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La letteratura Il Trecento Dante Alighieri l Tanto gentile e tanto onesta pare Vai l Il conte Ugolino Vai Francesco Petrarca l Voi ch’ascoltate Vai Giovanni Boccaccio l Calandrino lapidato* Vai Il Quattrocento e il Cinquecento Torquato Tasso l Ecco sparir le stelle e spirar l’aura Vai Il Seicento e il Settecento Giuseppe Parini l Il risveglio del giovin signore Vai L’Ottocento Ugo Foscolo l In morte del fratello Giovanni Vai Alessandro Manzoni l Adelchi Vai Giacomo Leopardi l La sera del dì di festa Vai Giosue Carducci l Nevicata Vai Giovanni Verga l La roba Vai Tra Otto e Novecento Giovanni Pascoli l La cavalla storna Vai Luigi Pirandello l La giara Vai * L’Editore non è riuscito a individuare gli aventi diritto, ed è disponibile alla corresponsione dell’equo compenso di norma.

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La letteraturaIl Trecento

Dante Alighieri l Tanto gentile e tanto onesta pare Vai ���

l Il conte Ugolino Vai ���Francesco Petrarca l Voi ch’ascoltate Vai ���

Giovanni Boccaccio l Calandrino lapidato* Vai ���

Il Quattrocento e il Cinquecento

Torquato Tasso l Ecco sparir le stelle e spirar l’aura Vai ���

Il Seicento e il Settecento

Giuseppe Parini l Il risveglio del giovin signore Vai ���

L’Ottocento

Ugo Foscolo l In morte del fratello Giovanni Vai ���Alessandro Manzoni l Adelchi Vai ���

Giacomo Leopardi l La sera del dì di festa Vai ���Giosue Carducci l Nevicata Vai ���Giovanni Verga l La roba Vai ���

Tra Otto e Novecento

Giovanni Pascoli l La cavalla storna Vai ���Luigi Pirandello l La giara Vai ���

* L’Editore non è riuscito a individuare gli aventi diritto, ed èdisponibile alla corresponsione dell’equo compenso di norma.

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L’autoreDante Alighieri è uno dei più grandi geni della let-teratura di tutti i tempi. Nacque a Firenze nel 1265 da una famiglia dellapiccola nobiltà decaduta in seguito alle lotte poli-tiche interne al Comune fiorentino. Nonostante ledifficoltà economiche ebbe un’educazione raffi-nata, da cavaliere, gentiluomo e letterato.In gioventù fu amico di alcuni poeti, tra cui il suoconcittadino Guido Cavalcanti, e compose versi,rime e poemetti seguendo i dettami dello Stil Novo:l’idealizzazione della donna, paragonata a un angelo,e la celebrazione dell’amore puro e disinteressatocome suprema virtù.Nel 1285 sposò Gemma Donati, da cui ebbe tre figli.Per l’esperienza umana e artistica del poeta fu fon-damentale l’incontro con Beatrice, una giovanedonna di Firenze che gli studiosi hanno identificatoin Bice di Folco Portinari, andata sposa a Simone deiBardi e morta a ventiquattro anni nel 1290. Dante lededicò la Vita nuova (1293-95), in cui rievoca, in versie in prosa, la figura della donna, l’amore spiritualeper lei, il disorientamento seguito alla sua morte.A partire dal 1295 Dante prese parte alla vita poli-tica fiorentina, allora lacerata da contrasti traopposte fazioni. Nel 1301 prese il potere il partito politico avverso aDante. A carico del poeta fu montata un’accusa dibaratteria, cioè corruzione in atti pubblici, cui seguìla condanna al pagamento di una forte multa. Danterifiutò di dichiararsi colpevole e di versare l’ammenda,per cui la sentenza fu tramutata in condanna al rogo.Dante, che in quel momento si trovava fuori Firenze,non mise mai più piede nella sua città. Da allora condusse vita da esule, soggiornandopresso diverse corti italiane, dove era ospitato comeletterato e diplomatico.Nel 1321 morì di malaria a Ravenna, dove è tuttorasepolto.

L’operaLa sua fama di poeta è legata ad alcune impor-tanti opere: il De vulgari eloquentia, in latino, doveespone le sue convinzioni sulla validità letterariadella lingua volgare; il Convivio, in volgare, unasorta di enciclopedia del sapere dell’epoca; il Demonarchia, un trattato in latino in cui esprime isuoi ideali politici.Negli anni dell’esilio, a partire dal 1308, composela Commedia, chiamata Divina solo in seguito: unpoema didascalico-allegorico nel quale, immagi-nando di compiere un viaggio attraverso i tre regniultraterreni, Dante rappresenta simbolicamente ilcammino dell’uomo verso la salvezza eterna. Nelpoema compare nuovamente la figura di Beatricecon il ruolo di spirito beato, guida di Dante nei cielidel Paradiso.

Dante Alighieri

Dante Alighieri.

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Questa poesia è un sonetto, un componimento che appartiene alla tradizioneletteraria italiana sin dalle origini. Esso presenta uno schema fisso: si compone infatti di quattordici versi endecasillabi suddivisi in due quartinee due terzine; i versi sono legati da uno schema di rime che può variare: in questo caso, lo schema è ABBA ABBA CDE EDC. Il sonetto Tanto gentile e tanto onesta pare è tratto dalla Vita nuova, l’operagiovanile in cui Dante descrive e analizza il suo amore per Beatrice. Si trattadi un sentimento puro e disinteressato, vissuto dal poeta a livellointellettuale e spirituale: nella donna amata, infatti, egli riconosce il segnodella presenza divina in terra e un’anticipazione della beatitudine celeste.

Tanto gentile e tanto onesta pare

ParafrasiLa mia donna è (pare) tanto gentile e tanto virtuosa quandosaluta gli altri, che ogni lingua ammutolisce per l’emozione egli occhi non osano guardarla.

Ella procede, mentre si sente lodata, con un atteggiamento(vestuta) di benevolenza e di umiltà; ed è evidente (par) cheella è un essere (cosa) sceso dal cielo sulla terra a manife-stare la presenza divina (miracol).

Appare (Mostrasi) così bella a chi la ammira, che infonde attra-verso gli occhi una tale dolcezza nel cuore, che non può esserecompresa da chi non la prova;

e dal suo volto (labbia) si effonde un dolce spirito d’amore cheinvita l’anima a sospirare di beatitudine.

Guida alla lettura

Il poeta descrive Beatrice non nel suo aspetto fisico, ma nelle sue qualità morali: ella è gen-tile e piena di virtù, tanto che il suo saluto fa tremare d’emozione chi la guarda.

Mentre la donna cammina e intorno a lei si levano voci di lode, appare chiaro che ella è un’ap-parizione divina, un angelo sceso dal cielo a manifestare la potenza di Dio e a diffondere labontà celeste. Chi la ammira, infatti, prova un dolce sentimento d’amore che si diffonde dalviso della donna e fa sospirare di beatitudine l’anima.

Testo originale

Tanto gentile tanto onesta parela donna mia quand’ella altrui saluta,ch’ogne lingua deven, tremando, muta,e li occhi no l’ardiscon di guardare.

Ella si va, sentendosi laudare,benignamente d’umiltà vestuta;e par che sia una cosa venutada cielo in terra a miracol mostrare.

Mostrasi sì piacente a chi la mira,10 che dà per li occhi una dolcezza al core,

che ’ntender no la può chi no la prova;

e par che de la sua labbia si movaun spirito soave pien d’amore,che va dicendo a l’anima: Sospira.

(Dante Alighieri, Vita nuova, XXVI)

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Dante e Virgilio sono arrivati nel nono e ultimo cerchio dell’Inferno, dove ècrudelmente punito il peccato più grave, il tradimento. I traditori sono immersinelle acque ghiacciate del fiume Cocito in posizioni contorte e dolorose: alcunifuoriescono dal ghiaccio con la parte superiore del busto, altri sonocompletamente imprigionati. Questa pena, come tutte le altre dell’Inferno e del Purgatorio, segue il principio del contrappasso: il castigo, cioè, richiamala colpa commessa in vita. In questo caso, il ghiaccio rappresenta la gelidadeterminazione con cui i traditori portarono a compimento i loro piani malvagi.Mentre i due pellegrini camminano sulla superficie ghiacciata, scorgono unaspettacolo di crudele bestialità: un dannato rode la nuca del suo vicino.Impressionato, Dante si avvicina e chiede le ragioni del gesto atroce.

Il conte Ugolino

La Divina Commedia

Il viaggio ultraterrenoLa Divina Commedia è il capolavoro di Dante e unadelle più grandi opere letterarie di tutti i tempi. Sitratta di un poema didascalico-allegorico: dida-scalico, perché presenta insegnamenti religiosi emorali; allegorico, perché tali insegnamenti sonoproposti attraverso un sistema di simboli che il let-tore deve interpretare.Nel poema Dante racconta, in prima persona, unviaggio immaginario attraverso i tre regni ultra-terreni: Inferno, Purgatorio e Paradiso. Nella fin-zione narrativa il viaggio si svolge in aprile, nellasettimana santa del 1300. Dante, quindi, è autoredel poema e suo protagonista, nella veste del pel-legrino che compie e che racconta il viaggio.

I significati allegoriciPer compiere questo viaggio sovrumano Dantericeve l’aiuto di tre guide: il poeta latino Virgilio loaccompagna nei primi due regni, Beatrice lo guidain Paradiso e infine san Bernardo lo sostiene nel-l’ultima tappa del viaggio, la visione sfolgorante diDio. Le tre guide hanno un preciso significato alle-gorico: Virgilio rappresenta la ragione umana, suf-ficiente per vivere una vita giusta ma insufficienteper comprendere i contenuti di fede e, dunque, perpoter entrare in Paradiso; Beatrice è la teologia, ladisciplina che studia le cose sacre e guida alla sal-vezza eterna; san Bernardo, infine, è l’ardore difede, cioè il desiderio bruciante dell’anima di ricon-

giungersi a Dio. Nel corso del viaggio Dante incontramolti personaggi che gli raccontano le proprieesperienze di vita. Ogni incontro rappresenta peril pellegrino un’esperienza importante, perché glimostra quali sono le conseguenze dei peccati e,al contrario, quali buone azioni bisogna compiereper meritare la salvezza eterna.Anche il personaggio di Dante-pellegrino ha unsignificato allegorico: egli rappresenta l’umanitàintera nel cammino della redenzione, dalla con-dizione di peccato alla salvezza eterna.L’itinerario seguito da Dante rispecchia tale cam-mino di redenzione: egli visita dapprima l’Inferno,un immenso imbuto suddiviso in nove cerchi chesprofonda sino al centro della Terra; poi il Purga-torio, la montagna che si trova esattamente agliantipodi dell’Inferno; infine il Paradiso, formato danove cieli concentrici che avvolgono la Terra. Oltreil nono cielo si trova l’Empireo, la sede immobile edeterna di Dio e di tutti i beati.

La struttura dell’operaLa Commedia è divisa in tre cantiche, corrispon-denti ai tre regni dell’oltretomba: Inferno, Purga-torio e Paradiso. Ogni cantica è a sua volta divisain 33 canti, più uno iniziale che fa da proemio all’o-pera: il totale dei canti, pertanto, è di 100. Ognicanto ha un numero variabile di versi endecasil-labi raggruppati in terzine a rima incatenata (ABABCB CDC DED...).

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Inferno, canto XXXIII, vv. 1-90

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Testo originale

La bocca sollevò dal fiero pastoquel peccator, forbendola a’ capelli

3 del capo ch’elli avea di retro guasto.

Poi cominciò: “Tu vuo’ ch’io rinovellidisperato dolor che ’l cor mi preme

6 già pur pensando, pria ch’io ne favelli.

Ma se le mie parole esser dien semeche frutti infamia al traditor ch’i’ rodo,

9 parlare e lagrimar vedrai insieme.

Io non so chi tu se’ né per che modovenuto se’ qua giù; ma fiorentino

12 mi sembri veramente quand’io t’odo.

Tu dei saper ch’i’ fui conte Ugolino1,e questi è l’arcivescovo Ruggieri2:

15 or ti dirò perché i son tal vicino.

Che per l’effetto de’ suo’ mai pensieri,fidandomi di lui, io fossi preso

18 e poscia morto, dir non è mestieri;

1. conte Ugolino: Ugolino della Gherar-desca (1220-89), conte di Donoratico, pro-prietario di vasti feudi in Toscana e in Sar-degna, fu podestà di Pisa dal 1284 al 1288.

Era di parte ghibellina, ma più volte sialleò con i Guelfi per opportunismo e perconvenienza personale.2. arcivescovo Ruggieri: Ruggieri degli

Ubaldini, arcivescovo di Pisa, nel 1288convinse Ugolino, con un inganno, ad allon-tanarsi da Pisa; al suo rientro, il contevenne imprigionato.

ParafrasiQuel peccatore sollevò la bocca dal pasto crudele, pulendolacon i capelli della testa che aveva roso sulla nuca.

Poi cominciò: “Tu vuoi che io rinnovi il dolore disperato che miopprime il cuore anche solo nel pensiero, prima di parlarne.

Ma se le mie parole saranno il seme che porterà infamia altraditore che sto mordendo, vedrai piangere e parlare nellostesso momento.

Io non so chi sei, né in quale modo tu sei arrivato quaggiù; maal sentirti parlare mi sembri fiorentino.

Tu devi sapere che io fui il conte Ugolino, e questi è l’arcive-scovo Ruggieri: ora ti spiegherò perché lo tratto in questo modo.

Non è necessario (non è mestieri) spiegare che io, fidandomidi lui, venni imprigionato e poi ucciso a causa dei suoi pianimalvagi (mai pensieri);

Guida alla lettura

Il canto ha un’apertura formidabile, degna di un film dell’orrore: il dannato solleva la boccadalla nuca dell’altro, si pulisce con i capelli e poi inizia a parlare.

Egli prova un dolore disperato che non può essere espresso a parole: ma il desiderio di coprired’infamia il suo nemico lo spinge a raccontare.

Sentendolo parlare, il dannato ha capito che Dante è di Firenze: perciò non ha bisogno di dilun-garsi in spiegazioni, poiché la sua identità e la sua vicenda erano ben note ai Toscani di queltempo. Tutti sapevano che Ugolino era stato tradito e messo a morte dall’arcivescovo Ruggieri.

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però quel che non puoi avere inteso,cioè come la morte mia fu cruda,

21 udirai, e saprai s’e’ m’ha offeso.

Breve pertugio dentro da la Mudala qual per me ha ’l titol de la fame,

24 e che conviene ancor ch’altrui si chiuda3,

m’avea mostrato per lo suo foramepiù lune già, quand’io feci ’l mal sonno

27 che del futuro mi squarciò ’l velame.

Questi pareva a me maestro e donno,cacciando il lupo e ’ lupicini al monte

30 per che i Pisan veder Lucca non ponno.

Con cagne magre, studïose e conteGualandi con Sismondi e con Lanfranchi

33 s’avea messi dinanzi da la fronte.

In picciol corso mi parieno stanchilo padre e ’ figli, e con l’agute scane

36 mi parea lor veder fender li fianchi.

3. convien... si chiuda: la torre della Muda, prigione pisana, eradestinata a dover tenere rinchiusi altri prigionieri, dopo Ugo-

lino, a causa delle continue lotte tra esponenti delle varie fazionipolitiche.

ma ascolterai ciò che non puoi avere sentito, e cioè come fucrudele (cruda) la mia morte, e così capirai quanto mi ha offeso.

