – The hunting of the snark – comincia in questo modo: «Questo è proprio un posto per lo snark. Questo è proprio un posto per lo snark … Questo è proprio un posto per lo snark … Quello che vi dico tre volte è vero». La reiterazione dei frames produce, nel pubblico, l’impressione di verità 11. Ne segue, tra l’altro, una sorta di repulsione verso il pensiero complesso e rigoroso.

L’impiego ubiquo della locuzione bard quale formula taumaturgica utile a rafforzare argomentazioni relative alle più diverse fasi del processo coinvolge, quindi, rischi ulteriori rispetto a quelli impliciti nel-la volgarizzazione di una espressione linguistica.

Su un piano ancora diverso, l’impiego del canone bard quale modulo stilistico ripetuto viene di fatto a rafforzare argomentazioni già solide, mentre non riesce a mascherare la debolezza di decisioni pro-nunciate dietro lo schermo della fortunata massima secondo la quale «la regola di giudizio dell’al di là di ogni ragionevole dubbio non deve impedire la condanna a fronte di un solido e coerente quadro probatorio se le ipotesi alternative sono eventualità remote che, pur astrattamente formulabili e pro-spettabili come possibili in rerum natura, si pongono al di fuori dell’ordine naturale delle cose e della normale razionalità umana» 12.

L’IMPIEGO IMPROPRIO DELLA FORMULA BARD AL DI FUORI DEL CONTESTO FISIOLOGICO DEL DIBATTI-MENTO E DELLA DECISIONE DI MERITO

Su un piano diverso ma contiguo rispetto alla tendenza della giurisprudenza a un uso eccessivo del-la formula bard si colloca la tendenza della dottrina e della giurisprudenza più recenti alla espansione del principio al di fuori dei limiti fisiologici corrispondenti ai contesti del dibattimento e della decisione entro i quali la regola bard si colloca, nonché al soggetto – il giudice – che rappresenta il naturale desti-natario della regola di giudizio.

Parte della dottrina reinterpreta le regole di giudizio operanti in sede di archiviazione e di udienza preliminare alla luce del canone dell’oltre ogni ragionevole dubbio. Lo scioglimento dell’alternativa tra richiesta di archiviazione e esercizio dell’azione penale richiede al pubblico ministero di compiere un giudizio prognostico sull’idoneità degli elementi acquisiti a sostenere l’accusa in giudizio, ovvero sulla superfluità o meno del dibattimento. La dottrina ha ritenuto che il magistrato inquirente sia ora chiamato a valutare se allo stato degli atti gli elementi acquisiti lascino residuare un ragionevole dubbio e se il futuro dibattimento sia in grado superare tale dubbio o meno 13. Analogamente, la giu-

10 Sul tema v. P. Giglioli-S. Cavicchioli-G. Fede, Rituali di degradazione. Anatomia del processo Cusani, Bologna, Il Mulino, p. 40. 11 V., per l’impiego della locuzione “oltre il ragionevole dubbio”, con riferimento all’esigenza di rigore della dimostrazione de-

gli elementi costitutivi delle diverse fattispecie incriminatrici, tra le tante, Cass., sez. VI, 4 novembre 2015, n. 45491; Cass., sez. II, 13 ottobre 2015, n. 42656, inedita; Cass., sez. VI, 14 maggio 2015, n. 34200, in Dir. e giustizia, 2015. Con riferimento ai reati tribu-tari e al superamento delle soglie di punibilità v. Cass., sez. III, 1° giugno 2016, n. 53907, in CED Cass., n. 268717. In dottrina v., tra i tanti, M. Collica, Il riconoscimento del ruolo delle neuroscienze nel giudizio di imputabilità, in Dir. pen. contemp., 12 febbraio 2012; F. Mucciarelli, Le “nuove false” comunicazioni sociali: note in ordine sparso, in Dir. pen. contemp., 18 giugno 2015, p. 5, con riferimen-to all’accertamento del dolo nelle incriminazioni di false comunicazioni sociali.

12 V. da ultimo Cass., sez. II, 23 maggio 2017, n. 29503, in CED Cass, n. 243801. 13 V. C. Conti, Archiviazione, in Trattato di procedura penale, diretto da G. Spangher, vol. III, Indagini preliminari e udienza preli-

minare, a cura di G. Garuti, Torino, Utet, 2009, p. 752. In termini ancora più netti v. F. D’Alessandro, L’oltre ogni ragionevole dubbio nella valutazione della prova indiziaria, in Cass. pen., 2005, p. 759.

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EDITORIALE | I CONFINI OPERATIVI DELLA REGOLA DI GIUDIZIO INCARNATA DAL PARADIGMA BARD

risprudenza e la dottrina hanno fatto riferimento al dovere del giudice dell’udienza preliminare di valutare se le eventuali lacune nel quadro probatorio a carico possano essere colmate e possano esse-re colmate al di là di ogni ragionevole dubbio. In caso contrario, dovrà essere pronunciata sentenza di non luogo a procedere 14.

Un percorso argomentativo parzialmente diverso viene seguito da quella parte della dottrina che postula la massima estensione dell’ambito applicativo del canone bard, sul rilievo dell’univocità del termine “provare” 15. Tuttavia tale conclusione si incrina di fronte a considerazioni di ordine sistematico ed epistemologico.

Dal punto di vista sistematico, il criterio risolutore del fatto incerto recepito nell’art. 533 c.p.p. affon-da le sue radici in un complesso di valori orientato all’attuazione della presunzione costituzionale di innocenza e di un modello liberalgarantista del processo penale. Del resto, la lettera dell’art. 533 c.p.p. assoggetta al canone bard il solo tema della colpevolezza. Sussiste una stretta compenetrazione tra la re-gola di giudizio e i valori coinvolti nella decisione di merito. Analogo legame sussiste tra le regole di giudizio applicabili nelle singole decisioni di rito e i diversi valori coinvolti in ciascuna materia. Così, ad esempio, l’interesse pubblico all’ordinata attuazione della funzione giurisdizionale e alla speditezza processuale informa la regola di giudizio applicabile nel procedimento di restituzione nel termine, coe-rentemente con il carattere eccezionale dell’istituto. L’art. 175, comma 1, c.p.p., nel condizionare la pro-nuncia della decisione a una data iniziativa della parte interessata, legittima la qualificazione della si-tuazione del soggetto promotore del procedimento in termini di onere in senso stretto 16.

Sul piano epistemologico, l’applicazione del canone dell’oltre ogni ragionevole dubbio presuppone la completezza dell’accertamento, completezza che non può conseguire ad un accertamento in fieri qua-le quello conseguito, ad esempio, in sede cautelare. Costituirebbe un ironico ossimoro l’affermazione del conseguimento di una prova al di là di ogni ragionevole dubbio in presenza di dati probatori anco-ra incompleti. Così, un canone di logica debole ha potuto importare nel nostro sistema una nozione schiettamente epistemologica quale quella di peso probatorio 17.

L’obiezione per cui la necessità della “prova” di un fatto non ammette, sul piano logico, graduazioni appare, tuttavia, così insidiosa da meritare ulteriori riflessioni. In un mondo perfetto, la linea che separa la certezza dal dubbio è una. In un mondo imperfetto, talora l’ordinamento si appaga di uno standard di prova inferiore (quale quello della prevalenza delle prove sulle prove di segno opposto) per ritenere provato un tema di prova dato (ad esempio la condotta illecita di cui all’art. 500 c.p.p.).

Al di fuori del giudizio di merito, il criterio risolutore del fatto processuale incerto può essere de-terminato sulla scorta dei valori tutelati dai singoli istituti. In un certo senso, l’abito-norma deve essere proporzionato al contenuto; altrimenti, come nel caso del manto del Macbeth shakespeariano, «una ve-ste che per intento di grandiosità perde ogni contatto con le dimensioni e le potenzialità dell’individuo ha il solo effetto di evidenziarne la fragilità» 18.

LA CONFUSIONE TRA GIUDIZIO DI MERITO E PROCEDIMENTO CAUTELARE QUALE ASPETTO DELLA VOLGA-RIZZAZIONE DEL PARADIGMA DEL RAGIONEVOLE DUBBIO

La regola di giudizio applicabile nel procedimento cautelare non può essere determinata sulla sola scorta dei dati normativi ambigui, che si limitano a fissare il requisito della gravità del substrato probato-rio della misura cautelare richiesta.

14 Si pensi al caso di ragionevole dubbio sulla morte dell’imputato e di avvenuta esplorazione di tutti i possibili itinerari di-mostrativi. V. Cass., sez. I, 7 ottobre 2008, Bacci, in CED Cass., n. 241711.

15 P. Ferrua, La colpevolezza oltre ogni ragionevole dubbio, in AA.VV, Il nuovo regime delle impugnazioni tra Corte costituzionale e Sezioni Unite, a cura di L. Filippi, Padova, Cedam, 2007, 143; Id, La prova nel processo penale: profili generali, in P. Ferrua-E. Marza-duri-G. Spangher, La prova penale, Torino, Giappichelli, 2013, p. 27.

16 V. Cass., sez. II, 7 aprile 2015, n. 44509, in CED Cass., n. 264965; Cass., sez. VI, 3 aprile 2014, n. 21901, in CED Cass., n. 259699.

17 Sul concetto di peso probatorio v. L. Cohen, Il ruolo del peso probatorio nella prova penale, in L’inferenza probabilistica nel diritto delle prove. Usi e limiti del bayesianesimo, a cura di P. Tillers-E. Green, trad. it., Milano, Giuffrè, 2003, p. 171.

18 R. Palavera, “Abbigliamento, diritto e”. Marginalia, in Fashion law. Le problematiche giuridiche della filiera della moda, a cura di B. Pozzo-V. Iacometti, Milano, Giuffrè, 2016, p. 286.

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EDITORIALE | I CONFINI OPERATIVI DELLA REGOLA DI GIUDIZIO INCARNATA DAL PARADIGMA BARD

Si è appena evidenziato come nel giudizio di merito il criterio risolutore del fatto incerto sia condi-zionato dai valori fondamentali in gioco nel processo penale: in primis la presunzione di innocenza. Nell’accertamento dei fatti processuali il criterio risolutore del fatto incerto varia in funzione dei valori tutelati dai singoli istituti. Proprio l’applicazione di questo criterio – ovvero la considerazione degli in-teressi in gioco – conduce, però, ad una certa sovrapposizione tra il criterio risolutore del fatto incerto nel giudizio cautelare e in quello di merito.

Militano nel senso della applicazione di una regola di giudizio rigorosa in sede cautelare l’im-portanza del valore coinvolto – la libertà personale – unitamente a quel favor libertatis che informa la struttura accusatoria del processo, connotazione accentuata dall’ingresso nel sistema nel canone bard. Si può dubitare seriamente della possibilità di «tenere due anni in custodia cautelare una persona quando c’è il ragionevole dubbio che sia innocente» 19. Nello stesso senso depone il rapporto di strumentalità tra il giudizio cautelare e il giudizio di merito.

La formulazione di un giudizio positivo sulla sussistenza del fumus commissi delicti richiede, quindi, il conseguimento di uno standard di prova analogo a quello posto a fondamento della decisione di condanna, nei limiti consentiti dallo stato delle conoscenze possedute 20.

La tendenziale sovrapponibilità della regola di giudizio applicabile nel procedimento cautelare e di quella applicabile nel giudizio di merito non costituisce però il portato di una estensione dell’art. 533 c.p.p. alla materia cautelare. La regola di giudizio sull’oltre ogni ragionevole dubbio non si applica, in quanto tale, nel procedimento de libertate. Si è già rilevato come l’incompletezza dell’accertamento pre-cluda l’operatività in sede cautelare dell’art. 533 c.p.p. Coerentemente, nel decidere sulla dedotta viola-zione dell’art. 533 motivata dal riferimento alla decisione del Tribunale del riesame, la Cassazione ha ritenuto che il ragionevole dubbio non potesse essere fatto discendere dalla pronuncia del Tribunale del riesame che aveva a suo tempo escluso la sussistenza di indizi di reità 21. Appare invece ipotizzabile un uso del canone bard quale principio interpretativo di rango costituzionale che deve guidare l’interprete nell’apprezzamento della gravità degli indizi.

LE APERTURE A ESIGENZE DI GIUSTIZIA SOSTANZIALE DELLA GIURISPRUDENZA SENSIBILE AI VALORI EVO-CATI DALL’OLTRE OGNI RAGIONEVOLE DUBBIO

Il canone bard ha già concretamente operato nel nostro sistema come fattore di umanizzazione del processo penale.

Così, il canone bard non solo ha indotto la giurisprudenza all’apertura ad esigenze di giustizia so-stanziale, al ripudio delle scorciatoie probatorie e alla valorizzazione della sensibilità morale del giudi-ce, ma ha altresì influenzato il metodo di accertamento dei fatti, quale risulta dalla motivazione.

Sensibilità alle scelte morali del singolo è stata mostrata dalla giurisprudenza nella non facile opera di valutazione di comportamenti sospettati, sulla base di criteri sociologici, di denotare l’appartenenza a sodalizi mafiosi. Così, semplici «deduzioni sul dover essere dell’agire mafioso non saranno, di regola, sufficienti al conseguimento della piena prova circa il concreto coinvolgimento in un reato-fine dell’associazione … nella logica dell’oltre ogni ragionevole dubbio» 22.

L’intervenuto mutamento di giurisprudenza relativo all’art. 546 c.p.p. riflette l’adeguamento alle

19 L’esempio è di F.M. Iacoviello, La Cassazione. Fatto, diritto, motivazione, Milano, Giuffrè, 2013, p. 432. 20 Sul tema v. D. Negri, Fumus commissi delicti. La prova per le fattispecie cautelari, Torino, Giappichelli, 2004, passim. 21 Cass., sez. I, 10 ottobre 2007, Cacisi, in Cass. pen., 2009, n. 167. Coerentemente Cass., sez. II, 14 giugno 2013, n. 28865, in

CED Cass., n. 256657, ha ritenuto che «la valutazione allo stato degli atti in ordine alla colpevolezza dell’indagato, per essere idonea ad integrare il presupposto per l’adozione di un provvedimento de libertate, deve quindi condurre non all’unica ricostru-zione dei fatti che induca, al di là di ogni ragionevole dubbio, ad uno scrutinio di responsabilità dell’incolpato, ma è necessario e sufficiente che permetta un apprezzamento in termini prognostici che, come tale, è ontologicamente compatibile con possibili ricostruzioni alternative, anche se fondate sugli stessi elementi». V. anche Cass., sez. II, 6 maggio 2015, n. 28602, in CED Cass., n. 264138, nonché Cass., sez. VI, 15 febbraio 2017, n. 11550, in CED Cass., n. 269138: «Qualora il tribunale della libertà accolga la domanda cautelare, riformando in sede di appello ex art. 310 cod. proc. pen. la decisione di rigetto del G.i.p., deve escludersi la sussistenza dell’onere della c.d. motivazione rafforzata, in quanto tale onere è configurabile solo in sede di giudizio, dove il ca-none valutativo è costituito non dalla gravità indiziaria, ma dalla certezza processuale della responsabilità dell’imputato oltre ogni ragionevole dubbio».

22 V. Cass., sez. VI, 27 febbraio 2015, n. 1390, in Dir. pen. contemp., 14 aprile 2015, p. 15.

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EDITORIALE | I CONFINI OPERATIVI DELLA REGOLA DI GIUDIZIO INCARNATA DAL PARADIGMA BARD

esigenze metodologiche richieste dal canone bard che consacra il metodo del dubbio già accolto dal vi-gente codice di procedura penale. L’adozione del canone bard ha favorito l’adozione di una struttura dialogica della motivazione articolata intorno al superamento dei dubbi interni (al costrutto accusatorio recepito nella sentenza) e dei dubbi esterni (ingenerati da spiegazioni alternative dei fatti) 23. Il rilievo assunto anche a livello ideologico-politico dal modello di motivazione in fatto appare ben evidente alla luce della riformulazione dell’art. 546 c.p.p. da parte della c.d. riforma Orlando.

Una giurisprudenza attenta alle implicazioni del canone bard ha operato una rivisitazione del giudi-zio di appello in senso marcatamente garantista. Infatti, i più recenti orientamenti giurisprudenziali raccordano le indicazioni di matrice europea con l’interpretazione illuminata dal canone bard della fi-sionomia del giudizio di appello 24. Come è noto la c.d. riforma Orlando ha recepito tali indicazioni in-serendo nell’art. 603 c.p.p. un comma 3-bis, secondo il quale «nel caso di appello del pubblico ministero contro una sentenza di proscioglimento per motivi attinenti alla valutazione della prova dichiarativa, il giudice dispone la rinnovazione dell’istruzione dibattimentale».

Una norma intrusa rispetto alla nostra tradizione giuridica ha saputo quindi condizionare in modo determinante gli orientamenti della giurisprudenza.

Si pensi alle recenti sentenze delle sezioni unite Patalano e Dasgupta 25. La sentenza Patalano sottoli-nea come «detta regola di giudizio … assuma veste di criterio generalissimo nel processo penale, diret-tamente collegato al principio costituzionale della presunzione di innocenza» 26. La sentenza Dasgupta colloca significativamente il canone del ragionevole dubbio all’interno del «quadro ricostruttivo dei va-lori sottesi al processo penale».

La formidabile vitalità di una norma intrusa nel nostro sistema, capace di determinare una profonda trasformazione del diritto vivente, induce a meditare sul quesito se tale norma sia davvero inutile e se tale norma sia davvero estranea alla nostra tradizione giuridica. Sotto un diverso profilo, la prassi ha restituito al paradigma bard, costruito dal legislatore come regola di giudizio direttamente operativa, il suo ruolo naturale di norma di principio capace di assolvere la funzione di criterio ordinatore del si-stema e meritevole di essere iscritta nel novero dei principi di umanesimo processuale.

23 V. la nota decisione della Cassazione, sez. I, 24 ottobre 2011, n. 41110, in CED Cass., n. 251507. 24 Come è noto, la decisione della Corte europea dei diritti dell’uomo, 5 luglio 2011, Dan c. Moldavia, ha ritenuto lesivo dei

canoni del fair trial il ribaltamento in appello di una assoluzione in primo grado fondato su una rivisitazione cartolare delle pro-ve orali già assunte.

25 V. Cass., sez. un., 28 aprile 2016, n. 27620, Dasgupta, in Cass. pen., 2016, p. 3203: «La sentenza del giudice di appello che, in riforma di quella di proscioglimento di primo grado, affermi la responsabilità dell’imputato sulla base di una diversa valutazio-ne della prova dichiarativa, ritenuta decisiva, senza avere proceduto alla rinnovazione dell’istruzione dibattimentale, è affetta da vizio di motivazione deducibile dal ricorrente a norma dell’art. 606, comma 1, lett. e), c.p.p., in quanto la condanna contrasta, in tal caso, con la regola di giudizio al di là di ogni ragionevole dubbio di cui all’art. 533, comma 1, c.p.p.”.

26 Cass., sez. un., 19 gennaio 2017, n. 18620, Patalano, in Guida dir., 2017, 24, p. 48: “È affetta da vizio di motivazione ex artico-lo 606, comma 1, lettera e), del Cpp, per mancato rispetto del canone di giudizio “al di là di ogni ragionevole dubbio “, di cui all’articolo 533, comma 1, del Cpp, la sentenza di appello che, su impugnazione del Pm, affermi la responsabilità dell’imputato, in riforma di una sentenza assolutoria emessa all’esito di un giudizio abbreviato, operando una diversa valutazione di prove dichiarative decisive, senza che nel giudizio di appello si sia proceduto all’esame delle persone che abbiano reso tali dichiara-zioni». È significativo come il punto di fuga dell’evoluzione giurisprudenziale in materia sia costituito dall’affermazione per cui l’obbligo di rinnovare l’istruzione dibattimentale costituisce espressione di un generale principio di immediatezza. V. sul punto E.M. Catalano, Ragionevole dubbio e logica della decisione. Alle radici del giusnaturalismo processuale, Milano, Giuffrè, 2016, passim; H. Belluta, Oltre Dasgupta o contro Dasgupta? Alle sezioni unite decidere se la rinnovazione è obbligatoria anche in caso di overturning da condanna a proscioglimento, nota a Cass., sez. II, 12 settembre 2017, n. 41571, in Dir. pen. contemp., 19 ottobre 2017.

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Scenari

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SCENARI | NOVITÀ SOVRANAZIONALI

NOVITÀ SOVRANAZIONALI SUPRANATIONAL NEWS

di Francesca Manfredini

IL RAPPORTO DEL COMITATO EUROPEO PER LA PREVENZIONE DELLA TORTURA (CPT) DESTINATO AL GO-VERNO ITALIANO

Il Comitato del Consiglio d’Europa per la prevenzione della tortura e delle pene o trattamenti inumani o degradanti (CPT) ha adottato, nel novembre 2016, un rapporto concernente il trattamento delle persone private, a vario titolo, della libertà personale da parte di un’autorità pubblica nello Stato italiano.

Tale relazione, che è stata elaborata a seguito di un sopralluogo effettuato in Italia, nel mese di apri-le, da una Delegazione del CPT, ha lo scopo di rafforzare la protezione dei soggetti detenuti, anche at-traverso la formulazione di raccomandazioni, in conformità a quanto previsto dall’art. 10, par. 1 della Convenzione europea per la prevenzione della tortura e delle pene o trattamenti inumani o degradanti (fatta a Strasburgo, il 26 novembre 1987 e ratificata dall’Italia in data 29 dicembre 1988).

Alle osservazioni e ai suggerimenti del CPT, ha fatto seguito, in data 5 giugno 2017, la risposta del Governo italiano, la quale è stata pubblicata (unitamente al rapporto stilato dal Comitato) su richiesta delle autorità nazionali, come previsto dall’art. 11, par. 2 della citata Convenzione.

Alla luce della rilevanza della materia, anche in considerazione della recente introduzione, nell’ordi-namento nazionale, del reato di tortura (v. legge 14 luglio 2017, n. 110, in Gazz. Uff., 18 luglio 2017, n. 166), si propone, di seguito, la traduzione, in lingua italiana, dell’executive summary del rapporto, che, dopo una parte introduttiva, si occupa, in particolare, del comportamento delle Forze dell’ordine nei confronti dei detenuti, della situazione degli istituti penitenziari e delle strutture psichiatriche giudiziarie.

«Nel corso della visita periodica, tenutasi nel 2016, la Delegazione del CPT ha esaminato la novella legislativa relativa all’ordinamento penitenziario, adottata dalle autorità italiane al fine di ridurre il so-vraffollamento carcerario, nonché la riforma, ancora in corso, concernente il superamento degli ospeda-li psichiatrici giudiziari. È stata, altresì, valutata la situazione delle persone private della libertà perso-nale da parte di funzionari di polizia giudiziaria, nonché quella dei soggetti sottoposti ad assistenza psichiatrica. La cooperazione ricevuta nel corso delle visite è stata ottima, salvo due eccezioni.

Anzitutto, il Comitato ribadisce la sua preoccupazione derivante dal fatto che, dopo più di vent’an-ni, il codice penale italiano non contiene ancora una specifica previsione normativa concernente il reato di tortura. Il CPT, peraltro, prende atto della recente istituzione, da parte dell’Italia, dei meccanismi na-zionali di prevenzione, contemplati dal Protocollo opzionale alla Convenzione delle Nazioni Unite con-tro la tortura e altre pene o trattamenti crudeli, inumani o degradanti (OPCAT).

FORZE DELL’ORDINE

La maggioranza dei soggetti ristretti, incontrati dalla Delegazione del CPT, ha affermato di essere stata trattata correttamente da parte degli ufficiali e agenti di polizia giudiziaria. Ciò nonostante, i De-legati hanno ricevuto alcune segnalazioni di maltrattamenti fisici e uso eccessivo della forza, posti in essere, in particolare, da membri della Polizia di Stato e del Corpo dei Carabinieri. Le violenze riportate consistevano, prevalentemente, in schiaffi, pugni, calci e colpi inferti con manganelli, sia al momento della privazione della libertà, sia nel corso del trasferimento presso gli uffici di polizia giudiziaria. All’interno del presente rapporto sono descritti numerosi episodi di tale portata, avallati da documen-tazione medica. È importante che le istituzioni italiane trasmettano un chiaro messaggio ai funzionari

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di polizia giudiziaria, specificando che ogni forma di maltrattamento fisico è inaccettabile e che sarà, conseguentemente, perseguita e sanzionata.

Per quanto concerne le garanzie difensive, è emerso che a diverse persone non è stato assicurato né il diritto di informare, senza ritardo, soggetti terzi del proprio stato detentivo, né quello di farsi assistere da un difensore prima dell’udienza di convalida. Inoltre, i soggetti stranieri sottoposti a misure precau-telari hanno segnalato di non avere ricevuto alcuna comunicazione relativa ai diritti loro garantiti in una lingua da essi conosciuta. L’accesso a cure mediche è risultato generalmente garantito ai soggetti bisognosi di assistenza sanitaria, mentre non è stata assicurata la riservatezza degli esami medici effet-tuati.

Le condizioni delle camere di sicurezza sono state giudicate complessivamente accettabili e adegua-te a svolgere la propria funzione in relazione a periodi di custodia limitati. Tali spazi sono apparsi, in-vece, inadeguati per periodi di detenzione prolungati (ad esempio, fino a 72 ore), a causa della man-canza di cortili esterni e docce. Più in particolare, le condizioni delle camere di sicurezza della Questura di Firenze si sono rivelate, ancora una volta, inaccettabili: è, pertanto, necessario prendere immediati provvedimenti per smantellare la cella n. 3 e per ristrutturare gli ulteriori spazi presenti all’interno del-la Questura.

ISTITUTI PENITENZIARI

Il CPT ha valutato l’impatto della riforma dell’ordinamento penitenziario approvata dall’Italia a se-guito della sentenza pilota Torreggiani v. Italia, pronunciata dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo. Le misure adottate hanno condotto, nei tre anni antecedenti al sopralluogo, a una diminuzione della popolazione carceraria pari a 11.000 unità, nonché a un aumento della capacità delle infrastrutture pe-nitenziarie di 2.500 posti. Ciò nonostante, nel corso del 2016, si è assistito ad un incremento del numero di soggetti ristretti all’interno degli istituti di reclusione e il sovraffollamento carcerario rimane ancora un fenomeno esistente (ad esempio, risulta che il 16% delle persone detenute dispone di uno spazio in-feriore a 4 m²). Il Comitato ha esaminato tale situazione, tenendo conto delle direttive elaborate dal-l’amministrazione penitenziaria nazionale, volte ad attribuire a ogni carcerato uno spazio vitale minimo di 3 m² in celle condivise. Questa soglia si colloca ben al di sotto sia dei limiti raccomandati dal CPT, sia di quelli previsti dalla legislazione italiana.

La maggior parte dei detenuti incontrati dalla Delegazione ha espresso commenti favorevoli circa le modalità di trattamento perpetrate dal personale di polizia penitenziaria. Tuttavia, si segnala che, ad eccezione del carcere di Ascoli Piceno, presso tutti gli istituti penitenziari visitati sono stati segnalati al-cuni episodi di maltrattamenti fisici posti in essere dal personale. Le condotte denunciate consistevano prevalentemente in pugni, schiaffi, calci e colpi inferti con manganelli e si sono spesso verificate in oc-casione di agitazioni, ovvero a fronte di atti autolesionisti e tentativi di suicidio da parte dei detenuti. Inoltre, in alcuni casi, i soggetti ristretti hanno sostenuto di essere stati collocati, per lunghi periodi di tempo, in celle di isolamento, vestiti unicamente della propria biancheria intima e, occasionalmente, as-sicurati al letto con l’ausilio di manette. Al fine di contrastare il fenomeno dei maltrattamenti, le autori-tà italiane dovrebbero, da un lato, fornire al personale penitenziario una specifica formazione relativa alle tecniche di controllo da utilizzare con i detenuti che presentano tendenze suicide e/o autolesioni-ste; dall’altro, esse dovrebbero adottare misure idonee ad evitare che il personale di turno faccia uso di sostanze alcoliche. Risulta, altresì, opportuno intensificare la vigilanza operata dalla polizia penitenzia-ria all’interno degli istituti, onde evitare i non infrequenti episodi di violenza tra detenuti, verificatisi, in particolare, nelle carceri di Como e Sassari.

Tutti gli istituti visitati risultavano affetti da carenze strutturali e necessitavano di un’ampia ristrut-turazione. È urgente il bisogno di risolvere il problema dell’approvvigionamento idrico presso il carce-re di Sassari e di assicurare il pasto serale domenicale ai detenuti negli istituti di Torino e Genova Ma-rassi.

Il CPT valuta favorevolmente il ricorso alla c.d. “sorveglianza dinamica”, che consente ai soggetti sottoposti a un regime di media sicurezza di trascorrere fuori dalla cella almeno otto ore al giorno. In proposito, è stato, tuttavia, rilevato che l’offerta di attività proposta ai detenuti rimane limitata (in me-dia meno del 20% dei soggetti ristretti svolge un’occupazione remunerata) e che il tempo passato fuori dalla cella viene generalmente trascorso nei corridoi e nelle sale comuni degli istituti. Dovrebbero, per-

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tanto, essere intraprese iniziative che arricchiscano il programma di attività offerto, coinvolgendo anche il personale di polizia penitenziaria.

Il CPT si è poi nuovamente soffermato sull’applicazione del regime previsto dall’art. 41-bis ord. pe-nit., prendendo in particolare considerazione gli istituti di Ascoli Piceno e Sassari. A tal riguardo, il Comitato ha elaborato numerose raccomandazioni concernenti le forti limitazioni subite dai detenuti nello svolgimento di attività e nei contatti con l’ambiente esterno, nonché le carenze strutturali delle cel-le e delle aree comuni. Il CPT ha, inoltre, rilevato come, in diverse occasioni specificate all’interno del rapporto, l’amministrazione penitenziaria non abbia attuato i provvedimenti emanati dalla magistratu-ra di sorveglianza, determinando una forte sofferenza psicologica per i detenuti coinvolti.

Il trasferimento alle ASL delle competenze in materia di assistenza sanitaria all’interno degli istituti penitenziari è valutato positivamente dal Comitato. Infatti, il livello delle cure primarie assicurate ai de-tenuti è risultato soddisfacente, le strutture sanitarie si sono presentate in buono stato e l’organico del personale medico è stato giudicato adeguato. Tuttavia, presso le carceri di Como e Sassari, l’efficace ri-corso a cure mediche specialistiche è compromesso da significativi ritardi e, presso l’istituto di Ivrea, l’accesso agli operatori sanitari risulta filtrato dal personale di sicurezza. Con riferimento al trattamento delle patologie psichiatriche, viene evidenziata la necessità di migliorare le condizioni del reparto di os-servazione psichiatrica “Il Sestante” del carcere di Torino, così come il livello di assistenza ivi fornito.

Nella generalità dei casi osservati, il sistema di registrazione delle lesioni, riscontrate sui detenuti al momento della loro ammissione nell’istituto penitenziario, è risultato adeguato. Tuttavia, si specifica l’opportunità di ripristinare il ricorso a registri appositamente dedicati (c.d. “Registro 99”). Infine, do-vrebbero essere investite maggiori risorse al fine di garantire la riservatezza degli esami medici esperiti sui detenuti, specialmente al momento del loro primo ingresso in istituto.

Il CPT è critico nei confronti del ricorso all’isolamento prolungato dei detenuti con tendenze suicide e/o autolesioniste. In proposito, il Comitato rileva che, in primo luogo, tale misura può comportare maltrattamenti fisici da parte degli operatori penitenziari; in secondo luogo, che essa viene attuata con modalità applicative degradanti (riscontrate, ad esempio, nel caso di detenuti lasciati coperti unicamen-te dalla propria biancheria intima), senza un adeguato controllo da parte del personale sanitario e, infi-ne, che non è prevista alcuna specifica annotazione del ricorso a siffatte prassi. Onde affrontare adegua-tamente tali situazioni, è indispensabile formare debitamente il personale penitenziario e migliorare la regolamentazione dell’impiego delle celle di isolamento, prevedendone un utilizzo residuale. Infine, è necessario rimediare alle carenze strutturali di tali spazi.

Il rapporto affronta, inoltre, ulteriori profili, quali l’effettiva presenza e la formazione del personale penitenziario, il trattamento delle detenute madri, nonché la necessità di rafforzare il quadro delle ga-ranzie assicurate al detenuto, nel caso in cui venga attivato un procedimento disciplinare nei suoi con-fronti. Infine, il CPT ha focalizzato la propria attenzione sul tema della condanna alla pena dell’erga-stolo da scontare in isolamento diurno. Secondo il Comitato, alla luce di alcuni specifici casi analizzati nel rapporto, tale sanzione potrebbe integrare un trattamento inumano e degradante, in ragione della sua durata (la quale può estendersi fino a 3 anni), nonché della sua natura punitiva.

STRUTTURE PSICHIATRICHE

Tenendo conto della riforma, tutt’ora in corso, concernente il trattamento dei pazienti psichiatrici, la Delegazione del CPT ha visitato l’ospedale psichiatrico giudiziario (OPG) di Montelupo Fiorentino, l’ex OPG di Castiglione delle Stiviere, che sta attualmente attraversando un processo di trasformazione in residenza per l’esecuzione delle misure di sicurezza (REMS), e tre residenze per l’esecuzione delle mi-sure di sicurezza, collocate a Bra, Bologna e Pontecorvo. Inoltre, il Comitato ha effettuato un sopralluo-go mirato presso il Servizio Psichiatrico di Diagnosi e Cura (SPDC) dell’Azienda Ospedaliera Universi-taria San Giovanni Battista di Torino, al fine di esaminare le procedure relative al ricovero di pazienti psichiatrici e il ricorso a mezzi di contenzione.

Con riferimento alla maggior parte delle strutture psichiatrico-giudiziarie visitate, la Delegazione non ha ricevuto alcuna segnalazione – né ha rinvenuto alcun altro elemento – che portasse a ritenere che i pazienti avessero subito maltrattamenti. Ciò nonostante, presso l’istituto di Castiglione delle Sti-viere, sono stati riferiti diversi insulti e comportamenti irrispettosi perpetrati da parte del personale.

Le condizioni di vita dei pazienti sono state giudicate dignitose in tutte le strutture visitate, con

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l’eccezione del reparto “Aquarius” presso Castiglione delle Stiviere. I soggetti ristretti presso la REMS di Pontecorvo sono risultati confinati all’interno delle proprie stanze durante la notte, mentre è emerso che alle persone collocate presso Castiglione delle Stiviere veniva impedito l’accesso alle proprie came-re per una parte rilevante della giornata. Il CPT ritiene che, in linea di principio, i pazienti dovrebbero poter circolare liberamente all’interno della struttura in cui si trovano durante il giorno, al fine di favo-rire la loro autonomia individuale e di promuoverne il processo riabilitativo.

Sia il trattamento dei pazienti, sia l’organico del personale hanno ottenuto una valutazione positiva nella maggior parte delle strutture visitate. Tuttavia, presso l’istituto di Castiglione delle Stiviere, sono stati richiesti maggiori sforzi, affinché la struttura e lo staff si conformino alla filosofia di trattamento propria delle REMS.

A fronte delle diverse prassi riscontrate nel corso dei sopralluoghi presso gli istituti, il CPT accoglie con favore l’iniziativa di evitare il ricorso a strumenti di contenzione meccanica all’interno delle REMS e di monitorare, a livello generale, l’utilizzo di mezzi di restrizione all’interno delle strutture psichiatri-che giudiziarie. È, infatti, emerso che, in due strutture, il personale non utilizza strumenti di isolamento o di contenzione meccanica. D’altra parte, numerosi pazienti internati presso Castiglione delle Stiviere hanno segnalato il ricorso a tali mezzi, utilizzati come punizioni informali. Inoltre, presso il medesimo istituto, da agosto 2015, un paziente è stato sottoposto a sedazione farmacologica, in modo che non fos-se fisicamente capace di commettere un tentativo di evasione. Tali pratiche sono inaccettabili e devono essere interrotte. Ancora, presso Castiglione delle Stiviere, si è fatto sistematicamente ricorso alla con-tenzione meccanica di un soggetto affetto da una grave disabilità mentale, al fine di prevenire condotte autolesioniste. Il CPT ritiene che la collocazione di tale paziente in una struttura psichiatrica giudiziaria sia assolutamente inappropriata e che le autorità italiane debbano urgentemente valutare soluzioni al-ternative, oltre a mezzi più idonei per affrontare casi affini. Più in generale, il CPT richiama i principi basilari concernenti l’uso di strumenti di contenzione e auspica che essi siano disciplinati da esaurienti protocolli comuni a tutti gli stabilimenti psichiatrici.

Il CPT ha rilevato che alcuni provvedimenti adottati dalla magistratura di sorveglianza hanno stabi-lito che la privazione della libertà di soggetti ristretti negli OPG è priva di fondamento legale a partire dal 1° aprile 2015, data entro la quale, ai sensi della legislazione italiana, tali ospedali avrebbero dovuto essere chiusi. D’altra parte, la base giuridica che fonda la collocazione dei pazienti psichiatrici presso le REMS è la medesima precedentemente prevista per gli OPG. Risulta, parimenti, inalterata la possibilità di proporre reclamo davanti al magistrato di sorveglianza.

Il Comitato ritiene che gli psichiatri, che partecipano al trattamento dei soggetti internati, non do-vrebbero redigere relazioni cliniche sui propri pazienti per l’autorità giudiziaria e che le procedure di reclamo dovrebbero coinvolgere medici esperti indipendenti. L’introduzione di due garanzie, che ri-spondono al precedente rapporto redatto dal CPT, è accolta con favore: in primo luogo, i pazienti non possono più essere internati presso le REMS unicamente sulla base della mancanza di adeguate cure e/o alloggi nella comunità esterna; in secondo luogo, la permanenza di un soggetto presso le REMS non può avere una durata superiore alla pena massima contemplata dalla legge per il reato da questi commesso.

Quanto al profilo concernente la libertà di autodeterminazione terapeutica, si raccomanda l’intro-duzione di una chiara disciplina normativa, che regoli la gestione del trattamento sanitario coattivo per tutti i pazienti psichiatrici.

In tutte le strutture visitate, i diritti degli internati concernenti i contatti con l’esterno continuano a essere regolati dall’ordinamento penitenziario. Il CPT accoglie positivamente il proposito di introdurre un autonomo regolamento interno per le REMS.

Con riferimento ai sistemi di sicurezza, il Comitato ritiene che, all’interno delle REMS, le guardie armate non dovrebbero essere collocate in luoghi dove potrebbero venire a contatto con i pazienti, co-me emerso presso la REMS di Bra, e che in tutte le residenze si debbano prevedere adeguate procedure per il reclutamento e la formazione del personale di sicurezza, così come dettagliate regolamentazioni inerenti ai loro compiti.

Presso il SPDC dell’Azienda Ospedaliera Universitaria San Giovanni Battista di Torino, il CPT ha ri-levato che il personale ricorreva a mezzi di restrizione farmacologica e/o meccanica, al fine di trattare pazienti agitati, violenti o aggressivi. I soggetti ricoverati venivano sottoposti a strumenti di contenzio-ne nei corridoi della struttura, senza che fosse loro garantita un’adeguata riservatezza. Tale prassi è

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Processo penale e giustizia n. 6 | 2017 984

SCENARI | NOVITÀ SOVRANAZIONALI

inaccettabile e il Comitato richiama i principi generali relativi agli strumenti di restrizione, i quali do-vrebbero essere applicati presso il SPDC. Rispetto al sopralluogo effettuato nel 2012, non risulta che siano stati apportati cambiamenti alle procedure di trattamento sanitario obbligatorio e, pertanto, il CPT ribadisce la necessità che le autorità italiane prevedano robuste garanzie in materia. Anche in tale settore, al pari di quanto già rilevato in relazione al trattamento dei soggetti internati presso le REMS, è necessario che venga elaborata una chiara disciplina legislativa».

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Processo penale e giustizia n. 6 | 2017 985

SCENARI | DE JURE CONDENDO

DE JURE CONDENDO di Marilena Colamussi

NUOVI LIMITI ALL’APPLICAZIONE DELLA PENA SU RICHIESTA DELLE PARTI

Risulta assegnata alla Commissione Giustizia della Camera dei Deputati la proposta di legge C. n. 4590, d’iniziativa dell’on. Molteni ed altri, recante «Modifiche all’articolo 444 del codice di procedura penale, in materia di applicazione della pena su richiesta».

La proposta di legge si compone di due soli articoli, di cui uno incide direttamente e in termini signi-ficativi sull’istituto in questione, mentre l’altro attiene a profili di diritto intertemporale.

L’art. 1 della p.d.l. C. n. 4590 interviene sull’art. 444, comma 1-bis, c.p.p. ed estende l’elenco dei reati per i quali è inibita l’applicazione del cosiddetto “patteggiamento” alla fattispecie di cui all’art. 586 c.p. («Morte o lesione come conseguenza di altro delitto»). Ora, ampliare i limiti oggettivi di accesso ai be-nefici del rito premiale rappresenta, indubbiamente, una reazione ai fatti di cronaca che incutono timo-re per l’incolumità individuale e collettiva, la cui frequenza ed efferatezza balzano evidenti a chiunque, come si legge nella Relazione di accompagnamento alla proposta di legge. Ciò non toglie che il disegno di legge in esame susciti qualche perplessità per l’antinomia con la ratio del patteggiamento e con le preclusioni oggettive alla scelta del rito che la disciplina già prevede.

A quest’ultimo proposito giova precisare che l’art. 586 c.p. non contempla un’autonoma fattispecie criminosa, bensì una particolare ipotesi di aberratio delicti – derivante «da un fatto preveduto come delit-to doloso … […]» – caratterizzata dalla natura dell’offesa non voluta ma arrecata, vale a dire la morte o la lesione di una persona, che di fatto sul terreno sanzionatorio evoca il modello della circostanza ag-gravante speciale. Il dato rileva in quanto nella disciplina del patteggiamento cosiddetto “allargato” (che consente l’applicazione di una pena detentiva che – diminuita fino ad un terzo – non supera i cin-que anni soli o congiunti con una pena pecuniaria) opera una preclusione oggettiva riferita a tre catego-rie di delitti provvisti di particolare allarme sociale, quali quelli di associazione di stampo mafioso e ac-comunati (art. 51, comma 3-bis, c.p.p.), quelli di terrorismo (art. 51, comma 3-quater, c.p.p.) ed una serie cospicua di delitti di violenza sessuale. È evidente, dunque, la non omogeneità della fattispecie di cui all’art. 586 c.p. con le altre categorie di delitti indicati nel dettato normativo attuale.

Non va sottaciuta la ratio di questo rito speciale, deflattivo del dibattimento e, come tale, utile stru-mento di decongestione del carico giudiziario, rispetto al quale, piuttosto che aggiungere paletti, biso-gnerebbe integrare garanzie che ne favoriscano una più diffusa applicazione. In questo spirito è stato introdotto il patteggiamento allargato, non contemplato nella versione originaria del codice e funziona-le a rendere negoziabili anche fattispecie criminose di una certa gravità.

D’altronde, sul terreno politico criminale, se l’obiettivo che la proposta di legge n. 4590 si propone di perseguire è quello di apprestare maggiore tutela al bene della vita e dell’incolumità individuale, giuri-dicamente protetti dall’art. 586 c.p., anziché inibire l’accesso ad un rito alternativo, occorrerebbe inter-venire potenziando i settori della prevenzione e del controllo della sicurezza collettiva.

Spiccato rilievo assume anche la modifica che la proposta normativa in esame intende apportare all’art. 444, comma 2, c.p.p. allo scopo di tutelare la pretesa risarcitoria avanzata dalla parte civile che, allo stato, è sostanzialmente estromessa automaticamente dall’applicazione della pena su richiesta delle parti. Secondo la disciplina attuale, il giudice può eventualmente disporre che l’imputato risarcisca le spese processuali sostenute fino a quel momento dalla parte civile, salvo compensazione totale o par-ziale. Il danneggiato dal reato, dunque, escluso dal rito penale, fa ritorno nella sede naturale del proces-so civile che non resta sospeso in attesa della conclusione di quello penale definito col rito differenziato (art. 444, comma 2, c.p.p.).

Per circoscrivere il pregiudizio arrecato al danneggiato dal reato dalla scelta del rito speciale, la pro-posta di legge intende accogliere parzialmente la pretesa risarcitoria avanzata in sede penale, impo-nendo al giudice, in caso di costituzione di parte civile, di decidere «sulla relativa domanda nei limiti della provvisionale» (art. 1, lett. b, p.d.l. C. n. 4590).

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Processo penale e giustizia n. 6 | 2017 986

SCENARI | DE JURE CONDENDO

A ben guardare anche questo profilo presta il fianco ad alcune riflessioni critiche. Se è vero come è vero che la parte civile ha natura giuridica di parte “eventuale” nel processo penale, in quanto “ospite” essa inesorabilmente subisce le scelte dei protagonisti principali. V’è di più, sul piano dei principi fon-damentali le regole del rito penale devono salvaguardare gli interessi e le garanzie della persona offesa, in quanto vittima del reato, la quale potrà far valere altrove le pretese di natura civilistica, che indub-biamente andrebbero ad ingombrare la celebrazione del processo penale. Le esigenze di semplificazio-ne e di economia processuale giustificano pienamente l’estromissione della parte civile dal patteggia-mento, in cui mancano le coordinate spazio-temporali utili ad accertare sul piano probatorio la fonda-tezza della richiesta risarcitoria, anche in termini di provvisionale che, comunque, non può e non deve essere decisa sulla base di presunzioni.

RIPENSAMENTI IN TEMA DI “ESTINZIONE DEL REATO PER CONDOTTE RIPARATORIE”

Il 12 settembre 2017 è stata assegnata alla Commissione Giustizia della Camera dei Deputati la pro-posta di legge C. 4606, d’iniziativa dell’on. Carfagna, intitolata «Modifica all’art. 162-ter del codice penale, in materia di estinzione del reato per condotte riparatorie».

Singolare che tale proposta normativa sia stata formulata all’indomani dall’entrata in vigore della legge 23 giugno 2017, n. 103, comunemente nota come “riforma Orlando”, che nel calderone dei micro-interventi ha introdotto l’art. 162-ter c.p., rubricato “estinzione del reato per condotte riparatorie”, quale inedita causa di estinzione del reato, evidentemente oggetto di un immediato ripensamento teso a de-limitarne l’orbita applicativa.

La proposta di legge consta di un solo articolo che intende ampliare il dettato normativo dell’art. 162-ter c.p. con l’aggiunta di un nuovo comma, secondo cui «le disposizioni del presente articolo non si applicano quando si procede per il delitto previsto dall’art. 612-bis». In buona sostanza è espressamente esclusa l’operatività della causa di estinzione del reato per condotte riparatorie alla fattispecie crimino-sa degli “atti persecutori” (art. 612-bis c.p.), più nota come stalking.

Lo scopo dell’integrazione normativa, secondo la Relazione di accompagnamento, è quello di non va-nificare la tutela delle vittime di stalking apprestata dalla legge n. 38 del 2009, che ha introdotto l’art. 612-bis c.p. quale autonomo titolo di reato, in linea con la Convenzione di Istanbul. Detta tutela sarebbe com-provata statisticamente dal notevole incremento di denunce da parte delle donne vittime di atti persecu-tori, che nel tempo stanno acquisendo consapevolezza di tale strumento giuridico di difesa e garanzia.

Pur condividendo le pregevoli ragioni alla base della proposta di legge, non sembra convincere la soluzione prospettata che, di fatto, travisa lo spirito dell’istituto di cui all’art. 162-ter c.p. quale espres-sione di restorative justice, oltre che strumento di decongestione del carico giudiziario.

La disciplina in questione, infatti, risponde ad una precisa scelta del legislatore, il quale ha inteso in-trodurre una causa estintiva del reato che opera valutando, caso per caso, parametri di natura più sog-gettiva che oggettiva. L’istituto, infatti, si applica, stando alla lettera della norma, «nei casi di procedibi-lità a querela soggetta a remissione […]» (art. 162-ter c.p.).

La mancata precisazione dei titoli di reato per i quali è ammessa o esclusa l’efficacia della causa estintiva, di cui all’art. 162-ter c.p., è sintomatica dell’ampia discrezionalità rimessa al giudice sul punto. Ai fini dell’operatività della causa estintiva, infatti, il modello riparativo impone al giudice di rivolgere la sua attenzione alle manifestazioni di volontà dell’autore del reato e della persona offesa; all’impegno nel senso di resipiscenza del primo, accompagnata da gesti concreti di natura riparatoria, tesi a dimo-strare alla vittima, prima, e alla collettività, poi, la reale volontà di cambiamento, di riconciliazione, ri-pristinando l’equilibrio violato, risarcendo il danno ed eliminando, per quanto possibile, le conseguen-ze del reato. Tutto questo nella prospettiva di dare maggiore e più pronta soddisfazione alla persona offesa dal reato, la quale assume un ruolo attivo e partecipativo nel percorso di mediazione e conse-guente estinzione del reato.

Si aggiunga che esistono tante fattispecie criminose provviste di un livello di offensività pari od anche maggiore rispetto agli “atti persecutori”, fattispecie astratte che non sono annoverate nell’elenco dei reati per i quali non opererebbe la causa estintiva di cui all’art. 162-ter c.p. Anche sul piano delle fattispecie concrete, questa volta sussumibili allo stesso modo nel medesimo titolo dell’art. 612-bis c.p., v’è spazio per forme di manifestazione della condotta provviste di livelli di offensività talvolta profondamente differenti (l’invio di numerosi sms non è certo paragonabile al pedinamento ossessivo della vittima!); del che è pro-

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Processo penale e giustizia n. 6 | 2017 987

SCENARI | DE JURE CONDENDO

va una considerazione anche normativa differente tra le varie epifanie dello stalking: alle ipotesi specifiche di circostanze aggravanti si affiancano casi di perseguibilità d’ufficio (art. 612-bis, commi 2-4, c.p.), per i quali non opererebbe automaticamente l’applicazione della causa estintiva di cui all’art. 162-ter c.p.

Per tutte queste ragioni la proposta di legge C. 4606 sembra ascrivibile alla c.d. legislazione del con-senso; non una reale finalità di garanzia delle donne vittime di “atti persecutori”, che, come si evince da una più attenta lettura dell’art. 162-ter c.p., raramente potranno rientrare nelle ipotesi di reato soggette a tale disciplina.

AMPLIATA LA FACOLTÀ DI ARRESTO IN FLAGRANZA DEI PRIVATI PER POTENZIARE L’AUTOTUTELA E LA SI-CUREZZA SOCIALE

In data 28 luglio 2017 risulta assegnata alla Commissione Giustizia della Camera dei Deputati la proposta di legge C. n. 4568, d’iniziativa dell’on. Cirielli, recante «Modifiche agli articoli 380, 381 e 383 del codice di procedura penale, in materia di arresto in flagranza per il delitto di violazione di domicilio».

Secondo la Relazione di accompagnamento alla proposta di legge: «l’obiettivo è quello di garantire una maggiore tutela attraverso l’estensione dell’arresto a opera di privati anche ai casi di violazione di domicilio semplice, rafforzando così un principio di autotutela e sicurezza sociale».

Anche in questo caso, l’iniziativa legislativa sembra mossa dalla sempre più angosciante diffusione dei reati contro il patrimonio o contro le persone che muovono da una violazione del domicilio, nonché dalla sensazione di scarsa sicurezza sociale che questo provoca.

La proposta di legge interviene su tre distinti articoli del codice di procedura penale, apportando piccole ma rilevanti modifiche legate dall’unico intento di consentire anche ai privati l’arresto in fla-granza nell’ipotesi di violazione di domicilio ex art. 614, commi 1 e 2, c.p.

A tale proposito giova ricordare che la facoltà di arresto da parte dei privati è disciplinata dall’art. 383 c.p.p., secondo il quale, limitatamente alle ipotesi in cui l’arresto in flagranza è obbligatorio (art. 380 c.p.p.), ogni persona è autorizzata a procedere in tal senso, per i delitti perseguibili d’ufficio. Natural-mente colui che compie l’arresto è tenuto, senza ritardo, a consegnare l’arrestato, nonché il corpo del reato, alla polizia giudiziaria che redige regolare verbale.

Per modificare la disciplina attuale, la proposta di legge pone in essere un’operazione di ortopedia normativa che consiste nello spostamento della fattispecie delittuosa di cui all’art. 614, commi 1 e 2, c.p. dall’elenco dei reati per i quali l’arresto in flagranza è facoltativo (art. 381 c.p.p.) alle ipotesi in cui detto arresto è, invece, obbligatorio (art. 380 c.p.p.), il che consente anche ai privati di poter procedere senza rischiare di essere accusati di sequestro di persona o di arresto illegale.

Nello specifico, all’art. 380, comma 2, c.p.p. si estende l’elenco dei reati per i quali è previsto l’arresto obbligatorio in flagranza, con l’aggiunta della «lett. m-quinqueis) delitto di violazione di domicilio pre-visto dall’articolo 614, commi primo e secondo, del codice penale» (art. 1 p.d.l.), che a sua volta viene cancellato dall’elenco dei reati per i quali l’arresto in flagranza è facoltativo, ex art. 381, comma 2, lett. f-bis) c.p.p. (art. 2 p.d.l.).

Da ultimo si intende modificare la forma, ma non il contenuto, dell’art. 383, comma 1, c.p.p., sosti-tuendolo con il seguente: «Nei casi previsti dall’art. 380, commi 1 e 2, o quando si tratta di delitti perse-guibili di ufficio ogni persona è autorizzata a procedere all’arresto in flagranza» (art. 3 p.d.l.).

La proposta di legge non convince pienamente, perché sembra il prodotto di una legislazione di emer-genza che non risolve in realtà il problema della sicurezza sociale, oltre ad essere sintomatica della sfidu-cia nelle istituzioni e nelle forze pubbliche evidentemente ritenute non più in grado di fronteggiare la dif-fusività del fenomeno criminale. Quindi, estendere ai privati la facoltà di arresto in flagranza per il delitto di violazione di domicilio appare più come una sconfitta che una conquista di civiltà giuridica.

Ci si domanda: quanti cittadini eroici sono disposti a rischiare la propria incolumità per assicurare l’autore del reato alla giustizia? Forse sarebbe il caso di verificare con un’indagine statistica in quali casi e con quale frequenza risulta applicata la disciplina che autorizza i privati a procedere all’arresto in fla-granza, per comprendere in che misura la proposta di legge possa contribuire a rafforzare la protezione del singolo e la sicurezza pubblica.

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SCENARI | CORTI EUROPEE

CORTI EUROPEE EUROPEAN COURTS

di Giorgio Crepaldi

DIRITTO AD UN EQUO PROCESSO – RELATIVITÀ OGGETTIVA DEL DIRITTO

(Corte e.d.u., 13 luglio 2017, Shuli c. Grecia)

Nel trittico delle sentenze che ci si appresta ad analizzare, la Corte europea torna a pronunciarsi sul diritto ad un equo processo, sancito dall’articolo 6 della Convenzione: i Giudici alsaziani tracciano, in-fatti, una lettura sistematica dei principi promananti dalla norma in esame.

Mentre, infatti, il primo paragrafo dell’articolo in commento consacra il diritto di ciascuno a che la propria causa sia esaminata “equamente, pubblicamente ed entro un limite di tempo ragionevole”, da un Tri-bunale indipendente e costituito per legge, il terzo paragrafo disciplina, invece, alcune concrete impli-cazioni del principio de quo: tali sono il diritto dell’imputato a ricevere adeguate e comprensibili infor-mazioni circa l’accusa (lettera a), quello di disporre del “tempo” e delle “facilitazioni” necessarie a predi-sporre un’adeguata difesa (lettera b), quello di difendersi personalmente e tramite l’assistenza di un di-fensore – fornitogli d’ufficio qualora lo esigano “gli interessi della giustizia” – (lettera c), quello di poter esaminare i testimoni a carico e di convocare ed interrogare testimoni a discarico (lettera d), nonché, in-fine, quello all’assistenza gratuita di un interprete, qualora l’imputato non parli o non comprenda la lingua usata in udienza (lettera e).

La Corte, ad ulteriore specificazione, definisce i contorni e l’estensione del diritto in commento, at-tribuendogli una natura non assoluta bensì relativa. Relatività, quest’ultima, che si esplica in una dupli-ce accezione: oggettiva e soggettiva.

Per ciò che attiene alla prima connotazione, i Giudici alsaziani ammettono che il diritto ad un equo processo possa essere assoggettato a limitazioni da parte dell’ordinamento di uno Stato membro. Le au-torità nazionali godono, infatti, di un certo margine di discrezionalità nel dare attuazione ai summen-zionati principi attraverso norme di diritto interno: rimane, tuttavia, di competenza della Corte la finale e complessiva valutazione circa la conformità dei suddetti limiti rispetto ai principi espressi dalla Con-venzione.

A detta dei Giudici alsaziani, del resto, le restrizioni oggettive apportate al principio de quo non tro-vano fondamento sic e simpliciter nel potere discrezionale facente capo a ciascuno stato membro, ma si giustificano solo ed esclusivamente quando questi confini perseguano un legittimo scopo, quale po-trebbe essere quello di assicurare un’adeguata amministrazione della giustizia, e solo quando sussista un ragionevole rapporto di proporzionalità tra il contenimento imposto ed il risultato stabilito (v. Parere Lupeni Greek Catholic Parish e altri contro Romania N. 76943/11, §89, CEDU 2016 e Erfar-Avev v. Grecia, n.31150/09 §40, 27 marzo 2014).

Sotto il profilo soggettivo, invece, la relatività dei principi enucleati dall’articolo 6 troverebbe fon-damento nella possibilità, riconosciuta all’imputato, di poter rinunciare a taluna delle summenzionate garanzie.

Il versante soggettivo, giocoforza, richiede una specifica voluntas da parte del soggetto che coscien-temente rinunci a determinate prerogative in vista del perseguimento di uno scopo utilitaristico-pro-cessuale che egli ha il diritto di conoscere e di valutare nel pieno delle proprie facoltà decisorie.

Sul punto, la Corte appare ferma nel sottolineare come né dalla lettera né dallo spirito dell’articolo 6 della Convenzione traspaia un impedimento tout court per l’accusato di poter liberamente rinunciare – in maniera espressa o tacita – a quelle prerogative che fungono da corollario al principio dell’equità processuale.

I giudici di Strasburgo, tuttavia, sancito il generale diritto di rinuncia, ne delineano i confini, esigen-

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Processo penale e giustizia n. 6 | 2017 989

 

SCENARI | CORTI EUROPEE

do, da un lato, l’inequivocabilità e la certezza di tale abdicazione e, dall’altro, l’ascrivibilità della mede-sima alla libera scelta dell’interessato. In secondo luogo, il Collegio europeo richiede che la rinuncia in oggetto sia sempre bilanciata da garanzie minime, adeguate e parametrate alla sua importanza, salvo, in qualsiasi caso, il fatto che questa non appaia contraria all’interesse pubblico e ai diritti fondamentali dell’imputato (Hermi contro Italia N. 18114/02, § 73 in ordine, ECHR 2006 –XII e Simeonovi contro Bulgaria, N. 21980/04, § 115, 12 maggio 2017).

I concetti di proporzionalità ed adeguatezza fungono, infatti, da file rouge nell’accomunare sia le li-mitazioni oggettive – discrezionalmente calibrabili dagli Stati membri – sia le rinunce individuali ai principi ed alle garanzie dell’equità processuale derivanti dalla volontà della parte stessa.

La Convenzione medesima si pone, del resto, quale limite comune (e parametro) di entrambe le suddette accezioni di relatività: le limitazioni imposte dagli Stati membri e le rinunce della parte non potranno, infatti, integrare in nessun caso una violazione dei generali principi sanciti dalla Convenzio-ne, la quale diviene, allo stesso tempo, base giuridica della relatività del diritto ad un equo processo e limite invalicabile di garanzia del diritto stesso.

La Carta, pertanto, da un lato attribuisce un potere discrezionale alle autorità nazionali ed alle parti private e, dall’altro, impone ad entrambe limiti finalizzati alla salvaguardia dei principi generali sanciti dalla stessa.

La pronuncia in esame mette in luce il portato oggettivo della citata relatività. In data 12 settembre 2017 il ricorrente veniva condannato dal Tribunale ellenico di Nafplio alla pena

detentiva di anni ventidue per essere stato ritenuto responsabile, in concorso con altri, dei reati di rapi-na, sequestro di persona a scopo estorsivo ed illegittimo possesso di armi da fuoco.

Durante l’intero processo di primo grado, l’imputato era stato assistito da un legale al fine di ap-prontare al meglio la propria difesa (§6).

Una volta emessa la sentenza di prime cure, il ricorrente proponeva appello avverso la stessa, prima che ne fossero state pubblicate le motivazioni.

Ai sensi del codice di procedura penale ellenico, «la proposizione della domanda di ricorso deve essere presentata attraverso una dichiarazione depositata nella segreteria della Corte che ha emesso la decisione di primo grado”; “Il depositario al quale è stata presentata la domanda di ricorso deve elaborare una relazione firmata dal ricorrente o dal suo rappresentate e da chi riceve il ricorso».

Il ricorrente veniva, dunque, accompagnato dagli agenti di polizia presso la cancelleria del Tribunale (registry of the court) che aveva emesso le decisione di primo grado, ammanettato: veniva liberato solo al momento di compilare l’atto impugnativo.

Prassi comune delle Corti greche è quella di predisporre le domande di ricorso attraverso la compi-lazioni di moduli prestampati, compilati dal ricorrente e dall’ufficiale che riceve la relativa domanda.

La predisposizione di modelli prestampati rivela, a parere dello scrivente, una concezione meramen-te formalistica dell’atto propulsivo del giudizio d’appello: tale sistema determina, infatti, il rinvio della trattazione del merito della doglianza alla fase del dibattimento innanzi al giudice di seconde cure.

Il modulo prestampato presentava una prima parte in cui venivano inseriti i dati identificativi del ri-corrente e dell’ufficiale della segreteria che materialmente riceveva il ricorso.

In tale sezione, il prestampato richiamava solo in via generale una formula propositiva dell’atto d’appello, secondo la quale il ricorrente «DICHIARA che tale atto è redatto al fine della proposizione di AP-PELLO dinnanzi alla Corte d’appello di Nafplio in composizione di 5 membri avverso la sentenza n… emessa dal Tribunale di Nafplio in composizione di tre membri richiedendo che la decisione appellata sia annullata e che l’imputato sia assolto per i motivi che egli esporrà davanti alla Corte d’appello».

Una seconda parte del modulo prevedeva espressamente, infine, che – L’imputato nomina come suo rappresentante l’Avvocato che esercita in Nafplio (nome) – Tale relazione viene letta, confermata e firmata dal soggetto che ha presentato il ricorso e dall’Ufficiale. (no-

me). La Corte d’Appello di Nafplio riteneva il ricorso irricevibile in quanto non risultavano indicati espli-

citamente i motivi d’appello avverso la sentenza di prime cure: l’imputato si era, infatti, limitato ad im-pugnare genericamente la pronuncia di condanna, senza specificare le relative doglianze.

Il ricorrente, dal canto suo, sosteneva che, secondo una prassi consolidata nelle Corti elleniche, i moduli prestampati per la proposizione dell’appello fossero tutti provvisti di una frase standard secon-do la quale «il giudice di primo grado non ha valutato correttamente i fatti del caso e ha dichiarato colpevole il ricorrente per un fatto non commesso e per le ragioni che egli citerà innanzi alla Corte d’Appello». Tale espres-

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Processo penale e giustizia n. 6 | 2017 990

 

SCENARI | CORTI EUROPEE

sione sarebbe stata erroneamente cancellata e non stampata sui moduli a disposizione del Tribunale, integrando un semplice errore materiale dell’atto propulsivo, in alcun modo imputabile a sua colpa.

Con decisione divenuta irrevocabile in data 28 aprile 2010, la Corte d’appello di Nafplio respingeva il ricorso del ricorrente in quanto infondato, sostenendo che il solo imputato fosse responsabile del con-tenuto dell’impugnazione proposta (§13).

A fronte del rigetto operato dalla Corte d’appello ellenica, confermato dalla Cassazione, il ricorrente proponeva ricorso innanzi alla Corte edu per violazione dell’articolo 6 della Convenzione – con riferi-mento alla possibilità pratica di adire un Tribunale – lamentando come i giudici nazionali si fossero macchiati di un eccessivo formalismo nel pronunciare il suddetto rigetto.

Il ricorrente basava il proprio ricorso sul fatto che la mancata inclusione dei motivi d’appello sul prestampato, ch’egli aveva redatto insieme all’Ufficiale della cancelleria, non costituisse motivo suffi-ciente per il rigetto dell’atto in quanto, per prassi consolidata delle Corti greche, la presentazione e la redazione dell’atto d’appello costituiva una semplice formalità, dovendosi poi discutere il merito della causa in una fase successiva.

Egli sosteneva difatti che, secondo la giurisprudenza nazionale, la redazione di specifiche motiva-zioni e censure ben potesse essere soddisfatta con una mera formula standard quale «il convenuto lamenta errori nella valutazione dei fatti e/o delle prove».

L’eccessivo formalismo lamentato dal ricorrente riguardava, inoltre, circostanze fattuali come la mancata considerazione – da parte dei Giudici nazionali – delle modalità con cui era stato materialmen-te redatto e depositato il ricorso: in quella fase, il ricorrente era, infatti, sprovvisto di un difensore (la presenza del legale non era, tuttavia, obbligatoria §19); egli era, inoltre, intervenuto ammanettato e scortato dalle forze dell’ordine; pur essendo stato alloglotta, nemmeno gli era stata concessa l’assistenza di un interprete.

Il ricorrente sosteneva di essere, inoltre, in buona fede quanto alla ricevibilità dell’atto, atteso che tutte le operazioni erano state svolte alla presenza dell’Ufficiale della segreteria del Tribunale, il quale nulla aveva evidenziato quanto a possibili irregolarità (§19).

Dall’impugnazione proposta, a detta del ricorrente, sarebbe stato comunque possibile evincere che le relative doglianze riguardavano la valutazione delle prove assunte in primo grado.

Il rigetto dell’atto propulsivo costituiva, dunque, un illegittimo diniego di accesso alla giustizia e, di conseguenza, un annichilimento dei principi sanciti dall’articolo 6 Cedu paragrafo 1 (§16).

Il governo ellenico, dal canto suo, sosteneva che non vi fosse stata alcuna violazione del diritto ad un equo processo: il ricorrente non aveva formulato alcuna motivazione in seno all’atto d’appello; il modu-lo prestampato recava comunque lo spazio grafico – appositamente lasciato in bianco – funzionale all’illustrazione delle doglianze; l’ufficiale della cancelleria avrebbe dovuto, peraltro, attestare solamen-te l’identità dell’appellante, al quale ultimo competeva in via esclusiva la redazione dell’atto. A ciò s’aggiunga che il codice di procedura penale ellenico consentiva all’appellante di richiedere copia del-’atto d’appello e di predisporre nuovi motivi entro e non oltre il termine perentorio di dieci giorni dalla redazione della motivazione della sentenza impugnata.

Tale disposizione avrebbe posto rimedio tanto all’assenza del difensore al momento della redazione dell’atto d’appello, quanto all’iniziale assenza di motivazioni.

I Giudici alsaziani, dal canto loro, ribadiscono che l’accesso ad un Tribunale non costituisce un dirit-to assoluto bensì relativo: è, infatti, possibile che uno stato membro assoggetti tale diritto a limitazioni attraverso la propria normativa interna.

Tali limiti non sono però compatibili con la Convenzione laddove compromettano il nucleo essen-ziale del diritto stesso, non perseguano scopi legittimi, ovvero rivelino una sproporzione tra il fine per-seguito ed i mezzi impiegati (Lupeni Greek Catholic Parish e altri contro Romania N. 76943/11, §89, CEDU 2016 e Erfar-Avev v. Grecia, n.31150/09 §40, 27 marzo 2014).

Spetta d’altro canto ai giudici nazionali risolvere i problemi relativi all’interpretazione della norma-tiva interna, conformemente ai principi della Convenzione (Perez c. Francia, N. 47287/99, § 82 CEDU 2004 – I e Papaioannou c. Grecia N. 18880/15, §39, 2 giugno 2016). Tale massima assume rilevanza soprat-tutto per ciò che attiene all’interpretazione delle norme processuali quali sono, appunto, quelle che san-ciscono i termini relativi al deposito di atti aventi natura propulsiva. Ruolo della Corte, in siffatti conte-sti, è solamente quello di valutare la conformità dell’interpretazione compiuta dai giudici nazionali con i principi sanciti dalla Convenzione (Yagtzilar e altri contro Grecia, N. 41727/98, §25, CEDU 2001-XII).

La Corte ribadisce che, nell’applicare le norme di diritto interno, i giudici nazionali sono tenuti, da

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Processo penale e giustizia n. 6 | 2017 991

 

SCENARI | CORTI EUROPEE

un lato, ad evitare, eccessivi formalismi – pregiudizievoli per l’equità dell’intero procedimento – e, dal-l’altro, a non cadere in una flessibilità altrettanto eccessiva che comprometterebbe, sul versante oppo-sto, la certezza e l’uniformità del diritto. (Walchli c. Francia, N. 35787/03, §29 del 26 luglio 2007 e Peca c. Grecia (n.2) N. 33067/08, § 30, 10 giugno 2010).

In particolare, la Corte evidenzia come il diritto di accedere ad un Tribunale, e più in generale i dirit-ti sanciti dall’articolo 6 Cedu, sarebbero inequivocabilmente frustrati a fronte di limitazioni nazionali che compromettessero un regolare svolgimento del contenzioso, oltre alla conseguente certezza del di-ritto (tra le tante cfr. Kart c. Turchia [GC], N. 8917/05, § 79, CEDU 2009 e Efstathiou e altri c. Grecia, N. 36998/02, § 24, 27 giugno 2006).

A conclusione di tale ragionamento, i giudici di Strasburgo affermano che il ruolo della Convenzio-ne è quello di garantire diritti pratici ed efficaci e non meramente teorici e astratti, soprattutto per quel che attiene all’articolo 6 Cedu, norma di rilievo fondamentale in una società democratica (§27).

Sussumendo il caso di specie sotto i principi appena richiamati, i giudici riconoscono come l’irri-cevibilità di un atto d’appello non adeguatamente motivato in punto di fatto e di diritto potrebbe esse-re, in astratto, finalizzata ad assicurare una buona amministrazione della giustizia ed una maggiore cer-tezza del diritto (§ 29).

Nel caso di specie, tuttavia, risulta di fondamentale importanza valutare se vi sia stata proporziona-lità tra i mezzi impiegati e gli scopi perseguiti.

In particolare, a parere della Corte, occorre valutare se i giudici greci non si siano macchiati di so-verchio formalismo, stante l’importanza fondamentale dell’atto d’appello in ragione dell’accertamento dei fatti e della responsabilità dell’imputato (§29-30).

La Corte rileva che – indipendentemente dalla sussistenza di una prassi di predisporre le impugna-zioni sulla scorta di moduli prestampati – fosse palese la volontà del ricorrente di pervenire all’annul-lamento, o comunque alla modifica, della sentenza di primo grado.

Per ciò che attiene al contenuto meramente grafico-formale del modulo prestampato, la Corte ne propone un’esegesi logica, addivenendo alla conclusione che la semplice presenza della locuzione “(i) APPELLA e richiede che la decisione impugnata sia annullata e che l’imputato sia assolto per le ragioni che si ri-serverà di proporre dinnanzi alla Corte d’appello” sia di per sé sufficiente a rendere valido e ricevibile l’atto in ragione della riserva espressa di presentare le proprie motivazioni in punto di fatto e di diritto diret-tamente innanzi alla Corte d’appello.

Per i giudici di Strasburgo non appare ragionevole nemmeno supporre che la presenza di uno spa-zio vuoto adiacente alla frase citata integrasse l’obbligo di redigere le motivazioni: se così fosse, tale se-zione del modulo avrebbe dovuto essere introdotta dalla locuzione “per le ragioni ...” (§30).

Al fine di valutare la proporzionalità della limitazione imposta dal governo greco con i principi della Convenzione, la Corte analizza concretamente le modalità e le circostanze attinenti alla redazione ed al deposito dell’atto, volgendo lo sguardo alla stessa giurisprudenza nazionale ellenica.

I Giudici rammentano, in primo luogo, che l’appellante era stato condotto in cancelleria dalle forze dell’ordine ammanettato: tale contesto rendeva chiaramente difficoltosa l’integrale comprensione dei requisiti di redazione e deposito dell’atto.

La Corte, infine, prende atto della possibilità di estrarre copia dell’impugnazione e di depositare mo-tivi nuovi tramite l’assistenza di un difensore. Ciononostante, per la stessa giurisprudenza interna, la validità di un atto impugnativo non necessita di motivazioni specifiche, essendo a tale scopo sufficiente una formula standard che renda manifesta la volontà dell’appellante di censurare la valutazione di fatti e o di prove poste a fondamento della decisione di primo grado.

Avuto, dunque, riguardo a tutte le circostanze del caso concreto, oltre che all’entità elevata della pe-na inflitta ed alla natura meramente formale dell’atto d’appello, la suddetta declaratoria d’irricevibilità appare una limitazione del tutto sproporzionata del diritto ad un equo processo.

DIRITTO AD UN EQUO PROCESSO – RELATIVITÀ SOGGETTIVA DEL DIRITTO

(Corte e.d.u., 18 luglio 2017, Sklyar c. Russia)

La pronuncia in commento afferisce, invece, alla relatività del diritto ad un equo processo sotto il profilo soggettivo, vale a dire alla possibilità per l’imputato di rinunciare a determinate garanzie sancite dalla Convenzione.

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Processo penale e giustizia n. 6 | 2017 992

 

SCENARI | CORTI EUROPEE

Il ricorrente era stato condannato alla pena di anni nove in quanto ritenuto colpevole dei reati di fur-to aggravato e rapina. Durante il procedimento di primo grado costui era sempre stato assistito da un difensore. Proposta impugnazione avverso la sentenza di prime cure, la Corte d’appello confermava la predetta condanna.

Durante il processo d’appello la parte rinunciava all’assistenza difensiva: tale possibilità era, del re-sto, contemplata dall’ordinamento nazionale.

Il ricorrente proponeva ricorso innanzi alla Corte europea dei diritti dell’uomo per violazione del-l’articolo 6 Cedu, sia per quel che attiene al generale diritto ad un equo processo (articolo 6 §1), sia con riferimento a quello di fruire della rappresentanza ed assistenza legale (§17).

Il governo russo sosteneva, al contrario, l’infondatezza di tale censura in quanto la rinuncia all’as-sistenza del proprio legale – permessa dalla normativa nazionale – derivava dall’espressa volontà del ricorrente medesimo (§19).

In particolare, il governo affermava che, dopo la lettura della sentenza di condanna, la parte aveva di propria volontà firmato una rinuncia alla difesa tecnica, non motivata nemmeno da ragioni di ristret-tezza economica (§19).

Successivamente, il ricorrente aveva chiesto copia della sentenza e, anche in quell’occasione, aveva firmato un ulteriore documento in cui – pur dichiarando di proporre appello avverso la sentenza di condanna – confermava la propria volontà di non avvalersi dell’assistenza di un legale e, nuovamente, riaffermava che tale scelta non era dovuta a motivi finanziari.

Ad ulteriore conferma, il governo dimostrava come, anche in sede di trattazione dell’udienza di ap-pello, il ricorrente non aveva fatto alcuna richiesta di assistenza tecnica.

La Corte, nell’esaminare il caso de quo, sancisce il principio di relatività del diritto ad un equo pro-cesso sotto il profilo soggettivo, affermando che “né la lettera né lo spirito dell’articolo 6 della Convenzione impediscono ad un soggetto di rinunciare, di propria iniziativa espressamente o tacitamente, al diritto alle garan-zie di un processo equo” (§22).

Il principio espresso necessita, tuttavia, di opportuni temperamenti e precisazioni, che la Corte indi-vidua nel fatto che la suddetta rinuncia debba risultare inequivocabile (established in an unequivocal manner) e, comunque, supportata da minime garanzie di difesa, adeguate alle conseguenze della rinun-cia medesima nel caso concreto.

In ogni caso, concludono i Giudici alsaziani, la rinuncia non deve in alcun modo contrastare con un diritto fondamentale della persona (Hermi contro Italia N. 18114/02, § 73 in ordine, ECHR 2006 –XII e Si-meonovi contro Bulgaria, N. 21980/04, § 115, 12 maggio 2017).

La Corte procede successivamente ad un’analisi della normativa nazionale, rilevando come la pre-senza di un difensore nel grado d’appello sarebbe risultata obbligatoria solo se l’appellante non avesse in modo alcuno rinunciato esplicitamente o implicitamente a tale diritto (§22).

Tratteggiati i principi di diritto posti come base della regiudicanda, la Corte giunge alla sussunzione del caso concreto, ravvisando la sussistenza di un’espressa volontà di abdicazione alla difesa tecnica da parte del ricorrente, sulla scorta di elementi concreti contenuti nel fascicolo di causa.

Stanti l’autografia della dichiarazione e della firma, il contrassegno posto dall’ufficiale della Corte d’appello, il numero di registro ed il timbro corrispondente, era, dunque, possibile ritenere che il ricor-rente avesse inequivocabilmente espresso il desiderio di non avvalersi dell’assistenza di un legale.

Attesa la possibilità di rinunciare alla difesa tecnica, e la piena consapevolezza dell’imputato circa le conseguenze di tale scelta (avendo costui ricevuto le informazioni necessarie), la Corte ritiene che, in capo all’autorità russa, non sussistesse nemmeno l’obbligo di nomina di un difensore d’ufficio.

Espressi i principi di diritto suddetti, e valutate le circostanze del caso concreto, la Corte non ravvisa nel comportamento degli organi giudicanti russi alcuna violazione dell’articolo 6 della Convenzione.

I Giudici di Strasburgo, nella trattazione delle fattispecie in commento, sanciscono principi di chiara rilevanza pratico-applicativa. Viene, infatti, riaffermato come le normative nazionali debbano persegui-re in via principale gli interessi della giustizia, nel rispetto dei principi di garanzia e di tutela della parte processuale.

Tale risultato si traduce nell’eliminazione di formalismi eccessivamente castranti e di chiaro fine me-ramente dilatorio, in parallelo all’affermarsi di una partecipazione volontaria e consapevole dell’im-putato, manifestata anche attraverso scelte processuali difformi dai principi espressi dall’articolo 6, purché inequivocabili, e sempre rispettose dei diritti e delle garanzie sancite dalla Convenzione.

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Processo penale e giustizia n. 6 | 2017 993

 

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DIRITTO AD UN EQUO PROCESSO – RELATIVITÀ GENERALE DEL PRINCIPIO

(Corte e.d.u., 13 luglio 2017, Nikolay Genov c. Bulgaria)

Con la sentenza Corte e.d.u. 13 luglio 2017, Nikolay Genov c. Bulgaria la Corte dà prova della porta-ta generale del carattere relativo del diritto ad un equo processo, estendendo tale connotazione anche all’organo giudicante, ossia ai giudici nazionali.

Nella sentenza in commento la Corte alsaziana prende, infatti, posizione circa l’obbligo motivazio-nale, gravante sui giudici interni.

Il 10 gennaio del 2007 il ricorrente era stato processato dalle autorità bulgare in quanto ritenuto re-sponsabile dei reati di acquisto e possesso di banconote false. L’addebito era fondato sulle risultanze di una perquisizione nel domicilio di costui, dov’erano stati rinvenuti 500 dollari contraffatti.

Successivamente il Pubblico Ministero riformulava l’imputazione, accusando l’imputato soltanto dell’acquisto di tali banconote (a seguito di una riforma, il mero possesso di una modica quantità di banconote contraffatte era stato, infatti, depenalizzato). La fattispecie d’acquisto di banconote contraf-fatte, e del relativo possesso in gran quantità, entravano, peraltro, in vigore solamente nell’anno 2005.

Le autorità bulgare accusavano il ricorrente di essersi procacciato le banconote false nel periodo compreso tra il 2002 ed il 2007.

Dalla trattazione dei fatti era emerso che il fratello del ricorrente aveva venduto il proprio apparta-mento nel 2002 e, con il denaro ricavato da quella vendita, i due correi avevano acquistato banconote contraffatte cambiando la moneta bulgara con dollari americani falsificati.

Il ricorrente, dal canto suo, sosteneva che i 500 dollari contraffatti rinvenuti presso la propria abita-zione derivassero proprio dall’acquisto di tali banconote compiuto nel 2002: egli aveva, infatti, deciso di accantonare tale somma “per i momenti difficili”.

La versione del ricorrente veniva confermata dal fratello: entrambi sostenevano, peraltro, di non es-sere a conoscenza della falsità del denaro.

Con una sentenza emessa in data 25 gennaio 2008 la Corte regionale bulgara (giudice di primo gra-do) riteneva colpevole il ricorrente del reato previsto e punito dall’articolo 244 c.p. bulgaro per aver commesso il fatto in un arco temporale compreso tra il 26 marzo 2005 e il 10 gennaio 2007, assolvendolo per le condotte tenute dal 2002 al 2005.

La Corte d’appello confermava la sentenza di primo grado e così anche la Corte suprema di terza istanza.

In tutti e tre i gradi di giudizio il ricorrente era stato ritenuto responsabile di aver ricevuto del dena-ro dal fratello e di avere consapevolmente acquistato assieme a quest’ultimo banconote contraffate.

Il ricorrente sosteneva che la condanna emessa fosse contraria ai principi sanciti dalla Convenzione in quanto, in nessun modo, i giudici nazionali avevano dimostrato che l’acquisto di banconote falsifica-te fosse avvenuto successivamente all’anno 2005, periodo in cui la condotta posta in essere era divenuta penalmente rilevante.

La Corte riconduce la violazione lamentata nell’alveo delle prerogative sancite dall’articolo 6 § 1 Ce-du, afferenti al più generale diritto ad un processo equo (§19).

Anche nel caso di specie i Giudici alsaziani sottolineano la portata non assoluta del diritto in com-mento. Il Collegio afferma, infatti, che, pur sussistendo un obbligo, in capo alle giurisdizioni nazionali, di indicare con “sufficiente chiarezza” (sufficient clarity) (§27) i motivi su cui basano le proprie decisioni (vedi tra le altre Hadjianastassiou c. Grecia, 16 dicembre 1992, § 33, e Taxquet c. Belgio n. 926/05, § 91, ECHR 2010), “la portata del suddetto vincolo risulta variabile a seconda della natura della decisione e deve es-sere determinata alla luce delle circostanze del caso” concreto. A sostegno del principio espresso, la Corte ribadisce che – pur non sussistendo in capo ai giudici nazionali l’obbligo di motivare ogni singola asserzione – dall’apparato giustificativo del provvedimento deve comunque necessariamente emergere l’esame di tutte le questioni essenziali del caso (tra le altre Ruiz Torija c. Spagna, 9 dicembre 1994, § 29; Boldea c. Romania, n. 19997/02, §§ 29-30, 15 febbraio 2007; e Tchankotadze c. Georgia, n. 15256/05, § 103, 21 giugno 2016).

Sussunta la fattispecie concreta sotto il principio di diritto sopra richiamato, il Collegio nota come il momento acquisitivo delle banconote costituisse un elemento determinante per accertare la responsabi-lità del ricorrente, accusato di avere commesso un fatto penalmente sanzionato solo a partire dall’anno 2005.

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Processo penale e giustizia n. 6 | 2017 994

 

SCENARI | CORTI EUROPEE

La problematica, a parere dei Giudici di Strasburgo, era stata debitamente sollevata dal ricorrente e parzialmente confermata dalla versione del fratello: il compito della Corte si esaurisce in tale constata-zione; compete, infatti, ai giudici nazionali accertare la veridicità di tale affermazione e se questa sia so-stenuta da prove sufficienti.

In ogni caso, la Corte ribadisce che l’onere di provare tutti gli elementi rilevanti grava sull’accusa. A parere dei Giudici alsaziani, in conclusione, le autorità bulgare non sembrano aver rispettato il

principio di diritto in esame, integrando così una violazione dell’articolo 6 Cedu: i giudici nazionali si sono, infatti, limitati a collocare il momento dell’acquisto delle banconote contraffatte in una data suc-cessiva al 2005, senza fornire prova alcuna circa il compimento del fatto proprio nel periodo in cui detto comportamento risultava penalmente rilevante.

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Processo penale e giustizia n. 6 | 2017 995

 

SCENARI | CORTE COSTITUZIONALE

CORTE COSTITUZIONALE di Wanda Nocerino

IL PROGRESSIVO SCARDINAMENTO DEI TERMINI PERENTORI PER L’ACCESSO AI RITI PREMIALI A SEGUITO DI NUOVE CONTESTAZIONI “FISIOLOGICHE”

(C. cost., sent. 17 luglio 2017, 206)

La Consulta, con una sentenza additiva in tema di contestazioni suppletive (C. cost., 17 luglio 2017, n. 206), conferisce una veste definitiva al già “ritoccato” art. 516 c.p.p., consentendo l’accesso al rito spe-ciale dell’applicazione della pena su richiesta delle parti private – anche oltre i termini perentori di cui all’art. 446, comma 1, c.p.p. – nel caso di modifica dell’imputazione determinata da una «nuova conte-stazione fisiologica», ovvero fondata su fatti emersi nel corso dell’istruzione dibattimentale.

Viene, quindi, dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 516 c.p.p., nella parte in cui «non pre-vede la facoltà dell’imputato di chiedere al giudice del dibattimento l’applicazione della pena, a norma dell’art. 444 c.p.p., relativamente al fatto diverso emerso nel corso dell’istruttoria dibattimentale, che forma oggetto della nuova contestazione».

In effetti, la storia dei rapporti tra l’accesso ai riti alternativi e le contestazioni suppletive è notoria-mente tormentata, non esistendo alcun meccanismo di coordinamento tra i due istituti: prendendo le mosse da un’impostazione codicistica rigida e inflessibile, si è ritenuto che «una contestazione accettata o subita al dibattimento […] comporta altresì l’impossibilità, per l’imputato, di ottenere i benefici san-zionatori legati al rito» (Ex multis, C. cost., 6 luglio 1992, n. 316; C. cost., 11 maggio 1992, n. 213; Corte cost., 1 aprile 1993, n. 129. Nello stesso senso anche la giurisprudenza di legittimità. Cfr., Cass., sez. VI, 25 ottobre 2002, n. 15063).

Ciò per almeno due ordini di ragioni. In primo luogo, i procedimenti speciali ammessi a dibattimento già avviato perderebbero la loro

connaturata ratio deflattiva: enfatizzando il binomio deflazione-premialità; la giurisprudenza ha fatto ricadere sull’imputato tutta l’alea della scelta, ritenendo che «l’interesse a beneficiare del rito speciale sarebbe stato tutelabile solo se avesse consentito una più rapida definizione del processo» (C. cost., 19 marzo 1993, n. 107).

La possibilità di innestare il rito alternativo nel dibattimento risulterebbe, pertanto, in contrasto con le finalità di economia processuale e, per questo, incompatibile con la ratio della disciplina.

In secondo luogo, il rischio di una nuova contestazione rientrerebbe tra le ponderazioni dell’impu-tato nel momento in cui decide di proseguire con il processo ordinario, «onde egli non ha che addebita-re a sé medesimo le conseguenze della sua scelta» (C. cost., 6 luglio 1992, n. 316).

Tuttavia, in vista della considerazione dell’accesso ai riti alternativi come estrinsecazione dei diritti e delle facoltà dell’imputato, la Consulta ha progressivamente scardinato il dogma delle “presunzioni in-superabili”, consentendo la riapertura dei termini per deviare il naturale corso del procedimento verso un rito deflattivo, ma solo come correttivo alle patologie del sistema determinate da una condotta pro-cessuale anomala del p.m., «quale quella derivante dall’errore sull’individuazione del fatto o del titolo di reato».

Con la sentenza n. 265 del 1994, la Corte dispone che la richiesta di definire il procedimento con pat-teggiamento possa essere presentata anche oltre i termini previsti a pena di decadenza nel caso di mo-difica dell’imputazione dovuta a nuove contestazioni di fatti che risultavano già dagli atti di indagine (c.d. contestazioni patologiche): in tale ipotesi, infatti, «non si potrebbe più considerare una libera as-sunzione del rischio da parte dell’imputato di una nuova contestazione nel dibattimento, dato che le sue determinazioni in ordine ai riti speciali risultavano essere sviati da una condotta processuale ano-mala del p.m.» (così, C. cost., 22 giugno 2994, n. 265).

Una simile apertura non viene, invece, prevista nel caso di giudizio abbreviato: in quella stessa pro-nuncia la Consulta dichiara inammissibile l’analoga questione di legittimità costituzionale in relazione

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Processo penale e giustizia n. 6 | 2017 996

 

SCENARI | CORTE COSTITUZIONALE

al suddetto rito, sul rilievo che l’omologo procedimento elusivo della fase dibattimentale «dovesse con-siderarsi incompatibile con l’innesto nella fase dibattimentale».

Il vulnus viene colmato a seguito dell’entrata in vigora della l. 16 dicembre 1999, n. 479 (c.d. Legge Carotti), che «attribuisce al giudice del dibattimento il potere di disporre e celebrare il giudizio abbre-viato».

Con la sentenza n. 333 del 2009, la Corte dichiara l’illegittimità costituzionale degli artt. 516 e 517 c.p.p., «nella parte in cui non prevendono la facoltà dell’imputato di chiedere al giudice del dibattimen-to il giudizio abbreviato per il fatto diverso o reato concorrente contestato nel dibattimento, quando la nuova contestazione concerne un fatto che già risultava dagli atti di indagine al momento dell’esercizio dell’azione penale» (così, C. cost., 14 dicembre 2009, n. 333).

Successivamente la Consulta interviene ulteriormente sul punto, dichiarando l’illegittimità dell’art. 517 c.p.p., prima, nella parte in cui non consentiva il patteggiamento (C. cost., 23 giugno 2014, n. 184) e, poi, nella parte in cui non consentiva il giudizio abbreviato (C. cost., 26 maggio 2015, n. 139), nel caso in cui il p.m. avesse proceduto alla contestazione suppletiva “patologica” di una circostanza aggravante.

Seguendo tale iter argomentativo, il discrimen per permettere all’imputato di accedere ai riti premiali – oltre la scadenza del termine prestabilito – a seguito di contestazioni dibattimentali suppletive sareb-be rappresentato dalla ragione sottesa alle scelte del p.m.: se la modifica dell’imputazione fosse deter-minata da un error operandi della pubblica accusa, allora la parte avrebbe potuto essere rimessa in ter-mini ed esercitare i diritti e le facoltà previsti dalla legge; viceversa, qualora tale esigenza fosse dipesa dalle risultanza dell’istruzione dibattimentale, il soggetto non sarebbe stato legittimato a beneficiare dei riti alternativi.

Solo un’eccezione alla regola: senza nessuna distinzione tra contestazioni fisiologiche e patologiche, la Consulta attribuisce all’imputato la facoltà di presentare – anche tardivamente – domanda di obla-zione a seguito di modifica dell’imputazione (C. cost., 29 dicembre 1995, n. 530).

Rilevando una disparità di “trattamento processuale”, la Corte abbandona il riferimento alla “pre-vedibilità” della contestazione suppletiva, quale criterio preclusivo del diritto ad accedere al giudizio abbreviato, scardinando, così, la rimanente restrizione in tema di contestazioni fisiologiche determinate da fatto diverso emerso a seguito dell’istruzione dibattimentale.

Con la sentenza del 22 ottobre 2012, n. 237, la Corte dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 517 c.p.p., dal momento che non consente all’imputato il diritto di chiedere il giudizio abbreviato nel caso di reato concorrente emerso a seguito dell’istruzione dibattimentale e oggetto della nuova contestazione.

Il precedente logico della pronuncia in commento, tuttavia, è rappresentato dalla recente sentenza del 5 dicembre 2014, n. 273 che, si pensava, aver «chiuso il sistema», consacrando il diritto dell’impu-tato di accedere al rito abbreviato anche a seguito di contestazioni fisiologiche.

Si tratta, in sostanza, di un’eccezione alla regola della perentorietà dei termini per proporre riti al-ternativi, determinata, a sua volta, da una deroga espressamente riconosciuta dal legislatore del 1988: gli artt. 516-521 c.p.p. consentono, infatti, al p.m. di modificare l’addebito mosso all’imputato a seguito di fatto nuovo o diverso emerso nel corso del dibattimento, superando il principio dell’immutabilità dell’oggetto processuale.

Con argute argomentazioni – che si spingono ben oltre le conclusioni raggiunte con la prodromica pronuncia del 2014 – la Consulta estende la portata del dictum costituzionale anche all’ipotesi di accesso al patteggiamento e ciò non solo al fine di garantire «l’effettività» dei principi costituzionali compressi dalla preclusione (artt. 3, 24 Cost.), ma anche per ragioni di natura strettamente processuale.

In primis, come puntualmente evidenziato dal giudice remittente, la preclusione esistente in tema di accesso al rito alternativo nel caso di contestazioni fisiologiche determinerebbe una violazione del prin-cipio di eguaglianza sostanziale (art. 3 Cost.): l’imputato che subisce una nuova contestazione a seguito dell’istruzione dibattimentale, si verrebbe a trovare in una condizione diversa e deteriore – quanto alla facoltà di accesso ai procedimenti speciali e alla fruizione della correlata riduzione di pena – rispetto a chi della stessa imputazione fosse stato chiamato a rispondere sin dall’inizio.

In secondo luogo, si determinerebbe anche una compressione del diritto di difesa (art. 24 Cost.), pre-supponendo che l’imputato, per esercitare le facoltà che la legge gli riconosce, debba avere ben chiari i termini dell’accusa mossa nei suoi confronti.

Da un punto di vista “tecnico”, demolendo l’argomento cardine delle pregresse pronunce che ave-vano inibito la presentazione della richiesta oltre i termini perentori, l’accesso al rito non snaturerebbe la ratio deflattiva dell’istituto, «risultando comunque idoneo a produrre un’economia processuale, an-

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Processo penale e giustizia n. 6 | 2017 997

 

SCENARI | CORTE COSTITUZIONALE

che se attenuta», sia consentendo al giudice di verificare l’esistenza delle condizioni per l’applicazione della pena senza alcuna attività istruttoria, sia escludendo eventuali successive impugnazioni.

La decisione in commento appare, quindi, prevedibile ma soprattutto attesa: un intervento chiarifi-catore dell’art. 516 c.p.p. in relazione al patteggiamento si considerava solo una questione di tempo. In questo procedimento, infatti, la valutazione dell’imputato circa la scelta dell’iter processuale è indisso-lubilmente legata – ancora di più che nel giudizio abbreviato – alla natura dell’addebito mosso, dal momento che tramite lo stesso non si definisce solo il merito della questione al di fuori e prima del di-battimento, ma viene determinato il contenuto della decisione stessa attraverso un “concordato” sul-l’entità della pena.

Seppur, quindi, pienamente condivisibile l’approdo cui giunge la Consulta, lo “sforzo ermeneutico” dalla stessa compiuto pare risentire dell’onda d’urto originata dai rilievi critici già evidenziati per la speculare sentenza del 2014: la pronuncia de quo, infatti, rappresenta il risultato di una serie di interven-ti additivi ciascuno dei quali presupposto del successivo ma nessuno, di per se, definitivo.

Anche in questo caso – come in passato – il Giudice delle Leggi non enuclea un principio generale in base al quale l’imputato può essere rimesso in termini per richiedere l’accesso ai procedimenti speciali a seguito di nuove contestazioni dibattimentali.

Meglio sarebbe stato indicare il criterio per il quale ogni modifica dell’imputazione consente all’im-putato di riconsiderare la scelta sul rito.

Come già evidenziato dalla dottrina, la Corte «ha risolto il quesito di incostituzionalità devoluto, […], ma senza fissare un indirizzo di sistema capace di ispirare un modello normativo […]. E innegabi-le, infatti, che la piena espressione del diritto di difesa passa per l’emersione del fatto diverso in forma di obbligo per il pubblico ministero alla contestazione suppletiva» (C. cost., 5 dicembre 2014, n. 273).

D’altra parte, «la rinuncia al processo e la scelta che comporta, più di ogni altra, una forte compres-sione delle possibilità di difendersi. Alla base di una simile decisione non può che esserci una volontà piena e consapevole, supportata da una concreta valutazione del fatto contestato, degli elementi emersi e delle effettive possibilità di discolparsi». Mutato l’addebito, e mutate le condizioni del giudizio, quella volontà potrebbe non permanere.

Pertanto, rappresenta un’estrinsecazione dei diritti fondamentali che l’ordinamento riservi all’impu-tato la facoltà di esprimersi nuovamente sulla rinuncia al dibattimento tutte le volte in cui intervengano nuove contestazioni per cui l’addebito mosso risulta essere “alterato” rispetto a quanto inizialmente prescritto.

L’IRREVERSIBILE INCAPACITÀ DEL PROPOSTO NON SOSPENDE L’APPLICAZIONE DELLA MISURA DI PREVEN-ZIONE PATRIMONIALE

(C. cost., sent. 17 luglio 2017, 208)

Il Tribunale ordinario di Napoli, sezione misure di prevenzione, ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 72, comma 2, c.p.p., «nella parte in cui, nel procedimento di applicazione di una misura di prevenzione patrimoniale, non prevede la revoca dell’ordinanza di sospensione disposta per l’infermità di mente del proposto, qualora si accerti che l’incapacità della persona è irreversibile».

A parere del giudice rimettente, l’attuale assetto normativo contrasterebbe con gli artt. 3 e 24 Cost.: in primis, si realizzerebbe una discrasia tra il trattamento riservato all’imputato nel procedimento pena-le (che impone la sospensione del procedimento per incapacità processuale del reo) e quello riservato al proposto nel procedimento di prevenzione patrimoniale; in secondo luogo, la norma lederebbe il prin-cipio di inviolabilità del diritto di difesa del soggetto ritenuto incapace, «al quale viene preclusa ogni possibilità di far valere le proprie ragioni attraverso il curatore speciale per dimostrare la lecita prove-nienza del bene sequestrato».

A parere della Consulta, tuttavia, le questioni risultano infondate, rilevando che l’incapacità del proposto non costituisce un ostacolo alla definizione del procedimento relativo all’applicazione di una misura di prevenzione di natura patrimoniale.

La Corte affronta con grande dedizione la quaestio de qua e forma il suo convincimento basandosi non solo su dati strettamente normativi, ma riprendendo le “tendenze” della giurisprudenza costitu-zionale pregressa.

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Processo penale e giustizia n. 6 | 2017 998

 

SCENARI | CORTE COSTITUZIONALE

In particolare, nel procedimento di prevenzione si applicano (ai sensi dell’art. 4, l. 27 dicembre 1956, n. 1423), per quanto non disposto nel medesimo decreto, le disposizioni inerenti all’applicazione delle misure di sicurezza: ai sensi dell’art. 666, comma 8, c.p.p. – richiamato dall’art. 678 c.p.p. – qualora l’interessato risulti infermo di mente si procede nei confronti del tutore, curatore o del curatore provvi-sorio nominato in assenza dei primi.

Come si evince dalla normativa in esame, l’incapacità processuale del soggetto non comporta la so-spensione del procedimento, ritenendo che debba continuare nei confronti del tutore o del curatore.

A parere della Consulta, l’equivoco su cui si fonda la quaestio sollevata dal giudice a quo deriva da un’erronea equiparazione tra misure di prevenzione di tipo personale e quelle di natura patrimoniale in relazione all’applicabilità degli artt. 70 ss. c.p.p.: se nel primo caso l’incapacità del proposto «fa venir meno in radice ogni possibilità di ritenere attuale la sua eventuale pericolosità sociale» –requisito ne-cessario per l’applicazione di tali misure –, nella seconda ipotesi, invece, è possibile prescindere dalla partecipazione personale del preposto al procedimento di prevenzione, dal momento che può prose-guire nei confronti del tutore o curatore (C. cost., 11 luglio 1996, n. 275; C. cost., 25 gennaio 2012, n. 21. Nello stesso senso, Corte e.d.u., 12 agosto 2015, Gogitidze c. Georgia).

Dunque, la normativa in esame non troverebbe spazio nel procedimento di prevenzione relativo all’applicazione di misure personali, «tenuto conto che il bene sul quale esso opera ha una propria e particolare rilevanza costituzionale» (C. cost., 9 maggio 1968, n. 53; C. cost., 29 settembre 1997, n. 306; C. cost., 20 gennaio 2004, n. 39): se l’art. 666, comma 8 c.p.p. non può essere applicato, adeguata pare, in-vece, la disciplina della sospensione del procedimento preventivo in relazione agli artt. 70 ss. c.p.p.

Nel caso, invece, di misure di prevenzione reali – nella specie confisca dei beni sequestrati – l’art. 666, comma 8, c.p.p. sembra assolutamente compatibile con la struttura del procedimento, «perché un conto è l’inviolabilità della libertà personale, altro contro è la disponibilità dei beni, che la legge può contemperare in funzione degli interessi collettivi che vengono ad essere coinvolti».

Con la pronuncia in commento, sembrano essere vanificati i risultati raggiunti dalla stessa Corte qualche anno prima: «viene soppressa la figura dell’eterno giudicabile» – ovvero dell’imputato affetto da incapacità processuale irreversibile –, «“congelato” nella sua condizione da una sospensione tanto del processo quanto del decorso dei termini di prescrizione del reato», attraverso la dichiarazione di il-legittimità costituzionale dell’art. 159, comma 1, c.p., «nella parte in cui non escludeva la sospensione della prescrizione quando era stata accertata la definitiva incapacità dell’imputato di partecipare al pro-cedimento per una irreversibile infermità di mente» (C. cost., 14 gennaio 2015, n. 45).

Si evince, come spesso accade, un inappropriato discrimen tra le diverse species di misure di preven-zione, a seconda che comprimano il diritto fondamentale alla liberà personale o il “secondario” diritto alla proprietà: il venir meno dell’“attualità del pericolo” per poter disporre misure di prevenzioni reali (da ultimo Cass., sez. un., 16 marzo 2017, n. 12621) – consentendo di applicarle anche nel caso di morte o infermità psichica del soggetto pericoloso – rende possibile, tout court, una limitazione dei diritti del preposto sine die, estendendo tale ablazione anche agli eredi e/o legatari, senza che all’incapace sia ap-plicata una misura di prevenzione personale.

La speranza appare, allora, riposta nella l. 23 giugno 2017, n. 103, che introduce un nuovo art. 72 bis nel codice di rito, al fine di disciplinare la sorte dei soggetti affetti da incapacità irreversibile.

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Processo penale e giustizia n. 6 | 2017 999

 

SCENARI | SEZIONI UNITE

SEZIONI UNITE di Rosa Gaia Grassia

REATI ATTRIBUITI ALLA PROCURA DISTRETTUALE: IL TRIBUNALE, CON SENTENZA DICHIARATIVA DI IN-COMPETENZA PER MATERIA, DEVE TRASMETTERE GLI ATTI DIRETTAMENTE AL GIUDICE RITENUTO COMPE-TENTE E NON AL PUBBLICO MINISTERO

(Cass., sez. un., 31 agosto 2017, n. 39746)

Nella pronuncia in oggetto, le Sezioni Unite asseriscono che il Tribunale, con la sentenza dichiarati-va di incompetenza per materia per uno dei reati previsti dall’art. 51, comma 3-bis, c.p.p., attribuiti alla competenza della Corte di assise, debba trasmettere gli atti al giudice ritenuto competente per il giudi-zio, a meno che non sia stata dichiarata la competenza del giudice di altro distretto, e le funzioni di pubblico ministero e di giudice dell’udienza preliminare siano state svolte rispettivamente dal pubblico ministero e dal giudice competenti funzionalmente, ai sensi e del menzionato art. 51, comma 3-bis, ul-timo periodo e dell’art. 328, comma 1-bis, c.p.p.

La questione, in verità, era già stata oggetto di un risalente contrasto giurisprudenziale, dinanzi al quale la quinta sezione penale ha avvertito la necessità di richiedere un intervento delle Sezioni Unite (con ordinanza 3 novembre 2016-28 novembre 2016, n. 50402), che risolvesse, nello specifico, il quesito attinente non solo al se la trasmissione degli atti dopo la sentenza di incompetenza per materia pronun-ciata dal Tribunale possa avvenire direttamente al giudice competente, ovvero al pubblico ministero presso quest’ultimo, ma anche a quali siano gli eventuali effetti dell’erronea trasmissione.

Ebbene, le suddette perplessità scaturiscono da una non recente sentenza della Consulta (C. cost., 11 marzo 1993, n. 76), con cui la stessa ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 23 c.p.p., nella parte in cui dispone che, quando il giudice del dibattimento dichiari con sentenza la propria incompe-tenza per materia, ordini la trasmissione degli atti al giudice competente, anziché al pubblico ministero presso quest’ultimo.

Sul punto, dunque, in giurisprudenza, un primo orientamento ha ritenuto che la trasmissione degli atti al giudice competente, anziché al pubblico ministero presso quest’ultimo, sia illegittima, ma soltan-to se si tratti di un pubblico ministero e di un giudice dell’udienza preliminare diversi da quelli che, ri-spettivamente, abbiano esercitato l’azione penale e celebrato l’udienza (Cass., sez. V, 27 febbraio 2013, n. 18710). Tesi, questa, peraltro avvalorata con quanto precisato dalla stessa Corte costituzionale (C. cost., 10 aprile 2001, n. 104), laddove ha escluso, dall’esigenza individuata nella citata sentenza n. 76 del 1993, il caso di procedimento per i delitti di cui all’art. 51 c.p.p., comma 3-bis, in cui la competenza terri-toriale infradistrettuale acquista rilievo solo nella fase del dibattimento, e non nelle fasi delle indagini e dell’udienza preliminare, ove l’ufficio titolare dell’azione penale è unico per l’intero distretto e uno solo è anche il giudice territorialmente competente a celebrare l’udienza preliminare.

Un secondo e diverso orientamento, invece, ha sostenuto che la dichiarazione di incompetenza per materia del Tribunale imponesse la regressione del procedimento con trasmissione degli atti al pubbli-co ministero, per consentire l’instaurazione ab initio del giudizio dinanzi al giudice competente, appun-to con la richiesta di rinvio a giudizio e lo svolgimento di una nuova udienza preliminare, a nulla rile-vando che tali adempimenti fossero già stati compiuti dallo stesso pubblico ministero e dallo stesso giudice “distrettuale” (Cass., sez. I, 20 settembre 2010, n. 37037), sicché era da ritenersi illegittima la di-retta trasmissione degli atti al giudice ritenuto competente (Cass., sez. IV, 15 luglio 2014, n. 47097).

Le interpellate Sezioni Unite, quindi, constatano, innanzitutto, come il caso in esame – in cui il Tri-bunale si dichiara incompetente per materia in procedimenti per reati previsti dall’art. 51, comma 3-bis, c.p.p., e la Corte di assise competente è compresa nell’ambito del medesimo distretto – non sia poi dis-simile rispetto a quello oggetto della citata sentenza della Corte costituzionale n. 104 del 2001 (relativa all’incompetenza per territorio), la quale, peraltro, indica chiaramente la portata delle precedenti sen-tenze dichiarative dell’illegittimità costituzionale degli artt. 23 e 24 c.p.p., riguardanti, nello specifico,

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Processo penale e giustizia n. 6 | 2017 1000

 

SCENARI | SEZIONI UNITE

sia le dichiarazioni di incompetenza per materia (C. cost., 11 marzo 1993, n. 76 e C. cost., 5 maggio 1993, n. 214) che quelle per territorio (C. cost., 15 marzo 1996, n. 70), dichiarate dal giudice dibattimentale per i succitati reati.

I giudici di legittimità specificano poi, nella propria pronuncia, che il diritto di difesa dell’imputato non subirebbe alcuna lesione se, nella fase delle indagini preliminari, le funzioni di pubblico ministero siano state svolte dallo stesso presso il tribunale del capoluogo del distretto nel cui ambito ha sede il giudice competente, e il giudice che ha celebrato l’udienza preliminare sia stato un magistrato del tri-bunale del capoluogo del distretto nel cui ambito ha sede il medesimo giudice competente.

Invero, l’opposto convincimento, con la regressione del procedimento dinanzi al pubblico ministero, determinerebbe, per l’imputato, la ripetizione dell’udienza preliminare ritualmente svoltasi dinanzi al giudice naturale, in ordine alle medesime imputazioni e di fronte allo stesso giudice, con un irragione-vole allungamento della durata del procedimento. Peraltro, il principio dell’irretrattabilità dell’azione penale, stabilito dall’art. 50, comma 3, c.p.p., consentirebbe, in caso di restituzione degli atti da parte del giudice dichiaratosi incompetente per materia, una richiesta di archiviazione.

Pertanto, poiché nel sottoposto caso il pubblico ministero e il giudice dell’udienza preliminare sa-rebbero stati, in caso di regressione, gli stessi che avevano già rispettivamente esercitato l’azione penale e celebrato l’udienza preliminare, la Suprema Corte ha ritenuto legittima la trasmissione degli atti diret-tamente al giudice ritenuto competente.

ORDINANZA DEL TRIBUNALE DEL RIESAME DI CONFERMA DEL SEQUESTRO PROBATORIO DI UN COMPUTER: È AMMISSIBILE IL RICORSO PER CASSAZIONE SE RISULTA LA RESTITUZIONE PREVIA ESTRAZIONE DI COPIA DEI DATI E VI SIA INTERESSE ALL’ESCLUSIVA DISPONIBILITÀ DI ESSI

(Cass., sez. un., 7 settembre 2017, n. 40963)

Con la sentenza in esame, le Sezioni Unite affermano l’ammissibilità del ricorso per cassazione pro-posto avverso l’ordinanza del tribunale del riesame di conferma del sequestro probatorio di un compu-ter o di un supporto informatico, nel caso in cui ne risulti la restituzione previa estrazione dei dati con-tenuti, purché ne sia dedotto l’interesse, concreto e attuale, all’esclusiva disponibilità dei dati stessi.

Ebbene, come ricordato dalla Suprema Corte, la questione attinente alla sussistenza di interesse al riesame di un sequestro probatorio successivamente alla restituzione della cosa sequestrata è già stata oggetto di un precedente intervento delle stesse Sezioni Unite (Cass., sez. un., 24 aprile 2008, 7 maggio 2008, n. 18253), finalizzato a risolvere il contrasto giurisprudenziale esistente sul punto.

Invero, secondo un primo orientamento, l’interesse a proporre la richiesta di riesame prescinde dall’interesse alla restituzione della cosa, in quanto l’indagato avrebbe avuto il diritto a chiedere la ri-mozione del provvedimento anche solo per evitare che l’oggetto in sequestro rientrasse nel materiale probatorio utilizzabile (Cass., sez. IV, 1° dicembre 2005, n. 6279/2006) – tesi, questa, peraltro in prece-denza avvalorata sostenendo altresì il diritto ad una verifica sulla sussistenza del fumus commissi delicti (Cass., sez. VI, 1° luglio 2003, n. 36775).

Un diverso orientamento, invece, afferma che, essendo in questo caso la richiesta di riesame finaliz-zata alla dichiarazione dell’illegittimità del provvedimento, e non anche alla restituzione dell’oggetto sequestrato, intanto già restituito per dissequestro, la stessa sarebbe inammissibile, giacché carente di un interesse concreto e diretto all’impugnazione, rappresentato dal dissequestro stesso, oramai avvenu-to (Cass, sez. II, 5 luglio 2007, n. 32881).

Del medesimo avviso sono dunque le Sezioni Unite nella citata sentenza del 2008, che, disaminando le motivazioni addotte in senso contrario – basate sulla constatazione che la restituzione della cosa, al-meno laddove rientrante nella categoria degli atti e documenti, non esaurirebbe ogni vincolo di indi-sponibilità, soprattutto in considerazione dell’estrazione di copia dell’atto –, sottolineano come proprio l’estrazione di copia non vada considerata come manifestazione della sopravvivenza del sequestro, bensì come manifestazione di un potere ulteriore rispetto al sequestro probatorio, con un’autonomia propria, sia perché non necessariamente collegato al sequestro, sia perché, seppur collegatovi, frutto comunque di un’autonoma determinazione discrezionale.

Peraltro, per avvalorare il proprio convincimento, esse evidenziano che, mentre il riesame proposto al tempo in cui il bene è sottoposto a sequestro è sorretto da un interesse immediato ed attuale (alla re-

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Processo penale e giustizia n. 6 | 2017 1001

 

SCENARI | SEZIONI UNITE

stituzione del bene), analogo interesse non sussiste in caso di riesame teso ad espungere dal patrimonio probatorio un’acquisizione documentale di cui non è neanche sicuro l’utilizzo.

Considerato poi che il conseguente giudicato nel procedimento incidentale riguarderebbe solo il vincolo imposto dal provvedimento di sequestro, e poiché anche nel caso del sequestro probatorio il giudizio di riesame è funzionale a rimuovere le misure restrittive per cui non sussistono i requisiti ri-chiesti dalla legge, la restituzione dei beni sequestrati farebbe cessare l’interesse all’impugnazione, atte-so che il provvedimento limitativo del diritto sulla cosa si sarebbe già esaurito e non vi sarebbe alcun motivo per dare avvio o coltivare, se già attivata, la procedura incidentale.

Dopo tale pronuncia, dunque, anche le sezioni semplici della Corte ribadiscono il concetto secondo il quale, dopo la restituzione della cosa sequestrata, la richiesta di riesame del sequestro, o l’eventuale ri-corso per cassazione contro la decisione del tribunale del riesame, sarebbe inammissibile per sopravve-nuta mancanza di interesse, e che non sarebbe configurabile neppure nel caso in cui l’autorità giudizia-ria disponga, all’atto della restituzione, l’estrazione di copia degli atti o documenti sequestrati, giacché tale provvedimento è comunque autonomo rispetto al decreto di sequestro (Cass., sez. VI, 24 aprile 2012, n. 29846 e Cass., sez. III, 30 maggio 2014, n. 27503).

E però, come rilevato dall’ordinanza di rimessione (20 aprile 2017, n. 21121) con cui la sesta sezione penale ha rimesso la questione oggetto della sentenza disaminata alle Sezioni Unite, un recente indiriz-zo ermeneutico si è tuttavia opposto a tale linea interpretativa, sostenendo che l’acquisizione, mediante estrazione di copia informatica o riproduzione su supporto cartaceo, dei dati contenuti in un archivio informatico visionato nel corso di una perquisizione, legittimamente eseguita ai sensi dell’art. 247 c.p.p., integri il sequestro probatorio, qualora il trattenimento della copia determini la sottrazione all’in-teressato della disponibilità esclusiva dell’informazione (Cass., sez. VI, 24 febbraio 2015, n. 24617).

Pertanto, la restituzione, previo trattenimento di copia dei dati informatici estratti e dei beni materia-li (nel caso di specie server, computer e hard disk) non determinerebbe l’estinzione del vincolo, sicché persisterebbe l’interesse a richiedere il controllo giurisdizionale sulla legittimità del sequestro al tribu-nale del riesame competente.

Tale linea giurisprudenziale, quindi, riconosce la caratteristica di oggetto del sequestro non solo al supporto contenente il dato informatico, ma proprio al dato stesso in quanto tale, considerando il fatto che la sua riproduzione crea un vero e proprio clone, identico all’originale e non distinguibile da esso, che per di più resta sotto sequestro anche se il supporto fisico di memorizzazione viene restituito, con l’inevitabile conseguenza che il titolare del dato perda la disponibilità esclusiva dell’“informazione”.

Essa, dunque, con una simile valorizzazione della peculiarità del dato informatico, amplia la defini-zione delle finalità dei mezzi d’impugnazione di cui agli artt. 324 e 325 c.p.p., introducendo, altresì, il concetto di diritto alla disponibilità esclusiva del “patrimonio informativo” da parte dell’avente diritto.

Pertanto, come rilevato dalla stessa ordinanza di rimessione, l’oggetto del contrasto tra i succitati opposti orientamenti non attiene meramente al dato informatico e alla sua peculiarità, quanto al più generale ambito del controllo espletabile da parte dei giudici dell’impugnazione, sia di merito che di legittimità, in caso di sequestro probatorio, e, nello specifico, se quest’ultimo si esaurisca nell’orizzonte circoscritto della mera reintegrazione del rapporto materiale fra il titolare e l’oggetto dell’ablazione, o se invece si proietti anche verso la tutela del rapporto di disponibilità esclusiva dell’informazione acquisi-ta sussistente in capo all’avente diritto.

E proprio la complessità della questione ha reso necessaria la richiesta di intervento delle Sezioni Unite, le quali ricostruiscono anzitutto la natura del dato informatico, facendo riferimento alla defini-zione di “sistema informatico” fornita dalla Convenzione di Budapest – ratificata dalla legge n. 48 del 2008 –, che ha descritto come tale “qualsiasi apparecchiatura o gruppo di apparecchiature interconnesse o collegate, una o più delle quali, in base ad un programma, compiono l’elaborazione automatica di da-ti”, tenendo quindi conto anche della possibile interazione di più dispositivi.

Le stesse procedono poi effettuando una distinzione tra il “contenitore” ed il “contenuto” di tale si-stema, per determinare l’oggetto di un eventuale provvedimento di sequestro, potendo questo riguar-dare sia l’intero sistema che il singolo dato, ed attese anche le incertezze normative sul punto.

Invero, come riportato dalla Suprema Corte, l’art. 491-bis c.p., nella seconda parte della sua vecchia formulazione – poi abrogata dall’art. 3, comma 1, lett. b), l. 18 marzo 2008, n. 48 –, definiva come “do-cumento informatico” qualunque “supporto informatico contenente dati o informazioni aventi efficacia probatoria o programmi specificamente destinati ad elaborarli”, facendo così sovrapporre un’entità to-talmente autonoma con il “supporto” che la contiene.

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Processo penale e giustizia n. 6 | 2017 1002

 

SCENARI | SEZIONI UNITE

L’attuale nozione di “documento informatico” è invece contenuta nell’art. 1, lett. p), d.lgs. 7 marzo 2005, n. 82, che lo qualifica come “documento elettronico che contiene la rappresentazione informatica di atti, fatti o dati giuridicamente rilevanti”, e, come precisato al riguardo dalla Corte, sebbene riferibile ai “dati, programmi ed informazioni”, risulta comunque non chiaramente definita, se non per l’ampia indicazione dell’oggetto fisico, la qual cosa lo rende però passibile di un eventuale sequestro, atteso che la sua peculiarità è data esclusivamente dalle caratteristiche fisiche e dalle modalità di conservazione e di elaborazione, senza che rilevino differenze sul contenuto – laddove rappresentativo di fatti, atti, idee e sequenze di espressioni –, e potendo lo stesso essere conservato anche altrove (ad esempio su carta).

Tanto premesso, le Sezioni Unite passano poi alla disamina delle principali disposizioni in materia (rappresentate dagli artt.: 244, comma 2; 247, comma 1-bis; 254-bis; 256, comma 1; 260, comma 2; 354, comma 2, c.p.p.), sottolineando come le stesse si riferiscano a dati, informazioni e programmi nella loro essenza fisica, senza far menzione dei contenuti, e prevedendo la possibilità di ricercarli tramite perqui-sizione del sistema informatico o telematico che potrebbe contenerli. Le suddette disposizioni fanno poi riferimento anche alla possibilità di estrazione di copie di tali dati, ma, come chiarito nella sentenza in esame, trattasi della c.d. “copia-immagine”, che riproduce il dato duplicato nelle medesime condizioni in cui si trova al momento della sua acquisizione.

E però, come rilevato sul punto dalla Corte, diverse sono le situazioni che potrebbero verificarsi quando oggetto del sequestro sono, appunto, dati e sistemi informatici, potendo lo stesso colpire tanto il singolo apparato, quanto il dato informatico in sé, o il medesimo dato considerato come “recipiente” di informazioni.

Difatti, mentre nel primo caso l’interesse ad ottenere la restituzione è da riferirsi all’intero apparato in quanto tale, nel secondo la concreta apprensione concerne il dato cristallizzato nel clone – ossia nel duplicato identico all’originale, riversato nella “copia immagine” –, sicché l’interesse alla restituzione riguarda il dato in sé e non anche il supporto che originariamente lo conteneva, per cui la mera restitu-zione del supporto stesso non può ritenersi esaustiva restituzione della cosa sequestrata. E nel terzo ca-so, infine, trattandosi di atto o documento semplicemente presentato sotto forma di documento infor-matico, non rileva il dato in sé, ma quanto in esso rappresentato, così come per i documenti cartacei.

Pertanto, i giudici di legittimità affermano che nelle prime due ipotesi possa applicarsi l’art. 258 c.p.p., che concerne esplicitamente i documenti, ma, qualora il dato informatico possa essere ricondotto alla nozione di atto o documento, debbano, diversamente, seguirsi le richiamate conclusioni della summenzionata sentenza Tchmil, prendendo tuttavia in considerazione anche l’interesse alla disponibi-lità esclusiva del “patrimonio informativo”, che non verrebbe meno con la mera restituzione fisica di quanto oggetto di sequestro. Invero, quest’ultima non può considerarsi risolutiva, atteso che la mera reintegrazione nella disponibilità della cosa non eliminerebbe il pregiudizio derivante dal mantenimen-to del vincolo sugli specifici contenuti rispetto al contenitore.

Sulla scorta, dunque, di tali considerazioni, la Corte ritiene che, in simili casi, nonostante la restitu-zione del supporto su cui è contenuto il dato, permanga un interesse all’impugnazione del provvedi-mento ablativo per la verifica della sussistenza dei presupposti applicativi, ma lo stesso deve però esse-re concreto ed attuale, specifico ed oggettivamente valutabile sulla base di elementi univocamente indi-cativi della lesione di interessi primari, conseguenti all’indisponibilità delle informazioni contenute nel documento, ritenendosi al riguardo insufficienti delle allegazioni generiche.

ISTANZA DI RESTITUZIONE NEL TERMINE AI SENSI DELL’ART. 175, COMMA 2 BIS, C.P.P. A MEZZO DEL SER-VIZIO POSTALE: LA VERIFICA DELLA TEMPESTIVITÀ DEVE FARE RIFERIMENTO ALLA DATA DI INVIO E NON DI RICEZIONE DELL’ATTO

(Cass., sez. un., 15 settembre 2017, n. 42043)

Le Sezioni Unite penali della Corte di cassazione, con tale pronuncia, hanno affermato che, ai fini della verifica della tempestività della richiesta di restituzione nel termine a norma dell’art. 175, comma 2-bis, c.p.p., il giudice, nel caso in cui la richiesta sia presentata a mezzo del servizio postale, deve fare riferimento alla data di spedizione della richiesta, che deve risultare consegnata all’ufficio postale entro il termine di trenta giorni dalla conoscenza del fatto, senza che sia necessario che si realizzi altresì la sua consegna alla cancelleria del giudice.

Sulla questione, una prima linea interpretativa ha sostenuto che il dato letterale dell’art. 175 c.p.p. –

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Processo penale e giustizia n. 6 | 2017 1003

 

SCENARI | SEZIONI UNITE

stabilendo che la domanda di restituzione nel termine per impugnare debba essere presentata, a pena di decadenza, nel termine di trenta giorni dal momento in cui l’imputato ha avuto piena ed effettiva conoscenza della sentenza – stesse ad indicare che, ai fini della verifica della tempestività della richie-sta, quest’ultima dovesse pervenire al giudice investito entro il predetto termine, e che, se spedita a mezzo del servizio postale, si dovesse considerare la data di ricezione della stessa da parte dell’ufficio (Cass., sez. I, 12 febbraio 2014, n. 6726 e Cass., sez. V, 25 luglio 2016, n. 32148).

Sulla scorta di tale considerazione si è quindi ritenuto inapplicabile, all’istituto della restituzione nel termine, la disciplina prevista per la proposizione dell’impugnazione dall’art. 583, comma 2, c.p.p., che, in caso di invio dell’atto a mezzo del servizio postale, fissa come momento di presentazione la data di spedizione della raccomandata, attesa sia la formulazione del succitato art. 175 c.p.p., che fa appunto riferimento alla presentazione dell’istanza all’ufficio giudiziario competente nel termine di trenta giorni – senza alcuna previsione alternativa o concorrente sulla facoltà di spedizione dell’atto a mezzo di rac-comandata, per quanto ciò non ne precluda il ricorso –, sia la constatazione che, quando l’ordinamento processuale ha consentito una simile forma di inoltro, vi ha apposto esplicite disposizioni normative.

Viceversa, un opposto orientamento ha sostenuto che il termine “presentazione”, di cui al suddetto art. 175 c.p.p., non giustificasse, tanto sotto il profilo logico, quanto sotto quello letterale, un’interpre-tazione che escludesse la possibilità che l’istanza di rimessione in termini per l’impugnazione possa es-sere presentata a mezzo del servizio postale, ritenendo, per di più, che i calcoli sulla tempestività fosse-ro effettuati con riferimento al momento in cui la stessa è affidata, per la spedizione, al servizio postale (Cass., sez. V, 24 marzo 2016, n. 12529).

Invero, pretendere che entro lo stesso termine di trenta giorni l’atto debba anche pervenire all’ufficio giudiziario, pur se inoltrato con raccomandata, non solo sottrarrebbe tempo necessario al recapito, ma finirebbe altresì per pregiudicare la parte, violando così il principio del giusto processo, e limitando sia le modalità che i tempi per la presentazione della relativa istanza, il che determinerebbe, a sua volta, un ulteriore ostacolo alla realizzazione, per il condannato assente e non rinunciante, del diritto alla cele-brazione di un nuovo giudizio in sua presenza.

Pertanto, le Sezioni Unite, investite della risoluzione di tale dibattito giurisprudenziale – dalle non trascurabili ricadute sia sull’esercizio della facoltà d’impugnazione che sull’effettività delle garanzie ri-conosciute dall’ordinamento in caso di processo celebrato in assenza –, hanno dapprima specificato che la questione attenesse al più ampio tema dell’applicabilità o meno dell’intera disciplina sulla proposi-zione delle impugnazioni, di cui agli artt. 582 e 583 c.p.p., all’istituto della restituzione in termini.

Le stesse hanno poi proseguito sostenendo la fondatezza della tesi maggioritaria, laddove ritiene che il termine “presentazione”, riferito ad un’istanza scritta, debba essere interpretato nel senso di “deposi-to nella cancelleria del giudice che deve decidere”, così come peraltro confermato anche dal dato lette-rale dei summenzionati artt. 582 e 583 c.p.p., che riservano il termine “presentazione” al solo deposito nella cancelleria del giudice indicato.

E però, al contempo, hanno rilevato che, avendo il legislatore ampliato, per le impugnazioni, il nu-mero delle cancellerie cui l’atto deve essere “presentato”, cioè presso le quali deve essere depositato, e avendo permesso la “presentazione”, cioè il deposito, anche presso altre sedi di uffici, prevedendo che lo stesso sia “spedito” e non “presentato”, si è consentito l’invio a mezzo posta, pur non imponendolo legislativamente, ma facendolo invece rientrare nelle scelte discrezionali della parte, il che non fa rite-nere la disciplina irragionevole.

Tanto considerato, allora, la Corte ha ritenuto, nel caso specifico, condivisibile l’orientamento mino-ritario, adducendo che la natura strumentale dell’istanza di restituzione nel termine rispetto alla suc-cessiva impugnazione, qualificata dal Procuratore Generale quale “pre-condizione” dell’impugnazione stessa, giustifichi, dal punto di vista logico, l’applicazione della disciplina delle impugnazioni, peraltro non impedita da alcun divieto, espresso o tacito, del legislatore. Difatti, sostenere, diversamente, che l’invio a mezzo posta dell’istanza comporti il rischio della tardiva ricezione da parte della cancelleria del giudice significherebbe non solo ridurre il termine, ma soprattutto rendere totalmente incerta la possibilità che esso venga rispettato.

I giudici di legittimità, quindi, avvalorano infine la propria tesi affermando che, affinché i rimedi approntati dal legislatore nazionale per sopperire alle carenze strutturali del sistema – che determina-vano un difetto di garanzie per il processo in assenza dell’imputato – siano efficaci, è necessario optare per una soluzione che permetta all’interessato di usufruire per intero del breve termine previsto a pena di decadenza.

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Processo penale e giustizia n. 6 | 2017 1004

 

SCENARI | SEZIONI UNITE

SOSPENSIONE FERIALE E DEPOSITO DELLA SENTENZA PENALE: IL TAGLIO ALLE FERIE DEI MAGISTRATI NON GIUSTIFICA UNO SLITTAMENTO DEI TERMINI PER LA REDAZIONE DELLE SENTENZE

(Cass., sez. un., 18 settembre 2017, n. 42361)

In tale sentenza, le Sezioni Unite, chiamate a pronunciarsi sulla questione attinente a se i termini per la redazione della sentenza siano soggetti alla sospensione nel periodo feriale – a seguito della riduzio-ne del periodo annuale di ferie dei magistrati da 45 a 30 giorni, stabilita dal d.l. n. 132 del 2014, conv. con modif. dalla l. n. 162 del 2014 –, hanno dato responso negativo, escludendo che detta sospensione, concessa alle parti, possa riguardare anche i giudici.

In particolare, il citato decreto legge ha ridotto il periodo di ferie a questi ultimi concesso dal 1° ago-sto al 15 settembre, prima vigente, al 1° agosto fino al 31 agosto di ciascun anno.

Ebbene, la questione, in realtà, era già stata affrontata dalla Suprema Corte, la quale, con la sentenza Giacomini (Cass., sez. un., 19 giugno 1996, n. 7478) – adottata per dirimere un contrasto sorto sempre in occasione di una riduzione del periodo di ferie dei magistrati, dai 60 giorni prima concessi ai 45 che poi nel 2014 sono stati nuovamente ridotti –, aveva affermato il principio, consolidatosi nel tempo (Cass., sez. IV, 5 marzo 2015, n. 15753 e Cass., sez. V, 24 febbraio 2017, n. 18328), secondo cui la sospensione dei termini processuali nel periodo feriale dovesse essere ritenuta non operativa per il deposito della moti-vazione della sentenza, in virtù della continuità di decorrenza del termine a disposizione del giudice, con la conseguenza che, nel caso della sua scadenza durante il periodo feriale, quello per l’impugna-zione si sarebbe dovuto computare a partire dal primo giorno di ripresa del lavoro giudiziario.

Ciò nonostante, la sezione remittente, ritenendo gli effetti delle modifiche normative intervenute convergenti nel ridurre in modo sensibile ed incongruo, sia per i magistrati che per gli avvocati dello Stato e del libero foro, un diritto costituzionalmente garantito dall’art. 36 Cost., concernente il godimen-to del periodo di ferie – peraltro riconosciuto anche a livello sovranazionale dalla Carta di Nizza sui di-ritti fondamentali dell’Unione europea come diritto sociale fondamentale alle ferie annuali retribuite –, ha reputato maturate le condizioni per una revisione dell’orientamento giurisprudenziale affermatosi, per portarlo sull’opposta linea interpretativa di applicazione della sospensione dei termini, ad oggi an-cor più ridotti, anche all’adempimento della redazione e del deposito della sentenza penale. Ciò deter-minerebbe infatti la sospensione, in scadenza del periodo feriale, del termine ex art. 544 c.p.p., che si consumerebbe, diversamente, solo dopo la fine del periodo stesso, posticipando in misura corrispon-dente la decorrenza del termine per l’impugnazione (Cass., sez. IV, ord. 13 giugno 2017, dep. 14 giugno 2017, n. 29781).

È da specificare, infatti, che il discusso tema non ha ad oggetto solo l’effettività del diritto al riposo per il personale giudiziario, compromesso dall’obbligo di osservanza dei termini non sospesi, ma, so-prattutto, la connessione, dalla legge operata, tra la decorrenza del termine per l’impugnazione e la scadenza del termine fissato ex lege per il deposito della sentenza motivata, così da rendere quindi ne-cessario stabilire, ai fini dell’esercizio della facoltà di impugnare, se il periodo feriale, sospendendo ov-viamente il termine per l’impugnazione, sospenda anche quello cui è ancorata la sua decorrenza.

Le Sezioni Unite, però, con la pronuncia in esame, hanno ritenuto assenti i presupposti per abban-donare la consolidatasi impostazione, ritenendo che il subentrato intervento legislativo, pur incidendo sui temi delle ferie dei magistrati e della durata della sospensione dei termini processuali di riduzione delle ferie stesse, non riconosce espressamente la necessaria interdipendenza tecnica tra le due temati-che, né tantomeno spinge verso una diversa interpretazione della l. n. 742 del 1969, art. 1, prima parte, al fine di includere il termine per il deposito del provvedimento giudiziario tra i termini processuali soggetti a sospensione.

Peraltro, i giudici di legittimità, con l’occasione, chiariscono che la soluzione per garantire l’effet-tività del diritto alla fruibilità delle ferie non è da rinvenire nella sospensione della redazione delle sen-tenze durante il periodo feriale, ma nell’art. 16, co. 4, l. 162/2014, che impone di prevedere misure or-ganizzative con carattere di normazione secondaria.

Ad avvalorare il proprio convincimento, poi, adducono che non possa contrapporsi il diritto alle fe-rie dei magistrati con i diritti fondamentali correlati al processo penale, tra cui quello alla libertà perso-nale dell’imputato e quello alla ragionevole durata del processo, e, in conclusione, menzionano le misu-re organizzative dettate dal Consiglio superiore della magistratura per orientare i magistrati stessi nella

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Processo penale e giustizia n. 6 | 2017 1005

 

SCENARI | SEZIONI UNITE

programmazione delle ferie, così da garantire sia il godimento del riposo che, al contempo, l’attività ri-chiesta. Tra questi, in particolare: la possibilità di chiedere al dirigente di essere richiamato in servizio per gli atti urgenti; l’applicazione dei cosiddetti periodi di “distacco” e di “rientro”; il maggiore control-lo sull’approvazione delle tabelle feriali adottate dai singoli uffici giudiziari; la modifica del parametro della “diligenza”, che impone di considerare se la scadenza del termine cada nel periodo feriale.

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Processo penale e giustizia n. 6 | 2017 1006

 

SCENARI | DECISIONI IN CONTRASTO

DECISIONI IN CONTRASTO di Paola Corvi

L’ASSENZA DELL’ARRESTATO IN UDIENZA NON IMPEDISCE LA CONVALIDA DELL’ARRESTO E IL CONTE-STUALE GIUDIZIO DIRETTISSIMO

(Cass., sez. VI, 13 settembre 2017, n. 41783) La sentenza in esame evidenzia un contrasto nella giurisprudenza di legittimità in ordine al potere

del giudice del dibattimento di convalidare l’arresto e disporre contestualmente il giudizio direttissimo qualora l’arrestato, per situazioni contingenti, non sia presente in udienza.

Un primo orientamento distingue la mancata comparizione in udienza dell’arrestato dovuta a legit-timo impedimento a comparire da quella derivante dalla volontaria sottrazione dell’imputato, come nel caso di avvenuta evasione. La mancata comparizione dell’imputato, dovuta ad impedimento assoluto a partecipare all’udienza, preclude l’esercizio dell’azione penale e la conseguente costituzione del rap-porto processuale necessario anche per il giudizio di convalida: secondo questa impostazione, la corret-ta instaurazione del rapporto processuale nel rito direttissimo avviene solo con la presenza dell’impu-tato nell’udienza in cui gli viene contestata oralmente l’imputazione, e tale instaurazione del rapporto processuale costituisce l’indispensabile presupposto per la convalida della misura precautelare (Cass., sez. IV, 4 giugno 2009, n. 26450). Conseguentemente, quando il giudizio direttissimo non può essere ce-lebrato per la mancata comparizione dell’imputato, il giudice restituisce gli atti al pubblico ministero perché proceda a chiedere al g.i.p. la convalida dell’arresto. Secondo questa tesi, la disposizione di cui all’art. 391, 3 comma, c.p.p., che prevede l’impossibilità o il rifiuto a comparire dell’arrestato o del fer-mato nel giudizio di convalida dinanzi al g.i.p., non è infatti applicabile al giudizio direttissimo dinanzi al giudice del dibattimento, in quanto, nell’ipotesi di cui all’art. 449, comma 1, c.p.p., la presentazione del detenuto è requisito indefettibile per l’instaurazione del procedimento stesso (Cass., sez. IV, 28 gen-naio 2005, n. 19300).

Tale indirizzo sembra ammettere una diversa soluzione nella differente ipotesi in cui l’imputato si sot-tragga volontariamente alla conduzione in udienza innanzi al Tribunale a seguito, ad esempio, di evasio-ne, essendo questa una fattispecie ben diversa da quella del legittimo impedimento a presenziare.

Un contrapposto orientamento giurisprudenziale, cui aderisce anche la sentenza in commento, ritie-ne viceversa che l’assenza fisica dell’imputato, sia essa dovuta a legittimo impedimento (Cass., sez. V, 26 maggio 2009, n. 24612 e Cass., sez. VI, 25 gennaio 2011, n. 3410) o ad una volontaria sottrazione (Cass., sez. VI., 18 aprile 2007, n. 17193; Cass., sez. V, 10 febbraio 2006, n. 11589), non impedisca il giu-dizio di convalida e l’instaurazione del rito direttissimo. Anche in tale ipotesi sarebbe infatti applicabile l’art. 391, comma 3, c.p.p.

Non è d’ostacolo a tale conclusione l’impossibilità di procedere ad una contestazione orale dell’im-putazione: non si spiegherebbe infatti perché tale contestazione potrebbe mancare davanti al g.i.p. ed invece essere essenziale davanti al giudice del dibattimento, posto che il rapporto giudice – imputato arrestato è il medesimo, tanto davanti al g.i.p. quanto davanti al tribunale. Neppure si può ritenere sus-sistente una incompatibilità strutturale tra convalida/rito direttissimo e temporaneo impedimento del-l’imputato arrestato, poiché il giudizio direttissimo è di per sé compatibile anche con l’assenza del-l’imputato, essendo adottabile anche nei confronti di imputato in stato di libertà (Cass., sez. VI, 18 di-cembre 2014, n. 53850). Pertanto, si può procedere alla convalida della misura precautelare e al conte-stuale giudizio direttissimo in assenza dell’indagato in udienza sia in caso di legittimo impedimento che in caso di sottrazione volontaria all’udienza. Le due fattispecie, secondo la giurisprudenza in esa-me, non possono ricevere una disciplina differente, perché tale soluzione sarebbe irragionevole: poiché in caso di convalida richiesta al il g.i.p., l’arrestato viene condotto nella casa circondariale del luogo do-ve l’arresto è stato eseguito, a norma dell’art. 386, comma 4, c.p.p., mentre nell’ipotesi di convalida e contestuale giudizio direttissimo a norma dell’art. 558 c.p.p. l’arrestato viene presentato direttamente al

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Processo penale e giustizia n. 6 | 2017 1007

 

SCENARI | DECISIONI IN CONTRASTO

giudice senza transitare dalla casa circondariale (anche se il giudice non tiene udienza, essendo in que-sto caso tenuto a fissarla entro le 48 ore successive), differenziando il trattamento a seconda che l’assenza sia dovuto a legittimo impedimento o a una scelta, si finirebbe con imporre la carcerazione dell’assente per legittimo impedimento, a fronte della possibile trattazione in stato di libertà dell’evaso.

LA LIQUIDAZIONE DELLE SPESE PROCESSUALI DELLA PARTE CIVILE NON INTERVENUTA IN UDIENZA NEL GIUDIZIO DI LEGITTIMITÀ

(Cass., sez. II, 7 settembre 2017, n. 40855)

La questione relativa alla liquidazione delle spese in favore della parte civile, che non sia intervenuta all’udienza pubblica davanti alla Corte di cassazione ma si sia limitata a presentare memorie, non trova una soluzione unanime nella giurisprudenza: negli ultimi anni si sono infatti registrati, accanto a pro-nunce conformi all’orientamento prevalente alcuni arresti di tenore opposto.

Secondo l’orientamento tradizionalmente dominante, alla parte civile che, dopo aver depositato memorie, non sia intervenuta in pubblica udienza, non competono le spese processuali del grado di le-gittimità (tra le altre, Cass., sez., V, 30 gennaio 1995, n. 1693 e, più recentemente, Cass., sez. VI, 3 mag-gio 2011, n.17057; Cass., sez. I, 23 ottobre 2012, n.41287; Cass., sez. II, 6 giugno 2014, n. 38713; Cass, sez. V, 18 settembre 2015, n. 47553; Cass., sez. IV, 7 giugno 2016, n. 30557; Cass., sez. II, 25 novembre 2016, n. 52800). La tesi si fonda sull’applicabilità dell’art. 523 c.p.p. anche nel giudizio di cassazione, in forza dell’espresso richiamo dell’art. 614 c.p.p. alle norme regolanti lo svolgimento della discussione dei giu-dizi di merito di primo e secondo grado, in quanto applicabili. Secondo il disposto dell’art. 523 c.p.p. il difensore della parte civile deve formulare e illustrare oralmente le proprie conclusioni, facendo soltan-to dopo seguire alle stesse la presentazione di conclusioni scritte (Cass., sez. VI, 10 giugno 2010, n. 22209; Cass., sez. II, 6 giugno 2014, n. 38713); pertanto, qualora la parte civile non compaia all’udienza di trattazione e discussione del ricorso non avrà diritto al rimborso delle spese processuali.

La sentenza in esame si inserisce nel filone giurisprudenziale che di recente ha messo in discussione l’indirizzo prevalente (Cass., sez. V, 30 settembre 2015, n. 6052; Cass., sez. V, 22 giugno 2015, n. 36805), affermando il diritto della parte civile ad ottenere la liquidazione delle spese processuali, pur non es-sendo intervenuta nel giudizio di legittimità al momento della discussione.

Secondo l’orientamento minoritario, al caso di specie si applica l’art. 614 c.p.p. che – dopo aver fatto rinvio all’art. 523 c.p.p. nella parte in cui dispone in ordine alla direzione della discussione e non anche nella parte in cui prevede che la parte civile depositi conclusioni scritte dopo averle formulate e illustra-te oralmente – detta una disciplina speciale per il giudizio di legittimità: al secondo comma prevede che la partecipazione all’udienza delle parti per mezzo dei loro difensori sia facoltativa e non obbligatoria; al quarto comma stabilisce che il difensore della parte civile – se presente – esponga la propria tesi di-fensiva, senza peraltro richiedere il deposito delle conclusioni scritte dopo quelle orali. La mancata pre-sentazione in udienza del difensore della parte civile pertanto è contemplata dalla disciplina speciale e non può essere qualificata come revoca tacita della costituzione ai sensi dell’art. 82, comma 2, c.p.p.: per il principio di immanenza, infatti, la costituzione di parte civile viene meno solo nelle ipotesi di revoca espressa o di revoca implicita, vale a dire in caso di mancata presentazione delle conclusioni nel giudi-zio di primo grado o di promozione dell’azione davanti al giudice civile. L’assenza in udienza della parte civile non influisce neppure sulla presentazione della nota per la liquidazione delle spese proces-suali che, secondo il disposto dell’art. 153 disp. att., deve essere presentata “al più tardi con le conclu-sioni”: la locuzione adottata dal legislatore, infatti, lascia intendere che sia possibile presentarla anche prima di tale momento. Conseguentemente, considerato che l’art. 541 c.p.p. prevede, in caso di acco-glimento della domanda di restituzione o di risarcimento del danno, la condanna dell’imputato alla ri-fusione delle spese processuali in favore della parte civile, si deve ammettere la possibilità di liquidare le spese processuali alla parte civile nel giudizio di legittimità anche quando non sia intervenuta alla di-scussione in pubblica udienza. Tuttavia, come precisano i giudici di legittimità, perché la richiesta di liquidazione delle spese di parte civile sia accolta occorre che quest’ultima abbia effettivamente esplica-to, nei modi e nei limiti consentiti, un’attività diretta a contrastare l’avversa pretesa a tutela dei propri interessi di natura civile risarcitoria.

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Processo penale e giustizia n. 5 | 2015 1008

 

AVANGUARDIE IN GIURISPRUDENZA | VIOLAZIONE DEI DIRITTI DELL’EQUO PROCESSO E LA LORO APPLICABILITÀ

Processo penale e giustizia n. 6 | 2017

Avanguardie in giurisprudenza

Cutting Edge Case Law  

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Processo penale e giustizia n. 6 | 2017 1009

 

AVANGUARDIE IN GIURISPRUDENZA | IL GIUDICE DI LEGITTIMITÀ PUÒ VALUTARE GLI “ALTRI ATTI DEL PROCESSO” ...

Il giudice di legittimità può valutare gli “altri atti del processo” a contenuto probatorio

CORTE DI CASSAZIONE, SEZIONE III, SENTENZA 9 GIUGNO 2017, N. 28697 – PRES. SAVANI; REL. DI STASI

La novella dell’art. 606, comma 1 lett. e), cod. proc. pen. ad opera della L. n. 46 del 2006 consente che, per la de-duzione dei vizi della motivazione, il ricorrente faccia riferimento come termine di comparazione anche ad atti del processo a contenuto probatorio, ed introduce così un nuovo vizio definibile come “travisamento della prova”, per utilizzazione di un’informazione inesistente o per omissione della valutazione di una prova. In tal modo la Corte di cassazione ha accesso agli “altri atti del processo” purché il dato probatorio, travisato o omesso, abbia il carattere della decisività nell’ambito dell’apparato motivazionale sottoposto a critica e sia dettagliatamente indicato o allega-to al ricorso.

[Omissis]

RITENUTO IN FATTO

1. – Con sentenza del 11/04/2016, il Tribunale di Reggio Calabria dichiarava (omissis) responsabile del reato di cui agli artt. 54 e 1161 cod. nav., per aver occupato abusivamente uno spazio del demanio marittimo pari a circa 70 mq, utilizzato per l’alaggio di imbarcazioni (fatto accertato in Villa San Gio-vanni il 26.5.2010), e lo condannava alla pena di euro 500,00 di ammenda.

2. – Avverso tale sentenza ha proposto ricorso per cassazione (omissis), per il tramite del difensore di fiducia, articolando tre motivi di seguito enunciati nei limiti strettamente necessari per la motivazione, come disposto dall’art. 173 comma 1, disp. att. cod. proc. pen.

Con il primo motivo deduce violazione di legge e vizio di motivazione in relazione agli artt. 54 e 1161 cod. nav. e 157 e 158 cod. pen.

Argomenta che erroneamente il Tribunale avrebbe disatteso l’eccezione difensiva avente ad oggetto l’intervenuta prescrizione del reato contestato, in quanto dagli atti di causa e, segnatamente dal fascico-lo fotografico e dalla comunicazione prot. (omissis) a firma del Comandante CC (omissis), sarebbe emer-so che alla data del 4.8.2010 era cessata l’abusiva occupazione dell’area demaniale con conseguente ma-turazione del termine prescrizionale in data antecedente alla deliberazione della sentenza impugnata.

Con il secondo motivo deduce violazione di legge e vizio di motivazione in relazione agli artt. 54 e 1161 cod. nav. e 125 comma 3 e 546 lett. e) cod. proc. pen.

Argomenta che il Tribunale avrebbe individuato nell’imputato il responsabile dell’abusiva occupa-zione del demanio marittimo sulla base di mere supposizioni espresse dal teste escusso, come tali insuf-ficienti per fondare l’affermazione di responsabilità.

Con il terzo motivo deduce violazione di legge e vizio di motivazione in relazione all’art. 133 cod. pen, lamentando l’insufficienza della motivazione in punto di commisurazione della pena. Chiede, pertanto, l’annullamento della sentenza impugnata.

CONSIDERATO IN DIRITTO

1. – Il primo motivo di ricorso è inammissibile. Va ricordato che il reato di abusiva occupazione di spazio demaniale marittimo ha natura perma-

nente e cessa solo quando vengano meno l’uso ed il godimento illegittimi; il termine di prescrizione del reato di abusiva occupazione di spazio demaniale (artt. 54 e 1161 Cod. nav.) non decorre, pertanto, dal-la data non ufficiale dell’accertamento ma dalla data di rilascio della concessione o da quella dello

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Processo penale e giustizia n. 6 | 2017 1010

 

AVANGUARDIE IN GIURISPRUDENZA | IL GIUDICE DI LEGITTIMITÀ PUÒ VALUTARE GLI “ALTRI ATTI DEL PROCESSO” ...

sgombero, individuandosi in tale momento la cessazione dell’illegittimo uso e godimento di fatto del bene demaniale, ovvero con la sentenza penale di condanna di primo grado (Sez.3, n.16859 del 16/03/2010, Rv. 247160; Sez. 3, n. 1546 del 14/05/1998, Rv. 211198).

Il Tribunale, in linea con il suesposto principio, ha rigettato l’eccezione di prescrizione rimarcando come, trattandosi di reato permanente, non fosse intervenuto alcun atto interruttivo e che, quindi, la cessazione della permanenza doveva coincidere con la pronuncia della sentenza di condanna.

Il ricorrente censura tale decisione sotto il profilo di vizio motivazionale per travisamento della pro-va, deducendo che il Tribunale non avrebbe considerato la documentazione in atti che comprovava, in-vece, che alla data del 4.8.2010 era cessata l’abusiva occupazione dell’area demaniale.

Va osservato che la novella dell’art. 606, comma primo lett. e), cod. proc. pen. ad opera della L. n. 46 del 2006 consente che per la deduzione dei vizi della motivazione il ricorrente faccia riferimento come termine di comparazione anche ad atti del processo a contenuto probatorio, ed introduce così un nuovo vizio definibile come “travisamento della prova”, per utilizzazione di un’informazione inesistente o per omissione della valutazione di una prova, entrambe le forme accomunate dalla necessità che il dato probatorio, travisato o omesso, abbia il carattere della decisività nell’ambito dell’apparato motivaziona-le sottoposto a critica.

È necessario perché si possa fare utile applicazione della predetta disposizione che: sia specificamen-te indicato l’atto del processo dal quale risulterebbe in tesi il vizio motivazionale; sia individuato l’elemento fattuale o il dato probatorio emergente da tale atto e incompatibile con la ricostruzione pro-pria della decisione impugnata; sia fornita la prova della corrispondenza al vero di tale elemento o da-to; vengano indicate le ragioni per le quali tale dato, non tenuto presente dal giudice, risulti decisivo per la tenuta logica della motivazione già adottata, sia cioè tale da mettere in crisi, disarticolandolo, l’intero impianto argomentativo sottoposto ad esame (Sez. 6 n. 23781 del 2006 15/3/2006, Casula e 24/3/2006, Scazzanti); l’accesso agli atti del processo, in particolare, non è indiscriminato, ma veicolato dall’atto di impugnazione che deve indicare “specificamente” quali siano gli atti ritenuti rilevanti al fi-ne di consentire il controllo della motivazione del provvedimento impugnato, indicazione che potrà as-sumere le forme più diverse (integrale riproduzione nel testo del ricorso, allegazione in copia, indivi-duazione precisa della collocazione dell’atto nel fascicolo processuale di merito ecc.), ma sempre tali da non costringere la Corte di cassazione ad un lettura totale degli atti comunque esclusa dal preciso di-sposto della norma, tanto che la relativa richiesta con i motivi di ricorso deve ritenersi sanzionata dal-l’art. 581 cod. proc. pen., comma 1, lett. c), e art. 591 cod. proc. pen. (Sez.3, n.12014 del 06/02/2007, Rv. 236223, Sez.2, n. 31980, del 14/06/2006, Rv. 234929).

Nel caso di specie, il ricorrente non ha adempiuto all’onere di allegazione a suo carico, essendosi li-mitato solo ad indicare, quale atto oggetto di travisamento probatorio, la documentazione in atti, senza integrale riproduzione della stessa nel testo del ricorso o allegazione in copia o individuazione precisa della relativa collocazione nel fascicolo processuale di merito.

Ne consegue, secondo la consolidata giurisprudenza di questa Suprema Corte, l’inammissibilità del motivo proposto (Sez. 6, n. 29263 del 08/07/2010, Rv. 248192; Sez.2, n. 26725 del 01/03/2013, Rv. 256723; Sez. 3, n. 43322 del 02/07/2014, Rv. 260994; Sez. 4, n. 46979 del 10/11/2015, Rv. 265053).

2. – Il secondo motivo di ricorso non è proponibile in sede di legittimità. Il ricorrente, attraverso una formale denuncia di vizio di motivazione, richiede sostanzialmente una rivisitazione, non consentita in questa sede, delle risultanze processuali.

Nel motivo in esame, in sostanza, si espongono censure le quali si risolvono in una mera rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione impugnata, sulla base di diversi parametri di ricostruzione e valutazione dei fatti, senza individuare vizi di logicità, ricostruzione e valutazione, quindi, precluse in sede di giudizio di cassazione (cfr. Sez. 1, 16.11.2006, n. 42369, De Vita, rv. 235507; sez. 6, 3.10.2006, n. 36546, Bruzzese, rv. 235510; Sez. 3, 27.9.2006, n. 37006, Piras, rv. 235508).

3. – Il terzo motivo di ricorso è manifestamente infondato. Il Tribunale, a fronte di una contravvenzione per la cui violazione è prevista alternativamente la pe-

na dell’arresto e della ammenda, ha irrogato una pena pecuniaria prossima al massimo edittale, giusti-ficando tale decisione, con argomentazione adeguata, ritenendola equa in quanto commisurata alle modalità del fatto ed alla personalità del fatto.

Del resto, questa Corte ha affermato che, in tema di irrogazione del trattamento sanzionatorio, quan-do per la violazione ascritta all’imputato sia prevista alternativamente la pena dell’arresto e quella del-l’ammenda, il giudice non è tenuto ad esporre diffusamente le ragioni in base alle quali ha applicato la

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Processo penale e giustizia n. 6 | 2017 1011

 

AVANGUARDIE IN GIURISPRUDENZA | IL GIUDICE DI LEGITTIMITÀ PUÒ VALUTARE GLI “ALTRI ATTI DEL PROCESSO” ...

misura massima della sanzione pecuniaria, perché, avendo l’imputato beneficiato di un trattamento obiettivamente più favorevole rispetto all’altra più rigorosa indicazione della norma, è sufficiente che dalla motivazione sul punto risulti la considerazione conclusiva e determinante in base a cui è stata adottata la decisione, ben potendo esaurirsi tale motivazione nell’accenno alla equità quale criterio di sintesi adeguato e sufficiente (Sez. 3, n. 37867 del 18/06/2015, Rv. 264726).

4. – Consegue la declaratoria di inammissibilità del ricorso. 5. – Essendo il ricorso inammissibile e, a norma dell’art. 616 cod. proc. pen, non ravvisandosi assen-

za di colpa nella determinazione della causa di inammissibilità (Corte Cost. sent. n. 186 del 13.6.2000), alla condanna del ricorrente al pagamento delle spese del procedimento consegue quella al pagamento della sanzione pecuniaria nella misura, ritenuta equa, indicata in dispositivo.

[Omissis]

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Processo penale e giustizia n. 6 | 2017 1012

 

AVANGUARDIE IN GIURISPRUDENZA | IL REVIREMENT DELLA CORTE DI CASSAZIONE IN MERITO ALLA VALUTAZIONE ...

CLAUDIA CAVALIERE

Dottoressa in Giurisprudenza

Il revirement della Corte di cassazione in merito alla valutazione degli “altri atti del processo”. A proposito del novellato art. 606 c.p.p. The Court of cassation revirement about the rating of “the other process acts”. The new art. 606 c.p.p.

Con la pronuncia in commento la Corte di cassazione pare operare un’inversione di rotta rispetto ai precedenti orientamenti ritenendo che il giudice di legittimità può avere accesso agli atti del processo a contenuto probatorio purché la “prova travisata” (omessa o inesistente) sia decisiva, ai fini della valutazione del vizio di motivazione, e dettagliatamente indicata nel ricorso. In tal modo muta il potere di intervento della Corte che, così, “entra nel pro-cesso” diventando giudice del “fatto” (processuale). The Court of Cassation seems to make a revirement in comparison with the previous guidelines, saying that the court of law may have access to process evidences. The “misdirected evidence” (omitted or non-existent) must be decisive for the decision and clearly indicated. In this way, the Court’s power of intervention is changed, thus, “enters the process” becoming a judge of the (procedural) “fact”.

INTRODUZIONE ALLE MODIFICHE APPORTATE AL CODICE DI PROCEDURA PENALE DALLA LEGGE N.46 DEL 2006

La legge n. 46, entrata in vigore il 9 marzo 2006 (c.d. Legge Pecorella), dettò significative modifiche al codice di procedura penale per regolare i casi di ammissibilità del ricorso in Cassazione.

In particolare, la modifica si sostanziò nell’aggiunta di una nuova ipotesi di ammissibilità. Il riferi-mento normativo è contenuto nell’art. 606, comma 1 lett. e) c.p.p.; disposizione che, prima del 2006, li-mitava il controllo della Corte di legittimità ai casi di “mancanza o manifesta illogicità della motivazione, quando il vizio risulta dal testo del provvedimento impugnato”; ed invece, a seguito della riforma, prevede le ipotesi di “mancanza, contraddittorietà o manifesta illogicità della motivazione, quando il vizio risulta dal testo del provvedimento impugnato ovvero da altri atti del processo specificamente indicati nei motivi di gravame”.

Si tratta di un’innovazione di eminente portata in quanto ha ulteriormente definito il perimetro del vizio di motivazione specie con riferimento alla categoria concettuale della contraddittorietà. Muta, di conseguenza, anche il potere di intervento della Corte di cassazione talvolta ritenuta impegnata nel “fatto”, come conseguenza della modifica.

Su questo tema, un recente spunto di riflessione è offerto dalla stessa Corte con la sentenza della III Sezione Penale n. 28697 del 30 marzo 2017, pronuncia che si segnala anche perché affronta il dibattuto argomento della corretta individuazione del momento in cui si consuma il reato di occupazione abusiva del demanio marittimo ex art. 1161 c. nav., fattispecie che copiosa giurisprudenza iscrive nella categoria dei reati permanenti 1. L’interesse nasce, in particolare, non solo per i risvolti processuali legati a tale questione, in quanto la corretta individuazione del momento in cui si perfeziona il reato in tutti i suoi elementi porta con sé rilevanti conseguenze in materia di estinzione dello stesso, ma anche perché la

1 Cass., sez. un., 8 maggio 2002, n. 17178, in Dir. e giustizia, 2002, p. 77; Cass., sez. III, 6 novembre 2003, n. 47436, in Riv. pen., 2004, p. 1259; Cass., sez. III, 5 giugno 2007, n. 21809, in Riv. pen., 2008, 3, p. 321.

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Processo penale e giustizia n. 6 | 2017 1013

 

AVANGUARDIE IN GIURISPRUDENZA | IL REVIREMENT DELLA CORTE DI CASSAZIONE IN MERITO ALLA VALUTAZIONE ...

medesima questione di diritto riguarda altresì fattispecie di reato, diverse da quelle previste dal codice della navigazione, che rientrano nella categoria dei reati edilizi.

Il ricorso per Cassazione per “travisamento della prova” e l’esatta individuazione del momento consu-mativo del reato permanente, dunque, rappresentano i due nuclei su cui si sviluppa la nostra riflessione.

SULLE FATTISPECIE APPARTENENTI ALLA CATEGORIA DEI REATI PERMANENTI

Ancora una volta la Corte di cassazione si è pronunciata sulla natura permanente del reato di occu-pazione abusiva di spazio demaniale marittimo; in particolare la sentenza si conforma ad un preceden-te insegnamento delle Sezioni Unite 2 che, pronunciandosi sul combinato disposto degli artt. 55 e 1161 del codice della navigazione, ha definitivamente ascritto i reati in questione alla categoria dei reati permanenti sostenendo che la condotta illecita ha inizio nel momento in cui vi è la materiale “occupa-zione” del bene demaniale e permane per tutto il tempo in cui sussiste tale occupazione; solo quando il bene demaniale viene restituito alla libera disponibilità dello Stato, o quando viene emesso il relativo provvedimento autorizzativo da parte degli organi competenti o quello di sgombero, il reato cessa.

Come già anticipato, il riconoscimento del momento esatto in cui si consuma il reato produce rile-vanti conseguenza non solo in riferimento alle fattispecie disciplinate dal codice della navigazione ma anche per i reati di costruzione abusiva previsti dal testo unico dell’edilizia.

La Corte di cassazione, infatti, si è uniformata al succitato orientamento delle Sezioni Unite, anche in un’altra pronuncia 3 in relazione al reato previsto all’art. 44, lett. c) D.P.R. 6 giugno 2001 n. 380 analizza-to unitamente alla condotta penalmente rilevante di cui all’art. 181 d.lgs. 22 gennaio 2004 n. 42.

Per comprendere il parallelismo sussistente tra le diverse figure di reato richiamate si ritiene utile un breve approfondimento sulla fattispecie prevista dal testo unico in materia di costruzione abusiva.

L’art. 44, lett. c) D.P.R. 380 del 2001 sanziona, al primo comma, la violazione delle prescrizioni con-tenute nel testo unico dell’edilizia, relative ai regolamenti edilizi, degli strumenti urbanistici e del per-messo di costruire, nonché gli interventi eseguiti nelle zone sottoposte a vincolo storico, artistico, ar-cheologico, paesistico, ambientale, in variazione essenziale, in totale difformità o in assenza del per-messo di costruire. Ebbene, rispetto alla fattispecie contravvenzionale indicata nella precedente lettera b) dell’art. 44, quella della lettera c) si configura come un’autonoma figura di reato e quindi non ne co-stituisce semplice aggravante; il che comporta che si debba così escludere la possibilità di procedere al giudizio di comparazione, ai sensi dell’art. 69 c.p., con eventuali circostanze attenuanti 4. Peraltro, la norma in esame presenta un elemento ulteriore rispetto alla lettera b) 5 stabilendo specifiche condotte.

L’autonoma struttura delle due fattispecie comporta la sussistenza del concorso delle condotte indi-viduate alla lettera b) con altre violazioni sanzionate dall’art. 44, quale ad esempio, quella relativa al-l’inosservanza dell’ordine di sospensione dei lavori. Va aggiunto che, poiché il bene giuridico tutelato dall’articolo 44 lettera c) è diverso da quello relativo alle disposizioni poste a tutela dei beni culturali e del paesaggio (d.lgs. 42 del 2004) e delle aree naturali protette (l. 394 del 1991), è sempre ammissibile il concorso tra la violazione urbanistica ed i reati contemplati dalle suddette disposizioni.

A tale proposito il carattere di complementarità e autonomia delle diverse discipline, il cui fonda-mento è rinvenibile oltre che nelle diverse finalità perseguite dall’aver previsto diversi procedimenti amministrativi finalizzati al rilascio dei relativi titoli abilitativi previa effettuazione di differenti valuta-zioni, si ravvisa, anche con riferimento agli interventi edilizi eseguiti in aree protette, in ragione della previsione di tre distinti provvedimenti autorizzatori: permesso di costruire, autorizzazione paesaggi-stica e nulla osta dell’ente parco, gli ultimi due dei quali possono essere attribuiti, dalla legge regionale, anche ad un organo unico chiamato però a compiere comunque una duplice valutazione 6.

Sul rapporto tra permesso di costruire e autorizzazione a costruire fornisce utili indicazioni il com-ma quarto dell’art. 146 d.lgs. 42 del 2004 che delinea la natura giuridica dell’atto di autorizzazione, pre-cisando che essa costituisce atto autonomo e presupposto rispetto al permesso di costruire o agli altri titoli

2 Cass., sez. un., 8 maggio 2002, n. 17178, cit. 3 Cass., sez. III, 13 ottobre 2016, n. 49838. 4 Cfr. Cass., sez. III, 3 ottobre 2008, n. 37571, in CED Cass., n. 241069. 5 Così Cass., sez. III, 15 novembre 1997, n. 10392, in Cass. pen., 1999, p. 263. 6 Cfr. per tutte Cass., sez. III, 30 maggio 2003, n. 26863, in Riv. pen., 2004, p. 450.

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legittimanti l’intervento urbanistico – edilizio e che l’autorizzazione non può essere rilasciata in sanato-ria successivamente alla realizzazione, anche parziale, degli interventi fuori dai casi di cui all’articolo 167, commi 4 e 5, d.lgs. 42 del 2004 (recanti disposizioni in ordine alla richiesta di accertamento di com-patibilità paesaggistica del trasgressore all’autorità giudiziaria che esime il primo dall’obbligo di rimo-zione dell’opera abusiva previo pagamento di una sanzione pecuniaria equivalente al maggiore impor-to tra il danno arrecato e il profitto conseguito mediante la trasgressione),

In passato si è ritenuto che la natura endoprocedimentale dell’autorizzazione paesaggistica potrebbe ricavarsi, in primo luogo, dal tenore dello stesso articolo 146 d.lgs. 42 del 2004, nonché da quello dell’ar-ticolo 20 del D.P.R. 380 del 2001 e, soprattutto, dall’articolo 5, comma quarto del citato D.P.R. Si tratta, tuttavia, di un orientamento definitivamente superato dal giudice amministrativo che ha espressamente escluso la natura endoprocedimentale di detta autorizzazione; il Consiglio di Stato ha infatti chiarito 7 che «... il procedimento di rilascio del permesso di costruire ha un rapporto di autonomia e non di interdipendenza rispetto al rilascio del parere ambientale, posto che l’art. 159 del d.lgs. 22 gennaio 2004 n. 42, in via transitoria sino al 31 dicembre 2009 e, susseguentemente a tale data, in via definitiva, l’art. 146 del medesimo d.lgs., egual-mente dispongono nel senso che “l’autorizzazione paesaggistica costituisce atto autonomo e presupposto rispetto al permesso di costruire o agli altri titoli legittimanti ‘‘intervento urbanistico edilizio” e che “i lavori non possono essere iniziati in difetto di essa”. Da ciò pertanto discende che l’autorizzazione paesaggistica non può essere intesa quale mero presupposto di legittimità del titolo legittimante l’edificazione, connotandosi piuttosto per una sua au-tonomia strutturale e funzionale rispetto al permesso di costruire; e che il rapporto tra autorizzazione paesaggisti-ca e titolo edilizio si sostanzia pertanto in un rapporto di presupposizione necessitato e strumentale tra valutazio-ni paesistiche ed urbanistiche, nel senso che questi due apprezzamenti si esprimono entrambi sullo stesso oggetto, ma con diversi e separati procedimenti, l’uno nei termini della compatibilità paesaggistica dell’intervento edilizio proposto e l’altro nei termini della sua conformità urbanistico-edilizia».

LA CORRETTA INDIVIDUAZIONE DEL MOMENTO CONSUMATIVO DEL REATO PERMANENTE

L’introduzione è utile a presentare i fatti da cui origina la sentenza della Corte di cassazione in esa-me. Si tratta, infatti, di un ricorso proposto avverso la sentenza con la quale l’imputato era stato ritenu-to responsabile del reato di cui agli artt. 54 e 1161 c. nav.

Ebbene, con il primo motivo, il ricorrente ha lamentato l’omessa constatazione dell’intervenuta pre-scrizione dei fatti oggetto di imputazione.

La Corte, tuttavia, ha ritenuto inammissibile il ricorso in quanto: «il reato di abusiva occupazione di spa-zio demaniale marittimo ha natura permanente e cessa solo quando vengano meno l’uso ed il godimento illegitti-mi; il termine di prescrizione del reato di abusiva occupazione di spazio demaniale (artt. 54 e 1161 Cod. nav.) non decorre, pertanto, dalla data dell’accertamento ma dalla data di rilascio della concessione o da quella dello sgombe-ro, individuandosi in tale momento la cessazione dell’illegittimo uso e godimento di fatto del bene demaniale, ov-vero con la sentenza penale di condanna di primo grado»; pertanto solo un atto interruttivo dell’abusiva oc-cupazione, volontario o imposto ex auctoritate, determina la definitiva consumazione del reato. Ne deri-va che solo da questo momento è possibile individuare il dies a quo da cui calcolare il decorso dei termi-ni per dichiarare l’intervenuta prescrizione.

Si tratta di indagare, dunque, circa il tempo del reato 8, inteso non come istante, che è il momento in cui si verifica la condotta sussumibile in una fattispecie incriminatrice, bensì come durata della presenza del-la condotta penalmente rilevante.

Ebbene, poiché in questo senso il tempo è un elemento del reato occorre, quindi, far riferimento alla norma penale che, accanto alle diverse connotazioni 9 che può assumere uno stesso fatto storico, si oc-cupa di definire anche il significato di tempo del reato che qui interessa. La norma, infatti, interviene a

7 Cfr. sul punto, ad es., C. St., sez. IV, 27 novembre 2010, n. 8260, in Foro amm., 2010, 11, p. 2340; C. St., sez. IV, 21 agosto 2013, n. 4234, in Foro amm., 2013, 2046.

8 D. Falcinelli, Il tempo del reato, il reato nel tempo. La scrittura normativa delle coordinate cronologiche criminali, Torino, Giappi-chelli, p. 45 ss.

9 Sul tema della teoria generale del reato, tradizionalmente denominato “forme di manifestazione del reato”, si veda F. Man-tovani, Diritto penale, Padova, Cedam, 2015, p. 394 ss. Si veda anche L. Risicato, Combinazione e interferenza di forme di manifesta-zione del reato. Contributo ad una teoria delle clausole generali di incriminazione suppletiva, Milano, Giuffrè, 2001.

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delimitare non solo la durata in astratto di un determinato fatto tipizzato 10, ma anche la sua durata in concreto che dovrà essere parametrata sull’effettiva manifestazione cronologica del reato. Per questo motivo opera la distinzione tra le ipotesi di reato tentato, consumato e permanente.

Il riferimento va all’art. 158 c.p., rubricato, per l’appunto, decorrenza del termine di prescrizione. Lo scopo della norma è quello di delimitare la durata della pretesa punitiva nei confronti di un determina-to fatto illecito; proprio in ragione di tale finalità la norma in questione non può che reggersi sul-l’irrinunciabile presupposto dell’avvenuto esaurimento (recte dell’avvenuta consumazione) del reato stesso.

In quest’ottica, dovendo considerare che il reato permanente si sostanzia in un’unica condotta posta in essere volontariamente e scientemente dall’agente al fine di mantenere in vita una situazione anti-giuridica nei confronti del medesimo oggetto materiale, l’art. 158 c.p. specifica che il termine della pre-scrizione in questo caso decorre dal giorno in cui è cessata la permanenza. La durata della condotta rappresenta, quindi, la durata della permanenza e solo la sua cessazione ne determina la fine degli ef-fetti.

Alla luce di quanto esposto la sentenza in esame assume rilievo in quanto è volta a confermare la na-tura permanente del reato di occupazione abusiva di spazio demaniale marittimo, proprio al fine della corretta applicazione della disciplina prevista all’art. 158 c.p.

Ed in proposito la Corte si inserisce, così, nel solco tracciato da un precedente insegnamento delle Sezioni Unite 11 che si sono pronunciate sulla natura della fattispecie prevista all’art. 1161 del codice del-la navigazione affermando che «l’occupazione di un bene demaniale costituisce un reato permanente, dal mo-mento che la condotta illecita si compie con il fatto della presa di possesso del bene e si protrae per tutto il tempo in cui questa persiste».

Vi è di più, nella medesima sentenza, le Sezioni Unite hanno innanzitutto constatato l’esistenza di un contrasto giurisprudenziale in merito al momento di cessazione della permanenza del reato previsto dall’art. 55 del codice della navigazione in relazione all’art. 1161 c. nav.; in particolare hanno dato atto dell’esistenza di due filoni interpretativi, dichiarando di aderire al primo di essi secondo cui la cessazione della permanenza del reato coincide con la fine dell’esecuzione delle opere intraprese nelle zone del de-manio marittimo senza l’autorizzazione del capo del compartimento 12 ed àncora il suo ragionamento non solo al dato testuale della norma e all’interpretazione della volontà del legislatore che da essa si deduce ma, a ben vedere, ritiene infondata la tesi opposta in quanto quest’ultima finisce per riproporre la teoria della concezione bifasica del reato permanente ormai superata in dottrina e giurisprudenza 13.

Questa concezione implica che il reato permanente si compone di due momenti: il primo di azione (che si sostanzia nella violazione dell’agente dell’obbligo di non realizzare uno stato antigiuridico), il secondo di omissione (in questa seconda fase l’agente violerebbe l’obbligo di far cessare tale stato omet-tendo di porre fine alla condotta antigiuridica).

Così come espressa, però, la teoria bifasica è suscettibile di molteplici rilievi critici. Innanzitutto è evidente che non sempre la netta scissione delle due fasi si manifesta nella realtà. Si

faccia riferimento a tal proposito ai reati omissivi, in tali ipotesi gli obblighi contenuti nelle due fasi so-no perfettamente uguali; ed è chiaro che trattandosi di “omissione”, la rimozione dello stato antigiuri-

10 Si voglia, a tal proposito, far riferimento ai casi di omicidio colposo previsti all’art. 589 c.p.; la norma punisce tali eventi sia nel caso in cui la morte della vittima sia cagionata nell’immediatezza della condotta posta in essere dall’automobilista in viola-zione delle norme del codice della strada; sia nel caso in cui l’evento dannoso (la morte) si verifichi a distanza di tempo, purché, ovviamente, sussista il nesso causale tra la condotta e il danno.

11 Cass., sez. un., 8 maggio 2002, n. 17178, cit. 12 Secondo opposto orientamento, invece, il momento di cessazione della permanenza del reato previsto all’art. 55 del codice

di navigazione va identificato nella rimozione delle opere stesse ovvero con il rilascio dell’autorizzazione. Sul punto cfr. Cass., sez. III, 10 dicembre 1997, La Rosa; Cass., Sez. III, 7 marzo 1998, Arcara, in CED Cass., n. 209915; Cass., sez. III, 26 aprile 2000, n. 7752, in CED Cass., n. 217037; Cass., sez. III, 17 febbraio 2000, Martorana; Cass., sez. III, 17 febbraio 2000, Morici e altra; Cass., sez. III, 16 febbraio 2001, Arrostuto, in CED Cass., n. 218992.

13 Le Sezioni Unite con sentenza 14 luglio 1999, n. 18, in Cass. pen., 851, hanno stabilito che il reato previsto dagli articoli 3 e 20 della legge 2 febbraio 1974, n. 64, consistente nell’esecuzione di costruzione in difformità dalle norme tecniche sull’edilizia in zone sismiche ha natura di reato permanente ma che tale permanenza termina con la cessazione dei lavori di costruzione del manufatto a qualsiasi causa dovuta. Il principio di diritto enunciato in questa sentenza, dunque, è: “il reato permanente trova ca-ratterizzazione nel tipo di condotta e nella correlazione di questa con l’offesa all’interesse protetto; cioè la durata dell’offesa è espressa da una contestuale duratura condotta colpevole dell’agente; ma sempre sulla base della precisa descrizione che di entrambe fa la norma”.

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dico può realizzarsi solo adempiendo all’obbligo primario che di fatto è stato violato non ponendo in essere l’azione da esso previsto.

Vi è di più, si rileva che le stesse Sezioni Unite dimostrano l’impossibilità di sostenere tale teoria sot-tolineando che “il ritenere incriminata anche la successiva omissione di una contro condotta, costituisca una violazione del principio di tipicità e, precisamente, del principio di tassatività, inteso come divieto di analogia”.

Pertanto, ritenendo di non poter aderire al secondo dei due orientamenti date le criticità evidenziate, bisogna ritenere che analogo ragionamento possa valere non solo per i reati previsti dal codice della navigazione ma anche per i reati edilizi 14 poiché anche in relazione a questi ultimi si verifica il protrarre di un’unica condotta nel tempo, finalizzata alla realizzazione di un unico scopo, ovvero la costruzione di un manufatto (abusivo), che si caratterizza per l’omogeneità dei comportamenti posti in essere al fine di raggiungere il suddetto risultato. Tale condotta costituisce il parametro di riferimento per l’indi-viduazione della causa estintiva essendo la durata della stessa il tempo utile per individuare la cessa-zione dei lavori e quindi il verificarsi della causa estintiva 15.

“TRAVISAMENTO DELLA PROVA” E VALUTAZIONE DI “ALTRI ATTI” PROBATORI

Ulteriore motivo del particolare interesse che suscita la sentenza in esame è rappresentato dal se-condo argomento, quello relativo alla denunzia del “vizio” di travisamento della prova, tema sul quale un po’ di storia aiuta a comprendere la posizione della Corte.

Si ricorderà che il 9 marzo 2006 è entrata in vigore la legge n. 46 (la cd. Legge Pecorella, dal nome del suo principale ispiratore) che ha, in particolare, riformulato l’art. 606 comma1 lett. e) c.p.p. che ha amplia-to il testo della norma prevedendo tra i casi di ammissibilità del ricorso in Cassazione l’impugnazione della sentenza per “mancanza, contraddittorietà o manifesta illogicità della motivazione, quando il vizio risulta dal testo del provvedimento impugnato ovvero da altri atti del processo specificamente indicati nei motivi di gravame”.

È significativa la modifica apportata laddove la nuova formula legislativa prevede che il sindacato della corte sulla motivazione non è più rigorosamente limitato alla rilevabilità del vizio dal testo della motivazio-ne potendo essere attinto da altri atti di natura probatoria, purché specificamente indicati dal ricorrente.

La riforma coinvolge, dunque, tutte le impugnazioni derivanti da una inesatta valutazione della pro-va e dovuta ad una inesatta percezione del fatto (c.d. prova travisata od omessa), laddove il vizio sia il risultato di una mancata corrispondenza tra il risultato probatorio posto a base della decisione del giu-dice e l’atto probatorio vero e proprio (vera e propria contraddittorietà processuale).

Di conseguenza, il rimedio al “travisamento della prova” è consentito proprio attingendo al vizio logico di mancanza di motivazione, la quale, a causa della omessa pronuncia su fatti e circostanze deci-sivi a seguito di specifica censura o indicazione della parte, si profila irrimediabilmente incompleta 16. Vi è travisamento della prova, quindi, quando si versa nelle ipotesi in cui sia stata omessa la valutazio-ne di una prova decisiva ai fini della pronuncia 17 ovvero ad una difformità tra i risultati derivanti dall’assunzione della prova e quelli che invece il giudice ne abbia tratto 18.

14 Del resto l’analogia tra i reati previsti dal codice della navigazione e quelli in materia edilizia è un argomento richiamato anche dalle Sezioni Unite nella sentenza succitata. Si legge, infatti: «Ma vi sono ulteriori ragioni a favore della tesi qui accolta. Non può, infatti, trascurarsi che la struttura della contravvenzione in esame è del tutto identica a quella di altri reati, per i quali è pacificamente esclusa la permanenza dopo che l’opera è stata ultimata. L’esempio tipico di reati siffatti è costituito dalla contravvenzione di costruzione in assenza di concessione edilizia, che, a detta dei sostenitori di entrambe le tesi, presenta elementi strutturali del tutto simili al reato di esecu-zione di opere nella zona di rispetto del demanio marittimo senza l’autorizzazione dell’autorità».

15 A tal proposito la Corte, nella sentenza precedentemente richiamata (Cass. Sez. III, 13 ottobre del 2016, n. 49838), ha ritenuto di conformarsi all’orientamento confermato dalle Sezioni Unite, affermando che: “Va ricordato che il reato di costruzione abusiva ha natura permanente per tutto il tempo in cui continua l’attività edilizia illecita, ed il suo momento dì cessazione va individuato o nella sospensione di lavori, sia essa volontaria o imposta ex auctoritate, o nella ultimazione dei lavori per il completamento dell’opera o, infine, nella sentenza di primo grado ove i lavori siano proseguiti dopo l’accertamento e sino alla data del giudizio … Sì tratta dì un principio affermato anche con riferi-mento al reato previsto dall’art. 181, comma 1, del d.lgs. 22 gennaio 2004 n. 42, qualora la fattispecie sia realizzata, come nella specie, attraverso una condotta che si protragga nel tempo come nel caso di realizzazione di opere edilizie in zona sottoposta a vincolo, trattandosi di reato che ha natura permanente e che si consuma con l’esaurimento totale dell’attività o con la cessazione della condotta per qualsiasi motivo».

16 Cfr. Cass., sez. VI, 22 gennaio 2014, n. 10289, in CED Cass., n. 259336. 17 Molteplici le pronunce dei giudici di legittimità in materia. Si veda Cass., sez. VII, 11 maggio 2006, n. 27518, in Riv. pen.,

2007, 5, p. 560; Cass., sez. II, 9 novembre 2006, n. 38788 in Riv. pen., 2007, 9, p. 914; Cass. sez., II, 3 ottobre 2013, n. 47035, in CED Cass., n. 257499.

18 Cfr. ex plurimis Cass., sez. III, 7 luglio 2011, n. 37756, in CED Cass., n. 251467.

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Processo penale e giustizia n. 6 | 2017 1017

 

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La modifica ha realizzato un vero e proprio mutamento delle originarie intenzioni del legislatore che nel codice del 1988 aveva disegnato in modo ben specifico il sindacato logico sul vizio di motivazione nell’intento di circoscrivere l’ambito del sindacato di legittimità entro confini rigorosi, così da preserva-re il ruolo di nomofilachia della Corte di cassazione.

Sul punto, per delineare l’effettiva portata di simile modifica si ritiene opportuna una ricostruzione delle pronunce delle Suprema Corte; con l’avvertenza che la pronuncia in esame pare costituire un “re-virement” della Corte rispetto ai precedenti orientamenti. A ciò si aggiunga che ulteriore uno spunto di novità sembra doversi ricercare nel nuovo ambito di applicazione dell’art. 129 c.p.p.

In precedenza 19, infatti, la Cassazione ha ritenuto che: «la novella dell’art. 606, comma primo lett. e), cod. proc. pen. adopera della L. n. 46 del 2006 consente che per la deduzione dei vizi della motivazione il ricorrente fac-cia riferimento come termine di comparazione anche ad atti del processo a contenuto probatorio, ed introduce così un nuovo vizio definibile come “travisamento della prova”, per utilizzazione di un’informazione inesistente o per omissione della valutazione di una prova, entrambe le forme accomunate dalla necessità che il dato probatorio, travisato o omesso, abbia il carattere della decisività nell’ambito dell’apparato motivazionale sottoposto a critica, restando estranei al sindacato della Corte di Cassazione i rilievi in merito al significato della prova ed alla sua ca-pacità dimostrativa».

Sicché, si specifica che: «a differenza del cd. travisamento del fatto, infatti, il cui esame è precluso in sede dì legittimità, esulando dai poteri della Suprema Corte quello di una rilettura degli elementi di fatto posti a fonda-mento della decisione anche laddove venga prospettata dal ricorrente una diversa e più adeguata valutazione delle risultanze processuali, il travisamento della prova che si verifica quando nella motivazione si introduca un’infor-mazione rilevante che non esiste nel processo ovvero si ometta la valutazione di una prova decisiva ai fini della pronuncia, rientra nel sindacato del giudice di legittimità».

Ora, se non manca in dottrina chi, sulla differenza tra merito e regole di ricostruzione probatoria, considera “onere” del controllo di legittimità anche la “correttezza” del ragionamento probatorio 20, ap-pare pacifico che le due categorie del “travisamento della prova” e del “travisamento del fatto” vanno distinte sulla primordiale differenza tra fatto e prova e, conseguentemente, tra errore di fatto ed errore di diritto. Il supremo giudice non può estendere la sua cognizione al “travisamento del fatto” poiché tale vizio presuppone un’errata valutazione del fatto-reato, come ricostruito attraverso le prove acquisi-te nel processo di merito, ed il giudice di legittimità non può provvedere ad una nuova elaborazione delle prove prodotte.

Per questo motivo i giudici di legittimità nella sentenza appena citata specificano che il sindacato della Corte non può estendersi fino a raggiungere una vera e propria riformulazione del giudizio com-piuto dal giudice di merito. E ciò è indiscutibile. Ed in questo consegue che essa non possa offrire una nuova valutazione dei fatti sottesi alla decisione impugnata, ma può, viceversa, constatare l’eventuale dissonanza tra gli elementi probatori e le conclusioni contenute in sentenza dovuta all’omessa valuta-zione di una prova decisiva ai fini del giudizio o all’introduzione di un’informazione inesistente.

La regola di fondo, pertanto, è rappresentata dal principio assoluto che domina il sindacato compiu-to dalla Corte di cassazione secondo cui la natura manifesta della illogicità della motivazione del prov-vedimento impugnato non può spingere la Corte a sovrapporre la propria valutazione delle risultanze processuali a quella compiuta nei precedenti gradi di merito, considerato che, in tal caso, si demande-rebbe alla cassazione il compimento di una operazione estranea al giudizio di legittimità.

Come si diceva, l’orientamento è stato confermato in una più recente sentenza 21 in cui, ritenendo in-fondate le censure che riguardavano la materiale sussistenza del reato denunziata ai sensi dell’art. 606 c. 1 lett. e) c.p.p., la Corte ha ritenuto che: ”II vizio di motivazione non può essere utilizzato per spingere l’indagine di legittimità oltre il testo del provvedimento impugnato, nemmeno quando ciò sia strumentale a una diversa ricomposizione del quadro probatorio che, secondo gli auspici della ricorrente, possa condurre il fatto fuori dalla fattispecie incriminatrice applicata». Ed a dimostrazione dell’assunto si ricorda che già in passato la corte aveva ritenuto che «L’indagine di legittimità sul discorso giustificativo della decisione ha, infatti, un oriz-

19 Cass., sez. III, 13 ottobre 2016, n. 49838, cit.

20 Per maggiore approfondimento si veda G. Riccio, Travisamento della prova e giudizio di legittimità, in Giust. pen., III, 2011, p. 513 ss. Ad analoga conclusione, sebbene diversi siano i percorsi argomentativi, giunge anche F.M. Iacoviello, Il controllo della Cassazione sulle prove: prove invalide, prove travisate, prove ignorate, in Cass. pen., 1994, p. 1243 ss.

21 Cass., sez. III, 15 febbraio 2017, n. 7166.

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zonte circoscritto, dovendo il sindacato demandato alla Corte di cassazione essere limitato – per espressa volontà del legislatore – a riscontrare l’esistenza di un logico apparato argomentativo sui vari punti della decisione impu-gnata, senza possibilità di verificare l’adeguatezza delle argomentazioni di cui il giudice di merito si è avvalso per sostanziare il suo convincimento, o la loro rispondenza alle acquisizioni processuali 22.

Sicché si reputa che «Tale indagine può avere ad oggetto direttamente la prova (e dunque rimettere in di-scussione la coerenza del fatto “narrato” dal giudice con le prove assunte ai fini della decisione) solo quando se ne denunci il travisamento, purché il vizio venga espressamente eccepito e l’atto processuale che incorpora la prova sia allegato al ricorso (o ne sia integralmente trascritto il contenuto) e possa scardinare la logica del provvedimen-to creando una insanabile frattura tra il giudizio e le sue basi fattuali.».

Pare essersi consolidato, quindi, quell’orientamento secondo cui il giudice di legittimità non può pronunciarsi sul fatto, inteso quale accadimento nella vita reale, che ha dato origine alla pronuncia di merito; anche se, a nostro avviso, quando l’oggetto del giudizio è direttamente la prova e dunque la coe-renza del fatto “narrato” dal giudice con le prove assunte ai fini della decisione, così dice la Corte, il “travisa-mento” parrebbe aprirsi al controllo del giudice di legittimità al “fatto”.

Invero, se per “fatto” si intende, non l’accadimento reale, bensì quel fatto “narrato” dal giudice con le prove assunte ai fini della decisione, a noi sembra che ci si riferisca al “fatto processuale” 23; ed è questo l’oggetto di indagine del giudice di legittimità, che, quindi non “entra” solo nel ragionamento svolto dal giudice nel provvedimento impugnato ma – più a fondo – nel processo per la verifica della corretta valutazione delle prove compiuta da quel giudice.

In sintesi la Suprema Corte non sostituisce la propria valutazione a quella compiuta dal giudice pre-cedente ma “entra nel fatto processuale”, “entra nella prova”; alla luce di quanto emerso pare, dunque, che il vizio del “travisamento della prova” spinga l’analisi fino a travalicare i limiti “tipici” del sindaca-to di legittimità.

In questo senso la sentenza in esame pare costituire un elemento di novità nella giurisprudenza del-la corte nella parte in cui essa assume che il giudice di legittimità può valutare la prova “travisata” (e soprattutto avere accesso agli atti del processo di contenuto probatorio), se specificamente indicata nel ricorso, e solo sulla base di quest’ultima, procedere al controllo della motivazione del provvedimento impugnato. Non è, dunque, l’omogeneità espositiva e la coerenza testuale della motivazione ad essere oggetto dell’analisi del giudice di legittimità ma è la “prova travisata” che diviene, così, parametro di valutazione della motivazione del giudice di merito. Nello specifico la Corte afferma che: «l’accesso agli atti del processo, in particolare, non è indiscriminato, ma veicolato dall’atto di impugnazione che deve indicare “specificamente” quali siano gli atti ritenuti rilevanti al fine di consentire il controllo della motivazione del prov-vedimento impugnato, indicazione che potrà assumere le forme più diverse (integrale riproduzione nel testo del ricorso, allegazione in copia, individuazione precisa della collocazione dell’atto nel fascicolo processuale di merito ecc.), ma sempre tali da non costringere la Corte di cassazione ad un lettura totale degli atti comunque esclusa dal preciso disposto della norma, tanto che la relativa richiesta con i motivi di ricorso deve ritenersi sanzionata dal-l’art. 581 cod. proc. pen., comma 1, lett. c), e art. 591 cod. proc. pen».

La conferma ci sembra offerta dalla stessa Corte quando si occupa di “doppia conforme”, cioè una doppia pronuncia, in primo e in secondo grado, di eguale segno, di condanna o di assoluzione.

Ebbene, a parere della Suprema Corte nelle ipotesi bisogna ritenere che «in tema di ricorso per cassa-zione, quando ci si trova dinanzi ad una ipotesi di “doppia pronuncia conforme”, in primo e in secondo grado, l’eventuale vizio di travisamento della prova può essere rilevato in sede di legittimità, ex art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e), nel solo caso in cui il giudice di appello, al fine di rispondere alle censure contenute nell’atto di impugna-zione, abbia richiamato atti a contenuto probatorio non esaminati dal primo giudice, ostandovi altrimenti il limite del devoluto, che non può essere superato ipotizzando recuperi in sede di legittimità (Sezione 2, 9 luglio 2010, Battaglia ed altri) ... Vi è una decisione che, recependo integralmente quella di primo grado, analizza in modo af-fatto illogico gli elementi di prova da cui ha desunto una ricostruzione degli addebiti che regge al vaglio di legitti-mità, anche perché, in questa sede, non è possibile una rinnovata valutazione del compendio probatorio, conver-gentemente esaminato in primo e secondo grado.» 24.

22 Cass., sez. un., 24 novembre 1999, n. 24, in Cass. pen., 2000, p. 862. 23 Sulla autonomia del “fatto processuale” rispetto al “fatto-reato” vedasi G. Riccio, Fatto e imputazione, in Quaderni di Scienze

Penalistiche, I, 2005, p. 46 ss. 24 Cass., sez. IV, 11 marzo 2013, n. 11489, in Guida dir., 24, p. 81.

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Si consideri, anche, che, ancora di recente, la Corte ha ritenuto che la possibilità di dedurre in sede di legittimità il vizio di travisamento della prova può sostanziarsi nel caso in cui il ricorrente rappresenti, con specifica deduzione, che l’argomento probatorio travisato sia stato per la prima volta introdotto come oggetto di valutazione nella motivazione del provvedimento di secondo grado. In tal caso secon-do la Corte: «non possono essere sottoposti giudizi di merito, non consentiti neppure alla luce del nuovo testo dell’art. 606 c.p.p., lett. e); la modifica normativa di cui alla legge 20 febbraio 2006 n. 46 lascia inalterata la natu-ra del controllo demandato alla Corte di cassazione, che può essere solo di legittimità e non può estendersi ad una valutazione di merito. Il nuovo vizio introdotto è quello che attiene alla motivazione, la cui mancanza, illogicità o contraddittorietà può essere desunta non solo dal testo del provvedimento impugnato, ma anche da altri atti del processo specificamente indicati; è perciò possibile ora valutare il cosiddetto travisamento della prova, che si rea-lizza allorché si introduce nella motivazione un’informazione rilevante che non esiste nel processo oppure quando si omette la valutazione di una prova decisiva ai fini della pronunzia. Attraverso l’indicazione specifica di atti contenenti la prova travisata od omessa, si consente nel giudizio di cassazione di verificare la correttezza della mo-tivazione.» 25.

Pertanto anche nei casi in cui il giudice di appello si sia uniformato alla pronuncia del giudice di primo grado, la Suprema Corte può essere chiamata a pronunciarsi sul un travisamento delle prove, o perché il secondo giudice è incorso nel medesimo errore del giudice di prime cure, o perché abbia erro-neamente valutato una prova introdotta per la prima volta nell’atto di gravame o perché il giudice di appello, al fine di rispondere alle censure contenute nell’atto di impugnazione, abbia richiamato atti a contenuto probatorio non esaminati dal primo giudice.

In tutte queste ipotesi il risultato appare il medesimo: ancora una volta il giudice di legittimità è te-nuto a controllare la coerenza del ragionamento del provvedimento impugnato sulla base delle risul-tanze istruttorie che devono essere integralmente allegate al ricorso; ancora una volta si afferma che la Corte “entra nel processo”.

Parrebbe irrazionale, del resto, limitare il controllo del giudice di legittimità unicamente alle valuta-zioni prospettate in sentenza dal giudice di merito poiché in tale modo verrebbe meno lo scopo ultimo cui tende il processo, vale a dire l’accertamento della verità. Un accertamento che sicuramente non sa-rebbe sufficientemente completo se circoscritto al solo testo della motivazione.

UN ELEMENTO DI NOVITÀ: L’INCISIVO POTERE DELLA CORTE DI CASSAZIONE IN TEMA DI “PROVE”

Possono ritenersi ormai indiscussi la natura permanente del reato di occupazione abusiva di spazio demaniale marittimo (e del reato edilizio) ed i relativi risvolti processuali legati alla corretta individua-zione del momento in cui esso si consuma; al contrario, pare ci si debba soffermare sugli orientamenti espressi dalla Corte di cassazione in merito all’esame del vizio di motivazione così come riformulato dalla legge del 2006.

La sintetica ricostruzione consente di rendere evidente la premessa, quella in cui si è affermato che il giudice di legittimità, a seguito della riformulazione dell’art. 606, comma 1, lett e), c.p.p., “entra nel fatto”.

Invero, in precedenti detti 26, la Corte, mediante il distinguo tra i due concetti “travisamento del fat-to” e “travisamento della prova”, ha ritenuto di mantenere inalterata la sua funzione di giudice di legit-timità limitando la portata del suo intervento ad una mero apprezzamento sulla corretta valutazione delle prove operata dal giudice di merito rinvenibile nel testo della sentenza.

A nostro parere l’analisi dell’atto probatorio necessario per affermare la sussistenza o meno del vizio di motivazione e la valutazione della decisività dell’atto stesso, fondamentale per l’accoglimento del ri-corso, pare, invece, avere alterato il potere di intervento del giudice di legittimità.

Non può non constatarsi, infatti, che valutare le prove impone alla Corte di andare oltre il testo della motivazione fino a giungere ad un vero e proprio “giudizio di merito”, intendendosi con tale espres-sione la decisione sul tema sostanziale del processo e non solo la quaestio facti in esso dibattuta 27.

25 Cass., sez. IV, 11 marzo 2013, n. 11489, cit. 26 Cfr. Cass. pen., sez. II, 19 ottobre 2011 n. 38536; Cass. pen., sez. I, 20 luglio 2015, n. 31406, in Dir. e giustizia, 2015; in tempi

più recenti, Cass. pen., sez. III, 15 febbraio 2017, n. 7166, cit. 27 Secondo l’impostazione adottata da parte della dottrina tra cui F. Falato, Immediata declaratoria e processo penale, Padova,

Cedam, 2010, p. 352; C. Santoriello, Il vizio di motivazione tra esame di legittimità e giudizio di fatto, Torino, Utet, 2008, p. 155 ss.

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Ad analoga conclusione si perviene facendo riferimento anche al testo dell’art. 129, comma 2, c.p.p 28 che pare precedere l’innovazione contenuta nel modificato art. 606 c.p.p. in quanto anch’esso impone alla Corte di cassazione di accedere ad “altri atti” del processo e non solo al testo della decisione impu-gnata.