La piccola apertura (pertugio) nella torre della Muda, che acausa mia viene chiamata “della fame”, e che dovrà ancoratenere prigioniere altre persone

mi aveva già mostrato, attraverso il suo foro, più lune [cioè,erano passati alcuni mesi], quando io ebbi l’incubo (mal sonno)che mi rivelò il futuro.

Costui [l’arcivescovo Ruggieri] mi sembrava il capo e il padrone(maestro e donno) che cacciava il lupo e il lupacchiotto sulmonte a causa del quale i Pisani non possono vedere Lucca[il monte San Giuliano].

Davanti a sé [l’arcivescovo] aveva messo i Gualandi, i Sismondie i Lanfranchi, insieme con cagne affamate, esperte e ammae-strate (studiose e conte)

Dopo una breve corsa il padre lupo e i suoi figli mi sembra-vano stanchi, e mi pareva di vedere che le zanne aguzze [dellecagne] laceravano i loro fianchi.

Ma ecco qualcosa che Dante non può sapere: quanto fu dolorosa e crudele la sua fine.

Ugolino rievoca le circostanze della sua morte: già da alcuni mesi era prigioniero nella torredella Muda, la prigione di Pisa, quando ebbe un incubo rivelatore.

Nel sogno, vide l’arcivescovo Ruggieri che guidava una battuta di caccia al lupo sul monte SanGiuliano.

Insieme all’arcivescovo vi erano i capi delle più potenti famiglie pisane e un branco di cagneaffamate.

Le cagne sbranavano il lupo e i suoi piccoli.

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Quando fui desto innanzi la dimane,pianger senti’ fra ’l sonno i miei figliuoli

39 ch’eran con meco, e dimandar del pane.

Ben se’ crudel, se tu già non ti duolipensando ciò che ’l mio cor s’annunziava;

42 e se non piangi, di che pianger suoli?

Già eran desti, e l’ora s’appressavache ’l cibo ne solea essere addotto,

45 e per suo sogno ciascun dubitava;

e io senti’ chiavar l’uscio di sottoa l’orribile torre; ond’io guardai

48 nel viso a’ mie’ figliuoi sanza far motto.

Io non piangea, sì dentro impetrai:piangevan elli; e Anselmuccio mio

51 disse: “Tu guardi sì, padre! che hai?”

Perciò non lagrimai né rispuos’iotutto quel giorno né la notte appresso,

54 infin che l’altro sol nel mondo uscìo.

Come un poco di raggio si fu messonel doloroso carcere, e io scorsi

57 per quattro visi il mio aspetto stesso,

Quando la mattina dopo mi svegliai, sentii i miei figli, che eranocon me, piangere nel sonno, e chiedere del pane.

Devi essere davvero crudele se già non ti addolori pensandoa quello che il mio cuore presagiva; e se non piangi per questo,per che cosa sei abituato a piangere?

Si erano già svegliati, e si avvicinava l’ora in cui di solito civeniva portato il cibo, ma per il sogno fatto ciascuno di noisospettava;

e io sentii sprangare la porta d’ingresso all’orribile torre; percui guardai in viso i miei figli senza pronunciare parola.

Io non piangevo, tanto l’orrore mi aveva fatto diventare durocome pietra: loro piangevano; e il mio Anselmuccio disse:“Padre, tu ci guardi in un modo! Che cos’hai?”

Perciò non piansi né risposi, per tutto il giorno e per la notteseguente, sinché il nuovo sole sorse.

Appena un po’ di luce si diffuse in quella dolorosa prigione, eio vidi riflesso in quattro visi il mio stesso aspetto,

Ugolino si sveglia e dai lamenti dei figli, prigionieri insieme a lui, capisce che anche loro hannolo stesso incubo.

Il racconto si interrompe e Ugolino rivolge un accorato appello a Dante, chiedendogli di par-tecipare al suo grande dolore.

Per i prigionieri arriva l’ora del pranzo, ma a causa dell’incubo tutti temono ciò che sta peraccadere...

... ed ecco che accade: la porta viene sprangata, i prigionieri sono abbandonati, condannati amorire di fame.

Ugolino tenta di nascondere il suo dolore per non tormentare i figli.

Ma il giorno dopo, quando nel volto emaciato dei figli vede il suo stesso aspetto...

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ambo le man per lo dolor mi morsi;ed ei, pensando ch’io ’l fessi per voglia

60 di manicar, di subito levorsi

e disser: “Padre, assai ci fia men dogliase tu mangi di noi: tu ne vestisti

63 queste misere carni, e tu le spoglia”.

Queta’mi allor per non farli più tristi;lo dì e l’altro stemmo tutti muti;

66 ahi dura terra, perché non t’apristi?

Poscia che fummo al quarto dì venuti,Gaddo mi si gittò disteso a’ piedi,

69 dicendo: “Padre mio, ché non m’aiuti?”

Quivi morì; e come tu mi vedi,vid’io cascar li tre ad uno ad uno

72 tra ’l quinto dì e ’l sesto; ond’io mi diedi,

già cieco, a brancolar sovra ciascuno,e due dì li chiamai, poi che fur morti.

75 Poscia, più che ’l dolor, poté ’l digiuno”.

Quand’ebbe detto ciò, con li occhi tortiriprese ’l teschio misero co’ denti,

78 che furo a l’osso, come d’un can, forti.

per il dolore mi morsi entrambe le mani; e loro, pensando chelo facessi per desiderio di mangiare, reagirono immediamente

e dissero: “Padre, per noi sarebbe molto meno doloroso se tuti nutrissi di noi: tu ci hai dato questo misero corpo, e tu pri-valo delle carni”.

Allora mi calmai per non renderli ancora più tristi; quel giornoe quello dopo rimanemmo in silenzio; ahi, terra crudele, perchénon ti apristi?

Quando poi arrivammo al quarto giorno, Gaddo si gettò ai mieipiedi dicendo: “Padre mio, perché non mi aiuti?”

Lì morì; e così come tu vedi me, allo stesso modo io vidi caderea uno a uno gli altri tre, tra il quinto e il sesto giorno; per cuicominciai,

ormai cieco, ad abbracciarli a tentoni, e li chiamai per duegiorni, dopo che furono morti. Poi, più che il dolore, mi vinseil digiuno”.

Quando ebbe detto queste parole, con gli occhi stravolti dal-l’odio, riprese il misero teschio con i denti che furono forti comequelli di un cane che rosicchia l’osso.

... la rabbia e il dolore hanno il sopravvento: il conte si morde le mani, e i figli offrono se stessi,credendo che il padre si stia morsicando per la fame.

Di nuovo, Ugolino tenta di dominarsi per tranquillizzare i figli.

Al quarto giorno di digiuno muore un figlio, Gaddo.

Tra il quinto e il sesto giorno muoiono anche gli altri tre.

Il padre, ormai debolissimo per la fame, continua a chiamarli e ad abbracciarli, sino a che, tra-scorsi altri due giorni, anch’egli muore.

Il racconto è finito, il conte riprende il suo macabro pasto con rinnovato odio.

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Ahi Pisa, vituperio de le gentidel bel paese là dove ’l sì suona,

81 poi che i vicini a te punir son lenti,

muovasi la Capraia e la Gorgona,e faccian siepe ad Arno in su la foce,

84 sì ch’elli annieghi in te ogne persona!

Ché se ’l conte Ugolino aveva voced’aver tradita te de le castella4,

87 non dovei tu i figliuoi porre a tal croce.

Innocenti facea l’età novella,novella Tebe5, Uguiccione e ’l Brigata

90 e li altri due che ’l canto suso appella.(Dante Alighieri, Divina Commedia,

canto XXXIII, vv. 1-90)

Ahi Pisa, vergogna delle genti del bel paese dove risuona il sì[l’Italia], poiché i vicini sono lenti a punirti,

che si muovano Capraia e Gorgona e ostruiscano (faccian siepe)la foce dell’Arno, affinché anneghi ogni tuo abitante!

Perché se il conte Ugolino era sospettato di averti tradito pervia dei castelli, non dovevi far subire ai suoi figli un tale sup-plizio.

O nuova Tebe, la loro giovane età li rendeva innocenti, Uguic-cione e il Brigata e gli altri due che il canto nomina nei versiprecedenti.

Inizia ora una famosa invettiva di Dante indirizzata contro Pisa, vergogna d’Italia per la cru-deltà dimostrata nella vicenda di Ugolino.

Il poeta si augura che le due isole alla foce dell’Arno, Capraia e Gorgona, ostruiscano la focedel fiume provocando un’inondazione che cancelli la città e i suoi abitanti: anche se ritene-vano di essere stati traditi da Ugolino, i Pisani non avrebbero mai dovuto uccidere i suoi figliinnocenti.

4. Ché se ’l conte... castella: Ugolino erastato imprigionato nella Muda perché rite-nuto responsabile di aver ceduto alcunefortificazioni pisane a Firenze. Dante, però,

mostra di non credere a queste voci. Ilmotivo per cui colloca Ugolino fra i tra-ditori è un altro: il tradimento dei suoialleati ghibellini per conservare alcuni

possedimenti in Sardegna.5. novella Tebe: Pisa viene definita “nuovaTebe” perché, come la città del mito clas-sico, è divisa e lacerata da lotte interne.

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L’autoreFrancesco Petrarca nacque nel 1304 ad Arezzo dauna famiglia fiorentina, fuggita dalla città toscanaa causa di scontri politici e trasferitasi poi ad Avi-gnone, in Francia, al seguito della corte papale. Quiil giovane Petrarca cominciò gli studi di legge, cheproseguì a Bologna: era infatti desiderio della fami-glia che diventasse notaio.Secondo il suo stesso racconto, nel 1327 ad Avi-gnone avvenne l’incontro con Laura, la donna cheegli amò per tutta la vita e a cui dedicò il suo capo-lavoro, il Canzoniere. Gli studiosi non sono con-cordi nell’identificare Laura; secondo alcuni, anzi,non sarebbe una donna realmente esistita ma ilsimbolo della gloria poetica cui Petrarca aspirava.Alla morte del padre, Petrarca lasciò la giurispru-denza per dedicarsi interamente alla letteratura;successivamente, si avviò alla carriera ecclesia-stica, grazie alla quale ottenne alcune rendite chegli garantirono la tranquillità economica. Negli anniseguenti svolse diverse missioni diplomatiche perconto della curia papale, viaggiando in tutta Europa;nel frattempo, cresceva anche la sua fama di poetae letterato: nel 1341 venne incoronato poeta in Cam-pidoglio, a Roma. Seguirono altri viaggi in Italia,alternati a soggiorni presso le corti signorili diMilano, Padova e Venezia. Nel 1370, ormai anziano,Petrarca fissò la sua residenza stabile ad Arquà,nei Colli Euganei. Qui continuò a essere un puntodi riferimento per giovani letterati e artisti; insiemea Boccaccio, di cui fu amico, fu infatti uno dei primiintellettuali italiani a riscoprire e a studiare con pas-sione i classici latini, contribuendo così alla for-mazione della mentalità umanista.

L’opera: il CanzoniereChe cos’è il Canzoniere. È una raccolta di 365 liriche,per la maggior parte sonetti e canzoni, tradizional-mente divise in due parti: “rime in vita” e “rime inmorte” di Laura, forse scomparsa durante la tre-menda epidemia di peste del 1348. Molte poesiesono dunque di argomento amoroso, ma ve ne sonoanche di contenuto religioso, morale e politico.

La lingua del Canzoniere. L’amore di Petrarca perla letteratura latina e per la solenne compostezzadel suo stile si riflette nella sua produzione: sonoinfatti scritti in latino sia il poema Africa, per cui

ottenne la corona di poeta, sia altri testi, tra i qualile numerose lettere scritte ad amici, studiosi e per-sonalità dell’epoca. Tuttavia, la sua fama presso i posteri è legata alCanzoniere, scritto in volgare, che Petrarca consi-derava un’opera minore.

I contenuti dell’opera. Il Canzoniere si presentadunque come la storia dell’amore non ricambiatodi Petrarca per Laura; tuttavia, le poesie non rac-contano fatti ma emozioni: la complessa e variagamma di sensazioni, speranze, gioie e dolori susci-tate nell’animo del poeta dal suo sentimento amo-roso. Il vero protagonista dell’opera, quindi, èPetrarca. Laura vi compare come una donna bionda,gentile e bella, che con la sua sola presenza riescea far tremare e gioire il poeta.Rispetto alla tradizione poetica del Dolce Stil Novo,di cui anche Dante aveva fatto parte, le liriche diPetrarca presentano un’importante novità: anchese l’argomento centrale resta l’amore per la donna,quest’ultima non viene più considerata come unacreatura angelica, tramite tra l’uomo e Dio, ma comeuna persona in carne e ossa, che con il tempoinvecchia e perde la sua bellezza.Lo stesso sentimento d’amore, pur essendo sempredescritto in termini delicati e poetici, diventa tuttoterreno, e non ha più il valore di strumento per ele-varsi a Dio.Petrarca era consapevole che il suo amore pre-sentava aspetti concreti e terreni, e pertantoviveva un costante conflitto tra la spiritualità, cuiaspirava, e il richiamo per le attrazioni terrene,come appunto l’amore e il desiderio di raggiungerela gloria poetica.Il conflitto interiore tra desiderio di purezza etentazione per i piaceri mondani è una delle carat-teristiche più importanti del Canzoniere e uno deisegni della modernità dell’autore.

Lo stile e la fortuna. Anche se considerava il Can-zoniere un’opera minore, Petrarca vi lavorò a lungo,curandone la lingua e lo stile, in particolare la sceltadi vocaboli musicali e dal significato profondo, ela costruzione di periodi ampi, eleganti e armo-niosi. Per queste caratteristiche il Canzonieredivenne un modello per intere generazioni di poetiitaliani, fino all’Ottocento.

Francesco Petrarca

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Testo originale

Voi ch’ascoltate in rime sparse il suonodi quei sospiri ond’io nudriva ’l corein sul mio primo giovenile errore

quand’era in parte altr’uom da quel ch’i’ sono,

del vario stile in ch’io piango et ragiono fra le vane speranze e ’l van dolore,ove sia chi per prova intenda amore,spero trovar pietà, nonché perdono.

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Il sonetto che ti presentiamo è il primo del Canzoniere e svolge una funzioneintroduttiva.Il poeta, ormai avanti con gli anni, ripensa al suo passato considerandol’amore per Laura un “errore giovanile” dolce e doloroso insieme, di cui orasi pente poiché ha maturato la consapevolezza che i piaceri e le bellezzeterreni sono un “breve sogno” destinato a terminare in fretta.

Voi ch’ascoltate

ParafrasiO voi che ascoltate in queste rime varie il suono di queisospiri con i quali io alimentavo il mio amore al tempo delmio primo errore giovanile quando ero in parte un uomodiverso da quello che sono ora,

dello stile vario e mutevole con cui piango e medito frasperanze illusorie e inutile dolore, semmai vi fosse qual-cuno che comprenda, per averlo provato, che cosa sia l’a-more, spero di suscitare pietà, non solo perdono.

Guida alla lettura

Le rime sono le poesie del Canzoniere, che Petrarca definisce sparse perché, secondo il suo giu-dizio, non rappresentano un insieme compatto e unitario come altre sue composizioni.

La ripetizione della consonante “s” ha una funzione onomatopeica; evoca infatti il suono deisospiri dell’innamorato Petrarca, al tempo in cui gioisce e soffre per Laura.

Agli occhi di Petrarca adulto, l’amore per Laura appare come un “errore giovanile” che lo hadistolto dalla spiritualità e dalla fede.

Questo verso chiarisce bene che Petrarca si sente molto cambiato rispetto al tempo della suagioventù.

Petrarca spera di trovare perdono e di suscitare compassione per il suo vario stile, cioè diversoa seconda del suo stato d’animo triste o lieto, soprattutto in chi, come lui, sa che cosa sia l’a-more.

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Ma ben veggio or sì come al popol tuttofavola fui gran tempo, onde sovente di me medesmo meco mi vergogno;

et del mio vaneggiar vergogna è ’l frutto,e ’l pentersi, e ’l conoscer chiaramenteche quanto piace al mondo è breve sogno.

(F. Petrarca, Canzoniere, I)

Ma ora vedo bene quanto a lungo fui oggetto di chiacchieree derisione (favola), cosa della quale spesso mi vergognodi me con me stesso;

e la vergogna è la conseguenza del mio inseguire cosevane (vaneggiar), e il pentimento, e il vedere chiaramenteche le passioni terrene (quanto piace al mondo) sono unbreve sogno.

Appare di nuovo il contrasto tra presente e passato, come al v. 4. Petrarca, che ora è diversodal passato, si vergogna di essere stato deriso e chiacchierato per il suo amore infelice.

Ecco il frutto del vaneggiare, cioè dell’inseguire piaceri vani come l’amore per una donna: ver-gogna e pentimento.

Alla fine del sonetto viene enunciato il tema centrale: la brevità e la vanità delle cose terrene,uguali a brevi sogni che lasciano solo smarrimento e delusione.

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La vitaGiovanni Boccaccio nacque nel 1313 a Certaldo (oa Firenze). Figlio illegittimo di un ricco mercantee di una donna di umile condizione sociale, quandocompì quattordici anni, il padre lo prese presso disé e lo condusse a Napoli, per educarlo e istruirlonell’arte della mercatura. Il soggiorno napoletanofu un periodo molto felice per il giovane Boccaccio,che grazie alle conoscenze del padre poté fre-quentare la migliore società: partecipò così a festedi corte, si appassionò di letteratura e di poesia,ebbe avventure amorose, compose varie opere inversi e in prosa. Questa vita spensierata e bene-stante si interruppe bruscamente nel 1340, quandogli affari del padre subirono un tracollo. In seguitoa questo fallimento economico Giovanni Boccaccioe suo padre tornarono a Firenze, dove condusserouna vita molto modesta. La situazione peggioròulteriormente nel 1348: quell’anno, infatti, Firenzefu colpita da una tremenda epidemia di peste chefece migliaia di morti, tra i quali anche il padre diBoccaccio. In questa drammatica situazione Boc-caccio iniziò la composizione del suo capolavoro,il Decameron, che ebbe subito vasta diffusione.Dopo il 1350 la vita di Boccaccio subì una svolta.Grazie alla sua fama di scrittore ottenne dal Comunefiorentino alcuni importanti incarichi diplomaticiche lo portarono a visitare varie città italiane e aconoscere personalità prestigiose: tra esse, il poetaFrancesco Petrarca, cui si legò di una duratura ami-cizia e con cui condivise l’amore per gli autori latinie per i manoscritti antichi. Nel 1373 il Comune di Firenze gli diede l’incarico dileggere e commentare pubblicamente la Commediadi Dante Alighieri, opera che Boccaccio definì“divina” per la sublime perfezione dello stile e perl’importanza dei contenuti.Le letture pubbliche ebbero molto successo ma siinterruppero a causa della salute malferma di Boc-caccio, che morì nel 1375 a Certaldo.

L’opera: il DecameronChe cos’è il Decameron. Il Decameron (in greco,“dieci giornate”) è una raccolta di cento novelle diargomenti diversi e di varia lunghezza, composta daGiovanni Boccaccio tra il 1349 e il 1351. È un’opera distraordinaria importanza per la letteratura italianaperché introdusse il genere della novella (o racconto,

come lo chiamiamo oggi) sino ad allora sconosciuto,e perché presenta ambientazioni e personaggi ispi-rati alla vita reale e quotidiana del Trecento. Le cento novelle sono collegate tra loro da unastoria-contenitore, detta a “cornice”: in seguitoall’epidemia di peste che ha colpito Firenze, diecigiovani di buona famiglia (sette ragazze e tre ragazzi)decidono di allontanarsi dal pericolo del contagiotrovando rifugio in una bella villa di campagna. Perdieci giorni durante le ore più calde, i ragazzi si ritro-vano nel giardino della villa e raccontano ognunouna storia: perciò, alla fine, le novelle sono cento.

Lo sfondo storico delle novelle. Le novelle del Deca-meron sono ispirate alla vita quotidiana e mate-riale dell’Italia del Trecento: molte, infatti, sonoambientate nelle grandi città dell’epoca, come adesempio Firenze e Napoli, di cui lo scrittore descrivequartieri, vicoli, piazze e luoghi di ritrovo; i perso-naggi sono ugualmente ispirati alla realtà e si tro-vano coinvolti in situazioni molto diverse: a voltecomiche, a volte tragiche, a volte sentimentali.L’ambientazione realistica è una grande novitàdel Decameron: sino a quel momento, infatti, per-sonaggi e situazioni tratti dalla contemporaneitàerano ritenuti indegni di comparire nelle opere let-terarie importanti.

I temi. Principale obiettivo del Decameron è diver-tire. Le novelle sono ricche di battute, colpi di scena,avventure mozzafiato, amori impossibili, scherzi etranelli: tutti ingredienti indispensabili per appas-sionare e avvincere i lettori.Il divertimento, però, è solo un aspetto dell’opera;il Decameron offre anche molti spunti di rifles-sione e di conoscenza sia della mentalità dell’e-poca, sia di vizi e di virtù tipiche dell’animo umano.Tra le qualità umane valorizzate da Boccaccio, laprincipale è l’intelligenza, a patto che essa siaaccompagnata da gentilezza, decoro e cortesia; incaso contrario, l’intelligenza diventa egoismo,meschinità, indifferenza. L’uomo intelligente ha l’u-miltà di imparare qualcosa anche quando la For-tuna (cioè il caso imprevedibile e bizzarro) gli com-plica la vita. Al contrario, il difetto peggiore perBoccaccio è la stupidità: chi è stupido e credulonemerita di essere preso in giro, beffato e danneg-giato perché non fa uso dell’intelligenza.

Giovanni Boccaccio

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Nella città di Firenze, ricca d’ogni sorte di gente, viveva un modestopittore chiamato Calandrino1, noto per la sua semplicità di mente. Costuiera uso frequentare due altri pittori, Bruno e Buffalmacco2, entrambigran mattacchioni, che spesso si divertivano a beffarlo.

Un altro mattacchione fiorentino, chiamato Maso, che non perdevaoccasione di burlare gli sciocchi, avendo visto un giorno Calandrinoche entrava nella chiesa di San Giovanni, gli andò dietro insieme a unamico col quale stava chiacchierando. I due sedettero in un banco fin-gendo di non aver visto Calandrino, che se ne stava sotto una parete astudiare alcuni affreschi.

Parlando con l’amico, Maso cominciò a trattare delle virtù di alcunepietre e a dir cose meravigliose sul potere dello smeraldo e del rubino3.Calandrino, che orecchiava, si avvicinò ai due.

«Disturbo?» chiese.«Affatto» rispose Maso. E andò avanti coi suoi discorsi.«Ma dove si trovano codeste pietre?» domandò a un certo punto il

pittore.«A Berlinzone, terra dei baschi, in una contrada chiamata Bengodi,

dove si legano le vigne con le salsicce e si compra un’oca con due denari».«Che posto!» esclamò Calandrino.«Non solo» gli disse Maso. «Nel paese di Bengodi si trova una mon-

tagna di formaggio parmigiano grattugiato, in cima alla quale c’è genteche da mattina a sera non fa altro che cuocere gnocchi e ravioli in brododi capponi».

«Per mangiarli?» chiese Calandrino.«No. Quando sono cotti, li buttano giù lungo i fianchi della mon-

tagna e chi più ne piglia più ne porta via o, se vuole, se ne ciba. Quandouno ha sete, non ha che da attingere in un fiumicello di vino prelibatoche scorre ai piedi della montagna di formaggio».

«Che paese!» diceva Calandrino. «Ma dimmi, di tutti quei capponicotti, cosa se ne fanno?»

«Cosa se ne fanno? Se li mangiano i baschi» gli rispose Maso.

La novella che ti presentiamo, nella riscrittura dello scrittore contemporaneoPiero Chiara, è tratta dall’ottava giornata del Decameron e presenta il temadella beffa, cioè uno scherzo organizzato da personaggi furbi a danno diqualche sciocco. In questo caso lo sciocco protagonista è Calandrino, unpittore squattrinato che si crede molto furbo, ed è disposto a credere achiunque gli prospetti la possibilità di diventare ricco senza fatica...

Calandrino lapidatoRiscrittura di Piero Chiara

L’inizio delinea in modosemplice ed efficace idati essenziali dellastoria: il luogo di am -bientazione, i personag -gi principali e i rispet-tivi caratteri.

Guida alla lettura

La conversazione traMaso e Calandrino è unbell’esempio di comicità:il primo afferma coseassurde tanto per “farecolpo”; il secondo, an -ziché insospettirsi, èlusingato e compiaciutodelle confidenze rice-vute.

Calandrino pensa cheascoltare le conversa-zioni altrui sia segno difurbizia.

1. Calandrino: soprannome di un pittorefiorentino del Trecento, realmente esi-stito.

2. Bruno e Buffalmacco: pittori fioren-tini, anch’essi realmente esistiti nel Tre-cento.

3. virtù... rubino: gli uomini del Medioevoattribuivano ad alcune pietre preziosevirtù magiche.

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«Ma tu, ci sei mai stato in questo posto?»«Vi sono stato una volta come mille».«E quante miglia è distante?»«Più di millanta che tutta notte canta».«Allora è più lontano degli Abruzzi».«Altro che gli Abruzzi!»«È troppo distante per me» concluse Calandrino. «Ma se fosse un

po’ più vicino, ti assicuro che almeno una volta verrei con te per vederruzzolare quei ravioli e farmene una scorpacciata. Ma dimmi, bene-detto uomo, qui da noi, se ne trovano di quelle pietre di cui parlavi?»

«Ce n’è di due tipi» gli rispose Maso «ma sono molto rare. L’una,sono i macigni di Settignano e di Monte Morello, coi quali si fanno lemacine4. È una pietra che i baschi apprezzano molto più degli smeraldi,perché ne hanno poca, mentre noi non sappiamo che farcene. Loroinvece, guarda un po’ come è mai fatto il mondo, hanno gli smeraldi amucchi nelle campagne, che se ne servono per ghiaia nei giardini. Segli potessimo portare un po’ di macine ai baschi, legate come voglionoloro, chissà gli smeraldi che ci darebbero».

«E come le vogliono legate?» s’informò Calandrino.«Infilate in una corda come anelli, ma prima di venir forate al centro».Calandrino restò un poco pensoso, poi chiese:«E qual è l’altra pietra che si trova dalle nostre parti?»«È quella» gli rispose Maso «che viene chiamata elitropia5, della

quale parlano anche i libri antichi. Una pietra di straordinaria virtù,perché ha il potere di rendere invisibile chi la tiene addosso. Capisci?Nessuno lo può vedere dove non è».

«E questa seconda» chiese Calandrino «dove si trova?»Maso gli confidò che nel Mugnone, un fiumicello che passa a poca

distanza da Firenze, qualcuna si poteva trovare, cercando accurata-mente.

«Bisognerebbe sapere» insisteva Calandrino «di che grossezza e diche colore sono».

«Ce n’è» spiegò Maso «di varie grossezze, ma tutte di un colore quasicome nero».

Avute le notizie che desiderava, Calandrino se ne andò dicendo cheaveva un suo dipinto da portare a termine, ma si affrettò invece a cer-care i suoi amici Bruno e Buffalmacco per informarli della sua scopertae andar con loro alla ricerca della pietra. Li cercò tutta la mattina, mafinì col trovarli solo verso sera, nella chiesa di un monastero, dove sta-vano lavorando. Tutto affannato li chiamò in basso dai ponteggi suiquali affrescavano i muri e tiratili in un angolo, ancora col fiato grosso,li mise a parte del segreto.

«Compagni» disse «noi possiamo diventare gli uomini più ricchi di

L’ingenuo Calandrinocrede che gli Abruzzisiano una terra favolosae lontana.

Visto che Calandrino ècosì sciocco da credergli,Maso rincara la dose.

Ma è possibile infilare lemacine con una cordasenza prima forarle alcentro? Evidentementeno, ma Calandrino credeanche a questo.

Maso, in effetti, dice laverità: nessuno può es -sere visto in un luogodove non è; ma Calan-drino, accecato dal desi-derio di avere la pietra,non si accorge di nulla.

4. macine: grandi pietre cilindriche, forateal centro, usate per macinare il grano.

5. elitropia: pietra preziosa di colore verdea cui erano attribuiti favolosi poteri.

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Firenze! Statemi a sentire: ho saputo da persona degna di fede, che sulgreto del Mugnone si può trovare una pietra che rende invisibile chi laporta indosso. Corriamo, prima che ci vadano altri, e vediamo di tro-varne qualcuna. Io la conosco, so com’è, e non avremo che da metter-cela in tasca e poi andare ai banchi di quelli che cambiano moneta eche hanno sempre in vista pezzi d’oro e d’argento. Non visti da alcuno,ne prenderemo a volontà e diventeremo ricchi senza faticare le gior-nate e spennellare sui muri come fossimo lumache».

Bruno e Buffalmacco si guardarono in faccia e fingendo di crederglilo ringraziarono d’averli associati alla sua fortuna. Posarono i pennellie si dissero disposti alla ricerca. Volevano solo sapere il nome della pietra.

Calandrino, che l’aveva già dimenticato, rispose:«Cosa ce ne importa del nome, quando ne conosciamo le virtù? Non

perdiamo tempo inutilmente e andiamo subito a cercarla».«Bene» disse Bruno «ma per riconoscerla bisogna sapere come è

fatta».«Ce n’è di molti tipi» spiegò Calandrino «ma tutte sono di colore

quasi nero. Noi raccoglieremo tutte quelle sul nero, fin che ci imbatte-remo in quella buona».

«Calandrino dice bene» osservò Bruno. «Ma questa non è ora perandare nel Mugnone, col sole alto che secca tutte le pietre e fa parerbianche anche le scure. Poi oggi è giorno di lavoro e la gente, veden-doci cercare lungo il fiume, potrebbe indovinare il nostro intento. Qual-cuno potrebbe trovare la pietra prima di noi. Questa è cosa da fare lamattina, quando con l’umidità si distinguono bene le pietre nere. E didomenica, quando non si lavora e la gente è tutta alle messe».