In particolare, in una pronuncia già richiamata in precedenza 29, il Supremo Giudice, dopo aver indi-viduato il momento consumativo del reato in oggetto, ha ritenuto di non potersi pronunciare ex art. 129, comma 2, c.p.p. 30 “non emergendo dal testo del provvedimento impugnato” elementi che possano giustifi-carne l’applicazione e procede alla declaratoria di estinzione del reato per intervenuta prescrizione con “conseguente annullamento senza rinvio della sentenza impugnata”.

In linea di continuità con quanto affermato in questa sentenza, anche in una recente pronuncia 31 la Corte, confermando che l’applicazione dell’art. 129 c.p.p. è consentita solo mediante l’accesso al testo del provvedimento ha altresì ritenuto, che: «la valutazione afferente all’emergere, in termini di evidenza, di una delle situazioni previste dall’art 129 co 2 cod. proc. pen.» è «un apprezzamento di fatto precluso al giudice di legittimità.»

Se ne deduce che secondo l’orientamento prevalente 32, il giudice di legittimità può emanare senten-za di assoluzione ex art. 129, comma 2, c.p.p., senza rinvio al giudice di merito, solo quando l’evidenza dell’innocenza dell’imputato emerga dal testo della sentenza impugnata. Viceversa, qualora si renda necessario ai fini del giudizio l’accesso agli atti probatori, alla Corte è negato il potere di pronunciarsi ex art. 129, comma 2, c.p.p. dovendo, pertanto, rinviare il giudizio innanzi al giudice di merito.

Alla luce di quanto fin qui sostenuto, tuttavia, non si ritiene poter condividere l’ultimo assunto. La Corte di cassazione non dovrebbe limitare la propria analisi al testo della sentenza soprattutto se si tie-ne conto del testo letterale della norma e della ratio ad esso sottesa.

In primo luogo occorre rilevare che l’art. 129 c.p.p. costituisce non solo una regola di economia pro-cessuale ma anche una regola di comportamento per il giudice; invero la “immediata declaratoria” di-viene espressione del più ampio principio di presunzione di non colpevolezza che domina l’intero processo penale.

Pertanto analizzando il testo della norma, anche alla luce della ratio sopra espressa, nel prevedere che, «in ogni stato e grado del processo» «quando risulti dagli atti» che il fatto non sussiste o che l’imputato non lo ha commesso o che il fatto non costituisce reato o non è previsto dalla legge come reato, il giudi-ce pronuncia sentenza di assoluzione o di non luogo a procedere, il legislatore consente anche al Giudi-ce di cassazione di potervi dare applicazione. Peraltro, dalla lettera della norma in esame, non è possibi-le rilevare alcuna limitazione espressa alla sua operatività.

Per tali motivi non si ritiene di poter aderire a quella parte dottrina 33 secondo cui la struttura del giu-dizio dinanzi la Corte limitale attività accertative del giudice ai fini dell’applicazione della norma citata.

Al contrario pare doversi sostenere che l’esame degli atti probatori raccolti nelle fasi precedenti è possibile quando la causa di proscioglimento sia rilevabile “allo stato degli atti” e non necessiti, dun-que, di un apprezzamento nuovo delle prove ma di una mera constatazione 34 secondo il criterio dell’evidenza 35.

28 Sul punto cfr. M. Bargis, Impugnazioni, in AA.VV., Compendio di procedura penale, Padova, Cedam, 2003, p. 858; A. Galati, Le impugnazioni, in AA.VV, Diritto processuale penale, II, Milano, Giuffrè, 2004, p. 537.

29 Cass., sez. III, 13 ottobre 2016, n. 49838, cit. 30 L’art. 129, comma 2, c.p.p. dispone che: «Quando ricorre una causa di estinzione del reato ma dagli atti risulta evidente che il fatto

non sussiste o che l’imputato non lo ha commesso o che il fatto non costituisce reato o non è previsto dalla legge come reato, il giudice pro-nuncia sentenza di assoluzione o di non luogo a procedere».

31 Cass., sez. VI, 13 febbraio 2015, n. 19101. 32 Sul punto cfr. ex plurimis Cass., sez. V, 19 settembre 2012, n. 49778; Cass., sez. VI, 19 novembre 2014 n. 53581; Cass., sez. IV,

16 dicembre 2014, n. 53062; Cass., sez. II, n. 53365/2015; Cass., sez. IV, 3 febbraio 2016, n. 4460. 33 L. Scomparin, Il proscioglimento immediato nel sistema processuale penale, Torino, Giappichelli, 2008, p. 344. In tal senso, E.

Fassone, La declaratoria immediata di cause di non punibilità, Milano, 1972, Giuffrè, p. 28; G. Lozzi, Favor rei e processo penale, in Enc. dir., vol. XVII, Milano, Giuffrè, 1968, p. 39.

34 Sul criterio dell’evidenza che richiede una mera constatazione da parte del giudice e non una vera e propria valutazione cfr. Cass., sez. un., 28 maggio 2009, n. 35490, in CED Cass., n. 244274.

35 A tal proposito vale la pena richiamare il confronto tra gli art. 129 c.p.p. e l’art. 620, comma 1 lett. a) ed f), c.p.p. In tale ul-tima norma infatti, alle lettere indicate, si rinvengono le cause di non punibilità previste all’art. 129, comma 1, c.p.p. e sussiste,

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Processo penale e giustizia n. 6 | 2017 1021

 

AVANGUARDIE IN GIURISPRUDENZA | IL REVIREMENT DELLA CORTE DI CASSAZIONE IN MERITO ALLA VALUTAZIONE ...

Peraltro ritenere che la causa di non punibilità debba essere rintracciata esclusivamente nel testo del provvedimento di condanna contraddice proprio quel principio del favor, poc’anzi citato, che tutela l’imputato il quale correrebbe il rischio di subire un’ingiusta punizione qualora le “prove evidenti della sua innocenza” siano contenute in prove (decisive) non valutate dalla Corte e non rilevabili dal solo testo della sentenza.

È necessaria, dunque, una lettura della norma costituzionalmente orientata, ispirata al principio in-formatore dell’intero ordinamento processuale quale è l’art. 27 Cost. 36. Se, infatti, la presunzione di non colpevolezza è regola di giudizio rivolta primariamente al giudice di merito non si ritiene vi sia una fondata ragione per escludere la sua operatività anche nel giudizio di legittimità. Si sostiene, quindi, che la Corte di cassazione non può abbandonare il compito di verificare l’effettiva responsabilità penale dell’imputato e limitarsi alla mera constatazione di una qualsivoglia causa di estinzione del reato, pro-cedibilità dell’azione o alla sussistenza degli elementi giuridici del fatto-reato.

Se ciò vale per l’applicazione dell’art. 129 c.p.p. analogo ragionamento vale qualora ci si trovi dinan-zi al vizio di motivazione del “travisamento della prova”. A ben vedere, dunque, l’art. 129, comma 2, c.p.p. pare costituire un antecedente normativo all’art. 606, comma 1, lett. e), c.p.p.

Del resto se ai fini della valutazione del vizio di “travisamento della prova” oggetto del sindacato della Corte di legittimità può essere unicamente il ragionamento probatorio condotto dal giudice di merito essa non può limitarsi alla coerenza testuale della sentenza poiché si tratterebbe di un’analisi in-sufficiente e superficiale. Allora, la domanda è come sia possibile affermare il potere del giudice di le-gittimità di accedere agli “atti probatori” senza rischiare di mutare la natura del suo giudizio. Ebbene è il carattere di “decisività” della prova che consente di mantenere inalterato il ruolo del giudice di legit-timità il quale non opera una rivalutazione delle prove nel loro complesso per giungere ad un giudizio “nuovo” ma ha il potere di “rivisitare” 37 il percorso argomentativo del giudice di merito sulla base di quella prova, specificatamente indicata nel ricorso, che, si ripete, risulti essere decisiva ai fini del-l’accertamento della verità. Analoga conclusione pare essere stata confermata proprio dalla recente sen-tenza oggetto nel nostro esame 38.

Alla luce di quanto fin qui sostenuto si potrebbe ritenere, quindi, che l’art. 606, comma 1 lett. e), c.p.p., e ancora prima l’art. 129 c.p.p., forgiano un nuovo modello di giudizio dinanzi alla Corte di cas-sazione che si sostanzia in una cognitio factis ex actis 39 con l’inevitabile conseguenza che anche il giudice di legittimità “entra nel merito”.

inoltre, un’identità sostanziale di tutte quelle declaratorie di non punibilità in facto volte alla risoluzione del thema decidemdum allo stato degli atti.

36 G. Riccio, La regola costituzionale del giudizio, in G. Riccio, A. De Caro, S. Marotta Principi costituzionali e riforma della procedu-ra penale, Napoli, ESI, 1991, pp. 78-79. Circa la connotazione di regola di sistema del principio di “presunzione di non colpevolez-za” si veda anche G. Riccio, La procedura penale. Tra storia e politica, Napoli, Editoriale Scientifica, 2010, p. 136 ss.

37 G. Riccio, Travisamento della prova e giudizio di legittimità, in Gius. pen., 2011, III, p. 513 ss. 38 Cass., sez. III, 30 marzo 2017, n. 28697. 39 Cfr. L. Ziletti ed E. Roso, Il giudizio di Cassazione nel processo penale, Torino, 2011, p. 76 ss.

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Processo penale e giustizia n. 6 | 2017 1022

 

AVANGUARDIE IN GIURISPRUDENZA | IL DIRITTO DI PRESENTARE QUERELA NELL’INTERESSE DELLA SOCIETÀ FALLITA

Il diritto di presentare querela nell’interesse della società fallita

CORTE DI CASSAZIONE, SEZIONE V, SENTENZA 9 GIUGNO 2017, N. 28746 – PRES. NAPPI; REL. SETTEMBRE

In relazione ai beni costituenti la massa fallimentare, legittimato alla proposizione della querela non è solo il curato-re, ma anche il proprietario, che è privato, col fallimento, dell’amministrazione e disponibilità dei beni (L. Fall., art. 42), ma non della proprietà e, secondo quanto insegna la giurisprudenza civile, nemmeno del possesso, giacché la redazione dell’inventario da parte del curatore fallimentare, attraverso il quale vengono individuati, elencati, de-scritti e valutati i beni della massa, non comporta la materiale apprensione delle cose da parte del curatore, il quale ne diviene mero detentore, senza alcuna sottrazione ope legis delle stesse al fallito, non costituendo, pertanto, ta-le atto una causa interruttiva del possesso di quest’ultimo.

[Omissis]

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

1. Il Tribunale di Barcellona Pozzo di Gotto ha condannato C.T. per il reato di cui all’art. 624 bis c.p.c., per essersi impossessato, al fine di trarne profitto, di due silos in ferro, sottratti alla (OMISSIS) srl in fallimento. La Corte d’appello ha confermato il giudizio di responsabilità e, riqualificato il fatto ai sensi dell’art. 624 c.p., ha ridotto la pena irrogata all’imputato.

2. Contro la sentenza suddetta ha proposto ricorso per Cassazione il difensore dell’imputato lamen-tando la violazione dell’art. 120 c.p. e art. 336 c.p.p. Deduce che, essendo stato derubricato il reato ori-ginariamente contesto nell’ipotesi semplice di furto, la procedibilità era condizionata alla presentazione di una valida querela, mancante nella specie, perché quella agli atti è stata proposta da soggetto non le-gittimato (l’amministratore della società fallita, invece che dal curatore).

Motivi della decisione. Il ricorso è manifestamente infondato. Legittimati alla proposizione della querela sono, nel furto, sia

il curatore, sia il proprietario dei beni, sia il possessore o detentore degli stessi. Soggetto passivo del fur-to è, infatti, qualsiasi persona che si trovi in rapporto qualificato col bene, perché titolare di un diritto reale o personale di godimento e che abbia una relazione col bene, che gli consenta di trarre dal bene le utilità sue proprie. Ne sono esclusi, di conseguenza, solamente i soggetti che abbiano, con la cosa, un rapporto materiale non comprendente nessuna delle facoltà fondamentali sopra menzionate (come av-viene, per esempio, per i soggetti che detengono il bene a titolo di garanzia o di custodia). Nessun dub-bio, pertanto, che in relazione ai beni costituenti la massa fallimentare – legittimato alla proposizione della querela sia non solo il curatore, ma anche il proprietario, che è privato, col fallimento, della am-ministrazione e disponibilità dei beni (L. Fall., art. 42), ma non della proprietà e, secondo quanto inse-gna la giurisprudenza civile, nemmeno del possesso, giacché la redazione dell’inventario da parte del curatore fallimentare, attraverso il quale vengono individuati, elencati, descritti e valutati i beni della massa, non comporta la materiale apprensione delle cose da parte del curatore, il quale ne diviene mero detentore, senza alcuna sottrazione “ope legis” delle stesse al fallito, non costituendo, pertanto, tale atto una causa interruttiva del possesso di quest’ultimo (Cass. civ., n. 17605 del 4/9/2015, Rv. 636403).

Nella specie, la querela è stata presentata da M.A., amministratore della società fallita e titolare, in quanto tale, dei poteri di rappresentanza della società (circostanza nemmeno contestata dal ricorrente): vale a dire, da soggetto legittimato per legge alla manifestazione della volontà sociale.

Il ricorso è pertanto inammissibile. Consegue, ai sensi dell’art. 616 c.p.p., la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali e di una somma a favore della Cassa delle Ammende, che, tenuto conto della natura delle doglianze sollevate, si reputa equo quantificare in Euro 2.000.

[Omissis]

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Processo penale e giustizia n. 6 | 2017 1023

 

AVANGUARDIE IN GIURISPRUDENZA | IL DIRITTO DELL’AMMINISTRATORE DI UNA SOCIETÀ FALLITA DI PRESENTARE QUERELA

FEDERICO LUCARIELLO

Dottorando in Diritto e istituzioni economico-sociali – Università degli Studi di Napoli “Parthenope”

Il diritto dell’amministratore di una società fallita di presentare querela About the competence of the company’s director of a failed trading company to file a complaint

Le riflessioni muovono da una breve analisi delle principali questioni legate alla individuazione della persona offesa del delitto di furto e alla sua titolarità del diritto di querela allorquando si tratti di una società commerciale; inoltre, l’Autore analizza il problematico riconoscimento del diritto di querela dell’amministratore dopo la dichiarazione di fallimento e la nomina del curatore. The paper begins with a brief analysis of the main issues related to the identification of the aggrieved party of a theft and to his ownership to file a complaint when the aggrieved party is a trading company. Then the Author analyses the problematic recognition of the right to file a complaint on the company director of a trading company after the bankruptcy’s declaration and the insolvency administrator’s appointment.

PREMESSA

Un recentissimo intervento della Suprema Corte consente di tornare sul tema di particolare rilievo della legittimazione a proporre querela nell’ambito delle società commerciali.

Nel caso specifico, originariamente contestata l’ipotesi di furto aggravato ai sensi dell’art. 624-bis c.p., in sede di condanna la fattispecie viene derubricata nell’ipotesi semplice di cui all’art. 624 c.p. Per effetto di ciò, il condannato lamenta nel proprio ricorso la mancanza di una valida querela, in quanto quella in atti proviene dall’amministrazione della società fallita e non dal curatore fallimentare.

La Corte, nel dichiarare inammissibile per manifesta infondatezza il ricorso, trova la soluzione sul piano del diritto sostanziale. In particolare, partendo dal presupposto che nel delitto di furto la persona offesa, titolare del diritto di querela è “qualsiasi persona che si trovi in rapporto qualificato col bene, perché titolare di un diritto reale o personale di godimento e che abbia una relazione col bene, che gli consenta di trarre dal bene le utilità sue proprie”, si conclude che rispetto ai “beni costituenti la massa fallimentare legittimato alla proposizione della querela sia non solo il curatore, ma anche il proprietario” 1.

Come meglio si preciserà, se certamente la ricostruzione degli aspetti sostanziali in materia di furto appare condivisibile e in linea con la costante giurisprudenza, la Cassazione sembra però dare per scon-tato il tema più delicato sotteso al caso in esame, ossia la possibilità che dopo la dichiarazione di falli-mento l’amministratore di una società possa agire – nel caso di specie presentare querela – in nome e per conto della società fallita.

Ecco allora che la pronuncia in esame, pur concernendo la situazione del tutto peculiare che si verifi-ca allorquando l’ente societario è interessato da una procedura concorsuale, impone una riflessione di più ampio respiro in ordine alla legittimazione a proporre querela nell’ipotesi in cui la persona offesa dal reato è una persona giuridica, quale che sia la situazione giuridica della stessa.

1 Così Cass., sez. V, 4 maggio 2017, n. 28746.

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Processo penale e giustizia n. 6 | 2017 1024

 

AVANGUARDIE IN GIURISPRUDENZA | IL DIRITTO DELL’AMMINISTRATORE DI UNA SOCIETÀ FALLITA DI PRESENTARE QUERELA

INQUADRAMENTO SOSTANZIALE DELLA FATTISPECIE

Prima di entrare nel merito delle questioni di cui sopra, appare imprescindibile qualche considera-zione di carattere sostanziale.

La pronuncia della Suprema Corte in commento prende le mosse da una ipotesi di furto aggravato poi derubricato in furto semplice.

Il reato, come è noto, è tra i più diffusi 2 e consiste nella condotta di chiunque si impossessi della cosa mobile altrui, sottraendola a chi la detiene, al fine di trarne profitto.

Esula dalle finalità del presente lavoro una disamina dettagliata di tutti gli aspetti problematici cui la fattispecie in commento ha dato origine 3.

Pertanto, per quanto qui di interesse, è sufficiente in via preliminare ricordare come il reato sia pro-cedibile a querela nella ipotesi semplice, mentre diventi procedibile d’ufficio allorquando ricorra una delle ipotesi aggravate di cui agli artt. 61, n. 7) e 625 c.p.

Peraltro, è appena il caso di avvertire come il reticolo di aggravanti sia talmente ampio da ricom-prendere tutte o quasi le ipotesi che si verificano in concreto, al punto da far ritenere del tutto residuale (o quasi) la verificazione della ipotesi base e conseguentemente la procedibilità a querela 4.

In secondo luogo, appare imprescindibile qualche brevissima considerazione con specifico riferi-mento alla persona offesa e al rapporto giuridico che deve intercorrere tra la stessa e la res oggetto ma-teriale del delitto di furto.

Come ribadito in precedenza, infatti, il furto si sostanzia nella sottrazione e impossessamento della cosa mobile altrui e proprio il concetto di altruità è quello che ha creato più problemi interpretativi.

Si è discusso, in particolare, se debba considerarsi tale la cosa di proprietà di un soggetto oppure sia sufficiente che rispetto alla stessa il soggetto passivo vanti un diritto di godimento o, ancora, sia meri-tevole di tutela il possesso o la mera detenzione.

La questione è stata a lungo dibattuta, soprattutto con riferimento alla possibilità che il proprietario di un bene concesso in godimento a terzi potesse essere soggetto attivo del furto del bene medesimo.

Se, infatti, si ritiene che altrui è la cosa di proprietà di altri, deve concludersi che il proprietario non possa mai essere considerato soggetto attivo del furto di una cosa mobile propria, magari data in godi-mento a terzi. A favore di tale orientamento venivano invocati argomenti di carattere sistematico, par-tendo dall’art. 627 c.p. Questa disposizione, si sostiene, punisce in misura attenuata la sottrazione da parte del comproprietario di cose comuni e che, dunque, non sono nel contemporaneo possesso di più persone. Pertanto, laddove si debba stabilire se una cosa sia propria o altrui, si fa riferimento esclusi-vamente alla posizione del proprietario e non del possessore 5 e neppure si è mancato di sottolineare come sarebbe ingiustificato punire con una pena minore chi si impossessa di una cosa solo parzialmen-te sua, rispetto a chi si impossessa di una cosa interamente sua.

Analoghi argomenti vengono tratti dall’art. 334 c.p., che punisce in maniera meno rigorosa rispetto all’art. 624 c.p. la sottrazione di beni sottoposti a pignoramento da parte del proprietario 6.

Viceversa, altra parte della dottrina ha sostenuto che per cosa mobile altrui debba ritenersi quella legata ad un soggetto anche diverso dal proprietario, da una specifica relazione di interesse. Per tale via la norma sul furto sarebbe invocabile a tutela dei soggetti titolari di diritti rispetto agli abusi del proprietario 7.

2 In dottrina si è sottolineato come il furto sia il «delitto di tutti i giorni», (…), «tra i più diffusi, con elevati tassi di incremen-to rispetto alla criminalità globale», così F. Mantovani, Diritto Penale, Parte Speciale II, Delitti contro il patrimonio, Padova, Ce-dam, 2009, p. 65.

3 Oltre a F. Mantovani, Diritto Penale, Parte Speciale II, cit., p. 65 ss.; G. Amarelli, Furto, in S. Fiore, I reati contro il patrimonio, Torino, Utet, 2010, p. 30 ss.; F. Antolisei, Manuale di diritto penale: Parte speciale, vol. 1, in C.F. Grosso (a cura di), Milano, Giuffrè, 2016, p. 404 ss.; G. Fiandaca-E. Musco, Diritto penale, parte speciale, vol. 2 Tomo 2, I delitti contro il patrimonio, Bologna, Zanichelli, 2015, p. 45 ss.; C. Baccaredda Boy-S. Lalomia, I delitti contro il patrimonio mediante violenza, in G. Marinucci-E. Dolcini (diretto da), Trattato di diritto penale. Parte speciale, Padova, Cedam, 2010, p. 2 ss. e S. Lalomia, sub art. 624 c.p., in E. Dolcini e G.L. Della Gatta (diretto da), Codice penale commentato, II, Milano, Ipsoa, 2015, p. 729 ss.

4 Cfr. ancora F. Mantovani, Diritto Penale, Parte Speciale II, cit., p. 73, il quale precisa che «un’intricata e pletorica maglia di ag-gravanti spesso concorrenti, tutte oggettive, avvolge – (…) – il furto, sì da renderne pressoché impossibile, anche per le amplissime interpretazioni giurisprudenziali, la realizzazione nella forma semplice e da portare a massimi edittali di pena esorbitanti».

5 P. Nuvolone, Il possesso nel diritto penale, Milano, Società Editrice del Foro italiano, 1942, p. 163 per il quale ritenere che il concetto di altruità vada oltre il concetto di proprietà altrui, violerebbe il principio di non contraddizione.

6 F. Antolisei, Diritto Penale, Parte Speciale, cit., p. 404 ss., G. Lattanzi, L’altruità della cosa nel delitto di furto, in Cass. Pen., 1999, p. 2949.

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Anche in giurisprudenza entrambe le posizioni sono state autorevolmente sostenute. In diversi fran-genti si è ritenuto che il concetto di altruità andrebbe ricercato in qualsiasi relazione di interesse tra la cosa e il soggetto 8.

Altrettanto è a dirsi per l’opposta ricostruzione alla stregua della quale il concetto di altruità andava interpretato in maniera restrittiva nel senso di proprietà di altri. 9

Recentemente, però, la questione è stata compiutamente affrontata dalle Sezioni Unite penali che, sottolineando l’importanza della individuazione della vittima dell’aggressione (quella che il legislatore definisce detentore) hanno fornito della stessa una interpretazione estremamente ampia.

Secondo il Supremo organo di nomofilachia, infatti, nei delitti contro il patrimonio le categorie civi-listiche non possono essere riproposte testualmente. Per quanto qui rileva, il richiamo letterale alle ca-tegorie civilistiche dei termini “detenzione” e “possesso” determinerebbe inaccettabili vuoti di tutela, rendendo oltremodo problematica la differenziazione tra reati limitrofi, quali il furto e la appropriazio-ne indebita.

Al fine di evitare il sopraindicato inconveniente non si può prescindere da un modellamento delle suddette categorie alle esigenze dogmatiche del diritto penale.

Alla luce di ciò, valorizzando il nucleo aggressivo della fattispecie, da individuarsi nella sottrazione di un bene al detentore, l’interesse protetto deve essere individuato appunto nella relazione qualificata di fatto che il soggetto passivo intrattiene con il bene 10. Essa dunque non implica necessariamente una relazione fisica con il bene, purché sussista la possibilità di ripristinare in qualunque momento il contat-to materiale con la cosa. Secondo le Sezioni Unite, assume cioè rilievo anche la relazione possessoria non sorretta da base giuridica, clandestina o addirittura illecita 11.

In altri termini, la fattispecie protegge contestualmente sia la detenzione qualificata, sia la proprietà e le altre situazioni giuridiche nei limiti in cui si è precisato, e da ciò discende che su uno stesso bene possono insistere situazioni giuridiche soggettive e situazioni fattuali riconducibili a diverse persone.

Pertanto, se ben si intende l’insegnamento delle Sezioni Unite ribadito nella sentenza in commento, a fronte di una duplice lesione del bene giuridico, proprietario e titolare di una relazione giuridica qua-lificata col bene sono entrambi persone offese e entrambi legittimati alla proposizione della querela 12.

IL DIRITTO DI QUERELA NELLE SOCIETÀ COMMERCIALI

Le considerazioni che precedono non consentono, però, di superare il problema diverso che si verifi-ca allorquando la persona offesa dal reato sia una società 13. Una volta stabilito, cioè, chi sia la persona

7 G. Pecorella, voce Furto (furto comune), in Enc. dir., vol. XVIII, Milano, Giuffrè, 1969, p. 313. Cfr. anche A. Pagliaro, L’altruità della cosa nei delitti contro il patrimonio, in Riv. it. dir. e proc. pen., 1965, p. 693.

8 Cass., sez. VI, 7 novembre 2006, n. 23754, in CED Cass., n. 237076, ove si è riconosciuta la responsabilità per furto del pro-prietario della cosa mobile verso il creditore pignoratizio, in senso analogo.

9 Cfr. Cass., sez. V, 12 dicembre 2007, n. 46308, in CED Cass., n. 238292, che ha statuito sulla base di una interpretazione si-stematica degli artt. 624, 334 e 338 c.p.

10 Cass., sez. un., 18 luglio 2013, n. 40354, in CED Cass., n. 255975, per cui la relazione di fatto tra l’uomo ed il bene è il valore che il reato aggredisce e la legge penale sanziona.

11 Con la conseguenza che costituisce furto anche la sottrazione della refurtiva al ladro. 12 Per completezza si riporta il principio di diritto elaborato da Cass., sez. un., 18 luglio 2013, n. 40354, cit., alla stregua del

quale «Il bene giuridico protetto dal reato di furto è costituito non solo dalla proprietà e dai diritti reali e personali di godimen-to, ma anche dal possesso, inteso nella peculiare accezione propria della fattispecie, costituito da una detenzione qualificata, cioè da una autonoma relazione di fatto con la cosa, che implica il potere di utilizzarla, gestirla o disporne. Tale relazione di fatto con il bene non ne richiede necessariamente la diretta, fisica disponibilità e si può configurare anche in assenza di un titolo giuridi-co, nonché quando si costituisce in modo clandestino o illecito. Ne discende che, in caso di furto di una cosa esistente in un eser-cizio commerciale, persona offesa legittimata alla proposizione della querela è anche il responsabile dell’esercizio stesso, quan-do abbia l’autonomo potere di custodire, gestire, alienare la merce».

13 In generale sulla querela, tra i tanti: F. Caprioli, Indagini preliminari e udienza preliminare, in G. Conso, V. Grevi e M. Bargis (a cura di), Compendio di Procedura penale, Padova, Cedam, 2014, p. 538 ss.; A. Marandola, Indagini preliminari e udienza prelimina-re, in G. Spangher (a cura di), Teoria e Pratica del processo penale, Torino, Utet, 2015, p. 488 ss.; A. Santoro, voce Querela, in NN.D.I., vol. XIV, Torino, 1967, p. 64; G.P. Volpe, voce Querela, in Dig. pen., vol. X, Torino, Utet, 1995, p. 552; P. Catarinella, Brevi notazioni in tema di querela da parte di società di capitali, GM, 1997, p. 1026; A. Gaito, voce Querela, richiesta, istanza, in Enc. giur., vol.

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offesa nella ipotesi di furto e quale relazione debba intercorre ed aver appurato che si tratta di una so-cietà commerciale, occorre interrogarsi su chi sia legittimato a svolgere tale attività.

In tal caso, i profili problematici abbracciano innanzitutto la legittimazione a manifestare la volontà dell’ente di sporgere querela all’esterno e le modalità attraverso cui tale volontà si forma all’interno del-la società. In secondo luogo, risulta altresì problematica la individuazione delle formalità necessarie e sufficienti per far ritenere validamente presentata una querela nell’interesse di una società.

Peraltro, è appena il caso di ribadire come il tema rivesta oggi un’importanza cruciale dal momento che l’iniziativa economica si connota quasi prevalentemente nella forma collettiva e che anche i recenti interven-ti in materia societaria siano sempre più nel senso di rendere largamente fruibili i modelli societari 14.

Il legislatore, come è noto, pone al servizio delle iniziative economiche diversi modelli di società, le cui regole di funzionamento differiscono in maniera sostanziale. Dati i diversi criteri di funzionamento delle medesime, non esiste dunque un modo unico per la valida formazione della volontà dell’ente.

Basti pensare che solo le società di capitali – S.p.a., S.r.l., S.a.p.a – sono dotate di personalità giuridica e di un’organizzazione corporativa ben definita.

Originariamente e per lungo tempo, il punto di partenza per qualsiasi valutazione è stato cercare di stabilire la natura della querela, ossia se la stessa rientrasse tra gli atti di ordinaria o di straordinaria amministrazione per valutare se la relativa competenza spettasse al solo legale rappresentante ovvero se occorresse una delibera del consiglio di amministrazione o, addirittura, una delibera assembleare. Tutte queste teorie sono state alternativamente sostenute in giurisprudenza, in particolare nel regime antecedente alla riforma delle società di capitali del 2003.

Peraltro, l’unico riferimento normativo è contenuto nell’art. 337, comma 3, c.p.p. che, però, si limita a richiedere, in caso di persona giuridica o ente, l’indicazione specifica della fonte dei poteri di rappre-sentanza 15.

Si tratta, con tutta evidenza, di una norma che nulla aggiunge in ordine alle problematiche testé enucleate – competenza alla valida formazione della volontà societaria e legittimazione a presentare la querela – e che pertanto non ha consentito che si affermasse un indirizzo unitario.

La giurisprudenza largamente prevalente era nel senso di riconoscere nella querela un atto di straordinaria amministrazione, estraneo alla gestione commerciale. Per effetto di ciò, si assisteva neces-sariamente ad una scissione tra la formazione della volontà e la sua manifestazione all’esterno.

In ordine al primo aspetto, infatti, la competenza era riconosciuta in capo al solo consiglio di ammi-nistrazione, mentre, viceversa, al presidente del Consiglio (recte al legale rappresentante) era attribuito il solo potere di dichiarare la volontà sociale all’esterno 16.

Pertanto, alla stregua della ricostruzione che precede, la volontà di proporre querela e di designare l’organo destinato a presentarla conferendo allo stesso la rappresentanza rientrava tra le attribuzioni del consiglio di amministrazione.

Secondo un altro orientamento, pur dovendosi confermare la natura di atto di straordinaria ammini-strazione, in assenza di espliciti divieti statutari o assembleari, il diritto di querela doveva ritenersi rien-trante tra i compiti dell’amministratore delegato o del legale rappresentante, senza necessità di un ap-posito mandato.

Secondo poi un ulteriore indirizzo, la proposizione della querela sarebbe atto pertinente con la ge-stione normale d’impresa e, dunque, automaticamente rientrante negli ordinari poteri di rappresentan-za dell’amministratore. Essa, infatti, non determinerebbe alcuna modificazione della struttura dell’ente e, conseguentemente, in assenza di una clausola derogativa dello statuto rientra a pieno titolo nella sfe-ra tipica di poteri legalmente inerenti alla funzione amministrativa 17.

XXV, Roma, 1991; L. Norcio, La querela, in Studium Iuris, 2002, p. 988; P. Semeraro, Il diritto di querela, in F. Bricola-V. Zagrebelsky (diretto da), Codice penale. Giur. sist. c.p., III, Torino, Utet, 1996; C. Valentini, Azione penale e udienza preliminare, in (a cura di) A. Scalfati ed altri, Manuale di procedura penale, Torino, Giappichelli, 2015, p. 535 ss.

14 Il pensiero corre inevitabilmente all’abbassamento del capitale sociale minimo richiesto per la S.p.a. o ancora alla creazione della Società a responsabilità limitata semplificata.

15 In dottrina si veda: P. Moscarini, Dev’essere autenticata la sottoscrizione della querela proposta dal legale rappresentante d’una pubblica amministrazione, in Giur. It., 1999, p. 1925; P. Pomanti, Brevi note in tema di esercizio del diritto di querela da parte di un ente collettivo, in Cass. pen., 1995, p. 2637; F. Giunchedi, Le problematiche legate all’esercizio del diritto di querela da parte degli enti collettivi, in ND, 2000, p. 250 ss.

16 Cass., sez. V, 15 ottobre 1996, n. 4316, in Cass. pen., 1998, p. 492. 17 Cass., sez. V, 11 luglio 2005, n. 46806, in CED Cass., n. 233038, con l’ulteriore corollario che, in caso di scioglimento della

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Peraltro, in una residuale ricostruzione, si è sostenuto che la querela non sarebbe atto né di ordinaria né di straordinaria amministrazione; essa, al contrario, rappresenterebbe un atto strettamente personale dell’ente, con la conseguenza, per le società di capitali, di una previa delibera assembleare 18.

Tutte queste ricostruzioni, ad avviso di chi scrive, presentavano lo stesso limite: applicare pedisse-quamente alle società la distinzione tra atti di ordinaria e straordinaria amministrazione che, al contra-rio, ben si attaglia solo alle persone fisiche. Tale distinzione, è il caso di ribadirlo, appare foriera di equivoci e ancor più incompatibile con l’assetto del diritto societario risultante dalla riforma del 2003.

In questa prospettiva, è allora da salutare con favore quell’orientamento giurisprudenziale che ha sottolineato come il riferimento agli atti di ordinaria e straordinaria amministrazione 19 sia superato, es-sendo necessario verificare in concreto quali siano i poteri e le facoltà conferite al legale rappresentante.

In altri termini, la vera bussola è rappresentata oggi dall’oggetto sociale. È solo intorno ad esso che è possibile modellare le specifiche attribuzioni degli amministratori, a cui è attribuita la rappresentanza generale della società e che possono compiere tutti gli atti che rientrano nell’oggetto sociale, salvo le li-mitazioni che risultano dalla legge o dallo statuto 20.

Se, dunque, appare corretto il riferimento all’oggetto sociale, non può dubitarsi del fatto che la pre-sentazione di una querela a tutela dell’immagine della società costituisca atto funzionale rispetto al raggiungimento degli scopi della stessa e, come tale, pienamente rientrante nelle attribuzioni degli amministratori 21.

In questo stesso ordine di idee, da tempo la dottrina 22 più attenta ha evidenziato le peculiarità della posizione degli amministratori di società. Atteso che l’amministrazione si sostanzia nella gestione e rappresentanza di una impresa sociale, deve concludersi che il potere di amministrare è il potere di compiere tutti gli atti che rientrano nell’oggetto sociale ovvero, ancora, tutti gli atti necessari e sufficien-ti alla sua realizzazione.

Pur essendo in qualche modo riconducibile al contratto di mandato, al rapporto tra gli amministra-tori e le società amministrate non sono pedissequamente applicabili tutte le norme di quest’ultimo. I poteri e i doveri degli amministratori sono, infatti, per molti versi più ampi di quelli del mandatario 23.

D’altronde, è lo stesso legislatore a precisare in materia di società di persone come l’amministra-tore sia per legge investito del potere di compiere tutti gli atti rientranti nell’oggetto sociale, non ope-

società, il relativo potere deve considerarsi “ope legis” trasferito al liquidatore. Peraltro, nel precedente appena richiamato, op-portunamente la Suprema Corte sottolinea l’«improprietà del riferimento alla distinzione tra atti di ordinaria e straordinaria amministrazione, mutuata dalla disciplina disomogenea della capacità d’agire delle persone fisiche (artt. 320, 374 e 394 c.c.), nel-la quale l’attività d’impresa è sempre dispositiva di beni e di straordinaria amministrazione». In dottrina cfr. P. Pomanti, Brevi note, cit., p. 2637; F. Giunchedi, Le problematiche, cit., p. 250 ss., quest’ultimo anche in relazione alle S.R.L.

18 Cass., sez. V, 16 gennaio 1986, n. 3833 secondo cui «tra i poteri normalmente spettanti al legale rappresentante di un ente collettivo non è compresa la capacità di proporre querela, in quanto quest’ultima non è un atto di ordinaria amministrazione, ma un atto strettamente personale».

19 Questi ultimi, tra cui rientrerebbe anche il diritto di sporgere querela, sarebbero riservati al consiglio di amministrazione. 20 Cfr. art. 2266 c.c. per le società di persone e artt. 2384 e 2487 c.c. per le società di capitali. 21 Cass., sez. V, 11 luglio 2005, cit. Appare invece foriero di dubbi l’orientamento da ultimo perpetrato in sede di legittimità.

Ivi, in particolare, dapprima si ribadisce in maniera opportuna il riferimento necessario all’oggetto sociale quale limite all’azione amministrativa, facendovi pienamente rientrare il diritto del legale rappresentanze di sporgere querela. Di poi con una evidente quanto pericolosa imprecisione terminologia, si torna ancora una volta alla distinzione tra atti di ordinaria e straordinaria am-ministrazione, facendo rientrare in questi ultimi il diritto di sporgere querela. In questo ultimo senso Cass., sez.VI, 26 aprile 2012, n. 16150.

22 G. Rossi, Persona giuridica, proprietà e rischio di impresa, Milano, 1965, p. 115 ss.; F. Galgano, La società per azioni, in Trattato di diritto commerciale e pubblico dell’economia, vol. 7, 1988, p. 237; G.F. Campobasso, Diritto Commerciale, vol. 2, Delle società, Torino, Utet, 2015, pp. 92 ss. e 355 ss.; F. Bonelli, Gli amministratori di società per azioni, Milano, 1985, p. 60 ss.; V. Calandra Buonaura, Po-teri di gestione e poteri di rappresentanza degli amministratori, in G.E. Colombo-G.B. Portale (diretto da), Tratt. soc. per azioni, Torino, Utet, 1991, p. 107 ss.; Id., Il potere di rappresentanza degli amministratori di Società per azioni, in P. Abbadessa e G.B. Portale (diretto da), Il Nuovo diritto delle società, Liber amicorum Gian Franco Campobasso, vol. 2, Torino, Utet, 2007, p. 659 ss. ove si sottolinea come per effetto della riforma vi sia stata la «definitiva affermazione del potere di rappresentanza rispetto al potere di gestio-ne»; M. Franzoni, Gli amministratori e i sindaci, in F. Galgano (diretto da), Le società, Torino, Utet, 2002, p. 218.

Con specifico riguardo alle S.R.L. C. Caccavale, L’Amministrazione, la rappresentanza e i controlli, in AA.VV., La riforma della so-cietà a responsabilità limitata, Milano, Ipsoa, 2007, p. 329 ss.; Id., I Modelli di amministrazione delle società a responsabilità limitata, in Scritti in onore di Giancarlo Laurini (2 Voll.), Napoli, Esi, 2015, p. 197 ss.; Id., Modelli di amministrazione nella Società a Responsabilità limitata, in Riv. dir. impr., 2007, n. 1, p. 30 ss.

23 Sono ovviamente meno ampi di quelli dell’imprenditore.

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rando per lo stesso il limite dell’ordinaria amministrazione previsto per il mandatario 24. Neppure si può ritenere che operi per gli amministratori il limite della preposizione institoria, dal

momento che i primi ben possono alienare e ipotecare beni sociali. Restano esclusivamente esclusi gli atti che comportano una modificazione del contratto sociale.

Le considerazioni che precedono valgono a maggior ragione per le società di capitali in cui la rifor-ma del 2003 ha obiettivamente accentuato i profili di autonomia dell’organo amministrativo anche ri-spetto all’assemblea 25.

Sembra allora cogliere nel segno quella dottrina che sottolinea come il rapporto tra amministratori e società sia un rapporto tipico non riconducibile pienamente in alcuno degli schemi ordinari 26.

Orbene, concludendo, se dunque la linea di confine all’azione degli amministratori è data dall’oggetto sociale e dall’impossibilità di modificare l’atto costitutivo, senz’altro deve ammettersi che il diritto di que-rela rientra a pieno titolo tra le attribuzioni dell’amministratore e legale rappresentante della società.

Coerentemente con tale ricostruzione, anche in materia di società in nome collettivo si è ritenuto che la legittimazione a sporgere querela spetti a chi ha la rappresentanza legale della società che solo può compiere ogni atto che miri a salvaguardare la società 27.

Al contrario i soci, che pure subiscono le conseguenze dannose del reato di cui la società è persona of-fesa, sono meri danneggiati e dunque, eventualmente, legittimati alla sola costituzione di parte civile 28.

L’INDICAZIONE SPECIFICA DELLA FONTE DEI POTERI DI RAPPRESENTANZA

Una volta appurato che il legale rappresentante è legittimato a sporgere querela in nome e per conto dell’ente, resta ancora da comprendere quali siano gli adempimenti formali necessari per formalizzare all’esterno tale volontà.

In ordine a questo specifico profilo, l’art. 337, comma 3, c.p.p., si limita a richiedere «l’indicazione specifica della fonte dei poteri di rappresentanza».

Per quanto riguarda questo specifico aspetto, le società di persone, caratterizzate dalla presenza di soci-amministratori illimitatamente responsabili e dall’assenza di un’organizzazione corporativa non hanno mai presentato particolari problemi.

In materia di Società in accomandita semplice si è sempre ritenuta valida la presentazione della que-rela da parte del socio accomandatario, senza la necessità di indicazione di poteri di rappresentanza che gli sono conferiti ex lege 29. Analoghe considerazioni valgono per la società in nome collettivo dove l’o-nere di indicazione della fonte del potere di rappresentanza è stato ritenuto validamente assolto dal soggetto socio e amministratore della società che, in tale veste, ben può compiere qualsiasi atto che «mi-ri a salvaguardare l’integrità del patrimonio sociale o la regolarità della gestione» 30.

Qualche problema in più è sorto in relazione alle società di capitali che, come detto, si caratterizza-no, rispetto alle società di persone, per essere dotate di personalità giuridica e munite di organizzazione corporativa.

Si è in particolare discusso se il fatto che un soggetto si fosse qualificato quale legale rappresentate di un ente fosse sufficiente rispetto alla richiesta di indicazione precisa dei poteri di rappresentanza non-ché delle conseguenze dell’eventuale omessa indicazione.

Sotto il primo e preliminare profilo, solo in alcune pronunce di merito si è ritenuto che la semplice indicazione della titolarità della legale rappresentanza non fosse sufficiente per l’efficacia dell’atto, in quanto tale indicazione costituirebbe l’effetto piuttosto che la fonte della rappresentanza 31.

24 Cfr. art. 2266 c.c. 25 Organo amministrativo a cui l’art. 2384 c.c. attribuisce la rappresentanza generale della società. 26 In questo senso G. F. Campobasso, Diritto Commerciale, cit., p. 92 ss. 27 Cass., sez. II, 14 maggio 2010, n. 33471. Ancora, Cass., sez. II, 14 ottobre 2016, n. 50715, in CED Cass, n. 268911 ove in mate-

ria di società in accomandita semplice è stata ritenuta rituale la querela presentata dal socio accomandatario. 28 Cass., sez. II, 10 novembre 2009, n. 45089, in CED Cass, n. 245694. 29 Cass., sez. II, 14 ottobre 2016, cit. e Cass., sez. VI, 26 agosto 1994, n. 9297, in CED Cass, n. 199434. 30 Cass., sez. V, 21 novembre 2002, n. 42871, in CED Cass, n. 224130. 31 App. Bologna, sez. III, 11 febbraio 2004, ove si è argomentato per analogia rispetto all’illegittimità dell’operato del procura-

tore che, soltanto dichiarandosi tale, compia un atto, non ratificato, in nome e per conto d’altri.

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Al di là del fatto che ancora una volta l’assunto sembra essere il frutto di una approssimativa esten-sione delle categorie civilistiche al processo penale, la soluzione si palesa altresì incompatibile con la qualificazione dell’atto di querela come atto certamente di spettanza del legale rappresentante della so-cietà di capitali.

Sembra allora cogliere nel segno la dominante giurisprudenza di legittimità secondo cui l’onere di indicare la fonte specifica dei poteri di rappresentanza è adempiuto con la mera indicazione della quali-fica di amministratore senza che siano richieste ulteriori allegazioni. Tale indicazione, infatti, implica il riferimento all’articolo 2384 c.c. – alla cui stregua l’amministratore ha la rappresentanza generale della società – che dunque costituisce la fonte della legittimazione 32.

Se dunque appare condivisibile la soluzione offerta dalla giurisprudenza, resta ancora da chiedersi quale sia la conseguenza anche della mancata indicazione della fonte dei poteri di rappresentanza.

Dal punto di vista normativo non è contemplata alcuna conseguenza né nell’articolo 337 c.p.p., né nelle norme sulle nullità in generale e allora sembra facilmente sostenibile la conclusione che si sia di fronte a un precetto privo di sanzione.

D’altronde, ed è questo il granitico orientamento della giurisprudenza di legittimità, ritenere che la querela priva della indicazione della fonte dei poteri del legale rappresentante sia nulla, violerebbe il principio di tassatività delle nullità 33.

Piuttosto, atteso che laddove provenga da soggetto non legittimato la stessa sarebbe improcedibile, in caso di contestazione è compito del giudice procedere alla verifica della reale esistenza del potere di rappresentanza 34.

DIRITTO DI QUERELA E PROCEDURA FALLIMENTARE NELLE SOCIETÀ COMMERCIALI

Le considerazioni sin qui svolte valgono, è il caso di dirlo, per l’ipotesi in cui la società sia in bonis, ma cosa accade se un fatto di reato si verifica ai danni di una società dichiarata fallita?

La risposta più immediata e ovvia sarebbe nel senso di ritenere che legittimato alla proposizione di una querela in nome e per conto della società, sarebbe il solo curatore.

Tuttavia, al quesito così posto, la sentenza in commento dà una risposta differente ritenendo che le-gittimato a proporre la querela non sia solo il curatore fallimentare ma anche l’amministratore della so-cietà dichiarata fallita, giungendo questa conclusione ritenendo che, benché si tratti di beni della massa, anche l’amministratore – in quanto portatore di un autonomo rapporto giuridico col bene – possa adire l’autorità giudiziaria a sua tutela 35.

Rispetto a tale situazione si ritiene che nulla cambia a causa della dichiarazione di fallimento, dal

32 Cass., sez. II, 2 luglio 2013, n. 35192, in CED Cass, n. 257223, ma anche Cass., sez. V, 14 febbraio 2006, n. 19368, in CED Cass, n. 234539, e Cass., sez. V, 19 dicembre 2006, n. 4996, in CED Cass, n. 235939. «L’art. 337 cod. proc. pen., nel prevedere che la que-rela proposta nell’interesse di una persona giuridica, di un ente o di un’associazione debba contenere l’indicazione specifica del-la fonte dei poteri di rappresentanza, si riferisce all’ipotesi in cui la persona fisica agisce in nome e per conto dell’aggregato col-lettivo in forza del rapporto organico, in quanto titolare del potere di rappresentanza conferitole, dalla legge o dallo statuto, in virtù della carica ricoperta (amministratore unico, presidente del consiglio di amministrazione, consigliere delegato o altro). Al di fuori dell’ipotesi descritta – nella quale la dichiarazione si considera emessa personalmente dalla società per mezzo dell’or-gano a ciò abilitato – la querela può essere proposta da altro soggetto, in nome e per conto del querelante, solo in forza di una procura speciale che deve soddisfare tutti i requisiti prescritti dall’art. 122 cod. proc. pen. (In applicazione di tale principio, la Corte ha ritenuto irrituale la querela, presentata per conto di una s.p.a. in virtù di un potere di rappresentanza di fonte negozia-le, per la carenza, in seno alla procura, del requisito inerente alla specifica determinazione dei fatti)».

33 Cass., sez. II, 11 gennaio 2006, n. 4055, in CED Cass, n. 233343, e ancora Cass., sez. II, 20 settembre 2005, n. 37365, in Arch. n. proc. pen., 2007, 1, p. 99.

34 Su tutte Cass., sez. II, 20 febbraio 1997, n. 10201, in Cass. pen., 1998, p. 3369 e Cass., sez. V, 15 ottobre 1996, n. 4316, in Cass. pen., 1998, p. 492.

35 «Nessun dubbio, pertanto, che – in relazione ai beni costituenti la massa fallimentare – legittimato alla proposizione della querela sia non solo il curatore, ma anche il proprietario, che è privato, col fallimento, della amministrazione e disponibilità dei beni (L. fall., art. 42), ma non della proprietà e, secondo quanto insegna la giurisprudenza civile, nemmeno del possesso, giacché la redazione dell’inventario da parte del curatore fallimentare, attraverso il quale vengono individuati, elencati, descritti e valu-tati i beni della massa, non comporta la materiale apprensione delle cose da parte del curatore, il quale ne diviene mero detento-re, senza alcuna sottrazione “ope legis” delle stesse al fallito, non costituendo, pertanto, tale atto una causa interruttiva del pos-sesso di quest’ultimo (Cass. civ., n. 17605 del 4/9/2015, Rv. 636403)», Cass., sez. V, 4 maggio 2017, n. 28746.

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momento che per effetto della stessa il proprietario viene privato della amministrazione e della dispo-nibilità dei beni ma non anche della proprietà 36 neppure all’esito dell’inventario da parte del curatore 37. In ragione di tali argomenti, viene ritenuta la piena legittimazione anche dell’amministratore della so-cietà fallita

Se nessuno può dubitare della bontà degli aspetti di carattere sostanziale posti a sostegno della deci-sione che, lo si è ribadito, ricostruisce in maniera corretta gli elementi del furto, l’aspetto processuale della vicenda avrebbe meritato qualche considerazione in più rispetto alla peculiare situazione di dirit-to in cui versa la società.

Come più volte ribadito, la stessa era già stata dichiarata fallita nel momento in cui è stata presentata querela, per cui è lecito chiedersi se l’amministratore fosse effettivamente legittimato a sporgere querela in nome e vece della società fallita.

In termini generali è noto che il fallimento è una procedura giudiziaria-liquidativa per effetto della quale il patrimonio dell’imprenditore (persona fisica o giuridica che sia) viene sottratto al potere di amministrazione e disposizione dello stesso e destinato al soddisfacimento di tutti i creditori.

Con la sentenza dichiarativa di fallimento il fallito, si dice in gergo viene “spossessato”, ossia perde l’amministrazione e la disponibilità dei beni esistenti. Da questo momento in poi i predetti poteri pas-sano esclusivamente al curatore fallimentare che li conserva per tutta la durata della procedura e che esercita gli stessi al fine di destinare il patrimonio al soddisfacimento dei creditori.

Peraltro, e il punto è correttamente ribadito nella pronuncia in commento, lo spossessamento incide solo sulla legittimazione del fallito a disporre dei beni ma non anche sulla titolarità degli stessi.

Tuttavia, e questo è il vero snodo problematico, in caso di fallimento spetta esclusivamente al cura-tore l’amministrazione del patrimonio fallimentare (art. 31 l.f.). Egli compie atti negoziali per conto del-la società e soprattutto sta in giudizio per la procedura anche nei giudizi iniziati prima della dichiara-zione di fallimento 38.

A questo punto, forse, un utile elemento di riflessione potrebbe essere desunto dal problema sorto in ambito civilistico per i procedimenti promossi dal fallito dopo la dichiarazione di fallimento.

In giurisprudenza, a fronte del possibile rischio di una duplicazione di iniziative si è a più riprese ri-badito come la legittimazione processuale attiva spetti esclusivamente al curatore con conseguente per-dita della stessa da parte del fallito 39. Questa regola subisce però delle eccezioni nel caso in cui il fallito agisca a la tutela di diritti personalissimi ovvero laddove l’amministrazione fallimentare «sia rimasta inerte, manifestando indifferenza nei confronti del giudizio, situazione che non si verifica ove l’inerzia degli organi fallimentari costituisca il risultato di una ponderata valutazione negativa» 40.

La giurisprudenza di legittimità, se ben se ne intende l’insegnamento, lascia dunque aperto uno spi-raglio alla legittimazione attiva del fallito in pendenza di fallimento ma lo fa in casi limitatissimi.

La situazione è parzialmente diversa nel caso della querela; in questa evenienza, infatti, l’atto si so-stanzia in una istanza di punizione all’autorità giudiziaria per un determinato atto o fatto, ma potrebbe prestarsi a soluzioni analoghe.

Se desta, infatti, qualche perplessità l’approdo della Suprema Corte che consente al fallito di agire in costanza di procedura, prevedere che tale intervento possa esplicarsi solo a fronte dell’inerzia della cu-ratela probabilmente salvaguarderebbe le ragioni di coerenza della procedura senza determinare ecces-sivi vuoti di tutela.

La situazione è sostanzialmente la stessa, pur con i dovuti adattamenti, in caso di fallimento della società.

In tale circostanza non si verifica alcuna decadenza degli organi sociali che continuano a funzionare benché le relative competenze risultino ridimensionate in ragione dello spossessamento. In particolare, i poteri riguardanti la gestione e l’amministrazione del patrimonio passano al curatore.

36 Per la verità neppure del possesso. 37 Egli si qualifica come detentore. 38 L. Guglielmucci, Diritto Fallimentare, Torino, Giappichelli, 2012, p. 113 ss. 39 Cfr. art. 43 del r.d. 16 marzo 1942, n. 267. 40 Cfr. su tutte Cass. Civ., 25 ottobre 2013, n. 24159, in CED Cass, n. 628209. In senso parzialmente difforme, L. Guglielmucci,

Diritto Fallimentare, cit., p. 113 ss. Sempre nei termini di una legittimazione solo sussidiaria del fallito, cfr. anche Cass. Civ., 14 settembre 2016, n. 18802.

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Tuttavia, non v’è chi non veda come le stesse perplessità avanzate rispetto all’imprenditore indivi-duale fallito, valgano anche per l’amministratore di società fallita. Anzi, e forse a maggior ragione in questo caso, sarebbe auspicabile un atteggiamento più prudente della giurisprudenza che ancori il di-ritto di querela dell’ex amministratore all’inerzia del curatore o degli organi della procedura. Se, infatti, la querela per furto di beni sottratti alla massa rappresenta in senso lato un atto a tutela del patrimonio è facile dedurne la legittimazione del solo curatore.

Anche in questo caso la sentenza in commento è di differente avviso attribuendo il relativo diritto anche all’amministratore.

Non appare invece conferente al caso di specie, il fatto che astrattamente sia ammissibile una dupli-cazione di azioni per il furto, a tutela di situazioni giuridiche diverse 41.

Non può recarsi in dubbio che, portando alle estreme conseguenze il portato della Suprema Corte ci si potrebbe trovare di fronte ad una situazione paradossale, in cui vengono proposte due querele, da parte della stessa persona offesa e per il medesimo fatto, con la differenza che una è proveniente dall’amministratore e una dal curatore.

Situazione intuitivamente diversa da quella che si verifica quando un bene di proprietà di un sog-getto e concesso in godimento ad un altro venga rubato da un terzo. In questa caso, infatti, la possibile duplicazione della querela non appare irrazionale e trova la propria giustificazione nella duplicità di situazioni e di soggetti tutelati.

Peraltro, neppure deve ritenersi che il fatto che all’esito della procedura i beni invenduti o eccedenti tornino al fallito sposti di molto i termini della questione. Tale circostanza, infatti, conferma la esistenza di una relazione giuridica del fallito – o dell’amministratore di società fallita – con il bene ma, ad avviso di chi scrive, non ne legittima l’esercizio senza limiti e a prescindere dal curatore del diritto di querela.

41 Si veda supra, § 2.

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AVANGUARDIE IN GIURISPRUDENZA | IL RICORSO STRAORDINARIO PER ERRORE DI FATTO ED IL GIUDIZIO DI REVISIONE

Il ricorso straordinario per errore di fatto ed il giudizio di revisione: quali ambiti applicativi?

CORTE DI CASSAZIONE, SEZIONI UNITE, SENTENZA 17 MARZO 2017, N. 13199 – PRES. CANZIO; REL. FI-DELBO

È ammissibile la richiesta, avanzata ai sensi dell’art. 625-bis cod. proc. pen., per la correzione dell’errore di fatto contenuto nella sentenza con cui la Corte di cassazione abbia dichiarato inammissibile o rigettato il ricorso contro la decisione negativa della Corte di appello pronunciata in sede di revisione.

[Omissis]

RITENUTO IN FATTO

1. Con sentenza del 14 novembre 1996 la Corte di assise di Napoli condannava N.E., in concorso con M.S. e P.S., alla pena dell’ergastolo, con isolamento diurno, perché ritenuti responsabili del tentativo di rapina, avvenuto il (OMISSIS), per impossessarsi del carico di un autoarticolato condotto da L.D., non-ché dell’omicidio di quest’ultimo, che nel corso dell’azione delittuosa veniva raggiunto da un colpo di pistola.

La condanna veniva confermata in appello. I tre imputati ricorrevano in Cassazione che annullava con rinvio la condanna nei confronti dei

coimputati M. e P., successivamente assolti per non aver commesso il fatto, mentre respingeva il ricorso del N., rendendo definitiva la sua condanna.

Il N. proponeva una prima istanza di revisione alla Corte d’appello di Roma, dichiarata inammissi-bile de plano con ordinanza del 18 luglio 2011, ordinanza che, su ricorso del condannato, veniva annul-lata senza rinvio dalla Corte di cassazione, che disponeva la trasmissione degli atti alla Corte di appello di Perugia, individuata ai sensi dell’art. 634 c.p.p., comma 2, per il giudizio di revisione.

La Corte di appello di Perugia rigettava l’istanza di revisione. Seguiva l’impugnazione davanti alla Corte di cassazione che, con sentenza del 21 gennaio 2015, ha confermato la decisione della Corte terri-toriale, rigettando il ricorso del condannato.

2. Contro questa sentenza i difensori del N., avvocati Mercurelli e Krogh, hanno proposto due distin-ti ricorsi ai sensi dell’art. 625-bis c.p.p., deducendo una duplice serie di errori di fatto.

Il primo errore di fatto, dedotto in entrambi i ricorsi, riguarda la collocazione nel tempo della con-fessione stragiudiziale resa dal N. a A.L.: quest’ultimo avrebbe riferito che “pochi giorni dopo i fatti” – fine (OMISSIS) – N. gli aveva riferito della sua partecipazione alla rapina e all’omicidio, ma, si assume nel ricorso, i giudici di legittimità hanno collocato tale confessione, anziché nell’ottobre 1991, nel mese di gennaio 1994, cioè nel periodo di comune detenzione dei due. Errore rilevante e determinante, poi-ché nell’affrontare il tema, ritenuto centrale, della attendibilità delle dichiarazioni accusatorie dell’A., la Corte di cassazione ha posto a fondamento della sua decisione proprio la circostanza – materialmente erronea – che il N. avesse confessato il proprio crimine al coindagato durante la comune detenzione in carcere, nella prospettiva di elaborare una strategia difensiva; invece, se la confessione del N. fosse stata collocata esattamente nel tempo, le sue dichiarazioni avrebbero potuto trovare una diversa spiegazione, per esempio all’interno dei rapporti malavitosi intercorrenti fra i due, ed in particolare nell’esigenza del N. di “accreditarsi” con la vanteria di un omicidio, in realtà mai commesso, di fronte all’A., personag-gio in quel momento di maggiore spessore criminale.

Il secondo errore percettivo riguarderebbe l’estrema importanza annessa alle dichiarazioni rese da V.C., importanza giustificata dalla Corte di cassazione per un dettaglio peculiare della informazione che avrebbe ricevuto dal N., e cioè che il L., il conducente dell’autoarticolato, era stato ucciso perché

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aveva tentato di buttare fuori strada i rapinatori, circostanza indicativa di una sintomatica e assai so-spetta conoscenza dei fatti, giustificabile solo con una diretta partecipazione agli stessi.

Al riguardo, la difesa denuncia che questo particolare, come emerge pacificamente per tabulas, non fu riferito dal V., bensì dall’A., che lo colloca all’interno della asserita confessione stragiudiziale resagli dal N. Secondo il ricorrente, dunque, lo scambio fra i soggetti che attribuiscono al N. la diffusione del particolare, avrebbe prodotto conseguenze determinanti per la decisione della Corte, laddove in un contesto in cui si era ritenuta la necessità di rinvenire conferme esterne o, comunque, autonome alle propalazioni dell’A., queste erano state appunto erroneamente individuate nelle propalazioni del V.

Inoltre, collocando correttamente la presunta rivelazione fatta (non al V., ma) all’A., nel diverso con-testo temporale da quest’ultimo riferito, – cioè “quattro/cinque giorni dopo i fatti” – ecco che la circo-stanza confidata dal N. circa la manovra disperata del conducente perde ogni significato probatorio, es-sendo stato dimostrato che già dopo due giorni dal fatto ogni particolare del crimine era già ampiamen-te di dominio pubblico.

In altri termini, se si fosse esattamente individuato nell’A. la fonte di prova in base alla quale era sta-to attribuito al N. la diffusione del particolare che così grande importanza ha avuto nell’economia del giudizio, il valore di riscontro sarebbe venuto meno.

3. Ciò posto, entrambi i difensori insistono perché venga riconosciuta l’ammissibilità del ricorso straordinario per errore di fatto avverso la sentenza della Cassazione resa nell’ambito del procedimento di revisione.

Sottolineano infatti che, superando un orientamento consolidato, un recente indirizzo ritiene ammis-sibile il rimedio straordinario anche in materia di revisione, posto che nella categoria del “condannato”, legittimato a proporre il ricorso ai sensi della disposizione codicistica, rientra anche il soggetto che ha proposto la domanda di revisione poi rigettata.

4. Con ordinanza del 30 maggio 2016, la Quinta Sezione ha rimesso la trattazione del ricorso alle Se-zioni Unite, rilevando l’esistenza del denunciato contrasto interpretativo, tra un orientamento secondo cui è inammissibile il ricorso straordinario per errore materiale o di fatto avverso una ordinanza della Corte di cassazione che abbia dichiarato l’inammissibilità di un ricorso proposto contro un provvedi-mento di rigetto di una richiesta di revisione, sul presupposto che la disposizione di cui all’art. 625-bis circoscrive l’esperibilità del gravame esclusivamente alle sentenze della Corte per effetto delle quali di-viene definitiva una sentenza di condanna, e un più recente indirizzo che, in questi casi, ammette il ri-corso straordinario, rilevando che per “condannato”, a favore del quale è ammessa la richiesta ex art. 625-bis c.p.p., si deve intendere anche il soggetto titolare della facoltà di introdurre il procedimento di revisione.

Il Collegio rimettente osserva che decisiva appare l’accezione e l’estensione da attribuire alla parola “condannato”: se si intende tale termine in senso storico – nel senso che “condannato” è “colui che fu condannato” – ne deriva che il ricorso straordinario può essere esperito solo contro la sentenza della Corte di legittimità che, rigettando o dichiarando inammissibile il ricorso dell’imputato, rende definiti-va tale condanna; se, viceversa, il termine è da interpretarsi come espressivo di uno status – lo status di condannato, appunto, in una sorta di accettazione del principio di semel “condannato”, semper “con-dannato” – allora non vi sarebbe ragione di escludere l’applicabilità della procedura ex art. 625-bis c.p.p. anche con riferimento alla sentenza di legittimità che concluda un giudizio di revisione.

5. Il Primo Presidente, preso atto dell’esistenza del contrasto, con decreto del 31 maggio 2016 ha as-segnato, ai sensi dell’art. 610 c.p.p., comma 3, il ricorso alle Sezioni Unite, fissando per la trattazione in camera di consiglio, ex art. 127 c.p.p., l’odierna udienza.

[Omissis]

CONSIDERATO IN DIRITTO

1. La questione rimessa alle Sezioni Unite è la seguente: “Se sia ammissibile il ricorso straordinario ai sensi dell’art. 625-bis c.p.p. avverso la sentenza o

l’ordinanza della Corte di cassazione che rigetta o dichiara inammissibile il ricorso del condannato con-tro la decisione della corte d’appello che ha respinto ovvero dichiarato inammissibile la richiesta di re-visione”.

[Omissis] 3. Passando all’esame della questione, si osserva che il contrasto interpretativo, correttamente rileva-

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AVANGUARDIE IN GIURISPRUDENZA | IL RICORSO STRAORDINARIO PER ERRORE DI FATTO ED IL GIUDIZIO DI REVISIONE

to dall’ordinanza di rimessione, sia sorto tra un indirizzo maggioritario, che nega la proponibilità del ricorso straordinario nei confronti di pronunce della Corte di cassazione emesse nel giudizio di revisio-ne, e una recente sentenza che, invece, lo ammette.

Il primo orientamento, che allo stato appare consolidato, sostiene che possono costituire oggetto dell’impugnazione straordinaria esclusivamente quei provvedimenti della Corte di cassazione che ren-dono definitiva una sentenza di condanna, di modo che il ricorso ex art. 625-bis c.p.p. non è ammissibile contro la sentenza della Corte che disattenda il ricorso proposto contro un’ordinanza dichiarativa d’inammissibilità di una richiesta di revisione (Sez. 5, n. 44897 del 09/11/2004, Asciutto); la disposizio-ne di cui all’art. 625-bis c.p.p. ha carattere tassativo e non è suscettibile di interpretazione analogica, sic-ché l’esperibilità del gravame deve essere limitata esclusivamente alle sentenze della Corte per effetto delle quali diviene definitiva una sentenza di condanna (Sez. 3, n. 43697 del 10/11/2011, V., Rv. 251411). In altri termini, si assume che il rimedio straordinario è utilizzabile contro una decisione della Corte di cassazione solo quando questa, rigettando o dichiarando inammissibile il ricorso, “renda defi-nitiva una sentenza di condanna” (Sez. 6, n. 91 del 22/10/2013, dep. 2014, Fredesvinda, Rv. 258453) o “trasformi la condizione giuridica dell’imputato in quella di condannato” (Sez. 6, n. 46066 del 17/09/2014, Zambon, Rv. 260820), attitudine che manca al provvedimento che definisce il giudizio di revisione, che non è collegato in modo “diretto” con la pronuncia definitiva di condanna (cfr., Sez. 1, n. 9072 del 10/01/2011, Fabbrocino; Sez. 6, n. 4124 del 17/01/2007, Rossi, Rv. 235612; Sez. 5, n. 30373 del 16/06/2006, Nappi, Rv. 235323).

3.1. A contrastare questo indirizzo interpretativo è la sentenza di Sez. 1, n. 1776 del 29/09/2014, dep. 2015, Narcisio, Rv. 261781, che ha sancito per la prima volta l’ammissibilità del ricorso straordinario per errore materiale o di fatto contro le decisioni della Corte di cassazione conclusive di un giudizio di revi-sione.

Secondo tale pronuncia l’orientamento che afferma l’estraneità del ricorso straordinario alle decisio-ni della Corte conclusive di un giudizio di revisione – sul presupposto che lo stesso risulterebbe azio-nabile solo in rapporto a sentenze per effetto delle quali diviene definitiva una sentenza di condanna – non può essere condiviso, non trovando solida e convincente saldatura con il dato normativo espresso. Infatti, se è vero che nel corpo della disposizione dell’art. 625-bis c.p.p. si fa riferimento al “condanna-to” per delimitare l’area del soggetto legittimato alla proposizione dell’istanza – il che coerentemente esclude dal rimedio in parola le decisioni incidentali emesse in sede cautelare – ciò non significa che i provvedimenti emessi dalla Corte di cassazione assoggettabili al ricorso straordinario siano esclusiva-mente quelli da cui deriva, per la prima volta, il consolidamento di tale condizione giuridica, cioè solo le decisioni di inammissibilità o rigetto di ricorsi proposti avverso sentenze di merito con cui si è affer-mata la penale responsabilità del ricorrente. Una lettura della disposizione in questo senso finirebbe con il ricavare (in malam partem) una norma in realtà non scritta, posto che il “condannato” è anche il soggetto titolare della facoltà di introdurre il giudizio di revisione (art. 632 c.p.p., comma 1, lett. a) nel cui ambito, in caso di rigetto della domanda, si approda allo scrutinio di legittimità, con l’emissione di un provvedimento decisorio che – in caso di rigetto del ricorso – conferma la condizione giuridica di partenza.

3.2. Dai termini del contrasto, così come sintetizzati, emerge che la questione investe il tema del-l’individuazione dei provvedimenti impugnabili con il ricorso straordinario, dovendo in particolare stabilirsi se per “condannato” si debba comprendere chi diventi tale a seguito di una decisione che ope-ri la trasformazione della precedente condizione giuridica di imputato ovvero se possa riferirsi anche a colui che lo è già o lo rimane per effetto di una decisione negativa della Corte di cassazione, con conse-guenze rilevanti sull’ambito applicativo dell’istituto previsto dall’art. 625-bis c.p.p.

4. Il ricorso straordinario per errore di fatto, quale mezzo straordinario di impugnazione, costituisce un’eccezione all’inoppugnabilità delle decisioni della Corte di cassazione, principio, dunque, non più assoluto, ma ritenuto comunque un canone fondamentale del sistema processuale, con un evidente nes-so logico con il giudicato. Quest’ultimo costituisce ancora un valore essenziale per l’ordinamento e rap-presenta uno dei principali scopi dell’attività giurisdizionale svolta dalla Corte di cassazione, che attra-verso la sua opera di autointegrazione dell’ordinamento realizza la sua funzione nomofilattica.

Peraltro, la deroga al principio dell’irrevocabilità delle decisioni della Corte di cassazione si innesta su altre significative brecce scavate nel muro del giudicato penale dal codice del 1988 e rappresentate, oltre che dal tradizionale istituto della revisione, dalla innovativa previsione dell’applicazione in sede esecutiva del concorso formale e del reato continuato (art. 671 c.p.p.) nonché dalla revoca della sentenza

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per abolizione del reato (art. 673 c.p.p.), istituti che hanno contribuito a rendere il giudicato sempre più flessibile e sensibile alle esigenze di giustizia sostanziale, al fine di ridurre il danno di una decisione iniqua.

È questa una linea di tendenza che ha trovato pieno riscontro nella più recente giurisprudenza di le-gittimità che ha contribuito alla progressiva erosione del giudicato, individuando un reticolo di rimedi all’irrevocabilità delle decisioni penali per garantire, ad esempio, la legalità della pena (Sez. U, n. 18821 del 24/10/2013, Ercolano; Sez. U, n. 32 del 22/11/2014, Gatto; Sez. U, n. 37107 del 26/02/2015, Mar-con).

4.1. La giurisprudenza di legittimità, pur consapevole della inscindibilità tra l’inoppugnabilità delle sentenze di legittimità e il valore del giudicato, ha tracciato l’ambito applicativo della nuova impugna-zione innanzitutto evidenziandone la straordinarietà e, quindi, l’eccezionalità.

Nella specie, lo sforzo interpretativo si è concentrato nell’individuazione dell’esatta perimetrazione del termine “condannato”, cui si riferisce l’art. 625-bis c.p.p., sottolineando che ammettere la possibilità di impugnare per errore di fatto tutti i provvedimenti pronunciati dalla Cassazione sarebbe in contrasto con la natura straordinaria del mezzo. La giurisprudenza di questa Corte, infatti, non ha mai messo in dubbio che si tratti di un mezzo straordinario in senso stretto, tanto da evidenziare che l’istituto si rifà al modello della disciplina della revisione (così, Sez. U, n. 16104 del 27/03/2002, De Lorenzo).

Insistendo sul carattere straordinario e valorizzando il fatto che l’impugnazione può operare a senso unico, cioè a favore del condannato, la giurisprudenza ha circoscritto, in via tendenziale, il ricorso per errore di fatto a quelle decisioni che consentono il passaggio in giudicato della sentenza o del decreto penale di condanna.

Conseguentemente, sin dalle prime decisioni sui limiti di applicazione dell’art. 625-bis c.p.p. la Corte di cassazione ha affermato che le disposizioni di cui all’art. 625-bis c.p.p. non sono suscettibili di appli-cazione analogica e non possono essere estese ai casi non espressamente previsti dalla legge (Sez. U, n. 16103 del 27/03/2002, Basile; Sez. U, n. 16104 del 27/03/2002, De Lorenzo). In questo modo, insistendo sulla natura derogatoria della nuova normativa e sul suo carattere tassativo, si è escluso che il ricorso straordinario per errore di fatto sia proponibile contro le decisioni adottate nei procedimenti incidentali de libertate, in cui non si pronuncia alcuna condanna, che è la situazione assunta a presupposto dall’art. 625-bis c.p.p. Si è, quindi, affermato che il ricorso straordinario può avere ad oggetto soltanto le senten-ze di condanna e che l’estensione a provvedimenti emessi all’esito di procedimenti incidentali è preclu-sa dal divieto di interpretazione analogica, precisando, in particolare, che le decisioni con cui la Cassa-zione definisce le procedure incidentali costituiscono giudicato allo stato degli atti e, come tali, non so-no munite del carattere dell’irrevocabilità (Sez. U, n. 16103 del 27/03/2002, Basile, Rv. 221281; Sez. 2, n. 11741 del 19/02/2008, Testa, Rv. 239743; Sez. 4, n. 22497 del 03/05/2007, Cinelli, Rv. 237015; Sez. 1, n. 35614 del 25/09/2002, Calone, Rv. 222328).

Si tratta di decisioni attente a non dilatare eccessivamente una impugnazione straordinaria, in grado di mettere in crisi il tradizionale principio dell’irrevocabilità delle decisioni di legittimità. L’ambito ap-plicativo del ricorso ex art. 625-bis c.p.p. è stato, quindi, immediatamente delimitato, indicando che solo i provvedimenti che rendono definitiva una sentenza di condanna sono suscettibili di essere impugnati, dovendo intendersi per sentenze di condanna, tenuto conto che si tratta di pronunce del giudice di le-gittimità, quelle di rigetto o che dichiarano l’inammissibilità di ricorsi proposti contro sentenze di con-danna.

Presupposto imprescindibile per la legittimazione ad esperire l’impugnazione straordinaria è lo sta-tus di condannato, inteso come il soggetto che ha esaurito tutti i gradi del sistema delle impugnazioni ordinarie e rispetto al quale si è formato il giudicato in ordine alla decisione che lo riguarda.

4.2 In applicazione di questi principi la giurisprudenza di legittimità ha negato la ricorribilità straor-dinaria per errore di fatto, oltre che ai provvedimenti emessi in fase cautelare, alle decisioni in materia di misure di prevenzione (Sez. 6, n. 2430 del 08/10/2009, dep. 2010, Cacucci, Rv. 245772) e di confisca (Sez. 5, n. 43416 del 17/07/2009, Seidita, Rv. 245090), nonché a quelli che dichiarano inammissibile una istanza di rimessione del processo (Sez. 6, n. 9015 del 18/02/2010, Derlinati, Rv. 246030); alle decisioni di consegna per un mandato di arresto Europeo e in genere ai provvedimenti in materia di estradizione (Sez. F, n. 34819 del 02/09/2008, Mandaglio, Rv. 240717).

Nei casi esemplificati, caratterizzati dal fatto che si tratta di procedimenti ante iudicatum, l’inap-plicabilità del rimedio straordinario è stato giustificato, evidentemente, in base alla mera constatazione che si tratta di tipologie di decisioni che non hanno come destinatario un condannato.

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Tuttavia, la stessa giurisprudenza ha negato il ricorso straordinario anche in relazione a pronunce emesse dopo che la sentenza di cognizione è divenuta irrevocabile: così, in materia di indennizzo per in-giusta detenzione (Sez. 3, n. 6835 del 28/01/2004, Mongiardo, Rv. 228495; Sez. 3, n. 1265 del 11/12/2008, Gullì, Rv. 242164), di riabilitazione (Sez. 4, n. 42725 del 03/10/2007, Mediati, Rv. 238302) e, soprattutto, in materia di esecuzione (Sez. 5, n. 48103 del 22/10/2010, Sarno, Rv. 245385; Sez. 5, n. 2727 del 12/11/2009, Baiguini, Rv. 245923). Qui l’argomento letterale non poteva essere utilizzato, in quanto formalmente esiste un condannato legittimato a proporre il ricorso: ed infatti, l’esclusione dall’ambito di applicazio-ne del ricorso straordinario viene giustificata considerando che in tali ipotesi la decisione della Corte di cassazione non perfeziona alcuna fattispecie di giudicato. In alcune decisioni, relative a provvedimenti emessi in sede esecutiva, si insiste sulla straordinarietà del mezzo d’impugnazione, facendone derivare la conseguenza per cui le disposizioni che lo regolano non sono suscettibili di applicazione analogica in forza del divieto sancito dall’art. 14 preleggi e si conclude ribadendo che con il termine “condanna” si deve intendere l’applicazione di una sanzione penale, secondo l’interpretazione logico-sistematica della norma, introdotta dal legislatore proprio al fine di eliminare errori di fatto verificatisi nel corso del giu-dizio di legittimità in danno del condannato. Ne consegue che l’istituto può trovare applicazione sol-tanto all’esito del procedimento di cognizione e non anche nei procedimenti in fase di esecuzione o in quelli di sorveglianza (così, Sez. 5, n. 45937 del 08/11/2005, Ierinò, Rv. 233218).

5. Rispetto a questo indirizzo rigoroso nell’interpretare gli ambiti applicativi dell’istituto introdotto con l’art. 625-bis c.p.p., deve riconoscersi come sia presente, nella giurisprudenza più recente, anche una forte tendenza ad allargare i confini del ricorso straordinario.

Tale tendenza si è manifestata innanzitutto con la decisione Sez. U, n. 28719 del 21/06/2012, Marani, Rv. 252695. Le Sezioni Unite, superando un contrasto giurisprudenziale, hanno riconosciuto la legitti-mazione a proporre il ricorso straordinario anche per il condannato al risarcimento dei danni in favore della parte civile, che prospetti un errore di fatto nella decisione della Corte di cassazione relativa a tale capo.

In questa sentenza si è messo in risalto che la soluzione tendente a limitare il ricorso straordinario al-la sola condanna per il capo penale, sarebbe “palesemente eccentrica rispetto al diritto del condannato, anche soltanto per il capo civile, a fruire di un giudizio di legittimità non compromesso dall’errore di fatto”, precisando che la locuzione “condannato”, che indica l’ambito applicativo del rimedio straordi-nario, “non può arbitrariamente scandirsi in ragione del tipo di condanna in capo al soggetto che sia stato sottoposto, come imputato, al processo penale, giacché l’essere stato costui evocato in giudizio tanto sulla base dell’azione penale quanto in forza dell’azione civile esercitata nel processo penale, non può che comportare una ontologica identità di diritti processuali, a meno che la legge espressamente non distingua i due profili”, cosa di cui non v’è traccia nel testo della disposizione.

5.1. La locuzione “condannato” è stata oggetto di un’altra questione, a lungo dibattuta in giurispru-denza, attinente alla possibilità di rilevare con il rimedio straordinario l’errore di fatto contenuto in una sentenza di annullamento (totale) con rinvio e di annullamento parziale con o senza rinvio.

In questo caso, il problema interpretativo ruotava attorno alla determinazione del momento in cui insorge lo status di condannato e possa dirsi intervenuto il passaggio in giudicato della statuizione di condanna.

Anche qui si è reso necessario l’intervento delle Sezioni Unite che hanno affermato che la legittima-zione alla proposizione del ricorso straordinario spetta anche alla persona condannata nei confronti del-la quale sia stata pronunciata sentenza di annullamento con rinvio limitatamente a profili che attengo-no alla determinazione del trattamento sanzionatorio (Sez. U, n. 28717 del 21/06/2012, Brunetto, Rv. 252935). Secondo questa decisione il riconoscimento dell’autorità di cosa giudicata, enunciato, in tema di annullamento parziale, dall’art. 624 c.p.p. con riferimento alle parti della sentenza che non hanno connessione essenziale con la parte annullata, non si riferisce né al giudicato cosiddetto sostanziale, né alla intrinseca idoneità della decisione ad essere posta in esecuzione, ma soltanto “all’esaurimento del potere decisorio del giudice della cognizione”.

Dunque, nel caso in cui, divenendo irrevocabile l’affermazione della responsabilità penale in ordine ad una determinata ipotesi di reato, il giudizio debba proseguire in sede di rinvio solo agli effetti della determinazione della pena, deve ritenersi ontologicamente venuta meno la presunzione di non colpe-volezza, essendo stata quest’ultima accertata con sentenza ormai divenuta definitiva sul punto, di mo-do che risulta trasformata la posizione dell’imputato in quella di “condannato”, anche se a pena ancora da determinare in via definitiva. Ne deriva l’immediata ricorribilità per errore di fatto della pronuncia

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di annullamento parziale che abbia reso intangibile il riconoscimento della responsabilità penale, pro-prio perché si tratta di una sentenza che, “cristallizzando” il giudizio di responsabilità in termini irre-vocabili, muta necessariamente lo status del soggetto, oramai definitivamente dichiarato colpevole e dunque non più semplicemente imputato, anche se ancora parzialmente sub iudice.

È stato così superato l’orientamento che, invece, riteneva inammissibile il ricorso straordinario av-verso una sentenza di annullamento parziale con rinvio di una sentenza di condanna, nel caso in cui al giudice di rinvio fosse devoluta la determinazione della pena, sul presupposto che l’irrevocabilità della sentenza penale di condanna debba necessariamente riguardare anche l’entità della pena irrogata, in quanto la realizzabilità della pretesa punitiva dello Stato richiede la formazione di un giudicato di con-danna che sia incompatibile con il permanere della qualifica di imputato in capo al soggetto (Sez. 1, n. 24659 del 15/06/2007, Metelli, Rv. 239463; Sez. 1, n. 16692 del 28/01/2009, Mancuso, Rv. 243551).

5.2. Si deve, inoltre, sottolineare che la Corte di cassazione ha avuto modo di affermare la praticabili-tà dello strumento del ricorso straordinario anche a favore di soggetto “già” definitivamente condanna-to e lo ha fatto muovendosi all’interno di un orizzonte del tutto peculiare, quale quello della attuazione delle sentenze CEDU che accertino la violazione di diritti dell’uomo avvenuta nell’ambito di una pro-nuncia di legittimità.

Il riferimento è alle sentenze Sez. 6, n. 45807 del 12/11/2008, Drassich, Rv. 241753 e Sez. 5, n. 16507 del 11/02/2010, Scoppola, Rv. 247244, in cui la Corte, in assenza di un istituto che consentisse di ri-muovere il giudicato interno a fronte della dichiarazione di iniquità formulata dal giudice convenziona-le dei diritti dell’uomo, ha ritenuto di poter utilizzare all’uopo lo strumento previsto dall’art. 625-bis c.p.p. in casi non finalizzati alla rimozione di un errore di fatto. Con la sentenza Drassich, la Corte ha statuito che può farsi ricorso alla procedura straordinaria di cui all’art. 625-bis c.p.p. per dare esecuzio-ne ad una sentenza della Corte EDU che abbia rilevato una violazione del diritto di difesa occorsa nel giudizio di legittimità e che abbia resa iniqua la sentenza della Corte di cassazione, indicando nella ria-pertura del procedimento, su richiesta dell’interessato, la misura interna per porre rimedio alla viola-zione contestata; con la pronuncia Scoppola ha affermato che è ammissibile il ricorso straordinario preordinato ad ottenere, in esecuzione di una sentenza della Corte Europea dei diritti dell’uomo – che abbia accertato la non equità del trattamento sanzionatorio determinato, con sentenza definitiva, in vio-lazione degli art. 6 e 7 CEDU – la sostituzione della pena inflitta con quella ritenuta equa dalla Corte Europea.

Ai fini che qui interessano, si vuole sottolineare come la Corte, da un lato, abbia negato che la dispo-sizione di cui all’art. 625-bis, sebbene realizzata per colmare vuoti di tutela definiti e tassativi, incorra in un divieto di applicazione analogica, in quanto non si tratta di norma penale incriminatrice (ma anzi di norma conducente ad effetti in bonam partem), né di norma caratterizzata per eccezionalità rispetto al si-stema processuale (Sez. 6, n. 45807 del 12/11/2008, Drassich), dall’altro, si sia disinteressata del pre-supposto soggettivo richiesto dall’art. 625-bis per la legittimazione al ricorso straordinario, ritenendo ammissibile il ricorso straordinario promosso dal “condannato”, inteso nel significato di persona “già” condannata e non di persona che tale è diventata per effetto della sentenza della Corte oggetto di ricor-so (Sez. 5, n. 16507 del 11/02/2010, Scoppola).

5.3. Nei casi indicati si assiste ad un progressivo allentamento del rapporto funzionale tra decisione della Corte di cassazione e giudicato e il riferimento al “condannato”, almeno riguardo all’ultimo e-sempio, assume una portata più ampia.

Pertanto, è vero che, come sottolineato da una attenta dottrina, il richiamo al “condannato” sta a si-gnificare che possono essere impugnate con il ricorso straordinario le decisioni della Corte di cassazio-ne che rendano “incontrovertibile l’accertamento del dovere di punire”, essendo evidente il collega-mento con il giudicato sostanziale. Tuttavia, si tratta di verificare se i provvedimenti della Cassazione suscettibili di essere impugnati ai sensi dell’art. 625-bis c.p.p. sono solo quelli in grado di determinare il passaggio in giudicato della sentenza di condanna ovvero se sia sufficiente un altro tipo di nesso con il giudicato sostanziale.

6. A questi fini la decisione di inammissibilità o di rigetto pronunciata dalla Corte di cassazione av-verso il ricorso proposto dal condannato contro l’ordinanza della corte di appello che abbia dichiarato inammissibile l’istanza di revisione rappresenta un caso paradigmatico, in quanto non vi è dubbio che il destinatario della pronuncia della Cassazione debba essere qualificato come “condannato”: lo è in senso tecnico, dal momento che con la revisione intende ottenere un nuovo giudizio avente ad oggetto l’accertamento della sua responsabilità penale.

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Si è già visto come la tesi che nega la possibilità di proporre il ricorso straordinario in questa materia insista sulla circostanza che mancherebbe il nesso funzionale tra la decisione della Cassazione e il giu-dicato, in quanto la decisione negativa assunta ai sensi dell’art. 634 c.p.p., comma 2, non determina la formazione del giudicato, già formatosi in precedenza. In altri termini, si assume che la pronuncia resa dalla Corte di cassazione non rende definitiva la sentenza di condanna, ma è solo collegata in maniera indiretta con il giudicato.

Si osserva che, se è vero che la natura straordinaria del ricorso in esame determina la necessità di ri-cercare un legame funzionale tra decisione della Cassazione e giudicato, tuttavia ciò non vuol dire che l’istituto disciplinato dall’art. 625-bis c.p.p. debba trovare applicazione solo in presenza di una sentenza di legittimità da cui derivi, “per la prima volta”, l’effetto del giudicato. Di un tale requisito non vi è traccia nella legge. La sentenza n. 1776 del 2014 (ric. Narciso) ha rilevato come limitare il ricorso straor-dinario alle sole decisioni della Cassazione di inammissibilità o di rigetto dei ricorsi avverso sentenze di merito, con cui si è affermata la responsabilità penale dell’imputato, si fonda su una interpretazione che non trova riscontro nella lettura della norma e non considera che, con riferimento alla revisione, il “condannato” è il soggetto titolare della facoltà di introdurre il giudizio di revisione nel cui ambito, in caso di rigetto della domanda, si approda allo scrutinio di legittimità, che può concludersi con un prov-vedimento negativo, di rigetto o di inammissibilità, che conferma la condizione giuridica di partenza, cioè il giudizio di responsabilità penale del ricorrente-condannato.

In realtà, né la disposizione in questione, né la stessa giurisprudenza di legittimità che, come si è vi-sto, ha progressivamente allargato i confini del ricorso straordinario, autorizzano a ritenere che il nesso funzionale tra decisione della Corte di cassazione e giudicato debba essere immediato e diretto. Ciò che rileva, infatti, è che la decisione della Cassazione contribuisca alla “stabilizzazione” del giudicato, a pre-scindere dal momento in cui si sia formato. Deve trattarsi di un provvedimento che, collocandosi nel cono d’ombra dell’accertamento della responsabilità penale (o anche civile) della persona interessata, riaffermi comunque l’ambito del giudicato stesso. È in questo senso che deve essere inteso lo status di condannato cui si riferisce l’art. 625-bis c.p.p.

Nel caso della revisione la sentenza della Cassazione, che rigetti o dichiari inammissibile il ricorso del condannato contro la decisione negativa della Corte d’appello, conferma il giudicato di condanna, che altrimenti avrebbe potuto essere infranto da un giudizio di revisione con esito favorevole. La deci-sione della Cassazione non determina “per la prima volta” la formazione del giudicato penale, ma sicu-ramente contribuisce a determinarlo e, comunque, lo conferma in presenza di una richiesta del condan-nato finalizzata a superare proprio il giudicato di condanna.

Del resto l’istituto della revisione si inserisce nel sistema delle impugnazioni come un mezzo straor-dinario di difesa del condannato, per porre rimedio agli errori giudiziari, eliminando le condanne che siano riconosciute ingiuste, attraverso un giudizio che segue alla formazione del giudicato, la cui base giustificativa è di ordine prevalentemente pratico, tanto che l’ordinamento, sulla base di scelte di politi-ca legislativa, sacrifica “il valore (...) del giudicato in nome di esigenze che rappresentano l’espressione di valori superiori”. Tra i valori fondamentali a cui la legge attribuisce priorità, rispetto alla regola della intangibilità del giudicato, vi è la “necessità dell’eliminazione dell’errore giudiziario, dato che corri-sponde alle più profonde radici etiche di qualsiasi società civile il principio del favor innocentiae, da cui deriva a corollario che non vale invocare alcuna esigenza pratica – quali che siano le ragioni di oppor-tunità e di utilità sociale ad essa sottostanti – per impedire la riapertura del processo allorché sia riscon-trata la presenza di specifiche situazioni ritenute dalla legge sintomatiche della probabilità di errore giudiziario” (Sez. U, n. 624 del 26/09/2001, Pisano).

All’istituto della revisione è, quindi, attribuita la funzione di rispondere “all’esigenza, di altissimo valore etico e sociale, di assicurare, senza limiti di tempo ed anche quando la pena sia stata espiata o sia estinta, la tutela dell’innocente, nell’ambito della più generale garanzia, di espresso rilievo costituziona-le, accordata ai diritti inviolabili della personalità” (Corte cost., sent. n. 28 del 1969).

È evidente come sia la giurisprudenza costituzionale sia quella di legittimità facciano derivare la scelta del favor revisionis dalla finalità di garantire i diritti inviolabili della persona, sacrificando il rigore delle forme alle esigenze insopprimibili della “verità e della giustizia reale” (Sez. U, n. 624 del 26/09/2001, Pi-sano).

Si tratta della stessa esigenza che ha portato alla crisi dell’intangibilità del giudicato anche con rife-rimento a situazioni diverse dalla revisione (il riferimento è alla giurisprudenza della Corte di cassazio-ne sopra ricordata: Sez. U, n. 18821 del 24/10/2013, Ercolano; Sez. U, n. 32 del 22/11/2014, Gatto; Sez.

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U, n. 37107 del 26/02/2015, Marcon) e che ha giustificato il tendenziale allargamento degli spazi rico-nosciuti al ricorso straordinario per errore di fatto.

Proprio in considerazione di tali esigenze, poste a tutela di diritti inviolabili della persona, appare poco comprensibile che il condannato sia legittimato a chiedere la revisione, a partecipare al relativo giudizio, a ricevere la notifica della dichiarazione di inammissibilità dell’istanza, a ricorrere per cassa-zione contro la decisione della corte di appello, ma poi non possa impugnare, ai sensi dell’art. 625-bis c.p.p., la sentenza della Corte di cassazione affetta da errore di fatto. Situazione questa che deriverebbe dal fatto che per “condannato” viene inteso solo il soggetto raggiunto dalla prima pronuncia di legitti-mità che renda definitiva la sua condanna.

L’effetto paradossale è che lo status di condannato legittima la richiesta di revisione, ma la stessa condizione non legittimerebbe il ricorso ex art. 625-bis nell’ambito della medesima procedura, con la conseguenza che nel giudizio di legittimità, comunque funzionale a stabilizzare e a ribadire il giudicato di condanna, non sarebbe azionabile alcun rimedio contro l’errore di fatto.

Si deve considerare che la sentenza della Cassazione pronunciata nel giudizio di revisione, sebbene non intervenga nella fase processuale destinata all’accertamento del fatto, tuttavia verifica, sulla base dei motivi dedotti, la rispondenza al modello normativo suo proprio del processo di revisione, instau-rato ai sensi dell’art. 630 c.p.p., e nel caso in cui definisca la procedura con un provvedimento di rigetto o di inammissibilità completa il giudicato di condanna, cioè partecipa al suo consolidamento. Il giudi-zio di revisione, a differenza delle procedure incidentali o di quelle esecutive, si caratterizza come lo strumento generale, ancorché straordinario, di rimozione degli effetti di una decisione irrevocabile er-ronea, sicché la decisione della Corte di cassazione che definisce la procedura, si pone in una condizio-ne assai simile a quelle terminative del giudizio di cognizione, per le quali il ricorso straordinario ex art. 625-bis è pacificamente ammesso (in questo senso, Sez. 1, n. 1776/2015, Narciso).

In questo caso, negare il rimedio straordinario per errore di fatto equivale a non assicurare la effetti-vità del giudizio di legittimità, quell’effettività che la Corte costituzionale indicò come obiettivo da rag-giungere attraverso la previsione di meccanismi in grado di rimediare agli errori della Cassazione (Cor-te cost., sent. n. 395 del 2000). In questa sentenza, che ha indotto il legislatore ad introdurre l’art. 625-bis, la Corte costituzionale ha sottolineato come la mancanza nell’ordinamento processuale di un rime-dio agli errori di fatto della Cassazione si pone in contrasto non solo con l’art. 3 Cost., ma soprattutto con l’art. 24 Cost., in quanto non garantisce il diritto al processo in cassazione, che è costituzionalmente imposto dall’art. 111 Cost. per assicurare il controllo di legalità dei giudizi.

Non appare rilevante a questi fini la circostanza che la richiesta di revisione sia riproponibile, in quanto la riproponibilità dell’istanza ai sensi dell’art. 641 c.p.p. è basata sulla condizione essenziale del-la “novità” degli elementi legittimanti la rinnovata richiesta di revisione, mentre il rimedio straordina-rio è attivabile solo se la decisione sia irrimediabilmente viziata da uno “sviamento percettivo” del giu-dizio.

Del resto, se la ratio del rimedio straordinario risiede nell’irrimediabilità del pregiudizio, che conse-gue al carattere irrevocabile della sentenza conclusiva del giudizio di cognizione, non vi è situazione più irrimediabile di quella che consegue alla decisione della Corte di cassazione che rigetti il ricorso av-verso una pronuncia che abbia respinto una richiesta di revisione di un giudicato di condanna.

La soluzione individuata dal legislatore con l’introduzione dell’art. 625-bis rappresenta una scelta im-posta dalla Costituzione, nel rispetto del principio di uguaglianza, di quello di effettività della difesa in ogni stato e grado, del diritto alla riparazione degli errori giudiziari e, infine, di quello diretto ad assicura-re il controllo effettivo di tutte le sentenze in sede di legittimità (così, Sez. U, n. 28719 del 21/06/2012, Ma-rani).

Sono questi principi costituzionali a pretendere l’eliminazione dell’errore giudiziario, obiettivo a cui tendono, in maniera convergente, sia la revisione che il ricorso straordinario per errore di fatto.

Negare quest’ultimo rimedio proprio alle sentenze della Cassazione emesse nella procedura di revi-sione, che è volta, in presenza di presupposti predeterminati, a rivalutare il giudicato per assicurare cer-tezza alla posizione del condannato, appare in contrasto con la lettera e con la finalità della legge: si ac-cetterebbe il rischio della ineliminabilità degli errori di fatto in queste decisioni, limitando il diritto del condannato che abbia richiesto la revisione di ottenere il “giusto processo” in cassazione.

7. Pertanto, con riferimento alla questione oggetto del ricorso, deve essere enunciato il seguente principio di diritto:

“È ammessa, a favore del condannato, la richiesta, ex art. 625-bis c.p.p., per la correzione dell’errore

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di fatto contenuto nella sentenza con cui la Corte di cassazione abbia dichiarato inammissibile o rigetta-to il suo ricorso contro la decisione negativa della corte di appello pronunciata in sede di revisione”.

8. L’accoglimento di una nozione di “condannato” più ampia di quella fino ad ora utilizzata dalla giurisprudenza in questa materia, che cioè superi il riferimento oggettivo ai soli provvedimenti della Cassazione che determinino, per la “prima volta”, la formazione del giudicato, non è destinata a realiz-zare una applicazione indiscriminata del ricorso straordinario per errore di fatto. Il rimedio deve rima-nere limitato ai casi in cui la decisione della Corte di cassazione interviene a stabilizzare il giudicato, anche se formatosi anteriormente.

Ne consegue che per tutte le decisioni della Corte di cassazione che intervengano in procedimenti ante iudicatum, come ad esempio i provvedimenti emessi in fase cautelare, le decisioni in materia di misure di prevenzione, quelle in materia di rimessione del processo, nonché le decisioni processuali in materia di estradizione o di mandato di arresto Europeo, continuerà a non esservi spazio per la correzione dell’er-rore di fatto, in quanto si tratta di decisioni che non hanno come destinatario un condannato.

Allo stesso modo si deve escludere che il ricorso straordinario possa riferirsi alle decisioni della Cor-te di cassazione che comunque si riferiscano al “condannato”, in antitesi allo status di imputato: se così fosse qualunque provvedimento di cassazione, purché riguardante un condannato, sarebbe impugnabi-le ai sensi dell’art. 625-bis c.p.p. In questo senso, come già sostenuto dalla giurisprudenza, si dovrà ne-gare il ricorso straordinario in relazione a pronunce emesse dopo che la sentenza di cognizione è dive-nuta irrevocabile: il riferimento, ad esempio, è alle decisioni in materia di indennizzo per ingiusta de-tenzione o per riabilitazione. In questi casi, la pronuncia della Cassazione può avere come presupposto il giudicato, ma non è destinata ad incidere in alcun modo sull’accertamento della responsabilità.