Buffalmacco lodò il consiglio di Bruno, ed essendo d’accordo Calan-drino, si diedero appuntamento per la domenica mattina, dopo che cia-scuno aveva giurato di non aprir bocca né in casa né fuori su tutta lafaccenda.

Venuta la tanto attesa domenica, Calandrino si alzò prima di giornoe andò a svegliare i due amici, coi quali da porta San Gallo raggiunseil Mugnone e cominciò a cercare su e giù per il greto.

Calandrino, che era il più volonteroso, andava avanti, saltando diqua e di là, e appena vedeva una pietra scura vi si gettava sopra, avi-damente la raccoglieva e la riponeva dentro la camicia. Anche gli altridue ne raccoglievano ogni tanto qualcuna, ridendo tra di loro senzafarsi scorgere da Calandrino, il quale, ormai con le tasche e la camiciapiene di pietre, si era alzato le falde della casacca, le aveva assicuratealla cintura e ne aveva fatto un doppio sacco per mettervi sempre nuovepietre.

Vedendo che Calandrino ormai era stracarico e che si avvicinaval’ora di pranzo, Bruno cominciò a chiedere a Buffalmacco:

«Dov’è Calandrino?»Buffalmacco, che gli era a due passi, volgendosi intorno e guardando

da ogni parte, rispose:

Per trovare la pietra,Calandrino elabora unpiano davvero infallibile!

Ed ecco la beffa di Brunoe Buffalmacco ai dannidi Calandrino.

Ecco il piano di Calan-drino: trovare la pietraper rubare il denaro albanco dei cambiavalute.Oltre che sciocco, Calan-drino è anche disonesto.

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«Non lo so. Era qui un momento fa. Dove può essere andato?»«Sarà tornato a casa» disse Bruno. «A quest’ora forse sta mangiando

a casa sua e se la ride di noi che siamo ancora qui a cercar pietre».«Ce l’ha fatta» diceva Buffalmacco. «Ha trovato la pietra e se n’è

andato. E noi siamo stati così sciocchi da cadere in questo scherzo. Cideve avere ingannati sul colore della pietra, in modo da poterla trovaresolo lui».

Calandrino, sentendo quei discorsi, si convinse d’aver trovato dav-vero la pietra e d’esser divenuto invisibile. Stette zitto e si avviò versocasa. Intanto Bruno diceva:

«Che facciamo ancora qui? È meglio che ce ne andiamo anche noi».«Andiamo, andiamo» approvava Buffalmacco «ché siamo stati presi

in giro quanto basta. Ma giuro a Dio che Calandrino ce la pagherà.Guarda, Bruno! Se fosse qui, davanti a noi, com’è stato tutta la mat-tina, gli tirerei questo ciottolo nelle calcagna, da azzopparlo per unmese».

Così dicendo, prese un ciottolo di quelli che aveva raccolto e lo tirònelle calcagna di Calandrino, che trattenne a fatica un urlo, ma con-tinuò la sua strada senza fermarsi. Bruno allora, presa anche lui unapietra, disse a Buffalmacco:

«La vedi questa pietra? Bene: vorrei che arrivasse a dare nelle renia quel birbante di Calandrino!»

Lanciò il sasso e colpì il povero Calandrino esattamente dove avevadetto.

Ora con una scusa ora con un’altra e fingendo di volersi liberaredelle pietre tirandole nel vuoto, ma immaginandole dirette a Calan-drino, per tutta la strada fino alla porta di San Gallo, lo andarono lapi-dando senza pietà.

Gli uomini che stavano di guardia alla porta, precedentemente avver-titi da Bruno e da Buffalmacco, quando si presentò Calandrino caricodi pietre finsero di non vederlo e lo lasciarono passare.

Il poveretto, più convinto che mai d’essersi reso invisibile, prese alloracome poté la corsa verso casa sua.

Essendo l’ora di pranzo, non gli capitò neppure d’incontrar personache lo salutasse e lo riconoscesse.

Arrivato a casa carico di sassi, vide sua moglie Tessa che in cima allascala e con le mani sui fianchi lo aspettava.

«È questa l’ora di rincasare?» gli disse. «Possibile che tu non sappiamai quando è tempo di mangiare? Che il diavolo ti porti!»

“Dunque” pensò Calandrino “costei mi vede, e se mi vede vuol direche ho smarrito la pietra, oppure che le donne hanno potere di far per-dere la virtù ai talismani”.

Salì di corsa la scala e, presa la moglie per i capelli, la coprì di botte.Bruno e Buffalmacco, che lo seguivano a distanza, giunti sotto la

casa udirono le strida della donna e il fracasso della gran battitura cheera in corso e che non prometteva di finir tanto presto.

Calandrino paga il prez -zo della sua stupidità:gli amici lo prendono asassate ma lui, convintodi essere diventato invi-sibile, non reagisce:pensa così di potertenere la pietra tutta perlui. Oltre che sciocco edisonesto, Calandrino èanche scorretto con gliamici.

Ecco l’ultimo aspettonegativo di Calandrino:se una cosa gli va male,incolpa gli altri. Inquesto caso la moglie,picchiata senza alcunmotivo.

Per fortuna Bruno e Buf-falmacco intervengonoa salvare la moglie diCalandrino.

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Dal basso chiamarono a gran voce Calandrino, che affacciatosi auna finestra li chiamò di sopra, dove i due trovarono la stanza piena dipietre sparse sul pavimento e in un angolo la donna, scarmigliata, strac-ciata e coi lividi delle percosse sul viso.

«Cosa te ne fai di tutte queste pietre? Vuoi tirar su un muro?» chieseBruno.

L’altro gli domandò cosa mai gli avesse fatto la sua donna, per doverlaconciare in quel modo.

Calandrino, che si era lasciato andare, spossato, sopra una sedia,non aveva più nemmeno il fiato per parlare.

Bruno, con faccia severa, gli si fece davanti e gli disse:«Che maniere sono queste? Ci porti nel Mugnone a cercar la pietra

fatata, poi ci lasci là come due babbei e te ne vieni a far questioni contua moglie. Questa è l’ultima che ci farai!»

«Compagni» rispose sforzandosi Calandrino «non arrabbiatevi. Lecose stanno diversamente. Pensate: avevo trovato la pietra! L’avevo pro-prio trovata, tanto è vero che quando vi domandavate l’uno l’altro dime, io vi ero vicino, a pochi passi. Mi avete perfino colpito con dei sassicredendo di tirarli nel vuoto! Guardate: ho un piede gonfio, una bottaqui sul fianco e tre o quattro bitorzoli sulla testa. Sono perfino entratoda porta San Gallo senza che le guardie mi vedessero. Abituati comesono a mettere il naso anche nella bocca di quelli che entrano, se miavessero visto con tutto quel carico mi avrebbero certamente fermato.Anche per la strada, quelli che incrociavo non si accorgevano di me, velo assicuro. Per mia fortuna non ho incontrato donne. Ma arrivato acasa, ecco che questa maledetta mi si para davanti e fa perdere ognivirtù alla pietra. Mi vede, capite! Perché dovete sapere che le femminehanno potere di sfatare ogni incanto. Così ha fatto perdere alla pietrail suo potere e mi ha reso il più disgraziato uomo del mondo, quandopotevo essere il più ricco. Per questo gliene ho date fin che ho potuto enon so chi mi tenga dall’ammazzarla. Maledetto il momento che l’hosposata».

Si era di nuovo così infuriato parlando, che si sarebbe gettato dac-capo sulla moglie, se Bruno e Buffalmacco non l’avessero trattenuto.

Pur avendo voglia di ridere, i due cercarono di fargli capire che lamoglie non aveva nessuna colpa, perché lui, sapendo che le donne hannopotere di far perdere le proprietà delle pietre, non avrebbe dovuto com-parirle dinnanzi quel giorno. Se contro ogni buon senso lo aveva fatto,era segno che Dio voleva punirlo per aver cercato d’ingannare i suoicompagni non dicendo d’aver trovato la pietra.

Vedendo che a quelle parole Calandrino si andava calmando, Brunoe Buffalmacco se ne andarono a raccontare in giro la nuova beffa,lasciando l’amico con la casa piena di sassi e la moglie pesta e malconciada consolare.

(Il Decameron raccontato in 10 novelle, a cura di P. Chiara, Milano, Mondadori, 1984)

Ecco che cosa accade achi è stupido, disonestoe per giunta violentocon i più deboli.

Attraverso la figura diCalandrino, Boccacciopresenta un eroe nega-tivo: l’esatto contrariodell’uomo intelligente,cortese e di buon sensocelebrato in tante altrenovelle.

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L’autore e l’operaTorquato Tasso nacque a Sorrento nel 1544, figliodi un poeta e di una nobildonna di origini toscane,compì i suoi studi a Padova e a Bologna. Nel 1562scrisse il poema epico Rinaldo, incentrato sulleavventure di Orlando. Nel 1565, giunto a Ferrara inoccasione del matrimonio del duca Alfonso II, entròa far parte della corte estense al servizio del car-dinale Luigi d’Este. A questo periodo risale l’iniziodella stesura di liriche amorose dedicate a LauraPeperara, conosciuta a Mantova, e a Lucrezia Ben-didio, dama di Eleonora d’Este. Dopo un soggiornoa Roma e a Napoli, nel 1579 ritornò a Ferrara, manon avendo trovato l’accoglienza sperata, diede in

escandescenze durante le terze nozze di Alfonso IIcon Margherita Gonzaga. Il duca lo rinchiuse quindinell’Ospedale Sant’Anna, dove rimase per setteanni. Nel 1580 venne pubblicato il dramma pasto-rale Aminta e nel 1581 il poema Gerusalemme libe-rata. Dal 1588 Tasso riprese il frenetico peregri-nare tra le corti e le città italiane, peggiorando legià precarie condizioni di salute e le ristrettezzeeconomiche. Morì a Roma nel 1595 a 51 anni, pocoprima di ricevere la laurea poetica promessagli daIppolito Aldobrandini. Fu sepolto nella Chiesa diSant’Onofrio al Gianicolo, presso il cui convento erastato ospite, in cerca di sollievo spirituale, nell’ul-timo periodo della sua vita.

Torquato Tasso

La lirica seguente è una ballata, un componimento poetico d’origineprovenzale che si diffuse in Italia verso la metà del Duecento, e ha uncontenuto lirico, ossia sentimentale. È composta da una sola strofa, con schema metrico XYYX ABCBACCDDX.

Ecco sparir le stellee spirar l’aura

Parafrasi

Ecco sparire le stelle e levarsi la brezza,e muovere le frondedei piccoli alberi al mormorio delle onde

Guida alla lettura

Il nome di Laura, a cui la ballata è dedicata, compare solo al termine, ma il suo arrivo è anticipatodall’alba e in particolare dal gioco di parole tra l’aura e Laura, ripreso nel verso finale.

Testo originale

Ecco sparir le stelle e spirar l’aura1, e tremolar2 le fronde3

de gli arboscelli al mormorio de l’onde

1. aura: aria, ma con l’idea del movimento,quindi brezza leggera, venticello.

2. tremolar: muoversi tremando; la parolaè onomatopeica, ossia riproduce il suono,

come mormorio nel verso successivo.3. fronde: ramoscelli con foglie.

Il Quattrocento e il Cinquecento

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La natura riflette lo stato d’animo del poeta, che al pensiero della sua amata vede tutto meravi-glioso: il vento è dolcissimo, gli uccelli sono vaghi e cantano soavemente, la luce dell’auroraimperla le campagne, indora i monti. La musicalità dei versi è accentuata dalla presenza di suonicome sparir... spirar (l’uno anagramma dell’altro) e da onomatopee (tremolar, mormorio).

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che ’l suo spirto dolcissimo ristaura; 5 e tra’ frondosi rami i vaghi augelli

cantar soavemente; e già l’aurora ne l’oriente rugiadosa appare e le campagne imperla e i monti indora,e dispiegando al vento i bei capelli chiaro specchio si fa de l’ampio mare. O bella Aurora, al cui venir più caresono tutte le cose, più liete, più ridenti e più gioiose,l’aura è tua Messaggiera, e tu di Laura.

(T. Tasso, Opere, a cura di B. Maier, Milano, Rizzoli, 1963-65)

a cui il suo [del vento] dolcissimo spirare (spirto) dà nuova vitalità (ristaura);e tra i rami frondosi cantano soavementei graziosi (vaghi) uccelli; e già a oriente appare l’aurora che ornale campagne con perle di rugiada e illumina (indora) i monti, e sciogliendo al vento i bei capelli[riflette] il grande mare come un chiaro specchio. O bella Aurora, al cui arrivo tutte le cose sono più amabili (care),più liete, più ridenti e più gioiose,la brezza è tua Messaggera, e tu [lo sei] di Laura.

Quando l’Aurora appare (notare la personificazione attraverso l’uso della lettera maiuscola)tutte le cose appaiono più liete, più ridenti e più gioiose, come il poeta all’arrivo di Laura.

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L’autore e l’operaGiuseppe Parini, nato da famiglia modesta a Bosisio,in provincia di Lecco, nel 1729, frequentò le scuolesuperiori a Milano grazie all’aiuto di una zia che glilasciò in eredità i suoi beni a patto che divenissesacerdote, cosa che avvenne nel 1754. Nel 1752pubblicò una prima raccolta di poesie e tra il 1754a il 1762 fu al servizio del duca Gabrio Serbellonicome precettore del figlio Gian Galeazzo; in casaSerbelloni il Parini osservò la vita della nobiltà econobbe il pensiero illuminista francese di Vol-taire, Montesquieu, Rousseau e dell’Encyclopédie,che influenzò i suoi scritti di questo periodo, tra cuiil Dialogo sopra la nobiltà, le odi La vita rustica, Lasalubrità dell’aria e La impostura.Nell’ottobre del 1762 fu licenziato da casa Serbel-loni per aver difeso la figlia del compositore e mae-stro di musica Giovanni Battista Sammartini, cheera stata schiaffeggiata dalla duchessa in uno scattod’ira. Accolto dai nobili Imbonati come precettore

del giovane Carlo, tra il 1763 e il 1765 pubblicò IlMattino e Il Mezzogiorno, le prime due parti delpoema Il Giorno.Tale opera ottenne una favorevole accoglienza dallacritica e gli procurò la protezione del governo diMaria Teresa d’Austria, la nomina di poeta uffi-ciale del Regio Ducale Teatro e, dal 1769, la cattedradi eloquenza e belle arti presso le Scuole Palatine(divenute in seguito Regio Ginnasio di Brera).Dal 1774 fece parte di una commissione per la riformadelle scuole inferiori; in seguito ricevette da papaPio VI una pensione annuale che gli permise di dedi-carsi alla produzione letteraria, con numerose odi,tra cui L’educazione e La caduta, e le ultime dueparti del Giorno, il Vespro e la Notte. Nel 1796,quando i francesi di Napoleone occuparono Milano,entrò a far parte della Municipalità, ma per tre solimesi, rappresentando insieme a Pietro Verri la ten-denza più moderata. Si spense nella sua abitazionedi Brera il 15 agosto 1799.

Giuseppe Parini

Nel poema Il Giorno Parini immagina di essere il precettore di un giovinsignore al quale deve illustrare le attività che si possono svolgere durante la giornata. In realtà si tratta di un poema satirico in cui l’autore si servedella descrizione dei comportamenti più umili, ma onesti e laboriosi, per smascherare i vizi di una nobiltà che approfitta dei suoi ingiusti privilegiper condurre una vita priva di senso e valore morale. Il componimento, diviso in quattro parti (Il Mattino, Il Mezzogiorno, Il Vesproe La Notte) è in endecasillabi sciolti, versi di undici sillabe senza rime. La parte che ti presentiamo è quella iniziale del Mattino, dove il comportamento del giovin signore al mattino è paragonato a quello delcontadino (il buon villan) e a quello del fabbro, entrambi umili lavoratori.

Il risveglio del giovinsignore

Parafrasi

Sorge il mattino insieme all’albaprima del sole che poi appare grandesull’estremo orizzonte per rendere lietigli animali e le piante e i campi e le acque del mare.

Testo originale

Sorge il mattino in compagnia dell’albadinanzi al sol che di poi grande appare su l’estremo orizzonte a render lieti gli animali e le piante e i campi e l’onde.

Il Seicento e il Settecento

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Guida alla lettura

Il sole sorge e l’intera natura si risveglia, lieta di un nuovo giorno. Ecco che il buon villan sialza, pronto al lavoro. La sua fatica nei campi è nobilitata dall’aggettivo sacri, riferito agli stru-menti che si carica sulle spalle, e dal riferimento delle dee protettrici delle messi, Cerere, edella pastorizia, Pale.

Quanto al fabbro, il suo lavoro ha l’importante compito di rassicurare chi è ricco con lavori d’in-gegno o fornire ornamenti alle giovani spose e alla vita familiare con oggetti da porre sulle mense.

1. villan: contadino, abitante della villa,ossia la fattoria di campagna durante l’Im-pero romano.

2. sacri arnesi: gli attrezzi da contadino,sacri perché usati per lavorare la terra.

3. Cerere: dea romana delle messi.4. Pale: dea romana della pastorizia.

Allora il buon contadino si alza dall’amato letto in cui la moglie e i suoi figli minori hanno reso tiepido il trascorrere della notte;poi portando sulle spalle gli strumenti sacri che per prime scoprirono Cerere, e Pale, va verso il campo con davanti il lento bue, e lungo lo stretto sentiero fa cadere dai rami ricurvi la rugiada che, quasi fosse una pietra preziosa,riflette i nascenti raggi del sole.Allora si alza il fabbro, e riapre la rumorosa officina, e torna alle opere non terminate il giorno precedente; o se deve rendere sicuricon chiave di difficile fabbricazione e serrature di ferro gli scrigni per un ricco timoroso; o se vuole incidere con argento e oro gioielli e vasi per ornare il corredo di una sposa novella o le tavole. Ma come? Tu [giovin signore] al suono delle mie parole inorridisci e mostri sul capo capelli ritti e pungenti come quelli di un istrice? Ah signore per te questo non è il mattino. Tu al tramontonon ti sei seduto per una modesta cena, e alla luce incerta del crepuscolo non andasti ieri a riposare tra dure coperte come ha fatto l’umile popolo nelle sue povere case.A voi prole divina (celeste) a voi nobile riuinione (concilio almo)di semidei Giove benigno concesse ben altro: e bisogna che io vi guidi su una strada (calle) insolita

Allora il buon villan1 sorge dal caro letto cui la fedel moglie e i minori suoi figlioletti intiepidìr la notte; poi sul dorso portando i sacri arnesi2

che prima ritrovò Cerere3, e Pale4, 10 move seguendo i lenti bovi, e scote

lungo il picciol sentier da i curvi rami fresca rugiada che di gemme al paro la nascente del sol luce rifrange. Allora sorge il fabbro, e la sonante

15 officina riapre, e all’opre torna l’altro dì non perfette; o se di chiave ardua e ferrati ingegni all’inquieto ricco l’arche assecura; o se d’argento e d’oro incider vuol gioielli e vasi

20 per ornamento a nova sposa o a mense. Ma che? Tu inorridisci e mostri in capo qual istrice pungente irti i capelli al suon di mie parole? Ah il tuo mattino signor questo non è. Tu col cadente

25 sol non sedesti a parca cena, e al lume dell’incerto crepuscolo non gisti ieri a posar qual ne’ tugurj suoi entro a rigide coltri il vulgo vile. A voi celeste prole a voi concilio

almo di semidei altro concesse giove benigno: e con altr’arti e leggi

Diverso è il comportamento del giovin signore. Questa fortunata celeste prole, concilio disemidei, ha trascorso la notte tra divertimenti e gioco d’azzardo, e l’alba segna il momentodel ritorno a casa. Alla sonante officina del fabbro si contrappone il fragor di calde e precipi-tose rote, al tranquillo seguire i lenti bovi del contadino, il calpestio di volanti corsier, all’im-magine delle divinità dell’agricoltura si contrappone l’inquietante e fragorosa immagine di Plu-tone sul suo carro, preceduto dalle fiaccole delle Furie.

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5. Pluto: Plutone, re dell’Averno o Ade,l’oltretomba, rapì in Sicilia Proserpina,figlia di Cerere, e la portò nel suo regno,sul suo carro preceduto dalle Furie.6. tede: fiaccole.7. Furie anguicrinite: Aletto, Megera eTesifone, dette Erinni dai Greci, eranodivinità infernali, di carnagione scura econ serpenti al posto dei capelli (angui-

crinite). Vivevano nell’Erebo, la parte piùoscura dell’Ade, da cui uscivano una voltaal mese per salire sulla terra e punire glispergiuri e i colpevoli di delitti controfamiliari e amici. 8. Ungarese bottiglia: il Tocai, vinoungherese.9. Bromio: in greco “il chiassoso”, epi-teto del dio greco Dioniso (Bacco per i

Romani), in riferimento ai suoi rumorosifestini.10. Sonno: il dio greco Morfeo, rappre-sentato alato e con una cornucopia (unrecipiente a forma di grande corno) dallaquale escono i sogni.11. sprimacciò: scosse per distribuire l’im-bottitura in modo uniforme.

Dopo gli ultimi cibi e gli ultimi bicchieri di vino proveniente da terre lontane, il giovin signoresi abbandona al sonno e i suoi occhi si chiudono al canto del gallo che gli altri risveglia. Quantadifferenza con la vita tranquilla e laboriosa della gente semplice!

con altri criteri di giudizio (arti e leggi).Tu hai passato la nottata e anche oltretra veglie e spettacoli canori ed emozionanti giochi d’azzardo (patetico gioco): e finalmente stanco su una carrozza dorata turbasti la quieta atmosfera notturnacol rumore di veloci ruote surriscaldate [per la velocità] e col rumore dei passi di valletti che corrono davanti alla carrozza; e allontanasti le tenebre circostanti con le grandi torce luminose [portate dai valletti]come avvenne quando Plutone fece rimbombare la terra siciliana dall’uno all’altro mare col carro precedutodalle fiaccole delle Furie dai capelli di serpi.Simile [a Plutone sul suo carro] ritornasti ai tuoi grandi palazzi:e qui ti offre piacevoli conforti la tavola ricoperta da cibi stuzzicanti (prurigginosi) e piacevoli liquori provenienti dalle colline francesi e spagnole e toscane o la bottiglia di vino ungherese a cui Bacco concedette la corona di verde edera e disse: ora siedi regina delle mense. Infine il Sonno ti scosse con le sue mani le morbide (molle cedenti) coperte,dove, tu ben sistemato, il fedele servo fece scendere le tende di seta [pendenti dal baldacchino] per far ombra: e a te dolcemente chiuse gli occhi (i lumi) il gallo che è solito aprirli agli altri.

per novo calle a me guidarvi è d’uopo. Tu tra le veglie e le canore scene e il patetico gioco oltre più assai

35 producesti la notte: e stanco alfine in aureo cocchio col fragor di calde

precipitose rote e il calpestio

di volanti corsier lunge agitasti il queto aere notturno; e le tenèbre

40 con fiaccole superbe intorno apristi siccome allor che il Siculo terreno da l’uno a l’altro mar rimbombar fèo Pluto5 col carro a cui splendeano innanzi le tede6 de le Furie anguicrinite7.

45 Tal ritornasti a i gran palagi: e quivi cari conforti a te porge a la mensa cui ricoprien prurigginosi cibi e licor lieti di Francesi colli e d’Ispani e di Toschi o l’Ungarese

50 bottiglia8 a cui di verdi ellere Bromio9

concedette corona, e disse: or siedi de le mense reina. Alfine il Sonno10

ti sprimacciò11 di propria man le còltrici molle cedenti, ove, te accolto, il fido

55 servo calò le ombrifere cortine: e a te soavemente i lumi chiuse il gallo che li suole aprire altrui.

(G. Parini, Il giorno)

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Il Seicento e il Settecento

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L’autore e l’operaUgo Foscolo nacque nel 1778 a Zante (all’epocaZacinto, isola appartenente alla Repubblica diVenezia) e morì in esilio presso Londra nel 1827.Trascorse parte della sua fanciullezza in Dalmazia,dove il padre esercitava la professione di medico.Dopo la morte del padre, nel 1792 si trasferì con lafamiglia a Venezia dove compì gli studi superiori.Al 1794 risalgono i suoi primi componimenti poe-tici e al 1796 le prime odi e canzoni. Nel 1797 fu trai più decisi sostenitori dell’indipendenza della Repub-blica veneziana e quando Napoleone, con il Trat-tato di Campoformio, cedette Venezia all’Austria,Foscolo, sdegnato, partì in volontario esilio e si recòa Milano, dove conobbe Parini e Monti, frequentò

i circoli culturali della città e negli anni successiviprese attivamente parte agli avvenimenti politici emilitari italiani. Nel frattempo proseguì la sua atti-vità letteraria, pubblicando nel 1789 il romanzoUltime lettere di Jacopo Ortis e raccogliendo nel1803 il meglio della sua produzione (dodici sonetti,tra cui Alla sera, In morte del fratello Giovanni, AZacinto, e due odi: A Luigia Pallavicino caduta dacavallo e All’amica risanata). Nel 1806 pubblicò ilcarme Dei sepolcri e nel 1813 il poema Le Grazie.Alla caduta del Regno italico nel 1814, decise di nonprestare giuramento alle nuove autorità austriachee preferì l’esilio volontario, prima in Svizzera, poiin Inghilterra, dove trascorse gli ultimi anni inpovertà.

Ugo Foscolo

Il sonetto In morte del fratello Giovanni è stato composto tra aprile e luglio1803 per ricordare la morte del fratello Giovanni Dionigi, ufficiale dell’esercitodella Repubblica Cisalpina che si era ucciso nel 1801 per debiti di gioco. Lo schema metrico è ABAB, ABAB, CDE, CED.

In morte del fratelloGiovanni

Parafrasi

Un giorno, se io non andrò sempre fuggiasco di popolo in popolo, mi vedrai sedutopresso la tua tomba, o fratello mio, piangendola tua precoce morte.

Testo originale

Un dì, s’io non andrò sempre fuggendo

di gente in gente, mi vedrai sedutosu la tua pietra1, o fratel mio, gemendoil fior de’ tuoi gentili anni2 caduto.

Il tema autobiografico è presente fin dall’inizio del sonetto: il poeta si rivolge direttamente alfratello, paragonando la sua vita affannosa (condotta in esilio, fuggendo di gente in gente)con quella del fratello morto nel fiore degli anni.

1. pietra: pietra tombale. 2. gentili anni: i lieti anni della giovinezza.

Guida alla lettura

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La madre or sol, suo dì tardo3 traendo,parla di me col tuo cenere muto:ma io deluse a voi le palme tendo,e se da lunge i miei tetti saluto,

sento gli avversi numi, e le secrete 10 cure che al viver tuo furon tempesta,

e prego anch’io nel tuo porto quiete.

Questo di tanta speme4 oggi mi resta!Straniere genti, l’ossa mie rendeteallora5 al petto della madre mesta.

(U. Foscolo, Dall’Ortis alle Grazie, a cura di S. Orlando,Torino, Loescher, 1974)

Solo nostra madre, vivendo i suoi ultimi anni,parla di me con il tuo spirito ormai silenzioso:ma io tendo verso di voi le miei mani deluse,e se da lontano saluto la mia patria,

provo le avversità degli dei, e le sofferenze nascoste nell’intimo che ti fecero vivere tempestosamente, e prego anch’io di trovare la pace nel tuo porto [nella morte].

Questa sola speranza di tante che avevo mi resta oggi!Genti straniere, quando morirò, restituite il mio corpoall’abbraccio della madre sofferente.

Tramite e legame tra i due è la madre, ormai anziana, che parla dell’uno con le ceneri ormaimute dell’altro.

Disilluso, il poeta può solo salutare da lontano il suo paese (da lunge i miei tetti saluto) ed espri-mere l’auspicio di trovare quiete nella morte, paragonata al porto in cui ha trovato riposo il fra-tello. Ultima speranza è che, dopo la sua morte, almeno il corpo (l’ossa) venga restituito allamadre, perché possa riunirlo a quello del fratello nel pianto.

3. tardo: inoltrato nel tempo, anziano. 4. speme: speranza. 5. allora: al momento della morte.

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L’autoreAlessandro Manzoni nacque a Milano nel 1785, danobile famiglia. La madre Giulia, figlia di CesareBeccaria (l’autore del saggio Dei delitti e delle penecontro la pena di morte e la tortura), si separò benpresto dal marito e si trasferì a Parigi, dove nel1805 la raggiunse il figlio, che aveva completatogli studi superiori. Nella città, divenuta durante ilperiodo napoleonico il centro culturale d’Europa,il ventenne Alessandro ebbe modo di frequentarei circoli intellettuali che si ispiravano all’illumi-nismo, ma anche al nascente romanticismo.Manzoni ritornò a Milano nel 1810, dopo il matri-monio con Enrichetta Blondel, di religione calvi-nista e figlia di un ricco banchiere di Ginevra. Laconversione al cattolicesimo di Enrichetta fu seguitada quella che viene comunemente definita la “con-versione religiosa” del Manzoni. Il poeta, la cui for-mazione era avvenuta sulla base delle idee dell’Il-luminismo razionalista, riscoprì un forte interessereligioso e ritornò alla pratica della fede.Dal 1810 al 1827 la famiglia visse tra Milano e unavilla a Brusuglio, nella campagna milanese. Man-zoni, pur non occupandosi di politica attiva, seguìcon interesse le vicende del Risorgimento esostenne la corrente liberale, favorevole all’unifi-cazione nazionale. Nel 1861 fu nominato senatoredel neonato Regno d’Italia e fu tra i sostenitori deltrasferimento della capitale a Roma. Morì a Milanonel 1873, all’età di 88 anni.