Più complesso il caso dei provvedimenti emessi nella fase dell’esecuzione. Si è accennato sopra alle ragioni utilizzate dalla giurisprudenza prevalente per escludere il rimedio

del ricorso straordinario per le decisioni in materia esecutiva: l’istituto può trovare applicazione soltan-to all’esito del procedimento di cognizione e non anche nei procedimenti in fase di esecuzione o in quelli di sorveglianza (così, Sez. 5, n. 45937 del 08/11/2005, Ierinò), in quanto in tali ipotesi la decisione della Corte di cassazione non perfeziona alcuna fattispecie di giudicato, aggiungendosi che con il ter-mine “condanna” si deve intendere l’applicazione di una sanzione penale, secondo l’interpretazione lo-gico-sistematica della norma, introdotta dal legislatore proprio al fine di eliminare errori di fatto verifi-catisi nel corso del giudizio di legittimità in danno del condannato.

Tuttavia, come per la revisione, anche nella fase dell’esecuzione la decisione della Cassazione può intervenire a stabilizzare il giudicato, sicché, sotto questo profilo, non vi sarebbe ragione per impedire l’applicabilità dell’istituto di cui all’art. 625-bis, almeno nei casi in cui la decisione della Cassazione è in grado di determinare l’irrimediabilità del pregiudizio derivante dall’errore di fatto.

Si pensi, ad esempio, oltre alle ipotesi in cui il giudizio di legittimità abbia ad oggetto le procedure di cui agli artt. 671 e 673 c.p.p., al caso di una decisione in cui la Cassazione dichiari inammissibile o ri-getti il ricorso avverso l’ordinanza negativa del giudice dell’esecuzione chiamato a decidere, ex art. 670 c.p.p., una questione riguardante la validità della notifica della sentenza di condanna di merito, ovvero al caso in cui la Cassazione decida in termini negativi un ricorso contro l’ordinanza che respinga una richiesta di restituzione nel termine per impugnare una sentenza di condanna. Con riferimento agli artt. 671 e 673 cit., la Corte di cassazione interviene direttamente sul giudicato, “manipolandolo”, negli altri esempi, invece, come sottolineato da un’attenta dottrina, viene in discussione “lo stesso perfezionamen-to della fattispecie del giudicato”, tenuto conto che il rimedio dell’errore di fatto qui è diretto a recupe-rare il processo di cui il condannato è stato privato.

Negli esempi indicati è difficile negare che vi sia un nesso funzionale tra decisione della Corte di cassazione e giudicato, sicché deve ammettersi il ricorso straordinario in caso di errore di fatto.

[Omissis]

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GIANRICO RANALDI

Ricercatore di diritto processuale penale – Università degli Studi di Cassino

Il ricorso straordinario per errore di fatto: un rimedio giuridico processuale oramai generalizzato per far valere gli errori percettivi The extraordinary appeal for factual error: a processual remedy by now common to complaint against perceptual mistakes

È ammissibile il ricorso straordinario per errore di fatto, che sia proposto avverso la sentenza con cui la Corte di cassazione abbia dichiarato inammissibile o rigettato il ricorso contro la decisione negativa ˗ pronunciata in sede di revisione ˗ della Corte di appello: infatti, i provvedimenti emessi dalla Corte di cassazione assoggettabili al ricorso straordinario non sono esclusivamente quelli da cui deriva, per la prima volta, la condizione giuridica di condanna-to, ma anche quelli che ne determinano il consolidamento cosicché è possibile individuare un nesso funzionale tra pronuncia della Corte di cassazione e giudicato. The extraordinary appeal for factual error is admissible to complaint against the decision of the Court of cassation that declared inadmissible or refused the appeal against the verdict of the Court of appeal that denied the request of review of sentence: in fact, this processual remedy can be used both against the decisions that constitute for the first time the juridical status of convicted or against decisions that just confirm it.

L’OGGETTO DELLA PRONUNCIA

La Suprema Corte ha sancito l’ammissibilità del ricorso straordinario per errore di fatto, che sia pro-posto avverso la sentenza con cui la medesima Corte abbia dichiarato inammissibile o rigettato il ricor-so contro la decisione negativa – pronunciata in sede di revisione – della Corte di appello 1.

In particolare, il dictum ha definito un’articolata sequela procedimentale ove si colgono due step es-senziali: il condannato ha, anzitutto, proposto una istanza di revisione alla Corte di appello territoriale, che venne dichiarata inammissibile de plano con un’ordinanza poi annullata senza rinvio – su ricorso del condannato – dalla Suprema Corte, che dispose la trasmissione degli atti ad altra Corte di appello, individuata ai sensi dell’art. 634, comma 2, c.p.p., per il giudizio di revisione; poi, ha proposto ricorso per cassazione – avverso la decisione negativa della Corte territoriale che ebbe a respingere l’istanza di revisione – che è stato rigettato dalla Suprema Corte, con un provvedimento che è stato dal medesimo condannato impugnato ma con ricorso straordinario per errore di fatto ex art. 625-bis c.p.p.

Sennonché, la Quinta Sezione ha rimesso – a mente dell’art. 610, comma 2, c.p.p. – la trattazione del ricorso alle Sezioni Unite, rilevando l’esistenza di un contrasto interpretativo tra un orientamento se-condo cui è inammissibile il ricorso straordinario per errore materiale o di fatto avverso una ordinanza della Corte di cassazione che abbia dichiarato l’inammissibilità di un ricorso proposto contro un prov-vedimento di rigetto di una richiesta di revisione ed un indirizzo, di recente consolidatosi, che ha am-messo, in questi casi, il ricorso straordinario, rilevando che per «condannato» – a favore del quale è am-messa la richiesta ex art. 625-bis c.p.p. – deve intendersi anche il soggetto titolare della facoltà di intro-durre il procedimento di revisione.

1 Con riferimento alla decisione in discorso, v. M. Gialuz, Un altro tassello nell’evoluzione del ricorso straordinario per Cassazione: da rimedio eccezionale a valvola di chiusura del sistema delle impugnazioni, in www.penalecontemporaneo.it.

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IL CONTRASTO INTERPRETATIVO

La questione litigiosa investe, in generale, l’individuazione dei provvedimenti impugnabili con il ri-corso straordinario per errore di fatto (c.d. impugnabilità oggettiva) ed, in particolare, la descrizione dello status di «condannato» che è, per l’appunto, rilevante agli effetti della legittimazione all’”impiego” del rimedio giuridico processuale di cui all’art. 625-bis c.p.p.

In proposito, delle due l’una: o per «condannato» si deve intendere chi diventi tale a seguito di una de-cisione che operi la trasformazione della precedente condizione giuridica di imputato o si deve ritenere colui che già lo sia o rimanga tale per effetto di una decisione negativa della Corte di cassazione con con-seguenze, all’evidenza, rilevanti sull’ambito applicativo dell’istituto previsto dall’art. 625-bis c.p.p.

In proposito, il campo era conteso tra due orientamenti: da un lato, si ponevano le pronunce che de-clinavano un’interpretazione, al contempo, restrittiva e tradizionale dell’istituto in discorso, sul pre-supposto essenziale, ma non esclusivo, che la disposizione di cui all’art. 625-bis c.p.p. abbia carattere tassativo e non sia suscettibile di interpretazione analogica, tanto che l’esperibilità dello specifico mezzo di impugnazione straordinario si sarebbe dovuta ritenere limitata, in esclusiva, alle sentenze della Corte di cassazione che rendano definitiva una sentenza di condanna 2, tanto da trasformare la condizione giuridica dell’imputato in quella di condannato 3; dall’altro lato, invece, si ponevano le decisioni, più recenti, che prefiguravano una possibilità di “impiego”, per dir così, generalizzata dell’istituto de quo – e, quindi, anche con riferimento alle decisioni della Corte di cassazione conclusive di un giudizio di re-visione – sul presupposto che i toni dell’art. 625-bis c.p.p. si riferiscano, in esclusiva, al «condannato» per circoscrivere l’area del soggetto legittimato alla proposizione dell’istanza e ciò non significa che i prov-vedimenti emessi dalla Corte di cassazione assoggettabili al ricorso straordinario siano esclusivamente quelli da cui deriva, per la prima volta, il consolidamento di tale condizione giuridica (id est, le decisio-ni di inammissibilità o rigetto dei ricorsi proposti avverso sentenze di merito con cui si è affermata la penale responsabilità del ricorrente). Infatti, un’esegesi di tal fatta della disposizione de qua avrebbe avuto l’effetto di ricavare in malam partem una norma in realtà non scritta, ove si consideri che il «con-dannato» è anche il soggetto titolare della facoltà di introdurre il giudizio di revisione (art. 632, comma 1, lett. a), c.p.p.) nel cui ambito, ove la domanda sia dichiarata inammissibile o rigettata, si può pro-muovere lo scrutinio di legittimità, con l’emissione di un provvedimento decisorio che – in caso di ri-getto del ricorso – conferma la condizione giuridica di partenza 4.

LA SOLUZIONE ADOTTATA: PROFILI ESSENZIALI DI UN PERCORSO ERMENEUTICO CONDIVISIBILE

La soluzione adottata dalla Suprema Corte è condivisibile e rappresenta la sintesi di un ragionamen-to che si presenta, al contempo, lineare e proficuo nella prospettiva del ragionevole ampliamento delle possibilità di rescissione del giudicato.

Sotto il primo profilo, sono due i capisaldi: per un verso, l’art. 625-bis c.p.p. non autorizza a ritenere che il nesso funzionale tra decisione della Corte di cassazione e giudicato debba essere immediato e di-retto 5. Infatti, rileva in esclusiva che «la decisione della Cassazione contribuisca alla «stabilizzazione» del giu-dicato, a prescindere dal momento in cui si sia formato» nel senso che «deve trattarsi di un provvedimento che, collocandosi nel cono d’ombra dell’accertamento della responsabilità penale (o anche civile) della persona interes-sata, riaffermi comunque l’ambito del giudicato stesso»; per un altro verso, invece, la circostanza che lo status di condannato – cui si riferisce la disposizione in discorso – sia quello appena profilato, trova chiara eco nella tendenza interpretativa in atto, che segnala, all’evidenza, il progressivo allargamento dei confini del ricorso straordinario: il riferimento esplicito è – tanto al riconoscimento della legittimazione a pro-porre il ricorso straordinario anche per il condannato al risarcimento dei danni in favore della parte ci-

2 Cass., sez. VI, 22 ottobre 2013, Fredesvinda, in CED Cass., n. 258453; Id., sez. VI, 17 gennaio 2007, Rossi, ivi, n. 235612; Id., sez. VI, 16 giugno 2006, Nappi, ivi, n. 235323.

3 Cass., sez. VI, 17 settembre 2014, Zambon, in CED Cass., n. 260820. 4 Cass., sez. I, 29 settembre 2014, Narcisio, in CED Cass., n. 261781. 5 Sul giudicato, in particolare, v. E.M. Mancuso, Il giudicato nel processo penale, Milano, Giuffrè, 2012, passim; F. Callari, La fir-

mitas del giudicato penale: essenza e limiti, Milano, Giuffrè, 2009, passim; D. Vigoni, Relatività del giudicato ed esecuzione della pena detentiva, Milano, Giuffrè, 2009, passim.

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vile, che prospetti un errore di fatto nella decisione della Corte di cassazione relativa a tale capo 6 ed all’avvenuta affermazione che la legittimazione alla proposizione del ricorso straordinario spetta anche alla persona condannata nei confronti della quale sia stata pronunciata sentenza di annullamento con rinvio limitatamente a profili che attengono alla determinazione del trattamento sanzionatorio 7 – quan-to alla riconosciuta praticabilità dello strumento del ricorso straordinario anche a favore di un soggetto che sia già definitivamente condannato qualora debba darsi attuazione alle sentenze della Corte EDU che abbiano accertato la violazione di diritti dell’uomo consumatasi nell’ambito di una pronuncia di le-gittimità 8.

Sotto il secondo profilo, invece, la pronuncia de qua – non solo si inscrive nell’ambito della tendenza, oramai da tempo consolidata, sia a livello normativo disciplinare, che dal punto di vista interpretativo, all’apertura del giudicato penale 9 – ma anche descrive, delimitandone gli ambiti, il perimetro applicati-vo dello specifico mezzo di impugnazione straordinario 10.

Sotto il primo aspetto, non è a discutersi che la tendenza recessiva del giudicato penale abbia trovato nel codice in vigore, tra l’altro congruamente preceduto dalle leggi sull’ordinamento penitenziario 11, un punto di emersione rilevante 12.

Si ha riguardo, in genere, alle disposizioni del titolo III, rubricato «Attribuzione degli organi giurisdi-zionali», del X libro del codice di procedura penale (artt. 665-676 c.p.p.) che contemplano, per ciò che nello specifico interessa, una nutrita serie di poteri del giudice dell’esecuzione 13, più o meno incidenti

6 Cass., sez. un., 21 giugno 2012, Marani, in Cass. pen., 2013, p. 2592. 7 Cass., sez. un., 21 giugno 2012, Brunetto, in Cass. pen., 2013, p. 2600, con nota di A. Capone, Annullamento parziale con rinvio

e ricorso straordinario. 8 Cass., sez. VI, 12 novembre 2008, Drassich, in CED Cass., n. 241753; Id., sez. V, 11 febbraio 2008, Scoppola, ivi, n. 247244. 9 Il riferimento è alla possibile rimozione degli “effetti limite” connessi al giudicato, in conseguenza dell’emersione di so-

pravvenienze dimostrative (leggi-prove nuove ovvero non valutate nel corso del giudizio), regolamentari (leggi-abolitio criminis ovvero declaratoria di illegittimità costituzionale di fattispecie incriminatrici e/o di elementi circostanziali che abbiamo inciso sul trattamento sanzionatorio ovvero ricognizione che il giudicato, quanto al trattamento sanzionatorio, sia fondato su norme nazionali violatrici della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali), della percezione di errori di fatto nella formazione del convincimento della Suprema Corte ovvero della constatata invalida costituzione del rappor-to processuale nel processo in absentia. In proposito, tra i tanti, v. G. Leone, Il mito del giudicato, in Riv. it. dir. proc. pen., 1956, p. 178, il quale rileva, tra l’altro, che il riesame di una causa definita con il giudicato «sulla base degli elementi che furono oggetto di precedente giudizio … significherebbe lo scardinamento della funzione giurisdizionale. E lo scardinamento deriverebbe più dalla possibilità di conflitto dei giudicati … che dalla generica possibilità di riesame della causa definita col giudicato: una conseguenza di tal genere non tocche-rebbe il prestigio del giudice (che non sarebbe gran danno), bensì la stessa giustificazione della giurisdizione». Sul punto, volendo, v. an-che G. Ranaldi, Il giudicato aperto, in A. Gaito-G. Ranaldi (a cura di), Esecuzione penale, III ed., Milano, Giuffrè, 2016, p. 19 ss.

10 Sul ricorso straordinario per errore materiale o di fatto, tra gli altri, v. A. Bargi, Controllo di legittimità ed errore di fatto nel giudizio di cassazione, Padova, Cedam, 2004, passim; Id., voce Ricorso straordinario per cassazione, in Dig. pen., Torino, Giappichelli, 2004, p. 726; A. Capone, Ricorso straordinario per errore di fatto, in Enc. giur., XXVII, Roma, 2004, p. 7; A. Gaito, Impugnazioni ed al-tri controlli: verso una decisione giusta, in A. Gaito (diretto da), Le impugnazioni penali, Torino, Utet, 1998, p. 19; A. Giarda, Ancora sulla intangibilità assoluta delle sentenze della Corte di cassazione, in Riv. it. dir. proc. pen., 1995, p. 923; M. Gialuz, Il ricorso straordina-rio per cassazione, Milano, Giuffrè, 2005, passim; R.E. Kostoris, Diversa qualificazione giuridica del fatto in Cassazione e obbligo di con-formarsi alle decisioni della Corte europea dei diritti umani: considerazioni sul caso Drassich, in Giur. it., 2009, p. 2514; O. Mazza, Il ricor-so straordinario per errore di fatto: un quarto grado di giustizia occasionale?, in Cass. pen., 2003, p. 3213; G. Romeo, Passato e futuro per gli errori di fatto incorsi nel giudizio di cassazione, in Cass. pen., 2003, p. 3482.

11 Infatti, l’ordinamento penitenziario (il riferimento è alla l. 26 luglio 1975, n. 354, rubricato «Norme sull’ordinamento peniten-ziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà» ed alle successive modificazioni ed integrazioni), consente di intervenire sul concreto trattamento sanzionatorio in relazione alla condotta del condannato; pertanto, il giudicato va ritenuto intangibile «nel senso che non può mai aumentarsi l’afflittività implicita della pena stabilita nella sentenza di condanna» (C. cost., sent. 25 maggio 1989, n. 282, in www.giurcost.org), rimanendo invece l’esecuzione della pena, anche nelle sue modalità e nel quantum, relativamente flessibile in favorem rei; al riguardo, s’è affermato che l’art. 27, comma 3, Cost. garantisce al condannato «il diritto a vedere riesaminato se la quantità di pena espiata abbia o meno assolto positivamente al suo fine rieducativo» (C. cost., sentt. 8 luglio 1993, n. 306 e 4 luglio 1974, n. 204, in www.giurcost.org). Sul punto, v. anche Cass., sez. un., 27 novembre 2014, Basile, in www.archivio penale.it.

12 In generale, sulla problematica che coglie la formula convenzionale “giudicato aperto”, per i sempre attuali spunti, v. G. Leone, Il mito del giudicato, cit., p. 168 ss. In proposito, di recente, A. Corbo, I complessi rapporti tra legge penale e giudicato, in Cass. pen., 2015, Supplemento 4, p. 28.

13 In proposito, tra gli altri, M. Guardata, Sub art. 665 c.p.p., in M. Chiavario (coord. da),Commento al nuovo codice di procedura penale, Torino, Utet, 1991, VI, p. 520. Sui lineamenti della giurisdizione esecutiva, v. A. Gaito, Nel segno dell’imparzialità del giudi-

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sul giudicato, che delineano un quadro di insieme, al contempo, «composito ed eterogeneo» 14. Il riferimento, in particolare, è ai poteri riconosciuti al giudice titolare della funzione giurisdizionale

esecutiva – rispettivamente – di carattere selettivo (art. 669 c.p.p.), sospensivo (art. 670 c.p.p.), ricostrut-tivo (artt. 671 c.p.p., 188, disp. att., c.p.p.), modificativo (artt. 672, 676 c.p.p.), risolutivo (art. 673 c.p.p.), complementare e supplente (artt. 674, 675 c.p.p.) e di conversione (art. 2, comma 3, c.p. in relazione all’art. 670 c.p.p.) 15.

Stando così le cose, non è a discutersi che sia stato oramai superato ex lege il ruolo ancillare tradizio-nalmente riconosciuto alla fase esecutiva, che è oramai paradigmatica di un momento di verifica giuri-sdizionale 16 che si pone, al contempo, in termini di complementarietà rispetto al giudizio di cognizione e di completamento, sotto il profilo funzionale, del sistema processuale penale 17; del pari, si impone la constatazione delle accresciute opportunità che sono state introdotte – in materia di profilassi post rem iudicatam contro gli errori giudiziari – sia per via ermeneutica 18, che per opzione legislativa espressa 19.

ce: verso l’assimilazione della fase esecutiva alla fase del giudizio, in Giur. it., 1997, p. 455; Id., Impugnazioni e altri controlli: verso una decisione giusta, in A. Gaito (a cura di), Le impugnazioni penali, cit., p. 15; Id., Esecuzione, in G. Conso-V. Grevi, Compendio, Padova, Cedam, 2006, p. 959.

14 In tal senso, D. Vigoni, Giudicato ed esecuzione penale: confini normativi e frontiere giurisprudenziali, in www.processopena leegiustizia.it, 2015, 4, p. 6, la quale rileva che, al di là dei considerevoli ambiti di intervento sul giudicato di condanna ricono-sciuti al giudice dell’esecuzione dal legislatore tecnico delegato, «è per via giurisprudenziale che si sono ricavati ulteriori spazi dove si accredita il valore relativo del giudicato: sensibile alle esigenze di salvaguardia dei diritti fondamentali della persona, permeabile alle istanze di giustizia sostanziale processuale, recessivo rispetto ai tradizionali obiettivi di certezza e stabilità del decisum».

15 Sul procedimento di esecuzione, v. S. Lorusso, Giudice, pubblico ministero e difesa nella fase esecutiva, Milano, Giuffrè, 2002, passim.

16 Sul punto, v. Cass., sez. un., 24 ottobre 2013, Ercolano, in www.archiviopenale.it, alla cui stregua, tra l’altro, «i margini di ma-novra che l’ordinamento processuale riconosce alla giurisdizione esecutiva sono molto ampi. I poteri di questa non sono circoscritti alla sola verifica della validità e dell’efficacia del titolo esecutivo, ma possono incidere, in vario modo, anche sul contenuto di esso, allorquando impre-scindibili esigenze di giustizia, venute in evidenza dopo l’irrevocabilità della sentenza, lo esigano … L’incidente di esecuzione disciplinato dall’art. 670 cod. proc. pen., pur sorto per comporre i rapporti con l’impugnazione tardiva e la restituzione nel termine, implica necessaria-mente, al di là del dato letterale, un ampliamento dell’ambito dell’istituto, che è un mezzo per far valere tutte le questioni relative non solo alla mancanza o alla non esecutività del titolo, ma anche quelle che attengono alla eseguibilità e alla concreta attuazione del medesimo. Il ge-nus delle doglianze da cui può essere investito il giudice degli incidenti ex art. 666 cod. proc. pen., in sostanza, è molto ampio ed investe tutti quei vizi che, al di là delle specifiche previsione espresse, non potrebbero farsi valere altrimenti, considerata l’esigenza di garantire la perma-nente conformità a legge del fenomeno esecutivo». In proposito, v., di recente, Cass., sez. III, 11 luglio 2017, Giordano, in www.corte dicassazione.it, che ha sancito che «rientra tra i poteri del giudice dell’esecuzione, adito per la rideterminazione della pena a seguito della dichiarazione di incostituzionalità dell’art. 181, comma 1-bis, d.lgs. n. 42 del 2004, dichiarare l’estinzione per prescrizione del reato, riquali-ficato come contravvenzione ai sensi dell’art. 181, comma 1, d.lgs. n. 42 del 2004, oggetto della sentenza definitiva di condanna, qualora la prescrizione sia maturata in pendenza del procedimento e fatti salvi i rapporti ormai esauriti».

17 Cass., sez. V, 24 giugno 1998, Ottaviano, in CED Cass., n. 211566. 18 In tema, per l’ortodossa chiave ricostruttiva, v. Cass., sez. un., 14 ottobre 2014, Gatto, www.archiviopenale.it, secondo, «suc-

cessivamente a una sentenza irrevocabile di condanna, la dichiarazione di illegittimità costituzionale di una norma penale diversa dalla nor-ma incriminatrice, idonea a mitigare il trattamento sanzionatorio, comporta la rideterminazione della pena, che non sia interamente espiata, da parte del giudice dell’esecuzione»; in particolare, «per effetto della sentenza della Corte costituzionale n. 251 del 2012, che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 69, quarto comma, cod. pen. nella parte in cui vietava di valutare prevalente la circostanza attenuante di cui all’art. 73, comma 5. d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, sulla recidiva di cui all’art. 99, quarto comma, cod. pen. e in applicazione dell’art. 30, quarto comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, il giudice dell’esecuzione potrà affermare la prevalenze della circostanza attenuante, sem-preché una simile valutazione non sia stata esclusa nel merito dal giudice della cognizione, secondo quanto risulta dal testo della sentenza irrevocabile»; in tale ipotesi, «è compito del pubblico ministero, ai sensi degli artt. 655, 656 e 666 c.p.p.. di richiedere al giudice dell’esecu-zione l’eventuale rideterminazione della pena inflitta all’esito del nuovo giudizio di comparazione». In proposito, per l’interessante qua-dro di insieme, D. Vigoni, Giudicato ed esecuzione penale: confini normativi e frontiere giurisprudenziali, cit., ibidem.

19 Si ha riguardo, a titolo esemplificativo, alla previsione, rispetto all’impostazione originaria del Codice Vassalli, di due ulte-riori mezzi straordinari di impugnazione: per l’appunto, il ricorso straordinario per errore materiale e di fatto ex art. 625-bis c.p.p. (introdotto dalla l. 26 agosto 2001, n. 128) e la rescissione del giudicato ex art. 625-ter c.p.p. (contemplata dalla l. 28 aprile 2014, n. 67 ed “emendata” dalla l. 23 giugno 2017, n. 103). Si ha riguardo, inoltre, all’ampliato concetto di «prove nuove» in mate-ria di revisione delineato in sede giurisprudenziale (Cass., sez. un., 26 settembre 2001, Pisano, in Cass. pen., 2002, p. 1952) ed alla c.d. revisione europea (vale a dire, alla riapertura dei processi penali, conclusi con la definitiva adozione di una sentenza di condanna o di un decreto penale, per i quali la Corte europea dei diritti dell’uomo abbia sancito l’iniquità per contrasto con i dettami dell’art. 6 Cedu, ratificata e resa esecutiva con l. 4 agosto 1955, n. 848), introdotta per effetto di C. cost., sent. 7 aprile 2011, n. 113, in Giur. cost., 2011, p. 1523, che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 630 c.p.p., rubricato «Casi di revi-sione», nella parte in cui non ha previsto un diverso caso di revisione della sentenza o del decreto penale di condanna al fine di conseguire la riapertura del processo, «quando ciò sia necessario, ai sensi dell’art. 46, paragrafo 1, della Convenzione per la salvaguardia

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AVANGUARDIE IN GIURISPRUDENZA | IL RICORSO STRAORDINARIO PER ERRORE DI FATTO: UN RIMEDIO GIURIDICO ...

Il che vale quale sintomo univoco di una concezione rinnovata del rapporto tra Stato-giurisdizione e prerogative individuali 20.

In altri termini, se la svalutazione del principio di tassatività delle impugnazioni costituisce il passe-partout verso la decisione giusta 21, la relativa irretrattabilità dell’accertamento contenuto nel provvedi-mento non più impugnabile, rappresenta eco di un ordinamento che – cosciente della propria fallibilità – prefigura una “successione” di strumenti processuali tesi a rimuovere le pronunzie che non facciano giusta applicazione del diritto obiettivo 22.

Sotto il secondo aspetto, invece, la pronuncia de qua compie la ricognizione degli ambiti operativi del ricorso straordinario e declinale ipotesi applicative rilevanti.

Il ragionamento articolato muove dalla constatazione che la ratio del ricorso straordinario per errore di fatto – analogamente a quella della revisione delle sentenze di condanna, delle sentenze emesse ai sensi dell’art. 444, comma 2, c.p.p. e dei decreti penali di condanna – sta nel garantire i diritti inviolabili della persona, sacrificando il rigore delle forme alle esigenze non sopprimibili della “verità e della giu-stizia reale” 23, stante l’irrimediabilità del pregiudizio conseguente al carattere irrevocabile della senten-za conclusiva del giudizio di cognizione.

In altri termini, l’introduzione dell’art. 625-bis c.p.p. rappresenta «una scelta imposta dalla Costituzione, nel rispetto del principio di uguaglianza, di quello di effettività della difesa in ogni stato e grado, del diritto alla riparazione degli errori giudiziari e, infine, di quello diretto ad assicurare il controllo effettivo di tutte le sentenze in sede di legittimità» 24; pertanto, tenuto conto che il giudizio di revisione tende alla rivalutazione del giudicato per assicurare certezza alla posizione del condannato, negare l’operatività dello specifico ri-medio giuridico processuale – con riferimento alle sentenze della Corte di cassazione emesse nella pro-cedura di revisione – significherebbe porsi in contrasto con la lettera e la finalità dell’art. 625-bis c.p.p. posto che si finirebbe per accettare il rischio della ineliminabilità degli errori di fatto rispetto alle speci-fiche pronunce, limitando così il diritto del condannato che abbia chiesto la revisione di ottenere il “giusto processo” in cassazione.

Infatti, se il giudizio di revisione presuppone il giudicato e conduce alla relativa stabilizzazione (nell’ipotesi di declaratoria di inammissibilità o di rigetto della relativa istanza ad opera della Corte di appello ovvero di declaratoria di inammissibilità o di rigetto del ricorso per cassazione che sia stato eventualmente interposto avverso di esse), allora risulterebbe contra tenorem rationis impedire l’applica-bilità del ricorso per cassazione per errore di fatto ogniqualvolta la decisione della Corte di cassazione sia in grado di determinare l’irrimediabilità del pregiudizio derivante dall’errore di fatto.

Ed ecco il punto. Il ricorso straordinario per errore di fatto, pertanto, deve ammettersi, secondo la Suprema Corte,

ogniqualvolta si riscontri un nesso funzionale tra pronuncia della Corte di cassazione e giudicato, tanto che non vi sarebbe ragione per impedire l’applicabilità dell’istituto di cui all’art. 625-bis c.p.p. qualora il giudizio di legittimità concerna i procedimenti esecutivi di cui gli artt. 670, 671, 673 c.p.p.: nell’un caso –

dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, per conformarsi ad una sentenza definitiva della Corte europea dei diritti dell’uomo». Sulla rescissione del giudicato, tra gli altri, volendo, G. Ranaldi, La rescissione del giudicato: esegesi di una norma imperfetta, in www. processopenaleegiustizia.it, 2015, 1, p. 123.

20 In tema, tra gli altri, v. R. Normando, Il valore, gli effetti e l’efficacia del giudicato penale, in L. Kalb (a cura di), Esecuzione e rap-porti con autorità giurisdizionali straniere, VI (Trattato di procedura penale diretto da G. Spangher), Torino, Utet, 2009, p. 12.

21 Sul punto, v. A. Gaito, Impugnazioni ed altri controlli: verso una decisione giusta, cit., p. 1 ss. 22 Al riguardo, v. G. Tranchina, voce Impugnazione (dir. proc. pen.), in Enc. dir., vol. XX, Milano, Giuffrè, 1970, p. 700 ss.; G.

Leone, Il mito del giudicato, cit., p. 173 per il quale «l’interesse dello Stato alla sentenza giusta è certamente presente e vigile sia nel pro-cesso civile che nel processo penale; ma, mentre nel processo civile tale interesse non è che uno degli aspetti dello Stato di diritto ed è lo stesso interesse che sta a base della costituzione del potere giurisdizionale, nel processo penale assume una sostanza specifica e più vincolante. Così come l’interesse dello Stato all’adempimento dell’obbligazione è diverso dall’interesse dello Stato all’osservanza del precetto penale o all’ap-plicazione della giusta sanzione; del pari l’interesse alla sentenza giusta nel processo civile è diverso dall’interesse alla sentenza giusta nel processo penale». Vale a dire: «nell’uno, la esclusiva incidenza del giudicato sugli interessi di determinati soggetti può condurre al sacrifico volontario (rinunzia, transazione, ecc.) o imposto (errore giudiziario) di una situazione di sostanziale giustizia; nell’altro la incidenza del giudicato non solo sugli interessi di determinati soggetti che siano o appaiano i più direttamente interessati ma sull’interesse di tutta la socie-tà non consente che una situazione di sostanziale giustizia possa essere annullata dalla volontà della parte o da un’esigenza di opportunità politica sia pure inerente alla stessa organizzazione della società».

23 Così, v. Cass., sez. un., 26 settembre 2001, Pisano, cit., p. 1952. 24 In tal senso, v. Cass., sez. un., 21 giugno 2012, Marani, cit., p. 2592.

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AVANGUARDIE IN GIURISPRUDENZA | IL RICORSO STRAORDINARIO PER ERRORE DI FATTO: UN RIMEDIO GIURIDICO ...

il riferimento è alle «questioni sul titolo esecutivo» deducibili ex art. 670 c.p.p. – lo scrutinio concerne pro-prio il perfezionamento della fattispecie costitutiva del giudicato dato che il rimedio dell’errore di fatto consente al condannato di recuperare il processo di cui sia stato privato; negli altri casi – si ha riguardo alla «applicazione della disciplina del concorso formale e del reato continuato» (art. 671 c.p.p.) ed alla «revoca della sentenza per abolizione del reato» (art. 673 c.p.p.) – la questione litigiosa riguarda la possibile manipo-lazione del giudicato posto che, a seconda dei casi, verrà rinnovata la delibazione giudiziale in ordine al profilo volitivo del condannato nel momento in cui tenne i comportamenti ritenuti antigiuridici dai dic-ta deferiti alla cognizione del giudice dell’esecuzione 25 ovvero il giudicato sarà risolto per intervenuta abrogatio cum abolitio criminis 26.

Di contro, stante l’assenza di qualsivoglia relazione funzionale tra decisione della Suprema Corte e giudicato, il ricorso per cassazione per errore di fatto non dovrà ammettersi rispetto alle decisioni della Corte di cassazione che dovessero intervenire in procedimenti ante iudicatum (si ha riguardo ai provve-dimenti emessi in fase cautelare, alle decisioni in materia di misure di prevenzione, a quelle in materia di rimessione del processo, così come alle decisioni processuali in materia di estradizione o di mandato di arresto europeo), così come alle pronunce della medesima Corte emesse dopo che la sentenza di co-gnizione sia divenuta irrevocabile ma prive di qualsivoglia relazione con l’accertamento di responsabi-lità e, quindi, con il giudicato sostanziale (il riferimento è alle decisioni in materia di indennizzo per in-giusta detenzione o per riabilitazione).

CONSIDERAZIONI CONCLUSIVE

La condivisibile interpretazione della questione controversa, che la sentenza in epigrafe ha fornito, non libera il campo dagli ulteriori profili problematici che pone il tema dell’effettività del giudizio di legittimità, che consigliano riflessione ed imporrano, verosimilmente, una maquillage disciplinare.

Il punto, a tacere d’altro, sta nei bisogni di tutela che sono presidiati dal canone, di rilievo costitu-zionale, del giusto processo in cassazione e nel ragionevole contemperamento di essi con la ragione eminentemente pratica e di rilievo politico che è connessa con la stabilità delle decisioni giudiziarie 27.

In altre parole, indipendentemente dallo status di condannato e dall’esistenza di una relazione fun-zionale tra decisione della Suprema Corte e giudicato, s’imporra, seppur limitatamente agli errori per-cettivi in cui incorra la Corte di cassazione nella lettura degli atti del giudizio, l’esigenza di prevedere un rimedio utilmente azionabile avverso la decisione di legittimità che sia ingiusta poiché viziata da un errore di fatto: infatti, è francamente difficile comprendere la ragione per cui il legislatore contempli, in via ordinaria, il ricorso per cassazione e non, invece, la possibilità di emendare, seppur in via straordi-naria, l’errore di fatto in cui possa incorrere la Corte di cassazione nell’esame degli atti del relativo giu-dizio.

25 In tema, G. Varraso, Il reato continuato tra processo ed esecuzione penale, Padova, Cedam, 2003, passim. 26 Sul punto, tra gli altri, A. De Francesco, Reato abrogato e poi riconfigurato: il giudice dell’esecuzione deve revocare la sentenza di

condanna, anche se passata in giudicato?, in www.dirittoegiustizia.it, 2013, p. 1365; A. Scalfati, Abolitio criminis di una singola fattispe-cie del reato continuato: scomposizione del titolo e ricomposizione della pena, in Cass. pen., 1996, p. 2478, nonché, volendo, G. Ranaldi, Un ulteriore passo avanti verso il “giudicato aperto”: i dilatati poteri del giudice dell’esecuzione in tema di sospensione condizionale della pena conseguente ad abolitio criminis, in Giur. it., 2007, p. 727.

27C. cost., sent. 28 luglio 2000, n. 395, in Cass. pen., 2001, p. 390.

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Processo penale e giustizia n. 6 | 2017 1047

 

AVANGUARDIE IN GIURISPRUDENZA | DISPONIBILITÀ DI UN’ATTIVITÀ LAVORATIVA ED ACCESSO ALL’AFFIDAMENTO IN PROVA

Disponibilità di un’attività lavorativa ed accesso all’affidamento in prova

CORTE DI CASSAZIONE, SEZIONE I, SENTENZA 10 GENNAIO 2017, N. 19637 – PRES. VECCHIO; REL. SARA-CENO

La concreta possibilità di svolgere un lavoro non rientra tra i requisiti normativamente richiesti per l’accesso alla misura alternativa dell’affidamento in prova al servizio sociale.

[Omissis]

RITENUTO IN FATTO

Il Tribunale di sorveglianza di Torino, con ordinanza del 19 gennaio 2016, rigettava le domande di affidamento in prova al servizio sociale e di detenzione domiciliare c.d. sanitaria formulate nell’inte-resse del condannato [omissis], detenuto in espiazione della pena irrogata dal GUP del Tribunale di Pi-nerolo in data 20.3.2013 per il reato di rapina aggravata.

A ragione della decisione osservava che il condannato non versava in condizioni di salute partico-larmente gravi e necessitanti costanti contatti con i presidi sanitari territoriali; quanto alla richiesta di affidamento in prova al servizio sociale reputava non formulabile allo stato “una prognosi favorevole di reinserimento sociale, tenuto conto che l’interessato non dispone oggi di alcuna concreta e verificabi-le risorsa lavorativa che gli consenta di superare quelle difficoltà economiche che lo avevano indotto al-la commissione del reato”.

Per la cassazione di detta ordinanza ha proposto ricorso il [omissis] per il tramite del suo difensore di fiducia, avvocato [omissis], denunciando violazione di legge e difetto di motivazione in riferimento all’art. 47 ord. pen.: l’ordinanza impugnata è da censurare con riguardo al diniego della concessione dell’affidamento in prova al servizio sociale perché del tutto contraddittoriamente, dopo aver richiama-to la valutazione dell’equipe del trattamento nella parte in cui si evidenziava che il fatto-reato di cui alla condanna in espiazione fosse da ricondurre ad un periodo di scompenso psichiatrico dell’istante e non già ad uno stile di vita criminale, non ha concesso la misura alternativa, valorizzando in negativo l’as-senza di attività lavorativa e quindi il mancato superamento delle difficoltà economiche che si assume abbiano determinato la commissione del reato.

CONSIDERATO IN DIRITTO

Il ricorso è fondato e, pertanto, merita accoglimento per le ragioni di seguito esplicitate. 1. Il presupposto normativo per la concessione della misura alternativa dell’affidamento in prova al

servizio sociale è la sua idoneità a rieducare il condannato e ad assicurare la prevenzione del pericolo di commissione di altri reati (Corte cost., 5 dicembre 1997, n. 377).

Il giudizio prognostico per l’affidamento deve essere effettuato, nei confronti di chi, come nella spe-cie, si trovi in stato di detenzione, non solo sulla base degli elementi relativi alla natura e alla modalità del reato, dei precedenti penali, delle pendenze processuali e di altre eventuali indicazioni provenienti dalle informative di P.S., ma anche e soprattutto sulla base della condotta carceraria mantenuta, dei ri-sultati dell’indagine socio familiare operata dalle strutture carcerarie di osservazione, dell’osservazione scientifica della personalità e degli eventuali progressi conseguiti nel corso del trattamento (tra le altre e da ultimo, Sez. I, S n. 775 del 6/12/2013 (dep. 10/01/2014), Angilletta, Rv. 258404).

Il diniego dell’affidamento in prova al servizio sociale è da ritenere adeguatamente motivato anche

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Processo penale e giustizia n. 6 | 2017 1048

 

AVANGUARDIE IN GIURISPRUDENZA | DISPONIBILITÀ DI UN’ATTIVITÀ LAVORATIVA ED ACCESSO ALL’AFFIDAMENTO IN PROVA

quando, nell’ambito di un giudizio prognostico che, per sua natura, non può che essere largamente di-screzionale, venga indicata una sola ragione, purché plausibile, atta a far ritenere la scarsa probabilità di successo dell’esperimento, in relazione alle specifiche finalità dell’istituto (rieducazione del reo e prevenzione del pericolo che egli commetta ulteriori reati).

Ciò che però, né la norma di cui all’art. 47 ord. pen., né l’interpretazione fornitane dalla giurispru-denza di legittimità richiedono per la concessione di una misura alternativa alla detenzione, è la con-creta possibilità di svolgere un lavoro, essendo altrettanto valida e suscettibile di considerazione an-che la prospettazione di un impegno nel volontariato o in altra attività utile, avente la capacità di re-cuperare il condannato al rispetto delle regole di convivenza civile e di esplicare effetto risocializzan-te (cfr., ex pluribus, Sez. 1, n. 26789 in data 18/06/2009, Gennari, rv. 244735: “non rientra tra i requisi-ti per la concessione della misura alternativa dell’affidamento in prova al servizio sociale la prospet-tiva di un lavoro stabile per il condannato, che può usufruire del beneficio pur quando non riesca a reperire un lavoro ma si impegni in attività utili”; adde: Sez. 1, n. 18939 del 26/02/2013, E.A., rv. 256024).

1.1. Di tali condivisi principi il Tribunale non ha fatto corretta applicazione, seguendo un percorso argomentativo carente rispetto alle risultanze processuali disponibili e utilizzate ed anzi in patente con-traddizione con esse.

L’ordinanza, infatti, muovendo dalle risultanze del certificato penale ha rilevato la risalenza dei pre-cedenti penali per ingiurie e minacce (fatti del 1990) e per lesioni aggravate (fatto del 1994 per il quale [omissis] era stato ammesso all’affidamento in prova al servizio sociale con esito positivo dall’esperi-mento), rimarcando l’assenza di pendenze giudiziarie.

Ha, poi, dato atto che il condannato è stato eseguito dal Centro di Salute Mentale di Pinerolo dal-l’anno 2009 per disturbo bipolare dell’umore e che dalla relazione del ridetto servizio, coincidente con l’associazione al carcere del ricorrente, avvenuta il 24.5.2015, il medesimo appariva in condizioni di di-screto equilibrio psichico, con una maggiore compliance verso la necessità di cura.

Ha, quindi, dato conto del contenuto della relazione di sintesi, nella quale sono stati valorizzati il re-golare comportamento intramurario, i risultati dell’osservazione della personalità, l’indagine socio-familiare, e in particolare il forte interesse manifestato dalla madre a sostenere il figlio nel percorso del reinserimento anche sotto il profilo del supporto materiale; ha, infine, riportato le conclusioni dell’e-quipe di trattamento che ha evidenziato come il reato di cui alla condanna in espiazione, lungi dall’es-sere indicativo di uno stile di vita criminale, sia piuttosto riconducibile “ad un periodo di scompenso psichiatrico” del [omissis], annotando altresì che la concessione dei benefici consentirebbe al predetto di riallacciare i rapporti con la figlia minore e di valutare opportunità lavorative nel settore radiofonico e musicale.

1.2 Pur a fronte dei dati conoscitivi sopra sintetizzati, il Tribunale, al fine di escludere l’affi-damento in prova, ha tuttavia fatto leva esclusivamente sulla asserita mancanza di affidabilità e-sterna, e, in particolare, sulla mancanza di una prospettiva lavorativa, ritenuta condizione indispen-sabile per fronteggiare il pericolo di ricaduta. Ma nel pervenire a tale soluzione non solo ha trascura-to di considerare che, per giurisprudenza consolidata di questa Corte che va qui richiamata e ribadi-ta, tale condizione non è ostativa al chiesto beneficio, ma pure non si è correlato con i dati dell’os-servazione personalistica che offrivano elementi di valutazione sia sui comportamenti successivi al reato sia sulla contestualizzazione della condotta deviante, realizzata in un momento di acutizzazio-ne dei disturbi psichiatrici.

1.3 Sicché l’ordinanza impugnata non solo è incorsa nell’erronea applicazione dell’art. 47 ord. pen. per aver valorizzato il difetto di un requisito non richiesto dalla legge, ma pure è inficiata dal vizio di motivazione, risultando la valutazione espressa carente anche sotto altri aspetti: pur dando atto che il [omissis] non ha altre pendenze e che i precedenti penali sono risalenti e non particolarmente allarman-ti, non ha preso in considerazione la sua condotta successiva alla commissione del reato per il quale sta espiando pena detentiva, né il comportamento processuale e quello tenuto in sede extramuraria, né tan-to meno quello tenuto durante l’esecuzione in istituto al fine di riscontrare se le prescrizioni imponibili in caso di ammissione alla misura fossero in grado di conseguire la sua risocializzazione ed al contem-po di prevenire nuove fattispecie criminose.

2. Pertanto, il giudizio conclusivo, con il quale nemmeno si afferma l’incompletezza dell’osserva-zione eseguita, semplicemente obliterata nella valutazione compiuta, non appare supportato da una at-

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Processo penale e giustizia n. 6 | 2017 1049

 

AVANGUARDIE IN GIURISPRUDENZA | DISPONIBILITÀ DI UN’ATTIVITÀ LAVORATIVA ED ACCESSO ALL’AFFIDAMENTO IN PROVA

tenta e completa analisi dalla quale poter inferire un giudizio attuale di pericolosità sociale, tale da non consentire l’ammissione alla misura richiesta.

2.1 Il provvedimento impugnato, stante la motivazione carente ed il mancato rispetto del parametro normativo di riferimento, va, pertanto, annullato con rinvio al Tribunale di sorveglianza di Torino per nuovo esame della istanza alla luce dei principi di diritto e dei rilievi sopra esposti.

[Omissis]

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Processo penale e giustizia n. 6 | 2017 1050

 

AVANGUARDIE IN GIURISPRUDENZA | ATTIVITÀ LAVORATIVA E GIUDIZIO PROGNOSTICO FINALIZZATO ALLA CONCESSIONE ...

GIUSEPPE MAGLIOCCA

Dottore di ricerca in Diritto processuale penale interno, internazionale e comparato – Università degli Studi di Perugia

Attività lavorativa e giudizio prognostico finalizzato alla concessione dell’affidamento in prova Employment and prognostic judgment in the probation system

La decisione sull’istanza di affidamento in prova al servizio sociale postula la formulazione di un giudizio prognosti-co di idoneità della misura alternativa a contribuire alla rieducazione del condannato ed a prevenire il pericolo di commissione di ulteriori reati, il quale deve tener conto di una pluralità di indici di matrice normativa e giurispru-denziale e che non può essere ancorato unicamente alla disponibilità o meno in capo all’istante di un’attività lavo-rativa. The decision on the probation presupposes the formulation of a prognostic judgment relating to eligibility of the alternative measure to contribute to re-education of the convicted person and to prevent the danger of commis-sion of further offenses. This judgment must consider different factors, which can not be anchored exclusively to the availability of an employment.

RILIEVI INTRODUTTIVI

La pronuncia in commento, nel ribadire un principio di diritto da tempo consolidatosi nell’ambito della giurisprudenza di legittimità in ordine alla rilevanza della disponibilità di un’attività lavorativa in capo al condannato che aspiri ad accedere alla misura alternativa dell’affidamento in prova al servizio sociale, offre lo spunto per soffermarsi sui parametri del giudizio prognostico demandato in tale ambito alla magistratura di sorveglianza e per valutare la portata delle più recenti linee di riforma tratteggiate in sede legislativa.

A dire il vero, la declaratoria di annullamento con rinvio dell’ordinanza emessa dal Tribunale di Sorveglianza di Torino – la quale respingeva l’istanza di concessione dell’affidamento in prova presen-tata dal condannato adducendo l’impraticabilità di una prognosi favorevole di reinserimento sociale del medesimo in ragione della indisponibilità di un’attività lavorativa che gli consentisse «di superare quelle difficoltà economiche che lo avevano indotto alla commissione del reato» – muove, più che dalla censurata violazione di legge (riferita ai presupposti da cui dipende la concessione della misura alterna-tiva in questione), dalla riscontrata contraddittorietà della decisione assunta nel caso di specie e della motivazione ad essa sottesa rispetto alle risultanze processuali a disposizione del Giudice di prime cu-re, le quali evidenziavano come l’avvenuta perpetrazione del reato fosse riconducibile, più che ad uno stile di vita criminale o a peculiari condizioni di disagio economico, «ad un periodo di scompenso psi-chiatrico», così contestualizzando la condotta criminosa nell’ambito di «un momento di acutizzazione dei disturbi psichiatrici» dai quali il reo era afflitto.

La pronuncia oggetto di impugnativa, lungi dall’ancorare il rigetto dell’istanza di affidamento al mero dato dell’indisponibilità di un’attività lavorativa in capo al condannato, prendeva, quindi, le mos-se da una caratterizzazione della condotta criminale, come indotta da presunte difficoltà economiche nelle quali il condannato avrebbe versato al momento del fatto, in alcun modo supportata da risultanze processuali che, al contrario, ne imponevano una contestualizzazione di segno diverso, rispetto alla quale l’evocata disponibilità di un’attività lavorativa non poteva assumere alcun rilievo dirimente nella prospettiva della rieducazione del reo e della prevenzione del pericolo di commissione di ulteriori reati tipizzate dalla norma di riferimento.

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CONDIZIONI DI ACCESSO ALL’AFFIDAMENTO IN PROVA

Qualificata dal Giudice delle Leggi come modalità alternativa di esecuzione della pena nell’ambito della quale «viene sostituito a quello in istituto, il trattamento fuori dell’istituto, perché ritenuto più idoneo, sulla base dell’osservazione, al raggiungimento delle finalità, di prevenzione e di emenda, pro-prie della pena» 1 e che «fa perno […] sull’imposizione di regole di condotta […] le quali, nella duplice ottica di incentivare la risocializzazione del condannato e di neutralizzare i fattori di recidiva, incidono sotto vari profili sulla libertà personale» 2, l’affidamento in prova al servizio sociale, tanto nel caso in cui venga disposto sulla scorta dei risultati dell’osservazione della personalità condotta collegialmente all’interno dell’istituto penitenziario, quanto nelle ipotesi in cui il legislatore consenta di accedervi sen-za una pregressa osservazione in istituto ovvero a fronte di una pena residua che superi il limite ordi-nario dei tre anni, richiede in ogni caso la formulazione di un giudizio prognostico favorevole da parte del Giudice della Sorveglianza in ordine alla concreta efficacia rieducativa della misura disposta non-ché alla idoneità preventiva del pericolo di commissione di ulteriori reati.

Nel dettaglio, una volta appurato che, nel caso di specie, la pena da scontare in concreto rientri tra quelle espiabili in affidamento in prova, rispetti i limiti normativamente previsti per l’accesso alla mi-sura e che non sussistano preclusioni derivanti da peculiari previsioni normative ovvero legate alla na-tura del reato commesso 3, l’organo decidente deve attingere alla piattaforma cognitiva identificata dal-la norma di ordinamento penitenziario, a seconda dei casi, nei risultati della osservazione scientifica della personalità condotta collegialmente in istituto ovvero nelle risultanze che attestano il comporta-mento serbato dal detenuto dopo la commissione del reato nonché, nell’ipotesi delineata dal comma 3 bis dell’art. 47 ord. penit., nell’anno precedente alla presentazione dell’istanza (trascorso in espiazione di pena, in esecuzione di misura cautelare o in libertà), onde effettuare la valutazione funzionale all’ac-coglimento o al rigetto dell’istanza di accesso alla misura alternativa.

L’osservazione scientifica della personalità, funzionale a garantire la necessaria individualizzazione del trattamento del detenuto, viene condotta nell’arco di tutto il periodo di detenzione e mira a rilevare le carenze fisiopsichiche e le altre cause del disadattamento sociale ovvero, più in particolare, ex art. 27 reg. ord. penit., ad accertare i bisogni del soggetto, connessi alle eventuali carenze fisico-psichiche, af-fettive, educative e sociali che sono state di pregiudizio alla instaurazione di una normale vita di rela-zione, sulla scorta dei dati giudiziari, penitenziari, clinici, psicologici e sociali previamente acquisiti e della effettuazione di colloqui funzionali a stimolare il processo di rivisitazione critica delle condotte compiute e di individuazione delle «possibili azioni di riparazione delle conseguenze del reato, incluso il risarcimento dovuto alla persona offesa».

Gli esiti dell’osservazione, normativamente preordinati alla definizione del programma individua-lizzato di trattamento ed alla presa d’atto del comportamento tenuto dal soggetto e delle modifiche in-tervenute nella sua vita di relazione al fine di eventuali rimodulazioni dello stesso nel corso del periodo detentivo, consentono, quindi, al Tribunale di Sorveglianza di appurare i primi passaggi del percorso di risocializzazione del condannato, in particolare sotto il profilo dell’intervenuto avvio del processo di rivisitazione critica del proprio passato delinquenziale. In tale prospettiva, ai fini del giudizio progno-stico demandato al Giudice della Sorveglianza, le risultanze acquisite 4 devono poter attestare non ap-pena l’assenza di pericolosità sociale del reo o la sua semplice adesione al trattamento, bensì gli esiti in chiave rieducativa del percorso trattamentale intrapreso dal detenuto 5.

1 C. cost., sent. 13 giugno 1985 n. 85, in Giur. cost., 1985, p. 1283. 2 Così, in motivazione, C. cost., ord. 19 luglio 2005, n. 296, in Cass. pen., 2005, 1406. Vedi altresì C. cost., sent. 29 ottobre 1987,

n. 343, in Cass. pen., 1988, p. 32. 3 In ordine a tali profili v. A. Presutti, sub art. 47 ord. penit., F. Della Casa-G. Giostra (a cura di) Ordinamento penitenziario

commentato, 5° ed., Padova, Cedam, 2015, p. 508 ss., nonché S. La Rocca, Affidamento in prova al servizio sociale, F. Fiorentin (a cura di), Misure alternative alla detenzione, Torino, Giappichelli, 2012, p. 86 ss.

4 Cfr. Cass., sez. I, 30 novembre 2015, n. 8319, in CED Cass., n. 266209, secondo la quale «il tribunale di sorveglianza ha l’onere di acquisire di ufficio la relazione sull’osservazione del condannato condotta in istituto, salvo che detta acquisizione ri-sulti superflua in quanto l’osservazione non riguardi un lasso di tempo consistente e il corredo di risultanze documentali in atti sia già di tale evidenza dimostrativa nell’attestare l’inidoneità della misura richiesta per l’accertata pericolosità del condannato, da non richiedere ulteriori approfondimenti». In senso conforme, tra le altre, Cass., sez. VII, 12 novembre 2013, n. 7724, in CED Cass., n. 261292.

5 In tal senso v. Cass., sez. I, 22 novembre 2000, n. 6680, in Cass. pen., 2002, p. 2492, la quale ha precisato che «ai fini della con-

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Nelle fattispecie di accesso alla misura alternativa che prescindono dalla previa osservazione della personalità condotta in istituto, la piattaforma cognitiva di riferimento è invece rappresentata dalla condotta serbata dal condannato dopo la commissione del reato 6, evincibile dalle informazioni di poli-zia, dalle pendenze penali e da tutte le informazioni riguardanti il contesto sociale e ambientale del reo, ricavabili, tra le altre cose, dalle relazioni dell’UEPE deputato a svolgere le indagini socio-familiari per l’applicazione delle misure di riferimento 7.

Del tutto peculiare, infine, si presenta la disposizione di più recente conio che, nel dilatare a quattro anni il limite di pena da espiare utile per accedere alla misura alternativa, incentra il giudizio progno-stico demandato al Tribunale di Sorveglianza sul comportamento serbato dal condannato nell’arco dell’anno antecedente alla presentazione dell’istanza di affidamento in stato di libertà, in esecuzione di una misura cautelare o in sede di espiazione della pena 8. L’attuale mancato coordinamento con la pre-visione codicistica che regolamenta il meccanismo di sospensione automatica della esecuzione della pena, riferendolo ai soli casi in cui la pena detentiva da scontare non superi i tre anni 9, impone, peral-tro, di ritenere che l’accesso a tale inedita misura sia consentito al solo condannato in stato di detenzio-ne, ciò implicando la necessità di ascrivere rilievo tanto al dato del comportamento serbato dal condan-nato – oggetto di esplicita previsione – quanto agli esiti dell’osservazione della personalità cui comun-que viene dato corso sin dal momento nel quale l’istante accede all’istituto penitenziario 10.

L’impianto normativo, in definitiva, identifica sia a livello di norma ordinaria sia in sede regolamen-tare le risultanze di riferimento e l’oggetto del giudizio prognostico demandato al Tribunale di Sorve-glianza, fornendo alcune indicazioni specifiche circa gli elementi che il medesimo deve prendere in considerazione, i quali sono stati nel tempo oggetto di ulteriore dettaglio in sede di elaborazione giuri-sprudenziale.

Sotto questo profilo si attribuisce specifico rilievo al necessario riscontro delle modalità di commis-

cessione delle misure alternative alla detenzione, né i precedenti penali, che pur rappresentano il punto di partenza per l’esame scientifico della personalità, né le informative di polizia sui trascorsi del condannato sono elementi sufficienti, da soli, a fondare un giudizio prognostico negativo circa il suo reinserimento nel contesto sociale, che deve essere affidato principalmente alla va-lutazione approfondita dei risultati emersi dall’osservazione della personalità, con particolare riferimento alla condotta intra-muraria e ad eventuali progressi conseguiti nel corso del trattamento».

6 La definizione testuale dell’arco temporale utile per l’osservazione extracarceraria «vale a superare parzialmente gli incon-venienti mediati dalla precedente versione della norma del 3° co. dell’art. 47 che lo ancorava alla irrevocabilità della sentenza di condanna. Si era osservato infatti come la riduzione del tempo intercorrente tra quel momento e l’esecuzione della condanna […] finisse per compromettere la rilevazione di dati comportamentali significativi ai fini della concessione della misura»: così A. Presutti, sub art. 47 ord. penit., cit., p. 522.

7 «Ai fini della concessione dell’affidamento in prova al servizio sociale e degli altri benefici penitenziari, non può essere tra-scurata la tipologia e la gravità dei reati commessi, ma si deve avere soprattutto riguardo al comportamento e alla situazione del soggetto dopo i fatti per i quali è stata inflitta la condanna in esecuzione, per verificare concretamente se sussistano, o non, sin-tomi di una positiva evoluzione della sua personalità e condizioni che ne rendano possibile il reinserimento sociale attraverso la richiesta misura alternativa»: così Cass., sez. I, 9 luglio 2009, n. 31809, in CED Cass., n. 244322. V. altresì S. La Rocca, Affidamento in prova al servizio sociale, cit., p. 135.

8 Cfr. E.A. Mancuso, Sovraffollamento carcerario e misure d’urgenza: un intervento su più fronti per avviare un nuovo corso, C. Con-ti-A. Marandola-G. Varraso (a cura di), Le nuove norme sulla giustizia penale, Padova, Cedam, 2014, p. 58, il quale evidenzia come «non è dato agevolmente comprendere, invero, se l’osservazione condotta collegialmente della personalità debba riguardare un lasso temporale annuale ovvero se, pur limitandosi a un periodo di verifica di un mese, possa essere effettuata nell’intero anno precedente la formulazione della richiesta di accesso all’affidamento allargato. Se, da un lato, s’è ritenuto che la prima lettura sia preferibile, poiché “è del tutto razionale che alla concessione di un beneficio più ampio corrisponda la garanzia di una osserva-zione più lunga e dunque più significativa”, d’altro canto […] la mancata specificazione delle coordinate pratiche di osservazio-ne – frutto di una tecnica normativa non inappuntabile – fa optare per una lettura che miri a salvaguardare e rendere in concre-to effettiva la nuova misura allargata».

9 Ancora E.A. Mancuso, Sovraffollamento carcerario e misure d’urgenza: un intervento su più fronti per avviare un nuovo corso, cit., p. 60.

10 «Più in particolare, mentre l’esito della osservazione personologica […] guida il giudice di sorveglianza nella prognosi cir-ca l’attitudine rieducativa del trattamento alternativo, il comportamento assunto dal condannato nell’arco temporale normati-vamente indicato orienta la sua valutazione circa la meritevolezza di un accesso anticipato alla misura. Con riguardo a tale spe-cifica valutazione verranno in considerazione indicatori differenziati in correlazione con il diverso status rivestito dal condanna-to nell’anno almeno antecedente alla richiesta, pertanto e appunto a seconda che il suo comportamento sia stato assunto in espiazione della pena (con inevitabile preponderanza del dato disciplinare), in esecuzione di una misura cautelare ovvero in libertà (con precipuo rilievo del comportamento osservante, rispettivamente, delle prescrizioni inerenti alla misura e delle rego-le sociali)»: così A. Presutti, sub art. 47 ord. penit., cit., p. 527.

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sione del reato oggetto di condanna e dei motivi a delinquere, degli ulteriori precedenti penali (soprat-tutto ove trattasi di reati della stessa indole) e delle pendenze giudiziarie, dati tutti destinati a confluire all’interno di una valutazione globale che tenga contestualmente conto degli esiti della osservazione della personalità del condannato 11 ovvero a surrogarne l’assenza nelle ipotesi di istanza di affidamento inoltrata da soggetto in libertà.

Oggetto di specifica considerazione risulta altresì la constatazione della evoluzione positiva della personalità del condannato sotto il profilo dell’avvio di un processo di revisione critica delle condotte per le quali è intervenuta condanna 12, nonché, secondo alcuni orientamenti giurisprudenziali, dell’ado-perarsi in favore della vittima del reato onde assicurare a quest’ultima il risarcimento dei danni subiti 13.

Resta comunque sullo sfondo l’evidenza di una valutazione di natura discrezionale che, per sua na-tura, non tollera automatismi in punto di accoglimento o rigetto dell’istanza di accesso alla misura al-ternativa a fronte del positivo o del mancato riscontro della specifica risultanza singolarmente conside-rata, dovendo al contrario il Giudice della Sorveglianza pervenire ad un giudizio prognostico da con-dursi inevitabilmente su base complessa 14.

LA DISPONIBILITÀ DI UN’ATTIVITÀ LAVORATIVA

L’esatta percezione della complessità della valutazione prognostica demandata al Giudice della Sor-veglianza ai fini della concessione dell’affidamento in prova consente di dirimere correttamente la pro-blematica della rilevanza che assume a tal fine la disponibilità di un’attività lavorativa in capo all’i-stante. L’evidente portata risocializzante di tale fattore e la sua idoneità a prevenire la reiterazione di condotte criminose ha determinato all’interno della magistratura di sorveglianza il delinearsi di un orientamento sovente teso a riconoscere al medesimo una portata dirimente ai fini dell’accoglimento o del rigetto dell’istanza di affidamento in prova.

Pertanto, in carenza di una concreta e documentata possibilità per il condannato di svolgere un’atti-

11 Cfr., ex plurimis, Cass., sez. I, 5 aprile 2013, n. 18437, in CED Cass., n. 255850; Cass., sez. I, 5 febbraio 2013, n. 11573, in CED Cass., n. 255362, nonché, in precedenza, Cass., sez. I, 6 marzo 2003, n. 15064, in Riv. pen., 2004, p. 120, secondo cui «ai fini dell’affidamento in prova al servizio sociale, i riferimenti alla gravità del reato commesso o ai precedenti penali e giudiziari del condannato o al comportamento da lui tenuto prima o dopo la custodia cautelare ben possono essere utilizzati come elementi che concorrono alla formazione del convincimento circa la praticabilità della misura alternativa. Ne consegue che il manteni-mento di una condotta positiva, anche in ambiente libero, non è di per sé determinante, soprattutto ove la condanna in espia-zione sia stata inflitta per reati di obiettiva gravità e sia inadeguato il periodo di carcerazione sofferto, ma deve essere valutato nell’ambito di un giudizio globale di tutti gli elementi emersi dalle indagini esperite e dalle informazioni assunte, che tenga an-che conto della progressività e gradualità dei risultati del trattamento e, conseguentemente, dell’eventuale previa esperienza di permessi-premio».

12 «In tema di affidamento in prova al servizio sociale, ai fini del giudizio prognostico in ordine alla realizzazione delle pro-spettive cui è finalizzato l’istituto, e, quindi, dell’accoglimento o del rigetto dell’istanza, non possono, di per sé, da soli, assume-re decisivo rilievo, in senso negativo, elementi quali la gravità del reato per cui è intervenuta condanna, i precedenti penali o la mancata ammissione di colpevolezza, né può richiedersi, in positivo, la prova che il soggetto abbia compiuto una completa revi-sione critica del proprio passato, essendo sufficiente che, dai risultati dell’osservazione della personalità, emerga che un siffatto processo critico sia stato almeno avviato»: così Cass., sez. I, 3 dicembre 2013, n. 773, in CED Cass., n. 258402.

13 A tal proposito v. Cass., sez. I, 25 settembre 2007, n. 39474, in Riv. pen., 2008, p. 825, secondo cui l’ingiustificata indisponibi-lità del condannato a risarcire la vittima del reato dei danni arrecatile costituisce elemento di segno negativo legittimamente va-lutabile dal tribunale per rifiutargli l’affidamento in prova al servizio sociale, non rilevando che il risarcimento dei danni non sia previsto dalla norma come condizione per la concessione della misura alternativa. Più di recente Cass., sez. I, 21 settembre 2016, n. 5981, in CED Cass., n. 269033, ha evidenziato che «dovendosi il giudizio prognostico richiesto dalla legge fondare sui risultati dell’osservazione del comportamento del condannato, è viziata l’ordinanza del tribunale di sorveglianza che respinga la richie-sta di applicazione della […] misura alternativa deducendo l’assenza di segni di ravvedimento esclusivamente dal mancato ri-sarcimento, anche solo parziale, del danno, omettendo di considerare le concrete condizioni economiche del reo».

14 Cfr. M. Bortolato, Le misure alternative tra prassi applicative ed esigenze di riforma, in Giur. it., 2016, p. 1527, il quale sottolinea come «la valutazione di tutti questi requisiti, quantunque in parte costruita su elementi tratti dalle scienze umane (psicologia e criminologia) e non rimessa a valutazioni di carattere intuitivo del giudice, resta sempre fondata su criteri di mera probabilità. Assume conseguentemente un’importanza fondamentale per il giudice da un lato poter accedere a elementi di fatto genuini e dall’altro poter contare sull’apporto qualificato dei tecnici, in primo luogo psicologi e criminologi (anche quali componenti ‘‘esperti’’ del Collegio), mentre le risorse di cui dispongono gli istituti penitenziari e gli uffici di esecuzione penale esterna sono del tutto insufficienti e ciò` si riflette, inutile dirlo, sulla qualità delle previsioni poste a fondamento delle principali decisioni in tema di benefici».

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vità lavorativa che possa assicurargli quanto necessario per il proprio sostentamento, la valutazione di idoneità della misura alternativa viene ritenuta compromessa in radice, al punto da elidere la portata delle ulteriori risultanze valutabili a tale fine. Tale approccio risulta tuttavia costantemente disatteso dalla giurisprudenza di legittimità consolidatasi sul punto ed alla quale si uniforma il principio di dirit-to esplicitato dalla pronuncia in commento 15. In particolare l’assenza di una qualunque indicazione normativa che ascriva valenza decisiva alla disponibilità di un’attività lavorativa impone di escludere che la stessa prefiguri un elemento indispensabile ai fini della concessione della misura alternativa, trat-tandosi, diversamente, di uno solo tra i fattori che può contribuire alla formazione del convincimento giurisdizionale, comunque surrogabile attraverso lo svolgimento di attività di tipo volontaristico 16.

Un tale approccio ermeneutico al dato normativo consente peraltro di superare quelle criticità in punto di accesso alla misura alternativa che, nella prassi giudiziaria, attingono in particolare i condan-nati appartenenti a categorie socialmente deboli che non dispongono di un’abitazione, di un lavoro o del supporto di persone che dall’esterno si adoperino in loro favore 17.

È comunque inevitabile che lo svolgimento di un’attività lavorativa indirizzi favorevolmente per l’istante l’apprezzamento della condotta posta in essere successivamente alla commissione del reato, nelle ipotesi di affidamento senza osservazione della personalità, così come, in prospettiva diversa, non può escludersi che le particolari modalità di espletamento dell’attività che il condannato già svolge pos-sano essere giudicate incompatibili con le esigenze di rieducazione sottese alla concessione della misura alternativa 18.

PROSPETTIVE DI RIFORMA

I termini del giudizio prognostico devoluto al giudice di sorveglianza ai fini della concessione dell’affidamento in prova potrebbero essere oggetto di rivisitazione in sede di attuazione dei principi e dei criteri direttivi dettagliati nell’art. 1, comma 85, della legge 23 giugno 2017 n. 103, finalizzati a veico-lare l’esercizio della delega per la riforma dell’ordinamento penitenziario conferita nel comma 82 del medesimo disposto normativo 19.

Ivi si prefigura in particolare, per quanto rileva in questa sede, la «b) revisione delle modalità e dei pre-supposti di accesso alle misure alternative, sia con riferimento ai presupposti soggettivi sia con riferimento ai limi-ti di pena, al fine di facilitare il ricorso alle stesse, salvo che per i casi di eccezionale gravità e pericolosità e in par-ticolare per le condanne per i delitti di mafia e terrorismo anche internazionale», la «c) revisione della disciplina concernente le procedure di accesso alle misure alternative, prevedendo che il limite di pena che impone la sospen-sione dell’ordine di esecuzione sia fissato in ogni caso a quattro anni e che il procedimento di sorveglianza garanti-sca il diritto alla presenza dell’interessato e la pubblicità dell’udienza», nonché la «d) previsione di una necessa-ria osservazione scientifica della personalità da condurre in libertà, stabilendone tempi, modalità e soggetti chia-mati a intervenire; integrazione delle previsioni sugli interventi degli uffici dell’esecuzione penale esterna; previ-sione di misure per rendere più efficace il sistema dei controlli, anche mediante il coinvolgimento della polizia pe-nitenziaria».

Il tenore delle suddette indicazioni, pur attribuendo ampio margine al legislatore delegato nell’ef-fettuazione delle scelte di dettaglio, in continuità con i più recenti progetti di riforma e con i lavori degli Stati Generali sull’Esecuzione Penale 20 evidenzia l’intento del delegante di favorire l’accesso alle misure alternative implementando gli strumenti a disposizione del giudice procedente ai fini della formulazio-

15 Ex plurimis v. Cass., sez. I, 22 settembre 2014, n. 43390, in CED Cass., n. 260723, ad avviso della quale «l’art. 666, c. 2 c.p.p. – nel prevedere la possibilità di dichiarare “de plano” l’inammissibilità della richiesta, quando la stessa sia manifestamente in-fondata per difetto delle condizioni di legge – non è applicabile in tema di affidamento in prova al servizio sociale, nel caso in cui il richiedente non abbia allegato un’attività di lavoro, non rientrando tale elemento tra le condizioni richieste dalla legge per la concessione del beneficio in esame e dovendosi valutare la mancanza di un’occupazione stabile unitamente agli altri elementi riguardanti la personalità del richiedente».

16 Cass., sez. I, 26 febbraio 2013, n. 18939, in CED Cass., n. 256024. 17 M. Bortolato, Le misure alternative tra prassi applicative ed esigenze di riforma, cit., p. 1527. 18 Cass., sez. I, 9 maggio 1994, n. 2126, in Cass. pen., 1995, p. 3527. 19 Per un primo commento v. F. Fiorentin, Ampio accesso a misure alternative, ma il 41-bis resta fuori, in Guida dir., 2017, 32, p. 74. 20 Cfr. M. Bortolato, Le misure alternative tra prassi applicative ed esigenze di riforma, cit., p. 1529.

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ne delle valutazioni allo stesso demandate, senza vincolare queste ultime al doveroso rispetto di para-metri che possano ridurre il giudizio prognostico al mero riscontro di uno o più presupposti preventi-vamente tipizzati, rendendolo magari suscettibile di censura dinanzi al giudice di legittimità sotto il profilo della violazione di legge.

In questo quadro, anche le prime proposte di attuazione dei suddetti principi 21, pur tese a delineare in maniera inequivoca i presupposti per la concessione della misura alternativa superando «la costru-zione “circolare” e ambigua dell’attuale disciplina per meglio tratteggiare le componenti della prognosi di proficuità e affidabilità dell’esecuzione in ambiente esterno, avendo riguardo alle esigenze di pre-venzione speciale positiva e negativa» 22 rimandano, comunque, all’indefettibile apprezzamento di una pluralità di elementi che impongono al Giudice della Sorveglianza un impegno valutativo incompatibi-le con apprezzamenti sbrigativi e superficiali legati al mero riscontro di un elemento come la disponibi-lità di un’attività lavorativa, suscettibile, peraltro, di surroga attraverso l’imposizione di prescrizioni al-ternative idonee a garantire il raggiungimento degli obiettivi rieducativi di matrice costituzionale.

21 Cfr. S. Carnevale, Revisione dei presupposti e delle modalità di accesso alle misure alternative: l’affidamento in prova, G. Giostra-P. Bronzo (a cura di), Proposte per l’attuazione della delega penitenziaria, 91, reperibile sul sito www.penalecontemporaneo.it, la quale, per quanto rileva in questa sede, propone una riscrittura dei commi 2 e 3 dell’art. 47 ord. penit. nei termini di seguito riportati: «2. L’affidamento in prova è concesso quando il giudice ritiene che l’osservanza delle prescrizioni di cui ai commi 5, 6, 7 e 7-bis possa favorire un corretto e responsabile inserimento sociale del condannato, una adeguata riparazione delle conseguenze dan-nose o pericolose della sua condotta e sia sufficiente a prevenire il pericolo di fuga o di commissione di altri reati. 3. La prognosi di cui al comma 2 è effettuata avendo riguardo al comportamento serbato dopo la commissione del reato e all’effettiva disponi-bilità del condannato ad aderire al percorso rieducativo proposto. Il provvedimento è adottato anche sulla base dei risultati del-la osservazione della personalità, condotta collegialmente per almeno un mese in libertà o in istituto».

22 Così S. Carnevale, Revisione dei presupposti e delle modalità di accesso alle misure alternative: l’affidamento in prova, cit., p. 93, la quale precisa altresì che «La determinazione normativa dei presupposti è tesa a facilitare il giudizio sulla concessione della mi-sura e a palesarne le finalità, oggi velate da un dettato normativo sfuggente. La valutazione sulla capacità di rispettare i vincoli imposti, sulla loro efficienza rieducativa rispetto alle specificità del richiedente, sull’idoneità riparatoria e “contenitiva” della misura è espletata guardando sia al comportamento passato che alla disponibilità al cambiamento mostrata dal condannato. La prognosi andrà compiuta con riguardo al possibile assetto delle prescrizioni, che la proposta, anche a questo fine, si prefigge di ampliare».

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DIBATTITI TRA NORME E PRASSI | LA RIFORMA ORLANDO: PROFILI DI DIRITTO PENALE SOSTANZIALE

Processo penale e giustizia n. 6 | 2017

Dibattiti tra norme e prassi

Debates: Law and Praxis

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Processo penale e giustizia n. 6 | 2017 1057

 

DIBATTITI TRA NORME E PRASSI | LA RIFORMA ORLANDO: PROFILI DI DIRITTO PENALE SOSTANZIALE

ENRICO MARIO AMBROSETTI

Professore ordinario di diritto penale – Università degli Studi di Padova

La riforma Orlando: profili di diritto penale sostanziale The Orlando reform: aspects of substantive criminal law

Nell’articolo vengono esaminati i principali aspetti di diritto penale sostanziale della riforma Orlando. In prima bat-tuta, vengono analizzate la nuova disciplina in materia di prescrizione del reato, la causa di estinzione del reato per la riparazione del danno (art. 162-ter c.p.) e le modifiche di pena per alcuni delitti. Successivamente, sono conside-rati i principi della legge delega in materia di misure di sicurezza personali e altri istituti di diritto penale. The essay analyzes the principle aspects of substantive criminal law relating the Orlando reform: at first, the new statute of limitation in criminal law, the cause of extinction of the crime because of the restoration of the damage (art. 162-ter Criminal Code) and the modifications of penalties concerning some crimes. Later, are analyzed the principles of the act of delegation to the Government in the field of personal security measures and other institu-tions of criminal law.

LA RIFORMA ORLANDO: CENNI INTRODUTTIVI

In data 14 giugno 2017 è stato approvato il disegno di legge di iniziativa governativa dal titolo “mo-difiche al codice penale, al codice di procedura penale e all’ordinamento penitenziario”. La l. 23 giugno 2017, n. 103, comunemente chiamata “riforma Orlando” dal nome del ministro proponente, è stata pubblicata in Gazzetta Ufficiale il 4 luglio ed è entrata in vigore il successivo 3 agosto.

Per quanto attiene alla parte di diritto penale sostanziale essa può essere divisa nelle seguenti sezio-ni. La prima e più importante è quella dedicata a una parziale riforma delle disposizioni del codice pe-nale relative alla disciplina della prescrizione del reato. La seconda è rappresentata dall’introduzione nel codice penale dell’art. 162-ter. La norma prevede una nuova causa di estinzione del reato, limitata ai casi di procedibilità a querela soggetta a remissione, conseguente al risarcimento del danno. La terza riguarda il regime sanzionatorio di alcune fattispecie delittuose. Questo ultimo intervento del legislato-re si muove nella prospettiva di un incremento delle pene, in particolare ritoccando verso l’alto i mini-mi edittali ovvero inserendo limiti al potere di bilanciamento giudiziale delle circostanze 1.

Nella legge sono, inoltre, previste alcune deleghe al Governo per la riforma di altri settori del diritto penale e dell’ordinamento penitenziario. La prima riguarda la riformulazione del regime della procedi-bilità a querela esteso ad altri reati. Inoltre, il Governo viene demandato ad intervenire sulla disciplina delle misure di sicurezza personali, eliminando il sistema del doppio binario nei confronti dei soggetti imputabili. Ulteriori deleghe sono relative al riordino del casellario giudiziale e dell’ordinamento peni-tenziario 2.

1 Per un quadro generale delle modifiche intervenute si rinvia a A. Giarda-G. Spangher, Riforma Orlando (appendice), in A. Giarda-G. Spangher (a cura di), Codice di procedura penale commentato, III, Milano, Ipsoa, 2017, p. 3464 ss.; S. Zirulia, Riforma or-lando: la “nuova” prescrizione e le altre modifiche al codice penale, in www.penalecontemporaneo.it, 20 giugno 2017; D. Pulitanò, DDL n. 2067: sulle proposte di modifica al codice penale e all’ordinamento penitenziario, in www.giurisprudenzapenale.com; E. Marzaduri, Un intervento dal contenuto ampio ma non sistemico, in Guida dir., 2017, 31, p. 84 ss.; F. Amato, Adesso l’imputato può cancellare la sua condotta illecita, in Guida dir., 2017, 31, p. 95.

2 Con specifico riferimento alla legge delega si veda A. Della Bella, Riforma Orlando: la delega in materia di ordinamento peniten-ziario, in www.penalecontemporaneo.it, 20 giugno 2017.

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Come si avrà modo di illustrare nei seguenti paragrafi, anche per quanto attiene alla parte di diritto sostanziale, sono pienamente condivisibili i rilievi critici mossi alla legge Orlando relativamente alle modifiche in materia processuale. Riprendendo il severo giudizio di Luca Marafioti si può tranquilla-mente affermare che «siamo di fronte, infatti, ad un provvedimento-zibaldone … impegnativo individuare, an-corché a primissima lettura, lo spirito che lo anima. La normativa in discorso spazia su temi così diversificati della giustizia penale, da proporsi difficilmente quale organica novella» 3.

Il vero è che le modifiche apportate alle norme di diritto penale rispondono – principalmente – alle ormai radicate spinte giustizialiste che sono presenti in buona parte dell’opinione pubblica e del mondo parlamentare. Questo è confermato dalle modifiche al regime della prescrizione e dalle nuove pene sancite per alcuni delitti. Paradigmatico in tal senso è l’ennesimo inasprimento sanzionatorio per il de-litto di cui all’art. 624-bis c.p. Con la riforma Orlando il minimo edittale per il furto in abitazione viene portato a 3 anni. È sufficiente fare un confronto con l’omologa fattispecie dello StGB tedesco – Wohnun-geinbruchdiebstahl –, per la quale al § 244 viene prevista una pena minima di sei mesi –, per comprende-re il manifesto deficit di ragionevolezza nel livello sanzionatorio introdotto con la recente novella.

Sotto questo profilo la riforma Orlando è in linea con la legge ex-Cirielli nel riproporre quella “Spa-ghetti Incapacitation” che ha contraddistinto la politica criminale dell’ultimo ventennio 4. Sicuramente più positivo è, invece, il giudizio relativo all’introduzione dell’art. 162-ter c.p. e alle parti della legge-delega che, qualora attuate dal Governo, recepirebbero istanze di riforma da molto tempo sollevate dal-la dottrina penalistica.

LE MODIFICHE IN TEMA DI PRESCRIZIONE DEL REATO

La parte più importante della riforma Orlando riguarda le modifiche in tema di prescrizione del rea-to. Come è noto, dal 2005 ad oggi non vi è stato un dibattito sulla crisi del sistema penale italiano che non abbia messo sul banco dei principali imputati il regime della prescrizione così come disciplinato dalla c.d. legge ex-Cirielli. In effetti, è doveroso riconoscere che vi sono stati effetti abnormi derivanti dalla vigente normativa. E ciò in quanto la riduzione dei termini prescrizionali per alcuni reati ha reso estremamente difficile un accertamento giudiziale prima del maturarsi del termine previsto all’art. 157 c.p. Non a caso il legislatore – a distanza di pochi anni – si è visto costretto a procedere a interventi no-vellistici, che hanno prolungato i termini prescrizionali, inserendo all’art. 157, co. 6 c.p. ulteriori catego-rie di reati per i quali vale il raddoppio dei termini.

A fronte del quadro delineato è stato inevitabile che si sia aperta una vivace discussione in ordine al-le prospettive di riforma dell’istituto. Dopo lavori parlamentari lunghi e travagliati e solo ricorrendo all’istituto della “fiducia”, il Governo è riuscito ad ottenere l’approvazione definitiva del disegno di legge. Lo spirito della novella – va subito detto – è quello di limitare le dichiarazioni giudiziali di pre-scrizione del reato. Questo obiettivo viene ottenuto attraverso due diverse forme di intervento. Per un verso, in linea con gli ultimi provvedimenti in materia, si detta un regime peculiare di prescrizione per alcuni reati considerati degni di “allarme sociale”. In questo caso, però, non si opera sulla durata del termine prescrizionale – come fatto in alcune recenti riforme – ma sulla disciplina dell’art. 161 c.p. Vie-ne infatti previsto che per alcuni delitti contro la pubblica amministrazione (artt. 318, 319, 319-ter, 319-quater, 320, 321, 322-bis, limitatamente ai delitti richiamati dal presente comma) e per il delitto di cui all’art. 640-bis l’effetto interruttivo comporta un aumento massimo della metà e non di un quarto.

Peraltro, la principale novità della riforma Orlando è rappresentata dall’introduzione all’art. 159 c.p. di nuovi periodi di sospensione del decorso della prescrizione. In particolare, viene previsto che «il cor-so della prescrizione rimane altresì sospeso nei seguenti casi: 1) dal termine previsto dall’articolo 544 del codice di procedura penale per il deposito della motivazione della sentenza di condanna di primo grado, anche se emessa in sede di rinvio, sino alla pronuncia del dispositivo della sentenza che definisce il grado successivo di giudizio, per un tempo comunque non superiore a un anno e sei mesi; 2) dal termine previsto dall’articolo 544 del codice di pro-

3 L. Marafioti, Riforme-zibaldone, legislazione “giurisprudenziale” e gestione della prassi processuale, in questa Rivista, 2017, p. 553. 4 Si richiama il titolo di uno scritto di M. Pavarini, The spaghetti incapacitation. La nuova disciplina della recidiva, in G. Insolera

(a cura di), La legislazione penale compulsiva, Padova, Cedam, 2006, p. 27 ss. Lo studioso bolognese faceva riferimento ai film ita-liani chiamati “spaghetti western” – in quanto imitazione di quelli americani – per segnalare che la politica criminale italiana – attuata con la legge ex-Cirielli – è una cattiva imitazione di quella statunitense in tema di recidivism.

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cedura penale per il deposito della motivazione della sentenza di condanna di secondo grado, anche se emessa in sede di rinvio, sino alla pronuncia del dispositivo della sentenza definitiva, per un tempo comunque non superiore a un anno e sei mesi» 5.

In buona sostanza, la riforma Orlando ha seguito una strada diversa rispetto a quella tradizionale. Non viene cioè operato un “ritocco” verso l’alto o verso il basso dei termini prescrizionali, ma viene in-trodotto un periodo di sospensione del decorso della prescrizione – un anno e sei mesi – che si colloca dopo la sentenza di primo grado e poi quella di appello. Questo significa che l’aumento dei termini prescrizionali è solamente eventuale, rimanendo condizionato al fatto che al momento dello spirare del termine previsto all’art. 157 c.p. non sia ancora intervenuta una sentenza di condanna in sede di giudi-zio di primo grado. Ricorrendo ad un facile esempio, per il delitto di truffa il termine prescrizionale re-sta di sei anni, ai quali va aggiunto un ulteriore periodo di anni uno e mesi sei in presenza di atti inter-ruttivi. Pertanto, solamente nel caso in cui intervenga una sentenza di condanna prima di sette anni e sei mesi dalla consumazione dell’illecito (tenendo conto di precedenti atti interruttivi), può operare il periodo di sospensione. In tale caso, il termine prescrizionale viene sospeso e comincia a decorrere do-po un anno e sei mesi. Dal quel momento riprende il decorso che non potrà, in ogni caso, superare il termine massimo previsto in caso di interruzione ai sensi dell’art. 161 c.p. (sette anni e sei mesi nel caso di truffa). Inoltre, un secondo eventuale periodo di sospensione di un anno e sei mesi potrà essere ope-rativo nel caso in cui la sentenza di secondo grado non intervenga prima dello spirare del termine pre-scrizionale.

In ultima analisi, come si evince da questa esemplificazione, all’esito della modifica dell’art. 159 c.p. non è, quindi, più possibile indicare in via astratta il termine massimo prescrizionale in quanto esso è variabile e dipende dallo svolgimento del processo e dai conseguenti tempi legati ai due periodi di so-spensione successivi alle pronunce di primo e secondo grado 6.

Nel nuovo art. 159 c.p. viene, inoltre, precisato che «i periodi di sospensione di cui al secondo comma sono computati ai fini della determinazione del tempo necessario a prescrivere dopo che la sentenza del grado successivo ha prosciolto l’imputato ovvero ha annullato la sentenza di condanna nella parte relativa all’accertamento della responsabilità o ne ha dichiarato la nullità ai sensi dell’articolo 604, commi 1, 4 e 5-bis, del codice di procedura penale». Questo significa che è prevista una “causa sopravvenuta di perdita dell’efficacia sospensiva”. In altre parole, nel caso di una sentenza di riforma in grado di appello o di cassazione favorevole all’im-putato, viene meno il periodo di sospensione del decorso prescrizionale.

Si è stabilito nel nuovo art. 159 c.p. che «se durante i termini di sospensione di cui al secondo comma si ve-rifica un’ulteriore causa di sospensione di cui al primo comma, i termini sono prolungati per il periodo corrispon-dente». Meno significative sono le ulteriori modifiche all’art. 159 c.p. in quanto il legislatore si è limitato a stabilire, da un lato, che l’effetto sospensivo dell’autorizzazione a procedere opera dalla data del provvedimento con cui il pubblico ministero presenta la richiesta sino al giorno in cui l’autorità compe-tente la accoglie e, dall’altro, che la sospensione, derivante dal deferimento della questione ad altro giudi-zio, vale sino al giorno in cui viene decisa la questione. È stata poi introdotta una nuova causa di sospen-sione – art. 159, comma 3-ter – per le rogatorie all’estero. In questa ipotesi, la sospensione opera dalla data del provvedimento che dispone una rogatoria sino al giorno in cui l’autorità richiedente riceve la docu-mentazione richiesta, o comunque decorsi sei mesi dal provvedimento che dispone la rogatoria.

Passando ad un ulteriore aspetto della riforma in tema di prescrizione, va segnalato che all’art. 160 c.p. – colmando una lacuna legislativa – si è inserito fra gli atti interruttivi anche l’interrogatorio reso davanti la polizia giudiziaria, su delega del pubblico ministero.

Da ultimo, vanno sottolineate due importanti modifiche. La prima concerne il dies a quo da cui de-corre il termine prescrizionale: per i reati previsti dall’articolo 392, comma 1-bis, c.p.p. (delitti contro la libertà sessuale e la personalità individuale, stalking e maltrattamenti), se commessi nei confronti di mi-nore, il termine della prescrizione decorre dal compimento del diciottesimo anno di età della persona offesa, salvo che l’azione penale sia stata esercitata precedentemente. In quest’ultimo caso il termine di

5 Per un commento del nuovo regime delle sospensioni, si veda E. Sacchettini, Prescrizione penale, cambiano le modalità delle so-spensioni, in Guida dir., 2017, 31, p. 99 ss.; Id., Da valutare gli effetti delle nuove interruzioni sul nuovo processo civile, in Guida dir., 2017, 31, p. 103 ss.

6 Dal punto di vista procedimentale, va rilevato che tale ipotesi di sospensione non sembra trovare applicazione né al proce-dimento per decreto penale, né alla sentenza di patteggiamento (A. Giarda-G. Spangher, Riforma Orlando (appendice), cit., p. 3476).

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prescrizione decorre dall’acquisizione della notizia di reato. Si tratta di un cambiamento ragionevole e in linea con il dettato della Convenzione del Consiglio di Europa sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza, nota come “Convenzione di Istanbul” 7. In effetti, l’accertamento di reati contro il minore è particolarmente difficile in quanto condizionato dalla presa di coscienza della vittima di quello che ha subito. Va da sé che, essendo questo processo di elaborazione – nella maggior parte delle volte – molto tormentato, la notitia criminis è temporalmente molto lontana dal momento di commissione del reato.

La seconda attiene alla disciplina degli effetti interruttivi e sospensivi della prescrizione nel caso di concorso di persone nel reato. Inalterato resta all’art. 161 c.p. l’effetto interruttivo per tutti i concorrenti nel reato. Per contro, si è introdotta la regola che la sospensione della prescrizione ha effetto limitata-mente agli imputati nei cui confronti si sta procedendo.

Un breve cenno finale riguarda gli aspetti di diritto intertemporale. Il legislatore ha ritenuto di preci-sare che le modifiche si applicano solamente ai fatti commessi dopo l’entrata in vigore della legge. La norma può apparire superflua in quanto la prescrizione è stata tradizionalmente qualificata come un istituto di natura sostanziale 8. Pertanto, allineandosi a tale consolidata posizione, ne consegue che ogni intervento “peggiorativo” sul regime della prescrizione ricadente sul “passato” si porrebbe in contrasto con il principio di legalità ed in specie con il suo corollario del divieto di retroattività della norma sfa-vorevole per il reo 9. Ciò premesso, i mutamenti apportati dalla riforma Orlando hanno tutti – con ecce-zione della modifica all’art. 161 c.p. relativa all’effetto sospensivo per i concorrenti nel reato – natura peggiorativa. Conseguentemente, non possono avere applicazione retroattiva. Tuttavia, tenuto conto della confusione provocata dalla c.d. sentenza Taricco, non è stato forse inopportuno ribadire il princi-pio che le norme sfavorevoli in tema di prescrizione si applicano solo per il futuro.

Spostandoci sul piano politico criminale, va ora formulata una valutazione complessiva su questa controversa riforma. Questo giudizio deve fondarsi necessariamente su due aspetti che molto spesso nell’ambito della discussione sulla necessità della riforma della prescrizione sono stati tralasciati. Il primo è quello delle indagini di statistica giudiziaria relative al fenomeno. Al riguardo, si può avere un quadro particolarmente aggiornato dal momento che il Ministro della Giustizia ha pubblicato in data 7 maggio 2016 l’analisi statistica dell’istituto della prescrizione in Italia 10. I dati sono sicuramente interes-santi perché manifestano una situazione molto diversa da quella normalmente delineata in via mediati-ca. Innanzitutto, nell’ultimo decennio il trend storico delle sentenze con dichiarazione di prescrizione è in deciso calo: da 213.774 del 2004 (anno antecedente alla riforma della c.d. ex-Cirielli) a 132.296 del 2014. Ed anche l’incidenza delle sentenze di prescrizione sul numero complessivo di procedimenti de-finiti è in sensibile diminuzione: da una percentuale del 14,69 del 2004 si è giunti a quella del 9,48. Per correttezza, va segnalato che nell’ultimo biennio 2013-2014 vi è stato un aumento dei casi di prescrizio-ne, senza peraltro che ci si avvicini ai dati precedenti alla riforma del 2005, che restano di gran lunga superiori. Da queste statistiche ufficiali si delinea, pertanto, che non esiste in Italia alcuna “emergenza”

7 L’art. 58 (Prescrizione) della Convenzione di Istanbul dell’11 maggio 2011 stabilisce che «le Parti adottano le misure legislative e di altro tipo necessarie per garantire che il termine di prescrizione per intentare un’azione penale relativa ai reati di cui agli articoli 36, 37, 38 e 39 della presente Convenzione sia prolungato per un tempo sufficiente e proporzionale alla gravità del reato, per consentire alla vittima minore di vedere perseguito il reato dopo avere raggiunto la maggiore età» (al riguardo, si veda E. Sacchettini, Prescrizione penale, cam-biano le modalità delle sospensioni, cit., p. 100).

8 Sul punto, si veda per tutti E.M. Ambrosetti, La legge penale nel tempo, in M. Ronco-E.M. Ambrosetti-M. Mezzetti, La legge penale. Fonti, tempo, spazio, persone, Bologna, Zanichelli, 2016, p. 320 ss.

9 Una piena conferma della tesi qui sostenuta viene dalla giurisprudenza della Corte Costituzionale, la quale ha sempre ri-badito l’inquadramento della prescrizione come istituto di natura sostanziale con conseguente assoggettamento al divieto di retroattività della normativa più sfavorevole ai sensi dell’art. 25, comma 2, Cost. Nell’ambito di questa giurisprudenza si veda-no le fondamentali pronunce della C. Cost., sent. 23 novembre 2006, n. 393, in Cass. pen., 2007, p. 419, con nota di E.M. Ambro-setti, La nuova disciplina della prescrizione: un primo passo verso la «costituzionalizzazione» del principio di retroattività delle norme pena-li favorevoli al reo, e O. Mazza, Il diritto intertemporale (ir)ragionevole (a proposito della legge ex Cirielli) e C. Cost., ord. 26 gennaio 2017, n. 24, in Cass. pen., 2017, p. 1334 ss. Quest’ultima è la nota e fondamentale pronuncia relativa al caso Taricco (al riguardo, mi permetto di rinviare a E.M. Ambrosetti, La sentenza della C. Giust. UE in tema di disapplicazione dei termini di prescrizione: me-dioevo prossimo venturo?, in questa Rivista, 2016, 1, p. 44 ss. e La riforma della prescrizione del reato tra progetti legislativi e alternative giudiziarie, in Arch. pen., 2016, p. 377 ss.).

10 I dati sono stati presentati il 7 maggio 2016 dal Ministro della Giustizia Andrea Orlando con una conferenza stampa e sono pubblicati nel sito del ministero www.giustizia.it nel quotidiano telematico giustizia news online (www.giustizia.it/giustizia/ it/mg_6.wp).

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con riguardo al fenomeno della prescrizione. Ma l’aspetto più interessante – nella prospettiva della ri-forma dell’istituto – attiene all’analisi statistica della prescrizione per fasi di procedimento. Dalle tabelle del Ministero di Giustizia risulta che solamente l’1% delle prescrizioni viene dichiarata in Cassazione, il 18% in sede di giudizio di appello, il 18% in sede di giudizio di primo grado, l’1% davanti il giudice di Pace e il restante 62% nel corso delle indagini preliminari e dell’udienza preliminare. I dati sono illumi-nanti. Emerge, infatti, con assoluta chiarezza che il fenomeno della prescrizione si realizza in modo si-gnificativo nella fase preprocessuale, e cioè nel momento delle indagini preliminari. Preso atto di questa circostanza, è giocoforza concludere che la riforma dell’istituto non avrà un’incidenza significativa sul fenomeno della prescrizione. E ciò perché il prolungamento dei termini potrà riguardare solamente quella percentuale del 19% delle prescrizioni che viene dichiarata in sede di Appello e di Cassazione. In ultima analisi, sotto questo primo profilo, la riforma poco o nulla sposterà sul piano delle dichiarazioni di prescrizione, allungando peraltro inevitabilmente i tempi di giudizio in fase di appello e cassazione.

Sotto un secondo e diverso aspetto si deve porre il problema se la riforma sia in linea con la ratio dell’istituto. A tale proposito, la risposta non può che essere negativa. La rinuncia alla pretesa punitiva da parte dello Stato che si manifesta con una sentenza di non doversi procedere per prescrizione non si giustifica solamente perché trascorso un certo tempo viene meno l’allarme sociale per un determinato episodio delittuoso. Come è stato anche recentemente ricordato, non è solamente in un’ottica di pre-venzione generale che va individuato il fondamento dell’istituto. «È soprattutto dalla lettura dell’art. 27, co. 3, che si desume che una condanna tardiva rischierebbe di essere costituzionalmente disarmonica; e addirittura illegittima la norma che lo consentisse» 11. Alla luce di questi esatti rilievi, si può affermare che una riforma della prescrizione ispirata ad un generale prolungamento dei termini si pone in contrasto con una vi-sione di politica criminale ispirata alla finalità rieducativa della pena, così come imposta dalla Carta Costituzionale. Un esempio può meglio chiarire tale assunto. Secondo la precedente disciplina dell’art. 157 c.p. una bancarotta prefallimentare con condotte di distrazione patrimoniale comportanti un danno patrimoniale grave, punita ai sensi degli artt. 216 e 219, comma 1, l. fall., già si prescriveva – in presenza di atti interruttivi – in 18 anni e nove mesi, decorrenti, per di più, non dalla realizzazione delle condotte ma dalla successiva dichiarazione di fallimento. E questo regime di rigore valeva per molti altri reati, dall’omicidio stradale a quelli a tutela della pubblica amministrazione. Ebbene, in forza della nuova di-sciplina, si può giungere oggi a più di venti anni di termine prescrizionale per alcune categorie di illeci-ti. In alcuni casi, si giungerebbe perciò a risultati irragionevoli sul piano della funzione della pena. A questo punto, non resta che concludere che alla riforma della prescrizione al Parlamento ben si confà il detto “peggio la medicina della malattia”.

L’INASPRIMENTO DEL TRATTAMENTO SANZIONATORIO IN TEMA DI VOTO DI SCAMBIO POLITICO-MAFIOSO, FURTO, RAPINA E ESTORSIONE

Gli interventi operati dal legislatore relativi ai delitti di voto di scambio politico-mafioso, furto in abitazione o con strappo e aggravato, rapina e estorsione sono tutti nel senso di rendere più gravoso il regime di pena 12. Per quanto attiene al reato di cui all’art. 416-ter c.p. si è proceduto ad un aumento di pena sia del minimo, sia del massimo edittale. Il delitto è oggi punito con la reclusione da sei a dodici anni, mentre prima la pena era da quattro a dieci anni.