L’operaLa produzione letteraria di Manzoni fu vasta ecomprende opere di vario genere. In prosa fu autore di saggi critico-letterari e ricerchestoriche, tra cui il Discorso sopra alcuni punti dellastoria longobardica in Italia (1822), la lettera SulRomanticismo (1823), la Storia della colonna infa -me (1840), il Discorso sul romanzo storico (1845).Scrisse inoltre opere filosofico-morali, tra cui leOsservazioni sulla morale cattolica (1855).L’opera a cui è maggiormente legata la sua fama èil romanzo storico I promessi sposi, scritto in unaprima versione nel 1821 col titolo Fermo e Lucia,rivisto e pubblicato nel 1827 col titolo I promessisposi, e ripubblicato in edizione definitiva nel 1840.Ampia anche la produzione in poesia. A soli sedicianni scrisse Del trionfo della libertà (1801), un poe-

metto che rivelò la sua precoce vocazione lette-raria. Dopo la “conversione”, tra il 1812 e il 1822,compose gli Inni sacri, dedicati alla celebrazionedelle più importanti festività religiose: Resurre-zione, Il nome di Maria, Natale, Passione, Pente-coste. Di ispirazione civile sono invece le due odiscritte nel 1821: Marzo 1821, che esprime le spe-ranze per la liberazione della Lombardia da partedell’esercito piemontese, e Il Cinque Maggio, checommemora la morte di Napoleone Bonaparte.Per il teatro Manzoni compose due tragedie sto-riche di ispirazione etico-religiosa: Il Conte di Car-magnola (1820), che ha come protagonista uncapitano di ventura ingiustamente condannato amorte durante le contese tra il ducato di Milanoe la repubblica di Venezia nel primo Quattrocento,e l’Adelchi.La tragedia in cinque atti Adelchi (1820-22) si ispiraa fatti storici avvenuti tra il 772 e il 774, all’epocadella discesa in Italia di Carlo, re dei Franchi, chia-mato dal papa Adriano contro Desiderio, re deiLongobardi, che aveva incominciato a invadere iterritori della Chiesa. Ermengarda, figlia di Desiderio, è stata ripudiatada Carlo, che vuol sciogliere i legami di parentelacoi Longobardi. La donna, straziata per esserepassata dall’amore ricambiato al ripudio e all’ab-bandono, torna dal padre e chiede di potersi rifu-giare in un convento, a Brescia, dove in seguitomuore. Carlo intima a Desiderio di restituire alpontefice Adriano le terre, ma Desiderio rifiuta,nonostante il figlio Adelchi gli suggerisca di tro-vare un accordo. Scoppia la guerra e i Franchi,informati dal diacono Martino, colgono di sorpresai Longobardi alle Chiuse di Susa. Adelchi, pur con-trario alla guerra, combatte strenuamente perdovere e amore filiale. Le sorti dei Longobardi vol-gono al peggio: per l’estrema difesa Desiderio sirifugia a Pavia e Adelchi a Verona. Un traditoreapre all’esercito di Carlo le porte di Pavia, doveDesiderio è asserragliato. Caduto prigioniero, Desi-derio chiede a Carlo di lasciar libero Adelchi. Manel frattempo Verona si è arresa per la defezionedi duchi e soldati longobardi e Adelchi, dopo avercombattuto coraggiosamente è stato ferito. Tra-sportato nella tenda di Carlo, Adelchi chiede unadignitosa prigionia per Desiderio, poi offre a Diola sua “anima stanca” e muore.

Alessandro Manzoni

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Il coro seguente si trova a conclusione dell’atto terzo della tragedia. È indodecasillabi, tronchi il terzo e il sesto, piani gli altri, con rima AABCCB. Protagonisti degli avvenimenti sono tre popoli: i vecchi e i nuovi invasori,Franchi e Longobardi che si affrontano con le armi, e il popolo italico, gli eredi della fiera virtù dei padri latini ormai ridotti a un imbelle volgodisperso che nome non ha.

Adelchi

Parafrasi

Dai palazzi ricoperti di muschio, dalle antiche piazze in rovina,dai boschi, dalle ardenti e rumorose officine, dai solchi [dell’aratro] frutto del lavoro dei servi,un popolo (volgo) diviso improvvisamente si sveglia;tende l’orecchio, solleva il capocolpito da un insolito crescente rumore.

Dagli sguardi incerti, dai volti timorosi, traspare l’orgoglioso valore (virtù) dei padricome un raggio di sole da dense nubi:negli sguardi, nei volti il disprezzo sopportatosi mescola e contrasta, confuso e incerto, con il nostalgico orgoglio per la gloria passata.

Si raduna speranzoso, si disperde timoroso,per sentieri tortuosi con passo insicuro del percorso,fra paura e speranza, avanza e si ferma;e guarda e riguarda la massa sbandata dei crudeli signori, che fugge di fronte alle arminemiche, che non ha sosta, scoraggiata e disordinata.

Testo originale

Dagli atrii1 muscosi, dai fori2 cadenti,dai boschi, dall’arse fucine3 stridenti,dai solchi bagnati di servo sudor,un volgo disperso repente si desta;

5 intende l’orecchio, solleva la testapercosso da novo crescente romor4.

Dai guardi dubbiosi, dai pavidi volti,qual raggio di sole da nuvoli folti,traluce de’ padri la fiera virtù:

10 ne’ guardi, ne’ volti confuso ed incertosi mesce e discorda lo spregio soffertocol misero orgoglio d’un tempo che fu.

S’aduna voglioso, si perde tremante,per torti sentieri con passo vagante,

15 fra tema e desire, s’avanza e ristà;e adocchia e rimira scorata e confusade’ crudi signori la turba diffusa,che fugge dai brandi, che sosta non ha.

I Longobardi (crudi signori) sono presentati come una massa sbandata (turba diffusa), in fugadavanti ai nemici. Una similitudine li descrive come belve (fere) spaventate, che si rifugiano nelletane. L’unica nota di compatimento riguarda le donne, un tempo superbe, che guardano preoccu-pate i loro figli e la ripetizione (pensose... pensosi) sottolinea il loro stato d’animo.

1. atrii: i locali d’ingresso, qui per indi-care i palazzi. 2. fori: le piazze principali delle città

romane, dove si affacciavano i maggioriedifici pubblici.3. arse fucine: le officine in cui si lavo-

rava il metallo, con un calore opprimente. 4. romor: la inattesa notizia della scon-fitta dei Longobardi.

Il primo a essere descritto è il popolo originario, erede dei latini, di cui si ricordano le grandi ville,le piazze (fori) ormai in rovina. Un popolo laborioso nelle fucine e nei campi (solchi), la cui fieravirtù dei padri e l’orgoglio d’un tempo non sono che un ricordo che appare incerto negli sguardie nei volti confusi.

Guida alla lettura

Coro dell’atto terzo

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Li vede ansanti, come animali spaventati,con il pelo delle rosse criniere rizzato per la paura,cercare i nascondigli conosciuti delle loro tane;e qui, abbandonato il consueto atteggiamento minaccioso,le superbe donne [longobarde] con il volto pallidoguardare ansiose i figli ansiosi.

E contro (sopra) gli uomini in fuga, giungono da ogni parte i guerrieri, con spade (brando) desiderose di colpire, come cani finalmente slegati, correndo, cercando:li vede, e preso da una gioia mai provata,con la speranza senza ostacoli (agile) immagina il futuro,e sogna la fine della dura servitù.

Udite! Quegli uomini forti che stanno vincendo [i Franchi],che impediscono la fuga dei tiranni precedenti [i Longobardi], sono giunti da lontano, per difficili sentieri:rinunciarono alle gioie di ricchi pranzi,si alzarono in fretta dai piacevoli (blandi) ozi,chiamati improvvisamente dal segnale (squillo) di guerra.

Lasciarono le sale della casa paternale donne tristi, che continuamente rinnovavano (tornanti) l’addio,preghiere e consigli terminarono in pianto:hanno posto sulla fronte gli elmi ammaccati,hanno sellato i cavalli dal mantello bruno,volarono sul ponte levatoio del castello che suonò cupo.

A schiere (torme), hanno attraversato territori,cantando allegre canzoni di guerra, ma ricordando i loro dolci castelli:in valli rocciose, tra dirupi inospitali,trascorsero gelide notte vegliando armati,ricordando i fiduciosi discorsi d’amore [con le loro donne].

Ansanti li vede, quai trepide fere,20 irsuti per tema le fulve criniere,

le note latèbre del covo cercar;e quivi, deposta l’usata minaccia,le donne superbe, con pallida faccia,i figli pensosi pensose guatar.

E sopra i fuggenti, con avido brando,quai cani disciolti, correndo, frugando,da ritta, da manca5, guerrieri venir:li vede, e rapito d’ignoto contento,con l’agile speme precorre l’evento,e sogna la fine del duro servir.

Udite! Quei forti che tengono il campo,che ai vostri tiranni precludon lo scampo,son giunti da lunge, per aspri sentier:sospeser le gioie dei prandi festosi,

35 assursero in fretta dai blandi riposi,chiamati repente da squillo guerrier.

Lasciar nelle sale del tetto natiole donne accorate, tornanti all’addio,a preghi e consigli che il pianto troncò:

40 han carca la fronte de’ pesti cimieri6,han poste le selle sui bruni corsieri,volaron sul ponte che cupo sonò.

A torme, di terra passarono in terra,cantando giulive canzoni di guerra,

45 ma i dolci castelli pensando nel cor:per valli petrose, per balzi dirotti,vegliaron nell’arme le gelide notti,membrando i fidati colloqui d’amor.

L’autore si rivolge in modo accorato direttamente al popolo italico: Udite!

5. da ritta, da manca: da destra, da sinistra, ossia da ogni parte.6. pesti cimieri: elmi ammaccati dalle battaglie, simboli di un popolo abituato a combattere.

I Franchi sono invece rappresentati attraverso una similitudine coi cani finalmente liberatidalle catene (disciolti). E, come i cani, corrono da ogni parte e frugano alla ricerca della preda.

La possibilità che il popolo asservito migliori la propria condizione è solo un’illusione.I nuovi venuti giungono da lontano, hanno lasciato la propria famiglia, i propri castelli (ricor-dati dai ponti levatoi che risuonano cupi, quasi un presagio del fragore della battaglia), hannofaticato, marciato, combattuto. Come si può pensare che rinuncino al loro premio (sperato epromesso), per cambiare le condizioni di un popolo straniero?

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Gli oscuri pericoli di soste (stanze) disagevoli (incresciose)le corse affannose per alture (greppi) prive di sentieri,la durezza della disciplina, i lunghi digiuni;videro le lance indirizzate contro i loro petti,accanto agli scudi, vicine agli elmi,udirono il sibilo delle frecce.

E il premio in cui speravano, che era stato loro promesso,potrebbe essere, o illusi, cambiare le condizioni,porre fine alle sofferenze di un popolo straniero?Tornate alle vostre rovine superbe,alle opere pacifiche delle ardenti officine,ai solchi bagnati dal sudore dei servi.

Il vincitore (forte) si mescola col nemico vinto, col signore nuovo rimane il precedente;entrambi i popoli vi dominano.Si spartiscono i servi, si spartiscono gli animali;si insediano entrambi nei campi [di battaglia] bagnati di sanguedi un popolo senza nazione (disperso) che non ha nome.

Gli oscuri perigli di stanze incresciose,50 per greppi senz’orma le corse affannose,

il rigido impero, le fami durâr;si vider le lance calate sui petti,a canto agli scudi, rasente gli elmetti,udiron le frecce fischiando volar.

55 E il premio sperato, promesso a quei [forti,

sarebbe, o delusi, rivolger le sorti,d’un volgo straniero por fine al dolor?Tornate alle vostre superbe ruine7,all’opere imbelli8 dell’arse officine,

60 ai solchi bagnati di servo sudor.

Il forte si mesce col vinto nemico,col novo signore rimane l’antico;l’un popolo e l’altro sul collo vi sta.Dividono i servi, dividon gli armenti;si posano insieme sui campi cruentid’un volgo disperso che nome non ha.

(A. Manzoni, Adelchi)

7. superbe ruine: le rovine dei monumenti romani, superbe perciò che rappresentavano, ma ormai senza valore.

8. imbelli: pacifiche (lett. “non adatte alla guerra”), riferito ailavori servili che il popolo italico è ormai abituato a svolgere.

Al popolo italico non resta che tornare al suo lavoro servile nelle officine e nei campi, perchéi vecchi e i nuovi padroni si uniranno e si divideranno tutto ciò che resta a un popolo privo didiritti e identità nazionale: volgo disperso che nome non ha.

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L’autoreGiacomo Leopardi nacque nel 1798 a Recanati,nelle Marche allora appartenenti allo Stato ponti-ficio. Figlio primogenito di una famiglia nobile, tra-scorse una prima infanzia serena, unito nei giochie negli studi ai due fratelli Carlo e Paolina, a lui piùvicini d’età. La prima istruzione la ricevette dalpadre, il conte Monaldo, uomo molto colto, ma diidee reazionarie; in seguito fu affidato a precettoriecclesiastici. Ben presto, però, preferì continuareper proprio conto gli studi, approfittando della riccabiblioteca paterna. Da solo imparò il latino, il greco,l’ebraico e alcune lingue moderne, si dedicò allatraduzione di testi classici e compose le primeopere di argomento scientifico o filosofico, comela Storia dell’astronomia (1813) e il Saggio sopra glierrori popolari degli antichi (1815), oltre ad alcunisonetti, tra cui Agl’Italiani (1815). Nel 1819 una gravemalattia agli occhi, che lo costrinse a lunghi mesidi buio, e altri problemi di salute fecero maturarein lui una profonda crisi e il desiderio di lasciare lacasa paterna e il soffocante ambiente provincialein cui viveva. Finalmente nel 1822 poté recarsi aRoma, presso parenti materni, ma fu una delusione:in piena Restaurazione, la società romana gli apparvechiusa e reazionaria. Tornato nel 1823 a Recanati,vi rimase fino al 1825, quando riuscì ad allonta-narsi nuovamente grazie all’assegno mensile offer-togli da un editore in cambio di alcuni lavori. Leo-pardi visse quindi a Bologna, Milano e Firenze,stringendo relazioni e amicizie; il peggioramentodella salute e il venir meno dell’assegno dell’edi-tore lo costrinsero a ritornare a Recanati nel 1828,dove restò per “sedici mesi di notte orribile”. A sal-varlo intervennero degli amici che gli offrirono ano-nimamente un prestito grazie al quale poté lasciaredefinitivamente Recanati. Visse quindi a Firenze edal 1932 a Napoli, dove strinse rapporti con diversiintellettuali e morì nel 1837.

L’operaNel Discorso di un italiano intorno alla poesia roman-tica, del 1818, Leopardi trasferisce il mondo dellacultura classica, a lui tanto cara, all’interno di unaconcezione sentimentale e psicologica moderna,fissando alcuni punti che resteranno sottesi a tuttala sua produzione successiva: scopo della poesia èdilettare, rallegrare, ma poiché l’uomo non può sot-

trarsi a eventi quali la nascita, la sofferenza e lamorte, per sopportare l’angoscia dell’esistenzabisogna ricorrere alle illusioni. Le speranze dellagiovinezza, l’amore, la stessa fede in Dio non sonoche illusioni che aiutano a sopportare il dolore, idisincanti, l’inesorabile scorrere del tempo, lanostalgia e il rimpianto.Studioso attento della lingua italiana, Leopardi intro-dusse molte innovazioni nella struttura e nel lin-guaggio delle sue poesie; usò strofe e versi di lun-ghezza variabile (ad esempio, endecasillabi esettenari), spesso sciolti dalla rima o con rime anchea metà del verso, oltre ad allitterazioni, ossia ripe-tizioni di lettere con suono simile.

Tra le opere principali ricordiamo:lo Zibaldone, diario non destinato alla pubbli-

cazione, in cui tra il 1817 e il 1823 annotò quotidia-namente appunti, ricordi, osservazioni sulla linguae considerazioni su vari argomenti;

i Canti, liriche (componimenti poetici che espri-mono i sentimenti dell’autore) composte tra il 1818e il 1823, su temi di ispirazione classica;

le Operette morali, scritte in prosa tra il 1823 eil 1824, in cui espresse le sue concezioni della vita,a volte in forma di dialogo;

gli Idilli, brevi liriche composte tra il 1819 e il1821, che prendono spunto da un elemento del pae-saggio (in greco il termine idillio significa “qua-dretto”, “visione”); tra le più note L’infinito e Allaluna;

i Grandi Idilli, liriche di ampio respiro scritte trail 1828 e il 1830; tra le più note A Silvia, Le ricor-danze, Il sabato del villaggio, La quiete dopo la tem-pesta, Il passero solitario, Canto notturno di unpastore errante dell’Asia.

Giacomo Leopardi

Recanati, piazza Leopardi.

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La sera del dí di festa è un idillio composto nel 1820. Il contenuto riflettemolte delle tematiche presenti nelle riflessioni dell’autore in quegli anni: il sentirsi “rifiutato” dalla natura, che gli nega la felicità dell’amore,presentandosi più come matrigna che come madre.Il componimento è in endecasillabi (versi di 11 sillabe) sciolti (senza rima).

La sera del dì di festa

Parafrasi

La notte è dolce e serena e il vento non soffia,e la luna splende (posa) tranquilla (queta)sopra i tetti e negli orti, e nella lontananza fa apparireogni montagna nitida (serena). O donnaa cui penso, ogni sentiero è silenzioso, e la luce (lampa)notturna appare appena (traluce) sui balconi:tu dormi, poiché un facile sonno ti ha presonelle tue tranquille stanze; e non ti disturba nessuna preoccupazione; e non conosci né pensia quanto dolore d’amore (piaga) mi hai procurato.Tu dormi: io mi affaccio a salutare questo cielo,che appare al primo sguardo (in vista) così favorevole,e l’eterna (antica) natura che può tutto (onnipossente),che mi creò per la sofferenza (affanno). A te nego la speranza (speme), mi disse, anche la speranza;e per altro non brillino i tuoi occhi se non per il pianto.Questo giorno (dì) fu importante: ora [o donna] riposa dagli svaghi (trastulli); e forse ti ricordi in sogno a quanti oggi sei piaciuta, e quanti sono piaciuti a te: non io ti ritorno (ricorro) alla mente (pensier),

Testo originale

Dolce e chiara è la notte e senza vento,e queta sovra i tetti e in mezzo agli orti posa la luna, e di lontan rivela serena ogni montagna. O donna mia, già tace ogni sentiero, e pei balconi rara traluce la notturna lampa: tu dormi, che t’accolse agevol sonno nelle tue chete stanze; e non ti morde cura nessuna; e già non sai né pensi

10 quanta piaga m’apristi in mezzo al petto. Tu dormi: io questo ciel, che sì benigno appare in vista, a salutar m’affaccio, e l’antica natura onnipossente, che mi fece all’affanno. A te la speme

15 nego, mi disse, anche la speme; e d’altronon brillin gli occhi tuoi se non di pianto. Questo dì fu solenne: or da’ trastulli prendi riposo; e forse ti rimembra in sogno a quanti oggi piacesti, e quanti

20 piacquero a te: non io, non già, ch’io speri,

La donna è qui una presenza generica e simbolica, pretesto per il poeta di esprimere la pro-pria sofferenza in contrasto alla sua serenità.

Il momento iniziale, descrittivo, anticipa una situazione di serenità.

Appare qui il tema della natura, immutabile, onnipossente.La natura è personificata e si rivolge direttamente al poeta per vietargli persino la speranza.L’immagine consueta degli occhi brillanti di gioia viene qui rovesciata: gli occhi brillano sì, ma dipianto.

Guida alla lettura

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al pensier ti ricorro. Intanto io chieggo quanto a viver mi resti, e qui per terra mi getto, e grido, e fremo. Oh giorni orrendi in così verde etate! Ahi, per la via odo non lunge il solitario canto

dell’artigian, che riede a tarda notte, dopo i sollazzi, al suo povero ostello; e fieramente mi si stringe il core, a pensar come tutto al mondo passa,

30 e quasi orma non lascia. Ecco è fuggito il dì festivo, ed al festivo il giorno volgar1 succede, e se ne porta il tempo ogni umano accidente. Or dov’è il suono di que’ popoli antichi? or dov’è il grido

35 de’ nostri avi famosi, e il grande impero di quella Roma, e l’armi, e il fragorio2

che n’andò per la terra e l’oceano? Tutto è pace e silenzio, e tutto posa il mondo, e più di lor non si ragiona. Nella mia prima età, quando s’aspetta bramosamente il dì festivo, or poscia ch’egli era spento, io doloroso, in veglia, premea le piume; ed alla tarda notte un canto che s’udia per li sentieri

45 lontanando morire a poco a poco, già similmente mi stringeva il core.

(G. Leopardi, Canti)

certamente (già) non oso sperarlo. Intanto io chiedo quanto mi resti da vivere, e mi getto al suolo, e grido, e sono tormentato. Oh giorni terribili e in un’età così giovane! Ahi, dalla via sento non lontano il canto solitario dell’artigiano che rientra a tarda notte,dopo i divertimenti, alla sua povera dimora (ostello); e crudelmente (fieramente) mi si stringe il cuore,a pensare come tutto al mondo finisce (passa),e quasi non lascia segno (orma). Ecco è finito (fuggito)Il giorno festivo, e il giorno di lavoro segue quello festivo, e il tempo porta via tutti gli avvenimenti umani. Dov’è ora la risonanza (suono)[delle imprese] degli antichi popoli? Dov’è ora il grido dei nostriantenati famosi, e il grande imperodi Roma, e le armi, e il loro rumore che si diffuse per la terra e i mari (l’oceano)?Tutto è pace e silenzio, e tutto riposail mondo, e più non si parla di loro.Nella giovinezza, quando si aspetta ansiosamente il giorno festivo, dopo che (or poscia)era finito (spento), io addolorato, sveglio (in veglia),giacevo nel letto (premea le piume); e a tarda notteun canto che si udiva diminuire (morire) a poco a pocoallontanandosi (lontanando) per i sentieri, già allora come ora (similmente) mi rattristava (stringeva il core).

Il poeta ritorna con il ricordo all’infanzia, a quando attendeva fiducioso il giorno festivo e poirestava deluso e addolorato al termine della giornata.A unire il passato e il presente è il canto che si ode nella notte, che si allontana morendo apoco a poco, come le speranze.

1. volgar: destinato al lavoro del popolo, in contrapposizione al giorno festivo.2. fragorio: fragore, rumore delle armi.

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Il solitario canto dell’artigian simboleggia, il trascorrere della vita, il passare inesorabile deltempo, che tutto cancella, anche le glorie e i popoli del passato.

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L’autoreGiosue Carducci nacque nel 1835 a Valdicastello,nella Versilia toscana. Dopo la prima educazionericevuta direttamente dal padre, frequentò un col-legio a Firenze e l'Università Normale di Pisa, dovesi laureò in Lettere. Iniziò quindi a insegnare, matra il 1857 e il 1859 il suicidio di un fratello, la mortedel padre e le sopraggiunte necessità economichelo costrinsero ad affiancare l’attività di insegnantecon quella di consulente editoriale. La situazionemigliorò nel 1861, quando, a soli venticinque anni,gli fu affidata la cattedra di Eloquenza (cioè di Let-teratura italiana) presso l'Università di Bologna,incarico che tenne fino alla morte. Raggiunta latranquillità economica, poté quindi dedicarsi com-pletamente all’insegnamento universitario e allapoesia, con pubblicazioni che gli fecero raggiun-gere una fama crescente. Nel 1890 fu nominatosenatore del Regno d’Italia e nel 1906 ottenne ilpremio Nobel per la letteratura, il primo assegnatoa un italiano. Morì a Bologna nel 1907.

L’operaCarducci pensava che i compiti del poeta fossero:

formare la coscienza civile degli uomini e spro-narli a compiere imprese nobili e patriottiche,mostrando loro gli esempi delle imprese degli antichi;

confortare gli uomini oppressi dalle contraddi-zioni tra ideali e realtà, mostrando loro le immagini

dell’armonia e del bello che si potevano ricavaredagli esempi dei classici. Il valore dei modelli classici si ritrova in tutta la pro-duzione poetica di Carducci, tra cui le raccolte Rimenuove (1861-87), Odi barbare (1877-89), Giambi edepodi (1882), Rime e ritmi (1899).

Giosue Carducci

La poesia fa parte della raccolta Odi barbare, così chiamate da Carducciperché era convinto che le poesie, in cui aveva cercato di riprodurre le formepoetiche classiche, sarebbero suonate come “barbare”, poco armoniose, agliorecchi di un poeta greco o latino. Nevicata, composta il 24 marzo 1881, pocodopo la morte di una cara amica, esprime con grande intensità i dolorosisentimenti del poeta, che si riflettono nella silenziosa nevicata che nellanotte si anima degli spiriti degli amici e dei cari ormai defunti.Lo schema metrico è un distico elegiaco, un componimento classicocaratterizzato da sentimenti di dolore e tristezza. Le strofe di due versi(distico) non hanno rime e il secondo verso termina con parole tronche o monosillabiche.

Nevicata

L’Ottocento

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ParafrasiLenta fiocca la neve attraverso il cielo grigio(cinerëo): dalla città non arrivano più grida,suoni di vita,

non [arriva] il richiamo della fruttivendola(erbaiola) o il rumore di un carro che corre, nonl’allegra canzone d’amore e di gioventù.

Dalla torre della piazza risuonano tristi (gemon)nell’aria i rintocchi (le ore), come sospiri di unmondo fuori dal tempo (lungi dal dì).

Uccelli sperduti (raminghi) picchiano contro i vetriappannati: ritornano (reduci son) le ombre amiche,guardano e chiamano rivolte verso di me.

Fra poco, o cari, fra poco – tu calmati, cuorenon ancora rassegnato – scenderò verso ilsilenzio, riposerò nelle tenebre della morte (nel’ombra).

Testo originale

Lenta fiocca la neve pe ’l cielo cinerëo: gridi,suoni di vita più non salgono da la città,

non d’erbaiola il grido o corrente rumore di carro,non d’amor la canzone ilare e di gioventù.

Da la torre di piazza roche per l’aëre le ore

gemon, come sospir d’un mondo lungi dal dì.

Picchiano uccelli raminghi a’ vetri appannati: gli amicispiriti1 reduci son, guardano e chiamano a me.

In breve, o cari, in breve – tu calmati, indomito cuore – giù al silenzio verrò, ne l’ombra riposerò.

(G. Carducci, Odi barbare)

La descrizione del paesaggio è fatta per notazioni brevi, con una tecnica che ricorda la pitturaimpressionistica; ci sono colori (cinereo) e suoni (gridi, rumore, canzone).

Guida alla lettura

Forse la torre del Palazzo comunale di Bologna, in piazza San Petronio.

Il rintocco delle campane (le ore gemon) è paragonato ai sospiri dei defunti (sospir d’un mondolungi dal dì).

Gli uccelli che volano errando, si trasformano negli spiriti degli amici e di coloro che il poetaha amato e che picchiano nel suo cuore come gli uccelli contro i vetri.

Il poeta sembra quasi ansioso di far riposare ne l’ombra il suo indomito cuore.

1. amici spiriti: le ombre di coloro che il poeta ha conosciuto e amato e che sono morti.

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L’autoreGiovanni Verga nacque a Catania nel 1840, da unafamiglia di possidenti terrieri. Compiuti gli studi primari e medi, si iscrisse alla Facoltà di legge del-l’Università di Catania, ma non terminò gli studi,preferendo dedicarsi all’attività letteraria e al gior-nalismo politico. Nel 1961, all’arrivo di Garibaldi aCatania, si arruolò nella Guardia Nazionale, in cuiprestò servizio per circa quattro anni. Tra il 1865e il 1871 visse a Firenze, dove strinse amicizia conlo scrittore Luigi Capuana e pubblicò romanzi chegli diedero una certa sicurezza economica. Nel 1972si trasferì a Milano, divenuta nuovo centro artisticoe letterario per la presenza di scrittori come ArrigoBoito, Federico De Roberto e Giuseppe Giacosa. Nel1880 iniziò per Verga un nuovo periodo letterario,caratterizzato dall’adesione al verismo. Nel 1894tornò definitivamente a Catania, dove rimase finoalla morte, avvenuta nel 1922.

L’operaGiovanni Verga scrisse a soli quindici anni il suoprimo romanzo, Amore e patria, ispirato alla rivo-luzione americana e rimasto inedito. Successiva-mente pubblicò a sue spese I carbonari della mon-tagna (1861-62), un romanzo storico che si ispiravaalle imprese della Carboneria calabrese contro ilpotere dittatoriale di Gioacchino Murat, cognato diNapoleone e re di Napoli dal 1808 al 1815. Nel 1863pubblicò a puntate sulla rivista fiorentina «La nuovaEuropa» il suo terzo romanzo,Sulle lagune, dedicato a Venezia,ancora sotto il dominio austriacodopo la formazione del Regno d’I-talia. A dargli notorietà fu la pub-blicazione dei romanzi Una pec-catrice (1866) e Storia di unacapinera (1871). L’adesione alverismo diede una svolta alla suaproduzione; nel 1880 pubblicòVita dei campi e nel 1881 I Mala-voglia, cui seguirono le raccoltedi racconti Novelle rusticane ePer le vie. Il primo vero grandesuccesso fu il dramma Cavalleriarusticana (1884), interpretato daEleonora Duse e successivamentemusicato da Pietro Mascagni

(1890). In seguito pubblicò Mastro don Gesualdo(1889), la raccolta di novelle Don Candeloro e C.(1894) e i drammi La lupa (1896) e Dal tuo al mio(1903), trasformato nel 1906 in romanzo. Dell’ul-tima opera a cui stava lavorando, La Duchessa diLeyra, scrisse solo il primo capitolo, pubblicatopostumo.

Il verismoNegli ultimi decenni dell’Ottocento la situazionedegli operai e delle masse di contadini sfruttati edemarginati dal potere mise in evidenza quella chefu definita la questione sociale. Molti scrittori nepresero coscienza, dando vita a movimenti lette-rari come:

il realismo, che ebbe tra i suoi massimi espo-nenti i francesi Stendhal, Honoré de Balzac e GustaveFlaubert, l’inglese Charles Dickens e il russo NicolajGogol’;

il naturalismo, con i francesi (Émile Zola e Guyde Maupassant;

il verismo, in Italia, con autori tra cui LuigiCapuana e Giovanni Verga.Caratteristiche del verismo furono:

la convinzione che al centro della narrazionedovesse esserci la realtà, nelle sue forme piùgenuine;

la rappresentazione delle classi più povere eumili, considerate più “vere”;

il regionalismo, che presentava i problemi “locali”di un’Italia unita politicamente,ma non socialmente;

una visione pessimistica dellavita e della realtà, che riflettevail timore che il processo unitarioe lo sviluppo economico del Paeseescludessero le classi più povere;

una narrazione impersonale:la realtà “parlava da sé” e l’au-tore doveva limitarsi a scrivereciò che essa esprimeva, senzadare interpretazioni o giudizi;

un linguaggio essenziale, conun lessico popolare, spesso dia-lettale, e una sintassi semplifi-cata, in grado di riprodurre ilmodo di parlare autentico dei per-sonaggi.