Più articolati sono gli interventi in materia di furto in abitazione o con strappo e furto aggravato. La pena per il delitto di cui all’art. 624-bis c.p. è stata elevata nel minimo da uno a tre anni e la multa previ-sta da euro 927 a euro 1.500. Parimenti è stato aumentato il minimo edittale e per ipotesi aggravate pre-viste al comma 3, passando da tre a quatto anni. La multa è oggi prevista da euro 927 a euro 2.000. È stata, inoltre, inserita una deroga al potere di bilanciamento giudiziale delle circostanze ex art. 69 c.p. Il nuovo 4° comma dell’art. 624-bis stabilisce che «le circostanze attenuanti, diverse da quelle previste dagli ar-ticoli 98 e 625-bis, concorrenti con una o più delle circostanze aggravanti di cui all’articolo 625, non possono esse-re ritenute equivalenti o prevalenti rispetto a queste e le diminuzioni di pena si operano sulla quantità della stessa

11 Testualmente, B. Romano, Prescrizione del reato e ragionevole durata del processo: principi di diritto o ostacoli da abbattere?, in G. Cocco (a cura di), Per un manifesto del neoilluminismo penale (Tratto breve di diritto penale. Temi contemporanei), Padova, Cedam, 2016, p. 125.

12 Al riguardo, R. Bricchetti, Reclusione più lunga per voto di scambio, furti e rapine, in Guida dir., 2017, 32, p. 10 ss.

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risultante dall’aumento conseguente alle predette circostanze aggravanti». Infine, si è stabilito un aumento del minimo edittale per le ipotesi aggravate di cui all’art. 625 c.p., portandolo da uno a due anni di reclu-sione e inserendo la pena pecuniaria della multa che ora va da euro 927 a euro 1.500.

Per quanto riguarda le modifiche apportate alla disciplina degli art. 624-bis e 625 c.p. non si può che ribadire quanto rilevato nel primo paragrafo, e cioè che l’innalzamento del minimo edittale appare ec-cessivo e irragionevole. Profili di illegittimità costituzionale sembrano poi porsi in modo anche più evi-dente con riguardo al divieto di bilanciamento delle circostanze. È infatti da ricordare che la Corte Co-stituzionale nel corso degli ultimi anni è più volte intervenuta, dichiarando l’illegittimità dell’art. 69, comma 4, c.p. nella parte in cui esclude il giudizio di prevalenza di alcune circostanze attenuanti con-correnti con la recidiva reiterata 13. Anche la nuova norma pare presentare profili di ortodossia costitu-zionale nella parte in cui impedisce al giudice di bilanciare con le aggravanti circostanze attenuanti che diminuiscono il disvalore della condotta del reo. Si pensi al caso di un furto in abitazione aggravato dalla violenza sulle cose. All’esito della riforma, anche in presenza delle attenuanti di cui all’art. 62, nn. 4 e 6, c.p. (speciale tenuità e integrale risarcimento del danno) e dell’art. 62-bis, la pena minima non po-trà essere inferiore a quattro anni di reclusione. Sanzione che nell’esempio prospettato non pare pro-porzionata al disvalore del fatto concreto.

Analoghe considerazioni valgono anche per le modifiche apportate in tema di rapina e estorsione. La pena della rapina semplice e aggravata è stata elevata nel minimo e nella pena pecuniaria: rispetti-vamente, reclusione da quattro a dieci anni e multa da euro 927 a euro 2.500 e reclusione da cinque a venti anni e multa da euro 1.290 a euro 3.098. È stata, inoltre, introdotta una speciale disciplina relativa al trattamento sanzionatorio nel caso di concorso fra due o più circostanze di cui al 3° comma del pre-sente articolo, o di concorso con altre fra quelle indicate nell’articolo 61. In tale ipotesi, la pena è della reclusione da sei a venti anni e della multa da euro 1.538 a euro 3.098. Infine, è stato aumentato anche il minimo edittale per l’estorsione aggravata ai sensi dell’art. 629, comma 2, c.p.: reclusione da sette a ven-ti anni.

L’ART 162-TER (ESTINZIONE DEL REATO PER CONDOTTE RIPARATORIE)

L’ultima novità in materia di diritto penale sostanziale apportata dalla riforma Orlando è l’in-serimento nel codice penale dell’art. 162-ter (Estinzione del reato per condotte riparatorie). La norma stabilisce che nei casi di procedibilità a querela soggetta a remissione, il giudice dichiara estinto il reato, sentite le parti e la persona offesa, quando l’imputato ha riparato interamente, entro il termine massimo della dichiarazione di apertura del dibattimento di primo grado, il danno cagionato dal reato, mediante le restituzioni o il risarcimento, e ha eliminato, ove possibile, le conseguenze dannose o pericolose del reato.

La norma si inserisce nella recente tendenza legislativa volta a dare alle condotte riparatorie valenza estintiva del reato 14. Un antecedente dell’art. 162-ter può rinvenirsi, infatti, nell’art. 35 d.lgs. 28 agosto 2000, n. 274 (Estinzione del reato conseguente a condotte riparatorie) relativo al procedimento avanti al giudice di pace. Il tenore delle norme è quasi identico in quanto l’art. 35 d.lgs. n. 274 del 2000 prevede che «il giudice di pace, sentite le parti e l’eventuale persona offesa, dichiara con sentenza estinto il reato, enun-ciandone la causa nel dispositivo, quando l’imputato dimostra di aver proceduto, prima dell’udienza di compari-zione, alla riparazione del danno cagionato dal reato, mediante le restituzioni o il risarcimento, e di aver eliminato le conseguenze dannose o pericolose del reato».

Il presupposto per l’applicazione dell’art. 162-ter c.p. è che il delitto sia perseguibile a querela e che questa non sia irretrattabile. Come noto, peraltro, i casi di irrevocabilità della querela sono estremamen-te limitati e sono previsti agli artt. 609-septies (delitti sessuali) e art. 612-bis (atti persecutori con minacce reiterate nei modi cui all’art. 612 c.p.) La finalità della norma è quella di evitare che, pur a fronte di una integrale condotta riparatoria, prosegua un procedimento penale concernente delitti non di particolare gravità per la mancata remissione della querela da parte della persona offesa. E sotto questo profilo la

13 Il riferimento è alle decisioni della C. Cost., sent. 7 aprile 2016, n. 74, in Cass. pen., 2016, p. 2340; C. Cost., sent. 18 aprile 2014, n. 106, in Cass. pen., 2014, p. 2431; C. Cost., sent. 18 aprile 2014, n. 105, in Cass. pen., 2014, p. 2425; C. Cost., sent. 15 novem-bre 2012, n. 251, in Cass. pen., 2013, p. 1745.

14 Sul punto, F. Amato, Adesso l’imputato può cancellare la sua condotta illecita, in Guida dir., 2017, p. 95.

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riforma va valutata positivamente in quanto nella prassi questo tipo di procedimenti, non rivestendo caratteri di urgenza, si concludevano – nella maggior parte dei casi – con sentenze di declaratoria di prescrizione in primo grado o per lo più in sede di appello ovvero con condanne a pene di modesta en-tità. Attraverso questa riforma si può confidare che almeno per questo tipo di procedimenti vi sia una definizione anticipata senza ulteriori aggravi per la c.d. “macchina giudiziaria”.

Dal punto di vista procedimentale va innanzitutto rilevato che il giudice è tenuto alla dichiarazione di estinzione. E ciò in base all’interpretazione letterale della norma nella quale è stata utilizzata l’e-spressione “dichiara” in luogo di quella “può dichiarare”. Va da sé, però, che tale obbligo è subordinato all’accertamento giudiziale della riparazione del danno cagionato dal reato, mediante le restituzioni o il risarcimento, e della eliminazione delle conseguenze dannose o pericolose del reato. Per quanto riguar-da il primo requisito non paiono sorgere particolari problemi in ordine al potere giudiziale di verifica che non è diverso da quello già previsto dall’ordinamento penale al fine del riconoscimento dell’at-tenuante comune di cui all’art. 62, n. 6, c.p. 15. In altre parole, l’organo giudicante dovrà valutare se vi è stato un integrale risarcimento del danno. In tale prospettiva, sarà quindi onere della difesa produrre tutta la documentazione – anche presente nel fascicolo del P.M. – idonea a dimostrare che il risarcimen-to è stato integrale. La norma stabilisce poi che «il risarcimento del danno può essere riconosciuto anche in seguito ad offerta reale ai sensi degli articoli 1208 ss.c.c. formulata dall’imputato e non accettata dalla persona of-fesa, ove il giudice riconosca la congruità della somma offerta a tale titolo». Inoltre, è prevista per l’imputato, che dimostri di non aver potuto adempiere, per fatto a lui non addebitabile entro il termine delle forma-lità di apertura del dibattimento, la facoltà di chiedere al giudice la fissazione di un ulteriore termine, non superiore a sei mesi, per provvedere al pagamento, anche in forma rateale, di quanto dovuto a tito-lo di risarcimento. In tal caso il giudice, se accoglie la richiesta, ordina la sospensione del processo e fis-sa la successiva udienza alla scadenza del termine stabilito e comunque non oltre novanta giorni dalla predetta scadenza, imponendo specifiche prescrizioni.

Per contro, più problematica appare la verifica giudiziale del secondo requisito, e cioè la eliminazio-ne, ove possibile, delle conseguenze dannose o pericolose del reato. Per alcuni reati è, invero, relativa-mente semplice. Ad esempio, nei delitti contro il patrimonio – di regola – il risarcimento del danno vie-ne sostanzialmente ad eliminare le conseguenze dannose. Ciò non vale per altri illeciti penali. Si pensi al caso di una diffamazione commessa via stampa o via web. È ben noto che a distanza di anni – soprat-tutto per la diffusione telematica – la notizia diffamatoria può essere ancora in circolazione. Non è, per-tanto, agevole individuare in quali termini possa realizzarsi questo secondo requisito. Una possibile so-luzione potrebbe essere rappresentata – nell’esempio ora prospettato – da una lettera o un articolo in cui il soggetto querelato riconosca espressamente il carattere diffamatorio che venga diffusa con le me-desime modalità della precedente condotta diffamatoria.

Infine, l’art. 162-ter c.p. stabilisce espressamente che, anche in caso di estinzione del reato all’esito delle condotte riparatorie, va disposta la confisca obbligatoria di cui all’art. 240, comma 2, c.p. 16.

Sempre sul piano procedimentale si è posta la questione se la nuova causa di estinzione sia applica-bile anche in fase di indagini preliminari. Il problema nasce dal fatto che la norma si limita a prevedere come termine ultimo per la riparazione le formalità di apertura del dibattimento. I primi commenti so-no nel senso negativo in quanto il testo della norma, nella parte in cui prevede che «il giudice dichiara estinto il reato, sentite le parti e la persona offesa» sembra chiarimenti riferirsi alla fase processuale 17. È, pe-raltro, evidente che l’accoglimento di questa tesi comporta il risultato di un inutile aggravio processuale dal momento che – anche in presenza di tutti gli elementi per chiedere l’applicazione dell’art. 162-ter c.p. – in sede di indagini preliminari il PM si vedrà costretto a esercitare l’azione penale solamente al fine instaurare il necessario contraddittorio processuale necessario per la dichiarazione giudiziale di estinzione del reato.

Articolata è la disciplina di diritto intertemporale. Opportunamente il legislatore, al fine di evitare la classica diatriba circa la natura sostanziale o processuale dell’istituto e, quindi, la sua possibile applica-zione anche a procedimenti già instaurati, ha espressamente precisato che «le disposizioni dell’articolo 162-ter del codice penale, introdotto dal comma 1, si applicano anche ai processi in corso alla data di entrata in vi-

15 In termini più critici si vedano A. Giarda-G. Spangher, Riforma Orlando (appendice), cit., p. 3467. 16 È stato osservato che, trattandosi di reati perseguibili a querela, non saranno poi molti i casi di confisca obbligatoria (F.

Amato, Adesso l’imputato può cancellare la sua condotta illecita, cit., p. 97). 17 Sul punto, A. Giarda-G. Spangher, Riforma Orlando (appendice), cit., p. 3468.

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DIBATTITI TRA NORME E PRASSI | LA RIFORMA ORLANDO: PROFILI DI DIRITTO PENALE SOSTANZIALE

gore della presente legge e il giudice dichiara l’estinzione anche quando le condotte riparatorie siano state compiu-te oltre il termine della dichiarazione di apertura del dibattimento di primo grado». Dal punto di vista procedu-rale è stata, inoltre, prevista la possibilità, per l’imputato, nella prima udienza, successiva alla data di entrata in vigore della presente legge, di chiedere la fissazione di un termine, non superiore a sessanta giorni, per provvedere alle restituzioni, al pagamento di quanto dovuto a titolo di risarcimento e all’eliminazione, ove possibile, delle conseguenze dannose o pericolose del reato, a norma dell’art. 162-ter c.p., introdotto dal comma 1, ovvero, qualora dimostri di non poter adempiere, per fatto a lui non addebitabile, nel termine di sessanta giorni, di domandare al giudice la fissazione di un ulteriore termi-ne, non superiore a sei mesi, per provvedere al pagamento, anche in forma rateale, di quanto dovuto a titolo di risarcimento. La norma esclude, peraltro, la possibilità per l’imputato di chiedere questo ter-mine avanti la Corte di Cassazione. A tale riguardo, va però fatta una precisazione. Il disposto esclude inequivocabilmente che in sede di giudizio di legittimità possa essere chiesto il termine per provvedere alla condotta riparatoria. Ciò non pare escludere, tuttavia, – atteso il chiaro riferimento all’applicazione ai procedimenti in corso – che, ove dalla sentenza o dalla documentazione del fascicolo processuale ri-sulti la riparazione del danno, anche la Corte di Cassazione debba dichiarare l’estinzione del reato ex art. 162-ter c.p.

Il legislatore ha, infine, previsto la sospensione della prescrizione nel caso in cui venga concesso il termine di sessanta giorni o di sei mesi per consentire di attuare le condotte riparatorie.

LA LEGGE DELEGA

Sono tre i settori del diritto in cui è intervenuto il legislatore con la legge delega. Il primo attiene alla trasformazione per alcuni delitti del regime di procedibilità d’ufficio in querela di parte. Il Governo è delegato a prevedere la procedibilità a querela per i reati contro la persona puniti con la sola pena edit-tale pecuniaria o con la pena edittale detentiva non superiore nel massimo a quattro anni, sola, con-giunta o alternativa alla pena pecuniaria, fatta eccezione per il delitto di cui all’art. 610 c.p. Analoga-mente è stabilita una delega per i reati contro il patrimonio previsti dal codice penale. Qui il testo legi-slativo non fa espresso riferimento ai limiti di pena sanciti per i delitti contro la persona. Si tratta evi-dentemente di un difetto formale della norma, che verosimilmente intende richiamare i limiti edittali relativi ai delitti contro la persona. Diversamente, si giungerebbe al paradosso che delitti come il seque-stro di persona a scopo di estorsione, usura, rapina e estorsione diverrebbero tutti perseguibili a quere-la. Sono in ogni caso previste deroghe a questa trasformazione a querela di parte qualora ricorra una delle seguenti condizioni: 1) la persona offesa sia incapace per età o per infermità; 2) ricorrano circo-stanze aggravanti ad effetto speciale ovvero le circostanze indicate nell’art. 339 c.p.; 3) nei reati contro il patrimonio, il danno arrecato alla persona offesa sia di rilevante gravità. È stato previsto un regime di diritto transitorio per i reati divenuti perseguibili a querela commessi prima della data di entrata in vi-gore delle disposizioni emanate in attuazione della legge delega. Il termine per presentare la querela decorre dalla predetta data, se la persona offesa ha avuto in precedenza notizia del fatto costituente rea-to; se è pendente il procedimento, il pubblico ministero o il giudice informa la persona offesa dal reato della facoltà di esercitare il diritto di querela e il termine decorre dal giorno in cui la persona offesa è stata informata.

Particolarmente importanti sono le modifiche in tema di misure di sicurezza personali 18. È questa una parte del codice penale che da tempo viene indicata come meritevole di una radicale riforma in quanto non più corrispondente al mutato quadro del sistema costituzionale e penale italiano. Nell’am-bito dei principi delega si segnala, innanzitutto, la previsione del divieto di retroattività per le misure di sicurezza personali. Come è noto, l’art. 25 Cost., dopo aver sancito al comma 2 l’irretroattività riguardo al reato ed alla pena, al 3° comma si limita a prevedere per le misure di sicurezza la riserva di legge. Al-la luce di tale disposto e dell’art. 200, commi 1 e 2, c.p., nell’odierno sistema penale è possibile applicare sia una misura di sicurezza ad un fatto di reato per cui non era ab origine prevista, sia una misura di si-curezza diversa da quella originaria. Con l’attuazione della legge il principio di irretroattività si esten-derà, quindi, anche alle misure di sicurezza.

18 Sul punto G.L. Gatta, Riforma Orlando: la delega in materia di misure di sicurezza personali, verso un ridimensionamento del siste-ma del doppio binario, in www.penalecontemporaneo.it, 20 giugno 2017.

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Apprezzabile anche la delega per la rivisitazione, con riferimento ai soggetti imputabili, del regime del cosiddetto “doppio binario”. Si tratta della disciplina relativa alle figure di pericolosità qualificata (delinquente abituale, professionale e per tendenza) previste agli artt. 102 ss. Al riguardo, da tempo la dottrina penalistica ha segnalato la contraddittorietà di un sistema che sottoponga il reo sia al tratta-mento punitivo, sia alla misura di sicurezza. La legge delega circoscrive l’applicazione congiunta di pe-na e misure di sicurezza personali, nella prospettiva del minor sacrificio possibile della libertà persona-le, soltanto ai delitti di cui all’art. 407, comma 2, lett. a), c.p.p. E sotto tale profilo sarebbe stata preferibi-le una scelta più “coraggiosa” con la radicale abolizione del c.d. “doppio binario”. In tal senso va, inve-ce, la riforma Orlando per l’ipotesi di vizio parziale di mente di cui all’art. 89 c.p. Qui è stabilita – molto opportunamente – l’abolizione del sistema del doppio binario e l’introduzione di un trattamento san-zionatorio finalizzato al superamento delle condizioni che hanno diminuito la capacità dell’agente, an-che mediante il ricorso a trattamenti terapeutici o riabilitativi e l’accesso a misure alternative, fatte salve le esigenze di prevenzione a tutela della collettività.

Parimenti valida è la delega per la revisione del modello definitorio dell’infermità, mediante la pre-visione di clausole in grado di attribuire rilevanza, in conformità a consolidate posizioni scientifiche, ai disturbi della personalità. Come è noto, nel sistema del codice vigente l’eventuale incapacità di intende-re e di volere deve essere cagionata da un’infermità (artt. 88 e 89 c.p.). In forza di tale dato normativo per molti anni l’approccio scelto da dottrina e giurisprudenza si è rifatto ad un modello rigido di tipo medico-organicistico, tendente ad escludere il rilievo delle psicopatie o le nevrosi di natura ansioso de-pressiva non riconducibili alle classificazioni delle malattie mentali elaborate dalla psichiatria. Solamen-te dieci anni fa il quadro giurisprudenziale è mutato e la Corte di Cassazione ha precisato che i disturbi della personalità, pur non sempre inquadrabili nel ristretto novero delle malattie mentali, possono rien-trare nel concetto di infermità, purché siano di consistenza e gravità tali da incidere concretamente sulla capacità di intendere e di volere ed a condizione che sussista un nesso eziologico con la specifica con-dotta criminosa 19. È quindi evidente che la riforma allinea il dato legislativo ai più recenti approdi dot-trinali e giurisprudenziali in tema di malattia mentale.

Ulteriori previsioni sono relative all’assetto delle nuove residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza (REMS) che hanno sostituito gli ospedali psichiatrici giudiziari. Viene prevista la destinazione alle REMS prioritariamente dei soggetti per i quali sia stato accertato in via definitiva lo stato di infer-mità al momento della commissione del fatto, da cui derivi il giudizio di pericolosità sociale, nonché dei soggetti per i quali l’infermità di mente sia sopravvenuta durante l’esecuzione della pena, degli imputa-ti sottoposti a misure di sicurezza provvisorie e di tutti coloro per i quali occorra accertare le relative condizioni psichiche, qualora le sezioni degli istituti penitenziari alle quali sono destinati non siano idonee, di fatto, a garantire i trattamenti terapeutico-riabilitativi, con riferimento alle peculiari esigenze di trattamento dei soggetti e nel pieno rispetto dell’art. 32 Cost.

Infine, il Governo è delegato a rivedere la disciplina del casellario giudiziale adeguandola alle modi-fiche intervenute nella materia penale, anche processuale, e ai principi e criteri contenuti nella normati-va nazionale e nel diritto dell’Unione Europea in materia di protezione dei dati personali, nonché a ri-determinare i presupposti in tema di eliminazione delle iscrizioni per adeguarli all’attuale durata me-dia della vita umana. Sono, inoltre, previste altre disposizioni volte a limitare le iscrizioni del casellario giudiziale.

LUCI E OMBRE DELLA RIFORMA ORLANDO

Nel corso dei paragrafi introduttivi si è già avuto modo di anticipare alcuni giudizi circa le modifi-che apportate al sistema penale dalla l. n. 103 del 2017. Conclusa ora l’analisi del testo legislativo, è giunto il momento di dare alcune valutazioni complessive. Innanzitutto, va ribadito che il termine ri-forma è francamente esagerato, se con esso si fa riferimento ad un provvedimento organico mosso da una chiara volontà politico-criminale. In realtà, come si è già ampiamente evidenziato, la l. n. 103 del 2017 – per la parte di diritto penale sostanziale – interviene con alcune disposizioni prive di una logica unitaria. Anzi, non pare azzardato affermare che l’unica ragion d’essere della novella è quella di ri-spondere alle istanze – prevalentemente di stampo giustizialista – volte a ottenere una riforma del re-

19 Cass., sez. un., 25 gennaio 2005, n. 9163, in Riv. pen., 2005, p. 827.

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DIBATTITI TRA NORME E PRASSI | LA RIFORMA ORLANDO: PROFILI DI DIRITTO PENALE SOSTANZIALE

gime della prescrizione del reato. Le altre modifiche sono state inserite per ottenere una maggioranza parlamentare, che appariva non certa per lo meno al Senato. In tal senso si devono leggere gli inaspri-menti del trattamento sanzionatorio in tema di voto di scambio politico-mafioso, furto, rapina e estor-sione, i quali sono principalmente motivati da una volontà, trasversale ai vari partiti e movimenti poli-tici, di assecondare le richieste dell’opinione pubblica di maggior rigore verso determinate forme di criminalità.

Alla luce di simili premesse si può comprendere che l’unica vera riforma è quella in materia di pre-scrizione. Ed è stata, peraltro, un’occasione persa. Infatti, la legge Orlando porterà a modesti risultati sul piano di una diminuzione dei procedimenti definiti per prescrizione. Si è già sottolineato come i da-ti statistici dimostrino che il fenomeno della prescrizione si realizza in modo significativo nella fase preprocessuale, e cioè nel momento delle indagini preliminari. Preso atto di questa circostanza, è gioco-forza concludere che la riforma dell’istituto non avrà un’incidenza significativa sul fenomeno della pre-scrizione. E ciò perché il prolungamento dei termini potrà riguardare solamente quella percentuale del 19% delle prescrizioni che viene dichiarata in sede di Appello e di Cassazione.

Sotto un diverso profilo, l’introduzione di due distinti periodi di sospensione della prescrizione ine-vitabilmente allungherà il tempo dei processi penali in contrasto con il principio della “ragionevole du-rata” oggi garantito all’art. 111 Cost. Al riguardo, sicuramente preferibile era la soluzione proposta dal-la Commissione Ministeriale presieduta da Antonio Fiorella, la quale aveva proposto il ritorno al mo-dello delle “fasce” originariamente previsto dall’art. 157 c.p. 20. Inoltre, avrebbe dovuto essere indivi-duato un regime speciale per alcune categorie di reati di più complesso accertamento. Fra questi si col-locano sicuramente la maggior parte dei delitti contro l’economia, quali quelli societari, tributari e fi-nanziari.

Per ciò che riguarda le ulteriori modifiche non c’è altro da dire rispetto a quanto già espresso nei pa-ragrafi relativi. Gli aumenti sanzionatori per i delitti di voto di scambio politico-mafioso, furto, rapina e estorsione non sono giustificati e, per alcuni profili già evidenziati, sembrano viziati da illegittimità co-stituzionale. A ciò si aggiunga che l’innalzamento al minimo edittale verrà a frustrare uno degli obietti-vi che si propone la diversa legge delega in materia di ordinamento penitenziario, e cioè di ampliare l’operatività delle misure alternative alla detenzione 21. Ritornando all’esempio dianzi prospettato di un furto in abitazione aggravato dalla violenza sulle cose, va ricordato che – all’esito della riforma – anche in presenza delle attenuanti di cui all’art. 62, nn. 4 e 6, c.p. (speciale tenuità e integrale risarcimento del danno) e dell’art. 62-bis, la pena minima non potrà essere inferiore a quattro anni di reclusione. Nel caso poi in cui i furti commessi dal reo siano due, anche l’aumento minimo di un giorno – previsto dall’art. 81, comma 2, c.p. per la continuazione di reati – sarà preclusivo per le misure alternative della deten-zione. Non pare questo un risultato soddisfacente nella prospettiva di limitare la “carcerazione” alla so-la criminalità grave.

Al tirar delle somme, i due unici aspetti veramente positivi della l. n. 103 del 2017 sono l’intro-duzione dell’art. 162-ter (Estinzione del reato per condotte riparatorie) ed i principi e criteri direttivi della legge delega in materia di riordino delle misure di sicurezza personali. Troppo poco per quella che è stata “pubblicizzata” come una importante riforma del diritto penale.

20 Commissione Fiorella – Relazione per lo studio di possibile riforma della prescrizione (23 aprile 2013) – pubblicata nel sito del Mini-stero della Giustizia (www.giustizia.it.). In termini sostanzialmente favorevoli a questa proposta di riforma si era espresso anche D. Pulitanò, Il nodo della prescrizione, in www.penalecontemporaneo.it, 29 settembre 2014, p. 23; Id., Una confessione di Agostino e il problema della prescrizione, in www.penalecontemporaneo.it, 6 giugno 2016.

21 Per un esame dei criteri direttivi della legge delega si vedano D. Pulitanò, DDL n. 2067: sulle proposte di modifica al codice pe-nale e all’ordinamento penitenziario, cit.; A. Della Bella, Riforma Orlando: la delega in materia di ordinamento penitenziario, cit.

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Processo penale e giustizia n. 6 | 2017 1067

 

DIBATTITI TRA NORME E PRASSI | PROCESSO PENALE E LEGGE N. 103 DEL 2017: LA RIFORMA CHE NON C’È

ELISA LORENZETTO

Ricercatore di diritto processuale penale – Università degli Studi di Verona

Processo penale e legge n. 103 del 2017: la riforma che non c’è Criminal process: the inexistent reform

Muovendo dagli obiettivi perseguiti con la recente l. 23 giugno 2017, n. 103, che ha inciso in misura significativa la materia processuale penale, il contributo esamina le modifiche apportate al codice di rito, alle norme attuative e alle disposizioni complementari, proponendo per ciascun intervento l’analisi dell’impatto sul sistema, anche nel quadro della giurisprudenza di rilievo, alla ricerca di una coerenza non sempre decifrabile tra intenti, mezzi e risultati.

Starting with the envisaged targets of the recent Law 23rd June 2017, No. 103, which has had a relevant impact on the enforcing criminal procedure rules, this paper examines how the Code of Criminal Procedure, the imple-menting provisions and the complementary legislation have been amended. By this way, it aims to analyse any impact on the legal system, also taking into consideration the relevant Case Law, trying to find out if targets, tools and results are consistent with each other.

METODO E MERITO

Con la sua intitolazione sobria e flessibile – «Modifiche al codice penale, al codice di procedura penale e all’ordinamento penitenziario» – la l. 23 giugno 2017, n. 103, sembra preludere a cambiamenti ordinati e di rilievo per l’intero universo penalistico: norme nuove, predisposte per irrorare, all’unisono, il diritto so-stanziale, processuale e penitenziario, in un anelito inebriante di riforma del sistema. E invece l’afflato si arresta alle soglie della novella, da subito ostica nelle forme – l’articolo è unico, i commi novantacin-que – e ancor meno intelligibile nei contenuti che rincorrono alla rinfusa obiettivi altrettanto sfuggenti.

Trenta giorni di vacatio legis (comma 95) 1, e un diluvio scomposto di previsioni pongono fine a due anni e mezzo di attese 2. E piove, sulla giustizia penale brulla e infruttuosa 3. Il più colpito è il campo del processo (commi 21-84) 4: codice di rito (commi 21-36, 38-72), norme attuative (commi 73-74, 77-79, 81) e leggi complementari (commi 37, 75-76, 80), bersagli prediletti del primo stillicidio 5 e dei futuri rovesci a scadenza programmata – e differenziata – per quando il Governo eserciterà le due specifiche deleghe in

1 Il riferimento nel testo e nelle note al numero del comma tra parentesi, senza ulteriori specificazioni, è da intendersi ai commi dell’art. 1 l. 23 giugno 2017, n. 103.

2 Esatti: il 23 dicembre 2014 è stato presentato alla Camera l’originario d.d.l. C n. 2798, poi divenuto l. n. 103 (dopo un com-plesso iter parlamentare che ha visto succedersi il d.d.l. S n. 2067 e il d.d.l. C n. 4368) con data 23 giugno 2017. Pubblicata in G.U. il 4 luglio 2017, la l. n. 103 del 2017 è entrata in vigore il 3 agosto del 2017.

3 Emblematica la Relazione al d.d.l. n. 2798, in Atti Parlamentari, Camera dei Deputati, XVII Legislatura, Disegni di legge e Relazio-ni, Documenti, p. 36: «In via generale, il problema che con la proposta normativa si intende risolvere è quello della inidoneità del sistema penale sostanziale e processuale rispetto all’obiettivo di assicurare efficace azione repressiva e sanzionatoria delle condotte delittuose commes-se e, in via prospettica, di prevenirne la commissione».

4 Nel settore sostanziale, altre disposizioni modificano il codice penale (commi 1-15) e dettano deleghe per la modifica del regime di procedibilità per taluni reati e delle misure di sicurezza personali e per il riordino di alcuni settori del codice penale (commi 17-18), oltre che in materia di casellario giudiziale (commi 18-19). Anche della materia penitenziaria si occupa una speci-fica delega (commi 82, 85 e 86).

5 Non sempre con tempi operativi immediati, essendosi stabilita un’applicazione differita per talune specifiche previsioni. Sulle tematiche di diritto intertemporale, v. Considerazioni sulle ricadute nel giudizio di cassazione della legge 23 giugno 2017, n. 103 – Questioni di diritto intertemporale, Relazione a cura dell’Ufficio del Ruolo e del Massimario della Corte di cassazione, in www.cortedicassazione.it.

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Processo penale e giustizia n. 6 | 2017 1068

 

DIBATTITI TRA NORME E PRASSI | PROCESSO PENALE E LEGGE N. 103 DEL 2017: LA RIFORMA CHE NON C’È

materia di intercettazioni e di impugnazioni (commi 82-84) 6. Gemme isolate e aridità persistente, non-dimeno, sono gli esiti poco incoraggianti dell’ennesimo intervento alluvionale sul cui metodo e merito occorre riflettere.

Stupisce, quanto a modus procedendi, il carattere del tutto asistematico delle modifiche apportate, trat-ti di penna che cancellano o scrivono norme di dettaglio sporcando il quadro in superficie, senza im-primere sulla tela alcun disegno nuovo. E se è vero che a rendere puntiforme e disorganico l’approccio ha contribuito un iter parlamentare farraginoso e troppo esposto alle istanze contingenti della politica, è il serrato e pernicioso bisticcio ingaggiatosi tra legislazione e giurisprudenza il motivo del fallimento di ogni autentica aspirazione riformista 7.

Già imperversa, si sa, la figura del “giudice-legislatore”, con le derive ben note quanto a travalica-mento di ruolo e disarticolazione sistemica che soltanto una riscoperta sensibilità per la legalità proces-suale (art. 111, comma 1, Cost.) sembra in grado di contenere. Ciò malgrado, e a sorpresa, tocca ora mi-surarsi pure con le nuove e contrapposte frontiere del “legislatore-giudice”, perché proprio colui che è chiamato a forgiare il sistema e a rinnovarlo, ove occorre, nelle sue assi portanti, predilige il metodo atomistico e pragmatico di chi il diritto lo applica, dettando previsioni che altro non fanno se non rece-pire, specificare o, all’opposto, contraddire l’esegesi già maturata tra i giudici dei casi concreti. E mentre restano acefali l’assetto programmatico e la pianificazione strategica della giustizia penale, esce favorito e persino incoraggiato proprio il gigantismo giurisprudenziale, di fatto legittimato a disapplicare o creare regole processuali ad hoc se chi dovrebbe legiferare abdica onori e oneri del proprio ruolo, così affrancandosi anche dalla responsabilità di operare scelte armoniche e durature che solo al legislatore davvero tale possono competere.

Inconcludente nel metodo, pressoché mediocre è pure il grado raggiunto nel merito delle modifiche introdotte, specialmente se misurato sui propositi ambiziosi proclamati all’indomani della presentazio-ne del d.d.l. capostipite della novella. Dei tre nobili obiettivi eletti a direttrici del progetto – durata ra-gionevole del processo, garanzie e diritti della difesa, contrasto del fenomeno corruttivo 8 – ben poco re-sidua tra le pieghe delle nuove disposizioni, mezzi troppo spesso inadeguati allo scopo e, talora, nel pur vano tentativo di realizzare lo specifico risultato cui dovrebbero tendere, persino confliggenti con le restanti finalità, non sempre amalgamate in un prodotto corale.

Muovendo, dunque, da quella primigenia dichiarazione di intenti, poi smentita nei mezzi, conviene sondare la coerenza delle soluzioni proposte dalla legge nel controcanto ossessivo della giurispruden-za. Alla ricerca, insomma, della riforma che non c’è; e già sapendo che, in verità, non c’è stata alcuna ri-forma.

PREROGATIVE DELL’IMPUTATO: RAFFORZARE

L’impegno preannunciato nel perseguire l’efficienza del sistema in uno con la conservazione – rec-tius, con il «rafforzamento» 9 – delle garanzie difensive si esaurisce con tre innovazioni soltanto. Bilan-ciamento risibile, se è vero che per il resto la manovra, specialmente in materia di procedimenti speciali e impugnazioni, ma pure in risposta a istanze securitarie, punta con tenacia su deflazione e contingen-tamento di tempi e risorse; anche a scapito, parrebbe dunque, delle prerogative dell’imputato.

All’elezione di domicilio presso il difensore d’ufficio è dedicato l’innesto – assente nel progetto ori-ginario e inserito soltanto in itinere (comma 24) 10 – di un nuovo comma 4-bis nell’art. 162 c.p.p.: «non ha effetto», si stabilisce, senza «l’assenso del difensore domiciliatario», ricevuto dall’autorità che procede «uni-tamente alla dichiarazione di elezione». Scopo della previsione è impedire che l’adempimento si risolva in

6 Per una mappa riassuntiva dei tempi articolati predisposti dalla nuova legge nelle diverse componenti, v. G. Spangher, Il timing della Riforma Orlando, in www.quotidianogiuridico.it, 26 giugno 2017.

7 Sul tema, v. di recente M. Gialuz-A. Cabiale-J. Della Torre, Riforma Orlando: le modifiche attinenti al processo penale, tra codifi-cazione della giurisprudenza, riforme attese da tempo e confuse innovazioni, in www.penalecontemporaneo.it, 20 giugno 2017, p. 35; L. Marafioti, Riforme-zibaldone, legislazione “giurisprudenziale” e gestione della prassi processuale, in questa Rivista, 2017, p. 553 s.

8 V. Relazione al d.d.l. n. 2798, cit., pp. 1-2. 9 Così, la Relazione al d.d.l. n. 2798, cit., p. 1. 10 Su istanza dell’Unione delle Camere Penali, come si evince dal Comunicato dell’Osservatorio difesa d’ufficio UCPI sul te-

ma Il difensore d’ufficio e l’elezione di domicilio “forzata”, consultabile in www.parolaalladifesa.it, aprile 2017.

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un mero formalismo – tale sarebbe un’elezione all’insaputa del difensore d’ufficio – eppure idoneo a fungere da indice legale di conoscenza del procedimento e, di conseguenza, da presupposto per il pro-cesso in absentia ex art. 420-bis, comma 2, c.p.p. 11.

Recepiti, in questo senso, i più recenti approdi dei giudici di legittimità e di merito 12, restano invece in ombra – oltre ai profili operativi connessi all’esigenza di contestualità tra elezione e assenso – le rica-dute per il caso di indisponibilità del difensore d’ufficio al ruolo di domiciliatario. Alle ipotesi già rego-late di elezione mancante, insufficiente o inidonea, per cui le notificazioni sono eseguite mediante con-segna al difensore (art. 161, comma 4, secondo periodo, c.p.p.), si aggiunge ora l’elezione priva di effet-to per la quale, invece, non è prevista disciplina ad hoc. Ammesso pure che sia possibile equiparare le situazioni, finendo per eseguire comunque le notificazioni presso il difensore ai sensi dell’art. 161, comma 4, secondo periodo, c.p.p., anche quando d’ufficio e dissenziente 13 – diversamente, ritenuta ine-sistente l’intera procedura già attuata a norma degli artt. 161 e 162 c.p.p., le regole da seguire per le no-tificazioni sarebbero quelle ordinarie ex artt. 157 e 159 c.p.p. 14 –, resta fuor di dubbio l’improduttività di effetti in punto di conoscenza presunta (art. 420-bis, comma 2, c.p.p.) dovendosi, semmai, dare corso agli ulteriori adempimenti che preludono in udienza alla sospensione del processo nei confronti dell’imputato assente (art. 420-quater c.p.p.).

Più strettamente connessa alla garanzia della difesa tecnica è la seconda modifica (comma 25), riferi-ta al colloquio tra difensore e imputato in vinculis – custodia cautelare, arresto e fermo – il cui esercizio, nella nuova versione dell’art. 104, comma 3, c.p.p., invariato il presupposto originario delle «specifiche ed eccezionali ragioni di cautela», può essere differito nel corso delle indagini preliminari soltanto «per i delit-ti di cui all’articolo 51, commi 3-bis e 3-quater». Così circoscritto il perimetro dell’eccezione ai casi più gravi (criminalità organizzata e terrorismo, con legittimazione, dunque, delle sole procure distrettuali), le “regolari” prerogative difensive si riespandono nei procedimenti per tutti i restanti reati, i cui imputati recuperano il diritto intangibile di conferire con il difensore sin dall’inizio dell’esecuzione della misura (art. 104, comma 1, c.p.p.).

Per come attuata, l’innovazione, benché forse propiziata dal dovere di recepire la Direttiva 2013/48/ UE 15 e assicurare lo specifico diritto di avvalersi di un difensore nel procedimento penale «senza indebito ritardo dopo la privazione della libertà personale» (art. 3, par. 2, lett. c) nonché di incontrarlo in privato e di comunicare «anche prima dell’interrogatorio» (art. 3, par. 3, lett. b), non era, tuttavia, imposta. Le norme europee, difatti, consentono deroghe temporanee di quei diritti; ma, lungi da operare una selezione sul-la base del titolo criminoso – escludendo, anzi, presunzioni basate «esclusivamente sul tipo o sulla gravità del reato contestato» (art. 8, par. 1, lett. c) – esigono, semmai, «circostanze eccezionali» specificamente indi-cate: «lontananza geografica» che renda impossibile garantire il diritto di avvalersi del difensore senza indebito ritardo (art. 3, par. 5) ovvero «circostanze particolari» sulla base di motivi imperativi connessi alla tutela della vita, della libertà e dell’integrità fisica di una persona o all’esigenza di intervento im-mediato degli inquirenti per non compromettere in modo sostanziale un procedimento penale (art. 3, par. 6, lett. a e b).

Viceversa il sistema domestico, complice la recente modifica, si ricompone in un quadro divergente dalla Direttiva 16: per difetto, poiché nei procedimenti per reati diversi dai gravi delitti indicati vieta a priori la dilazione del colloquio, anche al cospetto di situazioni corrispondenti alle circostanze eccezio-

11 Adita sul punto, la Consulta (C. cost., sent. 9 febbraio 2017, n. 31, in Giur. cost., 2017, p. 204) aveva recentemente dichiarato inammissibile la questione di legittimità costituzionale degli artt. 161 e 163 c.p.p., sull’assunto che compete alla discrezionalità del legislatore individuare gli strumenti attraverso cui consentire al giudice di verificare che l’assenza dell’imputato al processo sia espressione di una consapevole rinuncia a comparire.

12 V. Cass., sez. I, 2 marzo 2017, n. 16416, in www.dirittoegiustizia.it, 21 aprile 2017; Cass., sez. II, 24 gennaio 2017, n. 9441, in www.dirittoegiustizia.it, 28 febbraio2017; Trib. Milano, sez. I, ord. 14 luglio 2017, in http://ilpenalista.it/, 28 luglio 2017.

13 Questa la posizione assunta dalla Procura della Repubblica presso il Tribunale di Tivoli nelle Prime linee guida per l’applicazione della legge 23 giugno 2017 n. 103, in http://ilpenalista.it/, 2 agosto 2017, p. 23.

14 In questo senso, v. G. Bergamaschi, La nuova disciplina dell’elezione di domicilio presso il difensore d’ufficio e le implicazioni ne-glette dal Legislatore, in http://ilpenalista.it/, 28 giugno 2017.

15 Relativa al diritto di avvalersi di un difensore nel procedimento penale e nel procedimento di esecuzione del mandato d’arresto europeo, al diritto di informare un terzo al momento della privazione della libertà personale e al diritto delle persone private della libertà personale di comunicare con terzi e con le autorità consolari, attuata nell’ordinamento interno con il d. lgs. 15 settembre 2016, n. 184.

16 Lo segnalano M. Gialuz-A. Cabiale-J. Della Torre, Riforma Orlando, cit., p. 4.

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nali che giustificano deroghe per le stesse norme europee; per eccesso, laddove il titolo di reato più grave consente di differire l’incontro con il difensore al mero ricorrere di «specifiche ed eccezionali ragioni di cautela» (art. 104, comma 3, c.p.p.). Presupposto, come detto, uscito indenne dalla novella, malgrado i contenuti assai più elastici – e così intesi nella prassi giurisprudenziale, che proprio dal silenzio del le-gislatore sembra ricevere avallo implicito – rispetto alle stringenti e rigorose previsioni della Direttiva.

È peraltro plausibile che criminalità organizzata e terrorismo, oggi terreno esclusivo per possibili di-lazioni del colloquio, costituissero le ipotesi più frequenti di ricorso ai differimenti già prima della re-cente interpolazione. Di talché, invariato il presupposto, a conti fatti nessun miglioramento significativo si registra sul fronte delle prerogative difensive degli imputati. Ciò che solleva dubbi di costituzionalità della previsione appena introdotta, sia sotto il profilo della ragionevolezza (art. 3 Cost.) sia con riguar-do al rispetto dei vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario (artt. 11 e 117, comma 1, Cost.), fatto salvo il dovere di interpretazione conforme.

Al tema delle garanzie, sul versante specifico della partecipazione cosciente al procedimento quale profilo di un esercizio consapevole del diritto di difesa, vanno riferite pure le modifiche al regime del-l’incapacità processuale dell’imputato per infermità di mente (commi 21, 22 e 23). E malgrado la novella giustifichi l’intervento con pragmatiche ragioni di economia processuale 17, non vi è dubbio che porre fine alla condizione di «eterno giudicabile» risponda, prima ancora, alla tutela dell’imputato nella sua di-gnità di persona. Propulsore il monito della Consulta: non quello più recente, intervenuto sulla disci-plina sostanziale dichiarando l’incostituzionalità dell’art. 159 c.p. nella parte in cui non escludeva la so-spensione della prescrizione nel caso di incapacità dell’imputato di partecipare al procedimento, se conseguenza di uno stato mentale irreversibile 18; soluzione inadeguata, che comunque generava una stasi e manteneva l’incapace sub iudice sino alla declaratoria di estinzione del reato per prescrizione ov-vero sine die – fino alla morte – al cospetto di reati imprescrittibili 19. La via legislativa si pone, invece, nel solco della prima giurisprudenza che aveva suggerito di costruire l’irreversibilità dello status di in-capacità psichica quale condizione di improcedibilità 20.

Fulcro dell’operazione è l’innesto del nuovo art. 72-bis c.p.p. che impone, per l’appunto, la sentenza di non luogo a procedere o di non doversi procedere se si accerta, ai sensi dell’art. 70 c.p.p., uno stato menta-le «irreversibile» che impedisce la cosciente partecipazione dell’imputato al procedimento, salvo ricorrano i presupposti per applicare una misura di sicurezza diversa dalla confisca. Soltanto se quello stato è «rever-sibile», invece, può essere pronunciata ordinanza di sospensione del procedimento ai sensi dell’art. 71 c.p.p., modificato in tal senso. Tra le deroghe (apparenti) al divieto di bis in idem (art. 649 c.p.p.), in chiusu-ra dell’art. 345, comma 2, c.p.p. si è altresì aggiunto che la sentenza emessa ai sensi dell’art. 72-bis c.p.p. non impedisce l’esercizio dell’azione penale per il medesimo fatto e contro la medesima persona, quando viene meno lo stato di incapacità dell’imputato o si accerta che è stato erroneamente dichiarato.

Per quanto atteso da tempo, l’intervento non appaga per la serie di questioni che solleva e non risol-ve. Non è chiaro, anzitutto, se il proscioglimento nel merito possa e debba prevalere sulla nuova causa di improcedibilità, così come stabilito rispetto alla sospensione (art. 71, comma 1); è invece da ritenere, malgrado manchi una previsione espressa, che la situazione psichica irreversibile accertata in indagini legittimi un provvedimento di archiviazione, potendosi ricondurre l’ipotesi alla mancanza di una con-dizione di procedibilità (art. 411 c.p.p.). Oltre a ciò, lascia perplessi la reviviscenza del potere d’azione in ipotesi di errore o sopravvenuto recupero delle facoltà mentali (art. 345 c.p.p.), evenienza – rara – dif-ficile da accertare senza verifiche periodiche, riservate, infatti, ai soli casi di sospensione in vista della possibile revoca (art. 72 c.p.p.). Sussistono dubbi anche circa l’impugnabilità della stessa sentenza, qua-lora l’imputato dimostri, o riacquisti in tempo utile, la capacità e punti all’assoluzione nel merito 21. In

17 V. Relazione al d.d.l. n. 2798, cit., p. 5. 18 V. C. cost., sent. 25 marzo 2015, n. 45, in www.penalecontemporaneo.it, 20 aprile 2015, con nota di M. Daniele, Il proscioglimen-

to per prescrizione dei non più “eterni giudicabili”. La sorte degli imputati affetti da incapacità processuale irreversibile dopo la sentenza 45/2015 della Corte costituzionale.

19 V. M. Daniele, Il proscioglimento per prescrizione dei non più “eterni giudicabili”, cit. 20 V. C. cost., sent. 14 febbraio 2013, n. 23, in www.penalecontemporaneo.it, 18 febbraio 2013, con nota di G. Leo, Il problema

dell’incapace “eternamente giudicabile”: un severo monito della Corte costituzionale al legislatore. In termini critici circa la collocazione tra le condizioni di procedibilità operata dal legislatore, v. L. Norcio, sub comma 23 Riforma Orlando, in A. Giarda-G. Spangher (a cura di), Codice di procedura penale commentato, V, Milano, Wolters Kluwer, 2017, p. 3483.

21 Anche se la riproponibilità dell’azione ai sensi dell’art. 345 c.p.p., eventualmente proprio su istanza dell’imputato ritornato

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ultimo, resta incerta la sorte del processo quando lo status è irreversibile ma sussistono, al contempo, i presupposti per applicare una misura di sicurezza diversa dalla confisca 22. Preclusi tanto il prosciogli-mento ex art. 72-bis c.p.p. quanto la sospensione, non applicabile per analogia (art. 14 disp. prel.) e oggi circoscritta expressis verbis all’incapacità «reversibile» (art. 71 c.p.p.), il processo nei confronti dell’in-capace irreversibile e socialmente pericoloso dovrebbe allora proseguire, con buona pace delle sue pre-rogative difensive e di partecipazione cosciente 23.

Alla base del paradosso aleggia forse un equivoco, in cui sembra incorso il legislatore, e cioè che la definizione del procedimento per incapacità irreversibile dell’imputato risenta del divieto “generale” di non luogo a procedere quando si debbano applicare misure di sicurezza diverse dalla confisca (art. 425, comma 4, c.p.p.). Quest’ultima previsione è stata concepita – benché senza esplicitarlo – allo scopo di garantire al non imputabile la celebrazione del giudizio, sul presupposto che l’udienza preliminare non consenta l’accertamento necessario per applicare una misura di sicurezza personale. Altra, invece, è la condizione dell’incapace irreversibile, per il quale l’unica garanzia pensabile è la definizione del proce-dimento a cui non sarebbe comunque in grado di partecipare coscientemente. La soluzione, insomma, escluso convenga perorare un’estensione ope legis della sospensione stabilita dall’art. 71 c.p.p., potrebbe risiedere nel neutralizzare, sopprimendola, la preclusione posta in chiusura dell’art. 72-bis c.p.p. e con-sentire, in uno con la sentenza di non luogo o non doversi procedere, il ricorso a misure adeguate alle esigenze di cura dell’incapace irreversibile 24.

TUTELA DELLA PERSONA OFFESA: ATTUARE

Ignorata nei preamboli della manovra legislativa, dove un riferimento alla persona offesa dal reato poteva leggersi soltanto per implicito o in via incidentale e, comunque, senza alcuna ricaduta significa-tiva sull’articolato originario 25, la tutela dell’offeso si affaccia in uno scorcio dell’apparato normativo finale, dopo che un intero provvedimento, in tempi altrettanto recenti, in adempimento degli impegni sovranazionali si era occupato in esclusiva della stessa materia 26. E se l’esigenza di porvi ancora mano non lascia dubbi circa l’inettitudine dell’intervento precedente, nemmeno le nuove norme brillano per intraprendenza.

Due i fronti interessati: il primo è l’informazione (commi 26 e 27), per cui si accorda alla persona of-fesa il potere di chiedere – in aggiunta alla comunicazione delle iscrizioni nel registro delle notizie di reato (art. 335, commi 3 e 3-bis, c.p.p.) – di essere informata, impregiudicato il segreto investigativo, cir-ca lo stato del procedimento secondo il nuovo art. 335, comma 3-ter, c.p.p. In parallelo le si fornisce, an-che in ordine a tale facoltà, una specifica informativa sin dal primo contatto con l’autorità procedente, aggiunta interpolando la lett. b) del già nutrito elenco da poco introdotto con l’art. 90-bis c.p.p. Anche a

capace, sembra stemperare il problema. In termini critici circa l’assenza di rimedi avverso la pronuncia, v. R. Casiraghi, sub comma 22 Riforma Orlando, in A. Giarda-G. Spangher (a cura di), Codice di procedura penale commentato, cit., p. 3481.

22 V. però le riserve circa l’applicazione della confisca nei riguardi dell’incapace irreversibile espresse dalla Procura della Re-pubblica presso il Tribunale di Tivoli nelle Prime linee guida per l’applicazione della legge 23 giugno 2017 n. 103, cit., p. 15, ricordan-do come sia stata sollevata questione di legittimità costituzionale relativamente alla possibilità di applicare ai medesimi soggetti la confisca di prevenzione. Sullo specifico punto è, peraltro, intervenuta la Consulta dichiarando infondata la questione: v. C. cost., sent. 6 giugno 2017, n. 208, in www.penalecontemporaneo.it, 29 settembre 2017, con nota di D. Albanese, Le sorti del procedi-mento di prevenzione nel caso di incapacità del soggetto “proposto”.

23 V. invece G. Spangher, Gli “eterni giudicabili”, in G. Spangher (a cura di), La Riforma Orlando, Pacini Giuridica, 2017, pp. 101-102, secondo cui il procedimento andrebbe in tal caso sospeso. Nello stesso senso, v. R. Casiraghi, sub comma 22 Riforma Or-lando, cit., p. 3482, segnalando tuttavia le incongruenze dell’ulteriore ipotesi di processo sine die che ne deriverebbe nei casi di imprescrittibilità del reato punito con l’ergastolo (per cui non opera il limite temporale massimo per le misure di sicurezza) e di incapace irreversibile pericoloso.

24 Per uno spunto in questa direzione, già prima delle modifiche introdotte, v. H. Belluta, Il tema degli “eternamente giudicabili” torna davanti alla Corte costituzionale, in www.penalecontemporaneo.it, 13 maggio 2014.

25 V. il riferimento incidentale nella Relazione al d.d.l. n. 2798, cit., p. 41. 26 Si allude al d.lgs. 15 dicembre 2015, n. 212, che ha dato attuazione alla Direttiva 2012/29/UE che istituisce norme minime

in materia di diritti, assistenza e protezione delle vittime di reato e che sostituisce la decisione quadro 2001/220/GAI. Per un commento organico, v. M. Bargis-H. Belluta (a cura di), Vittime di reato e sistema penale. La ricerca di nuovi equilibri, Torino, Giap-pichelli, 2017.

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prescindere dalla portata non del tutto innovativa, dai contenuti indeterminati e dall’incidenza che il segreto investigativo può imprimere sull’effettiva possibilità di apprendere quanto richiesto 27, resta da domandarsi a cosa sia servito riempire ancora il bagaglio informativo dell’offeso senza prima assolvere l’impegno di renderlo concretamente intelligibile e utile allo scopo 28.

Certo non ne beneficia il secondo versante – quello dei diritti di partecipazione, a cui il corredo in-formativo dovrebbe essere preordinato – soltanto sfiorato, peraltro, dal più recente sussulto riformista (comma 31). Sul punto, si è previsto il dovere di avvisare in ogni caso della richiesta di archiviazione anche la persona offesa dal reato di cui all’art. 624-bis c.p., fattispecie che dunque – oscura è la ragione – si aggiunge nell’art. 408, comma 3-bis, c.p.p. ai delitti commessi con violenza alla persona; è stato inoltre ampliato il termine per l’opposizione: da venti a trenta giorni nelle ipotesi appena indicate e da dieci a venti per i restanti casi ex art. 408, comma 3, c.p.p. Poca cosa, atteso il carattere non perentorio – bensì acceleratorio per la persona offesa e dilatorio per pubblico ministero e giudice – pacificamente ricono-sciuto dalla giurisprudenza a quel termine.

Un riflesso delle modifiche si intravvede, peraltro, nella codificazione (comma 33) delle cause di nul-lità del provvedimento di archiviazione di cui al nuovo art. 410-bis c.p.p., a sua volta ricognitivo della casistica giurisprudenziale: il decreto – per quanto qui rileva – è nullo se manca l’avviso della richiesta nelle ipotesi in cui è prescritto (i.e., artt. 408, commi 2 e 3-bis e 411, comma 1-bis, c.p.p.) ovvero se emes-so prima della scadenza del termine di cui all’art. 408, commi 3 e 3-bis, c.p.p. senza che sia stato presen-tato l’atto di opposizione. Se, come detto, i meccanismi descritti si limitano a replicare prerogative di partecipazione e controllo già ben consolidatesi in via pretoria, va invece rilevato che la manovra com-plessiva che ha portato, come si dirà, a modificare il mezzo di impugnazione del provvedimento di ar-chiviazione, inserendo la nuova procedura di reclamo in luogo del previgente ricorso per cassazione (art. 410-bis c.p.p.), e della sentenza di non luogo a procedere, ripristinando l’appello, in sostituzione della precedente previsione del solo ricorso per cassazione (art. 428 c.p.p.), non risulta del tutto garante del ruolo della persona offesa. Dalla lettura delle nuove previsioni, difatti, si evince che l’offeso, oggi legittimato, per un verso, a proporre reclamo contro il provvedimento di archiviazione nei casi di nulli-tà ex art. 410-bis c.p.p. e, per altro verso, ad appellare la sentenza di non luogo a procedere nei casi di nullità previsti dall’art. 419, comma 7, c.p.p., non è, tuttavia, ammesso a ricorrere per cassazione: né av-verso l’ordinanza che decide il reclamo né contro la sentenza che abbia rigettato l’appello confermando il non luogo a procedere. Insomma, sulla tutela della persona offesa dal reato quanto a potere di azio-nare, nei casi indicati, anche il controllo di legittimità, sembra prevalso – in modo più o meno consape-vole – lo scopo di alleggerire il carico di lavoro della Suprema Corte 29.

INDAGINI PRELIMINARI E LORO CHIUSURA: OTTIMIZZARE

Fattore tempo ed efficienza compongono il motore unico delle modifiche che interessano la fase in-vestigativa e il suo frangente conclusivo, con l’obiettivo dichiarato di elidere situazioni di stallo e snelli-re le procedure. Il pragmatismo diffuso tradisce, però, indifferenza per il tema centrale da cui dipende la tenuta sistematica di ogni dispositivo diretto a garantire durata ragionevole alle indagini: non basta che sia fluido il loro svolgimento né che il dominus assuma entro cadenze certe le sue determinazioni; occorre, prima ancora, definire con precisione il momento di decorrenza iniziale dei termini di durata poiché soltanto uno stabile dies a quo può rendere fermo il dies ad quem 30.

È vero, allora, che le nuove regole dettate per gli accertamenti tecnici non ripetibili (commi 28 e 29) impediscono forme di abuso e paralisi delle attività: la riserva di incidente probatorio – stabilisce il nuovo comma 4-bis dell’art. 360 c.p.p. – perde efficacia e non può essere riproposta se la persona sotto-

27 V. sui profili indicati P.P. Paulesu, sub comma 26 e sub comma 27, in A. Giarda-G. Spangher (a cura di), Codice di procedura penale commentato, cit., p. 3484. V. anche le indicazioni operative messe a punto dalla Procura della Repubblica presso il Tribuna-le di Tivoli nelle Prime linee guida per l’applicazione della legge 23 giugno 2017 n. 103, cit., p. 26 s.

28 Considerazioni critiche e proposte operative sul punto erano state espresse, all’indomani della novella attuata con il d.lgs. n. 212 del 2015, da P. Spagnolo, Nuovi diritti informativi per la vittima dei reati, in www.lalegislazionepenale.eu, 4 luglio 2016, p. 15.

29 Novità interessano anche la persona offesa costituita parte civile (v. infra, nel paragrafo dedicato alle impugnazioni). 30 Evidenzia la complessità del tema A. Marandola, Termini per l’esercizio dell’azione penale e avocazione del procuratore generale,

in G. Spangher (a cura di), La Riforma Orlando, cit., p. 171.

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DIBATTITI TRA NORME E PRASSI | PROCESSO PENALE E LEGGE N. 103 DEL 2017: LA RIFORMA CHE NON C’È

posta alle indagini non formula la richiesta effettiva nel termine di dieci giorni; e il successivo comma 5 esclude che nelle ipotesi di inefficacia possa operare la sanzione di inutilizzabilità se il pubblico mini-stero procede malgrado la riserva. Difficile, tuttavia, presagire ricadute significative sulla durata com-plessiva delle indagini da previsioni di dettaglio meramente correttive di prassi devianti 31.

Mal riposte, in prospettiva sistematica, sono pure le speranze affidate – peraltro in itinere, in assenza di riferimenti nel d.d.l. originario – al nuovo regime dei termini per le determinazioni conclusive del pubblico ministero (comma 30) 32. Per effetto delle modifiche, il lasso entro cui scegliere tra azione e ri-chiesta di archiviazione risulta scandito in due tempi: un tempo “base” (sei mesi ovvero un anno, a se-conda del titolo di reato), che coincide con il previgente tempo “unico”, decorrente dall’iscrizione no-minativa (artt. 405, comma 2, e 408, comma 1, c.p.p.) 33 e prorogabile entro termini di durata massima (artt. 406 e 407, commi 1 e 2, c.p.p.), alla cui scadenza senza che il magistrato abbia esercitato alcuna op-zione si produce l’inutilizzabilità dei successivi atti di indagine (art. 407, comma 3, c.p.p.); vi è inoltre, oggi, un inedito tempo “supplementare” (tre mesi, prorogabili per non più di ulteriori tre, ovvero quindici mesi, sempre a seconda del titolo di reato), a decorrere dalla scadenza del termine massimo di durata delle indagini o comunque di quello stabilito dall’art. 415-bis c.p.p., il cui spirare senza le deter-minazioni del pubblico ministero impone a questi l’immediata comunicazione al procuratore generale presso la corte di appello, secondo il nuovo comma 3-bis dell’art. 407 c.p.p. Soltanto con l’inutile decor-so del tempo “supplementare” – e non di quello qui definito “base” – il procuratore generale dispone l’avocazione delle indagini preliminari, a norma dell’interpolato art. 412, comma 1, primo periodo, c.p.p.

Il meccanismo punta a contenere entro confini definiti il periodo tra scadenza dei termini e formale chiusura delle indagini, per impedire lo sterile protrarsi di un limbo in cui il pubblico ministero, esauri-to il tempo (base) per indagare, deve soltanto sciogliere la riserva. Si vorrebbe, per questa via, imprime-re accelerazione nell’esercizio dell’azione, assegnandogli un tempo massimo (supplementare), sulla fal-sariga di soluzioni già sperimentate nei procedimenti per i delitti colposi di omicidio e lesioni, quando aggravati dalla violazione delle norme per la prevenzione degli infortuni sul lavoro ovvero stradali (artt. 416, comma 2-bis, e 552, commi 1-bis e 1-ter, c.p.p.). Non sembra, tuttavia, che la nuova ipotesi di avoca-zione a tempi supplementari scaduti sia strumento risolutivo e capace di garantire gli esiti attesi 34.

Anche la previgente versione dell’art. 412, comma 1, c.p.p., difatti, conferiva al procuratore generale il potere di avocare le indagini per superare l’inerzia nelle determinazioni del pubblico ministero; fun-zionale allo scopo la trasmissione settimanale degli elenchi delle notizie di reato interessate (art. 127 disp. att. c.p.p.). Con l’assetto attuale, nulla è cambiato, se non che l’esercizio di quel potere è differito allo spirare dei tempi supplementari e che della scadenza deve darsi comunicazione specifica (non in elenchi) e immediata (anziché settimanale). Disposta l’avocazione – di cui resta incerto il carattere au-tomatico o facoltativo, proprio come nel vigore della precedente disposizione 35 – al procuratore genera-le, invariata la disciplina sul punto, spetta un termine di trenta giorni entro cui svolgere le indagini in-dispensabili e assumere le proprie determinazioni (art. 412, comma 1, secondo periodo, c.p.p.) 36. Nes-sun presidio specifico, tuttavia, assicura l’osservanza di questa ulteriore scadenza; di talché, quel limbo che si voleva cancellare in toto risulta semplicemente posticipato.

D’altra parte, come detto, anche il migliore impegno profuso per costringere l’azione entro tempi

31 Previsioni pure incomplete, come rileva A. Bassi, Riforma penale: il limite temporale al potere di veto dell’indagato allo svolgimen-to dell’incidente probatorio, in http://ilpenalista.it/, 3 luglio 2017, non essendo chiarito quali siano le forme e i modi per la presenta-zione della riserva.

32 Disposizioni applicabili ai soli procedimenti per i quali le notizie di reato sono iscritte nel registro di cui all’art. 335 c.p.p. successivamente alla data di entrata in vigore della l. n. 103 del 2017 (comma 36).

33 Se però l’iscrizione nominativa consegue all’ordine del giudice nella procedura di archiviazione contro ignoti, il nuovo comma 2-bis dell’art. 415 c.p.p. – introdotto con la stessa l. n. 103 del 2017 (comma 35) – ha cura di precisare che il termine di cui all’art. 405, comma 2, c.p.p. «decorre dal provvedimento del giudice».

34 Per un giudizio più ottimistico, anche sul piano delle relazioni tra pubblico ministero di primo e secondo grado, ora im-prontate non più sul carattere verticistico bensì «alla stregua del modello cooperativo», v. M. L. Di Bitonto, Eccessiva durata delle in-dagini e avocazione: il Legislatore tenta la via del “dialogo” tra le procure, in http://ilpenalista.it/, 31 luglio 2017.

35 A favore del potere «facoltativo» di avocazione ex art. 412, comma 1, c.p.p., sia prima che dopo la novella del 2017, si espri-me la Procura della Repubblica presso il Tribunale di Tivoli nelle Prime linee guida per l’applicazione della legge 23 giugno 2017 n. 103, cit., p. 31.

36Contra, A. Marandola, Termini per l’esercizio dell’azione penale e avocazione del procuratore generale, cit., p. 172.

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certi – e non è questo il caso – finisce con il rimanere frustrato se resta incerta la decorrenza iniziale dei termini. Tutto muove, è noto, dall’iscrizione nominativa nel registro delle notizie di reato: «immediata-mente», prescrive il codice (art. 335, comma 1, c.p.p.); senza potere di controllo da parte del giudice per le indagini preliminari, afferma la giurisprudenza 37. Nello scenario delineato, allora, poca cosa è il compito di assicurare – inter alia – «l’osservanza delle disposizioni relative all’iscrizione delle notizie di reato», attribuito con la legge del 2017 (commi 75 e 76) tanto al procuratore della Repubblica quanto al procura-tore generale presso la Corte di appello (artt. 1, comma 2, e 6, comma 1, d.lgs. 20 febbraio 2006, n. 106)38. Ennesimo ritocco di facciata e inadeguato, che segna la rinuncia anche del novello legislatore – malgra-do proposte precise di ben diverso calibro 39 – a prevedere un meccanismo di verifica e rideterminazio-ne della data di iscrizione a fronte di adempimenti tardivi che ancora oggi, nel differire il termine ini-ziale, consentono al pubblico ministero di eludere il tempo “base” per le indagini e, per l’effetto, anche quello “supplementare” assegnato per assumere le determinazioni.

Venendo al fronte contrapposto all’azione, le modifiche apportate per contenere i tempi della proce-dura di archiviazione (comma 32) si mescolano ad altre (commi 33 e 34), il cui intento si spiega nel complesso della manovra diretta a razionalizzare la materia delle impugnazioni. Alla prima categoria sono da ascrivere i nuovi termini – non perentori – di tre mesi, assegnati al giudice per le indagini pre-liminari che non accolga la richiesta, sia per fissare udienza in camera di consiglio che per provvedere in esito alla stessa, ove non ordini ulteriori indagini, secondo le modifiche inserite nei commi 2 e 4 dell’art. 409 c.p.p. La contestuale abrogazione dell’art. 409, comma 6, c.p.p. si riconnette, invece, alla scrittura ex novo dei casi di nullità del decreto e dell’ordinanza di archiviazione e all’inedito regime di impugnazione dei due provvedimenti, il tutto ora regolato nell’art. 410-bis c.p.p. (applicabile mediante richiamo ad hoc anche nella procedura di archiviazione per motivi diversi dall’infondatezza della noti-zia di reato ex art. 411, comma 1, c.p.p.).

Già si è anticipato che la puntuale codificazione delle cause di invalidità del decreto (art. 410-bis, comma 1, c.p.p.) – per l’ordinanza, resta invariata la sola ipotesi di nullità nei casi previsti dall’art. 127, comma 5, c.p.p. (art. 410-bis, comma 2, c.p.p.) – recepisce approdi di giurisprudenza consolidata 40. Dubbi solleva, peraltro, lo specifico caso di decreto nullo quando l’opposizione è presentata, se il giudi-ce – così la nuova previsione – «dichiara l’opposizione inammissibile, salvi i casi di inosservanza dell’art. 410, comma 1». Oltre all’intento di escludere che nel giudizio di ammissibilità dell’opposizione possano rile-vare valutazioni di merito, se ne deduce che l’unica declaratoria di inammissibilità permessa è riferita al difetto del requisito contenutistico richiamato (i.e., oggetto dell’investigazione suppletiva e relativi elementi di prova); di contro, non rileverebbe a tale fine la mancata indicazione delle ragioni di opposi-zione rispetto al proposito di archiviare per particolare tenuità del fatto, benché si tratti di elemento ri-chiesto anch’esso a pena di inammissibilità (art. 411, comma 1-bis, c.p.p.).

Del tutto nuovi, invece, lo strumento di impugnazione e la relativa procedura (art. 410-bis, commi 3 e 4, c.p.p.), esperibile nei soli casi di nullità: abrogato il ricorso per cassazione (art. 409, comma 6, c.p.p.) 41, la competenza (funzionale) si radica nel tribunale in composizione monocratica a seguito di reclamo, proposto dall’interessato – persona sia offesa sia sottoposta alle indagini, se l’archiviazione è richiesta per particolare tenuità (art. 411, comma 1-bis, c.p.p.) – nel termine di quindici giorni dalla co-noscenza del provvedimento. Le successive cadenze sono tutte improntate a canoni di semplificazione massima: avviso d’udienza almeno dieci giorni prima; contraddittorio cartolare non oltre il quinto giorno precedente l’udienza; decisione – di annullamento, con restituzione degli atti al giudice che ha emesso il provvedimento; ovvero di conferma o di inammissibilità, con la condanna alle spese e, nel se-

37 V. Cass., sez. un., 24 settembre 2009, n. 40538, in Cass. pen., 2010, p. 503. 38 In argomento, v. Le direttive della Procura di Roma in materia di iscrizioni nel registro delle notizie di reato, in www.penale

contemporaneo.it, 12 ottobre 2017, impartite, per l’appunto, nella prospettiva «di dare attuazione nel modo migliore possibile alla previ-sione normativa» di ultimo conio (art. 1, d.lgs. n. 106 del 2006).

39 Si allude alla proposta elaborata dalla “Commissione Canzio” volta a inserire un nuovo comma 3 nell’art. 407 c.p.p., se-condo cui «il giudice verifica la tempestività degli adempimenti di cui all’art. 335, eventualmente determinando la data nella quale si sareb-be dovuto provvedere».

40 Per una ricostruzione esaustiva e gli opportuni richiami, v. V. Belviso, Il nuovo procedimento archiviativo, in G. Spangher (a cura di), La Riforma Orlando, cit., p. 165 s.

41 Mezzo «eccessivo», secondo la Relazione al d.d.l. n. 2798, cit., p. 5, per vizi connessi alla mera violazione del contraddittorio camerale in sede di procedimento di archiviazione.

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condo caso soltanto, anche al pagamento di una somma a favore della cassa delle ammende – mediante ordinanza pronunciata senza intervento delle parti interessate, e non impugnabile. Soluzione estrema, quest’ultima, che nell’intento – come detto – di ridurre il più possibile il peso dei ricorsi in cassazione, anche di quelli statisticamente meno onerosi (ne è un esempio quello di specie), sottrae all’offeso il po-tere di azionare il sindacato di legittimità sul provvedimento di archiviazione, non potendo ricorrere avverso l’ordinanza emessa dal tribunale in esito al reclamo 42.

PROCEDIMENTI SPECIALI DEFLATIVI DEL DIBATTIMENTO: POTENZIARE

Istituti nevralgici nella prospettiva di migliorare l’efficienza complessiva del sistema e di contenere numero e costi dei dibattimenti, i riti deflativi – per questo premiali – rientrano a pieno titolo negli in-tenti originari della novella, diretta apertis verbis a incentivarne l’uso 43. All’atto pratico, nondimeno, le modifiche introdotte puntano verso obiettivi assai diversi, identificabili con il risultato di snellire e semplificare le procedure 44. Una sorta di efficienza esasperata, tutta interna agli stessi procedimenti speciali, che rischia di renderli opzioni molto poco appetibili proprio per gli imputati, con esiti persino contrapposti a quelli attesi sul piano dell’economia processuale.

La prima e più evidente conferma dell’assunto si ricava dagli interventi operati sul giudizio abbre-viato (commi 41-44), anche quando instaurato a seguito di trasformazione del giudizio direttissimo, di quello immediato o, ancora, con l’opposizione al decreto penale di condanna (commi 45-48)45. Delle quattro modifiche, quasi tutte sulla scia – non sempre perfetta – di consolidata giurisprudenza, solo due possiedono una pur minima carica incentivante: la riduzione premiale della metà (anziché di un terzo) per i reati contravvenzionali, secondo il nuovo comma 2 dell’art. 442 c.p.p., e la codificazione della prassi di ammettere la contestuale formulazione di una pluralità di richieste in ordine di priorità, grazie all’innesto di un comma 5-bis nell’art. 438 c.p.p. Si prevede, cioè, il potere di proporre, insieme alla ri-chiesta di giudizio abbreviato condizionato e in via subordinata al suo rigetto, la richiesta di giudizio abbreviato semplice ovvero di applicazione pena.

Nessun incentivo, anzi, un prevedibile effetto deterrente si riconnette alle ulteriori innovazioni. Si-gnificativo il periodo aggiunto nell’art. 438, comma 4, c.p.p. per regolare i rapporti tra giudizio abbre-viato e investigazioni difensive. La soluzione proposta si pone al crocevia di un intenso dibattito ogget-to di plurimi incidenti di costituzionalità, promossi – con curiosa cadenza biennale – senza che la Con-sulta sia mai pervenuta a censurare l’impiego nel giudizio abbreviato delle risultanze difensive deposi-tate in limine alla richiesta di rito speciale 46. Ora invece, superando una prassi pressoché permissiva e recuperando, in parte, soluzioni suggerite dalla giurisprudenza costituzionale più risalente 47, si preve-de che il pubblico ministero, se il giudizio abbreviato è richiesto «immediatamente dopo» il deposito delle investigazioni difensive, possa «eventualmente» richiedere al giudice un termine non superiore a sessan-ta giorni per svolgere indagini suppletive «limitatamente ai temi introdotti dalla difesa». Ne discende che il giudice provvede sulla richiesta di giudizio abbreviato solo dopo che sia decorso il termine richiesto dal pubblico ministero, con facoltà «in tal caso» per l’imputato di revocare la richiesta 48.

42 Lo segnala V. Belviso, Il nuovo procedimento archiviativo, cit., p. 169. 43 V. Relazione al d.d.l. n. 2798, cit., p. 41. 44 V. Relazione al d.d.l. n. 2798, cit., p. 38, con riferimento specifico al giudizio abbreviato. 45 Secondo T. Alesci, La nuova fisionomia del giudizio abbreviato tra normativizzazione del dato giurisprudenziale e lacune interpreta-

tive, in G. Spangher (a cura di), La Riforma Orlando, cit., p. 195, nel giudizio abbreviato a seguito di citazione diretta a giudizio le nuove previsioni – non richiamate – sarebbero operanti in forza dell’art. 556, comma 1, c.p.p. che prevede l’osservanza delle di-sposizioni in materia di giudizio abbreviato, in quanto applicabili.

46 Sull’argomento, si segnalano C. cost., sent. 7 aprile 2011, n. 117, Giur. cost., p. 1629; C. cost., sent. 26 giugno 2009, n. 184, ivi, 2009, p. 2039; C. cost., ord. 2 marzo 2007, n. 62, ivi, 2007, p. 588; C. cost., ord. 24 giugno 2005, n. 245, ivi, 2005, p. 3382.

47 Il riferimento è a C. cost., ord. 24 giugno 2005, n. 245, cit., che aveva dichiarato manifestamente inammissibile la questione e suggerito di «dare attuazione al principio secondo cui a ciascuna delle parti va comunque assicurato il diritto di esercitare il contradditto-rio sulle prove addotte "a sorpresa" dalla controparte, in modo da contemperare l’esigenza di celerità con la garanzia dell’effettività del con-traddittorio, anche attraverso differimenti delle udienze congrui rispetto alle singole, concrete fattispecie».

48 Come segnalano M. Gialuz-A. Cabiale-J. Della Torre, Riforma Orlando, cit., p. 14 s., l’art. 438, comma 4, c.p.p. non risulta – inspiegabilmente – richiamato nella disciplina del giudizio abbreviato che si innesti nel rito direttissimo, nel giudizio immediato o nel procedimento per decreto.

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Nessun dubbio che l’obiettivo sia sterilizzare l’effetto sorpresa connesso al deposito in extremis delle investigazioni difensive, nella prospettiva di consentire un contraddittorio paritetico sugli ele-menti sopravvenuti. Da valorizzare, in proposito, il circoscritto campo di indagine che si riapre per l’inquirente pubblico, nei limiti degli elementi a carico sui temi introdotti a discarico dalla difesa 49. In ogni caso, e per quanto l’imputato conservi la facoltà di revocare la richiesta, certamente il nuovo congegno potrebbe contribuire a rendere meno appetibile l’opzione alternativa.

Malgrado ciò, le critiche che anche per questo hanno investito la previsione non sembrano del tutto condivisibili 50. È vero, infatti, che l’assetto previgente, come delineato dai giudici costituzionali, non imponeva di accordare un potere di indagine suppletiva al pubblico ministero; nemmeno, però, lo vie-tava e, anzi, come detto, in certa misura lo suggeriva. L’innesto, allora, a fronte di prassi incontrollabili che avrebbero potuto riconoscere all’inquirente chances investigative anche più ampie, e ferme tutte le riserve sulle reali potenzialità di interventi legislativi così mirati nella perdurante latitanza di una più ampia riforma di sistema, reca almeno un pregio: circoscrivere rigorosamente l’oggetto e contenere en-tro termini certi il potere di indagine a contrario del pubblico ministero, confermando, altresì, che l’im-putato può revocare la richiesta, facoltà non altrettanto sicura in difetto di previsione espressa.

Più insidiosa è, semmai, la quarta e ultima modifica, concernente gli effetti dell’istanza di giudizio abbreviato. Nello specifico, secondo il nuovo art. 438, comma 6-bis, c.p.p., se proposta in udienza preli-minare la richiesta determina la «sanatoria» delle nullità non assolute e la non rilevabilità delle inutiliz-zabilità, «salve quelle derivanti dalla violazione di un divieto probatorio»; preclude, altresì, ogni questione sulla competenza per territorio del giudice. Ora, è noto come nella prima porzione della regola sia rin-tracciabile la replica fedele – per quanto discutibile sia la scelta di trasporla in legge 51 – di una giuri-sprudenza inossidabile di legittimità 52. Altrettanto non vale per le questioni di competenza territoriale a cui la prassi, invece, accordava un margine di rilievo, circoscritto ma ragionevole 53.

È allora prevedibile che l’erosione completa di una garanzia fondamentale quale il giudice naturale (art. 25, comma 1, Cost.) possa sortire, oggi, effetti deterrenti della richiesta54. Amplificati, peraltro, dal richiamo integrale dell’art. 438, comma 6-bis, c.p.p. per l’ipotesi di abbreviato che si innesti nel giudizio direttissimo (art. 452, comma 2, c.p.p.) o nel procedimento per decreto (art. 464, comma 1, c.p.p.); non anche nel giudizio immediato dove, anzi, fermo nel resto il rimando testuale a quella stessa previsione, l’eccezione di incompetenza per territorio può essere proposta proprio con la richiesta di giudizio ab-breviato e assume specifico rilievo nel corso della successiva udienza camerale, ridisegnata ad hoc (art. 458, commi 1 e 2, c.p.p.). D’altra parte, se è ragionevole che la questione acquisti spessore nelle pieghe del giudizio immediato, poiché manca un’udienza dopo l’esercizio dell’azione penale in cui l’imputato possa contestare la competenza per territorio, sembra censurabile la diversa soluzione adottata per il procedimento per decreto, che presenta situazione identica 55.

49 Un «diritto alla controindagine», nell’efficace definizione di G. Di Chiara, sub commi 41, 42 e 43 Riforma Orlando, in A. Giarda-G. Spangher (a cura di), Codice di procedura penale commentato, cit., p. 3497.

50 V. in proposito F. Galluzzo, Riforma Orlando: giudizio abbreviato, in www.parolaalladifesa.it, 16 giugno 2017, che intravvede nella nuova previsione «il superamento della posizione della Corte costituzionale»; in precedenza, v. anche Id., Approvate alla Camera le modifiche al giudizio abbreviato: prime riflessioni, in http://ilpenalista.it/, 12 ottobre 2015, ravvisando nella modifica «un ritorno al passato nella battaglia per la “parità delle armi”». In più ampia prospettiva, per una critica delle modifiche introdotte per regolare i rapporti tra giudizio abbreviato e investigazioni difensive, v. A. Pasta, Le investigazioni difensive nel giudizio abbreviato dopo la ri-forma Orlando: due cause di un fallimento, in Arch. penale, n. 2/2017.

51 Significativi i rilievi espressi dalla “Commissione Canzio”, consultabili in Verso una mini-riforma del processo penale: le propo-ste della Commissione Canzio, in www.penalecontemporaneo.it, 27 ottobre 2014.

52 V. Cass., sez. un., 21 giugno 2000, n. 16, in Cass. pen., 2001, p. 400. 53 V. Cass., sez. un., 29 marzo 2012, n. 27996, in Cass. pen., 2013, p. 572, secondo cui «l’eccezione di incompetenza territoriale è

proponibile in limine al giudizio abbreviato non preceduto dall’udienza preliminare, mentre, qualora il rito alternativo venga instaurato nel-la stessa udienza, l’incidente di competenza può essere sollevato, sempre in limine a tale giudizio, solo se già proposto e rigettato in sede di udienza preliminare».

54 Secondo F. Galluzzo, Approvate alla Camera le modifiche al giudizio abbreviato, cit., potrebbe residuare la «possibilità di sollevare la questione di incompetenza territoriale anche dinanzi al giudice dell’abbreviato, fino a quando questi non abbia dichiarato instaurato il rito».

55 In termini critici, con riguardo alle ricadute nel procedimento per decreto, v. M. Gialuz-A. Cabiale-J. Della Torre, Riforma Orlando, cit., p. 16; M. Riccardi, Il restyling del giudizio abbreviato nella riforma del processo penale: nullità, inutilizzabilità e incompe-tenza per territorio, tra conferme e alcune contraddizioni, in Giurisprudenza Penale Web, 2017, p. 9.

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Proprio con riguardo al rito monitorio va segnalata la modifica diretta – questa sì – a potenziarne l’impiego, riducendo i casi di opposizione (comma 53): grazie alle nuove regole inserite con l’art. 459, comma 1-bis, c.p.p., per determinare l’ammontare della pena pecuniaria si tiene conto della condizione economica, personale e familiare, dell’imputato e si seguono criteri di ragguaglio più appetibili di quelli ordinari stabiliti dall’art. 135 c.p. Del tutto differente la finalità assegnata alle innovazioni in materia di applicazione pena su richiesta (commi 49-51), anch’esse da ascrivere – come si dirà – alla più ampia manovra che punta a razionalizzare le impugnazioni, qui attraverso la riduzione dei casi di ricorso per cassazione.

A conti fatti, dunque, con l’eccezione delle poche modifiche processuali di rilievo, le speranze di ve-dere potenziati i riti deflativi del dibattimento restano complessivamente deluse. Salvo voler intravve-dere un originale incentivo nelle disposizioni della novella di matrice sostanziale che hanno inciso sul regime della prescrizione (commi 11-17), aumentandone i termini (artt. 159, 160 e 161 c.p.), così privan-do di appeal la scelta dibattimentale per le chances più ridotte di lucrare l’estinzione del reato.

IMPUGNAZIONI: RAZIONALIZZARE

Impegno ancor più oneroso, l’obiettivo di rendere razionale un sistema di impugnazioni asfittico e sovraccarico è stato interpretato dal legislatore della novella seguendo due direttrici portanti: deflazio-ne e semplificazione. Al primo nucleo, per la verità, si riconnette la quasi totalità delle modifiche intro-dotte, in cui l’intento di ridurre i numeri del fenomeno è perseguito esplicitamente – così, per tutte le previsioni che puntano a restringere l’area soggettiva e oggettiva di impugnazione – ma anche in via mediata per il tramite di norme con maggiori nervature sistemiche, le cui ricadute si apprezzano nell’accresciuto rigore della selezione al vaglio di ammissibilità. Più timide – specialmente a confronto con i propositi iniziali – e in parte rinviate all’attuazione di una specifica delega che nel settore delle impugnazioni convive con le norme di applicazione immediata56, le misure dirette sulla stessa confor-mazione e sul funzionamento degli istituti, dove sono pochi i dispositivi volti a snellire le procedure e, di necessità, talora attutiti negli effetti, per il concorrere di meccanismi diversi che nell’assicurare de-terminate garanzie finiscono anche per dilatare i tempi.

Alla manovra di deflazione “indiretta” è da ricondurre l’interpolazione dell’art. 546, comma 1, lett. e), c.p.p. (comma 52): la motivazione della sentenza si arricchisce, per un verso, di contenuti nuovi – tra i requisiti già prescritti, l’indicazione generica «delle prove poste a base della decisione» è sostituita con quella specifica «dei risultati acquisiti e dei criteri di valutazione della prova adottati» – e, per altro verso, di una struttura inedita, ora scandita in quattro punti precisi (imputazione; punibilità, determinazione della pena e della misura di sicurezza; responsabilità civile derivante da reato; fatti da cui dipende l’ap-plicazione di norme processuali). Il maggiore impegno preteso dal giudice in motivazione – nelle for-me, seguire analiticamente il thema probandum (art. 187 c.p.p.), con ricadute in punto di motivazione mancante (art. 606, comma 1, lett. c), c.p.p.); nella sostanza, esplicitare i criteri di valutazione della pro-va (art. 192 c.p.p.), rilevanti per sindacare sussistenza, coerenza e logicità del percorso argomentativo (art. 606, comma 1, lett. e), c.p.p.) – riflette, in prospettiva opposta, il più elevato grado di precisione ri-chiesto alla parte (comma 55) 57.

L’impugnazione, infatti, secondo il nuovo art. 581 c.p.p., si propone con l’«enunciazione specifica» di tutti gli elementi prescritti (ora quattro, anche qui), e non soltanto delle ragioni di diritto e degli ele-menti di fatto a sostegno della richiesta (lett. d), come nella previgente versione. Tra i detti elementi, in aggiunta a capi e punti della decisione a cui l’impugnazione si riferisce (lett. a) e alle richieste, ora «an-che istruttorie» (lett. c), spicca per originalità – e per lo stretto legame con i contenuti della motivazione di nuovo conio – quello riferito alle «prove delle quali si deduce l’inesistenza, l’omessa assunzione o l’omessa o erronea valutazione» (lett. b). La previsione espressa, poi, della sanzione di inammissibilità, che si affian-

56 Sul punto, v. lo schema di decreto legislativo recante “Disposizioni di modifica della disciplina in materia di giudizi di impugnazione”, Atto del Governo n. 465 sottoposto a parere parlamentare e assegnato il 10 ottobre 2017, in www.penalecontem poraneo.it, 11 ottobre 2017, con commento di A. Marandola, La riforma Orlando si completa: approvato il decreto legislativo sulle impu-gnazioni.

57 V. H. Belluta, Inammissibilità dell’appello per genericità dei motivi: le Sezioni Unite tra l’ovvio e il rivoluzionario, in Dir. pen. cont. – Riv. trim., 2017, 2, p. 134 s.

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ca a quella già desumibile dall’art. 591 c.p.p. ed è quindi da riferire, nel contesto dell’art. 581 c.p.p., proprio all’accresciuto onere di specificità richiesto all’impugnante, rivela quanta fiducia abbia riposto la novella nelle potenzialità deflative del filtro di ammissibilità.

Sul versante della riduzione numerica “diretta”, invece, l’intervento si concentra nel restringere l’a-rea della ricorribilità per cassazione, soggettiva e oggettiva, allo scopo di decongestionare un giudice di legittimità a rischio paralisi.

Sul punto, oltre ai limiti stabiliti per il ricorso del pubblico ministero in ipotesi di proscioglimento confermato in appello (comma 69), ora proponibile, a norma del comma 1-bis dell’art. 608 c.p.p., «solo per i motivi di cui alle lettere a), b) e c) del comma 1 dell’art. 606» (i.e., per violazione di legge), va segnalata la perdita di legittimazione personale a ricorrere per cassazione da parte dell’imputato. L’effetto deriva dalla soppressione dell’incipit originario dell’art. 613, comma 1, c.p.p. (comma 63) e dall’introduzione di una corrispondente clausola di salvezza nell’art. 571, comma 1, c.p.p. (comma 54) che continua a rico-noscere all’imputato il potere di proporre impugnazione personalmente, salva la nuova eccezione58. La modifica si spiega in ragione dell’elevato contenuto tecnico presupposto dal ricorso di legittimità, diffi-cilmente assicurato dall’impugnazione personale – con inutile dispendio di energie nel sindacare ricorsi inammissibili – e confermato dalla necessaria abilitazione richiesta allo stesso difensore per patrocinare in cassazione, requisito sino ad oggi frequentemente eluso nella prassi proprio grazie alla sottoscrizione del ricorso da parte dell’imputato in luogo del difensore privo della prescritta abilitazione. Vero ciò, vi è da chiedersi se argomentazioni simili, tenuto conto del più gravoso impegno tecnico-giuridico oggi richiesto per l’enunciazione specifica di tutti gli elementi di ogni atto di impugnazione (art. 581 c.p.p.), inclusa – e, anzi, specialmente – quella di merito, non potrebbero suggerire soluzioni ancora più radica-li e indurre a rimettere nelle mani del solo difensore la presentazione anche dell’appello.

A ridurre l’ambito oggettivo del ricorso per cassazione contribuiscono, invece, tre interventi distinti ma accomunati nelle ragioni di fondo; situazioni tutte, cioè, in cui il rimedio di legittimità è stato ritenu-to mezzo sovradimensionato rispetto allo scopo.

Così, oltre alle modifiche già descritte per l’impugnazione del provvedimento di archiviazione (art. 410-bis c.p.p.), è stato ripristinato l’appello – al posto del ricorso per cassazione – avverso la sentenza di non luogo a procedere (commi 38-40), in linea con la verifica essenzialmente fattuale e di merito richie-sta per stabilire se sussistono le condizioni per disporre il giudizio 59. Operando sull’art. 428 c.p.p., più precisamente, si è mantenuta invariata la legittimazione soggettiva (procuratore della Repubblica, pro-curatore generale, imputato e persona offesa), negli stessi limiti già previsti dai commi 1 e 2 (per l’of-feso, rilevano le sole nullità per violazione del contraddittorio ex art. 419, comma 7, c.p.p.); si è esclusa, però, la persona offesa costituita parte civile, prima legittimata a ricorrere ai sensi dell’art. 606 c.p.p., sul rilievo dell’assenza di pregiudizio derivante dalla statuizione di non luogo a procedere, priva di effica-cia extrapenale (art. 652 c.p.p.) 60. Anche il modulo in camera di consiglio, ora davanti alla corte di ap-pello, è rimasto quello da celebrare con le forme dell’art. 127 c.p.p., ma nello stesso art. 428, comma 3, c.p.p. sono stati precisati i poteri decisori: in caso di appello del pubblico ministero (conferma ovvero decreto che dispone il giudizio nonché sentenza di non luogo a procedere con formula meno favorevo-le) e dell’imputato (conferma ovvero sentenza di non luogo a procedere con formula più favorevole), con un divieto di reformatio in peius che dovrebbe, malgrado la formulazione imprecisa, ancorarsi al-l’appello del «solo» imputato secondo la regola generale (art. 597, comma 3, c.p.p.). Estromesso in prima battuta, il giudice di legittimità torna in auge con il ricorso per cassazione, esperibile, a norma dell’art. 428, comma 3-bis, c.p.p., per i soli motivi di cui all’art. 606, comma 1, lett. a), b) e c), c.p.p. (i.e., per viola-zione di legge), dall’imputato e dal procuratore generale (nulla è detto quanto alla persona offesa), con-tro la sentenza di non luogo a procedere pronunciata in grado di appello (di conferma e, parrebbe, an-che di riforma); ricorso da decidere, secondo canoni di semplificazione, in udienza camerale non parte-cipata ex art. 611 c.p.p. (art. 428, comma 3-ter, c.p.p.).

58 In argomento, v. di recente Cass., sez. VI, 13 settembre 2017, n. 42062, in www.dirittoegiustizia.it, 22 settembre 2017, secondo cui la previsione – ora modificata – dell’art. 613, comma 1, c.p.p., “avendo valenza di carattere generale, si applica a tutte le ipotesi, codicistiche ed extracodicistiche, di ricorso per cassazione”, compreso il ricorso presentato dalla «persona interessata» avverso le deci-sioni in materia di consegna nel contesto del mandato d’arresto europeo (art. 22, l. 22 aprile 2005, n. 69).

59 V. Relazione al d.d.l. n. 2798, cit., p. 6. 60 In senso favorevole, v. R.G. Bricchetti, sub commi 38, 39 e 40 Riforma Orlando, in A. Giarda-G. Spangher (a cura di), Codice di

procedura penale commentato, cit., p. 3494. In termini critici, v. M. Gialuz-A. Cabiale-J. Della Torre, Riforma Orlando, cit., p. 11.

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Sempre sul piano oggettivo, nel solco tracciato dalla prassi della stessa Corte di cassazione si è ridot-ta la casistica dei vizi della sentenza di applicazione pena censurabili in sede di legittimità (commi 49-51), sul presupposto che il modulo consensuale di definizione del processo non meriti più ampia possi-bilità di ricorso 61, troppe volte proposto al mero scopo di differire l’irrevocabilità della sentenza. Per il nuovo comma 2-bis dell’art. 448 c.p.p. rilevano, dunque, soltanto l’espressione della volontà dell’im-putato, il difetto di correlazione tra richiesta e sentenza, l’erronea qualificazione giuridica del fatto non-ché l’illegalità della pena o della misura di sicurezza. Nessuno spazio, invece, per nullità assolute e inu-tilizzabilità patologiche, secondo una scelta discutibile, specialmente nel raffronto con la diversa solu-zione accolta dalla stessa novella in seno al giudizio abbreviato – dove quei vizi pesano (art. 438, com-ma 6-bis, c.p.p.) – che pure si fonda, come il patteggiamento, sulla volontà (qui, esclusiva) dell’im-putato. Ulteriori potenzialità deflative risiedono, poi, nella speciale ipotesi di correzione dell’errore ma-teriale insito nella sentenza di applicazione pena, regolata dal nuovo comma 1-bis dell’art. 130 c.p.p.: trattandosi di rettificare solo la specie e la quantità della pena per errore di denominazione o di compu-to, la correzione è disposta anche ex officio dallo stesso giudice che ha emesso il provvedimento, radi-candosi la competenza della Corte di cassazione a norma dell’art. 619, comma 2, c.p.p. soltanto se il provvedimento è «impugnato», cioè censurato per motivi diversi da quello stesso errore.

Venendo ai congegni di funzionamento, emerge subito come le esigenze di semplificazione si deb-bano necessariamente coniugare, come detto, con il rispetto di talune specifiche garanzie; anche a scapi-to della rapidità nel procedere.

Caso emblematico il giudizio di appello, oggetto di modifiche nella duplice direzione indicata (commi 56-58 e 72). Da un lato, si attua il ripristino del c.d. concordato sui motivi (art. 599, commi 4 e 5, c.p.p., abr.), da più parti auspicato per le sicure potenzialità deflative62. L’istituto, dopo le alterne vicen-de 63, rivive oggi nel nuovo art. 599-bis c.p.p. (e nel dibattimento di appello ex art. 602, comma 1-bis, c.p.p.), sia pure con innovazioni significative dettate dall’esigenza di replicare alle critiche che ne ave-vano determinato la soppressione. E difatti, mentre resta invariato il fulcro con riguardo al procedimen-to e ai poteri del giudice (art. 599-bis, commi 1 e 3, c.p.p.), l’accordo sui motivi si arricchisce di due pre-visioni del tutto inedite: per un verso, ne è esclusa l’applicazione nei procedimenti per taluni gravi de-litti, espressamente elencati, e in quelli contro coloro che siano stati dichiarati delinquenti abituali, pro-fessionali o per tendenza (art. 599-bis, comma 2, c.p.p.) 64; per altro verso, si affida al procuratore genera-le il compito di indicare i criteri idonei a orientare la valutazione dei magistrati del pubblico ministero nell’udienza, tenuto conto della tipologia dei reati e della complessità dei procedimenti (art. 599-bis, comma 4, c.p.p.) 65.

Sul fronte concorrente delle garanzie deve, invece, segnalarsi l’introduzione del nuovo comma 3-bis dell’art. 603 c.p.p., esplicito nel prevedere «la rinnovazione dell’istruzione dibattimentale» nel caso di appel-lo del pubblico ministero contro una sentenza di proscioglimento «per motivi attinenti alla valutazione del-la prova dichiarativa». È il tema della prima condanna in appello, ben noto per i fondamentali arresti del-le Sezioni Unite che hanno preceduto di poco la modifica normativa 66, nel tentativo di adeguare subito

61 V. Relazione al d.d.l. n. 2798¸ cit., p. 7. 62 V. M. Bargis-H. Belluta, Linee guida per una riforma dell’appello, in M. Bargis-H. Belluta, Impugnazioni penali. Assestamenti di

sistema e prospettive di riforma, Torino, Giappichelli, 2013, p. 283. 63 Per i riferimenti, v. volendo E. Lorenzetto, sub commi 56 e 57 Riforma Orlando, in A. Giarda-G. Spangher (a cura di), Codice

di procedura penale commentato, cit., p. 3508 s. 64 Il circoscritto campo applicativo dell’accordo sui motivi ex art. 599-bis, comma 2, c.p.p. riproduce le preclusioni oggettive e

soggettive al c.d. patteggiamento allargato (art. 444, comma 1-bis, c.p.p.), con la sola eccezione della recidiva ex art. 99, comma 4, c.p. La scelta, verosimilmente dettata dall’esigenza di sedare la critica secondo cui il concordato sui motivi avrebbe fortemente ridotto l’interesse verso soluzioni patteggiate in primo grado, suscita tuttavia fondate riserve, nella misura in cui finisce per ge-nerare una sovrapposizione impropria tra patteggiamento e concordato in appello, istituti distinti sul piano strutturale e fun-zionale (v. M. Bargis, Primi rilievi sulle proposte di modifica in materia di impugnazioni nel recente d.d.l. governativo, in Dir. pen. cont. – Riv. trim., 2015, 1, p. 9; Ead., I ritocchi alle modifiche in tema di impugnazioni nel testo del d.d.l. n. 2798 approvato dalla Camera dei depu-tati, in www.penalecontemporaneo.it, 19 ottobre 2015).

65 Va ricordato l’impegno, assegnato dalla l. n. 103 del 2017 ai presidenti delle Corti di appello, di riferire, con la relazione sull’amministrazione della giustizia, dati e valutazioni inter alia sull’andamento dei giudizi di appello definiti ai sensi dell’art. 599-bis c.p.p. (comma 72).

66 Il riferimento è a Cass., sez. un., 28 aprile 2016, n. 27620, in www.penalecontemporaneo.it, 5 ottobre 2016, con nota di E. Lo-renzetto, Reformatio in peius in appello e processo equo (art. 6 CEDU): fisiologia e patologia secondo le Sezioni Unite; sul tema v. anche

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le norme interne ai canoni di legalità convenzionale (art. 6 Cedu) 67. Non mancano i nodi esegetici 68, an-che a causa della trasposizione non perfetta degli stessi enunciati poco prima offerti dalla giurispru-denza 69. Macroscopica la discordanza nel presupposto della prescritta rinnovazione: la nuova norma lo associa alla valutazione della prova dichiarativa, non soltanto di quella “decisiva” come invece preteso dalla cassazione. Non parrebbe, tuttavia, imporsi a priori la rinnovazione dell’intera istruzione dibatti-mentale di primo grado, foriera di una dilatazione automatica e irragionevole dei tempi processuali. Si tratterà, semmai, di rinnovare le dichiarazioni ogni volta che risultino “rilevanti” ai fini dell’ac-certamento della responsabilità, nel senso che il giudice le abbia incluse tra le prove da porre a fonda-mento della condanna, così accreditando rilievo alla rivalutazione di attendibilità non soltanto intrinse-ca ma anche estrinseca. Del tutto irrisolto resta il regime di rilevazione del vizio derivante dall’omessa rinnovazione, quesito che aveva originato la prima investitura delle Sezioni Unite per chiarire se fosse emendabile dalla cassazione ex officio, malgrado la cornice ristretta dell’art. 609, comma 2, c.p.p. 70.

Tentativi di fluidificare l’iter nel rispetto delle garanzie si ritrovano pure nel giudizio di cassazione (commi 61 e 62). La sede è offerta dal vaglio preliminare di ammissibilità del ricorso, ora consentito «senza formalità di procedura» in talune specifiche ipotesi elencate nell’inedito comma 5-bis dell’art. 610 c.p.p.: si tratta, per la precisione, dei vizi di mera forma selezionati tra le cause di inammissibilità ex art. 591 c.p.p. – tutte richiamate ma, per la lett. a), limitatamente al difetto di legittimazione e, per la lett. c), esclusa l’inosservanza delle disposizioni dell’art. 581 c.p.p. – nonché dei casi di inammissibilità del ri-corso contro la sentenza che applica la pena richiesta (rimedio a sua volta ridimensionato, come visto, nei motivi proponibili) e contro quella emessa in esito al nuovo concordato in appello ex art. 599-bis c.p.p. In senso opposto, vengono invece rafforzate le garanzie quando è investita la c.d. sezione-filtro, dovendo l’avviso d’udienza enunciare la causa di inammissibilità rilevata facendo, ora, riferimento «al contenuto dei motivi del ricorso», secondo l’interpolazione dell’art. 610, comma 1, c.p.p. Da segnalare an-che la previsione espressa del ricorso straordinario ex art. 625-bis c.p.p. avverso il provvedimento che dichiara de plano l’inammissibilità, sempre secondo il citato comma 5-bis dell’art. 610 c.p.p. Atteso che l’azionabilità del rimedio era già implicita nelle regole generali a fronte della declaratoria di inammissi-bilità produttiva di un giudicato di condanna, non sono da escludere effetti espansivi proprio in forza della nuova previsione 71. Il ricorso straordinario, cioè, sarebbe ora proponibile anche da soggetti ordi-nariamente non ammessi (dunque diversi dal condannato) e avverso provvedimenti di norma non cen-surabili con lo stesso mezzo (cautelari o comunque di natura incidentale), ogni volta che la declaratoria di inammissibilità del ricorso sia adottata senza formalità di procedura. Ad ogni modo, nel complesso della manovra di semplificazione non va trascurata la maggiore carica dissuasiva derivante dalle modi-fiche in materia di sanzioni pecuniarie per il caso di rigetto o di inammissibilità del riscorso (commi 64

H. Belluta-L. Luparia, Alla ricerca del vero volto della sentenza Dasgupta. Alle Sezioni Unite il tema della rinnovazione probatoria in ap-pello dopo l’assoluzione in abbreviato non condizionato, ivi, 9 gennaio 2017. Si veda, altresì, Cass., sez. un., 19 gennaio 2017, n. 18620, ivi, 8 maggio 2017, con nota di H. Belluta-L. Luparia, Ragionevole dubbio e prima condanna in appello: solo la rinnovazione ci salverà?

67 Da ultimo, v. Corte edu, 29 giugno 2017, Lorefice c. Italia, in www.penalecontemporaneo.it, 12 luglio 2017, con nota di L. Pressacco, Una censura ampiamente annunciata: la Corte di Strasburgo condanna l’Italia per il ribaltamento in appello dell’assoluzione senza rinnovazione dell’istruzione dibattimentale.

68 E le perplessità: v. in particolare le riflessioni di M. Ceresa-Gastaldo, La riforma dell’appello, tra malinteso garantismo e spinte deflative, in www.penalecontemporaneo.it, 18 maggio 2017. Nei più recenti approdi di legittimità è, in particolare, controverso il dovere di rinnovazione in ipotesi di reformatio in melius: a fronte della tesi negativa (v. Cass., sez. un., 28 aprile 2016, n. 27620, cit.; Cass., sez. IV, 20 dicembre 2016, n. 4222, in www.dirittoegiustizia.it, 3 febbraio 2017) e di altra favorevole (v. da ultimo Cass., sez. II, 20 giugno 2017, n. 41571, in www.dirittoegiustizia.it, 13 settembre 2017), la questione è stata rimessa ex officio alle Sezioni Unite. Sul tema, v. H. Belluta, Oltre Dasgupta o contro Dasgupta? Alle Sezioni Unite decidere se la rinnovazione è obbligatoria anche in caso di overturning da condanna a proscioglimento, in www.penalecontemporaneo.it, 19 ottobre 2017.

69 Da notare, tra le altre cose, che le Sezioni Unite avevano esteso i medesimi principi al caso di riforma della sentenza di proscioglimento, ai fini delle statuizioni civili, su appello della parte civile (Cass., sez. un., 28 aprile 2016, n. 27620, cit.), mentre nel nuovo art. 603, comma 3-bis, c.p.p. nulla è detto al riguardo.

70 Va ricordato che secondo Cass., sez. un., 28 aprile 2016, n. 27620, cit., la mancata rinnovazione «integra di per sé un vizio di motivazione della sentenza di appello, ex art. 606, comma 1, lett. e), per mancato rispetto del canone di giudizio “al di là di ogni ragionevole dubbio” di cui all’art. 533, comma 1», tale da imporre – eccetto i casi di inammissibilità del ricorso – l’annullamento con rinvio del-la sentenza impugnata «qualora il ricorrente abbia impugnato la sentenza di appello censurando la mancanza, la contraddittorietà o la manifesta illogicità della motivazione con riguardo alla valutazione di prove dichiarative ritenute decisive, pur senza fare specifico riferimen-to al principio contenuto nell’art. 6, par. 3, lett. d)» della Cedu.

71 Lo segnalano M. Gialuz-A. Cabiale-J. Della Torre, Riforma Orlando, cit., p. 23.

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e 65), ora passibili di aumenti fino al triplo e oggetto di adeguamenti biennali, secondo la nuova formu-lazione dell’art. 616, commi 1 e 1-bis, c.p.p. 72.

Sempre sul piano dei meccanismi, effetti positivi in termini di deflazione sono attesi da due ulteriori modifiche di rilievo, entrambe maturate sulla scorta di soluzioni sperimentate nel processo civile (commi 66 e 67). Allo scopo di ridurre i contrasti giurisprudenziali, forieri del moltiplicarsi dei ricorsi, si interviene sull’art. 618 c.p.p.: secondo il nuovo comma 1-bis (che ricalca l’art. 374, comma 3, c.p.c.), la sezione semplice che non condivida il principio di diritto enunciato dalle Sezioni Unite deve rimettere a queste la decisione del ricorso, fermo il potere delle stesse Sezioni Unite, secondo il nuovo comma 1-ter (eco dell’art. 363, comma 3, c.p.c.), di enunciare il principio di diritto anche quando il ricorso di cui sono investite è dichiarato inammissibile per causa sopravvenuta. Ancora, in vista di una maggiore econo-mia, la lett. l) dell’art. 620 c.p.p. è stata sostituita in toto, ampliando i casi di annullamento senza rinvio (sulla falsariga dell’art. 384, comma 2, c.p.c.). Vi rientrano, ora, anche le ipotesi in cui la Corte ritiene «di poter decidere, non essendo necessari ulteriori accertamenti di fatto», mentre la rideterminazione della pena è adesso expressis verbis consentita soltanto «sulla base delle statuizioni del giudice di merito», non potendo la Corte stessa formulare valutazioni proprie incompatibili con il ruolo di giudice di legittimità.

Anche i ritocchi al ricorso straordinario per errore materiale o di fatto si giustificano con l’intento di snellire le procedure (comma 68): secondo le aggiunte operate nell’art. 625-bis, comma 3, c.p.p., l’errore materiale rilevato ex officio dalla stessa corte di cassazione è ora emendabile «senza formalità»; l’errore di fatto, a sua volta, diviene rilevabile d’ufficio dal giudice di legittimità, entro novanta giorni dalla deli-berazione, finendo per perdere uno dei tratti distintivi che ne caratterizzava la natura di mezzo di im-pugnazione straordinaria rispetto alla rettifica del mero errore materiale 73.

Profili di sgravio per la corte di cassazione discendono, infine, dalla più recente fisionomia disegnata dalla novella per la rescissione del giudicato (commi 70 e 71), impugnazione straordinaria da indirizza-re, ora, alla corte di appello. Abrogato l’art. 625-ter c.p.p., il legislatore ha trasfuso nel nuovo art. 629-bis c.p.p., innestato ex abrupto tra le norme in materia di revisione, la disciplina del rimedio in favore del condannato e del sottoposto a misura di sicurezza con sentenza passata in giudicato nei cui confronti si è proceduto in absentia. Di dubbia collocazione sistematica, difficilmente spiegabile se non in ragione della mutata competenza (funzionale) in favore della corte di appello, per quanto sia questo l’unico tratto di affinità evidente tra rescissione e revisione, la previsione omette di correggere le maggiori in-congruenze dell’istituto – su tutte, l’onere a carico dello stesso interessato di dimostrare l’incolpevole ignoranza della celebrazione del processo – e si preoccupa soltanto di regolare taluni aspetti procedura-li ex novo (criterio che designa la corte di appello competente come quella nel cui distretto ha sede il giudice che ha emesso il provvedimento; udienza camerale partecipata ex art. 127 c.p.p.; sospensione dell’esecuzione e impugnabilità del provvedimento conclusivo). Aspetti, nel complesso, oggetto di norme fugaci e imprecise, da cui si intende chiaramente come il legislatore, anziché meditare una più strutturale disciplina per tale strumento – e idearne, con l’occasione, una ad hoc per le ipotesi di revisio-ne “europea”, coniata e regolata, ancora oggi, da una pronuncia non più recente della Consulta 74 – ab-bia sempre avuto di mira, prima di ogni cosa, la riduzione dei compiti della Suprema Corte.

In via del tutto isolata, una sola previsione tenta di sconfessare l’assunto (comma 60): il riferimento è al ricorso per cassazione in materia cautelare reale e all’innesto nell’art. 325, comma 3, c.p.p. di un ri-mando esplicito all’art. 311, comma 5, c.p.p., in aggiunta ai già richiamati commi 3 e 4 della stessa di-sposizione. A dispetto della natura microscopica, la modifica impone modalità procedurali ben deter-minate, a sonora smentita della più recente giurisprudenza favorevole a soluzioni meno onerose in termini di tempi e adempimenti 75. Ne deriva che l’udienza camerale davanti alla Suprema Corte, anzi-ché svolgersi senza intervento dei difensori ex art. 611 c.p.p., come voleva la Cassazione, segue le forme del contraddittorio partecipato di cui all’art. 127 c.p.p., con decisione nel termine di trenta giorni, pro-prio come avviene quando il ricorso per cassazione concerne i provvedimenti cautelari personali. Bene, dunque, la messa al bando di soluzioni sbrigative e poco rispettose delle garanzie difensive; troppo po-

72 Aumenti e adeguamenti stabiliti dalla l. n. 103 del 2017 (comma 59) anche per le sanzioni pecuniarie in ipotesi di inammis-sibilità della richiesta di rimessione ex art. 48, commi 6 e 6-bis, c.p.p.

73 Critico il giudizio sul punto espresso da M. Gialuz-A. Cabiale-J. Della Torre, Riforma Orlando, cit., p. 25. 74 Si allude a C. cost., sent. 7 aprile 2011, n. 113, in Cass. pen., 2009, p. 3299. 75 V. Cass., sez. un., 17 dicembre 2015, n. 51207, in Cass. pen., 2016, p. 1396. V. anche di recente, Cass., sez. II, 18 gennaio 2017,

n. 6843, in http://ilpenalista.it/, 21 luglio 2017.

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co, tuttavia, per sperare di correggere le più ampie e persistenti incongruenze che ancora rischiano – complice una giurisprudenza poco avveduta – di azzerare le tutele nei procedimenti cautelari reali, benché sia risaputo che le stesse misure patrimoniali possono attingere in termini oltremodo afflittivi diritti e libertà della persona 76.

ISTANZE SECURITARIE E REPRESSIVE: FRONTEGGIARE

Anche le norme processuali non sono rimaste immuni dall’esigenza di fornire risposte alle istanze, sempre urgenti, di sicurezza e repressione. Affidate in misura preponderante agli interventi in materia sostanziale, le soluzioni proposte nel campo del processo, tutte collocate nelle disposizioni di attuazio-ne, risultano a ben vedere gravide di ricadute rilevanti per l’intero sistema, malgrado la sede defilata.

Non tanto per gli adempimenti organizzativi che talune sottendono (commi 73 e 74): è il caso della rettifica ex art. 129, comma 3-ter, disp. att. c.p.p. delle informazioni sull’azione penale per i reati am-bientali nei riguardi del Ministero e della Regione competenti, oggi dovuta «dando notizia dell’impu-tazione», risultando invece soppressa la mera indicazione – troppo generica – delle norme di legge che si assumono violate; così come per la prescrizione di priorità assoluta nella formazione dei ruoli di udien-za e nella trattazione dei processi, ora stabilita ex art. 132-bis, comma 1, lett. f), disp. att. c.p.p. anche per taluni reati contro la pubblica amministrazione allo scopo di garantire per gli stessi l’accertamento nel merito, a scanso dell’estinzione per prescrizione. Punctum dolens, semmai, è la complessa manovra di trasformazione (commi 77-81) che attinge la disciplina della partecipazione al dibattimento a distanza (art. 146-bis disp. att. c.p.p.), con gli adeguamenti conseguenti nel procedimento in camera di consiglio (art. 45-bis disp. att. c.p.p.), nel giudizio abbreviato (art. 134-bis disp. att. c.p.p.) e nel procedimento ap-plicativo delle misure di prevenzione (art. 7 d.lgs. 6 settembre 2011, n. 159) 77.

Nel quadro generale, muta il campo di applicazione dell’istituto nella cornice soggettiva e oggettiva dei presupposti: è ora previsto che la persona «in stato di detenzione» per taluno dei delitti ex artt. 51, comma 3-bis, e 407, comma 2, lett. a), n. 4, c.p.p. (elenco invariato) partecipa a distanza alle udienze di-battimentali dei processi nei quali è «imputata», anche relativi a reati per i quali sia in libertà, e che lo stesso avviene per le udienze penali e civili in cui debba essere esaminata come «testimone» (nuovo comma 1 dell’art. 146-bis disp. att. c.p.p.). Identico regime è previsto per la persona «ammessa a pro-grammi o misure di protezione», comprese quelle urgenti o provvisorie, ma soltanto per le udienze dibat-timentali dei processi in cui risulti «imputata» (nuovo comma 1-bis dell’art. 146-bis disp. att. c.p.p.). In entrambi i casi, quindi, diversamente dalla disciplina previgente, la partecipazione a distanza consegue in automatico allo status soggettivo della persona, per come indicato nelle rispettive previsioni, senza che rilevino requisiti ulteriori (sicurezza, ordine pubblico, esigenze di celerità legate alla complessità del dibattimento) né il titolo di reato per cui si procede né, tanto meno, la condizione della persona ri-spetto allo stesso reato per cui si procede 78.

In deroga a quella che è divenuta la regola, si ammette che il giudice possa disporre, con decreto mo-tivato e anche su istanza di parte, la «presenza» alle udienze delle predette persone, «qualora lo ritenga necessario» e con l’esclusione dei detenuti sottoposti al regime di cui all’art. 41-bis ord. penit. (nuovo comma 1-ter dell’art. 146-bis disp. att. c.p.p.). Completa l’affresco la previsione che riporta in auge i re-quisiti oggettivi (i.e., ragioni di sicurezza, dibattimento di particolare complessità ed esigenza di evitare ritardi), per disporre – anche qui, con decreto motivato – la partecipazione a distanza «fuori dei casi pre-visti dai commi 1 e 1-bis», ora ammessa, altresì, per «assumere la testimonianza di persona a qualunque titolo in stato di detenzione presso un istituto penitenziario» (nuovo comma 1-quater dell’art. 146-bis disp. att. c.p.p.). Norme inedite sono infine dettate per regolare alcuni profili del procedimento: comunicazione del giudice alle autorità competenti, alle parti e ai difensori della partecipazione al dibattimento a di-

76 Per una panoramica, v. P. Gualtieri, Il sequestro preventivo tra carenze normative e (dis)orientamenti giurisprudenziali, in Dir. pen. proc., 2017, p. 145.

77 Si vedano sul tema gli approfondimenti di S. Lorusso, Dibattimento a distanza vs. “autodifesa”?, in www.penalecontem poraneo.it, 17 maggio 2017; P. Rivello, La disciplina della partecipazione a distanza al procedimento penale alla luce delle modifiche appor-tate dalla riforma Orlando, ivi, 31 luglio 2017.

78 Lo chiarisce G. Piziali, sub comma 77 Riforma Orlando, in A. Giarda-G. Spangher (a cura di), Codice di procedura penale com-mentato, cit., p. 3524.

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stanza, senza che sia specificato con quale provvedimento ed entro quale termine (nuovo comma 2 del-l’art. 146-bis disp. att. c.p.p.); facoltà per altre parti e difensori di intervenire a distanza in tutti i processi in cui si procede con il collegamento audiovisivo, assumendosi l’onere dei relativi costi (nuovo comma 4-bis dell’art. 146-bis disp. att. c.p.p.).

Sono molte le riserve sul merito di una disciplina che introduce, sulla scorta di soli parametri sogget-tivi, presunzioni (commi 1 e 1-bis dell’art. 146-bis disp. att. c.p.p.) – per quanto superabili (comma 1-ter dell’art. 146-bis disp. att. c.p.p.) – circa necessità e adeguatezza della partecipazione a distanza 79. Ne esce capovolto l’ordine di priorità, poiché la presenza fisica – da regola – diventa ora l’eccezione. E se è vero che le forme di partecipazione “virtuale” non sono da respingere a priori, potendo anzi rispondere alle esigenze di tutela della stessa fonte di prova-testimone, specialmente se persona offesa dal reato, permangono dubbi quando lo schema si applica con automatismi tanto disinvolti alla partecipazione dell’imputato in quanto tale. Malgrado, infatti, il progresso tecnologico sia oggi in grado di fornire un surrogato sempre migliore della realtà spazio-temporale d’udienza, talora fruibile a distanza con po-tenzialità persino superiori rispetto a quanto sia possibile de visu, resta l’impressione che il diaframma imposto dal collegamento audiovisivo contribuisca a rendere l’imputato stesso un’entità distante, pri-vato della possibilità di esprimere la sua dimensione di “persona” proprio davanti a chi lo deve giudi-care. Una perdita di prerogative non ragionevole, se connessa al solo fatto di trovarsi in vinculis in rela-zione a taluni delitti e a prescindere da ogni altra evenienza.

L’ennesima prova di incoerenza, insomma, per una manovra che si dichiarava pronta a perseguire efficienza e risposta punitiva senza tralasciare – anzi, con l’obiettivo di rafforzare – le garanzie difensive dell’imputato. Semplice manovra, per l’appunto. Da non confondere con la riforma; che non c’è.

79 Alludono a presunzioni relative M. Gialuz-A. Cabiale-J. Della Torre, Riforma Orlando, cit., p. 28.

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DIBATTITI TRA NORME E PRASSI | LE TRE DELEGHE SULLA RIFORMA PROCESSUALE INTRODOTTE DALLA LEGGE N. 103 DEL 2017

PIERPAOLO DELL’ANNO

Professore ordinario di Procedura penale – Università di Cassino e del Lazio meridionale

Le tre deleghe sulla riforma processuale introdotte dalla legge n. 103 del 2017 The three legislative delegations concerning criminal justice provided by the Law no. 103/2017

Con il presente contributo, l’Autore analizza le tre importanti deleghe – in materia di intercettazioni, impugnazioni e ordinamento penitenziario – contenute nella recente legge n. 103 del 2017 (c.d. Riforma Orlando), evidenziandone tanto gli aspetti migliorativi quanto quelli che potranno eventualmente rivelarsi più problematici. Non sono manca-te brevi considerazioni in ordine agli aspetti trascurati dal legislatore delegante sui quali si attendeva da tempo un intervento normativo. With the following contribution, the author analyses the three important enabling acts - regarding the phone tap-ping, appeals and penitentiary arrangements - contained in recent law no. 103 of 2017 (the so-called “Riforma Or-lando”), highlighting both the improvement aspects and those that may prove to be more problematic. There is also a short considerations on the aspects neglected by the legislator on which a regulatory intervention had long been expected.

IL PERIMETRO DEL LAVORO

La riforma Orlando, frutto di un accorpamento in un unico testo di tre progetti di legge approvati dalla Camera (atti nn. 2798, 2150 e 1129) e di una serie di proposte di legge di iniziativa parlamentare 1, ha trovato la luce dopo un lungo e complesso iter di lavori parlamentari durati circa due anni e mezzo 2.

Si tratta di intervento normativo ad ampio raggio che ha investito rilevanti settori del diritto penale, della procedura penale e dell’ordinamento penitenziario. Sotto il profilo strutturale, consta di un unico articolo formato da ben novantacinque commi e vi sono in esso racchiuse anche tre importanti deleghe contenenti principi e criteri ai quali il Governo dovrà attenersi per la messa a punto delle nuove disci-pline in materia di intercettazioni di conversazioni e comunicazioni, di impugnazioni e di ordinamento penitenziario.

Il legislatore quindi non si è limitato alla approvazione di innovazioni del codice di procedura pena-le “immediatamente efficaci” ma ha anche fatto ricorso alla “delegazione”, che è considerato lo stru-mento più adatto per riformare materie particolarmente complesse, materie su cui le coalizioni politiche incontrano oggettive difficoltà a pervenire ad accordi.

Prima di entrare in medias res occorre chiarire che il lavoro verterà unicamente su queste tre deleghe e l’angolo di visuale del medesimo sarà esclusivamente di matrice processualpenalistica.

1 In merito ai lavori parlamentari si consigliano M. Bargis, I ritocchi alle modifiche in tema di impugnazioni nel testo del D.D.L. N. 2798 approvato dalla Camera dei Deputati, in www.penalecontemporaneo.it, 19 ottobre, 2015; S. Lorusso, La giustizia penale tra riforme annunciate e riforme sperate, in Proc. pen. giust., 2017, n. 1, p. 1 ss.; G. Spangher, DDL n. 2067: sulle proposte di modifica al codice di procedura penale, in Giur. pen. web, n. 3.

2 Per una visione d’insieme sugli aspetti innovativi della riforma in parola si veda G. Spangher (a cura di), La riforma Orlando. Modifiche al codice penale, al codice di procedura penale e ordinamento penitenziario, Pacini Giuridica, Pisa, 2017, p. 111 ss.

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LE NOVITÀ IN MATERIA DI INTERCETTAZIONI

La delega che attiene alla materia delle intercettazioni può essere suddivisa, e conseguentemente esaminata, in due parti: 1) una prima parte 3 alquanto generica, con inevitabili ampi spazi di manovra lasciati al delegato, ruota attorno al diritto alla riservatezza che deve trovare piena e concreta attuazione anche, e soprattutto, nell’ambito delle intercettazioni, non essendo possibile anteporre l’ottica dell’ef-ficienza alle garanzie individuali quali la violazione della libertà alla segretezza della corrispondenza, il diritto di difesa, l’inviolabilità del domicilio e altre ancora; 2) una seconda parte, invece, riservata al nuovo ed invasivo strumento di captazione ormai noto come trojan 4 ed, in particolare, all’arduo tenta-tivo di renderlo il più conforme possibile ai canoni costituzionali e convenzionali.

Procediamo con ordine. La prima parte della delega è, dunque, caratterizzata dal rafforzamento delle condivisibili esigenze

di riservatezza di tutti i soggetti coinvolti a qualsiasi titolo nelle attività captative e dal rispetto dei dirit-ti fondamentali dell’individuo, tra i quali rientra appunto quello alla libertà e alla riservatezza della corrispondenza e delle comunicazioni 5.

A conferma di ciò, i primi punti su cui il legislatore delegato è chiamato ad intervenire consistono: a) nella rivisitazione di aspetti della disciplina delle intercettazioni delle comunicazioni e conversazioni; b) nella introduzione di una nuova fattispecie criminosa che punisce la diffusione del contenuto di alcuni tipi di comunicazioni o conversazioni; c) nell’adeguamento alle decisioni della Corte di Strasburgo; d) nella semplificazione delle intercettazioni per i procedimenti aventi ad oggetto reati contro la pubblica amministrazione.

Rivisitazione della disciplina delle intercettazioni. L’intervento è focalizzato sulla esigenza di assicurare un più elevato standard di riservatezza delle conversazioni e comunicazioni intercettate, attraverso una serie di prescrizioni concernenti le modalità di utilizzazione cautelare dei risultati delle captazioni ed altre relative alla scansione procedimentale per la secretazione del materiale intercettato nel rispetto del contraddittorio tra le parti e salvaguardando le esigenze investigative, prestando particolare attenzione alla tutela della riservatezza delle comunicazioni e delle conversazioni delle persone occasionalmente coinvolte nel procedimento e delle comunicazioni comunque non rilevanti ai fini della giustizia penale.

Si intende cioè salvaguardare i cd. “dati da tutelare”, quei dati inutilizzabili, sensibili, non pertinenti e irrilevanti 6. Nel perseguire tale obiettivo la delega si concentra su alcuni importanti aspetti: la valo-rizzazione della udienza stralcio, l’attribuzione all’organo inquirente del dovere di controllare, prima della presentazione della richiesta di giudizio immediato o prima del deposito dell’avviso di cui all’art. 415-bis c.p.p., che tali atti non siano presenti nel fascicolo investigativo ed, infine, la conservazione ed il divieto di trascrizione dei medesimi.

Ma entrando più dettagliatamente nel cuore della disciplina, non si può non notare come, in piena sintonia con la funzione attribuita al pubblico ministero di “direttore” delle indagini, il legislatore dele-gante abbia affidato a tale soggetto l’attività di selezione dei dialoghi, della scelta dei passi delle con-versazioni, dello stralcio dei contenuti lesivi della riservatezza degli indagati e di coloro che a qualun-

3 La letteratura sulle intercettazioni è molto ampia e pertanto, si rinvia, ex multis, a A. Camon, Le intercettazioni nel processo penale, Milano, Giuffrè, 1996; L. Filippi, L’intercettazione di comunicazioni, Milano, Giuffrè, 1997, p. 116 ss.; Id, Intercettazioni, tabu-lati e altre limitazioni della segretezza delle comunicazioni, in G. Spangher (a cura di), Soggetti. Atti. Prove, Vol. I (Trattato di procedura penale diretto da G. Spangher-A. Marandola-G. Garuti-L. Kalb) Torino, Utet, 2015, p. 965 ss.; A. Gaito, Le intercettazioni telefoniche tra norma e prassi, RGU, 1994, p. 544; A. Gaito-S. Furfaro, Intercettazioni: esigenze di accertamento e garanzie della riservatezza, in A. Gai-to (a cura di), I principi europei del processo penale, Roma, Dike, 2016, p. 363 ss.; G. Illuminati, La disciplina processuale delle intercet-tazioni, Milano, Giuffrè, 1983, p. 37; G. Spangher, La disciplina italiana delle intercettazioni di conversazioni o comunicazioni, Arch. pen., 1994, p. 6; Id., Le criticità della disciplina delle intercettazioni telefoniche, in Dir. pen. proc, 2016, 7, p. 921 ss.

4 Sull’intricato rapporto tra intercettazioni e diritti costituzionali si consiglia P. Balducci, Le garanzie nelle intercettazioni tra Co-stituzione e legge ordinaria, Milano, Giuffrè, 2002.

5 In tal senso si veda A. Zampaglione, Delega in materia di intercettazioni: un costante bilanciamento di interessi, in G. Spangher (a cura di), La riforma Orlando, cit., p. 111 ss.

6 Si tratta precisamente di quei dati contenenti registrazioni di conversazioni o comunicazioni informatiche o telematiche inutilizzabili a qualunque titolo ovvero contenenti dati sensibili ai sensi dell’art. 4, comma 1, lett. d), del codice di cui al decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196, che non siano pertinenti all’accertamento delle responsabilità per i reati per cui si procede o per altri reati emersi nello stesso procedimento o nel corso delle indagini, ovvero irrilevanti ai fini delle indagini in quanto ri-guardanti esclusivamente fatti o circostanze ad esse estranei”.

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que titolo vengono investiti dall’attività intercettativa. Un pubblico ministero, cioè “garante della riser-vatezza” del materiale intercettato.

All’esito di tale controllo, tutte le conversazioni che rientrano nella suddetta categoria dei “dati da tutelare” non andranno allegate a sostegno della richiesta di applicazione della misura cautelare e do-vranno essere custodite dal pubblico ministero in un apposito archivio riservato. Ai difensori e alle par-ti è riconosciuta la facoltà di esaminarle, di ascoltare cioè le relative registrazioni senza però possibilità di averne copia fino all’udienza di stralcio. Solo dopo la celebrazione di questa udienza sarà consentito loro di chiederne copia (anche delle trascrizioni) delle intercettazioni rilevanti o autorizzate.

Questo momento procedurale, inoltre, assume un certo peso anche perché segna la fine del segreto istruttorio e del divieto di pubblicazione per riassunto; mentre ai sensi del capoverso dell’art. 114 c.p.p. resterà il divieto di pubblicazione anche parziale del contenuto, fino alla chiusura delle indagini preli-minari, ovvero al termine dell’udienza preliminare.

La disciplina delle intercettazioni, così strutturata, non porrà di certo fine alle molteplici problemati-che rilevate nell’ultimo decennio dalla dottrina ma qualche segnale positivo è dato riscontrarlo. Si pen-si, ad esempio, alla questione dell’accesso ed al diritto di copia del difensore successivamente al deposi-to degli atti ma prima che sia celebrata la udienza di stralcio. Su tale punto, il vaglio preventivo di cui è stato onerato il pubblico ministero mette quanto meno ordine sui tempi e sullo scopo di tale udienza ed una eventuale inerzia del pubblico ministero non potrà più arrecare alcun vulnus al diritto di accesso agli atti riconosciuto alla difesa. Tuttavia, in quei procedimenti caratterizzati da una copiosa mole di comunicazioni e conversazioni, la difesa dovrà compiere in un breve lasso di tempo, scelte definitive, prima della discovery totale degli atti e senza aver avuto la possibilità di estrarre copia dei dati anche al fine di effettuare una propria consulenza 7.

Il legislatore non può limitarsi a stabilire i requisiti per intercettare, o a definire le modalità operative delle operazioni e della acquisizione delle notizie ma è tenuto anche a fornire dettagliatamente le regole di protezione e di custodia di tutte le conversazioni o comunicazioni intercettate nel corso delle attività captative, essendo questo un passaggio imprescindibile verso un pieno ed effettivo rispetto del diritto alla riservatezza dei soggetti (a qualunque titolo) intercettati.

Come dicevamo poc’anzi, la nuova disciplina desta anche alcune perplessità: 1) in primis, la delega appare alquanto generica nella enunciazione dei principi e dei criteri cui il delegato dovrà attenersi, tanto da sembrare una delega in bianco; 2) in secondo luogo, tanto nella delega quanto nelle ormai ce-lebri circolari emesse da alcune importanti Procure della Repubblica circa le regole da seguire all’in-terno dei singoli uffici, non vi è alcun riferimento alla fondamentale sentenza della Consulta n. 1 del 2013 che ha dettato importanti regole sulle utenze intercettabili e sul procedimento di distruzione di al-cune di esse e tale omissione si pone quanto meno in tensione con il ruolo istituzionale ricoperto dalle procure 8; 3) infine, non vi è alcuna traccia in delega delle più volte invocate modifiche inerenti il proce-dimento autorizzativo delle attività captative, posto che quest’ultimo aspetto costituisce indiscutibil-mente la colonna portante della disciplina delle intercettazioni.

Con riferimento a quest’ultimo aspetto, si pensi emblematicamente alla prassi giurisprudenziale che consente la motivazione per relationem del provvedimento autorizzativo delle attività di captazione. Ma un rinvio di una decisione giurisdizionale ad un atto di parte, è legittimo solo nella misura in cui dal provvedimento di riferimento si traggano argomenti utili, ma non i soli, nell’ambito della complessiva valutazione che accompagna la decisione che deve contenere, a norma dell’art. 192, comma 1, c.p.p., le ragioni di razionalità della scelta e della sua conformità all’ordinamento processuale 9.

Nonostante l’importante intervento delle Sezioni Unite, volto a contenere l’ambito di operatività del-la motivazione per relationem di un provvedimento giudiziale 10, una motivazione di questo tipo conti-

7 In questa direzione A. Zampaglione, Delega in materia di intercettazioni: un costante bilanciamento di interessi, cit., p. 111 ss. 8 Cfr. P. Tonini-F. Cavalli, Le intercettazioni nelle circolari delle procure della Repubblica, in Dir. pen. proc., n. 6, 2017, p. 705 ss. 9 In questi termini, A. Bargi, Intercettazioni di comunicazioni e conversazioni, in Dig. disc. pen., Torino, Utet, 2005. 10 Il Collegio esteso ha stabilito che la motivazione per relationem può considerarsi legittima quando: 1) faccia riferimento (…)

a un legittimo atto del procedimento, la cui motivazione risulti congrua rispetto all’esigenza di giustificazione propria del prov-vedimento di destinazione; 2) fornisca la dimostrazione che il giudice abbia preso cognizione del contenuto sostanziale delle ragioni del provvedimento di riferimento e le abbia meditate e ritenute coerenti con la sua decisione; 3) l’atto di riferimento, quando non venga allegato o trascritto nel provvedimento da motivare, sia conosciuto dall’interessato o almeno ostensibile,

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nua, oltre che a porsi in chiaro conflitto con l’art. 111 Cost, anche a contrastare con i canoni sovranazio-nali della “proporzionalità” e del “controllo” dai quali si misura la necessità che giustifica l’ingerenza nella vita privata.

Come ben prospettato in dottrina una soluzione più che appagante sarebbe stata quella di estendere anche in ambito di intercettazioni l’obbligo per il giudice di fornire una “motivazione autonoma”, così come imposto al giudice che applica una misura cautelare 11. Non si può cioè assolutamente prescindere dal doveroso supporto argomentativo che costituisce, nel nostro sistema processuale, conditio sine qua non per l’effettiva, oltre che corretta, somministrazione di una giustizia equa 12.

Inoltre, al fine imprimere un efficiente controllo sui presupposti di cui all’art. 266 c.p.p., ed in partico-lare su quello della assoluta indispensabilità delle intercettazioni, sarebbe stato opportuno imporre al-l’organo inquirente di esporre le indagini sino a quel momento espletate, le eventuali alternative investi-gative possibili, la loro infruttuosità o pericolosità per lo sviluppo delle indagini.

Occorreva cioè assolutamente restituire alla motivazione il ruolo di imprescindibile strumento di ga-ranzia posto a presidio della “giustezza” del provvedimento emesso e, per il perseguimento di tale o-biettivo, sarebbe stato necessario anche prevedere la trasmissione totale (non parziale) degli atti inve-stigativi contenuti nel fascicolo al giudice per le indagini preliminari chiamato ad autorizzare o meno le operazioni captative. La conoscenza degli atti da parte del giudice è senza dubbio un fattore in grado di condizionare negativamente il già complesso vaglio giurisdizionale che tale soggetto è chiamato ad ef-fettuare e, soprattutto, non sembra giustificato da alcuna esigenza di segretezza 13. Nulla di tutto questo, invece, è stato previsto nella delega in commento.

Nuova fattispecie criminosa. Si tratta del reato che sanziona con la pena della reclusione non inferiore a quattro anni, chi diffonde riprese audiovisive o registrazioni di conversazioni, al solo fine di recare danno alla reputazione o all’immagine. La punibilità è esclusa se l’uso delle medesime avviene in procedimento amministrativo o giudiziario oppure quando si tratti di esercitare il diritto di difesa e di cronaca.

Tale nuova fattispecie criminosa si va ad affiancare: 1) all’art. 684 c.p. che punisce con la pena del-l’arresto fino a trenta giorni o con l’ammenda fino a 258 euro chiunque pubblichi arbitrariamente atti di un procedimento penale (trattasi di reato contravvenzionale, per di più suscettibile di “oblazione di-screzionale”); 2) all’art. 734-bis c.p., introdotto successivamente all’entrata in vigore del codice di rito, che punisce con l’arresto da tre a sei mesi chiunque divulghi, senza averne ottenuto il consenso, le ge-neralità o l’immagine di persona offesa di atti di violenza sessuale (anche qui siamo in presenza di un reato contravvenzionale); 3) all’art. 115 c.p.p. che prevede una responsabilità disciplinare a carico degli impiegati dello Stato o di altri enti pubblici, ovvero degli esercenti una professione per la quale è richie-sta una speciale abilitazione dello Stato. Si tratta di una categoria molto vasta all’interno della quale rientrano non solo i giornalisti professionisti e i pubblicisti, ma anche gli operatori della giustizia come i magistrati, gli appartenenti alla polizia giudiziaria, il personale di segreteria e cancelleria, i difensori e, in taluni casi, anche i periti ed i consulenti tecnici iscritti ad un albo professionale.

Adeguamento alle decisioni della Cedu. Il legislatore ha accolto l’invito della Corte di Strasburgo ad in-dividuare il giusto punto di equilibrio tra interessi meritevoli di tutela: quello alla riservatezza e quello di cronaca e informazione.

In chiave generale e sistemica, da un lato, una interpretazione eccessivamente rigida ed astratta del diritto ad una vita privata potrebbe rappresentare un rischio grave al libero dispiegarsi del diritto di li-bertà di manifestazione del pensiero ma, dall’altro, l’informazione può invadere significativamente la sfera privata delle persone.

Al di là di quale sarà il giusto punto di equilibrio tra questi due fondamentali diritti, è il caso di se-gnalare alcune prassi distorsive che minano quotidianamente tanto il diritto alla privacy quanto quello

quanto meno al momento in cui si renda attuale l’esercizio della facoltà di valutazione, di critica ed, eventualmente, di gravame e, conseguentemente, di controllo dell’organo della valutazione o dell’impugnazione. In questo senso, Cass., sez. un., 21 giugno 2000, Primavera, in Cass. pen., 2001, p. 69.

11 In questo senso, G. Spangher, Le criticità della disciplina delle intercettazioni telefoniche, cit., p. 921 ss. 12 Soluzione questa che renderebbe concretamente effettiva sia la riserva di giurisdizione, in forza della quale è solo con un

provvedimento del giudice che è possibile autorizzare le attività captative, sia la riserva di legge rinforzata in virtù della quale devono essere stabilite le garanzie con le norme che prevedono le limitazioni alla libertà e alla segretezza della corrispondenza e delle comunicazioni.

13 Cfr. L. Filippi, Intercettazioni, tabulati e altre limitazioni della segretezza delle comunicazioni, cit., p. 965 ss.

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Processo penale e giustizia n. 6 | 2017 1088

 

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all’informazione e alla cronaca. Vi è una certa tendenza da parte dei giornalisti a “giudicare” (invece di limitarsi al racconto dei fatti) ed inoltre le testate giornalistiche “sono immensi schedari, archivi pubbli-ci e viventi del cadavere del segreto istruttorio” 14. Già la verità storica non sempre coincide con quella processuale ma ancor meno con quella mediatica che ha un palcoscenico e soprattutto un linguaggio diverso da quello del processo.

Questi fattori si pongono in chiaro contrasto con la funzione dell’art. 114 c.p.p. che, nel disciplinare la pubblicazione degli atti, mira sia a tutelare prerogative dell’individuo, quali l’onore la riservatezza, sia a salvaguardare la formazione di un giudizio, scevro da conoscenze pregiudicanti il futuro convin-cimento. La pressante attenzione riservata dai media alle vicende giudiziarie, cioè determina spesso una disapplicazione delle norme poste a presidio del segreto (artt. 114 e 329 c.p.p.) 15, assumendo la parvenza di una consuetudine.

Come condivisibilmente evidenziato in dottrina, «la pubblicazione di un atto è cosa ben diversa dall’instaurazione di un processo mediatico, parallelo a quello giurisdizionale ed ancor prima di inda-gini che utilizzando documenti raccolti dall’accusa sviluppino teorie e ricostruzioni in assenza dell’ade-guato contradditorio o comunque del controllo che tenga conto della completezza delle stesse, ma co-perte dal segreto nei confronti delle parti private» 16.

A ciò si deve poi aggiungere che con i moderni mezzi di diffusione delle informazioni, sempre in co-stante evoluzione, il pubblico non è sempre in grado di selezionare correttamente i fatti che apprende e, di conseguenza, potrebbe finire con il considerare acriticamente “vero” tutto ciò che viene mostrato, il tutto ai danni dei soggetti coinvolti a qualsiasi titolo nelle intercettazioni. Sul punto, non va trascurato un duplice aspetto: in primis, che non tutto è idoneo a formare il libero convincimento del giudice ed, in secondo luogo, che tale ultimo soggetto potrebbe non essere più così libero nella sua valutazione se condizionato – o meglio pressato – da un’opinione pubblica ignara dei principi del processo penale e dei meccanismi che lo rendono giusto.

Provando a tirare le somme, la Costituzione sancisce espressamente la libertà di comunicazione e di stampa ma è altrettanto vero che la medesima Carta pone un limite a tale libertà: quello del rispetto dei valori supremi della persona umana, quali la vita, la libertà, l’onore e la reputazione. Bisogna cioè evita-re che l’informazione giornalistica o comunque mediatica da fondamentale diritto democratico si possa trasformare in strumento di pressione a danno del giusto ed equo processo.

Con tali considerazioni non si intende affatto sminuire il fondamentale diritto all’informazione che va assolutamente tutelato e bilanciato con gli altri diritti fondamentali quali anche quello alla riserva-tezza. Tre sono i fattori che possono scongiurare un uso distorto del diritto di cronaca e di informazio-ne: 1) l’elevata professionalità mediatica; 2) l’attento apprendimento delle informazioni; 3) la rigida os-servazione della normativa vigente.

Semplificazione della procedura per i reati contro la pubblica amministrazione. Infine, è stato richiesto al Governo di intervenire sulle condizioni di impiego delle attività captative nei procedimenti per i più gravi reati dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione. Anche su questo punto, non può non rilevarsi la genericità della norma, posto che non è dato comprendere se l’intenzione del legislatore sia quella di intervenire sui presupposti legittimanti le attività captative oppure su aspetti concernenti le attività esecutive o post esecutive.

Il Trojan. La seconda parte della delega, invece, al comma 84 lett. e), prescrive di disciplinare le inter-cettazioni di comunicazioni o conversazioni tra presenti “mediante immissione di captatori informatici in dispositivi elettronici portatili”, prescrivendo alcuni principi e criteri direttivi.

I notevoli progressi della scienza rendono oggi possibile l’impiego di tecniche di captazione basate

14 Non si può non rilevare come le tappe intermedie dell’intero procedimento siano più interessanti di quella finale, perché tutte provvisorie, tutte falsificabili, ma comunque raccontate, seppur in modo inverosimile, come vicende di verità. In tal modo, il nuovo processo avrà in sé la verità dell’interrogatorio, quella dell’intercettazione, quella della singola misura cautelare e così via per ogni momento processuale, così svantaggiando il raggiungimento di una verità definitiva, poiché viene a piegarsi la vi-cenda processuale in tante piccole scansioni su cui focalizzare l’attenzione.

15 L’art. 114 c.p.p., al secondo comma, sancisce il divieto di pubblicazione degli atti non coperti dal segreto, fino a quando non siano concluse le indagini preliminari o fino al termine dell’udienza preliminare; al primo comma, l’art. 329 c.p.p. stabilisce che gli atti di indagine compiuti dal pubblico ministero o dalla polizia giudiziaria sono coperti dal segreto fino a quando l’imputato non ne possa avere conoscenza, e comunque non oltre la chiusura delle indagini preliminari.

16 Così A. Bargi, Le prove e le decisioni, in A. Gaito (a cura di), Procedura penale, Ipsoa, Milano, 2015.

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sul lancio “da remoto” di virus autoinstallanti, che trasformano il telefono cellulare della persona inter-cettata in microfono o telecamera che invia comunicazioni o immagini al captante. Tale forma di capta-zione consiste, più precisamente, nell’invio “da remoto” su qualsiasi apparecchio (tablet, computer, smar-phone) di virus autoinstallanti (cd. trojan horse), i quali, senza rivelare all’utente la propria presenza, co-municano attraverso la rete, in modalità nascosta e protetta, con il captante che si trova in un centro remoto di comando e controllo e che gestisce il sistema di captazione, attivandolo o spegnendolo all’oc-correnza.

Le potenzialità invasive di tale nuovo strumento sono sin troppo evidenti, posto che ad essere inter-cettato non è solo il suono captato dal microfono ma anche le immagini carpite dalla webcam o filmate con la videocamera, nonché tutto ciò che viene digitato sulla tastiera o visualizzato sullo schermo. Co-me ben messo in luce, ai poteri di ispezione e di intercettazione si aggiungono quelli di perquisizione e di sequestro in quanto il virus può cercare e acquisire i files presenti sul dispositivo intercettato e sugli altri connessi in rete locale, inviando dati, comunicazioni o immagini al captante e conseguendo così i risultati tipici di ispezioni, perquisizioni e sequestri di dati informatici, intercettazioni e riprese fotogra-fiche ed audiovisive.

Ma vi è di più. Attraverso il trojan è possibile anche la geo-localizzazione del dispositivo controllato, realizzando un vero e proprio “pedinamento elettronico” di chiunque lo detenga. Si finisce cioè con l’intercettare conversazioni tra presenti, immagini e documenti senza limitazione di luogo 17.

Chiamate a pronunciarsi sulla legittimità di tale nuovo strumento investigativo, le Sezioni Unite Scurato 18 lo hanno collocato nella disciplina delle intercettazioni ma il punto nevralgico è costituito dal fatto che il giudice non può preventivamente conoscere il domicilio in cui sarà portato il dispositivo in-tercettato, cosicché il trojan non è sottoponibile al previo controllo giurisdizionale quanto agli ignoti domicili che potranno essere violati. La conseguenza che ne scaturisce è che si sottrae alla riserva di giurisdizione, imposta dagli artt. 14 e 15 Cost., oltre a porsi in chiaro contrasto con l’art. 8 C.e.d.u.

In chiave sistemica, nell’ambito della delicatissima materia delle intercettazioni, tutte le limitazioni della segretezza delle comunicazioni e del domicilio devono avvenire nel rispetto dei principi della ri-serva di legge e di giurisdizione, di “stretta necessità”, della “proporzionalità” tra esigenze di repres-sione penale e sicurezza pubblica e di tutela delle libertà del singolo e della “prevedibilità” delle inge-renze pubbliche nei diritti del cittadino.

Tale assunto è inequivocabilmente confermato e consolidato in molteplici pronunce della Corte di Strasburgo. La Corte europea dei diritti dell’uomo 19 infatti ha posto dei limiti ben precisi all’uso delle intercettazioni, anche sulla base dell’art. 8, comma 2, C.e.d.u., che esige che l’ingerenza statale costitui-sca una misura che, in una società democratica, è necessaria, enunciando il principio di necessità dell’ingerenza, che comporta anche un principio di proporzionalità dell’ingerenza rispetto ai fini. È cioè richiesto ai singoli Paesi di assicurare idonee precauzioni in grado di salvaguardare la privacy degli in-terlocutori che siano casualmente attinti dalle intercettazioni senza aver alcun collegamento con l’og-getto delle indagini in corso di svolgimento 20. La ormai celebre pronuncia Iordachi 21 esige il requisito della “prevedibilità” delle misure segrete di sorveglianza, come le intercettazioni di comunicazioni, e quindi impone che “la legislazione interna presenti un contenuto sufficientemente chiaro e dettagliato, in modo da offrire ai cittadini un’indicazione adeguata in ordine alle circostanze nelle quali l’autorità

17 L. Filippi, La delega in materia dell’uso del captatore informatico, in G. Spangher (a cura di), La riforma Orlando, cit., p. 151 ss. 18 Cass., sez. un., 28 aprile 2016, n. 26889. I principi enunciati sono i seguenti: 1) «deve escludersi la possibilità di compiere

intercettazioni nei luoghi indicati dall’art. 614 c.p., con il mezzo indicato in precedenza, al di fuori della disciplina derogatoria per la criminalità organizzata di cui all’art. 13 d.l. n. 152 del 1991, convertito in legge n. 203 del 1991, non potendosi prevedere, all’atto dell’autorizzazione, i luoghi di privata dimora nei quali il dispositivo elettronico verrà introdotto, con conseguente im-possibilità di effettuare un adeguato controllo circa l’effettivo rispetto del presupposto, previsto dall’art. 266, comma 2, c.p.p., che in detto luogo «si stia svolgendo l’attività criminosa»; 2) «è invece consentita la captazione nei luoghi di privata dimora ex art. 614 c.p., pure se non singolarmente individuati e se ivi non si stia svolgendo l’attività criminosa, per i procedimenti relativi a delitti di criminalità organizzata, anche terroristica, secondo la previsione dell’art. 13 d.l. n. 152 del 1991»; 3) «per procedimen-ti relativi a delitti di criminalità organizzata devono intendersi quelli elencati nell’art. 51, commi 3-bis e 3-quater, c.p.p. nonché quelli comunque facenti capo a un’associazione per delinquere, con esclusione del mero concorso di persone nel reato».

19 A. Balsamo, Le intercettazioni mediante virus informatico tra processo penale italiano e Corte europea, in Cass. pen., 2016, p. 2274. 20 Corte e.d.u. II, 10.4.2007, Panarisi c. Italia. 21 Cfr. Corte e.d.u., 10 febbraio 2009, Iordachi e altri vs. Moldavia.

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pubblica ha il potere di ricorrere a tali misure”. È, in altre parole, necessario che la legge indichi lo sco-po del potere discrezionale conferito al giudice e “le modalità del suo esercizio con sufficiente chiarez-za, per assicurare all’individuo una idonea protezione contro le interferenze arbitrarie”.

A ben guardare, invece, il trojan rende tutto imprevedibile, essendo “determinato” soltanto il dispo-sitivo intercettato e, si badi bene, l’impossibilità di individuare preventivamente il luogo dell’inter-cettazione, può determinare una serie di violazioni di domicilio di soggetti terzi estranei ai fatti per cui si procede.

Le peculiarità di questo captatore informatico si riverberano negativamente anche sul provvedimen-to con cui si autorizza l’attività captativa: il giudice finisce inevitabilmente con l’emettere una “autoriz-zazione apparente”, una sorta di “autorizzazione in bianco” ad effettuare captazioni imprevedibili 22.

Ma veniamo ora ai punti, anzi più precisamente alle lettere, della delega. La prima prescrizione è finalizzata ad evitare intrusioni in ambienti diversi da quelli autorizzati; il de-

legante esordisce infatti con il precisare che l’attivazione del microfono non debba avvenire automatica-mente dopo l’inserimento del captatore informatico, ma “solo in conseguenza di apposito comando invia-to da remoto”. Così procedendo, l’intercettazione dovrebbe avvenire soltanto nei luoghi autorizzati dal giudice per le indagini preliminari, “nel rispetto dei limiti stabiliti nel decreto autorizzativo del giudice”.

L’intenzione del legislatore è apprezzabile ma come giustamente rilevato, si tratta di un’operazione materialmente impossibile, in quanto la polizia giudiziaria dovrebbe monitorare costantemente gli spo-stamenti del captatore informatico, attivando o spegnendo il dispositivo a seconda che acceda in am-biente autorizzato o in altro non autorizzato. La polizia giudiziaria non può conoscere a priori se la per-sona incontrata dal portatore del dispositivo, oppure il domicilio che si accinge a invadere o l’argo-mento della conversazione che sarà trattato avrà un contenuto criminoso, sarà costretta ad ascoltare e registrare tutte le conversazioni, salvo valutarne successivamente la rilevanza 23.

La delega prevede inoltre che la registrazione audio venga avviata dalla polizia giudiziaria” o dal personale ausiliario, incaricato ai sensi dell’art. 348, comma 4, c.p.p., “su indicazione della polizia giu-diziaria operante tenuta a indicare l’ora di inizio e fine della registrazione, secondo circostanze da atte-stare nel verbale descrittivo delle modalità di effettuazione delle operazioni di cui all’art. 268 del mede-simo codice” 24.

Il legislatore, in sintonia con la politica emergenziale attuata negli ultimi anni, ha poi ritenuto sem-pre ammessa la attivazione del dispositivo per i processi di criminalità organizzata e terroristica. Si con-ferma la logica del doppio binario ma occorre scrupolosamente verificare la serietà dell’ipotesi di reato prospettata dall’organo inquirente che richiede l’autorizzazione ad intercettare, così da evitare iscrizio-ni nel registro delle notizie di reato di ipotesi delittuose solo sospettate e “sovradimensionate” ma prive di seri elementi costitutivi.

Al di fuori di questi casi, l’attivazione del microfono è ammessa nel domicilio o nella privata dimora “soltanto se negli stessi si stia svolgendo l’attività criminosa”, sempre che si tratti di un delitto per il quale l’art. 266, comma 1, c.p.p. ammette l’intercettazione 25.

Per garantire la genuinità delle registrazioni, il delegante chiarisce che il trasferimento delle mede-sime deve essere effettuato soltanto verso il server della Procura e, al termine della registrazione, il cap-tatore informatico deve essere disattivato reso definitivamente inutilizzabile su indicazione del perso-nale di polizia giudiziaria operante.

Nella medesima direzione, viene anche prescritto di utilizzare solo programmi informatici conformi ai requisiti tecnici stabiliti con decreto ministeriale (da emanarsi entro 30 giorni dalla data di entrata in vigore dei decreti legislativi di cui al presente comma), che tenga costantemente conto dell’evoluzione tecnica, in modo da garantire che tale programma si limiti ad effettuare le operazioni espressamente di-sposte secondo standard idonei di affidabilità tecnica, di sicurezza e di efficacia.

22 In tal senso L. Filippi, La delega in materia dell’uso del captatore informatico, cit., p. 151 ss. 23 Id., op. ult. cit., p. 151 ss. 24 Sul punto, è stato evidenziato che sarebbe stato opportuno prevedere la disattivazione non solo del microfono, ma anche

della videocamera che potrebbe procedere a ispezioni, perquisizioni e sequestri non autorizzati. È comunque indispensabile as-sicurare idonee garanzie sulla correttezza della procedura seguita e sulla possibilità data al giudice e alla difesa in ordine alla sua verificabilità e falsificabilità L. Filippi, La delega in materia dell’uso del captatore informatico, cit., p. 151 ss.

25 Viene precisato anche che “in ogni caso il decreto autorizzativo del giudice deve indicare le ragioni per le quali tale speci-fica modalità di intercettazione sia necessaria per lo svolgimento delle indagini”.

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Fermi restando i poteri del giudice nei casi ordinari, si ammettono intercettazioni d’urgenza del pubblico ministero nelle indagini per i reati di criminalità mafiosa e terroristica, per cui, “ove ricorrano concreti casi di urgenza”, il pubblico ministero può disporre le intercettazioni a mezzo di captatore in-formatico, “limitatamente ai delitti di cui all’art. 51, commi 3-bis e 3-quater c.p.p.”, ma il decreto d’ur-genza deve motivare sulle “specifiche situazioni di fatto che rendano impossibile la richiesta al giudice e delle ragioni per le quali tale specifica modalità di intercettazione sia necessaria per lo svolgimento delle indagini”. Inoltre, è necessaria la successiva convalida del giudice per le indagini preliminari “en-tro il termine massimo di quarantotto ore”. In sintonia con quanto disposto dall’art. 270 c.p.p., si pre-scrive che “i risultati intercettativi così ottenuti possano essere utilizzati a fini di prova soltanto dei reati oggetto del provvedimento autorizzativo”. Inoltre, l’utilizzabilità in procedimenti diversi è ammessa “a condizione che siano indispensabili per l’accertamento dei delitti” per i quali l’art. 380 c.p.p. impone l’arresto obbligatorio in flagranza.

Infine, l’ultimo punto, al fine di salvaguardare il diritto alla riservatezza dei soggetti terzi estranei, stabilisce che “non possano essere in alcun modo conoscibili, divulgabili e pubblicabili i risultati di in-tercettazioni che abbiano coinvolto occasionalmente soggetti estranei ai fatti per cui si procede”.

DEFLAZIONE DELLE IMPUGNATIVE

La seconda delega, quella in materia delle impugnazioni, investe sostanzialmente tre differenti pro-fili: 1) le impugnazioni delle decisioni del procedimento davanti al giudice di pace (lett. f); 2) la legitti-mazione del pubblico ministero (lett. g, h, l, m); 3) quella dell’imputato (lett. i, l) 26.

Per quanto concerne il primo profilo, è prescritto al legislatore delegato il compito di limitare la ri-corribilità per Cassazione delle sentenze d’appello emesse nei procedimenti per reati di competenza del giudice di pace alle sole “violazioni di legge”, cosi da doversi ritenere, in una ottica deflattiva, secondo la costante interpretazione in punto di individuazione del significato di tale espressione normativa, la esclusione dal novero dei motivi di ricorribilità del vizio di motivazione di cui alla lettera e) dell’articolo 606 c.p.p., con limitazione ai soli motivi di cui alle lettere b), c) e d) di tale previsione normativa 27.

In ordine al potere di appellabilità dell’organo inquirente, la delega si preoccupa innanzitutto di cir-coscrivere i poteri di appello del Procuratore generale presso la Corte di Appello ai soli casi in cui il pubblico ministero presso il giudice di primo grado sia stato avocato o abbia prestato acquiescenza, in-tervenendo sull’art. 570 c.p.p.; è richiesta una chiara semplificazione rispetto a posizioni caratterizzate da interessi sostanzialmente sovrapponibili così da evitare anche possibili contraddizioni derivanti dal-la concorrenza di impugnazioni proposte dal Procuratore della repubblica e dal Procuratore generale 28.

Un intervento di questo genere necessita però di un efficace coordinamento dell’attività di impu-gnazione degli organi dell’accusa, ovverosia di una disciplina dettagliata che metta ordine sui rapporti intercorrenti tra Procura della Repubblica e Procura Generale. In tale prospettiva, sarà necessario: 1) ri-definire le decisioni appellabili e quelle inappellabili da parte delle Procure calibrando sostanzialmente la scelta sulla disciplina del rito abbreviato; 2) omologare, con la legittimazione dell’imputato, l’appel-labilità del pubblico ministero relativamente alle sentenze per le quali è prevista la sola pena dell’am-menda; 3) riconsiderare anche l’appellabilità delle sentenze di non luogo a procedere venuta meno a seguito della legge Pecorella.

26 Per una opportuna panoramica sul vasto tema delle impugnazioni si consigliano A. Gaito, Impugnazioni e altri controlli: ver-so una decisione giusta, in A. Gaito (diretto da), Le impugnazioni penali, I, Torino, Utet, 1998, p. 15 ss.; A. Giarda, Rimodellato il si-stema delle impugnazioni penali tra presunzione di innocenza e durata ragionevole del processo, in A. Scalfati (a cura di), Novità su impu-gnazioni penali e regole di giudizio, Milano, Ipsoa, 2006, p. 13 ss.; G. Ranaldi, Impugnazioni (in generale), in Dig. disc. pen., Torino, Utet, 2008; A. Scalfati, Bilancio preventivo di una riforma: principi buoni e norma da ritoccare, in A. Scalfati (a cura di), Novità su impu-gnazioni penali, p. 13 ss.

27 A tale proposito, è sufficiente evidenziare che, in materia di misure di prevenzione, il d.lgs. n. 159 del 2011, riprendendo integralmente la disciplina prevista dalle ll. nn. 1423 del 1956 e 575 del 1965, limita il ricorso per cassazione avverso il decreto della Corte di Appello alla sola “violazione di legge”. Sul punto, la consolidata giurisprudenza della Corte di Cassazione ha chiarito che nel concetto di “violazione di legge” non sono riconducibili i vizi di motivazione di cui all’art. 606, comma 1, lett. e), c.p.p. (Cass., sez. un., 28 maggio 2003, Pellegrino, in Mass. Uff., 2003, n. 224611; Cass., sez. VI, 1 agosto 2016, Caliendo e altri, in Arch. pen., 2016, p. 3; Cass., sez. I, 5 marzo 2013, Cancemi più altri, in Arch. pen., 2014, p. 3).

28 In questo senso L. Suraci, Il sistema delle impugnazioni nella legge delega, in G. Spangher (a cura di), La riforma Orlando, cit., p. 276.

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In secondo luogo, il Governo dovrà riformulare l’appellabilità oggettiva del pubblico ministero, in modo che l’art. 593 consenta all’accusa di appellare liberamente tutti i proscioglimenti, ma consenta di appellare le condanne solo nel caso in cui abbiano modificato il titolo di reato, ovvero abbiano escluso la sussistenza di una circostanza aggravante ad effetto speciale, ovvero ancora abbiano stabilito una pena di specie diversa da quella ordinaria del reato (lett. h).

È stabilito altresì di «prevedere la legittimazione dell’imputato ad appellare avverso la sentenza di con-danna, nonché avverso la sentenza di proscioglimento emessa al termine del dibattimento salvo che sia pro-nunciata con le formule: “il fatto non sussiste” o “l’imputato non ha commesso il fatto”». Non si può non notare che l’indicazione è molto generica e non particolarmente innovativa rispetto al panorama attuale.

È il caso di rilevare che le lett. h) e i) sono finalizzate a riordinare l’art. 593, norma rivisitata, dopo la legge Pecorella, dalle note pronunce costituzionali n. 26 del 2007 e n. 85 del 2008. Al pubblico ministero è consentito impugnare la condanna solo quando il giudice di primo grado – pur condannando – abbia riqualificato giuridicamente il fatto per cui era stata esercitata l’azione penale, ovvero abbia ritenuto in-sussistente un’aggravante ad effetto speciale, ovvero ancora abbia discrezionalmente comminato una pena di specie diversa da quella ordinaria (sulla falsariga dell’art. 443, comma 3, c.p.p.). In tutti e tre i casi si tratta di ipotesi nelle quali i petita del pubblico ministero sono stati parzialmente disattesi, cosic-ché lo stesso conserva un minimo interesse a coltivare l’azione penale originariamente intrapresa. Le decisioni da cui nasce l’accusa non sono infatti impugnabili (art. 429 c.p.p.).

Sull’altro fronte, invece, all’imputato non è riconosciuta la possibilità di appellare i proscioglimenti emessi con formula ampiamente liberatoria, così ripristinando il disposto dell’art. 593, comma 2, in vi-gore fino al 1999. Nell’attuare questo punto della delega, il delegato dovrà comunque garantire l’appel-labilità delle sentenze liberatorie con formula dubitativa, quelle cioè emesse ai sensi del capoverso dell’art. 530 c.p.p.

La lett. l) raccomanda di escludere l’appellabilità delle condanne alla sola pena dell’ammenda e dei proscioglimenti o dei non luogo a procedere relativi a contravvenzioni punite con la sola pena dell’am-menda o con pena alternativa, che sono per lo più inappellabili, come voleva il testo dell’art. 593, com-ma 3, c.p.p. vigente fino al 1999 (lett. l), comma 82).

Nella lett. m), è richiesto al Governo di prevedere all’imputato la titolarità a proporre appello inci-dentale e disciplinarne la proponibilità. La modifica che intende prevedere e disciplinare l’appello inci-dentale dell’imputato potrebbe sembrare superflua, sia secondo il diritto vigente sia secondo quello vi-vente. L’art. 595, comma 1, esordisce infatti concedendo la facoltà di proporre appello incidentale a qualsiasi «parte che non ha proposto impugnazione», comprendendo ovviamente nella nozione di “par-te” anche l’imputato. Si potrebbe ribattere che di fronte ad un proscioglimento con formula ampiamente liberatoria cui segue l’appello del pubblico ministero, l’imputato non potrebbe impugnare in via inci-dentale, per mancanza d’interesse. Le Sezioni Unite hanno tuttavia chiarito da tempo che l’interesse ad impugnare in via incidentale non si calibra sulla decisione di primo grado, “quanto sulla futura, ipote-tica decisione quale conseguenza dell’appello principale, cosicché è proprio quest’ultimo a delimitare anche sul piano funzionale l’area di incidenza dell’appello incidentale” 29. Per essere compresa, l’in-dicazione della delega va pertanto letta in relazione alla lett. i) dello stesso comma 82, che intende vieta-re all’imputato di appellare le sentenze di proscioglimento con formula ampiamente liberatoria (“per-ché il fatto non sussiste”, “perché l’imputato non lo ha commesso”). Secondo l’impostazione maggiori-taria, infatti, la possibilità di promuovere appello incidentale spetta solo a colui che è investito della fa-coltà di proporre appello principale 30.

Così, se la modifica prevista dalla lett. i) sottrae all’imputato la possibilità di appellare in via princi-pale i proscioglimenti con formula ampiamente liberatoria, la modifica prevista dalla lett. m) gli consen-te di appellarli in via incidentale, per il caso in cui il pubblico ministero abbia proposto appello princi-pale. Occorrerà privare il pubblico ministero della possibilità di proporre appello incidentale (lett. m), lasciando alle scelte degli uffici di Procura la proposizione dell’appello principale così da evitare i ri-flessi del divieto della reformatio in peius.

Per quanto attiene all’appello dell’imputato, la delega impegna, come visto, il Governo a ridefinire le

29 Cass., sez. un., 17 ottobre 2006, n. 10251, Michaeler, in Cass. pen., 2007, p. 2319, con nota di Nuzzo, I limiti oggettivi dell’appello incidentale.

30 Cass., sez. un., 18 giugno 1993, n. 7247, Rabiti, in Cass. pen., 1994, p. 556 ss., con nota critica di Spangher, I profili soggettivi dell’appello incidentale nella giurisprudenza delle Sezioni Unite.

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situazioni nelle quali è legittimato ad appellare. L’orizzonte delineato dalla lett. i) a mente della quale l’imputato potrà appellare le sentenze dibattimentali di condanna e quelle di proscioglimento con e-sclusione di quelle che definiscono il giudizio perché il fatto non sussiste o l’imputato non lo ha com-messo. Sotto questo profilo, sarà necessario, per un verso, sterilizzare con chiarezza gli effetti civili pre-visti dall’art. 530, comma 2 e per un altro definire le modalità dell’esercizio del diritto di difesa in caso di appello – per queste decisioni – del pubblico ministero, stante non solo l’inappellabilità ma anche l’impossibilità di proporre appello incidentale.

Si prevederà anche per l’imputato l’inappellabilità delle sentenze di condanna alla sola pena del-l’ammenda e delle sentenze di proscioglimento e di non luogo a procedere relative a contravvenzioni punite con la sola pena dell’ammenda o con una pena alternativa (lett. l). La previsione dovrà comun-que omologarsi con quanto previsto per il pubblico ministero.

RESTYLING DELL’ORDINAMENTO PENITENZIARIO

La complessa riforma dell’ordinamento penitenziario muove dalla condivisibile esigenza di voler rendere la materia più aderente ai principi costituzionali e convenzionali. Occorreva infatti approntare quanto prima una effettiva e concreta risposta per superare la crisi che negli ultimi anni ha letteralmen-te investito il nostro ordinamento, quella crisi originata dall’annoso problema del sovraffollamento car-cerario delle strutture detentive e sanzionata dalla Corte europea con la sentenza Torreggiani per la le-sione sistemica dell’art. 3 C.e.d.u 31.

È proprio su imput di tale condanna che il legislatore si è attivato per individuare rimedi preventivi e compensativi in grado di garantire una adeguata tutela per coloro che subiscono trattamenti detentivi inumani o degradanti.

In quest’ottica e sulla base di precise linee guida dettate dal delegante, è stato affidato al Governo l’ar-duo compiuto di provare a risistemare una materia particolarmente complessa come quella dell’ordina-mento penitenziario, operando sulla semplificazione del procedimento di sorveglianza, sulla rivisitazione delle condizioni di accesso alle misure alternative alla detenzione (con la soppressione di automatismi e preclusioni all’accesso ai benefici penitenziari), sulla introduzione di strumenti di giustizia riparativa, sul-la incrementazione del lavoro intramurario ed esterno, sulla valorizzazione del volontariato, sul ricono-scimento del diritto all’affettività e sulla effettiva tutela della funzione rieducativa della pena 32.

Ma non è oro tutto quello che luccica. Le maggiori perplessità, infatti, si annidano nel regime deten-tivo speciale di cui all’art. 41-bis l. n. 354 del 1975, posto che la delega contiene una espressa clausola di salvezza dell’attuale disciplina del carcere duro per i più pericolosi appartenenti alla criminalità orga-nizzata di stampo mafioso; resta, pertanto, escluso dall’intervento riformatore il delicatissimo regime carcerario di cui all’art. 41-bis.

Ciò premesso, mentre il comma 83 specifica i tempi per l’attuazione della delega, la quale dovrà es-sere esercitata entro il termine di un anno, il comma 85 racchiude i criteri ed i principi a cui il Governo dovrà attenersi.

Le prime quattro lettere del comma 85 si occupano dell’ampliamento dell’ambito di operatività delle misure alternative alla detenzione, prevedendo: a) la semplificazione delle procedure, anche con la pre-visione del contraddittorio differito ed eventuale, per le decisioni di competenza del magistrato e del tribunale di sorveglianza, fatta eccezione per quelle relative alla revoca delle misure alternative alla de-tenzione; b) la revisione delle modalità e dei presupposti di accesso alle misure alternative, sia con rife-rimento ai presupposti soggettivi sia con riferimento ai limiti di pena, al fine di facilitare il ricorso alle stesse, salvo che per i casi di eccezionale gravità e pericolosità e in particolare per le condanne per i de-litti di mafia e terrorismo anche internazionale; c) la revisione della disciplina concernente le procedure di accesso alle misure alternative, prevedendo che il limite di pena che impone la sospensione dell’or-dine di esecuzione sia fissato in ogni caso a quattro anni e che il procedimento di sorveglianza garanti-sca il diritto alla presenza dell’interessato e la pubblicità dell’udienza; d) la previsione di una necessaria osservazione scientifica della personalità da condurre in libertà, stabilendone tempi, modalità e soggetti

31 Si tratta di Corte e.d.u., 8 gennaio 2013, Torreggiani c. Italia. 32 In tal senso F. Fiorentin, La delega per la riforma dell’ordinamento penitenziario, in G. Spangher (a cura di), La riforma Orlando,

cit., p. 305 ss.

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chiamati a intervenire; integrazione delle previsioni sugli interventi degli uffici dell’esecuzione penale esterna; previsione di misure per rendere più efficace il sistema dei controlli, anche mediante il coin-volgimento della polizia penitenziaria.

Ora dalla lettura delle prime quattro lettere della delega, appare piuttosto chiaro come l’obiettivo del delegante risieda nell’efficienza del sistema da attuarsi attraverso la riduzione dei tempi di definizione dei procedimenti di sorveglianza. Agendo anche sulla estensione delle ipotesi di contraddittorio differi-to o eventuale si cerca di rendere più rapida la risposta alle istanze di benefici penitenziari da parte dei condannati, favorendo tempi più rapidi per la concessione delle eventuali misure extramurarie. Con la lett. b), si intende promuovere il ricorso alle misure alternative così da fronteggiare il problema del so-vraffollamento carcerario e da favorire il reinserimento sociale del condannato. Non può che accogliersi con favore la prescrizione di cui alla lett. c), posto che si attendeva da tempo una precisazione sui limiti di pena che consentono la sospensione dell’ordine di esecuzione di cui all’art. 656, comma 5, c.p.p. 33. Altrettanto apprezzabile il riconoscimento del diritto dell’interessato alla pubblicità dell’udienza affer-mato dalle note sentenze della Corte costituzionale n. 97 del 2015 34 e n. 135 del 2014. A chiusura di que-sta prima parte di delega, il criterio contenuto nella lett. d) prevede importanti innovazioni sulla disci-plina delle misure alternative ma, preme segnalarlo, la riuscita dell’intervento dipenderà molto dalle ri-sorse umane e materiali disponibili. Sul punto, un segnale poco rassicurante si rinviene nella clausola di invarianza finanziaria contenuta nel comma 92 della riforma, che preclude la possibilità di investire le risorse necessarie per dare effettività al sistema.

L’ampliamento dell’ambito di operatività delle misure alternative alla detenzione costituisce un punto fondamentale della delega ma il cuore pulsante della medesima sta nel superamento degli auto-matismi che precludono o limitano l’accesso alle forme extramurarie di esecuzione della pena detentiva a categorie di detenuti che si presumono pericolosi, anche in relazione ai casi di ergastolo ostativo. Più precisamente, nel perseguire tale scopo, il delegante prevede alla lett. e) la eliminazione di automatismi e di preclusioni che impediscono ovvero ritardano, sia per i recidivi sia per gli autori di determinate ca-tegorie di reati, l’individualizzazione del trattamento rieducativo e la differenziazione dei percorsi pe-nitenziari in relazione alla tipologia dei reati commessi e alle caratteristiche personali del condannato, nonché revisione della disciplina di preclusione dei benefìci penitenziari per i condannati alla pena dell’ergastolo, salvo che per i casi di eccezionale gravità e pericolosità specificatamente individuati e comunque per le condanne per i delitti di mafia e terrorismo anche internazionale.

L’attuazione di tali criteri potrà consentire un superamento solo parziale degli automatismi preclusivi per due ordini di motivi: in primis, i criteri e i principi della legge delega si limitano a prevedere interventi sulle sole norme dell’ordinamento penitenziario, disinteressandosi di quelle altrettanto importanti del co-dice penale che contengono presunzioni assolute di pericolosità; in secondo luogo, il divieto dell’utilizzo di automatismi fondati su presunzioni assolute di pericolosità non è bandito nei casi “di eccezionali gravi-tà e pericolosità” e “comunque” per le condanne per i delitti di mafia e terrorismo: dunque proprio nei casi di operatività dell’art. 4-bis ord. pen., la cui sopravvivenza è dunque ancora assicurata 35.

La delega poi si concentra sulla riforma dell’esecuzione intramuraria della pena detentiva prescri-vendo una serie di criteri, enunciati in maniera piuttosto generica, in ordine all’incremento delle oppor-tunità di lavoro (lett. g), alla valorizzazione del volontariato (lett. h), al mantenimento delle relazioni familiari anche attraverso l’utilizzo di collegamenti audiovisivi (lett. i), al riordino della medicina peni-tenziaria (lett. l, m), al riconoscimento del diritto all’affettività (lett. n) 36, all’agevolazione dell’integra-zione dei detenuti stranieri (lett. o), alla tutela delle donne e, nello specifico, delle detenute madri (lett. s, t), al rafforzamento della libertà di culto (lett. v).

33 Non può sottacersi che vi era poca chiarezza in ordine alla possibilità o meno di procedere alla sospensione dell’ordine di esecuzione nelle ipotesi di affidamento in prova al servizio sociale “allargato” e solo di recente i giudici di legittimità avevano affermato il principio secondo cui, in tema di esecuzione di pene brevi, in considerazione del richiamo operato dall’art. 656, comma 5, c.p.p. all’art. 47 ord. pen., ai fini della sospensione dell’ordine di esecuzione, correlata ad una istanza di affidamento in prova ai sensi dell’art. 47, comma 3-bis, ord. pen., il limite edittale non è quello di tre anni, ma di una pena da espiare, anche residua, non superiore a quattro anni: (Cass., sez. I, 5 dicembre 2016, n. 51864).

34 In riferimento all’esigenza della pubblicità delle udienze dei procedimenti camerali di sorveglianza in materia di misure alternative alla detenzione.

35 Così A. Della Bella, Riforma Orlando: la delega in materia di ordinamento penitenziario, in www.penalecontemporaneo.it, 2017. 36 Bisognerà cioè garantire ai detenuti l’esercizio dell’affettività attraverso i c.d. colloqui intimi in ambito detentivo.

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Alla lettera f) è contemplata la “previsione di attività di giustizia riparativa e delle relative procedu-re, quali momenti qualificanti del percorso di recupero sociale sia in ambito intramurario sia nell’ese-cuzione delle misure alternative”. Si tratta di una esigenza fortemente avvertita dalla coscienza sociale ma occorre anche fare attenzione che i percorsi di giustizia riparativa siano attentamente soppesati e gestiti con la dovuta professionalità. Non si intende assicurare al soggetto danneggiato un ristoro di ti-po patrimoniale per il danno subìto, ma di porre rimedio alla frattura sociale prodottasi con la commis-sione del reato 37.

Poi, nel conformarsi al contenuto di alcune circolari dell’amministrazione penitenziaria, la lett. r) stabi-lisce la “previsione di norme volte al rispetto della dignità umana attraverso la responsabilizzazione dei detenuti, la massima conformità della vita penitenziaria a quella esterna, la sorveglianza dinamica”.

Particolarmente interessante è il criterio di cui alla lett. p), relativo all’adeguamento delle norme dell’ordinamento penitenziario alle esigenze educative dei detenuti minori di età, sulla base di una se-rie di criteri che vengono specificati. Vari sono i punti su cui su cui esso di specifica: 1) giurisdizione specializzata e affidata al tribunale per i minorenni, fatte salve le disposizioni riguardanti l’incompa-tibilità del giudice di sorveglianza che abbia svolto funzioni giudicanti nella fase di cognizione; 2) pre-visione di disposizioni riguardanti l’organizzazione penitenziaria degli istituti penali per minorenni nell’ottica della socializzazione, della responsabilizzazione e della promozione della persona; 3) previ-sione dell’applicabilità della disciplina prevista per i minorenni quantomeno ai detenuti giovani adulti, nel rispetto dei processi educativi in atto; 4) previsione di misure alternative alla detenzione conformi alle istanze educative del condannato minorenne; 5) ampliamento dei criteri per l’accesso alle misure alternative alla detenzione, con particolare riferimento ai requisiti per l’ammissione dei minori all’af-fidamento in prova ai servizi sociali e alla semilibertà, di cui rispettivamente agli articoli 47 e 50 della legge 26 luglio 1975, n. 354, e successive modificazioni; 6) eliminazione di ogni automatismo e preclu-sione per la revoca o per la concessione dei benefìci penitenziari, in contrasto con la funzione rieducati-va della pena e con il principio dell’individuazione del trattamento; 7) rafforzamento dell’istruzione e della formazione professionale quali elementi centrali del trattamento dei detenuti minorenni; 8) raffor-zamento dei contatti con il mondo esterno quale criterio guida nell’attività trattamentale in funzione del reinserimento sociale. Un intervento di questo genere dovrebbe porre fine all’applicazione dell’art. 79 ord. pen., secondo cui “le norme della presente legge di applicano anche nei confronti dei minori degli anni diciotto sottoposti a misure penali, fino a quando non sarà provveduto con apposita legge”.

Altrettanto interessante ma con qualche profilo operativo più complesso, invece, il criterio di cui alla lett. q), che prevede “l’attuazione, sia pure tendenziale, del principio della riserva di codice nella mate-ria penale, al fine di una migliore conoscenza dei precetti e delle sanzioni e quindi dell’effettività della funzione rieducativa della pena, presupposto indispensabile perché l’intero ordinamento penitenziario sia pienamente conforme ai princìpi costituzionali, attraverso l’inserimento nel codice penale di tutte le fattispecie criminose previste da disposizioni di legge in vigore che abbiano a diretto oggetto di tutela beni di rilevanza costituzionale, in particolare i valori della persona umana, e tra questi il principio di uguaglianza, di non discriminazione e di divieto assoluto di ogni forma di sfruttamento a fini di profit-to della persona medesima, e i beni della salute, individuale e collettiva, della sicurezza pubblica e dell’ordine pubblico, della salubrità e integrità ambientale, dell’integrità del territorio, della correttezza e trasparenza del sistema economico di mercato”.

L’obiettivo è indubbiamente quello di garantire una «migliore conoscenza dei precetti e delle san-zioni e quindi dell’effettività della funzione rieducativa della pena, presupposto indispensabile perché l’intero ordinamento penitenziario sia pienamente conforme ai princìpi costituzionali», ma, sul punto, è doveroso mettere in chiaro due aspetti che destano non poche perplessità: in primo luogo, non è sem-plice l’individuazione delle materie che dovrebbero essere trasferite nel codice penale a causa della enunciazione generica del principio ed, in secondo luogo, non si comprende la sua collocazione tra i cri-teri relativi alle modifiche alla legge di ordinamento penitenziario 38.

37 Si dovrà, inoltre, tenere conto dei principi introdotti dalla direttiva 25 ottobre 2012, n. 2012/29/UE del Parlamento Euro-peo e del Consiglio Europeo del 25 ottobre 2012, che istituisce norme minime in materia di diritti, assistenza e protezione delle vittime di reato e che sostituisce la decisione-quadro n. 2001/220/Gai, nonché delle prescrizioni contenute nelle Regole europee sulla messa alla prova di cui alla raccomandazione R(2010)1 e, in particolare, della Parte VI della medesima, dedicata ai compiti dei Servizi sociali e al Lavoro con le vittime del reato e alle Pratiche di giustizia riparativa (artt. 93-97).

38 A. Della Bella, Riforma Orlando: la delega in materia di ordinamento penitenziario, cit.

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Con riferimento alla maternità in ambito detentivo il criterio contenuto nella lett. s), prescrive la «re-visione delle norme vigenti in materia di misure alternative alla detenzione al fine di assicurare la tutela del rapporto tra detenute e figli minori e di garantire anche all’imputata sottoposta a custodia cautelare la possibilità che la detenzione sia sospesa fino al momento in cui la prole abbia raggiunto il primo an-no di età». Il delegato potrà incidere sul sistema delle misure alternative che già prevede specifici bene-fici per le condannate madri di prole di tenera età, come ad esempio, la detenzione domiciliare speciale ma potrebbe intervenire anche sul beneficio della semilibertà, con specifiche disposizioni speciali. Nella lettera successiva, vale a dire la lett. t) è prevista la «previsione di norme che considerino gli specifici bisogni e diritti delle donne detenute». Qui, invece, l’intervento attiene all’implementazione degli aspetti trattamentali della vita carceraria.

Infine, la lett. u), nell’occuparsi delle pene accessorie, prescrive che la revisione deve essere impron-tata al principio della rimozione degli ostacoli al reinserimento sociale del condannato ed esclusione di una loro durata superiore alla durata della pena principale. Qui la necessità avvertita dal delegante è quella di potenziare l’effetto risocializzante dell’esecuzione della pena in rapporto all’incisione delle pe-ne accessorie su alcune facoltà personali del condannato.

Terminata la disamina dei punti della delega occorre infine, da un lato, precisare i tempi concessi al delegato per intervenire sulla materia e, dall’altro, aggiungere qualche breve e conclusiva valutazione sui principi e i criteri espressi dal delegante.

Per quanto concerne il primo profilo, il Governo è stato delegato ad adottare, nei termini e con la procedura di cui al comma 83 (cioè su proposta del Ministro della giustizia e previo parere delle com-petenti commissioni parlamentari), decreti legislativi recanti le norme di attuazione delle disposizioni previste dai commi 84 e 85 e le norme di coordinamento delle stesse con tutte le altre leggi dello Stato, nonché le norme di carattere transitorio (comma 86). Entro un anno dalla data di entrata in vigore di ciascuno dei decreti legislativi di cui al comma 82, il Governo è autorizzato ad adottare, con la medesi-ma procedura, uno o più decreti legislativi recanti disposizioni integrative e correttive, nel rispetto dei princìpi e criteri direttivi stabiliti dai commi 84 e 85 (comma 87).

Con riferimento al secondo profilo, è doveroso mettere in evidenza come alcune tematiche affrontate – quali la umanizzazione della pena carceraria, il potenziamento degli effetti rieducativi dell’esecuzione penale tanto in carcere quanto in misura alternativa, la semplificazione del ricorso alle misure alternati-ve, la individuazione del trattamento penitenziario, la razionalizzazione del procedimento giurisdizio-nale e la tutela dei diritti della difesa, la maggiore sensibilità verso le categorie “deboli” di detenuti – rappresentino le “giuste” tematiche su cui dovrà essere eretto il nuovo statuto dell’ordinamento peni-tenziario che si sta venendo a delineare. Qualche riserva invece, preme ribadirlo, non può non manife-starsi in ordine alla scelta del legislatore delegante di escludere dall’intervento riformatore il delicatis-simo regime carcerario di cui all’art. 41-bis della legge n. 354 del 1975 previsto per i soggetti più perico-losi appartenenti alla criminalità organizzata di stampo mafioso. Alla base di tale scelta probabilmente una duplice preoccupazione: 1) da un lato, quella che l’allargamento delle maglie di tale regime avreb-be potuto determinare un abbassamento della guardia di fronte alla virulenza del fenomeno mafioso; 2) dall’altro, quella che l’eventuale intervento sull’art. 41-bis avrebbe potuto provocare un allungamento delle tempistiche di approvazione del d.d.l. 39. Un’ultima perplessità, infine, va espressa anche in ordine alla tecnica di redazione dei principi e criteri contemplati in delega, formulati in modo alquanto generi-co; scelta questa che fa inevitabilmente ricadere sul piano operativo grosse responsabilità dell’attua-zione della riforma sul legislatore delegato.

Tuttavia, all’esito di una complessiva analisi della delega e con ottimismo moderato, è possibile rite-nere che i principi ed i criteri esaminati possano significativamente mutare la fisionomia del nostro or-dinamento penitenziario, accrescendo il livello di garanzie e perseguendo in maniera più concreta ed effettiva la funzione rieducativa di cui all’art. 27, comma 3, Cost. Se ciò si verificherà, allora si potrà considerare finalmente “archiviata” quella lunga crisi che ha investito il nostro Paese, posto che la con-danna riportata dal nostro Paese davanti alla Corte di Strasburgo testimonia quanto le nostre prassi si discostino dagli standard europei.

39 In tal senso, F. Fiorentin, La delega per la riforma dell’ordinamento penitenziario, cit., p. 307-308 ss.

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ANALISI E PROSPETTIVE | DISORIENTAMENTI GIURISPRUDENZIALI IN TEMA DI NE BIS IN IDEM E “DOPPIO BINARIO” ...

Processo penale e giustizia n. 6 | 2017

Analisi e prospettive

Analysis and Prospects

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Processo penale e giustizia n. 6 | 2017 1098

 

ANALISI E PROSPETTIVE | DISORIENTAMENTI GIURISPRUDENZIALI IN TEMA DI NE BIS IN IDEM E “DOPPIO BINARIO” ...

FABIO CASSIBBA

Professore associato di Diritto processuale penale – Università di Parma

Disorientamenti giurisprudenziali in tema di ne bis in idem e “doppio binario” sanzionatorio

Disoriented Case-law about ne bis in idem and dual proceedings Prosegue l’incerto cammino della giurisprudenza nazionale volto ad assicurare al divieto di secondo giudizio sancito dall’art. 649 c.p.p. un’applicazione coerente con i canoni garantiti dagli artt. 4, prot. 7, Cedu e 50 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea. La pronuncia della grande camera della Corte di Strasburgo nel caso A e B c. Norve-gia fa sorgere nuovi dubbi interpretativi e rende maggiormente ardua l’armonizzazione con gli ordinamenti sovranaziona-li. La ricerca d’una soluzione di sistema resta comunque condizionata dall’esigenza di rispettare la legalità processuale, protetta dall’art. 111 comma 1 Cost. e considerata dalla stessa Corte europea un principio generale dell’ordinamento. The uncertain course of the case-law continues, attempting to give the double jeopardy guarantee provided for by art. 649 of the Italian Criminal Procedure Code an application that should be consistent with the same guarantee provided for by art. 4, prot. 7, ECHR and art. 50 EUCFR. The Strasbourg Court’s grand chamber decision in the case A and B vs Norway creates new interpretative doubts and makes the harmonization of the systems more difficult. The solution remains conditioned by the need to respect the due process of law, provided for by art. 111 of the Italian Constitution and considered as a general principle of law by the Court of Strasbourg.

UN LABIRINTO MUTEVOLE

Nel celebre fantasy-movie «Labyrinth», la protagonista si trova ad affrontare un labirinto in cui magi-che creature disorientano l’avventuriera, mutandone, passo dopo passo, i meandri e bivi. Oggi, il giudi-ce penale si trova nell’identica condizione: il già di per sé intricato labirinto delle fonti 1 muta di conti-nuo, perché costantemente rimodellato dalla giurisprudenza delle Corti di Lussemburgo e Strasburgo.

Da ultimo, la pronuncia resa della grande camera della Corte europea nel caso A e B c. Norvegia 2 modifica – ancora una volta – lo scenario in cui deve muoversi il giudice, chiamato ad assegnare al di-vieto di secondo giudizio ex art. 649 c.p.p. una portata coerente con i canoni della medesima garanzia sanciti dagli artt. 4, prot. 7, Cedu e 50 Cfdue, in materia di rapporti fra “doppio binario” sanzionatorio e operatività del ne bis in idem 3. Prima della pronuncia in parola – tanto più a seguito della condanna del-

1 Riprendendo l’efficace metafora di V. Manes, Il giudice nel labirinto, Roma, Dike, 2012, passim. 2 Cfr. Corte e.d.u., grande camera, 15 novembre 2016, A e B c. Norvegia, sulla quale, fra gli altri e da vari punti di vista, M.

Brancaccio-G. Fidelbo, Ne bis in idem: percorsi giurisprudenziali e recenti approdi della giurisprudenza nazionale ed europea, Relazione di orientamento dell’Ufficio del Massimario penale, 21 marzo 2017, in www.cortedicassazione.it, p. 13 ss.; P. Fimiani, Market abuse e doppio binario sanzionatorio dopo la sentenza della Corte E.D.U., Grande camera, 15 novembre 2016, A e B c. Norvegia, in Dir. pen. cont., ed. on-line, 8 febbraio 2017, p. 1 ss.; S. Manacorda, Equazioni complesse: il ne bis in idem “ancipite” sul “doppio binario” per gli abusi di mercato al vaglio della giurisprudenza, in Dir. pen. proc., 2017, p. 520 ss.; F. Viganò, La Grande camera della Corte di Strasburgo su ne bis in idem e doppio binario sanzionatorio, in Dir. pen. cont., ed. on-line, 18 novembre 2016.

3 Sul tema la letteratura è amplissima: cfr., senza pretesa di completezza, e fatti salvi gli ulteriori riferimenti nel corso del presente lavoro, C. Amalfitano-R. D’Ambrosio, Art. 50 – Diritto a non essere giudicato o punito due volte per lo stesso reato, in R. Ma-stroianni-O. Pollicino-S. Allegrezza-F.Pappalardo-O. Razzolini (a cura di), Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, Mila-no, Giuffrè, 2017, p. 1031 ss.; M. Bontempelli, La litispendenza penale, Milano, Giuffrè, 2017, p. 64 ss. e 201 ss.; Id., Ne bis in idem e legalità penale nel processo per gli abusi di mercato, in Arch. pen., 2016, 2, p. 389 ss.; M. Caianiello, Ne bis in idem e illeciti tributari per omesso versamento dell’Iva: il rinvio della questione alla Corte costituzionale, in Dir. pen. cont., ed. on-line, 15 maggio 2015, p. 1 ss.; P.

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la Corte europea nei caso Grande Stevens e altri c. Italia 4 – alcuni capisaldi apparivano consolidati e, dunque, idonei a orientare con sicurezza l’interprete. Perché scattasse l’operatività della garanzia nel sistema convenzionale era necessario e sufficiente che: a) i due procedimenti (nella sede penale e in quella extrapenale) fossero stati promossi nei confronti della stessa persona e avessero ad oggetto la stessa condotta 5; b) fosse stata pronunciata, in uno dei due procedimenti, una decisione definitiva; c) il procedimento extrapenale fosse da considerare, in effetti, matière penale, secondo i “criteri Engel” 6. Quanto all’autonomo spazio del diritto dell’Unione europea, la Corte di giustizia aveva assegnato alla garanzia dell’art. 50 Cdfue l’identica portata dell’art. 4, prot. n. 7, Cedu 7.

Dopo la grande camera A e B c. Norvegia del 15 novembre 2016, quei capisaldi appaiono ridimen-sionati: svetta un nuovo requisito, destinato (apparentemente) a prevalere sui primi e a fare da princi-pale – ma, a tal punto, poco stabile – pilastro 8. La novità sta tutta nella considerazione assegnata alla «sufficiente connessione sostanziale e temporale» fra procedimenti come criterio decisivo per sciogliere il dubbio sulla violazione dell’art. 4, prot. n. 7, Cedu 9.

Agevole preconizzare che la grande camera peserà sulle future decisioni della Corte europea: già ora si registrano le prime prese di posizione allineate al nuovo criterio 10. D’altro canto, sul versante interno,

Corso, Prospettive evolutive del ne bis in idem, in Arch. pen., 2017, 1, p. 13 ss.; M.L. Di Bitonto, Una singolare applicazione dell’art. 649 c.p.p., in Dir. pen. proc., 2015, p. 441 ss.; M. Dova, Ne bis in idem e reati tributari: una questione ormai ineludibile, ivi, 11 dicembre 2014; N. Galantini, Il principio del ne bis in idem tra doppio processo e doppia sanzione, in Giur. it., 2015, p. 217 ss.; Ead., Postilla ad uno scritto in tema di ne bis in idem, in Dir. pen. cont., ed. on-line, 30 gennaio 2017, p. 1 ss.; Ead., Il ‘fatto’ nella prospettiva del divieto di secondo giudizio, in Riv. it. dir. proc. pen., 2017, p. 1205 ss.; S. Manacorda, Equazioni complesse, cit., p. 515 ss.; E.M. Mancuso, Ne bis in idem e giustizia sovranazionale, in A. Giarda-A. Perini-G. Varraso (a cura di), La nuova giustizia penale tributaria, Padova, Ce-dam, 2016, p. 533 ss.; O. Mazza, L’insostenibile convivenza fra ne bis in idem europeo e doppio binario sanzionatorio per i reati tributa-ri, in Rass. trib., 2015, 4, p. 1033 ss.; P.P. Paulesu, Ne bis in idem e conflitti di giurisdizione, in R.E. Kostoris (a cura di), Manuale di procedura penale europea, Milano, Giuffrè, 2017, p. 478 ss.; F. Viganò, Art. 4 Prot. n. 7. Diritto a non essere giudicato o punito due volte, in G. Ubertis-F. Viganò (a cura di), Giustizia penale e Corte di Strasburgo, Torino, Giappichelli, 2016, p. 383 ss.

4 Sul tema, fra i molti, con varietà di approcci, G. De Amicis, Ne bis in idem e “doppio binario” sanzionatorio: prime riflessioni sugli effetti della sentenza “Grande Stevens” nell’ordinamento italiano, in Dir. pen. cont., Riv. trim., 2014, 3-4, p. 201 ss.; G.M. Flick, Rea-ti fiscali, principio di legalità e ne bis in idem: variazioni italiane su un tema europeo, in Rass. trib., 2014, p. 939 ss.; B. Lavarini, Corte europea dei diritti umani e ne bis in idem: la crisi del “doppio binario” sanzionatorio, in Speciale Cedu e ordinamento interno, suppl. n. 12 a Dir. pen. proc., 2014, p. 82 ss.; A.F. Tripodi, Abusi di mercato (ma non solo) e ne bis in idem: scelte sanzionatorie da ripensare?, in que-sta Rivista, 2014, 5, p. 102 ss.; V. Zagrebelsky, Le sanzioni Consob, l’equo processo e il ne bis in idem nella Cedu, in Giur. it., 2014, p. 1196 ss.; F. Viganò, Doppio binario sanzionatorio e ne bis in idem: verso una diretta applicazione dell’art. 50 della Carta?, in Dir. pen. cont., Riv. trim., 2014, 3-4, p. 219 ss.

5 Cfr., per tutte, Corte e.d.u., sez. II, 4 marzo 2014, Grande Stevens e altri c. Italia, § 224 e 227. Tocca notare che una simile ac-cezione del concetto di condotta è stata di recente accolta anche dalla sent. cost. n. 200 del 2016, che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 649 c.p.p., per un contrasto con l’art. 117, comma 1, Cost., in relazione all’art. 4, prot. n. 7, Cedu, «nella parte in cui esclude che il fatto sia il medesimo per la sola circostanza che sussiste un concorso formale tra il reato già giudicato con sentenza divenuta irrevocabile e il reato per cui è iniziato il nuovo procedimento penale». Sulla portata della pronuncia v., fra gli altri, P. Ferrua, La sentenza costituzionale sul caso Eternit: il ne bis in idem tra diritto vigente e diritto vivente, in Cass. pen., 2017, p. 78 ss.; B. Lavarini, Il ‘fatto’ ai fini del ne bis in idem nella legge italiana e nella Cedu: la Corte costituzionale alla ricerca di un difficile equilibrio, in questa Rivista, 2017, 1, p. 60 ss.; N. Galantini, Postilla ad uno scritto in tema di ne bis in idem, cit., spec. p. 3 ss.; D. Pulitanò, La Corte costituzionale sul ne bis in idem, in Cass. pen., 2017, p. 70 ss.

6 Cfr., fra le molte, Corte e.d.u., grande camera, 10 febbraio 2009, Zolotukhin c. Russia; nonché, Corte e.d.u., sez. IV, 13 giu-gno 2017, Šimkus c. Lituania; Corte e.d.u., sez. I, 18 maggio 2017, Jóhannesson e altri c. Islanda; Corte e.d.u., sez. I, 30 aprile 2015, Kapetanios e altri c. Grecia; Corte e.d.u., sez. II, 27 novembre 2014, Lucky Dev c. Svezia; Corte e.d.u., sez. IV, 20 maggio 2014, Pirttimäki c. Finlandia; Corte e.d.u., sez. II, 4 marzo 2014, Grande Stevens e altri c. Italia.

7 Cfr., per tutte, C. giust. UE, grande camera, 26 febbraio 2013, C-617/10, Åklagaren c. Hans Åkerberg Fransson, § 16 ss. V. an-che, C. giust. UE, sez. III, 23 dicembre 2009, C-45/08, Spector Photo Group e Chris Van Raemdonck c. CBFA, § 30 ss. Va precisato come, per C. giust. UE, sez. IV, 5 aprile 2017, Orsi (C-217/15) e Baldetti (C-350/15), il ne bis in idem di cui all’art. 4, prot. n. 7, Cedu e 50 Cdfue non operi nel procedimento penale promosso nei confronti di una persona fisica per il reato di omesso versamento dell’IVA di cui all’art. 10-ter d.lgs. n. 74 del 2000, quando la sanzione amministrativa tributaria per lo stesso fatto fosse già stata ir-rogata ad una società dotata di personalità giuridica. Sulla pronuncia, M. Scoletta, Ne bis in idem e doppio binario in materia tributaria: legittimo sanzionare la società e punire il rappresentante legale per lo stesso fatto, in Dir. pen. cont., ed. on-line, 10 aprile 2017.

8 Per la critica al requisito v. infra. 9 Nel senso che la verifica sulla sussistenza del ne bis in idem non possa più essere condotta alla luce dei soli criteri elaborati

dalla sentenza Grande Stevens, «in parte ormai superati» dalla grande camera A e B c. Norvegia, P. Fimiani, Market abuse e doppio binario sanzionatorio dopo la sentenza della Corte E.D.U., Grande camera, 15 novembre 2016, A e B c. Norvegia, cit., p. 6.

10 Cfr. Corte e.d.u., sez. I, 18 maggio 2017, Jóhannesson e altri c. Islanda, spec. § 49 ss., che accerta la violazione dell’art. 4,

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le prime pronunce giurisprudenziali in relazione al tema del ne bis in idem e del doppio binario sanzio-natorio ne hanno prontamente (ma meccanicisticamente) recepito gli argomenti: in ossequio al requisito di nuovo conio, il Tribunale di Milano ha escluso l’operatività del ne bis in idem in tema di market abuse, sanzionato penalmente e in via amministrativa, rispettivamente, dagli artt. 185 e 187-ter del Testo unico delle disposizioni in materia di intermediazione finanziaria 11. S’è, poi, evidenziato che la grande came-ra A e B c. Norvegia potrebbe rilevare come ius superveniens nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 649 c.p.p., sollevato dal Tribunale di Monza, per contrasto con l’art. 4, prot. n. 7, Cedu 12, «nella parte in cui non prevede l’applicabilità della disciplina del divieto di un secondo giudizio nei confronti dell’imputato al quale, con riguardo agli stessi fatti, sia già stata irrogata in via definitiva, nell’ambito di un procedimento amministrativo, una sanzione di carattere sostanzialmente penale» 13.

Molto vi sarebbe da ribattere ad entrambe le prese di posizione. Bastino due considerazioni. Nell’in-terpretazione dell’art. 649 c.p.p. operata dal Giudice milanese, gli argomenti impiegati forzano la portata della ricostruzione della grande camera, poiché si basano, discutibilmente, sulla necessaria prevalenza del «circuito formalmente penale» 14, invece non imposta a livello europeo in materia di contrasto (penale e amministrativo) agli abusi di mercato 15. Circa le sorti della questione di legittimità costituzionale, è, inve-ce, ancora da dimostrare che il dictum della grande camera integri davvero quel «diritto consolidato» della Corte europea, reputato vincolante per l’ordinamento nazionale dalla sent. cost. 49 del 2015 16.

In breve, la carica suggestiva della sentenza A e B c. Norvegia rischia d’incentivare il giudice comu-ne a praticare ragionamenti di carattere empirico e a scegliere facili scorciatoie esegetiche 17. Dai (rischi di ulteriori) disorientamenti giurisprudenziali deve muovere la ricostruzione del sistema, alla luce

prot. n. 7, Cedu in forza della mancanza di una sufficiente connessione sostanziale e temporale fra procedimenti (sulla pronun-cia, F. Viganò, Una nuova sentenza di Strasburgo su ne bis in idem e reati tributari, in Dir. pen. cont., ed. on-line, 22 maggio 2017); nonché, ancor più di recente, Corte e.d.u., sez. IV, 13 giugno 2017, Šimkus c. Lituania, § 41 ss.

11 Così, Trib. Milano, sez. I, 6 dicembre 2016, D.F. e altri, in Dir. pen. proc., 2017, p. 514. Più precisamente, i Giudici milanesi hanno ravvisato la sufficiente connessione sostanziale e temporale fra il procedimento amministrativo (già definito) svolto da-vanti alla Consob e quello penale sul duplice presupposto che, da un lato, la Consob, «oltre ad essere provvista di poteri giudi-canti, ha in sede amministrativa penetranti poteri istruttori … le cui risultanze, anche in ragione del rapporto collaborativo con l’Ufficio del pubblico ministero esplicitamente promosso dall’art. 187 decies [Tuf], possono ben avere ingresso nel processo pena-le ed essere valutate a fini decisori» e che, dall’altro, l’art. 187-terdecies Tuf prevede «l’esenzione della pena pecuniaria limitata-mente alla parte eccedente quella già riscossa in sede amministrativa», con l’ulteriore conseguenza che, «nel sistema italiano, la duplicità dei procedimenti … sia all’evidenza una “conseguenza prevedibile della condotta» (ivi, p. 515). Sulla portata della pro-nuncia, cfr. E. Fusco, La tutela del mercato finanziario tra normativa comunitaria, ne bis in idem e legislazione interna, in Dir. pen. cont., ed. on-line, 23 dicembre 2016, p. 1 ss.; S. Manacorda, Equazioni complesse: il ne bis in idem “ancipite” sul “doppio binario” per gli abusi di mercato al vaglio della giurisprudenza, cit., p. 515 ss.

12 Nel senso che la Corte costituzionale potrebbe restituire gli atti al giudice a quo per una nuova valutazione della questione proprio alla luce del novum rappresentato dalla pronuncia della grande camera si orienta S. Confalonieri, Ne bis in idem e reati tributari: il Tribunale di Monza solleva eccezione di legittimità costituzionale dell’art. 649 c.p.p. Quale possibile destino della questione pen-dente, dopo la pronuncia A. e B. c. Norvegia?, in Dir. pen. cont., ed. on-line, 5 dicembre 2016. D’altra parte, la Corte costituzionale (ord. 8 settembre 2016 n. 209 e sent. 24 ottobre 2016 n. 229) si era già orientata nel medesimo senso in relazione alle questioni di legittimità costituzionale degli art. 10-bis e 10-ter d.lgs. 74 del 2000 a seguito delle modifiche medio tempore intervenute a seguito della riforma tributaria attuata col d.lgs. n. 158 del 2015.

13 Trib. Monza, 30 giugno 2016, in Dir. pen. cont., ed. on-line, 5 dicembre 2016, con nota di S. Confalonieri. 14 S. Manacorda, Equazioni complesse: il ne bis in idem “ancipite” sul “doppio binario” per gli abusi di mercato al vaglio della giuri-

sprudenza, cit., pp. 519-520. 15 Si allude, più recisamente, al quanto previsto dalla Dir. n. 2014/57/UE (MAD II), che contiene la disciplina dell’Unione

Europea in materia di repressione penale in materia di market abuse, e al Regolamento n. 596/2014 (MAR), relativo alle sanzioni amministrative. Sul tema, fra i molti, da vari angoli visuali, E. Basile, Una nuova occasione (mancata) per riformare il comparto pena-listico degli abusi di mercato?, in Dir. pen. cont., ed. on-line, 19 maggio 2017, spec. p. 9 ss.; P. Fimiani, Market abuse e doppio binario sanzionatorio dopo la sentenza della Corte E.D.U., Grande camera, 15 novembre 2016, A e B c. Norvegia?, cit., p. 10 e 13 ss.; E. Fusco, La tutela del mercato finanziario tra normativa comunitaria, ne bis in idem e legislazione interna, cit., p. 4 ss.; B. Lavarini, Corte europea dei diritti umani e ne bis in idem: la crisi del “doppio binario” sanzionatorio, cit., p. 86, F. Mucciarelli, La nuova disciplina eurounitaria sul market abuse: tra obblighi di criminalizzazione e ne bis in idem, in Dir. pen. cont., ed. on-line, 17 settembre 2015, F. Viganò, Ne bis in idem e contrasto agli abusi di mercato: una sfida per il legislatore e i giudici italiani, ivi, ed. on-line, 8 febbraio 2016.

16 Così, S. Manacorda, Equazioni complesse: il ne bis in idem “ancipite” sul “doppio binario” per gli abusi di mercato al vaglio della giurisprudenza, cit., pp. 520-521.

17 Nel senso che la pronuncia apre al giudice comune «[s]pazi di discrezionalità interpretativa e di adattamento alla fattispe-cie concreta», P. Fimiani, Market abuse e doppio binario sanzionatorio dopo la sentenza della Corte E.D.U., Grande camera, 15 novembre 2016, A e B c. Norvegia, cit., p. 8.

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dell’esigenza di assicurare la legalità processuale, protetta dall’art. 111, comma 1, Cost. e reputata un principio generale dell’ordinamento dalla stessa Corte europea 18.

LA «SUFFICIENTE CONNESSIONE SOSTANZIALE E TEMPORALE»: UN REQUISITO EVANESCENTE, NONOSTAN-TE L’IMPEGNO DEFINITORIO

Secondo la grande camera A e B c. Norvegia, per il vaglio sulla violazione del ne bis in idem è decisi-va la «stretta connessione sostanziale e temporale fra procedimenti paralleli»: in chiave teleologica, il doppio binario sanzionatorio garantisce un «approccio integrato [e] un tutt’uno coerente» nella repres-sione degli illeciti, perché idoneo a soddisfare interessi diversi, col solo limite che la duplicazione delle risposte sanzionatorie non comporti situazioni d’ingiustizia per i cittadini 19.

Il requisito – tocca subito dirlo – è frutto dell’autonoma elaborazione della Corte di Strasburgo, non trovando appiglio alcuno nell’art. 4, prot. n. 7, Cedu. È ben vero che dare rilievo ad una decisione “so-stanzialmente penale” schiude immediatamente la via alla necessità di verificare se e come operi la ga-ranzia in rapporto a una pluralità di procedimenti svolti in contesti diversi 20. Ed è altrettanto vero che la pluralità di procedimenti rileva pure in una dimensione sincronica: sulla scia d’un indirizzo consoli-dato 21, la garanzia del ne bis in idem non vieta la litispendenza fra procedimenti, tutti, o solo alcuni, aventi natura formalmente penale 22.

Senonché, il testo convenzionale s’accontenta della conclusione definitiva di uno dei procedimenti affinché scatti la preclusione negli altri, ancora pendenti. Del resto, la Corte europea – pur richiamando in varie pronunce il requisito della sufficiente connessione sostanziale e temporale 23 – lo aveva fatto va-lere solo sporadicamente 24. Forse consapevoli del contenuto ampiamente creativo del nuovo requisito, i giudici di Strasburgo si sono, così, prodigati ad ancorarlo a puntuali criteri 25: ancorché in un sistema in cui il case-law riveste un ruolo centrale, la legalità impone alla Corte europea di elaborare fattispecie processuali coerenti con quel principio generale 26.

Anzitutto, la sufficiente connessione fra procedimenti deve sussistere, al contempo, sul versante so-stanziale e su quello temporale. Sul primo, le «finalità perseguite e gli strumenti impiegati» nei due procedimenti devono essere «complementari»; i «potenziali effetti» derivanti dai procedimenti paralle-li, a loro volta, devono essere «proporzionati e prevedibili dagli individui coinvolti» 27. Sul secondo, i

18 Cfr. Corte e.d.u., sez. II, 22 giugno 2000, Coëme c. Belgio. Si sa che il canone della legalità formale – sui versanti sostanziale e processuale – concretizza la soggezione del giudice soltanto alla legge, assicura l’eguale trattamento dei consociati (prima del proces-so e durante questo), garantisce la prevedibilità delle decisioni processuali perché scongiura l’arbitrio degli organi procedenti. In bre-ve, assicura quelle medesime garanzie dello Stato di diritto costantemente poste al centro dell’analisi svolta dalla Corte europea.

19 Cfr. Corte e.d.u., grande camera, 15 novembre 2016, A e B c. Norvegia, §§ 122-123 e 130. Tocca appena notare che l’espressione “procedimenti paralleli” qui impiegata dalla Corte europea non coincide con quella di cui all’art. 3 decisione qua-dro 2009/948/GAI, relativa al divieto di secondo giudizio con riguardo a procedimenti penali svolti in diversi Stati dell’Unione europea: cfr. S. Buzzelli, Procedimenti paralleli, spazio di giustizia, Unione europea: il contesto normativo e gli aspetti problematici, in Arch. pen., 2012, 1, p. 1 ss.

20 Benché la Corte europea evidenzi come, in linea di principio, il divieto di bis in idem sarebbe assicurato da un sistema in cui il medesimo fatto venisse punito con diverse sanzioni in un unico procedimento: così, Corte e.d.u., grande camera, 15 no-vembre 2016, A e B c. Norvegia; v. anche Corte e.d.u., sez. I, 30 aprile 2015, Kapetanios c. Grecia.

21 Cfr., anzitutto, Corte e.d.u., grande camera, 10 febbraio 2009, Zolotukhin c. Russia, § 107; nonché, fra le altre, Corte e.d.u., sez. V, 16 giugno 2016, Igor Tarasov c. Ucraina, § 31; Corte e.d.u., sez. V, 27 novembre 2014, Lucky Dev c. Svezia, § 60.

22 Sul tema della litispendenza alla luce dell’art. 4, prot. n. 7, Cedu v., per tutti, anche per ulteriori riferimenti, M. Bontempel-li, La litispendenza penale, cit., p. 64 ss.

23 V., fra le altre, Corte e.d.u., sez. V, 10 febbraio 2015, Kiiveri c. Finlandia, § 44; Corte e.d.u., sez. IV, sent. 20 maggio 2014, Glantz c. Finlandia, § 60; Corte e.d.u., sez. V, 27 novembre 2014, Lucky Dev c. Svezia, § 61.

24 Sul punto, E.M. Mancuso, Art. 4 Prot. n. 7. Diritto a non essere giudicato o punito due volte, cit., p. 381; v. anche M. Brancaccio-G. Fidelbo, Ne bis in idem: percorsi giurisprudenziali e recenti approdi della giurisprudenza nazionale ed europea, cit., p. 16.

25 La stessa pronuncia evidenzia come la motivazione della decisione nel caso Zolotukhin c. Russia offrisse guidelines minime al riguardo: cfr. Corte e.d.u., grande camera, 15 novembre 2016, A e B c. Norvegia, § 111.

26 Sul punto, da ultimo, con un approccio innovativo, G. Ubertis, Equità e proporzionalità versus legalità processuale: eterogenesi dei fini?, in Arch pen., 2017, 2, p. 1 ss. V., anche, Id., Sistema di procedure penale, I, Principi generali, Milano, Giuffrè, 2017, p. 134.

27 Corte e.d.u., grande camera, 15 novembre 2016, A e B c. Norvegia, § 130, da cui è tratta anche la citazione che immediata-mente segue (§ 134).

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due procedimenti non devono indefettibilmente svolgersi in maniera simultanea dall’inizio alla fine; piuttosto, la contiguità temporale dev’essere «sufficientemente stretta da proteggere gli individui dal rischio di essere sottoposti a incertezza e ritardi derivanti dalla [loro] protrazione».

Malgrado l’impegno profuso sul terreno definitorio dalla Corte europea, il requisito in parola resta, comunque, evanescente e inidoneo ad assicurare effettività al diritto fondamentale protetto dall’art. 4, prot. n. 7, Cedu.

Al di là delle considerazioni di politica criminale (che, per vero, dovrebbero essere estranee agli ap-prezzamenti della Corte di Strasburgo), risolte nell’ampia legittimazione tributata dalla grande camera al doppio binario sanzionatorio 28, le maggiori perplessità non riguardano l’impiego del requisito per vagliare la fondatezza di future doglianze di fronte ai giudici di Strasburgo. È precipuo compito della Corte europea verificare a posteriori se la condotta tenuta dalle autorità nazionali, considerata non tanto nella sua dimensione giuridica-normativa, quanto in quella pragmatica e fattuale, abbia violato i canoni convenzionali. I criteri enunciati dalla grande camera rispondono, dunque, per definizione, all’esigenza di orientare giudizi ex post in ordine al rispetto del divieto di un secondo giudizio da parte degli Stati membri.

Piuttosto, la pronuncia della Corte europea espone il fianco a severe critiche se esaminata in rappor-to al dovere degli Stati di prevenire la violazione di diritti fondamentali, ossia di dotarsi di misure strutturalmente idonee ad assicurare a priori l’osservanza dei diritti convenzionalmente protetti.

L’approccio empirico della Corte di Strasburgo fornisce un compendio (meramente esemplificativo) degli indici sintomatici della “sufficiente” connessione sostanziale fra procedimenti paralleli 29. Che le condizioni in parola possano essere soddisfatte non dipende, ovviamente, dalla discrezionalità degli organi nazionali procedenti: ferme restando le previsioni speciali (come, ad esempio, gli art. 187-decies e 187-undecies Tuf) che regolano i rapporti fra il procedimento extrapenale e quello penale, la circolazione probatoria e la quantificazione delle sanzioni sono vincolate dal rispetto dei principi di legalità sostan-ziale e di legalità processuale. In difetto di disposizioni normative volte a introdurre meccanismi di rac-cordo fra il procedimento penale e quello extrapenale, gli artt. 25, comma 2, e 111, comma 1, Cost., non-ché, sul versante amministrativo, l’art. 97 Cost., impediscono di “forzare” la disciplina positiva. Eppure, la giurisprudenza di legittimità mostra qui un atteggiamento lasco, dal momento che, in materia di rapporti fra procedimento disciplinare e procedimento penale, impone al giudice del merito, in sede di determinazione della pena, di «tenere conto della sanzione disciplinare già irrogata» 30.

Con riguardo, poi, alla sufficiente connessione temporale, la Corte europea non riesce, comunque, ad individuare un criterio puntuale, capace di determinare quando il requisito sia integrato: la relativa indi-viduazione è rimessa, in definitiva, all’ampia discrezionalità del giudice. Non si dimentichi che, già prima della sentenza nel caso A e B c. Norvegia, la Corte europea escludeva la violazione dell’art. 4, prot. n. 7, Cedu quando – svolti parallelamente due procedimenti – il secondo si fosse concluso dopo la definizione del primo, limitando, così, l’operatività della garanzia all’ipotesi in cui il secondo procedimento fosse sta-to instaurato dopo che il provvedimento conclusivo del primo fosse divenuto irrevocabile 31. A tal punto,

28 Significativamente, nella vicenda dipanatasi dinanzi alla Corte europea, sono intervenuti sei Stati terzi (Bulgaria, Repub-blica ceca, Grecia, Francia, Moldavia e Svizzera), accomunati dall’intento di escludere dal divieto ex art. 4, prot. n. 7, Cedu pro-prio le ipotesi di duplicazioni di sanzioni nella sede penale e in quella “amministrativa”: cfr. Corte e.d.u., grande camera, 15 no-vembre 2016, A e B c. Norvegia, § 87 ss. In effetti, la Corte europea si muove, oggi, su un terreno sdrucciolevole, reso ancor più insidioso dalla crisi delle istituzioni sovranazionali, molto evidente nell’autonomo spazio giuridico dell’Unione europea: la tute-la dei diritti fondamentali tende ad arretrare in rapporto alla prioritaria istanza di una “repressione efficiente” propugnata da Stati nazionali sempre meno inclini a cedere porzioni di sovranità nell’ambito penale.

29 Corte e.d.u., grande camera, 15 novembre 2016, A e B c. Norvegia, § 132-133. La Corte europea evidenzia come essa sia as-sicurata, tra l’altro, quando il materiale probatorio raccolto in una sede possa essere (e sia effettivamente) impiegato nell’altra oppure quando la sanzione irrogata nel procedimento deciso successivamente a quello già concluso tenga conto delle sanzioni già irrogate all’esito di quest’ultimo.

30 Con l’«obiettivo di completare il ‘compendio sanzionatorio integrato’, generato dalle due procedure [nella sede disciplina-re e in quella penale], definendo una sanzione complessivamente proporzionata al disvalore del fatto plurioffensivo»: così, Cass., sez. II, 15 dicembre 2016, Pagano, in Dir. pen. cont., ed. on-line, 21 aprile 2017, p. 7, con nota E. Zuffada, La Corte di cassazio-ne alle prese con i principi stabiliti dalla Corte europea in materia di ne bis in idem in relazione al “doppio binario” sanzione penale – san-zione disciplinare (penitenziaria).

31 Cfr., ad esempio, Corte e.d.u., sez. V, 27 novembre 2014, Lucky Dev c. Svezia, § 59; Corte e.d.u., sez. IV, 17 febbraio 2015, Boman c. Finlandia, § 40 ss.

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è evidente come il ne bis in idem venga fatto dipendere da profili del tutto casuali (come, ad esempio, il momento del passaggio in giudicato di uno dei due provvedimenti), con irragionevoli disparità di tratta-mento. In effetti, neppure l’argine del giudicato potrebbe offrire un sicuro riparo per scongiurare il rischio della seconda punizione, perché esplicherebbe un effetto preclusivo solo quando il secondo procedimento non fosse stato neppure instaurato al momento dell’irrevocabilità del provvedimento pronunciato nell’unico procedimento 32. Se così è, la violazione dell’art. 3 Cost. non deriva – come potrebbe sembrare di prim’acchito – da ragioni di mero fatto, che resterebbero irrilevanti: la sufficiente connessione sostan-ziale e temporale è stata trasformata in un canone normativo.

Con ciò, la Corte europea genera un autentico paradosso: l’intento di assicurare la certezza del dirit-to e di assegnare al ne bis in idem una sfera operativa prevedibile dal cittadino fa scaturire un esito op-posto. Si spiegano così le durissime le parole spese dal giudice Pinto de Albuquerque, nell’articolare l’unica, robustamente argomentata, dissenting opinion alla sentenza in esame: «il ne bis in idem ha perso la propria natura di garanzia pro persona, essendo stato trasformato dalla Corte [europea] in un rigido strumento pro auctoritate»; in breve, si sarebbero «aperte le porte a un inedito sistema punitivo, sul mo-dello del Leviatano, basato su una pluralità di procedimenti punitivi statali, strategicamente connessi e allestiti per ottenere il più ampio effetto repressivo possibile» 33.

«SUFFICIENTE CONNESSIONE SOSTANZIALE E TEMPORALE» E PORTATA DELL’ART. 50 CDFUE

L’innovativo e fortemente restrittivo requisito elaborato dalla grande camera della Corte europea rompe la simmetria – faticosamente costruita – fra la giurisprudenza dei giudici di Strasburgo e di Lus-semburgo a proposito delle condizioni necessarie e sufficienti perché scatti il ne bis in idem. Anzi, era stata proprio la prima 34 ad allinearsi alla seconda 35, armonizzando il regime della garanzia nella Gran-de Europa con quello della Piccola Europa 36.

Si è, così, paventato come la pronuncia della Corte europea possa generare un effetto di ritorno, in-fluenzando un revirement della Corte di giustizia sulla portata dell’art. 50 Cdfue, «in nome di una più efficace tutela de[gli] interessi finanziari» dell’Unione europea 37. Si badi, un’interpretazione restrittiva dell’art. 50 Cdfue da parte della Corte di Lussemburgo, allineata al recente dictum della grande camera, inciderebbe negativamente sull’effettività del ne bis in idem nell’ordinamento interno: sono diversi, in-fatti, i rinvii pregiudiziali pendenti dinanzi alla Corte lussemburghese, promossi da autorità italiane, sulla portata della previsione in parola in rapporto al doppio binario sanzionatorio 38.

32 Sul tema, S. Fasolin, Conflitti di giurisdizione e ne bis in idem europeo, 2015, Padova, Cedam, p. 81. 33 Dissenting opinion del giudice Pinto de Albuquerque (§ 79). 34 Cfr. Corte e.d.u., grande camera, 10 febbraio 2009, Zolotukhin c. Russia, i cui argomenti sono stati, in seguito, ampiamente

ripresi da Corte e.d.u., sez. II, 4 marzo 2014, Grande Stevens e altri c. Italia, spec. § 219 ss. 35 Cfr., fra le altre, C. giust. UE, sez. II, 9 marzo 2006, C-436/04, Léopold Henri Van Esbroek; C. giust. UE, sez. II, 28 settem-

bre 2006, C-150/05, Jan Leo Van Straaten. 36 Che la Corte europea si sia ispirata alla Corte di giustizia, è posto in luce da P.P. PAULESU, Ne bis in idem e conflitti di giuri-

sdizione, cit., p. 465; analogamente, J. Vervaele, Ne bis in idem: verso un principio costituzionale transnazionale in UE?, in Riv. it. dir. proc. pen., 2014, p. 53; V. Zagrebelsky, Le sanzioni Consob, l’equo processo e il ne bis in idem nella C.e.d.u., cit., p. 1199 ss. Sul-l’evoluzione della giurisprudenza europea, in rapporto all’estensione della sfera dell’art. 4, prot. 7, Cedu, cfr. G. De Amicis, Ne bis in idem e “doppio binario” sanzionatorio: prime riflessioni sugli effetti della sentenza “Grande Stevens” nell’ordinamento italiano, cit., p. 203; G. Della Monica, Ne bis in idem, in A. Gaito (a cura di), I princìpi europei del processo penale, Roma, Dike, 2016, p. 331 ss.; M. Brancac-cio-G. Fidelbo, Ne bis in idem: percorsi giurisprudenziali e recenti approdi della giurisprudenza nazionale ed europea, cit., p. 2 ss.

37 Così, ancor prima della decisione della sentenza della Grande camera della Corte europea, F. Viganò, A never-ending sto-ry? Alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea la questione della compatibilità tra ne bis in idem e doppio binario sanzionatorio in mate-ria, questa volta di abusi di mercato, in Dir. pen. cont., ed. on-line, 17 ottobre 2016. V. pure, dopo la pronuncia in parola, M. Scoletta, Ne bis in idem e doppio binario in materia tributaria: legittimo sanzionare la società e punire il rappresentante legale per lo stesso fatto, cit.

38 Cfr. Trib. Bergamo, 16 settembre 2015, in Dir. pen. cont., ed. on-line, 28 settembre 2015, con nota di F. Viganò, Ne bis in idem e omesso versamento dell’Iva: la parola alla Corte di Giustizia; e, più di recente, Cass., sez. trib., 20 settembre 2016, n. 20675, in Dir. pen. cont., ed. on-line, 17 ottobre 2016, con nota di F. Viganò, Alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea la questione della compatibili-tà tra ne bis in idem e doppio binario sanzionatorio in materia, questa volta, di abusi di mercato; Cass., sez. II civ., n. 23232 e n. 23233, 15 novembre 2016, ivi, ed. on-line 28 novembre 2016, con nota di F. Viganò, Ne bis in idem e doppio binario sanzionatorio: nuovo rinvio pregiudiziale della Cassazione in materia di abuso di informazioni privilegiate.

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Orbene, il peso suggestivo della pronuncia della grande camera della Corte europea è indubbio, tan-to più in un contesto in cui gli Stati nazionali appaiono fortemente restii a cedere porzioni di sovranità in ambito penale e a consentire che la definizione del procedimento amministrativo sprigioni un effetto preclusivo nel processo penale ancora pendente per lo stesso fatto nei confronti della stessa persona. In effetti, se persino nell’ambito convenzionale stenta ad affermarsi – senza pericolose regressioni – l’as-sunto secondo cui «una Corte investita della tutela dei diritti dell’uomo non deve scendere sotto il livel-lo di protezione dalla stessa già garantito» 39, a fortiori, è elevato il rischio che analoghe restrizioni ven-gano attuate dalla Corte di Giustizia: qui, la tutela dei diritti fondamentali è destinata a rilevare nella misura in cui possa risultare funzionale al – o non contrastante col – perseguimento delle finalità d’integrazione europea 40.

Tuttavia, simili preoccupazioni sembrano potersi ridimensionare: per un verso, la Corte di giustizia non è affatto tenuta a recepire meccanicisticamente il dictum della Corte europea41; per l’altro, quan-d’anche la prima si allineasse alla seconda (legittimando il doppio binario sanzionatorio alle condizioni indicate dalla sentenza nel caso A e B c. Norvegia), ciò non sembrerebbe imporre un vincolo interpreta-tivo generale per i giudici nazionali. Al di là del dibattito sull’efficacia vincolante erga omnes delle sen-tenze interpretative della Corte di Giustizia 42, il recepimento della sufficiente connessione sostanziale e temporale non resterebbe nell’ambito dell’attività ermeneutica volta ad estrapolare uno dei possibili si-gnificati dal tenore dell’art. 50 Cdfue 43: si tradurrebbe, piuttosto, nell’introduzione d’un requisito extra-legale, di pura creazione giurisprudenziale, non idoneo a vincolare i giudici nazionali, in un sistema re-golato dalla soggezione del giudice soltanto alla legge (art. 101, comma 2, Cost.).

La limitazione dei diritti fondamentali – tale è il ne bis in idem ai sensi dell’art. 50 Cdfue 44 – è condi-zionata, anche nel diritto dell’Unione europea, dal principio della riserva di legge e da quello della le-galità processuale, desumibile dall’art. 52 Cdfue 45. Orbene, per quanto la «legalità europea [sia] di stampo prevalentemente ‘giudiziale’» 46 e i giudici comuni siano tenuti a soddisfare il canone dell’inter-pretazione conforme al diritto dell’Unione europea 47, tenendo ovviamente in conto anche le decisioni

39 Dissenting opinion dei giudici Sajó e Laffranque, nel caso deciso da Corte e.d.u., grande camera, 13 settembre 2016, Ibrahim e altri c. Regno unito, § 2.

40 In tali precisi termini, R.E. Kostoris, La tutela dei diritti fondamentali, in R.E. Kostoris (a cura di), Manuale di procedura penale europea, cit., p. 86.

41 Assai di recente, la tesi in parola è avvalorata dalle conclusioni dell’Avvocato generale della Corte di Giustizia, Campos Sánchez-Bordona, presentate il 12 settembre 2017 nella causa C-524/15, Menci Luca, in rapporto alla questione pregiudiziale sollevata dal Tribunale di Bergamo (v. supra, nota 38). Sull’argomento, F. Viganò, Le conclusioni dell’Avvocato generale nei proce-dimenti pendenti in materia di ne bis in idem tra sanzioni penali e amministrative in materia di illeciti tributari e abusi di mercato, in Dir. pen. cont., ed. on-line, 18 settembre 2017.

42 Essendo quanto meno discusso che le sentenze della Corte di giustizia che risolvono una questione pregiudiziale abbiano effica-cia vincolante erga omnes e non solo per il giudice a quo: nel senso affermativo, R. Adam-A. Tizzano, Lineamenti dell’Unione europea, Tori-no, Giappichelli, 2016, p. 262; G. Tesauro, Manuale di diritto dell’Unione europea, Padova, Cedam, 2012, p. 324; contra, nel senso che non sorga nei giudizi nazionali diversi da quello in cui sono state sollevate le questioni un vincolo del giudice ad attenersi alla soluzione offerta dalla Corte di Giustizia, G. Gaja-A. Adinolfi, Introduzione al diritto dell’Unione europea, Roma-Bari, Laterza, 2010, p. 116.

43 Come, invece, può dirsi, ad esempio, in relazione all’individuazione del significato del concetto di «infrazione» o di «rea-to» che compare, rispettivamente, negli art. 4, prot. n. 7, Cedu e art. 50 Cdfue. Sulla convergenza di tali concetti per opera della giurisprudenza sovranazionale verso un più esteso concetto di “fatto”, cfr. P. Ferrua, La sentenza costituzionale sul caso Eternit: il ne bis in idem tra diritto vigente e diritto vivente, cit., p. 78 ss. Più in generale, con ampiezza, E.M. Mancuso, Il giudicato nel processo penale, Milano, Giuffrè, 2012, p. 525 ss.

44 Così, fra le molte, C. giust. UE, grande camera, 26 febbraio 2013, C-617/10, Åklagaren c. Hans Åkerberg Fransson, § 16 ss.; v. anche C. giust. UE, grande camera, 27 maggio 2014, C-129/14 PPU, Zoran Spasic, § 51 ss.

45 Così, M. Panzavolta, Legalità e proporzionalità nel diritto penale processuale, in R. Mastroianni-O. Pollicino-S. Allegrezza-F. Pappalardo-O. Razzolini (a cura di), Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, cit., pp. 1005-1006.

46 R.E. Kostoris, Diritto europeo e giustizia penale, in R.E. Kostoris (a cura di), Manuale di procedura penale europea, cit., p. 71. V. inoltre, anche per ulteriori riferimenti, Id., Processo penale, diritto europeo e nuovi paradigmi del pluralismo giuridico postmoderno, in Riv. it. dir. proc. pen., 2016, p. 1193.

47 Sul tema, di recente, nell’ambito della dottrina processualpenalistica, M. Daniele, La triangolazione delle garanzie processuali tra Diritto dell’Unione europea, Cedu e sistemi nazionali, in Dir. pen. cont., ed. on-line, 6 aprile 2016, p. 1 ss.; F.R. Dinacci, Interpreta-zione “europeisticamente” orientata tra fonti normative e resistenze giurisprudenziali, in A. Gaito (a cura di), I princìpi europei del proces-so penale, cit., p. 58 ss.; R.E. Kostoris, La tutela dei diritti fondamentali, cit., p. 84 ss.

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della Corte di Giustizia, questi ultimi non rivestono il ruolo di «passivi ricettori di un comando esegeti-co impartito altrove nelle forme della pronuncia giurisdizionale» 48. D’altra parte, possono scattare i «controlimiti» costituzionali rappresentati dalla soggezione del giudice soltanto alla legge, scolpita dall’art. 101, comma 2, Cost. e posta alla base del principio di legalità sostanziale e processuale di cui agli artt. 25, comma 2, e 111, comma 1, Cost., secondo una prospettiva interpretativa già accolta – com’è noto – dalla Corte costituzionale, con l’ordinanza n. 24 del 2017 49.

Va poi considerato, su un versante contiguo, il soddisfacimento del principio della “maggior tutela” ex art. 53 Cdfue, che tempera il principio di equivalenza ex art. 52, comma 3, primo periodo, Cdfue, scongiurando un’indebita compressione delle garanzie. D’altro canto, la limitazione ai diritti fonda-mentali possono essere giustificate solo alla luce del «principio di proporzionalità» e solo quando esse rispondano «effettivamente» a finalità d’interesse generale riconosciute dall’Unione o all’esigenza di proteggere i diritti e le libertà altrui (art. 52, comma 1, secondo periodo, Cfdue). Si spiega, così, la recen-tissima presa di posizione dell’Avvocato generale della Corte di Giustizia, in relazione a questioni pre-giudiziali sollevate dalla Corte di cassazione 50, volta a circoscrivere – in conformità con il principio di legalità – la portata delle limitazioni ai diritti fondamentali, che, pur calibrata sulla repressione effettiva del market abuse, riveste una portata generale. Più precisamente, la garanzia del ne bis in idem di cui al-l’art. 50 Cfdue «[o]sta a una normativa nazionale che consente la celebrazione di un procedimento fina-lizzato all’irrogazione di sanzioni amministrative di natura sostanzialmente penale agli autori di con-dotte di abuso di mercato, quando vi sia già una sentenza penale, di assoluzione e definitiva, che abbia dichiarato, rispetto agli stessi fatti e alle stesse persone, l’insussistenza di tali condotte». La medesima garanzia, poi, «non può [appunto] essere limitat[a] … per soddisfare l’esigenza di efficacia, proporzio-nalità e dissuasività delle sanzioni applicabili alle condotte di abuso di mercato», almeno «in circostan-ze come quelle [che la Corte è chiamata a considerare in relazione al] procedimento principale», aven-do, cioè, riguardo, ad un ordinamento che duplica i procedimenti sanzionatori e le sanzioni per uno stesso fatto, anziché prevedere un unico binario sanzionatorio oppure meccanismi volti ad evitare l’irrogazione di una doppia sanzione 51. In effetti, l’art. 50 Cfdue «[n]on consente la doppia repressione, amministrativa e penale, della medesima condotta illecita di abuso di mercato, quando la sanzione amministrativa che, ai sensi della normativa nazionale, ne consegue presenti sostanzialmente natura penale ed è prevista la ripetizione dei procedimenti contro la medesima persona e per fatti identici, senza elaborare un meccanismo processuale che eviti tale duplicità» 52.

In definitiva, che la portata dei diritti riconosciuti dalla Carta di Nizza debba corrispondere a quella assicurata dalle norme della Convenzione europea, in forza del principio della tutela equivalente, non comporta che l’equivalenza debba essere realizzata verso il basso, interpretando in chiave antiletterale e restrittiva l’art. 50 Cdfue 53.

Né va enfatizzato il tenore delle «Spiegazioni relative alla Carta dei diritti fondamentali» 54. È vero

48 Così, C. cost., sent. 26 marzo 2015 n. 49, in Giur. cost., 2015, p. 407. 49 Da ultimo, con riguardo allo sviluppo della giurisprudenza costituzionale in rapporto al contenuto della Carta di Nizza,

M. Cartabia, Convergenze e divergenze nell’interpretazione delle clausole finali della Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea, in Rivista AIC, 2017, n. 3, 16 luglio 2017, p. 7 ss. V. anche infra, con riguardo all’ammissibilità di questioni di legittimità costitu-zionale dell’art. 649 c.p.p.

50 V. supra, nota 38. 51 Conclusioni dell’Avvocato generale della Corte di Giustizia, Campos Sánchez-Bordona, presentate il 12 settembre 2017

nelle cause riunite C-596/16 e 597/16, Enzo Di Puma c. Commissione Nazionale per le Società e la Borsa (Consob) e Commis-sione Nazionale per le Società e la Borsa (Consob) c. Antonio Zecca. Sull’argomento, F. Viganò, Le conclusioni dell’Avvocato gene-rale nei procedimenti pendenti in materia di ne bis in idem tra sanzioni penali e amministrative in materia di illeciti tributari e abusi di mercato, cit.

52 Conclusioni dell’Avvocato generale della Corte di Giustizia, Campos Sánchez-Bordona, presentate il 12 settembre 2017, nella causa C-537/16, Garlsson Real Estate SA, in liquidazione, Stefano Ricucci, Magiste International SA c. Commissione Na-zionale per le Società e la Borsa (Consob). Sull’argomento, F. Viganò, Le conclusioni dell’Avvocato generale nei procedimenti pendenti in materia di ne bis in idem tra sanzioni penali e amministrative in materia di illeciti tributari e abusi di mercato, cit.

53 Per una diversa impostazione v., invece, T. Rafaraci, Diritti fondamentali, giusto processo e primato del diritto UE, in questa Ri-vista, 2014, 1, spec. pp. 4-5, che rileva come, «[a]ttraverso criteri di collegamento più o meno elastici all’area di competenza UE, le norme minime (mano garantiste) potranno sempre più spesso imporsi, quante volte il diritto europeo risulti più efficacemen-te attuabile senza l’intralcio di standard interni più elevati».

54 Destinato ad avere rilievo nell’ambito del diritto dell’Unione europea in forza dell’art. 52 § 7 Cdfue. Sul tema, da ultimo,

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che, per l’applicazione del ne bis in idem, il diritto garantito nell’ambito dell’Unione europea possiede «lo stesso significato» e riveste «la stessa portata del corrispondente diritto sancito dalla Cedu», con un implicito riferimento alle interpretazioni della Corte di Strasburgo. Tutto ciò, però, non implica ancora l’ineluttabile adozione, nell’ordinamento interno, dei requisiti restrittivi, elaborati dalla Grande camera della Corte europea e non espressamente contemplati dall’art. 50 Cdfue. Si supererebbe, cioè, il limite, comunque invalicabile, della clausola di non regressione ex art. 52, comma 3, secondo periodo, Cdfue 55, tanto più solido in ragione della riserva di legge espressamente sancita dall’art. 52, comma 1, Cdfue.

In definitiva, è vero che il diritto dell’Unione europea, così come gli indirizzi della Corte di Giusti-zia, restano tendenzialmente connotati da un approccio di segno repressivo 56, in rapporto alla necessità di proteggere gli interessi finanziari eurounitari. Tuttavia, la Carta di Nizza non può subire, in chiave interpretativa, un’eterogenesi dei fini, per la formalistica ragione di essere inglobate nel diritto dei Trat-tati dell’Unione Europea. I diritti fondamentali ivi considerati conservano intatta la dimensione di ga-ranzia individuale del cittadino in rapporto al potere pubblico: in tale contesto, il ne bis in idem di cui all’art. 50 Cdfue «viene configurato come un vero e proprio diritto a tutela dell’imputato» 57.

Al riguardo, è davvero significativo che l’identica prospettiva sia stata accolta dall’Avvocato genera-le della Corte di Giustizia, in relazione a questioni pregiudiziali sollevate dalla Corte di cassazione 58: l’art. 50 Cdfue «può essere fatto valere direttamente da un singolo dinanzi a un organo giurisdizionale nazionale, che è tenuto a garantire la piena efficacia del diritto al ne bis in idem, disapplicando all’oc-correnza, di propria iniziativa, qualsiasi disposizione contrastante della legislazione nazionale» 59.

LA «SUFFICIENTE CONNESSIONE SOSTANZIALE E TEMPORALE»: DIRITTO DAVVERO CONSOLIDATO?

Quand’anche si ritenesse – in linea con la Corte costituzionale 60 – che le sentenze della Corte euro-pea possano dispiegare un generale vincolo ermeneutico per i giudici comuni 61, almeno ove siano e-spressione d’un «diritto consolidato», un simile predicato non vale a qualificare l’interpretazione data all’art. 4, prot. n. 7, Cedu dalla grande camera nel caso A e B c. Norvegia.

Anzitutto, s’è già visto come il requisito della «sufficiente connessione sostanziale e temporale» fra i procedimenti non sia stato costantemente applicato dai giudici di Strasburgo in tema di compatibilità del doppio binario sanzionatorio con l’art. 4, prot. n. 7, Cedu 62. Né, stando ancora alla Corte costituzio-nale, è decisivo il mero dato formale dell’intervento della grande camera, in un sistema caratterizzato dalla soggezione del giudice soltanto alla legge e dall’esigenza di assicurare la certezza del diritto. In altri termini, non è sufficiente che la pronuncia della Corte europea sia emessa dalla grande camera per

anche per ulteriori riferimenti, F. Ferraro-N. Lazzerini, Art. 52 – Portata e interpretazione dei diritti e dei principi, in R. Mastroianni-O. Pollicino-S. Allegrezza-F. Pappalardo-O. Razzolini (a cura di), Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, cit., p. 1082.

55 Cfr. P. Fimiani, Market abuse e doppio binario sanzionatorio dopo la sentenza della Corte E.D.U., Grande camera, 15 novembre 2016, A e B c. Norvegia, cit., p. 11.

56 In questi termini, O. Mazza, Cedu e diritto interno, in A. Gaito (a cura di), I princìpi europei del processo penale, cit., p. 4. 57 Così, Cass., sez. VI, 15 novembre 2016, Resnelli, in Dir. pen. cont., ed. on-line, 7 aprile 2017, p. 8, con nota di I. Gittardi, La

miccia è accesa: la Corte di cassazione fa diretta applicazione dei principi della Carta di Nizza in materia di ne bis in idem. 58 V. supra, nota 38. 59 Conclusioni dell’Avvocato generale della Corte di Giustizia, Campos Sánchez-Bordona, nella causa C-537/16, cit. (v. su-

pra, nota 52). 60 Per C. cost., sent. 26 marzo 2015 n. 49, cit., p. 408, il vincolo interpretativo per il giudice nazionale scatta solo in rapporto al

«‘diritto consolidato’, generato dalla giurisprudenza europea», non sussistendo, invece, alcun dovere di interpretazione con-forme a fronte di pronunce europee che non siano espressive di un orientamento che oramai è divenuto definitivo». In generale, sul dibattito relativo alla portata delle sentenze della Corte europea, v., per tutti, G. Ubertis, La “Rivoluzione d’ottobre” della Corte costituzionale e alcune discutibili reazioni, in Cass. pen., 2012, p. 19 ss., che reputa vincolanti le interpretazioni fornite dalla Corte europea, che divengono così pure esse parametro interposto nello scrutinio di costituzionalità alla luce dell’art. 117, comma 1, Cost.; P. Ferrua, L’interpretazione della Convenzione europea dei diritti dell’uomo e il preteso monopolio della Corte di Strasburgo, in que-sta Rivista, 2011, p. 121, che, invece, nega una tale natura vincolante.

61 Com’è noto, fuori dalle «sentenze pilota», che generano «[p]articolari obblighi di conformazione alle pronunce della Corte [europea]», con riguardo al riconoscimento da parte della Corte medesima della sussistenza di un «problema di carattere strut-turale nell’ordinamento dello Stato convenuto»: così, C. cost., sent. 18 luglio 2013, n. 210, in Giur. cost., 2013, p. 2933.

62 V. supra.

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potersi ritenere automaticamente espressiva di un diritto consolidato 63, tanto più perché la portata dell’art. 4, prot. n. 7, Cedu appariva consolidata nella giurisprudenza europea, almeno a far tempo dal-la sentenza resa dalla grande camera nel 2009 nel caso Zolotukhin c. Russia.

Inoltre, a dispetto dell’impegno in chiave definitoria, la pronuncia della grande camera nel caso A e B c. Norvegia non assicura l’esigenza di prevedibilità della condotta degli organi pubblici da parte del cittadino, benché la natura garantistica di simile esigenza di prevedibilità sia stata ripetutamente messa in luce dalla giurisprudenza europea. Un sistema basato sulla legalità formale non tollera che un elenco – non tassativo e a basso coefficiente di determinatezza – delle condizioni in presenza delle quali scatta l’operatività dell’art. 4, prot. n. 7, Cedu possa generare vincoli interpretativi.

E ancora: benché sia indiscutibile la natura “multilivello” della tutela dei diritti fondamentali, non si può ignorare che – per impiegare le parole della Consulta – il contenuto delle norme convenzionali va-da “armonizzato” con quello delle norme costituzionali, allo scopo di formulare un’interpretazione “virtuosa” che assicuri la «massima espansione delle garanzie» 64.

Tutto ciò esclude che la «sufficiente connessione sostanziale e temporale» possa integrare il contenu-to dell’art. 4, prot. n. 7, Cedu così da assurgere al rango di parametro interposto ex art. 117, comma 1, Cost. ai fini del giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 649 c.p.p. 65.

FUTURIBILI

A tal punto, v’è da chiedersi quali siano le vie percorribili per assicurare una sfera operativa del ne bis in idem nazionale coerente con il contesto eurounitario e con quello convenzionale. Il quesito è ine-ludibile: come ha recentemente affermato la Corte di cassazione, «[s]petta … al giudice nazionale, che deve confrontarsi con un sistema integrato delle fonti costituzionali, comunitarie e internazionali …, as-sicurare la costante tutela dei diritti fondamentali», fra i quali rientra quello del ne bis in idem 66.

Restano da affrontare due profili decisivi, relativi alla portata, da un lato, dell’art. 649 c.p.p., dall’altro, dell’art. 669 c.p.p. Quanto al primo, occorre adeguare la sfera operativa del divieto di bis in idem alle garanzie europee in materia quando, divenuto definitivo il provvedimento amministrativo (ma sostanzialmente penale), sia ancora pendente, per il medesimo fatto e nei confronti della medesima persona, il procedimento formalmente penale. Quanto al secondo, tocca verificare la sorte della deci-sione penale divenuta irrevocabile dopo la definizione del procedimento extrapenale, nell’ipotesi in cui il ne bis in idem non abbia operato: il conflitto pratico di giudicati ex art. 669 c.p.p. sussiste, infatti, solo fra una pluralità di provvedimenti tutti formalmente penali.

Dal punto di vista metodologico, a legislazione invariata, l’adeguamento ai canoni europei per en-trambe le previsioni codicistiche potrebbe, in linea d’ipotesi, attuarsi (e già si è tentato di attuarlo da parte della giurisprudenza) attraverso varie soluzioni, con la precisazione che la praticabilità e l’ido-neità allo scopo risultano diverse a seconda della previsione in gioco. Si tratta, più analiticamente: a) di ricorrere ad un’interpretazione conforme e convenzionalmente orientata degli art. 649 e 669 c.p.p.; b) di sollevare una questione di legittimità degli art. 649 e 669 c.p.p., per contrasto con l’art. 117, comma 1, Cost., invocando come norma interposta l’art. 4, prot. n. 7, Cedu; c) di fare diretta applicazione dell’art. 50 Cdfue oppure dell’art. 4, prot. n. 7, Cedu 67.

63 Cfr., ancora, C. cost., sent. 26 marzo 2015 n. 49, cit., pp. 408-409. 64 Cui deve sempre tendere «il confronto tra tutela convenzionale e tutela costituzionale dei diritti fondamentali» (C. cost.,

sent. 4 dicembre 2009 n. 317, in Giur. cost., 2009, p. 4761). 65 Più in generale, si vedrà immediatamente se il canone convenzionale in parola possa comunque essere fondatamente po-

sto alla base d’un giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 649 c.p.p., anche a non considerare il significato attribuitogli dal-la sentenza della grande camera nel caso A e B c. Norvegia.

66 Così, Cass., sez. VI, 15 novembre 2016, Resnelli, cit., p. 10. Sulla portata della pronuncia, con particolare riguardo alla diret-ta applicabilità dell’art. 50 Cdfue da parte del giudice nazionale, I. Gittardi, La miccia è accesa: la Corte di cassazione fa diretta appli-cazione dei principi della Carta di Nizza in materia di ne bis in idem, cit.

67 Sul tema v., fra gli altri, con approcci variegati, M. Bontempelli, Il doppio binario sanzionatorio in materia tributaria e le garan-zie europee (fra ne bis in idem processuale e ne bis in idem sostanziale), in Arch. pen., 2015, 2, p. 126 ss.; M. Caianiello, Ne bis in idem e illeciti tributari per omesso versamento dell’Iva: il rinvio della questione alla Corte costituzionale, cit., p. 6 ss.; B. Lavarini, Il ne bis in idem convenzionale e “doppio binario” sanzionatorio: il problema del “doppio giudicato”, in Leg. pen., ed. on-line, 14 marzo 2016, p. 2 ss.;

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(SEGUE): IL NE BIS IN IDEM EX ART. 649 C.P.P.

In ordine alla portata dell’art. 649 c.p.p., va, anzitutto, escluso che la soluzione possa consistere in un’interpretazione conforme e convenzionalmente orientata: si tratterebbe, in ultima analisi, di ritenere che il riferimento alle decisioni penali irrevocabili includa anche quelle emesse da un’autorità extrape-nale, purché operino in materie sostanzialmente penali, secondo i criteri Engel 68. L’operazione è «aper-tamente contraria alle regole dell’ermeneutica» 69: forza il dato letterale della previsione per assegnarle un significato del tutto estraneo, a tacere del rischio che sia violato l’art. 3 Cost. in ragione delle diverse interpretazioni del concetto di “materia penale” e del vincolo che si ritiene scaturisca dal requisito della sufficiente connessione essenziale fra procedimenti 70.

Miglior sorte non avrebbe la soluzione della questione di legittimità costituzionale dell’art. 649 c.p.p., sollevata per un contrasto con l’art. 4, prot. n. 7, Cedu (così come interpretato dalla Corte europea), in rapporto all’art. 117, comma 1, Cost., allo scopo di renderlo operante anche quando uno dei due procedi-menti abbia natura sostanzialmente penale 71. Una declaratoria d’illegittimità si scontrerebbe con diversi controlimiti costituzionali, destinati a valere almeno nell’ipotesi in cui il provvedimento amministrativo fosse diventato irrevocabile per primo e dispiegasse un effetto preclusivo sulla vicenda penale, ancora pendente 72. Verrebbero in gioco le garanzie dell’equo processo penale ex art. 111 Cost. 73, l’obbligatorietà dell’azione penale ex art. 112 Cost. 74, nonché la presunzione di innocenza ex art. 27, comma 2, Cost. 75.

Non si dimentichi, poi, che il tenore dell’art. 4, prot. n. 7, Cedu non implica indefettibilmente il di-vieto di un secondo giudizio: come tosto si vedrà, la norma convenzionale non è violata nel caso in cui il soggetto – già irrevocabilmente sanzionato nella sede amministrativa – sia poi prosciolto in quella formalmente penale. In ogni caso, resterebbe aperta la questione dell’attribuzione della natura sostan-zialmente penale del procedimento. Certo, varrebbero i criteri Engel, che, tuttavia, per quanto consoli-

Ead., Corte europea dei diritti umani e ne bis in idem: la crisi del “doppio binario” sanzionatorio, cit., pp. 87-88; O. Mazza, L’insoste-nibile convivenza fra ne bis in idem europeo e doppio binario sanzionatorio per i reati tributari, cit., p. 1040 ss.; F. Viganò, Doppio binario sanzionatorio e ne bis in idem: verso una diretta applicazione dell’art. 50 della Carta?, cit., p. 234 ss.

68 In questo senso v., invece, pur con diverse sfumature, M. Caianiello, Ne bis in idem e illeciti tributari per omesso versamento dell’Iva: il rinvio della questione alla Corte costituzionale, cit., p. 6 ss.; G.M. Flick-V. Napoleoni, Cumulo tra sanzioni penali e ammini-strative: doppio binario o binario morto? “Materia penale”, giusto processo e ne bis in idem nella sentenza della Corte EDU, 4 marzo 2014, sul market abuse, in Rivista AIC, 2014, 3, p. 10; A.F. Tripodi, Abusi di mercato (ma non solo) e ne bis in idem: scelte sanzionatorie da ripensare?, in questa Rivista, 2014, 5, spec. p. 108 ss.; F. Viganò, Doppio binario sanzionatorio e ne bis in idem: verso una diretta appli-cazione dell’art. 50 della Carta?, cit., p. 234 ss. In giurisprudenza, Cass., sez. III, 21 aprile 2016, Di Stasi, in Dir. pen. cont., ed. on-line, 11 luglio 2016, con nota di F. Viganò, Omesso versamento di Iva e diretta applicazione delle norme europee in materia di bis in idem?; Trib. Brindisi, 17 ottobre 2014, in Dir. pen. proc., 2015, p. 438 ss., con nota di M.L. Di Bitonto.

69 O. Mazza, L’insostenibile convivenza fra ne bis in idem europeo e doppio binario sanzionatorio per i reati tributari, cit., p. 1040. V. anche, con vari argomenti, B. Lavarini, Corte europea dei diritti umani e ne bis in idem: la crisi del “doppio binario” sanzionatorio, cit., p. 87; G. De Amicis, Ne bis in idem e “doppio binario” sanzionatorio: prime riflessioni sugli effetti della sentenza “Grande Stevens” nel-l’ordinamento italiano, cit., p. 201 ss.

70 D’altra parte, neppure l’elevato prezzo di legittimare un diritto giurisprudenziale ampiamente creativo assicurerebbe una soluzione alle ipotesi in cui a passare in giudicato per primo fosse il provvedimento formalmente penale: l’autorità amministra-tiva, fuori dai casi in cui il codice di procedura penale o leggi speciali regolano l’efficacia extrapenale del giudicato, non potreb-be fare applicazione dell’art. 649 c.p.p., nel suo significato conforme o convenzionalmente orientato.

71 In senso favorevole, v., invece, B. Lavarini, Corte europea dei diritti umani e ne bis in idem: la crisi del “doppio binario” sanzio-natorio, cit., p. 87; contra, M.L. Di Bitonto, Una singolare applicazione dell’art. 649 c.p.p., cit., p. 447.

72 In tali precisi termini e per l’argomentazione che segue, O. Mazza, L’insostenibile convivenza fra ne bis in idem europeo e dop-pio binario sanzionatorio per i reati tributari, cit., pp. 1040-1041.

73 Si assegnerebbe efficacia preclusiva nella sede penale ad un provvedimento emesso da una autorità formalmente extrape-nale in assenza di tali garanzie. Nel senso che l’«ordinamento nazionale può apprestare garanzie ulteriori rispetto a quelle con-venzionali, riservandole alle sole sanzioni penali, così come qualificate dall’ordinamento interno», cfr., da ultimo, sulla scia di un indirizzo consolidato, C. cost., 24 febbraio 2017, n. 43 (§ 4.1 del Considerato in diritto), poiché «ciò che per la giurisprudenza europea ha natura “penale” deve essere assistito dalle garanzie che la stessa ha elaborato per la “materia penale”; mentre solo ciò che è penale per l’ordinamento nazionale beneficia degli ulteriori presìdi rinvenibili nella legislazione interna» (§ 3.4 del Considerato in diritto).

74 S’imporrebbe una declaratoria d’improcedibilità dell’azione penale sul presupposto che il procedimento amministrativo si sia concluso per primo, con conseguente violazione dell’art. 3 Cost.

75 La declaratoria d’improcedibilità ex art. 649 c.p.p. priverebbe l’imputato del diritto al giudizio d’innocenza nella sede pe-nale.

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dati nella giurisprudenza di Strasburgo, non sono idonei a circoscrivere la portata del divieto di secon-do giudizio ex art. 649 c.p.p. entro un numero chiuso di procedimenti. Anzi, la portata evolutiva delle fattispecie convenzionali non esclude che, in futuro, la Corte europea possa riconoscere la natura so-stanzialmente penale anche a procedimenti che oggi restano fuori dall’ambito dell’art. 4, prot. n. 7, Ce-du.

Sotto questo profilo, l’abbandono, da parte dell’ordinamento interno, di una concezione della garan-zia del ne bis in idem ancorata ad un giudicato formalmente penale svela scenari inediti e conduce ad esiti tutt’altro che prevedibili. Si pensi, ad esempio, al rapporto fra il procedimento penale e quello di-sciplinare 76, la cui natura sostanzialmente penale (almeno quando il provvedimento disciplinare abbia contenuto afflittivo e sanzionatorio) è stata, prima, affermata dalla giurisprudenza di merito 77 e, poi, negata da quella di legittimità 78.

Per le medesime ragioni, non sarebbe risolutivo individuare la soluzione nella diretta applicazione dell’art. 4, prot. n. 7, Cedu in luogo dell’art. 649 c.p.p., secondo un innovativo percorso proposto dalla dottrina 79. La portata normativa della previsione in parola non individua, infatti, un ambito univoco di applicabilità della garanzia del divieto di secondo giudizio.

«[C]ongenitamente insufficiente» 80 in una prospettiva di complessivo adeguamento del sistema sa-rebbe, infine, la soluzione basata sulla diretta applicazione dell’art. 50 Cdfue 81: anche a ritenere supera-bile l’obiezione secondo cui, alla luce della sentenza della Corte di Giustizia nel caso Fransson 82, il dirit-to dell’Unione Europea non esclude a priori la legittimità del doppio binario sanzionatorio 83, la Carta di Nizza opera solo nell’ambito di applicazione del diritto dell’Unione europea. A titolo esemplificativo, resterebbe fuori dalla sfera dell’art. 50 Cdfue il doppio binario sanzionatorio in materia di omesso ver-samento di ritenute fiscali certificate (sanzionate penalmente dall’art. 10-bis d.lgs. n. 74 del 2000 e sul piano amministrativo dall’art. 13 d.lgs. n. 471 del 1997), come pure messo in luce della stessa Corte di Giustizia 84.

(SEGUE): IL CONFLITTO PRATICO DI GIUDICATI EX ART. 669 C.P.P.

Venendo al conflitto pratico di giudicati ex art. 669 c.p.p., è sicuro che l’adattamento del sistema na-zionale a quello convenzionale imponga d’individuare un rimedio straordinario per caducare uno dei due giudicati, almeno nell’ipotesi in cui ad una condanna o ad un proscioglimento divenuti definitivi abbia fatto seguito una nuova condanna anch’essa poi passata in giudicato contro la stessa persona per il medesimo fatto. Qui, la violazione dell’art. 4, prot. n. 7, Cedu è fuori discussione, includendo la ga-

76 Sul tema, cfr., da ultimo, P. Corso, Prospettive evolutive del ne bis in idem, cit., p. 20; nonché, già, M.L. Di Bitonto, Una singo-lare applicazione dell’art. 649 c.p.p., cit., p. 441 ss.

77 Cfr. Trib. Brindisi, sent. 17 ottobre 2014, cit., p. 438 ss. 78 Cfr. Cass., sez. II, 15 dicembre 2016, Pagano, cit. 79 Cfr. F. Viganò, Art. 4 Prot. n. 7. Divieto di secondo giudizio, cit., p. 389, sul presupposto che la previsione in parola introduca una

«norma incorporata nell’ordinamento italiano in forza della legge 9 aprile 1990 n. 98 di esecuzione e autorizzazione alla ratifica [del Protocollo n. 7 Cedu], e dalla quale dovrebbe discendere l’obbligo per il giudice penale italiano di pronunciare sentenza di proscio-glimento o di non luogo a procedere in presenza delle condizioni stabilite dalla giurisprudenza pertinente di Strasburgo, e dunque anche oltre le ipotesi contemplate dalla disposizione di diritto interno – l’art. 649 c.p.p. – in materia di ne bis in idem».

80 L’espressione si deve a O. Mazza, L’insostenibile convivenza fra ne bis in idem europeo e doppio binario sanzionatorio per i reati tributari, cit., p. 1041.

81 Cfr., da ultimo, F. Viganò, Art. 4 Prot. n. 7. Divieto di secondo giudizio, cit., p. 387-388, che, per altro, evidenzia come il rinvio pregiudiziale della questione dinanzi alla Corte di Giustizia appaia «scelta opportuna», anche luce della sentenza Fransson (ivi, p. 388).

82 Cfr. supra, nota 7. 83 Sul punto, cfr. M. Caianiello, Ne bis in idem e illeciti tributari per omesso versamento dell’Iva: il rinvio della questione alla Corte

costituzionale, cit., p. 7. 84 Cfr. C. giust. UE, sez. IX, 15 aprile 2015, Causa C-497/14, Burzio, spec. § 31, in Dir. pen. cont., ed. on-line, 8 maggio 2015,

con nota di M. Scoletta, Omesso versamento delle ritenute d’imposta e violazione del ne bis in idem: la Corte di Giustizia dichiara la pro-pria incompetenza, che si è dichiarata incompetente sulla questione pregiudiziale sollevata da trib. Torino, sez. IV, 27 ottobre 2014, in Dir. pen. cont., ed. on-line, 17 novembre 2014, con nota di M. Scoletta, Ne bis in idem e illeciti tributari per omesso versamen-to: un problematico rinvio pregiudiziale.

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ranzia convenzionale un doppio divieto: quello di procedere due volte per lo stesso fatto e quello, au-tonomo, di condannare due volte per lo stesso fatto.

Tuttavia, proprio il tenore dell’art. 4, prot. n. 7, Cedu e dell’art. 50 Cdfue delinea una nuova insidia per l’interprete: la garanzia del ne bis in idem non esclude affatto che – definito il procedimento ammini-strativo avente natura sostanzialmente penale – il procedimento formalmente penale si possa conclude-re con una sentenza di proscioglimento. Le norme europee – escludendo che la medesima persona pos-sa essere nuovamente «perseguita» o «condannata» 85 – non vietano affatto la doppia decisione, invece sempre vietata dall’art. 649 comma 1 c.p.p. 86, quando il secondo epilogo abbia esito favorevole per l’imputato. In breve, l’art. 4, prot. n. 7, Cedu e l’art. 50 Cdfue rivestono un significato maggiormente ga-rantista rispetto alla stessa disciplina ex art. 649 c.p.p. 87. Rilievo paradossale alla luce della torsione in-terpretativa cui la prima disposizione è stata sottoposta dalla grande camera della Corte europea.

Ecco, dunque, il punto. Quando alla condanna o al proscioglimento divenuti definitivi per primi fac-cia seguito un nuovo proscioglimento, la Corte europea ravvisa, comunque, la lesione all’art. 4, prot. n. 7, Cedu, essendo stato violato il divieto di un secondo giudizio 88, ma non impone né la rimozione dell’originaria condanna o, tantomeno, dell’originario proscioglimento, emessi prima che fossero inte-grati i presupposti di operatività della norma convenzionale, né la rimozione del secondo prosciogli-mento, emesso in violazione del divieto del secondo giudizio. Qui, la Corte europea reputa sufficiente l’adozione di rimedi compensativi di natura patrimoniale 89.

L’art. 669 c.p.p. è – com’è noto – improntato alla logica del favor rei: il contrasto pratico di giudicati viene risolto, di regola, con la prevalenza della sentenza maggiormente favorevole, potendosi, così, ca-ducare anche una decisione (di condanna, ma anche di proscioglimento) non pronunciata in violazione dell’art. 4, prot. n. 7, Cedu. Quest’ultima, infatti, sembra comunque imporre la caducazione della sen-tenza pronunciata o divenuta irrevocabile nel secondo procedimento dopo il perfezionamento del giu-dicato nel primo procedimento.

Ma v’è di più: proprio quest’ultima considerazione fa emergere un ulteriore profilo di contrasto del nostro sistema con quello convenzionale. Ai fini dell’adeguamento strutturale dell’ordinamento interno ai canoni europei, resterebbero da sciogliere i dubbi destinati a sorgere nelle situazioni speculari a quel-le sin qui considerate: la garanzia europea opera anche quando ad essere definito irrevocabilmente per primo sia il provvedimento formalmente penale. L’eventualità è, forse, statisticamente meno frequente, ma niente affatto irrilevante nella prospettiva convenzionale: basti pensare che la Corte europea ha evi-denziato come l’annullamento del provvedimento amministrativo, successivamente alla condanna nella sede penale, non risulti, in linea di principio, coerente con la tutela convenzionale del ne bis in idem 90.

Alla luce di un tale, frastagliato contesto, due conclusioni appaiono sicure. Per un verso, resta esclu-so che i giudici comuni siano legittimati a praticare la via dell’adeguamento automatico dell’art. 669 c.p.p. al dettato convenzionale, attraverso la ricerca di una interpretazione convenzionalmente confor-me 91: la giurisprudenza introdurrebbe una disciplina extra-legale, in aperto contrasto con i principi di

85 Cfr. O. Mazza, L’insostenibile convivenza fra ne bis in idem europeo e doppio binario sanzionatorio per i reati tributari, cit., p. 1035, la cui ricostruzione è ripresa da M. Bontempelli, La litispendenza penale, cit., p. 64-65, che pone in luce come anche nella giu-risprudenza della Corte europea l’art. 4, prot. n. 7, Cedu rilevi nella duplice veste di garanzia volta a escludere sia il rischio della riprosecution sia quello della seconda condanna, aggiungendo inoltre che, «se così non fosse, non si spiegherebbe l’aggiunta della parola “punito” alla parola “processato”, nel testo dell’art. 4 prot. n. 7 Cedu» (ivi, p. 65, nota 192). V., pure, D. Falcinelli, Il fatto di reato sullo sfondo del ne bis in idem nazional-europeo, cit., spec. p. 69.

86 Ampiamente, sul tema, M. Bontempelli, La litispendenza penale, cit., passim. V. anche E.M. Mancuso, Art. 4 prot. 7. Divieto di secondo giudizio, cit., p. 374 ss.

87 Così, O. Mazza, L’insostenibile convivenza fra ne bis in idem europeo e doppio binario sanzionatorio per i reati tributari, cit., p. 1035. Se è vero, infatti, che l’art. 649 c.p.p. anticipa l’operatività della garanzia, precludendo il secondo processo, è altrettanto vero che, così facendo, esclude a priori l’epilogo ampiamente favorevole all’imputato all’esito del secondo processo.

88 Sul tema, M. Bontempelli, La litispendenza penale, cit., p. 109 ss. e passim. 89 Cfr., per tutte, Corte e.d.u., grande camera, 10 febbraio 2009, Zolotukhin c. Russia. In dottrina, B. Lavarini, Il ne bis in idem

convenzionale e “doppio binario” sanzionatorio: il problema del “doppio giudicato”, cit., p. 3. 90 Così, Corte e.d.u., sez. IV, 13 giugno 2017, Šimkus c. Lituania, § 52. 91 Secondo un approccio – proposto, in dottrina, da A.F. Tripodi, Abusi di mercato (ma non solo) e ne bis in idem: scelte sanzio-

natorie da ripensare?, cit., p. 109 – che, come si è visto, è stato praticato per l’art. 649 c.p.p., ma che resta comunque non compati-bile con il sistema nazionale.

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legalità e di riserva di legge in ambito processuale ex artt. 111, comma 1, e 117, comma 1, lett. l, Cost. Per altro verso, l’eventuale questione di legittimità costituzionale dell’art. 669 c.p.p., per contrasto con gli art. 4, prot. n. 7, Cedu e 117, comma 1, Cost., non imporrebbe una soluzione «a rime obbligate» per la Consulta e, quindi, sarebbe destinata ad essere dichiarata inammissibile 92.

USCIRE DAL LABIRINTO

A tal punto, non resta che riedificare il sistema attorno a due linee ricostruttive: per impiegare, sul fi-lo del paradosso, il lessico della grande camera nella sentenza A e B c. Norvegia, s’impone davvero un «intervento integrato» che ponga ordine al doppio binario sanzionatorio e prevenga o risolva la dupli-cazione dei procedimenti e delle sanzioni, secondo la prospettiva coltivata, assai recentemente e signifi-cativamente, anche dall’Avvocato generale della Corte di Giustizia 93.

Da un lato, la giurisprudenza interna è chiamata alla rigorosa valorizzazione delle clausole di spe-cialità, allo scopo di evitare la potenziale violazione del ne bis in idem negli ambiti in cui la doppia san-zione non è a priori consentita dall’ordinamento 94: la soluzione implicherebbe di ritenere assorbito l’in-tero disvalore del fatto dalla sanzione formalmente penale, con conseguente improcedibilità dell’azione amministrativa o sua rinuncia in favore di quella penale 95. Non si dimentichi che, dal punto di vista si-stematico, il ne bis in idem sostanziale costituisce una condizione di operatività del ne bis in idem proces-suale, benché non sia vero il contrario, giacché la sfera dell’art. 649 c.p.p. trascende le ipotesi di concor-so apparente di norme 96.

Dall’altro, l’adeguamento al canone europeo del ne bis in idem rappresenta un «giardino proibito» per la giurisprudenza perché riservato al legislatore 97, come pure evidenziato dalla sent. cost. n. 102 del 2016 98: occorre un complessivo intervento riformatore volto a introdurre misure strutturalmente idonee a prevenire la violazione di diritti fondamentali (artt. 1 e 46 Cedu).

Prima ancora di coinvolgere la disciplina processuale, delineando un procedimento unitario even-tualmente volto all’irrogazione di entrambe le sanzioni 99, appare ineludibile riordinare i meccanismi

92 In tali precisi termini, B. Lavarini, Il ne bis in idem convenzionale e “doppio binario” sanzionatorio: il problema del “doppio giudi-cato”, cit., p. 3.

93 V. supra, nota 50. 94 Va superata l’opzione interpretativa adottata dalle Sezioni unite, a proposito dell’art. 10-bis d.lgs. n. 74 del 2000, secondo

cui l’illecito amministrativo e l’illecito penale si collocano in un rapporto di progressione, che sarebbe idoneo ad escludere l’operatività del principio di specialità: cfr. Cass., sez. un., 28 marzo 2013, Romano, in Dir. pen. cont., ed. on-line, 18 settembre 2013, con nota di A. Valsecchi. Sulla crisi del principio di specialità e sul conseguente aggiramento della garanzia del ne bis in idem v., anche per ulteriori riferimenti, A. Carinci, Il principio di ne bis in idem, tra opportunità e crisi del sistema sanzionatorio tribu-tario, in Arch. pen., 2017, 1, p. 28 ss.

95 In tali precisi termini, O. Mazza, L’insostenibile convivenza fra ne bis in idem europeo e doppio binario sanzionatorio per i reati tributari, cit., p. 1042, secondo cui quella in parola rappresenta l’unica soluzione «immediatamente e concretamente praticabile a legislazione invariata», nonché quella che «garantisce l’effettivo rispetto delle regole del giusto processo … nell’accertamento dell’illecito e nella eventuale risposta punitiva statuale improntata al principio di obbligatorietà» (ibidem).

96 Sull’impossibilità di sovrapporre la portata del ne bis in idem sostanziale e di quello processuale, cfr. F. Caprioli, Il principio del ne bis in idem, in F. Caprioli-D. Vicoli, Procedura penale dell’esecuzione, Torino, 2011, p. 87 ss.; v. già G. Conso, I fatti giuridici processuali penali. Perfezione ed efficacia, Milano, Giuffrè, 1955, p. 103-104. Con più diretto riferimento ai temi qui affrontati v., da ultimo, con varietà di approcci, M. Bontempelli, Ne bis in idem e legalità penale nel processo per gli abusi di mercato, in Arch. pen., 2016, 2, p. 395; D. Falcinelli, Il fatto di reato sullo sfondo del ne bis in idem nazional-europeo, cit., p. 63 ss.; G. Ranaldi-F. Gaito, Intro-duzione allo studio dei rapporti tra ne bis in idem sostanziale e processuale, in Arch. pen., 2017, 1, p. 103 ss. Un’impostazione restritti-va, in materia di rapporti fra ne bis in idem sostanziale e processuale è, peraltro, accolta di recente, in rapporto al concorso forma-le fra il delitto di malversazione in danno dello stato (art. 316-bis c.p.) e quello di truffa aggravata per il conseguimento di eroga-zioni pubbliche (art. 640-bis c.p.), da Cass., sez. un., 23 febbraio 2017, Yang, in Dir. pen. cont., ed. on-line, 8 maggio 2017, con nota di S. Finocchiaro, spec. p. 6 ss.

97 Per impiegare qui – a contrario – un’espressione di P. Ferrua, Un giardino proibito per il legislatore: la valutazione della prova, in Quest. giust., 1998, 3, p. 83 ss.

98 Cfr. C. cost., sent. 12 maggio 2016 n. 102, in Giur cost., 2016, p. 896 ss., che – com’è noto – ha dichiarato inammissibili le questioni di legittimità degli art. 649 c.p.p. e 187-ter comma 1 d.lgs. n. 58 del 1998, per un preteso contrasto con l’art. 117 comma 1 Cost, in relazione all’art. 4 prot. n. 7 Cedu.

99 Come messo in luce anche da Corte e.d.u., grande camera, sent. 15 novembre 2016, A e B c. Norvegia, § 130.

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ANALISI E PROSPETTIVE | DISORIENTAMENTI GIURISPRUDENZIALI IN TEMA DI NE BIS IN IDEM E “DOPPIO BINARIO” ...

sanzionatori, improntandone i rapporti al principio di specialità e irrobustendo la natura sussidiaria dell’intervento penale in senso stretto 100. Solo su tale premessa, appare ragionevole estendere la portata del ne bis in idem ex art. 649 c.p.p. in quegli ambiti in cui il legislatore ha espressamente considerato in-dispensabile mantenere in vita il doppio binario sanzionatorio.

Va ribadito che, in un sistema connotato dalla legalità formale, la sfera operativa del ne bis in idem processuale (a tutto tondo, “convenzionalmente” ed “eurounitariamente” orientata) può essere dise-gnata dal solo legislatore: in assenza di un suo intervento chiarificatore, «[n]essuno … oggi è in grado di dire, in base agli insegnamenti europei, quale sia la corretta interpretazione dell’art. 649 c.p.p.» 101. Ri-prendendo la metafora inziale, è, però, certo che il giudice comune – fortemente impegnato nella ricerca del significato della disposizione in parola – non può abbattere i muri del labirinto delle fonti per spia-nare la via a soluzioni fuori dal sistema, neppure al fine di garantire l’armonizzazione dell’ordinamento nazionale con quelli di matrice europea.

100 Cfr., con vari accenti e da vari angoli visuali, P. Corso, Prospettive evolutive del ne bis in idem, cit., p. 25 ss.; M.L. Di Bitonto, Una singolare applicazione dell’art. 649 c.p.p., cit., p. 448; N. Galantini, Il principio del ne bis in idem tra doppio processo e doppia san-zione, in Giur. it., 2015, p. 222; B. Lavarini, Corte europea dei diritti umani e ne bis in idem: la crisi del “doppio binario” sanzionatorio, cit., p. 86; O. Mazza, L’insostenibile convivenza fra ne bis in idem europeo e doppio binario sanzionatorio per i reati tributari, cit., p. 1042; A. Procaccino, Il ne bis in idem dalla “certezza del diritto” alla certezza del “diritto soggettivo”, in A. Gaito-D. Chinnici (a cura di), Regole europee e processo penale, Padova, 2016, p. 269; F. Viganò, Art. 4 Prot. n. 7. Divieto di secondo guidizio, cit., p. 390.

101 Così, icasticamente, P. Ferrua, La prova nel processo penale, I, Struttura e procedimento, Torino, 2017, p. 291, nota 48.

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ANALISI E PROSPETTIVE | PROCESSO PENALE E MEZZI DI COMUNICAZIONE DI MASSA: UN INSTABILE STATO DELL’ARTE

GIOVANNI PAOLO VOENA

Professore ordinario di diritto processuale penale – Università degli Studi di Torino

Processo penale e mezzi di comunicazione di massa: un instabile stato dell’arte Criminal trial and the mass media: an unsettled state of the art I moderni mezzi di comunicazione di massa concentrano l’attenzione non più sul tardivo dibattimento ma sulle in-dagini preliminari. La disciplina del codice sul divieto di pubblicazione, labirintica e lacunosa, non impedisce la dif-fusione delle intercettazioni una volta caduto il segreto investigativo. Il conseguente pregiudizio del diritto alla ri-servatezza dei terzi estranei coinvolti, ma pure dell’imputato per fatti estranei all’addebito, è ora contrastato da una complessa legge delega la cui attuazione rischia, però, di sacrificare l’effettività del diritto di difesa. Mentre le ag-gressioni mediatiche alla presunzione di innocenza paiono destinate a finire per opera di una direttiva europea, manca ancora una tutela efficace per l’imparzialità del giudice.

Modern media no longer focus their attention on late coming trial but rather on preliminary investigations. The discipline of the code prohibiting the public disclosure of investigative materials is labyrinthine and incomplete and it does not prevent the circulation of wiretapping once the investigative secret has fallen. The subsequent preju-dice to the privacy of third parties involved in the trial and, at the same time, to the privacy of the accused, raising from facts irrelevant for the penal law, is now countered by a Parliament bill. However, the necessary implemen-tation by the Government, as delegated legislator, risks to sacrifice the effectiveness of the defensive rights. While media aggressions to the presumption of innocence seems to be destined to end, thanks to an European directive, there is no effective protection for the impartiality of the judge yet.

UNA TEMATICA SEMPRE SOTTO ATTENZIONE

Nell’ultimo anno i rapporti tra processo penale e mezzi di comunicazione di massa sono saliti pre-potentemente alla ribalta: alle circolari emesse da alcune procure della Repubblica ed alla delibera adot-tata dal Consiglio Superiore della Magistratura 1 sui limiti da apporre alla diffusione di intercettazioni potenzialmente lesive della riservatezza o all’indagine, fondata su dati statistici, svolta dall’Unione del-le Camere penali italiane in tema di informazione giudiziaria 2 o, ancora, ai recenti scritti che affrontano l’argomento in una chiave sociologica 3 si aggiungono, da ultimo, le riflessioni che nascono dall’appro-vazione della legge 23 giugno 2017, n. 103. Ne escono riproposti annosi dibattiti e indicati percorsi ine-splorati, ma un dato emerge indiscutibile: l’interesse attorno al tema non si è mai smorzato da molti an-

1 Le circolari delle Procure della Repubblica di Roma, Napoli e Torino sono reperibili in allegato a Cascini, Intercettazioni e privacy, in Questione giustizia on line, 19 aprile 2016; la delibera del 29 luglio 2016 del Consiglio Superiore della Magistratura, inti-tolata “Ricognizione di buone prassi in materia di intercettazioni di conversazioni”, sul relativo sito istituzionale.

2 L’informazione giudiziaria in Italia, a cura dell’Osservatorio sull’informazione giudiziaria dell’Unione delle Camere penali italiane, Ospedaletto (Pisa), Pacini editore, 2016.

3 Cfr. E. Amodio, Estetica della giustizia penale. Prassi, media, fiction, Milano, Giuffrè 2016; C. Conti (a cura di), Processo mediati-co e processo penale. Per un’analisi critica dei casi più discussi da Cogne a Garlasco, Milano, Giuffrè, 2016; A. Forza-G. Menegon-R. Rumiati, Il giudice emotivo. La decisione tra ragione ed emozione, Bologna, il Mulino, 2017. Il tema è poi affrontato, quale passaggio espositivo obbligato, nelle considerazioni generali sulla giustizia penale: ad esempio, G. Colombo-P. Davigo, La tua giustizia non è la mia. Dialogo fra due magistrati in perenne disaccordo, Milano, Longanesi, 2016, pp. 162-165; G. Spangher, Considerazioni sul pro-cesso “criminale” italiano, Torino, Giappichelli, 2015, pp. 70-73.

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ni. Il vero è che il modo con cui l’amministrazione della giustizia viene percepita dalla società rappre-senta un aspetto non secondario di ogni sistema processuale penale, ma lo è tanto più in un ordinamen-to dove la giustizia è amministrata in nome del popolo. Sebbene la valenza della proclamazione dell’art. 101 comma 1 Cost. sia più invocata che approfondita, tocca pur trarne le debite conseguenze. Anche chi sostiene, come lo scrivente, che dall’art. 21 Cost. non si ricavi un generico diritto ad essere informati, stante il pericolo insito nella funzionalizzazione di un diritto di libertà, riconosce che il legi-slatore sia tenuto, in virtù del dettato costituzionale, ad approntare le adeguate condizioni perché il po-polo sia messo in grado di conoscere lo svolgimento e la conclusione dei procedimenti penali. Qualcu-no potrebbe osservare che l’enfasi e il grado di diffusione delle notizie in materia giudiziaria non trova rispondenza in altri paesi democratici come quelli anglosassoni, dove la grande stampa di opinione de-dica, di solito, scarsa attenzione ai procedimenti penali. Il giudizio sarebbe affrettato: in una vicenda giudiziaria perugina, notissima a causa, per l’appunto, della sua abnorme copertura mediatica, espo-nenti politici nordamericani di prima grandezza non hanno esitato a prendere pubblica posizione inno-centista a favore della giovane connazionale accusata di omicidio 4.

Menzionare quella vicenda giudiziaria mette subito in luce l’aspetto sul quale si va sempre più appun-tando l’attenzione degli osservatori per effetto del rapporto circolare che si instaura tra giustizia penale ed informazione. La comunicazione in materia giudiziaria tende oggi, in maniera più o meno consapevole, non tanto ad informare l’opinione pubblica su ciò che accade nei procedimenti penali, quanto a formarla, il che significa prendere posizione sul merito del processo. Da una prospettiva incentrata sul controllo del popolo sulla amministrazione della giustizia si è scivolati ad un’altra: il popolo, tramite i mezzi di comu-nicazione di massa, ambisce esso stesso a giudicare 5 e, così facendo, rischia di condizionare il comporta-mento dei soggetti del processo. Ma gli effetti distorsivi si producono altresì su coloro che sono coinvolti, a diverso titolo, nello svolgimento del rito in quanto pure essi fruitori dei mezzi di comunicazione di mas-sa. Da qui il pericolo che possa esserne condizionato, indirettamente, il libero convincimento del giudice: in breve, che possa uscirne compromessa l’imparzialità dell’organo giudicante.

La conclusione, per il momento proposta quale ipotesi di lavoro, muove dalla constatazione che il tipo di attenzione che i mezzi di comunicazione di massa riserbano oggi all’informazione giudiziaria è ben lontano da quello che caratterizzava gli anni in cui è stato messo in cantiere il nuovo codice di pro-cedura penale. Il fenomeno dipende, in una certa misura, dall’evoluzione tecnologica registratesi nel-l’ultimo trentennio, ma ancora oggi una buona fetta dell’informazione giudiziaria continua a passare attraverso i giornali quotidiani, anche se la relativa fruizione viene veicolata da dispositivi elettronici di varia natura (si pensi ai tablet). Ma è nell’ambito della comunicazione televisiva che più si avverte lo scostamento da un passato ancora prossimo. Nell’ultimo ventennio si è sviluppata sulle reti quello che potrebbe chiamarsi, con una buona dose di ottimismo, una riflessione collettiva sui casi giudiziari e che, in chiave di accentuato pessimismo, va sotto il nome di circo mediatico-giudiziario 6 essendo divenuta inarrestabile la diffusione di talk show dedicati ai casi giudiziari. Non basta. Da ultimo, si sono occupati del tema i social networks che, specie nella formula mirata dei personal media, paiono destinati a prendere il sopravvento su tutti gli altri media in ambito giudiziario.

Sarebbe, però, una prospettiva superficiale muovere dal fattore tecnologico, quasi ci si volesse schiacciare in maniera meccanica dietro la nota formula per cui il medium è il messaggio 7. Come è facile verificare a proposito della diffusione realizzata con il mezzo televisivo, quel che davvero importa ai nostri fini è la natura del messaggio trasmesso dal mezzo, la sua capacità di stuzzicare l’emozione più che di stimolare la ragione del fruitore del mezzo, mentre non appare decisivo, invece, il medium consi-derato di per sé, come attesta l’esperienza italiana di questi ultimi anni. Miglior approccio appare, a tal punto, mettere al centro i valori di volta in volta coinvolti dai mezzi di comunicazione di massa.

4 E. Albertario-G. Castellini, La ricostruzione di cronaca giudiziaria nei media, in M. Montagna (a cura di), L’assassinio di Mere-dith Kercher. Anatomia del processo di Perugia, Roma, Aracne, 2012, p. 52: si tratta, guarda caso, di Hillary Clinton e Donald Trump.

5 «L’opinione pubblica non vuole solo essere informata: vuole giudicare», così icasticamente F.M. Iacoviello, Conclusioni. Il processo senza verità, in Processo mediatico, cit., p. 220.

6 L’espressione è mutuata dal noto pamphlet di D. Soulez Larivière, Il circo mediatico-giudiziario (1993), trad. it., Macerata, Li-berilibri, 1994.

7 M. McLuhan, Gli strumenti del comunicare (1964), trad. it., Milano, il Saggiatore, 1968, p. 21.

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LO SCARSO SUCCESSO DELLA PUBBLICITÀ MEDIATA DIBATTIMENTALE

I compilatori del codice del 1988 avevano di fronte a sé un quadro mediatico meno articolato ma, nondimeno, raffrontabile con quello odierno. La conoscenza dei processi penali non era da tempo pro-curata dalla ottocentesca pubblicità immediata, vale a dire dalla facoltà del quisque de populo di assistere allo svolgimento dei dibattimenti penali. Mutati i caratteri della vita sociale, l’informazione giudiziaria era già passata da una dimensione attiva, in cui il soggetto andava verso la fonte dell’informazione, re-candosi nelle pubbliche aule giudiziarie, ad una passiva, in cui la conoscenza viene ricevuta dal desti-natario che compra il quotidiano, accende la televisione ed ora si collega con internet. Il sistema proces-suale ha contribuito poi a dare ulteriori spinte verso la pressoché completa obsolescenza della pubblici-tà immediata, che trascendono la predilezione codicistica accordata ai riti speciali che amputano il di-battimento. Si pensi all’approntamento di grandi aule giudiziarie per la celebrazione dei processi di criminalità organizzata: poste per necessità logistiche in lontane periferie urbane, la loro collocazione disincentiva il pubblico dall’affluirvi. Ancora, i dibattimenti per i più gravi reati ex art. 51 comma 3 bis c.p.p. si svolgono, per ragioni di sicurezza, in aule protette che possono essere situate addirittura in di-stretti di corte d’appello diversi da quello dove ha sede il giudice naturale precostituito per legge (art. 145-bis disp. att.). Il vero è che l’effettivo significato della pubblicità immediata dei dibattimenti si risol-ve oggi nel predisporre le condizioni materiali perché possa esercitarsi con efficacia la pubblicità me-diata, specie quella realizzata con i mezzi audiovisivi.

A sua volta, l’oggetto tipico della pubblicità mediata – lo svolgimento dell’udienza dibattimentale – ha perso quel ruolo centrale che i compilatori del codice gli avevano implicitamente assegnato all’in-terno dell’informazione giudiziaria. L’osservazione vale per la cronaca delle udienze dibattimentali rea-lizzata dalla stampa quotidiana: è ormai raro rinvenire nei quotidiani, come soleva un tempo, le battute degli esami testimoniali riportate nella ricerca di un’accurata fedeltà narrativa. Ma lo stesso può dirsi per la trasmissione televisiva dei dibattimenti ex art. 147 disp. att. La norma ha costruito una disciplina duttile che soppesa gli interessi in gioco ma che, in ultima analisi, subordina l’impiego del mezzo au-diovisivo nelle aule giudiziarie, «ai fini dell’esercizio del diritto di cronaca», al rispetto della clausola «purché non ne derivi pregiudizio al sereno e regolare svolgimento dell’udienza o alla decisione». Gli inconvenienti derivanti dai disturbi causati dalla presenza fisica delle apparecchiature tecniche e, so-prattutto, dalla successiva trasmissione sono stati ingigantiti dai primi commentatori decisamente av-versi all’ingresso della televisione nelle aule giudiziarie 8. Le ragioni di ostilità assumono toni parados-sali se raffrontate con i pesanti effetti distorsivi generati dall’attuale assetto dei rapporti tra mass media e processo penale. L’esperienza di questi anni sembra dimostrare che la serenità dei dibattimenti e l’im-parzialità dei giudici non siano state affatto turbate da cronache giudiziarie teletrasmesse non solo in differita, ma, quasi sempre, quando il relativo grado del procedimento si è ormai concluso. Altre sono le critiche. L’unico dibattimento trasmesso, a quel che consta, per intero ed in diretta (il processo Cusani per le tangenti Enimont) è stato tacciato dagli studiosi delle comunicazioni di massa di aver generato una sorta di «rituale di degradazione» 9. A sua volta, il pur meritorio programma, da molti anni tra-smesso dalla RAI in tarda serata, continua a vedersi affibbiato un titolo – “Un giorno in pretura” – che non corrisponde certo al suo contenuto. Il nome è stato mantenuto perché ammicca scopertamente ad una corriva satira giudiziaria 10, ma così facendo si finisce per immiserire il significato di una trasmis-sione televisiva che mette in onda cronache dibattimentali reali.

Peraltro, la modesta appetibilità mediatica della fase del giudizio è risaputa: allo spettatore estraneo al foro i dibattimenti appaiono affetti da estenuanti logomachie; poco intellegibili perché, restando ignote all’utente televisivo le carte processuali, non si comprende il senso dell’andamento tortuoso de-gli esami e dei controesami testimoniali. I difetti non sono rimediati dall’inserimento di pause didatti-che, deleterie per la continuità spettacolare della trasmissione, e risultano ingigantiti dalla prevalenza delle prove documentali, delle prove scientifiche e delle intercettazioni delle quali la prassi non con-

8 Per F. Cordero, Procedura penale, Milano, Giuffrè, 2003, p. 919, l’art. 147 disp. att. sarebbe “una norma malaccorta”, mentre per P. Tonini, Manuale di procedura penale, Milano, Giuffrè, 2016, p. 685 sarebbe «arduo individuare ipotesi nelle quali la presen-za delle telecamere in aula non sia idonea a recare» quel pregiudizio considerato dalla disposizione in parola.

9 Così il felice titolo di P. Giglioli-S. Cavicchioli-G. Fele, Rituali di degradazione. Anatomia del processo Cusani, Bologna, il Muli-no, 1997.

10 Incontrovertibile è il riferimento portato all’omonima “commedia all’italiana” del 1953, per la regia di Steno.

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templa la doverosa lettura o il puntuale ascolto. In breve, la trasmissione dei dibattimenti penali non fa audience sicché le emittenti non la praticano o la praticano episodicamente. Si è persa l’opportunità di avvalersi di un mezzo che è in grado di assicurare, con modesti accorgimenti, un eguale accesso alle fonti da parte di tutti gli operatori dell’informazione, di diffondere un’immagine positiva della giustizia perché la si vede in azione e, per ciò solo, la si accredita di efficienza, di elevare il livello della pubblica comprensione delle regole processuali, adempiendo alle finalità anche didattiche storicamente perse-guite dall’introduzione della pubblicità immediata 11.

La causa profonda e, se si vuole, banale dell’insuccesso sta nei tempi lunghi con cui si instaurano i giudizi. Un dibattimento celebrato a distanza di anni dall’avvio delle indagini compromette non solo il valore dell’oralità, ma non è telegenico perché l’interesse si è già consumato per quella vicenda, presto sostituita da altre più recenti. La concentrazione dell’attenzione dei mezzi di comunicazione di massa sulla fase iniziale del procedimento 12 e, si aggiunga, le curiosità alimentate sapientemente dalle brecce troppo presto aperte nel muro del segreto investigativo sottraggono spazio mediatico ad un dibatti-mento che si svolgerà su materiale probatorio in buona parte risaputo e già vagliato dal tribunale del-l’opinione pubblica. In definitiva, lo scarso impiego dei mezzi offerti dallo sviluppo tecnologico per far conoscere la fase destinata alla formazione della prova e, quindi, a innescare un sano controllo pubblico sul giudizio genera un’ulteriore conseguenza negativa. Inevitabilmente, l’attenzione mediatica conver-ge ancor più su una fase che per la sua struttura temporalmente e localmente deconcentrata non si pre-sta allo scopo, essendo stata concepita per formare il materiale investigativo sul quale il pubblico mini-stero scelga se esercitare o no l’azione penale.

L’INSODDISFACENTE DISCIPLINA DEL DIVIETO DI PUBBLICAZIONE

Un’informazione giudiziaria incentrata sulla fase delle indagini preliminari, specie sulle sue cruciali battute iniziali, presenta inconvenienti suoi propri. In questi ultimi anni si è dato, tra tutti, peso pre-ponderante all’incapacità del sistema di assicurare il valore della riservatezza e dell’onorabilità delle persone estranee alle indagini, ma pure degli indagati e, talora, delle persone offese su fatti diversi da quelli ascritti in via provvisoria.

La lacuna è addebitabile ad una non adeguata costruzione delle norme ma sarebbe ingiusto addebi-tare ai compilatori del codice di non aver francamente palesato i loro propositi che sono, col tempo, di-venuti inadeguati per effetto di una maggior sensibilità per i diritti umani. Dai lavori preparatori emer-ge che si voleva porre riparo ai cronici difetti manifestati dalla disciplina precedente operando in un duplice senso: ridurre l’ambito del divieto di pubblicazione perché l’eccessiva estensione ne compro-metteva l’effettività e creare, al tempo stesso, nuove interdizioni funzionali al rispetto dei canoni del modello accusatorio che si ambiva introdurre. Ne è scaturito un testo – l’art. 114 c.p.p. – “alquanto labi-rintico” 13, la cui oscurità è accresciuta dalla necessità di integrarlo con quello dell’art. 329 c.p.p. che cir-conda la fase delle indagini preliminari con una cortina – il segreto – dalla struttura flessibile perché modulata sulle insindacabili opzioni investigative del pubblico ministero.

In breve, la disciplina ruota attorno a due distinti divieti di pubblicazione costruiti a seconda del re-gime conoscitivo degli atti sui quali insistono. Il divieto di pubblicazione del contenuto dell’atto, o di-vieto assoluto, riguarda atti coperti dal segreto investigativo oppure singoli atti o notizie specifiche re-lative a determinate operazioni rese oggetto di un apposito decreto di copertura del p.m. (art. 329 com-ma 2, lett. b) c.p.p.). Costituendo un rafforzamento del divieto di rivelazione, questa prima interdizione, stando ai più, attiene al mero contenuto notiziale dell’atto senza che se ne faccia una riproduzione inte-grale o anche parziale, sicché può dirsi che il divieto in parola concerne ciò che l’atto esprime dal punto di vista concettuale 14. A sua volta, il divieto di pubblicazione dell’atto, o divieto relativo, investe atti non propriamente segreti perché nei loro confronti la cortina opera solo «fino a quando l’imputato non

11 Ulteriori aspetti positivi sono evidenziati nell’equilibrata esposizione di E. Amodio, op. cit., p. 155 ss. 12 V., da ultimo, A. Scalfati, Un ciclo giudiziario travolgente, in questa Rivista, 2016, 3, p. 113. 13 F. Cordero, Codice di procedura penale commentato, Torino, Utet, 1990, p. 136. 14 Tra i tanti, M. Chiavario, La riforma del processo penale, Torino, Utet, 1990, p. 240; G. Giostra, Processo penale e informazione,

Milano, Giuffrè, 1989, p. 350; G. Ubertis, Sub art. 114-115, in Commentario del nuovo codice di procedura penale, diretto da E. Amo-dio-O. Dominioni, II, Milano, Giuffrè, 1990, p. 29.

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ne possa avere conoscenza e, comunque, non oltre la chiusura delle indagini preliminari». Conta qui l’atto così come processualmente documentato, risultando proscritta la pubblicazione, racchiusa tra vir-golette, del suo testo, ancorché parziale, «ma non la pubblicazione e la diffusione delle informazioni che se ne possono ricavare» 15. Si direbbe che il legislatore storico appaia quasi più preoccupato di protegge-re l’oralità del giudizio da interferenze mediatiche che dall’imponenza del regime derogatorio delle let-ture dibattimentali, per opinione corrente tra i primi interpreti, fin troppo esteso. Si spiega così che, se-condo i lavori preparatori, «gli atti delle indagini preliminari che sono inseriti nel fascicolo del p.m. de-vono essere conosciuti dal giudice del dibattimento solo attraverso le contestazioni dibattimentali, sic-ché, [ove] se ne consentisse la pubblicazione prima di quel momento, si determinerebbe una distorsione della regola processuale ed un’anticipata e non corretta formazione del convincimento del giudice». A proposito del divieto di pubblicazione testuale dell’atto, si aggiunge poi che «il giudice del dibattimen-to, se può essere influenzato dalla pubblicazione di atti veri e propri, è in grado di non fondare il pro-prio convincimento su notizie di stampa più o meno generiche e prive di riscontri documentali riguar-danti il contenuto di atti» 16.

La sottile distinzione – tosto bollata come bizantina 17– favorisce tanto elusioni legalizzate del divieto assoluto mercé l’impiego di sapienti tecniche narrative e di acconci espedienti espositivi, quanto aggi-ramenti del divieto relativo tramite la pretestuosa sollevazione di questioni sulla formazione del fasci-colo del p.m., così da far conoscere integralmente l’atto al giudice del dibattimento prima dell’eventuale acquisizione della prova 18. La complessa formulazione legislativa non regge, poi, quando la si raccordi con la primaria norma sostanziale di riferimento, ossia con l’art. 684 c.p. La previsione sanzionatoria di una pubblicazione effettuata “anche per riassunto o a guisa di informazione" si armonizza con il dettato del primo comma ma non con quello del settimo comma dell’art. 114 c.p.p. Invero, la pubblicazione del “contenuto” dell’atto, sempre consentita stando a quest’ultima disposizione, potrebbe essere intesa pro-prio come una pubblicazione riassuntiva, compiuta a fini informativi e, quindi, interdetta dalla norma sanzionatoria 19.

Nella prospettiva qui in considerazione, un primo punto debole sta nella lettera dell’art. 329 c.p.p. che riferisce il regime del segreto agli “atti di indagine”: esclusi, dunque, quelli privi, già ab origine, di tale natura. L’ideazione del divieto di pubblicazione soffre, relativamente alla fase iniziale del procedi-mento, del disegno di proteggere interessi tutti interni al procedimento: successo dell’indagini protette dal segreto investigativo e corretta formazione del convincimento del giudice 20. Le conseguenze di una simile costruzione si sono ben stagliate a margine della nota inchiesta milanese degli anni novanta, a motivo della pubblicazione sui quotidiani dell’emissione di informazioni di garanzia che spesso i pub-blici ministeri inviavano in anticipo, senza che si dovesse compiere, per il momento, alcun atto al quale il difensore avesse diritto di assistere. Secondo un certo indirizzo giurisprudenziale, la diffusione me-diatica era, si badi, consentita a seguito della mera emissione dell’atto, ancorché esso non fosse ancora materialmente pervenuto nella sfera dell’indagato 21. All’alzata di scudi che ne è seguita, il legislatore ha rimediato non mettendo mano al combinato disposto degli artt. 114 e 329 c.p.p., ma limitandosi ad ag-giungere l’avverbio “solo” nel corpo dell’art. 369 c.p.p. Si è preferito, dunque, circoscrivere le potenzia-lità difensive dell’informazione di garanzia e, allo stesso tempo, comprimere l’autonomia della strategia investigativa del pubblico ministero, anziché introdurre, quanto meno, un apposito divieto di pubbli-cazione. Per un’evidente eterogenesi dei fini, un istituto concepito e, addirittura, denominato alludendo alla sua funzione garantista, è divenuto troppo spesso una fonte di stigmatizzazione sociale, sebbene la

15 A. Nappi, Guida al Codice di Procedura Penale, Milano, Giuffrè, 2007, p. 95. 16 Relazione al progetto preliminare del codice di procedura penale, G.U. Supplemento ordinario n. 2, 24 ottobre 1988, p. 49. 17 L. Grilli, La pubblicazione degli atti e il segreto professionale del giornalista, Giust. pen., 1990, III, c. 570. 18 G. Giostra, Processo penale, cit., p. 351.c. 19 P.P. Rivello, Prevedibili incertezze della distinzione, ex art. 114 c.p.p., tra l’atto ed il suo contenuto, in Riv. it. dir. proc. pen., 1990,

p. 1073. 20 Sull’impostazione del regime della segretezza v., con estrema chiarezza, O. Mazza, Il giusto processo tutela anche la riserva-

tezza, in Dir. pen proc., 1997, p. 1044. 21 G.i.p. Trib. L’Aquila, 30 giugno 1993, Vitanza, in Riv. it. dir. proc. pen., 1994, p. 530, secondo cui «la comunicativa ad un

giornalista dei nominativi di indagati per i quali il magistrato aveva già firmato informazioni di garanzia non costituisce viola-zione dell’art. 329 trattandosi di atti già emessi dal p.m. e per loro natura conoscibili dai diretti interessati anche se non ancora conosciuti».

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sua emissione costituisca, come ci si preoccupa di precisare con un certo imbarazzo, un mero “atto do-vuto”.

Per altro verso – ecco il secondo punto di debolezza – le norme codicistiche in ordine alla fase inizia-le del procedimento, a differenza di ciò che stabilisce l’art. 114 commi 3 e 4 per il dibattimento, non ap-pongono limiti alla pubblicazione di atti che contrastino con interessi di natura extraprocessuale. Risul-tano così penalmente lecite, rispetto al tenore dell’art. 684 c.p., pubblicazioni che ledono valori costitu-zionali ma che non sono pacificamente inquadrabili nell’ambito della scriminante del diritto di cronaca. Tale è il caso di pubblicazioni lesive del diritto alla riservatezza allorquando difetti l’interesse pubblico alla conoscenza, il che spesso accade per i risultati forniti da un mezzo di ricerca della prova per sua na-tura non selettivo come le intercettazioni, una sorta di idrovora che tutto aspira.

TENTATIVI DI TUTELA DELLA RISERVATEZZA

L’incapacità del sistema di assicurare la privatezza o la riservatezza delle persone estranee ai fatti per cui si procede ma, nondimeno, oggetto di attività captativa, si è manifestata specie a proposito della pubblicazione di brani di conversazioni che non presentavano alcuna rilevanza ai fini dell’adozione della misura cautelare. In forza dell’art. 329 c.p.p. il segreto investigativo che circonda il contenuto del-l’atto e che, quindi, ne interdice la pubblicazione viene meno ogni qual volta i c.d. brogliacci trascrittivi siano stati utilizzati per motivare l’applicazione di una misura cautelare personale o, comunque, siano stati depositati a favore della difesa ai sensi dell’art. 293 comma 3 c.p.p. insieme con i files audio. In tal caso il doveroso, successivo deposito della documentazione al termine delle indagini finisce per assu-mere una valenza mediatica marginale: la diffusione delle intercettazioni, se davvero appetibile, è già da tempo avvenuta. Le intercettazioni non più avvolte dal segreto investigativo, stante l’effetto onnivo-ro dell’attività captativa, offrono, però, una massa di informazioni processualmente irrilevanti ma assai ghiotte per i mezzi di comunicazione di massa allorquando coinvolgono esponenti pubblici. Vero è che residuerebbe il divieto di pubblicazione dell’atto, così come documentato nei brogliacci stesi dalla poli-zia giudiziaria, introdotto allo scopo di proteggere la formazione del convincimento del giudice dibat-timentale, ma la circostanza che l’intercettazione non venga pressoché mai diffusa tutt’intera, ha fatto sì che la giurisprudenza non ritenga vietata la mera pubblicazione di semplici passaggi dei dialoghi cap-tati che, diversamente, rientrerebbero nella sfera dell’art. 114, comma secondo, c.p.p. 22. Non difettano, però, prese di posizione di segno garantista 23. Apprezzabile è sostenere che il contenuto di comunica-zioni o di conversazioni telefoniche non pertinenti a gravi reati deve considerarsi “riservato”, indipen-dentemente dalla fase processuale nella quale si collochi il procedimento incidentale ex art. 268 c.p.p., trattandosi, in ogni caso, di atti coperti dal divieto di pubblicazione ex art. 684 c.p. L’indirizzo minorita-rio appena rammentato assume, ad ogni modo, un’incidenza limitata, entrando in funzione solo per reati di modesta entità, ancorché coinvolgenti personaggi pubblici.

L’esigenza di individuare un diverso punto di equilibro nel bilanciamento fra gli opposti interessi, tutti di rango costituzionale, del diritto alla riservatezza delle persone coinvolte nell’attività captativa e del diritto di cronaca è stata da tempo messa a fuoco dalla dottrina 24, ben consapevole della crisi di le-galità che informa la prassi giudiziaria. In realtà, la vigile espunzione dal materiale presentato al giudi-ce per l’adozione della misura delle conversazioni assolutamente irrilevanti rispetto all’addebito caute-lare, l’effettuazione dell’udienza di stralcio, nonché, ancora il tempestivo svolgimento della perizia tra-scrittiva quale momento imprescindibile per la comprensione, senza equivoci lessicali, del reale signifi-cato delle conversazioni, già attenuerebbero le conseguenze negative lamentate pur restando nel peri-metro della disciplina vigente. La magistratura giudicante, messa in difficoltà dalla mole delle intercet-

22 Cfr, ad esempio, dando peso alla peculiarità del caso di specie, Cass. Sez. I, 24 ottobre, 2013, n. 43479, in CED Cass., n. 25740, la quale ha escluso che integri il divieto di cui all’art. 114, comma 2, c.p. «la pubblicazione di una brevissima frase, ripor-tata tra virgolette dell’interrogatorio dell’indagato»: essa si trasforma, infatti, nella mera divulgazione del contenuto dell’atto, sempre consentita ex art. 114, comma 7, c.p.p.

23 G.i.p. Trib. Milano, 10 ottobre 1997, Di Feo, in Cass. pen.,1998, p. 1807 ss. Da ultimo, nel senso che la pubblicazione delle in-tercettazioni depositate integra l’ipotesi dell’art. 114 comma 2 c.p.p., L. Giordano, Il Consiglio Superiore della Magistratura sulle buone prassi in materia di intercettazioni: prime considerazioni, in Diritto penale contemporaneo, 11 ottobre 2016 ed. on line.

24 Diffusamente e per tutti, G. Mantovani, Informazione, giustizia penale e diritti della persona, Napoli, Jovene, 2011, p. 78 ss.

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tazioni che si dovrebbero vagliare ai fini dell’udienza di stralcio ex art. 268 c.p.p. e preoccupata delle in-genti spese reclamate dalle perizie trascrittive, destinate a divenire superflue allorché sia adottato un rito alternativo, non ha censurato l’usuale modo di procedere. È naturale, a tal punto, che nell’opinione pubblica sia venuta montando un’insofferenza verso l’impiego di questo mezzo di prova tanto da inve-stirne l’ampiezza applicativa.

Perdurando l’inconsistenza dell’impegno legislativo dopo vent’anni di riforme progettate e non at-tuate, l’esigenza di contenere la divulgazione di intercettazioni lesive di un valore costituzionale ricon-ducibile nella sfera dell’art. 2 Cost. ha indotto parecchi Procuratori della Repubblica a predisporre una serie di “linee guida” per preservare la riservatezza di conversazioni telefoniche e ambientali ma, pure, di comunicazioni informatiche e telematiche 25. Ad esempio, la circolare del Procuratore della Repubbli-ca di Torino ha demandato al pubblico ministero di disporre l’espunzione, sia in caso di richiesta di una misura cautelare personale sia prima della chiusura delle indagini preliminari, di tutte le conversazioni telefoniche ed ambientali non rilevanti perché inutilizzabili a qualunque titolo o perché non pertinenti all’accertamento dei reati per cui si procede e – si badi – al contempo, rientranti nella tipologia dei “dati sensibili” ai sensi dell’art. 4 lett. d) del d.lgs. 30 giugno 2003, n. 196 (c.d. codice della privacy), in quanto concernenti opinioni politiche o religiose, la sfera sessuale e lo stato di salute della persona. Conte-stualmente all’emissione dell’avviso di conclusione delle indagini o della richiesta di giudizio immedia-to, al pubblico ministero spetta poi dare l’avviso di cui all’art. 268 comma 6 e, allo stesso tempo, chiede-re lo stralcio delle conversazioni e dei verbali inutilizzabili o contenenti dati sensibili e, al tempo stesso, non rilevanti. L’attivazione della procedura ex art. 268 commi 6 e 7, nonché ex art. 269 c.p.p., impedisce, però, il verificarsi della conoscenza pubblica, realizzando una sorta di parziale segretazione processuale sulla quale, per l’appunto, fa leva la circolare in discorso. I difensori degli interessati, infatti, potranno sì esaminare gli atti ed ascoltare le registrazioni, ma non ottenere il rilascio di copie o la duplicazione del-le conversazioni in discorso. Ciò sarà consentito, in forza dell’art. 268 comma 8 c.p.p., solo dopo com-piuta la perizia trascrittiva dal cui orizzonte sono state ormai espunte le conversazioni e le comunica-zioni inutilizzabili o irrilevanti, senza che ormai conti se riguardano o no dati sensibili. Dal momento in cui i difensori possono presentare – basta la potenzialità – istanza per ottenere copia della documenta-zione e dei supporti relativi all’attività captativa, cade il divieto di pubblicazione. In sostanza, per usar le parole della circolare, con l’attivazione delle procedura di stralcio «non verranno meno i divieti di cui ai commi 1 e 2 dell’art. 114 c.p.p. e gli atti rimarranno processualmente segreti fino al momento in cui il giudice competente – e non il pubblico ministero – assumerà doverosamente, da un lato, le decisioni re-lative all’inutilizzabilità degli atti o alla manifesta irrilevanza di registrazioni e flussi di comunicazioni informatiche o telematiche contenenti dati sensibili di cui il PM abbia richiesto lo stralcio e, dall’altro, quelle relative ad eventuali richieste difensive di estrazione di copie dei medesimi» 26.

Le circolari si lasciano apprezzare per i propositi che le animano, ma inducono a considerazioni me-no positive se considerate sul piano sistematico e costituzionale. Lo stesso giudizio si estende alla deli-bera adottata dal Consiglio Superiore della Magistratura il 29 luglio 2016. Alla presa di posizione ha certo contribuito il proposito – del resto, espressamente manifestato – di ribadire che il rimedio avverso arbitrarie divulgazioni dei risultati dell’attività intercettativa non può essere trovato nella compressione della sfera di un mezzo di ricerca della prova giudicato irrinunciabile a fini investigativi. Al tempo stes-so, Il Consiglio ha ritenuta inopportuna l’opzione, che pure era stata accarezzata dal disegno di legge S/1611 discusso nella XVI legislatura, «di riportare per riassunto e non in forma integrale le conversa-zioni nei provvedimenti giudiziari, con il rischio di ridurre la genuinità della prova scaturita dalla con-versazione intercettata». Da qui l’auspicio che sia ristretta, nella maggior misura possibile, la divulga-zione dei dati sensibili, così da realizzare «il giusto equilibrio tra i valori costituzionali in gioco, non es-sendo nessuno di essi tanto prevalente sugli altri da imporre l’automatico sacrificio dell’altro». Per ta-luni aspetti la delibera del Consiglio si discosta dalla più cauta circolare della Procura torinese: confi-dando sul rigore professionale dei magistrati del pubblico ministero 27 (così condividendo in una qual-che misura l’impostazione seguita dalla sentenza costituzionale n. 1 del 2013) viene loro demandata,

25 Cfr. nota 1. Un’analisi comparativa delle soluzioni adottate è fornita da P. Tonini-F. Cavalli, Le intercettazioni nelle circolari delle procure della Repubblica, in Dir. pen. proc., 2017, p. 705 ss.

26 Un’analitica disamina della circolare è offerta da F. Caprioli, La procedura di selezione e stralcio delle comunicazioni intercettate nelle linee guida della Procura della Repubblica di Torino, in Arch. nuova proc. pen., 2017, p. 553 ss.

27 Insiste su questo profilo L. Giordano, op. cit.

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almeno in prima battuta, la cernita delle conversazioni irrilevanti. Il Consiglio contempla, in vista del-l’udienza camerale da tenersi per selezione il materiale captato, la doverosa conservazione delle tracce audio registrate, nonché dei brogliacci approntati dalla polizia giudiziaria. L’udienza di stralcio è giu-stamente valorizzata come snodo processuale, ma domina la preoccupazione di non sovraccaricare di compiti gli uffici giudiziari: si suggerisce, pertanto, un impiego controllato dell’istituto, ma non se ne può fare a meno quando sia in gioco il valore costituzionale della riservatezza.

Discutibili alcune implicazioni. Anzitutto, si dà per scontato l’allontanamento dal dettato codicistico che prevede l’attivazione dell’udienza di stralcio, anche se al suo mancato svolgimento non pare ricol-legabile alcuna specie di invalidità. Il contrasto con il principio di legalità processuale 28 non può essere celato dal titolo autoassolutorio che allude ad una mera “ricognizione di buone prassi”. Alla rilettura dell’impianto codicistico polarizzata verso la tutela della riservatezza non corrisponde un’analoga sen-sibilità nei confronti dell’inviolabile diritto di difesa. Ad esempio, nel caso di applicazione di una misu-ra cautelare, la possibilità di ascoltare ma non di trarre copia delle conversazioni contenute nell’archivio riservato, secondo le strette cadenze temporali stabilite dall’art. 268 c.p.p., compromette l’effettività del diritto di difesa.

LA LEGGE DELEGA N. 103 DEL 2017 E LA TUTELA DELLA RISERVATEZZA IN SEDE PROCESSUALE

Pure la XVII legislatura affronta il tema. All’interno di un ambizioso programma riformatore, il di-segno di legge governativo C/2798 – presentato il 23 dicembre 2014 – detta, in funzione dell’esercizio di una delega annuale, principi e criteri direttivi per le comunicazioni e le intercettazioni tanto telefoniche quanto telematiche. Il testo licenziato dalla Camera il 23 settembre 2015 progetta di proteggere la riser-vatezza (art. 30, comma 1, lett. a), «attraverso prescrizioni che incidano anche sulle modalità di utilizza-zione cautelare dei risultati delle captazioni e che diano una precisa scansione procedimentale per la se-lezione del materiale intercettativo nel rispetto del contraddittorio tra le parti e fatte salve le esigenze di indagine, avendo speciale riguardo alla tutela della riservatezza delle comunicazioni e delle conversa-zioni delle persone occasionalmente coinvolte nel procedimento, in particolare dei difensori nei collo-qui con l’assistito, e delle comunicazioni comunque non rilevanti ai fini della giustizia penale». Sul pia-no sostanziale si vuol poi immettere una nuova fattispecie incriminatrice, talché «costituisca delitto, punibile con reclusione non superiore a quattro anni, la diffusione, al solo fine di recare danno alla re-putazione o all’immagine altrui, di riprese audiovisive o registrazioni di conversazioni, anche telefoni-che, svolte in sua presenza ed effettuate fraudolentemente. La punibilità è esclusa quando le registra-zioni o le riprese sono utilizzate nell’ambito di un procedimento amministrativo o giudiziario o per l’esercizio del diritto di difesa o del diritto di cronaca».

La mancata indicazione delle cadenze procedimentali affidava all’esecutivo margini di manovra tan-to estesi da equivalere alla concessione di una delega pressoché in bianco. Non stupisce che questa par-te dell’originario disegno di legge sia divenuto un facile bersaglio 29: non ci si proponeva davvero di contrastare le note prassi degenerative invalse, suonava generico il proposito di tutelare le persone estranee al procedimento, in difetto di una puntuale indicazione delle conversazioni non pubblicabili, non vi era traccia della predisposizione di un adeguato apparato sanzionatorio 30.

Nel frattempo mutava il quadro di riferimento. La decisione assunta dalle Sezioni Unite circa l’im-piego dei captatori informatici in dispositivi elettronici portatili (c.d. Trojan horses) 31 e le circolari delle Procure nonché le “buone prassi” suggerite dal Consiglio Superiore della Magistratura inducono, per un verso, ad ampliare la portata della delega e, per l’altro a meglio specificarne le cadenze processuali

28 V., con accenti fortemente critici, Negri, Splendori e miserie della legalità processuale. Genealogie culturali, èthos delle fonti, dia-lettica tra le Corti, in Arch. pen., 2017, ed. on-line, n. 2, p. 27.

29 L. Filippi, Molte perplessità e poche note positive nella legge delega di riforma delle intercettazioni telefoniche, Il Penalista, ed. on-line, 16 novembre 2015.

30 Per contro, l’autore rammentato alla nota che precede ritiene che l’introduzione di una fattispecie incriminatrice in ordine alle riprese o alle registrazioni fraudolente non sia davvero lesiva della libertà di informazione poiché è sempre consentito dif-fondere registrazioni idonee a documentare l’attività illecita da altri compiuta, essendo punita solo una condotta di natura obiettivamente diffamatoria.

31 Si allude a Cass., sez. un., 28 aprile 2016, n. 26889, Scurato, in Cass. pen., 2016, 11, p. 4139.

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in parte qua. Ci si è spinti, addirittura, a ritenere verosimile che le previsioni in materia di intercettazioni abbiano esercitato un ruolo decisivo per l’approvazione dell’intera manovra legislativa 32. Da qui il varo di un testo unificato da parte della Commissione Giustizia del Senato il 3 agosto 2016, poi seguito da un tardivo voto di fiducia espresso dalla Camera. L’art. 1, comma 84, lett. a) – e) della legge n. 103 del 2017 conferisce al Governo una delega, dalla durata di soli tre mesi, che investe i rapporti tra l’attività capta-tiva e la relativa diffusione mediatica sotto una molteplicità di punti di vista.

Per le comunicazioni e le conversazioni telefoniche o telematiche, per così dire ordinarie, l’impianto della delega ricalca, in larga misura, la circolare del Consiglio Superiore della Magistratura, dimostrando che il Parlamento è ben conscio dello scollamento delle prassi giudiziarie dal dettato codicistico, ma che lo vuole contrastare più che affrontarne alla radice le cause Ad una lettura attenta, i principi e i criteri diret-tivi appaiono ora sovrabbondanti ora lacunosi, ma ai presenti fini il senso della manovra emerge netto fa-cendo leva sulla distinzione tra l’ipotesi in cui sia stata applicata una misura cautelare e quella in cui ciò non sia avvenuto. Va subito detto, però, che il compito di effettuare la prima, essenziale scrematura grava già sulla polizia giudiziaria (meglio, su chi procede all’ascolto) prescrivendo che “le conversazioni o co-municazioni di cui al n. 1 non siano oggetto di trascrizione sommaria ai sensi dell’articolo 268 comma 2, del codice di procedura penale, ma ne vengano soltanto indicati data, ora ed apparato su cui la registra-zione è intervenuta, previa informazione al pubblico ministero che ne verifica la rilevanza con decreto motivato autorizzandone, in tal caso, la trascrizione ai sensi del citato comma 2” (lett. a), n. 5). Orbene, l’appena menzionato n. 1 si riferisce all’ipotesi in cui il pubblico ministero opera la scelta in ordine al ma-teriale captato da “inviare al giudice a sostegno della richiesta cautelare”, scremando, anzitutto, quello su cui vuol mantenere la segretezza per il buon esito delle indagini. Poiché al momento in cui ascolta le con-versazioni l’operatore non può conoscere quali determinazioni assumerà il titolare delle indagini, il vaglio va effettuato sulla base dei restanti parametri selettivi somministrati al pubblico ministero. Ne segue che l’operatore dovrà assicurare «la riservatezza anche degli atti contenenti registrazioni di conversazioni o comunicazioni informatiche o telematiche inutilizzabili a qualunque titolo ovvero contenenti dati sensibili ai sensi dell’art. 4, comma 1, lett. d) di cui al decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196, che non siano per-tinenti all’accertamento delle responsabilità per i reati per cui si procede o per altri reati emersi nello stes-so procedimento o nel corso delle indagini, ovvero irrilevanti in quanto riguardanti esclusivamente fatti o circostanze ad esse estranei» (lett. a), n.1). Si profilano le prime difficoltà perché l’immediata selezione non è praticabile quando le conversazioni avvengono in una lingua sconosciuta a chi procede all’ascolto e per-ché la polizia giudiziaria viene investita del non consueto quanto delicato compito tecnico-giuridico di ac-certare se si è integrata una causa di inutilizzabilità, nessuna esclusa. Se questi inconvenienti sono rime-diabili, stante, invece, l’abituale mole del materiale captato, appare utopistico che il titolare delle indagini sia poi in grado di controllare la selezione operata dalla polizia giudiziaria. Ancora una volta si scrivono regole sfornite di un accettabile grado di effettività.

In caso di richiesta di una misura cautelare, il potere del pubblico ministero di procedere, in assenza del contraddittorio, all’espunzione delle conversazioni inutilizzabili, non pertinenti o irrilevanti perché concernono fatti o circostanze estranei alle indagini in corso è bilanciato dall’obbligo di custodire le bo-bine in un archivio riservato da istituire presso ogni procura della Repubblica, con facoltà di ascolto, ma non di estrarne copia, da parte «dei difensori e del giudice fino alla conclusione della procedura ex art. 268 commi 6 e 7 c.p.p.», ossia all’esito della perizia trascrittiva. La legge delega spiega (lett. a) n. 2) che solo da quel momento «viene meno il divieto di cui al comma 1 dell’art. 114 del medesimo codice rela-tivamente agli atti acquisiti». La precisazione legislativa costituisce, ai nostri fini, un passaggio essen-ziale per comprendere la portata della manovra laddove essa deroga all’ordinario nesso che il sistema instaura tra regime di segretezza e divieto di pubblicazione: qui siamo di fronte a conversazioni il cui contenuto non è più segreto in forza della formulazione dell’art. 329 c.p.p., in quanto la difesa potrebbe procedere all’ascolto, ma per ciò solo esse non diventano pubblicabili. La formula legislativa con l’impiego del sostantivo “acquisizione” 33 allude qui al passaggio del materiale captato dall’archivio ri-servato agli atti inseriti nel fascicolo del dibattimento a seguito della perizia trascrittiva. Ciò significa che le conversazioni già poste a corredo della richiesta cautelare non sono, stando ad un’interpretazione

32 Così C. Parodi, La delega in tema di intercettazioni, in Riforma Orlando: tutte le novità (a cura dello stesso), in Il penalista, 2017, p. 115.

33 V. le osservazioni formulate da ultimo da F. Caprioli, La procedura di selezione, cit., p. 553, secondo cui l’art. 268, comma 6, c.p.p. si risolve in un meccanismo di stampo acquisitivo.

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rigorosa della legge delega, direttamente investite dalla manovra, sicché continua a valere in rapporto ad esse la vigente disciplina così come configurata a seguito delle note sentenze della Corte costituzio-nale. In particolare, in forza della declaratoria di illegittimità dell’art. 293 comma 5 c.p.p. operata dalla sentenza n. 192 del 1997 34, con la caduta del segreto investigativo, diviene pubblicabile il contenuto del-le conversazioni intercettate poste a corredo della richiesta cautelare presentata al giudice. La stessa conclusione vale, in forza dell’art. 309, commi 5 e 8, c.p.p. per le conversazioni che contengono «ele-menti sopravvenuti a favore della persona sottoposta alle indagini». Di più, per effetto della sentenza costituzionale n. 336 del 2008 la difesa può ottenere l’ascolto e la trasposizione su nastro magnetico del-le conversazioni, addirittura non depositate anche se non è pacifico che ne possa avere copia e non la sola trasposizione su un supporto suscettibile di ascolto 35.

Se non è stata applicata una misura cautelare, ossia allorquando il pubblico ministero presenti richiesta di giudizio immediato o provveda al deposito degli atti ai fini l’invio dell’avviso di conclusione delle in-dagini, la legge delega dispone distintamente (lett. a), n. 4) 36. Il pubblico ministero, il quale «riscontri tra gli atti la presenza» di intercettazioni inutilizzabili o contenenti dati sensibili, sempre che essi «non siano pertinenti all’accertamento della responsabilità per i reati per cui si procede ovvero irrilevanti ai fini delle indagini in quanto riguardanti esclusivamente fatti o circostanze ad essi estranei», avvia, ove non l’avesse già intrapresa, la procedura dell’udienza di stralcio, indicando, naturalmente, le conversazioni di cui ri-chiede l’espunzione dagli atti del procedimento. Le conversazioni che provenivano dall’archivio riserva-to, e quindi, come già sappiamo, accessibili solo all’ascolto all’inizio della procedura di stralcio, divengo-no all’esito dell’udienza, se acquisite, pubblicabili nel loro contenuto. Le conversazioni, invece, che sono state ritenute inutilizzabili o lesive della riservatezza sono oggetto di stralcio. Ebbene, ed è questo un a-spetto qualificante della manovra, le conversazioni stralciate non potranno essere oggetto di pubblicazio-ne, al più, si può discutere se poi potranno esserlo, se il giudice non ne abbia disposta la distruzione ex art. 269, comma 2, c.p.p, una volta trascorsi i termini stabiliti dalla legge sugli archivi di Stato (art. 21 del D.P.R. 30 settembre 1963 n. 1409). Ma c’è da credere che, a quel punto, prevarrà il diritto all’oblio.

Le conversazioni che sono state acquisite non divengono integralmente pubblicabili poiché, nel si-lenzio serbato dalla legge delega, dovrebbe restar fermo il divieto di pubblicazione degli atti, così come processualmente documentati, di cui all’art. 114 comma 2 c.p.p., destinato a cessare solo con la scaden-za dei termini indicati nello stesso comma 2 e nel comma 3. In definitiva, anche nel meccanismo conge-gnato dalla legge n. 103 del 2017 l’impossibilità di estrarre copia dei brogliacci o dei files digitali– si ba-di, anche da parte del giudice – costituisce l’ostacolo materiale inteso ad impedire la pubblicazione del-le intercettazioni inutilizzabili o ritenute lesive della riservatezza, talché l’osservanza della normativa che si vuol introdurre grava per intero sulle spalle del pubblico ministero.

I principi ed i criteri direttive della legge delega non dissipano le critiche che erano state elevate a precedenti progetti legislativi. È singolare che le censure che oltre vent’anni fa la dottrina 37 muoveva ad una proposta di legge incentrata sulla tutela della privacy restino ancora attuali. La conclusione vale a proposito del rischio indicato per cui, sebbene la difesa non possa estrarre copia delle conversazioni in-tercettate, nulla impedisce che una persona dotata di grande memoria possa divulgarli senza che ne de-rivi, a quel che pare, una violazione del segreto investigativo e che, quindi, non sia neppure invocabile l’art. 326 c.p. 38. La circostanza che siano così superate le sterili polemiche in ordine a quali tra i soggetti

34 La norma è stata dichiarata illegittima «nella parte in cui non prevede la facoltà per il difensore di estrarre copia, insieme all’ordinanza che ha disposto la misura cautelare, della richiesta del pubblico ministero e degli atti presentati con la stessa».

35 L’art. 268 comma 3 c.p.p. è stato dichiarato illegittimo «nella parte in cui non prevede la facoltà per il difensore di estrarre copia, insieme all’ordinanza che ha disposto la misura cautelare, della richiesta del pubblico ministero e degli atti presentati con la stessa».

La lettura qui fornita sembra trovare conferma nel pensiero del Presidente della Commissione giustizia della Camera: cfr. Ferranti, Riflessioni sulle linee guida della riforma del processo penale, in Cass. pen., 2017, p. 2640. Cfr., altresì, F. Caprioli, La procedura di selezione, cit., p. 557 e 568, nota 23.

36 È appena il caso di aggiungere che un regime di conoscenza adeguato dovrà essere ricostruito dalla giurisprudenza nelle ipotesi dove in cui vi sia un anticipato deposito degli atti, ad esempio, per lo svolgimento dell’incidente probatorio ex art. 393, comma 2 bis, c.p.p.

37 P. Ferrua, Privacy e riservatezza nella riforma delle intercettazioni (1996), ora in Studi sul processo penale, III, Torino, 1997, p. 117 ss. 38 Cfr,, ora, la critica circa la mancanza di chiarezza sul segreto investigativo elevata da G. Giostra, Il punto di equilibrio è

l’interesse pubblico, Il sole 24 ore, 9 settembre 2017, p. 15.

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processuali abbia fornito le informazioni ai giornalisti costituisce un risultato stimabile, ma ciò avviene al prezzo di mortificare, come si è detto, l’effettività del diritto di difesa 39.

La preoccupazione nei confronti della tutela della riservatezza, che sbocca nell’apposizione di limiti alla pubblicazione, non dovrebbe indurre, secondo questa linea di pensiero, a trascurare che l’espan-dersi delle intercettazioni incrementa naturalmente il numero degli attacchi alla riservatezza. È questo il punto di maggior attrito tra magistratura, da una parte, e dottrina ed avvocatura, dall’altra: la prima orientata, come sappiamo, a difendere il presente, ampio uso delle intercettazioni, la seconda impegna-ta a reclamare il rispetto della clausola codicistica circa l’assoluta indispensabilità dell’attività captativa ai fini della prosecuzione delle indagini 40, la terza schierata a stigmatizzare la bulimia investigativa in-dotta da questo mezzo di prova 41.

ULTERIORI PROFILI DI TUTELA DELLA LEGGE N. 103 DEL 2017

Tra i restanti principi e criteri direttivi è mantenuta ferma l’introduzione di una fattispecie incrimi-natrice per la diffusione di immagini e registrazioni captate fraudolentemente alla presenza dell’inter-locutore. La formulazione della delega (comma 84, lett. b) è estremamente analitica sicché al Governo non resterà molto da aggiungere. L’apprezzamento per lo scrupolo analitico del legislatore delegante non scongiura il sorgere di delicate questioni interpretative circa l’ambito dell’esercizio del diritto di cronaca 42.

Il legislatore delegato è poi chiamato a «tener conto delle decisioni e dei principi adottati con le sen-tenze della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo di Strasburgo, a tutela della libertà di stampa e del di-ritto dei cittadini all’informazione» (comma 84, lett. c). Al di là dell’appunto formale circa la superfluità della previsione nell’attuale assetto delle fonti, parrebbe quasi che la valorizzazione del diritto alla ri-servatezza, quale scaturisce dalla lettura dei criteri direttivi, e la conseguente compressione dell’infor-mazione giudiziaria – non del diritto di cronaca in senso proprio perché non invocabile a fronte di noti-zie sfornite di pubblico interesse – voglia essere mitigata da un ammonimento in chiave riequilibratrice.

La ricerca di una linea guida unitaria nella giurisprudenza della Corte Europea trova una partenza obbligata nella ormai remota quanto celebrata sentenza resa nel caso Sunday Times. In quella circostan-za la libertà di stampa fu premiata rispetto al segreto investigativo, tutelato dallo sfuggente istituto del Contempt of Court, per il lodevole scopo di consentire ai genitori delle vittime del Talidomide di accor-darsi sulle strategie processuali da mettere in atto 43. Il medesimo orientamento ben si ricava da una re-cente decisione in cui si è ribadito che la libertà di espressione comprende anche il diritto all’accesso al-le informazioni di pubblico interesse in possesso dello Stato, trattandosi del momento strumentale alla successiva divulgazione 44.

Sul profilo della protezione della riservatezza, è nota una presa di posizione che è sfociata nella condanna dell’Italia in un caso in cui la pubblicazione investiva fatti ritenuti extraprocessuali e ri-guardanti un imputato già Presidente del Consiglio. La decisione si è fondata sulla mancata attiva-zione della ricerca degli autori della violazione della riservatezza 45. In una vicenda che coinvolgeva un imputato e notizie pur dotate di un certo interesse pubblico – si trattava di un magistrato indagato per corruzione – la Corte ha dichiarato irricevibile il ricorso perché la Procura della Repubblica si era impegnata, sia pure senza successo a causa dell’elevato numero delle persone coinvolte, a ricercare

39 «C’è un modo assai odioso di vanificare un diritto senza negarlo formalmente; e consiste nel renderne gravoso oltre misu-ra o imbelle l’esercizio»: cosi ancora P. Ferrua, op. cit., p. 125.

40 F. Caprioli, La procedura di selezione, cit., p. 557. 41 . Da ultimo, C. Intrieri, Populismo giudiziario, Il foglio, 12 settembre 2017. 42 V, al riguardo, gli approfondimenti forniti da Parodi, La delega in tema di intercettazioni, cit., pp. 121-124. 43 Corte e.d.u., 26 aprile 1979, Sunday Times c. Regno Unito. Sulla vicenda che si incentrava sulla figura del Contempt of court,

cfr. M. Chiavario, I rapporti giustizia – “media” nella giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, in Foro it., 2000, V, p. 200 ss.

44 Corte e.d.u., Sez. II, 10 aprile 2007, Panarisi c. Italia. 45 Corte e.d.u., Sez. I, 17 luglio 2003, Craxi c. Italia, in Cass. pen., 2004, p. 679: i giornalisti avevano pubblicato brani di conver-

sazioni intercettate ex art. 293, comma 3, c.p.p. per la ricerca del latitante che non erano state fatte oggetto di lettura dibattimen-tale.

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gli autori della propalazione sulla cui base era avvenuta la pubblicazione 46. Quale leading case sul nostro tema si è soliti rammentare il caso Dupuis ed altri c. Francia del 1995 47.

In quella vicenda i giornalisti avevano pubblicato un libro in cui si narrava di intercettazioni illegali an-titerrorismo effettuate dall’entourage del Presidente Mitterand. Nel procedimento intentato contro i giornalisti che avevano pubblicato brani delle intercettazioni, i professionisti si erano rifiutati di rivelare le identità delle fonti informative che avevano loro comunicato gli atti istruttori ancora coperti dalla cortina del segreto. Ebbene, nel bilanciamento degli interessi deve prevalere, secondo la Corte di Stra-sburgo, la libertà di stampa che impone allo Stato di tutelare i giornalisti. Nella specie, lo Stato francese, sul quale incombeva un simile onere, non aveva provato la responsabilità dei giornalisti, né valevano in materia presunzioni di sorta. Sebbene fossero pure in gioco altri valori ritenuti, in concreto, di minor valenza – la presunzione di innocenza ed il giusto processo – la sentenza ha tributato un deciso favor al-la libertà di stampa, concepita quale “cane da guardia” della democrazia. Si apre così, secondo gli auto-ri, 48 un nuovo indirizzo nella giurisprudenza della Corte europea, ma sarebbe superficiale sostenere che le decisioni successive confermino un itinerario lineare. Troppo è il peso accordato alla specificità dei casi di volta in volta affrontati per trarre un indirizzo davvero consolidato. Lo testimoniano due re-centissime decisioni dove si è data prevalenza alla tutela del segreto attorno alle indagini sulla libertà di stampa in vicende dove ai giornalisti erano state applicate, però, solo sanzioni di natura pecuniaria 49.

Quanto, infine, ai captatori informatici in dispositivi elettronici portatili, la legge delega prescrive che «non possono essere in alcun modo conoscibili, divulgabili e pubblicabili i risultati di intercettazio-ni che abbiano coinvolto occasionalmente soggetti estranei ai fatti per cui si procede» (comma 84, lett. e), n. 8). Il criterio direttivo è laconico nella sua formulazione, oscuro nel suo significato, arduo nella sua attuazione. Anzitutto non si indicano la natura degli strumenti, penali, civili o amministrativi per rea-lizzare l’obbiettivo 50; inoltre, stando alla lettera, il divieto scatta per coloro che non solo debbono essere estranei ai fatti, ma che debbono esserlo in maniera occasionale: se ne è ricavato «che soggetti stabil-mente prossimi agli intercettati – anche se estranei – non potrebbero non essere coinvolti, anche solo per una questione di “collocazione”» 51; infine, l’oggetto non è parso ben esplicitato in quanto la divul-gazione non è facilmente sceverabile dalla pubblicazione 52. Al di là di queste pur esatte osservazioni, la natura estremamente intrusiva del mezzo captativo di per sé non supporta un diverso regime sul terre-no della conoscenza pubblica, una volta che le intercettazioni sono state “eseguite” – per usare le parole dell’art. 271, comma 1, c.p.p. – nel rispetto delle più severe regole imposte per un tal genere di attività captativa. Del pari, la fonte razionale per un trattamento difforme non può certo farsi derivare dalla minor valenza probatoria conferita dalla legge delega alla nuova risorsa investigativ (comma 84, lett. e), n. 7). Semmai ci si dovrebbe orientare verso la soluzione opposta stante che l’interesse dell’opinione pubblica cresce in funzione della maggior gravità del reato. È appena il caso di aggiungere che avverso

46 Corte e.d.u., 30 aprile 2013, Cariello ed altri c. Italia. Cfr., in particolare, n. 79 dove si evidenziano le differenze con la vi-cenda Craxi.

47 Corte e.d.u., Sez. III, 7 giugno 2007, Dupuis c. Francia, in Cass. pen.. 2017, p. 4790. 48 V., seppure con sfumature inevitabilmente diverse, A. Balsamo-S. Recchione, Il difficile bilanciamento tra la libertà di informa-

zione e tutela del segreto istruttorio: la valorizzazione del parametro della concreta offensività nel nuovo orientamento della Corte europea, in Cass. pen., 2007, p. 4796; Casiraghi, Il necessario bilanciamento, cit., p. 213, L. Filippi, La sentenza Dupuis c. Francia: la stampa “watch-dog” della democrazia tra esigenze di giustizia, presunzione di innocenza e privacy, in Cass. pen., 2008, p. 813.

49 Nel primo caso, Corte e.d.u., Sez. V, 1° giugno 2017, Giesbert ed altri c. Francia, ha respinto il ricorso dei giornalisti del set-timanale Le Point che erano stati condannati a pene pecuniarie per aver pubblicato due articoli contenenti estratti di atti proces-suali prima del dibattimento che investivano la figura della nota ereditiera Liliane Bettencourt. Si è infatti ritenuto che non si potesse ravvisare una violazione della libertà di espressione perché le condanne “rispondevano ad un bisogno sociale assai im-perioso”.

Nel secondo caso, Corte e.d.u., Sez. III, 6 giugno 2017, Y c. Svizzera, ha respinto il ricorso di un giornalista che aveva pubbli-cato dettagliate informazioni relative ad una vicenda di pedofilia ed era stato condannato ad una pesante pena pecuniaria. An-che qui la Corte ha escluso la violazione della libertà di espressione ritenendo prevalenti gli interessi dei due minori presunte vittime dei reati e riconoscendo così che l’autorità giudiziaria non aveva oltrepassato i margini di apprezzamento a lei ricono-sciuti in questa materia.

50 Filippi, Molte perplessità, cit., p. 158. 51 Così C. Parodi, La delega in tema di intercettazioni, cit., p. 130. 52 Ancora C. Parodi, op. loc. cit.

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le intrusioni che «possono causare pregiudizio alla riservatezza dei testimoni ovvero delle parti private in ordine a fatti che non costituiscono oggetto dell’imputazione» sono ben invocabili, per la fase dibat-timentale, i limiti scaturenti dal combinato disposto degli artt. 472 comma 2 c.p.p. e 114 comma 4 c.p.p.

L’APPESANTIMENTO DEL RITO E LA PROTEZIONE EXTRAPENALE DELLA RISERVATEZZA

Dai principi e criteri direttivi enunciati dalla legge n. 103 del 2017 un dato emerge sicuro. Il Parla-mento non ha ambito impegnarsi a contenere, tramite l’introduzione di nuove fattispecie incriminatrici, la divulgazione delle intercettazioni per così dire ordinarie: lo dimostra il generico divieto di pubblica-zione riferito ai soli risultati forniti dai captatori informatici. La creazione di una fattispecie volta a pu-nire pesantemente la diffusione di riprese audiovisive o la registrazione di conversazioni poste in essere con frode non appare eccentrica rispetto al disegno perseguito dalla riforma. Le modalità con cui l’agente si è procurata la ripresa o la registrazione collocano il prefigurato delitto su un piano disomo-geneo rispetto all’attività svolta dagli organi investigativi.

Anche focalizzando la visuale sulla protezione dei diritti della personalità e non, invece, sul fronte della lotta alle violazioni del segreto investigativo, ha poco costrutto mettere in campo l’art. 684 c.p. quale contravvenzione oblabile discrezionalmente. L’estrema modestia della sanzione pecuniaria non costituisce un deterrente efficace per nessuna testata giornalistica.

Invero, il materiale investigativo raccolto nelle indagini deve servire al processo e solo se adempie a questo compito può divenire oggetto di pubblicazione. Detto altrimenti: il processo non si deve presta-re perché materiale comunque raccolto sia adoperato per consumare la violazione dei diritti umani, ma deve predisporre le condizioni perché, a suo tempo, possa realizzarsi il controllo dell’opinione pubblica sugli atti dotati di effettiva rilevanza processuale. La protezione che le norme processuali in senso stret-to sono in grado di assicurare è efficace perché agisce in via preventiva, potendo elevare apposite bar-riere all’uscita di informazioni dal processo in quanto potenzialmente lesive dei diritti della personalità. L’odierna manovra ha intrapreso questa strada sebbene, al pari di tutte quelle che si dispiegano sul ter-reno del rito, comporti un indubbio accrescimento dell’impegno degli organi giudiziari e delle parti private, talora, peraltro, scarsamente motivate a garantire la riservatezza di soggetti estranei al proces-so. Il vero è che la legge delega si pone tra Scilla e Cariddi. Se il controllo sulle conversazioni intercetta-te sarà effettuato con scrupolo si determinerà un rallentamento delle fase delle indagini preliminari, ponendosi in controtendenza con gli obiettivi perseguiti dalla legge n. 103 del 2017, se, invece, sarà svolto con superficialità, potranno crearsi preoccupanti falle nell’effettività del diritto difesa. In defini-tiva, la protezione della riservatezza e della libertà di stampa sono obiettivi, come si usa dire, sacrosan-ti, ma che restano pur sempre esterni al conseguimento del fine primario: la realizzazione di un proces-so giusto che assolva gli innocenti e condanni i colpevoli.

Nei confronti delle estrinsecazioni dell’informazione giudiziaria che colpiscono la sfera individuale, il nostro ordinamento si va muovendo verso l’esclusione della sanzione penale, quanto meno detentiva, allineandosi così alla tendenza comune agli Stati europei che privilegiano la libertà di manifestazione del pensiero rispetto alla tutela dell’onore in tema sia di informazione giudiziaria sia di critica politica. Si mostra, al riguardo, paradigmatica la depenalizzazione dell’ingiuria disposta dal decreto legislativo 15 gennaio 2016 n. 7, così come, del pari, lo dovrebbe palesare la scelta di punire la diffamazione con la sola pena pecuniaria. Il condizionale è d’obbligo perché, dopo l’approvazione in seconda lettura da par-te della Camera, il testo trasmesso al Senato il 25 giugno 2015 non è stato ancora definitivamente ap-provato. Si è indebolita la spinta impressa dalle reiterate condanne subite dell’Italia davanti alla Corte di Strasburgo 53, mentre, con ogni probabilità, si è avvertita la preoccupazione che il pagamento di san-zioni pecuniarie assai consistenti possano creare insormontabili difficoltà alle testate giornalistiche eco-nomicamente più deboli, compromettendone, persino, la presenza sul mercato.

53 Dapprima la Corte e.d.u., 24 settembre 2013, Belpietro c. Italia, ci ha sanzionati in un caso in cui il direttore di una testata quotidiana era stato condannato a quattro mesi di reclusione per diffamazione perché la pena, pur condizionalmente sospesa, è parsa assumere un “significativo effetto dissuasivo” contrastante con l’art. 10 della Cedu; poco dopo, la Corte e.d.u., 8 ottobre 2013, Ricci c. Italia, ha inflitto al nostro Paese una condanna per la trasmissione di un “fuori onda” che aveva comportato l’ap-plicazione di una pena detentiva, ancorché poi dichiarata estinta per amnistia. Tocca, peraltro, segnalare che la Corte europea non esclude la comminazione di una pena detentiva in ipotesi di diffamazioni di elevata gravità come quelle che incitano all’odio razziale o alla violenza.

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Ragionevoli, dunque, gli orientamenti che giurisprudenza e dottrina più recenti vanno assumendo in ordine ai bisogni di tutela del bene extraprocessuale della riservatezza delle persone rese oggetto dell’attività captativa, tanto che si tratti di soggetti processuali per fatti estranei al tema del procedi-mento quanto di persone coinvolte in maniera del tutto estemporanea.

Alla prima è stato chiesto 54 se, ai fini della tutela risarcitoria da accordarsi in sede civile al privato, integri o no il reato di cui all’art. 684 c.p. la pubblicazione, a carattere circoscritta e marginale, di atti del procedimento penale, ancorché non divulgabili ex art. 114 comma 2. Ebbene, secondo la Suprema Corte nel suo massimo consesso, 55 la fattispecie incriminatrice «integra un reato monoffensivo, posto che obiettivo della norma, prima della conclusione delle indagini preliminari, è quello di non compromette-re il buon andamento delle stesse e, dopo tale momento, di salvaguardare i principi propri del processo accusatorio» (individuati, tra l’altro, nella protezione della virgin mind del giudicante). Da qui la conclu-sione secondo cui «nessuna autonoma pretesa risarcitoria può essere avanzata dalla parte coinvolta nel processo perciò solo che sia stata violata la norma incriminatrice in discorso»: in materia civile domina la distribuzione dell’onere della prova

La seconda concorda. Valorizzando l’apporto offerto dalla giurisprudenza della Corte europea, un’au-trice 56 ha addebitato allo stesso sistema processuale di non aver approntato una congrua tutela alla ri-servatezza dell’imputato; i più 57, negata l’opportunità di creare nuove, più rigorose norme incrimina-trici, si affidano all’apporto fornito dall’elevazione della preparazione culturale dei giornalisti, così da renderli in grado di comprendere appieno il valore degli interessi individuali coinvolti. Si fa pure asse-gnamento sulla puntuale osservanza delle relative regole deontologiche da parte di magistrati, avvocati e, ancora, di giornalisti 58. L’esperienza sembra attestare l’intrinseca debolezza di simili proposte al-l’interno di un assetto complessivo in cui gli organi disciplinari esercitano, come è arcinoto, un’attività di vigilanza di livello assai modesto. La generale previsione dell’art. 115 c.p.p. non si è dimostrata in grado di contrastare, e men che meno di sovvertire, l’andazzo presente. Miglior partito resta quello di adire il giudice civile per i danni alla personalità secondo un approccio risalente, ma sempre più prati-cato come attesta il rigoglioso fiorire della giurisprudenza della Cassazione civile su questi temi.

L’azione in sede civile presenta, però, l’inconveniente di essere esercitata dopo che si è consumata la violazione del diritto alla riservatezza, sicché la mossa si rivela inutile se non, talora, addirittura con-troproducente quando determina una nuova attenzione sulla vicenda da parte dei mass media. Diversa conclusione vale, però, allorquando la sanzione civile, a causa della sua entità, svolga una funzione per così dire preventiva, dissuadendo dalla violazione delle prescrizioni imposte.

Una strada degna di considerazione è quella tracciata in questa direzione dall’art. 4 del decreto legge 22 settembre 2006, n. 259, convertito con modificazioni dalla legge 20 novembre 2006, n. 281: si vieta la pubblicazione del materiale illegalmente formato o acquisito a seguito di interferenze illecite nella vita privata delle persone, al tempo stesso in cui si è ampliata la valenza dell’art. 240 c.p.p., creando una procedura per la distruzione del materiale captato. Diviene così esercitabile un’azione riparatoria nei confronti degli autori, dei direttori responsabili e dell’editore, proponibile da parte di coloro ai quali si riferiscono gli atti e i documenti. La notevole entità delle somme da pagare costituisce una remora effi-cace, tanto più che l’azione prescinde dall’intervento del Garante per la privacy e non chiude la strada all’azione civile per il risarcimento del danno esercitabile anche in sede penale. Nei confronti delle vio-lazioni della riservatezza procurate da intercettazioni processualmente irrilevanti e, al contempo, coin-volgenti dati sensibili l’introduzione di severe sanzioni civili appare soluzione meritevole di essere oggi adeguatamente approfondita 59.

54 Cass., sez I civile, 28 ottobre 2015, n. 22003, in Dir. e giustizia, 29 ottobre 2015. 55 Cass., sez. un. civili, 25 febbraio 2016, n. 3727, in Guida dir., 18, p. 46. 56 R. Casiraghi, Il necessario bilanciamento tra i diritti di conoscenza dell’accusa, alla pubblicità processuale e alla riservatezza, Giuri-

sprudenza europea e processo penale italiano, a cura di A. Balsamo-R.E. Kostoris, Torino, Giappichelli, 2008, p. 207. 57 G. Giostra, Processo penale e mass media, Criminalia, 2007, p. 63; G. Mantovani, op. cit., p. 228; N. Triggiani, Giustizia penale ed

informazione. La pubblicazione di notizie, atti e immagini, Padova, Cedam, 2012, p. 244. 58 Triggiani, op. cit., p. 224 ss. 59 V., per l’opportunità di mutuare la disciplina di un siffatto strumento riparatorio, L. Ludovici, Il danno alla privacy. Le noti-

zie non collegate all’imputazione, in G. Spangher (a cura di), La vittima del processo. I danni da attività processuale penale, Torino, Giappichelli, 2017, p. 349.

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AGGRESSIONI MEDIATICHE ALLA NON PRESUNZIONE DI COLPEVOLEZZA

Posto che le forme di tutela vanno modellate in funzione della mutevole tipologia delle diffusioni mediatiche che ledono interessi di volta in volta diversi, uno specifico esame meritano le aggressioni che provengono dalla diffusione dei talk show: pochi cenni valgono a rammentarne i caratteri, ormai ben conosciuti. Simili spettacoli generano non solo una delocalizzazione del rito, ma producono una sorta di sommaria indagine parallela che culmina in un giudizio nel quale non sono osservate le regole pro-cessuali dell’accertamento, benché si sia osservato come il processo mediatico tenda a «scimmiottare li-turgie e terminologia della giustizia ordinaria» 60. L’anticipazione del giudizio determina effetti pregiu-dizievoli per gli indagati perché nel circo mediatico giudiziario l’esito colpevolista è quello che assicura maggior audience, insieme con un più alto tasso di conformismo sociale. Poiché nel mondo dello spetta-colo non si esprimono dubbi ma si vendono certezze, è ben comprensibile che da quei contesti la pre-sunzione di non colpevolezza sia bandita. Ne deriva che nel processo mediatico la posizione del difen-sore, se presente sul palcoscenico, sia ben più scomoda che nel processo reale: là il professionista può giocare di rimessa e, tuttavia, prevalere, qui è chiamato a fornire lui stesso le prove a discarico e se non vi riesce, subisce una sconfitta tanto più clamorosa perché mediaticamente amplificata.

Il disconoscimento della presunzione di innocenza che consegue ad una diffusione pubblica dei pro-cessi in corso dall’accentuato segno colpevolista è rimasto, per molto tempo, un profilo in ombra, al più assorbito all’interno delle analisi sulla protezione dell’onorabilità individuale, sebbene non fossero mancate puntuali prese di posizione nel senso indicato 61. In tempi più recenti, la forza evocativa della formula costituzionale si è saldata con la maturata consapevolezza del carattere sempre più invasivo assunto dai nuovi scenari mediatici, sicché è parso appropriato invocare una norma di rango costitu-zionale come l’art. 27, comma 2, Cost. Nella duplice dimensione funzionale che si usa attribuire alla presunzione in discorso – regola di trattamento processuale dell’imputato e regola di giudizio per il giudice – non sembrava trovar posto una specifica protezione dell’imputato anche da aggressioni por-tate esternamente, seppur parallelamente, allo svolgimento del processo. L’operazione esegetica è stata perfezionata in una dimensione sociologica: se l’anticipato giudizio di colpevolezza espresso dai mezzi di comunicazione di massa configura una sorta di “gogna mediatica” per l’imputato, è logicamente plausibile ricondurne i mezzi di contrasto nell’ambito tradizionale delle regole di trattamento 62.

Le premesse teoriche si sono irrobustite, fragili restano, però, gli strumenti giuridici per porre termine o, almeno un argine a ciò che i mass media sono adusi diffondere. Un brillante pamphlet 63, illu-strati gli effetti disastrosi sull’amministrazione della giustizia dei talk show televisivi, ha proposto di vietarne la messa in onda almeno fino a quando non venga pronunciata la sentenza di primo grado. Il suggerimento è tanto più invitante per il suo carattere radicale, ma non condivisibile per l’ostacolo costituito dal tenore dell’art. 21, comma 2, Cost. In uno stato liberaldemocratico toccherebbe dimo-strare che nel bilanciamento degli interessi o, se si preferisce, dei principi, prevalga in ogni caso la presunzione di innocenza sulla libertà di manifestazione del pensiero. Soluzioni aprioristicamente proibizioniste non sono praticabili perché la situazione non è affatto confrontabile, ad esempio, con il divieto impartito dal giudice di non procedere alle riprese televisive nei pubblici dibattimenti. Quel che accade nelle aule giudiziarie è assoggettato in via diretta al potere di polizia delle udienze, per usare una terminologia non più impiegata dal vigente codice ma perspicua, mentre quel potere non impera nei salotti mediatici.

60 G. Giostra, Processo penale, cit., p. 59. 61 G. Illuminati, La presunzione d’innocenza dell’imputato, Bologna, Zanichelli, 1979, p. 73 ss. 62 P.P. Paulesu, La presunzione di non colpevolezza dell’imputato, Torino, Giappichelli 2009, p. 159 ss. Individua, invece, una ter-

za implicazione dell’art. 27, comma 2, Cost., P. Ferrua, Principi e regole costituzionali, in P. Ferrua-B. Lavarini, Diritto processuale penale. Appunti per gli studenti di Psicologia, Torino, Giappichelli, 2011, p. 32. Prende decisamente posizione nel senso che la nor-ma in discorso vale anche al di fuori del processo, da ultimo, G. Mantovani, Informazione, presunzione di innocenza e verginità del giudice .L’Italia e l’Europa, in L’informazione giudiziaria in Italia, cit., p. 128, rammentando come la Corte costituzionale, fin dalla sentenza n. 18 del 1966, abbia ravvisato nella pubblicazione di notizie frammentarie, incerte perché non controllate, spesso lesi-ve dell’onore, un contrasto con il principio di non colpevolezza fino alla condanna definitiva.

63 E. Amodio, op. cit., p. 175: le «caratteristiche del format e le spinte derivanti dalla prevalente cultura antigarantista del no-stro paese concorrono a far assumere ai salotti televisivi la funzione di celebrare una giustizia sommaria che ripudia i valori del giusto processo».

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Merita, piuttosto, rimeditare una proposta affacciatasi sulle orme del modello francese. Si allude 64 al suggerimento di prescrivere una congrua riparazione pecuniaria a seguito del mancato rispetto della presunzione. La somma di danaro fungerebbe, per un verso, da ristoro per il danneggiato e, per l’altra, da deterrente economico per gli organi di informazione. Si darebbe vita ad una disciplina avvicinabile a quella introdotta dall’appena rammentato art. 4 del decreto legge 22 settembre 2006, n. 259, convertito con modificazioni dalla legge 20 novembre 2006, n. 281.

Se nei rapporti tra privati è ben sostenibile che anticipati giudizi di colpevolezza, di per sé non inte-granti una lesione dell’onorabilità individuale in quanto riferiti a fatti di interesse pubblico, non debba-no essere penalmente sanzionati, diverse conclusioni valgono quando i giudizi sono espressi da sogget-ti pubblici. Le conferenze stampa tenute da magistrati e da esponenti delle forze di polizia, che sempre più spesso accompagnano la diffusione della notizia di reato, è intesa, per le funzioni adempiute da chi le rilascia, ad informare l’opinione pubblica turbata dal reato, avviando così un percorso catartico, ma, pure, a dimostrare l’elevato grado di efficienza degli apparati repressivi nell’individuazione dei colpe-voli. Tanto meglio, poi, se l’intensità del peana riesce ingigantita dall’esibizione pubblica del materiale sequestrato: la vittoria ha il suo trofeo.

La prassi imperante ha un costo elevato. La conferenza stampa indirizza, fin dall’inizio, i fruitori dei mezzi di comunicazione di massa verso la colpevolezza dell’imputato, ma quel convincimento è desti-nato ad entrare in crisi se il processo si chiude, anche se parecchio tempo dopo, con una sentenza di as-soluzione: da qui un effetto di disorientamento che si produce sull’opinione pubblica. Il fenomeno è stato colto dal Presidente della Corte di cassazione, nella sua Relazione annuale per l’anno 2016 65, quando ha osservato che «la discrasia spazio-temporale tra le ipotesi dell’accusa formulata nelle inda-gini preliminari, il pre-giudizio costruito nel processo mediatico parallelo che si instaura immediata-mente, le ansie securitarie dei cittadini, da un lato, e le conclusioni dell’attività giudiziaria che seguono a distanza di tempo dalle indagini, già di per sé troppo lunghe. In questa contraddizione s’annida il conflitto tra giustizia “attesa” e la giustizia “applicata” con il pernicioso ribaltamento della presunzione di innocenza dell’imputato».

Orbene, il canone dell’art. 27, comma 2, Cost. implica, al pari di altri rapporti civili come il diritto in-violabile di difesa, una valenza di natura oggettiva, accanto ad una di natura soggettiva. Nondimeno, la presunzione assume un significato primario nei confronti della tutela dei diritti individuali piuttosto che nella proiezione per così dire oggettiva. L’anticipata proclamazione di colpevolezza seguita, però, dall’assoluzione dibattimentale dell’imputato certamente arreca un vulnus all’immagine degli apparati investigativi, ma tale valore, anche a volerne riconoscere un certo spessore costituzionale, assume, su quel piano, un peso del tutto secondario.

Il passaggio dall’analisi ai rimedi è percorso accidentato. Secondo l’opinione del Presidente della Corte sono da scartare interventi di tipo gerarchico o disciplinare. Il giudizio è condivisibile. La prima via è stata percorsa dall’art. 5 del decreto legislativo 20 febbraio 2006, n. 106 che ha accentrato «i rappor-ti con gli organi di informazione» in capo al procuratore della Repubblica che li mantiene «personal-mente, ovvero tramite un magistrato dell’ufficio appositamente delegato» 66. Il disegno di evitare forme di personalizzazione e di protagonismo giudiziario tramite lo strumento della verticalizzazione non è andato troppo innanzi. Dapprima, il Consiglio Superiore della magistratura, facendo leva sull’avverbio

64 R.E. Kostoris, Rapporti tra soggetti processuali e mass media, in AA.VV., Processo penale e informazione, Macerata, 2001, p. 115, il quale suggeriva di immettere nel codice civile un art. 10-bis dal seguente tenore «La persona sottoposta ad indagini e l’imputato hanno diritto al rispetto della presunzione di non colpevolezza. Qualora taluno, comunicando con più persone, indichi o pre-senti tali soggetti come colpevoli del reato per cui si procede nei loro confronti, l’autorità giudiziaria, a richiesta dell’interessato, dispone anche attraverso un ordine di rettifica, le misure più opportune per far cessare immediatamente l’abuso. Resta salvo il diritto al risarcimento del danno».

65 G. Canzio, Relazione sull’amministrazione della giustizia nell’anno 2016, reperibile sul sito della Corte Suprema di Cassazione, p. 35.

66 La disposizione così prosegue: «Ogni informazione inerente alle attività della Procura della Repubblica deve essere fornita attribuendola in modo impersonale all’ufficio ed escludendo ogni riferimento ai magistrati assegnatari del procedimento» (com-ma 2); «È fatto divieto ai magistrati della Procura della Repubblica di rilasciare dichiarazioni o fornire notizie agli organi di in-formazione circa l’attività giudiziaria dell’ufficio» (comma 3); «Il Procuratore della Repubblica ha l’obbligo di segnalare al Con-siglio giudiziario, per l’esercizio del potere di vigilanza e di sollecitazione dell’azione disciplinare, le condotte dei magistrati del suo ufficio che siano in contrasto col divieto fissato dal comma 3» (comma 4).

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“appositamente”, ha escluso che i rapporti con i mass media potessero essere gestiti da una pluralità di magistrati, ma in un successivo parere è stata ritenuta legittima una delega permanente rilasciata ai Procuratori aggiunti per le materie di loro competenza 67. Ad ogni modo, è facile riscontrare dalla frui-zione dei mass-media quanto la prassi si discosti spesso dalla regola scritta, benché di recente se ne ri-scontri un maggior rispetto. Anche sul versante della responsabilità disciplinare gli esiti sono deludenti, nonostante sia stata introdotta la tipizzazione, a lungo invocata, degli illeciti disciplinari ad opera del decreto legislativo 23 febbraio 2006, n. 109.

Sarebbe, invece, preferibile creare “finestre di controllo giurisdizionale nelle indagini preliminari”. La proposta si inquadra nella prospettiva codicistica per cui l’intervento del giudice per le indagini pre-liminari garantisce il rispetto dei valori costituzionali all’interno della fase iniziale del procedimento e trova alimento in quella linea riformatrice che da tempo reclama la necessità di controbilanciare i poteri delle parti con il potenziamento delle funzioni del giudice 68. Il suggerimento non sembra, però, sempre efficace per una serie di ragioni. L’attribuzione al giudice per le indagini preliminari di poteri di inter-vento, per essere mossa davvero tempestiva in un contesto mediatico, dovrebbe comportare un’ini-ziativa officiosa che mal si concilia con l’architettura del sistema. A sua volta, la richiesta della difesa interverrebbe dopo che i primi attacchi alla non presunzione di colpevolezza sono stati ormai elevati ed il pregiudizio verificato, ancorché in misura forse ancora contenuta. Alla luce della varietà delle strate-gie processuali escogitabili, si può ipotizzare che la stessa difesa ambisca avviare uno scontro con gli inquirenti sul terreno mediatico, ritenuto potenzialmente più favorevole, sicché mancherebbe l’inte-resse a sollecitare un intervento giudiziale. In simili casi, i pericoli cagionati dal ribaltamento della pre-sunzione costituzionale ad opera dei mezzi di comunicazione di massa verrebbero combattuti sul loro stesso, controverso terreno.

Nondimeno la proposta trova indubbia eco nelle potenzialità normative nascenti da vincoli di natu-ra sovranazionale. Le premesse risalgono ad una nota sentenza della Corte europea che ha condannato la Francia perché, nel corso di una conferenza stampa teletrasmessa quasi in diretta, il Ministro dell’In-terno ed altri pubblici funzionari di grado elevato avevano attribuita come certa, seppure non in qualità di esecutore materiale, la commissione di un omicidio a chi si era, in seguito, rivelato del tutto estraneo al fatto 69. La vicenda ha poi contato al momento della stesura di un libro verde nel 2006 70 e, da ultimo, per l’emissione di una direttiva dell’Unione europea: la n. 2016/343 del 9 marzo 2016. Un recente, pun-tuale esame analitico 71 del tenore della direttiva ne ha messo in luce le potenzialità proprio in ordine al tema ora affrontato.

Chiarito che ci si occupa, come esplicita la rubrica dell’art. 4, dei soli «riferimenti in pubblico della colpevolezza», la direttiva impone agli Stati di «adottare le misure necessarie per garantire che, fino a quando la colpevolezza di un indagato o imputato non sia legalmente provata, le dichiarazioni pubbli-che rilasciate da autorità pubbliche e le decisioni giudiziarie diverse da quelle sulla colpevolezza non presentino la persona come colpevole». Impregiudicati esplicitamente i poteri processuali del pubblico ministero in sede di formulazione dell’accusa (ci mancherebbe altro!), il comma 3 esplicita che l’obbligo imposto «non impedisce alle autorità pubbliche di divulgare informazioni sui procedimenti penali qua-lora ciò sia strettamente necessario per motivi connessi all’indagine penale o per l’interesse pubblico».

L’inevitabile opacità dell’articolato si avvale di una lettura autentica nel considerandum n. 18. Precisa-to che non è interdetto alle autorità pubbliche di divulgare informazioni «qualora ciò sia strettamente necessario per motivi connessi alle indagini penali […] o per l’interesse pubblico», si adducono esempi che fanno intendere gli obiettivi perseguiti. La trasmissione di video per aiutare l’individuazione dell’autore del reato o di informazioni da diffondersi tra gli abitanti della zona nel caso di reati ambien-tali o, ancora, «per prevenire turbative dell’ordine pubblico» forniscono inequivoche indicazioni nel senso di una lettura restrittiva delle deroghe, tanto più che, «in ogni caso, le modalità e il contesto di

67 Quest’aspetto è diffusamente esaminato da G. Mantovani, Informazione giustizia, cit., p. 315 ss. 68 V., per tutti, E. Amodio, La procedura penale dal rito inquisitorio al giusto processo, in Cass. pen., 2003, p. 1422. 69 Corte e.d.u., 10 febbraio 1995, Allenet de Ribemont c. Francia. 70 Cfr. C. Valentini, La presunzione d’innocenza nella Direttiva n. 216/343/UE: per aspera ad astra, in questa Rivista, 2016, 6, p.

193. 71 C. Valentini, La presunzione d’innocenza, cit., pp. 195-199, secondo la quale la parte dedicata ai rapporti con i mass media sia

l’unica in grado di provocare effettivi mutamenti nel nostro sistema processuale.

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divulgazione delle informazioni non dovrebbero dare l’impressione della colpevolezza dell’interessato prima che questa sia stata legalmente provata».

Alla luce di questi spunti testuali vanno apprezzate le conclusioni cui perviene l’analisi poc’anzi rammentata. Sarebbe errato sostenere che esulerebbero dalla portata dell’art. 4 le divulgazioni non ac-compagnate da dichiarazioni perché si urterebbe con il tenore del comma 3 in quanto, al di fuori delle esigenze scaturenti dai motivi «connessi all’indagine penale o per l’interesse pubblico», sarebbe pro-scritta non solo la dichiarazione resa in pubblico ma, altresì, la semplice divulgazione degli atti del pro-cedimento penale. In effetti, bisogna convenire che l’uso di due diverse espressioni nei due commi – “dichiarazioni” prima, “divulgazioni” poi – apre la strada ad una ricostruzione dei rapporti tra proces-so e mass media il cui assetto non sia demandato alle esclusive strategie investigative del pubblico mini-stero.

Il tema è ancora affrontato dall’art. 5 dove si vuole assicurare, con misure idonee, che «gli indagati e gli imputati non siano presentati come colpevoli in tribunale o in pubblico, attraverso il ricorso a misu-re di coercizione fisica». Il nostro legislatore, fin dal 1999, ha avvertito l’esigenza di proteggere la digni-tà della persona umana da simili aggressioni, pure, si noti, se vi è già stata condanna definitiva, muo-vendosi, quindi, in una prospettiva più ampia di quella considerata dalla direttiva europea. Inequivoco è il tenore dell’art. 114 comma 6-bis c.p.p che interdice «la pubblicazione dell’immagine di persone pri-vate della libertà personale mentre la stessa si trova sottoposta all’uso di manette ai polsi ovvero ad al-tro mezzo di coercizione fisica, salvo che la persona vi consenta» 72.

L’apprezzamento per la lungimiranza del nostro ordinamento non fa, però, velo alla consapevolezza che la mancata introduzione di specifiche sanzioni immiserisce la tutela apprestata dal codice di rito. Invero, la violazione del divieto non è coperta in sede penale dal pur blando art. 684 c.p., ma solo, se del caso, in sede disciplinare dal residuale art. 115 c.p.p. È bilancio amaro constatare che la scarsa osser-vanza sostanziale della norma – ci si limita ad oscurare le manette, ad esempio, mercé opportuni accor-gimenti tecnologici – è inversamente proporzionale all’impegno che la dottrina italiana aveva profuso nell’esplorare le valenze sistematiche della manovra legislativa effettuata ormai quasi vent’anni fa.

Al di là di singoli aspetti, il vero è che l’art. 114 c.p.p. non funge da sede appropriata per dare attua-zione alla Direttiva europea, sicché l’occasione potrebbe essere propizia per rivisitare un assetto norma-tivo ormai desueto. In tal senso spinge anche l’art. 10, comma 1, della Direttiva, laddove impone agli Stati membri di provvedere «affinché gli indagati e imputati dispongano di un ricorso effettivo in caso di violazione dei diritti conferiti dalla presente direttiva». Dal raffronto con il comma successivo emer-ge che la trasgressione mediatica della presunzione, non essendovi rammentata, è ritenuta improdutti-va di conseguenze sulla sorte del rito, a differenza di quanto è espressamente statuito a proposito della valutazione delle dichiarazioni rese dall’imputato o delle prove raccolte violando il diritto al silenzio o, ancora, del diritto a non autoincriminarsi. Ciò significa che la tutela è apprestata solo in via preventiva rispetto alla sentenza talché, una volta che questa è stata emessa, la garanzia parrebbe esaurita. Non è così. Il considerandum n. 44 precisa, usando una formula generica, che il ricorso è volto a «porre l’in-dagato o imputato nella posizione in cui questi si sarebbe trovato se la violazione non si fosse verificata, così da salvaguardare il diritto a un equo processo e i diritti della difesa». A seguito di un ricorso vitto-rioso, si potrebbero delineare scenari inusuali se la difesa potesse ottenere la convocazione di una con-ferenza stampa per smentire quanto il pubblico funzionario aveva annunciato. In sostanza, la seconda conferenza stampa fungerebbe alla stregua di una rettifica rispetto alla prima, ma si genererebbe un in-dubbio sconcerto nell’opinione pubblica con un effetto delegittimante sull’azione degli organi investi-gativi. Una proposta in tal senso non è, allo stato, praticabile, ma certo è che adempirebbe compiuta-mente alla direttiva europea.

AGGRESSIONI MEDIATICHE ALL’IMPARZIALITÀ DEL GIUDICE

Viene, infine, in considerazione una tematica prossima, ma concettualmente e costituzionalmente distinta dalla rappresentazione mediatica dell’imputato come colpevole. Ci si riferisce ai sempre più

72 La dottrina ritiene che la norma introdotta, accanto alla tutela della dignità umana, tuteli in via primaria, tra gli interessi costituzionali intra-processuali, la presunzione di non colpevolezza dell’imputato: cfr. P. Paulesu, op. cit., p. 173, nonché; G. Mantovani, op. cit., p. 438, N. Triggiani, op. cit., p. 128.

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pervasivi attentati che si commettono attraverso i mezzi di comunicazione di massa nei confronti dell’imparzialità degli organi giudicanti. Il dato sociologico è sotto gli occhi di tutti: sta prendendo pie-de la trasmissione di riprese audiovisive, o anche solo audio, fornite alle emittenti dalla polizia giudi-ziaria e prodotte vuoi da un’apposita attività intercettativa procedimentale, vuoi dalla registrazione au-tomatica effettuata da apparecchiature di video sorveglianza a seguito del sequestro dei relativi nastri, vuoi, ancora, perché le stesse forze di polizia hanno effettuato le riprese in fase di esecuzione di un atto processuale, ad esempio, una perquisizione. La divulgazione proviene da una fonte di informazione ac-creditata per la sua autorevolezza perché compare, ben visibile quale marchio di paternità, il logo della forza di polizia che ha effettuato le riprese o che, comunque, ne è venuta in possesso. Entro certi limiti, tutto ciò rientra nell’ambito dell’attività autopromozionale, accostabile alle conferenze stampa di cui si è poc’anzi detto, altre volte, invece, gli stessi operatori della polizia giudiziaria procedono, per accresce-re l’efficacia mediatica delle trasmissioni, ad un vero e proprio montaggio delle riprese. È merito del rammentato libro bianco sui rapporti tra mezzi di comunicazione di massa e processo penale di aver segnalato alcune vicende giudiziarie in cui si sono registrate manipolazioni mediatiche 73 che rappre-sentano oggi l’ultima, estrema frontiera dell’interferenze dei media nel processo penale.

La varietà dei casi registrati (e delle ipotesi ulteriori prospettabili) pretenderebbe un’analisi parcellizzata. Non stanno sullo stesso piano la trasmissione televisiva di un’attività svoltasi in pubblico (un arresto in fla-granza avvenuto in una piazza), che è tendenzialmente estranea alla sfera operativa dell’art. 114 c.p.p., dove non ci si occupa di meri fatti, e la trasmissione, avvenuta nel corso della fase delle indagini preliminari, della riproduzione audiovisiva di un atto probatorio (il video di una perquisizione effettuata nel domicilio dell’indagato) che è, invece, interdetta dal codice di rito. In via di prima approssimazione, si considera qui la diffusione mediatica, priva di alcuna manipolazione nel montaggio delle riprese, dei dati relativi ad una prova prima che la stessa sia formalmente acquisita nel contesto dell’udienza dibattimentale.

Come sappiamo, evitare che il convincimento del giudice possa essere alterato dalla prematura cono-scenza del testo dell’atto, così come documentato nella fase delle indagini preliminari, è obiettivo perseguito dai compilatori del codice che avevano di mira la tutela del libero convincimento del giudice dibattimentale o, se si preferisce l’espressione, la sua indipendenza psicologica o, ancora, la sua virgin mind. L’obiettivo per-seguito si poneva, del resto, in piena consonanza con la Corte costituzionale quando, fin dagli anni sessanta, aveva ravvisato nella protezione dell’«interesse all’imparzialità della pronuncia ed all’indipendenza del giudice» un valore che ben poteva essere assicurato «vietando la pubblicazione a mezzo stampa di notizie» relative ad un dibattimento svoltosi a porte chiuse 74. Il ragionamento era condotto a proposito delle dichiara-zioni testimoniali, ma la medesima esigenza ben si raffigura nell’anticipata diffusione, magari decontestualiz-zata, della registrazione di conversazioni telefoniche non ancora sottoposte al vaglio del contraddittorio.

Le cadenze sono analoghe a quelle segnalate a proposito della valenza dell’art. 27, comma 2, Cost.: le analisi generali sull’imparzialità del giudice poco spazio dedicano al pregiudizio derivante dai mezzi di comunicazione di massa, per contro, gli studiosi del processo penale convengono che le valutazioni dei giudici, specie di quelli popolari, possono essere alterate dall’anticipata diffusione mediatica, tanto più se poco fedele, del materiale probatorio. La consacrazione costituzionale dell’imparzialità da parte dell’art. 111, comma 2, Cost. – benché la si sia sempre ritenuta connaturata alla funzione giurisdizionale – ha, senza ombra di dubbio, accresciuto l’attrazione verso il tema senza che si sia giunti, però, ad una convergenza ricostruttiva. Stante la natura circolare dell’informazione ha, tuttavia, scarso significato di-stinguere tra il pregiudizio derivante, per via diretta, sul giudice, in quanto anch’egli fruitore dei mezzi di informazione di massa, o quello derivante, per via indiretta, a seguito dei condizionamenti prove-nienti dall’opinione pubblica sul giudice stesso.

Controversi sono gli effetti del potenziale pregiudizio. A prima vista, parrebbe invocabile la rimes-sione dei procedimenti trattandosi, per l’appunto, di un istituto operante in via preventiva. Così non è. La vigente formula normativa ruota attorno a “gravi situazioni locali” le quali si rivelino capaci di “tur-bare lo svolgimento del processo” e che non siano “altrimenti evitabili”: solo ricorrendo questi presup-posti è invocabile il “legittimo sospetto”. Le trasmissioni televisive prese in considerazione, riferendosi,

73 Tra tutte, Il furgone di Bossetti e le strategie mediatiche del nuovo circo giudiziario, nonché Petrelli, Introduzione, L’informazione giudiziaria, cit., rispettivamente, p. 171 ss. e p. 11.

74 Corte cost., sent., 14 aprile 1965, n. 25, in Giur. cost., 1965, p. 241, aveva dichiarato l’illegittimità costituzionale, per contra-sto con l’art. 21 Cost., dell’art. 164 n. 3 c.p.p. 1930 limitatamente alle ipotesi di dibattimento tenuto a porte chiuse perché la pub-blicità «può eccitare riprovevole curiosità» o «per ragioni di pubblica igiene».

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per definizione, a procedimenti che hanno assunto (o assumono, per effetto di ciò solo) un ampio inte-resse pubblico, non sono inquadrabili in una dimensione locale. Il pregiudizio varrebbe per tutti i giu-dici che dalla visione e dall’ascolto delle trasmissioni potrebbero essere influenzati nel loro convinci-mento. Ma anche a voler ipotizzare che il turbamento permanga davvero in ambito locale, magari per-ché si discorre di un’emittente dalla modesta diffusione, ci si dovrebbe misurare con una giurispruden-za che ha manifestato sul punto atteggiamenti di netta chiusura: si pensi all’affermazione secondo cui i motivi debbono integrare l’effetto di quelle situazioni in termini di un «pericolo concreto di non impar-zialità del giudice» 75. Di fronte ad un quadro normativo e giurisprudenziale di tal fatta si comprende perché la dottrina più recente sostenga che «l’impraticabilità della rimessione risponde ad un principio generale di necessaria adeguatezza del mezzo allo scopo» 76.

Far leva poi su una fattispecie di invalidità è soluzione non percorribile in prima battuta. I lavori preparatori spiegano, ancora una volta, il silenzio mantenuto dal codice: da un canto, la legge delega non aveva conferito poteri in ambito sostanziale e, quindi, neppure quello di modificare l’art. 684 c.p., dall’altro, «la previsione di una sanzione processuale è apparsa impraticabile potendo essa comportare conseguenze pregiudizievoli per le parti e soggetti estranei alla violazione e, viceversa, conseguenze favorevoli per lo stesso responsabile dell’illecito» 77. In sostanza, è venuta alla ribalta ed ha prevalso la preoccupazione che la difesa dell’imputato, magari economicamente assai agguerrita, potesse esperire contromosse manipolative sul terreno mediatico.

Generoso è il tentativo, svolto proprio su queste pagine 78, di ravvisare l’inutilizzabilità delle intercet-tazioni telefoniche quale effetto della violazione della regola che vuole che il giudice conosca il materia-le probatorio tramite la relativa formazione nel contesto dibattimentale e non già a seguito della viola-zione delle regole poste dall’art. 114 c.p.p. Il ragionamento ha il pregio di legare la violazione del regi-me di conoscenza alle sorti del rito, ma entra in tensione con i canoni maggiormente correnti nel nostro sistema. Non è, infatti, dimostrato che esista un nesso causale tra i due profili come potrebbe sostenersi a proposito del sequestro effettuato a seguito di una perquisizione illegittima. La tesi, seppure minori-taria 79, che ravvisa, a causa dell’illiceità penale dell’attività posta in essere dal perquirente, l’inutiliz-zabilità della prova e, quindi, l’insequestrabilità del bene reperito, può far leva, quanto meno, sulla teo-ria della condicio sine qua non: senza la perquisizione illegittima, quel sequestro non avrebbe avuto sicu-ramente luogo. Nel caso che si prospetta, la prova, invece, potrà essere ritualmente acquisita nel conte-sto dell’udienza dibattimentale, previa l’effettuazione della perizia trascrittiva . Toccherebbe, a tal pun-to, dimostrare che il giudice abbia fondato il suo convincimento sulla base non della prova acquisita nel giudizio, bensì su quanto egli ha appreso dalla fruizione dei mezzi di comunicazione di massa, nella specie dalla televisione. Ma una siffatta prova sarebbe davvero diabolica, a meno di un’incredibile dé-faillance in sede motivazionale.

A quel che si apprende, il Tribunale di Roma, investito della questione circa l’invalidità delle intercetta-zioni già oggetto di diffusione mediatica si è mosso entro schemi tradizionali, escludendo che tra le “prove acquisite in violazione dei divieti stabiliti dalla legge” possano collocarsi quelle riguardanti i divieti di pub-blicazione degli atti. La preoccupazione che possano essere praticate mosse manipolative ha indotto a ripie-gare su un apparato sanzionatorio esterno al processo, in particolare sulla responsabilità disciplinare ex art. 115. c.p.p., ma una siffatta soluzione sappiamo come sia estremamente debole alla prova dei fatti.

Al di là dell’esito negativo sortito nel caso di specie, la questione sollevata mette bene a fuoco una prassi mediatica pericolosa perché suscettibile di provocare un reale pregiudizio all’imparzialità del giudice. Per il momento, la questione non può che essere affrontata attraverso uno scrupoloso esercizio dei poteri di controllo che i pubblici ministeri esercitano sugli organi di polizia giudiziaria e che i capi degli uffici pongono in essere, a loro volta, sui loro sostituti. Forse non sarebbe fuori luogo, in attesa di congrue modifiche legislative, la creazione di buone regole in ordine a questo profilo, così come si è provato a fare per la tutela della riservatezza. Chissà che qualcosa si muova.

75 Cass., sez. un., 27 gennaio 2003, Berlusconi, in Cass.pen., 2003, p. 2163. 76 G. Mantovani, op. cit., p. 269. 77 Progetto preliminare, loc. cit. 78 C. Intrieri-F. Piqué, La tutela del segreto esterno: “virgin mind” del giudice e nuovi media, in questa Rivista, 2016, 6, p. 156 ss. 79 Come si sa la tesi dominante è espressa da Cass., sez. un., 27 marzo 1996, Sala, in Foro it., 1996, II, p. 473.

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INDICI

Indici | Index

AUTORI / AUTHORS

Enrico Mario Ambrosetti La riforma Orlando: profili di diritto penale sostanziale / The Orlando reform: aspects of substantive criminal law 1056

Fabio Cassibba Disorientamenti giurisprudenziali in tema di ne bis in idem e “doppio binario” sanzionatorio / Diso-riented Case-law about ne bis in idem and dual proceedings 1097

Elena Maria Catalano I confini operativi della regola di giudizio incarnata dal paradigma bard / Worrying developments in the current debate over the bard rule 973

Claudia Cavaliere Il revirement della Corte di cassazione in merito alla valutazione degli “altri atti del processo”. A proposito del novellato art. 606 c.p.p. / The Court of cassation revirement about the rating of “the other process acts”. The new art. 606 c.p.p. 1012

Marilena Colamussi De jure condendo 985

Paola Corvi Decisioni in contrasto 1006

Giorgio Crepaldi Corti europee / European Courts 988

Pierpaolo Dell’Anno Le tre deleghe sulla riforma processuale introdotte dalla legge n. 103 del 2017 / The three legis-lative delegations concerning criminal justice provided by the Law no. 103/2017 1084

Rosa Gaia Grassia Sezioni Unite 999

Elisa Lorenzetto Processo penale e legge n. 103 del 2017: la riforma che non c’è / Criminal process: the inexistent reform 1067

Federico Lucariello Il diritto dell’amministratore di una società fallita di presentare querela / About the competence of the company’s director of a failed trading company to file a complaint 1023

Giuseppe Magliocca Attività lavorativa e giudizio prognostico finalizzato alla concessione dell’affidamento in pro-va / Employment and prognostic judgment in the probation system 1050

Francesca Manfredini Novità sovranazionali / Supranational news 980

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INDICI

Wanda Nocerino Corte costituzionale 995

Gianrico Ranaldi Il ricorso straordinario per errore di fatto: un rimedio giuridico processuale oramai generaliz-zato per far valere gli errori percettivi / The extraordinary appeal for factual error: a processual re-medy by now common to complaint against perceptual mistakes 1041

Giovanni Paolo Voena Processo penale e mezzi di comunicazione di massa: un instabile stato dell’arte / Criminal trial and the mass media: an unsettled state of the art 1113

PROVVEDIMENTI / MEASURES

Corte costituzionale

C. cost., sent. 17 luglio 2017, n. 206 995 C. cost., sent. 17 luglio 2017, n. 208 997

Corte di Cassazione – Sezioni Unite penali sentenza 17 marzo 2017, n. 13199 1032 sentenza 31 agosto 2017, n. 39746 999 sentenza 7 settembre 2017, n. 40963 1000 sentenza 15 settembre 2017, n. 42043 1002 sentenza 18 settembre 2017, n. 42361 1004

Corte di Cassazione – Sezioni semplici Sezione I, sentenza 10 gennaio 2017, n. 19637 1047 Sezione III, sentenza 9 giugno 2017, n. 28697 1009 Sezione V, sentenza 9 giugno 2017, n. 28746 1022

Decisioni in contrasto Sezione II, sentenza 7 settembre 2017, n. 40855 1007 Sezione VI, sentenza 13 settembre 2017, n. 41783 1006

Corte europea dei diritti dell’uomo Corte e.d.u., 13 luglio 2017, Shuli c. Grecia 988 Corte e.d.u., 13 luglio 2017, Nikolay genov c. Bulgaria 993 Corte e.d.u., 18 luglio 2017, Sklyar c. Russia 991

Atti sovranazionali Rapporto del Comitato del Consiglio d’Europa per la prevenzione della tortura e delle pe-ne o trattamenti inumani o degradanti (CPT) diretto allo Stato italiano (novembre 2016) 980

De jure condendo Disegno di legge C. 4568 «Modifiche agli articoli 380, 381 e 383 del codice di procedura penale, in materia di arresto in flagranza per il delitto di violazione di domicilio» 987 Disegno di legge C. 4590 «Modifiche all’articolo 444 del codice di procedura penale, in materia di ap-plicazione della pena su richiesta» 985 Disegno di legge C. 4606 «Modifica all’art. 162-ter del codice penale, in materia di estinzione del reato per condotte riparatorie» 986

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MATERIE / TOPICS

Applicazione della pena su richiesta delle parti Nuovi limiti all’applicazione della pena su richiesta delle parti (D.d.l. C. 4590 «Modifiche

all’articolo 444 del codice di procedura penale, in materia di applicazione della pena su richiesta») 985

Assenza L’assenza dell’arrestato in udienza non impedisce la convalida dell’arresto e il contestuale

giudizio direttissimo (Cass., sez. VI, 13 settembre 2017, n. 41783) 1006

Competenza

– per materia Reati attribuiti alla Procura distrettuale: il Tribunale, con sentenza dichiarativa di incompe-

tenza per materia, deve trasmettere gli atti direttamente al giudice ritenuto competente e non al pubblico ministero (Cass., sez. un., 31 agosto 2017, n. 39746) 999

Condizioni di procedibilità

– querela Il diritto di presentare querela nell’interesse della società fallita (Cass., sez. V, 9 giugno 2017,

n. 28746), con nota di Federico Lucariello 1022

Dibattimento

– contestazioni (nuove) Il progressivo scardinamento dei termini perentori per l’accesso ai riti premiali a seguito di

nuove contestazioni “fisiologiche” (C. cost., sent. 17 luglio 2017, n. 206) 995

– formula bard (oltre ogni ragionevole dubbio) I confini operativi della regola di giudizio incarnata dal paradigma bard / Worrying deve-

lopments in the current debate over the bard rule, di Elena Maria Catalano 973 Processo penale e mezzi di comunicazione di massa: un instabile stato dell’arte / Criminal

trial and the mass media: an unsettled state of the art, di Giovanni Paolo Voena 1113

Diritti fondamentali (tutela dei) Il rapporto del Comitato europeo per la prevenzione della tortura (CPT) destinato al Go-

verno italiano [Rapporto del Comitato del Consiglio d’Europa per la prevenzione della tortura e delle pene o trattamenti inumani o degradanti (CPT) diretto allo Stato italiano (novembre 2016)] 980

Diritto processuale penale (novità legislative) La riforma Orlando: profili di diritto penale sostanziale / The Orlando reform: aspects of sub-

stantive criminal law, di Enrico Maria Ambrosetti 1056 Le tre deleghe sulla riforma processuale introdotte dalla legge n. 103 del 2017 / The three

legislative delegations concerning criminal justice provided by the Law no. 103/2017, di Pierpaolo Dell’Anno 1084

Processo penale e legge n. 103 del 2017: la riforma che non c’è / Criminal process: the inexi-stent reform, di Elisa Lorenzetto 1067

Estinzione (del reato) Ripensamenti in tema di “estinzione del reato per condotte riparatorie” / (D.d.l. C. 4606 «Mo-

difica all’art. 162-ter del codice penale, in materia di estinzione del reato per condotte riparatorie») 986 Giudizio direttissimo L’assenza dell’arrestato in udienza non impedisce la convalida dell’arresto e il contestuale

giudizio direttissimo (Cass., sez. VI, 13 settembre 2017, n. 41783) 1006

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Impugnazioni de libertate

– riesame Ordinanza del Tribunale del riesame di conferma del sequestro probatorio di un computer:

è ammissibile il ricorso per cassazione se risulta la restituzione previa estrazione di copia dei dati e vi sia interesse all’esclusiva disponibilità di essi (Cass., sez. un., 7 settembre 2017, n. 40963) 1000

Incapacità L’irreversibile incapacità del proposto non sospende l’applicazione della misura di preven-

zione patrimoniale (C. cost., sent. 17 luglio 2017, n. 208) 997 Mezzi di ricerca della prova

– sequestro probatorio Ordinanza del Tribunale del riesame di conferma del sequestro probatorio di un computer:

è ammissibile il ricorso per cassazione se risulta la restituzione previa estrazione di copia dei dati e vi sia interesse all’esclusiva disponibilità di essi (Cass., sez. un., 7 settembre 2017, n. 40963) 1000

Misure cautelari personali Ordinanza del Tribunale del riesame di conferma del sequestro probatorio di un computer:

è ammissibile il ricorso per cassazione se risulta la restituzione previa estrazione di copia dei dati e vi sia interesse all’esclusiva disponibilità di essi (Cass., sez. un., 7 settembre 2017, n. 40963) 1000

Misure di prevenzione

– patrimoniali L’irreversibile incapacità del proposto non sospende l’applicazione della misura di preven-

zione patrimoniale (C. cost., sent. 17 luglio 2017, n. 208) 997 Misure pre-cautelari

– arresto in flagranza Ampliata la facoltà di arresto in flagranza dei privati per potenziare l’autotutela e la sicu-

rezza sociale (D.d.l. C. 4568 «Modifiche agli articoli 380, 381 e 383 del codice di procedura penale, in materia di arresto in flagranza per il delitto di violazione di domicilio») 987

– convalida L’assenza dell’arrestato in udienza non impedisce la convalida dell’arresto e il contestuale

giudizio direttissimo (Cass., sez. VI, 13 settembre 2017, n. 41783) 1006 Ne bis in idem Disorientamenti giurisprudenziali in tema di ne bis in idem e “doppio binario” sanzionato-

rio / Disoriented Case-law about ne bis in idem and dual proceedings 1097 Ordinamento penitenziario

– OPG e REMS Il rapporto del Comitato europeo per la prevenzione della tortura (CPT) destinato al Go-

verno italiano [Rapporto del Comitato del Consiglio d’Europa per la prevenzione della tortura e delle pene o trattamenti inumani o degradanti (CPT) diretto allo Stato italiano (novembre 2016)] 980

– affidamento in prova al servizio sociale Disponibilità di un’attività lavorativa ed accesso all’affidamento in prova (Cass., sez. I, 10

gennaio 2017, n. 19637), con nota di Giuseppe Magliocca 1040

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Parti

– parte civile L’assenza dell’arrestato in udienza non impedisce la convalida dell’arresto e il contestuale

giudizio direttissimo (Cass., sez. VI, 13 settembre 2017, n. 41783) 1006 Processo penale

– equo processo Diritto ad un equo processo – relatività oggettiva (Corte e.d.u., 13 luglio 2017, Shuli c. Grecia) 988 Diritto ad un equo processo – relatività soggettiva del diritto (Corte e.d.u., 18 luglio 2017,

Sklyar c. Russia) 988 Pubblico ministero

– Procura distrettuale (competenza) Reati attribuiti alla Procura distrettuale: il Tribunale, con sentenza dichiarativa di incompe-

tenza per materia, deve trasmettere gli atti direttamente al giudice ritenuto competente e non al pubblico ministero (Cass., sez. un., 31 agosto 2017, n. 39746) 999

Revisione Il ricorso straordinario per errore di fatto ed il giudizio di revisione: quali ambiti applicati-

vi? (Cass., sez. un., 17 marzo 2017, n. 13199), con nota di Gianrico Ranaldi 1032 Ricorso per cassazione

– ammissibilità Ordinanza del Tribunale del riesame di conferma del sequestro probatorio di un computer:

è ammissibile il ricorso per cassazione se risulta la restituzione previa estrazione di copia dei dati e vi sia interesse all’esclusiva disponibilità di essi (Cass., sez. un., 7 settembre 2017, n. 40963) 1000

Il giudice di legittimità può valutare gli “altri atti del processo” a contenuto probatorio (Cass., sez. III, 9 giugno 2017, n. 28697), con nota di Claudia Cavaliere 1009

L’assenza dell’arrestato in udienza non impedisce la convalida dell’arresto e il contestuale giudizio direttissimo (Cass., sez. VI, 13 settembre 2017, n. 41783) 1006

Ricorso straordinario

– per errore di fatto Il ricorso straordinario per errore di fatto ed il giudizio di revisione: quali ambiti applicati-

vi? (Cass., sez. un., 17 marzo 2017, n. 13199), con nota di Gianrico Ranaldi 1032 Riti speciali Il progressivo scardinamento dei termini perentori per l’accesso ai riti premiali a seguito di

nuove contestazioni “fisiologiche” (C. cost., sent. 17 luglio 2017, n. 206) 995 Sentenza

– deposito Sospensione feriale e deposito della sentenza penale: il taglio alle ferie dei magistrati non

giustifica uno slittamento dei termini per la redazione delle sentenze (Cass., sez. un., 18 set-tembre 2017, n. 42361) 1004

Spese processuali La liquidazione delle spese processuali della parte civile non intervenuta in udienza nel

giudizio di legittimità (Cass., sez. II, 7 settembre 2017, n. 40855) 1007

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Processo penale e giustizia n. 6 | 2017 1138

 

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Termini

– perentori Il progressivo scardinamento dei termini perentori per l’accesso ai riti premiali a seguito di

nuove contestazioni “fisiologiche” (C. cost., sent. 17 luglio 2017, n. 206) 995

– restituzione nei Istanza di restituzione nel termine ai sensi dell’art. 175, comma 2 bis, c.p.p. a mezzo del ser-

vizio postale: la verifica della tempestività deve fare riferimento alla data di invio e non di ricezione dell’atto (Cass., sez. un., 15 settembre 2017, n. 42043) 1002

– sospensione feriale Sospensione feriale e deposito della sentenza penale: il taglio alle ferie dei magistrati non

giustifica uno slittamento dei termini per la redazione delle sentenze (Cass., sez. un., 18 set-tembre 2017, n. 42361) 1004