Giovanni VergaL’Ottocento

RCS Quotidianix S.p.A. 2006

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Il viandante che andava lungo il Biviere di Lentini1, steso là comeun pezzo di mare morto, e le stoppie2 riarse della Piana di Catania, egli aranci sempre verdi di Francofonte, e i sugheri grigi di Resecone, ei pascoli deserti di Passaneto e di Passanitello, se domandava, per ingan-nare la noia della lunga strada polverosa, sotto il cielo fosco3 dal caldo,nell’ora in cui i campanelli della lettiga4 suonano tristemente nell’im-mensa campagna, e i muli lasciano ciondolare il capo e la coda, e illettighiere canta la sua canzone malinconica per non lasciarsi vinceredal sonno della malaria: «Qui di chi è?» sentiva rispondersi: «Di Maz-zarò». E passando vicino a una fattoria grande quanto un paese, coimagazzini che sembravano chiese, e le galline a stormi accoccolateall’ombra del pozzo, e le donne che si mettevano la mano sugli occhiper vedere chi passava: «E qui?», « Di Mazzarò». E cammina e cam-mina, mentre la malaria5 vi pesava sugli occhi, e vi scuoteva all’im-provviso l’abbaiare di un cane, passando per una vigna che non finivapiù, e si allargava sul colle e sul piano, immobile, come gli pesasseaddosso la polvere, e il guardiano sdraiato bocconi sullo schioppo6,accanto al vallone, levava il capo sonnacchioso, e apriva un occhio pervedere chi fosse: «Di Mazzarò». Poi veniva un uliveto folto come unbosco, dove l’erba non spuntava mai, e la raccolta durava fino a marzo.Erano gli ulivi di Mazzarò. E verso sera, allorché il sole tramontavarosso come il fuoco, e la campagna si velava di tristezza, si incontra-vano le lunghe file degli aratri di Mazzarò che tornavano adagio adagiodal maggese7, e i buoi che passavano il guado8 lentamente, col musonell’acqua scura; e si vedevano nei pascoli lontani della Canziria, sullapendice brulla9, le immense macchie biancastre delle mandre di Maz-zarò; e si udiva il fischio del pastore echeggiare nelle gole, e il campa-

La novella appartiene alla raccolta delle Novelle rusticane, pubblicate nel 1883, che descrivono la dura lotta di pescatori, artigiani, braccianti e contadini per riscattarsi dalla loro condizione di povertà ed emarginazionesociale. Protagonista di La roba è Mazzarò, un bracciante che da povero e maltrattato, attraverso umiliazioni, sacrifici e un lavoro durissimo, èriuscito a mettere insieme un enorme patrimonio fatto di terre, uliveti, vigne,fattorie e animali. Ma tanti anni di lavoro senza riposo o distrazioni non glihanno permesso di godersi i frutti della sua crescente ricchezza; quando staper morire lo tormenta una sola domanda: che fine farà la sua “roba”?

La roba

Il racconto inizia dalladescrizione dell’ambien -te e soprattutto della“roba”, le immense pro-prietà di Mazzarò, cheun viandante sta attra-versando.

Guida alla lettura

1. Biviere di Lentini: il lago di Lentini,nella parte meridionale della provincia diCatania.2. stoppie: ciò che resta delle piante dopola mietitura.3. fosco: offuscato, reso meno chiaro dalcaldo.4. lettiga: antico mezzo di trasporto, costi-

tuito da una piccola carrozza trainata damuli.5. malaria: malattia presente nelle zonepaludose, dove si riproduce la zanzaraanofele che ne è portatrice; qui il richiamoalla malaria serve per descrivere unambiente caldo e umido.6. il guardiano... schioppo: il sorvegliante

del campo, in posizione abbandonata sulfucile.7. maggese: campo lasciato per un certotempo senza coltivazioni, prima di esserenuovamente arato. 8. guado: punto in cui l’acqua bassa per-mette di attraversare un fiume.9. brulla: con scarsa vegetazione.

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naccio che risuonava ora sì ed ora no, e il canto solitario perduto nellavalle. Tutta roba di Mazzarò. Pareva che fosse di Mazzarò perfino ilsole che tramontava, e le cicale che ronzavano, e gli uccelli che anda-vano a rannicchiarsi col volo breve dietro le zolle, e il sibilo dell’as-siolo10 nel bosco. Pareva che Mazzarò fosse disteso tutto grande perquanto era grande la terra, e che gli si camminasse sulla pancia. Inveceegli era un omiciattolo, diceva il lettighiere, che non gli avreste datoun baiocco11, a vederlo; e di grasso non aveva altro che la pancia, enon si sapeva come facesse a riempirla, perché non mangiava altro chedue soldi di pane; e sì ch’era ricco come un maiale; ma aveva la testach’era un brillante, quell’uomo.

Infatti, colla testa come un brillante, aveva accumulato tutta quellaroba, dove prima veniva da mattina a sera a zappare, a potare, a mie-tere; col sole, coll’acqua, col vento; senza scarpe ai piedi, e senza unostraccio di cappotto; che tutti si rammentavano di avergli dato dei calcinel di dietro, quelli che ora gli davano dell’eccellenza, e gli parlavano colberretto in mano12. Né per questo egli era montato in superbia, adessoche tutte le eccellenze del paese erano suoi debitori; e diceva che eccel-lenza vuol dire povero diavolo e cattivo pagatore; ma egli portava ancorail berretto13, soltanto lo portava di seta nera, era la sua sola grandezza14,e da ultimo era anche arrivato a mettere il cappello di feltro, perchécostava meno del berretto di seta. Della roba ne possedeva fin dovearrivava la vista, ed egli aveva la vista lunga – dappertutto, a destra ea sinistra, davanti e di dietro, nel monte e nella pianura. Più di cin-quemila bocche15, senza contare gli uccelli del cielo e gli animali dellaterra, che mangiavano sulla sua terra, e senza contare la sua bocca laquale mangiava meno di tutte, e si contentava di due soldi di pane eun pezzo di formaggio, ingozzato in fretta e in furia, all’impiedi, in uncantuccio del magazzino grande come una chiesa, in mezzo alla pol-vere del grano, che non ci si vedeva, mentre i contadini scaricavano isacchi, o a ridosso di un pagliaio, quando il vento spazzava la cam-pagna gelata, al tempo del seminare, o colla testa dentro un corbello16,nelle calde giornate della messe17. Egli non beveva vino, non fumava,non usava tabacco, e sì che del tabacco ne producevano i suoi orti lungoil fiume, colle foglie larghe ed alte come un fanciullo, di quelle che sivendevano a 95 lire. Non aveva il vizio del giuoco, né quello delle donne.Di donne non aveva mai avuto sulle spalle che18 sua madre, la qualegli era costata anche 12 tarì19, quando aveva dovuto farla portare alcamposanto.

La presentazione di Maz-zarò vuole essere il piùpossibile oggettiva, percui egli viene descrittoattraverso le parole che,in un discorso indiretto,esprime un osservatore:un omiciattolo... riccocome un maiale... maaveva la testa ch’era unbrillante.Mazzarò è l’unico per-sonaggio descritto inmodo completo: aspettofisico, personalità, abi-tudini.

Da uomo poverissimo, acui tutti avevano datodei calci nel di dietro,Mazzarò è diventatoricco come un’eccel-lenza, ma ha continuatoa vivere e a lavorarecome prima; unica gran-dezza un cappello di setao di feltro, come i si gno -ri, ma solo perché co sta -va meno.

Le abitudini di vita diMazzarò erano moltomodeste: due soldi di pa -ne e un pezzo di formag -gio ingozzato... al l’im -piedi.

10. assiolo: piccolo uccello rapace.11. baiocco: antica moneta dello Statopontificio che valeva pochi centesimi.12. col berretto in mano: a capo scoperto,in segno di rispetto e deferenza.13. berretto: il cappello piatto con visiera,la coppola, portata dai contadini meri-

dionali, mentre i signori portavano il cap-pello di feltro (di panno semirigido) conla falda.14. la sua sola grandezza: l’unico segnodella sua ricchezza.15. bocche: persone dipendenti da lui persfamarsi.

16. corbello: cesto di vimini, messo sullatesta per ripararsi dal sole. 17. messe: mietitura.18. che: a eccezione di.19. tarì: moneta in uso in Sicilia, corri-spondente a 85 centesimi di lira, circa 40centesimi di euro.

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Era che ci aveva pensato e ripensato tanto a quel che vuol dire laroba, quando andava senza scarpe a lavorare nella terra che adesso erasua, ed aveva provato quel che ci vuole a fare i tre tarì della giornata,nel mese di luglio, a star colla schiena curva 14 ore, col soprastante20 acavallo dietro, che vi piglia a nerbate21 se fate di rizzarvi22 un momento.Per questo non aveva lasciato passare un minuto della sua vita che nonfosse stato impiegato a fare della roba; e adesso i suoi aratri erano nume-rosi come le lunghe file dei corvi che arrivano in novembre; e altre filedi muli, che non finivano più, portavano le sementi; le donne che sta-vano accoccolate nel fango, da ottobre a marzo, per raccogliere le sueolive, non si potevano contare, come non si possono contare le gazzeche vengono a rubarle; e al tempo della vendemmia accorrevano deivillaggi interi alle sue vigne, e fin dove sentivasi cantare, nella campagna,era per la vendemmia di Mazzarò. Alla messe poi i mietitori di Maz-zarò sembravano un esercito di soldati, che per mantenere tutta quellagente, col biscotto23 alla mattina e il pane e l’arancia amara a colazione,e la merenda, e le lasagne alla sera, ci volevano dei denari a manate, ele lasagne si scodellavano nelle madie24 larghe come tinozze. Perciòadesso, quando andava a cavallo dietro la fila dei suoi mietitori, colnerbo in mano, non ne perdeva d’occhio uno solo, e badava a ripetere:«Curviamoci, ragazzi!» Egli era tutto l’anno colle mani in tasca a spen-dere, e per la sola fondiaria25 il re si pigliava tanto che a Mazzarò gliveniva la febbre, ogni volta.

Però ciascun anno tutti quei magazzini grandi come chiese si riem-pivano di grano che bisognava scoperchiare il tetto per farcelo capire26

tutto; e ogni volta che Mazzarò vendeva il vino, ci voleva più di ungiorno per contare il denaro, tutto di 12 tarì d’argento, ché lui non nevoleva di carta sudicia27 per la sua roba, e andava a comprare la cartasudicia28 soltanto quando aveva da pagare il re, o gli altri; e alle fiere gliarmenti29 di Mazzarò coprivano tutto il campo, e ingombravano lestrade, che ci voleva mezza giornata per lasciarli sfilare, e il santo, collabanda30, alle volte dovevano mutar strada, e cedere il passo.

Tutta quella roba se l’era fatta lui, colle sue mani e colla sua testa, colnon dormire la notte, col prendere la febbre dal batticuore o dalla malaria,coll’affaticarsi dall’alba a sera, e andare in giro, sotto il sole e sotto lapioggia, col logorare i suoi stivali e le sue mule – egli solo non si logo-rava, pensando alla sua roba, ch’era tutto quello che ei avesse al mondo;perché non aveva né figli, né nipoti, né parenti; non aveva altro che lasua roba. Quando uno è fatto così, vuol dire che è fatto per la roba.

Mazzarò, diventato pa -drone, si comportavacome un sorvegliante econtrollava i suoi lavo-ranti a cavallo, armatodi frusta.Gli sembrava di passaretutto il tempo a togliersidenaro di tasca per pa -gare i suoi braccianti ele tasse.

Mazzarò era un uomodiffidente nei confrontidelle cose moderne, co -me la cartamoneta, a cuipreferiva le monete d’ar-gento.

Mazzarò e la roba sem-bravano fatti l’uno perl’altra.Mazzarò era prudente emolto attento a nonlasciarsi imbrogliare, noncome il barone del cuipatrimonio si era lenta-mente impadronito.

20. soprastante: sorvegliante del pa -drone.21. nerbate: frustate.22. rizzarvi: raddrizzarvi, alzare laschiena dal lavoro.23. biscotto: pane cotto due volte perpoterlo conservare più a lungo, come lefette biscottate.

24. madie: contenitori; letteralmente lemadie sono dei mobili a forma di casse incui un tempo si conservavano la farina eil pane.25. fondiaria: tassa sui terreni (fondi)agricoli.26. capire: contenere.27. carta sudicia: il denaro stampato su

carta.28. comprare la carta sudicia: cam-biare le monete d’argento con cartamo-neta.29. armenti: mandrie di animali.30. il santo, colla banda: la processionecon la statua del santo e la banda musi-cale.

Mazzarò non aveva maiadottato le abitudini néi vizi dei ricchi.Fin da quando era brac-ciante e soffriva lavo-rando sotto padrone,era concentrato sul pen-siero di che cosa volessedire la roba e avevaavuto quel solo obiet-tivo: fare della roba.

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Ed anche la roba era fatta per lui, che pareva ci avesse la calamita,perché la roba vuol stare con chi sa tenerla, e non la sciupa come quelbarone che prima era stato il padrone di Mazzarò, e l’aveva raccoltoper carità nudo e crudo ne’ suoi campi, ed era stato il padrone di tuttiquei prati, e di tutti quei boschi, e di tutte quelle vigne e tutti quegliarmenti, che quando veniva nelle sue terre a cavallo coi campieri dietro,pareva il re, e gli preparavano anche l’alloggio e il pranzo, al minchione31,sicché ognuno sapeva l’ora e il momento in cui doveva arrivare, e nonsi faceva sorprendere colle mani nel sacco. «Costui vuol essere rubatoper forza!» diceva Mazzarò, e schiattava dalle risa quando il barone glidava dei calci nel di dietro, e si fregava la schiena colle mani, borbot-tando: «Chi è minchione se ne stia a casa, la roba non è di chi l’ha, madi chi la sa fare». Invece egli, dopo che ebbe fatta la sua roba, non man-dava certo a dire32 se veniva a sorvegliare la messe, o la vendemmia, equando, e come; ma capitava all’improvviso, a piedi o a cavallo allamula, senza campieri, con un pezzo di pane in tasca; e dormiva accantoai suoi covoni33, cogli occhi aperti, e lo schioppo fra le gambe.

In tal modo a poco a poco Mazzarò divenne il padrone di tutta laroba del barone; e costui uscì prima dall’uliveto, e poi dalle vigne, e poidai pascoli, e poi dalle fattorie e infine dal suo palazzo istesso, che nonpassava giorno che non firmasse delle carte bollate34, e Mazzarò ci met-teva sotto la sua brava croce. Al barone non rimase altro che lo scudodi pietra35 ch’era prima sul portone, ed era la sola cosa che non avessevoluto vendere, dicendo a Mazzarò: «Questo solo, di tutta la mia roba,non fa per te». Ed era vero; Mazzarò non sapeva che farsene, e non l’a-vrebbe pagato due baiocchi. Il barone gli dava ancora del tu, ma nongli dava più calci nel di dietro.

Questa è una bella cosa, d’avere la fortuna che ha Mazzarò! dicevala gente; e non sapeva quel che ci era voluto ad acchiappare quella for-tuna: quanti pensieri, quante fatiche, quante menzogne, quanti pericolidi andare in galera, e come quella testa che era un brillante avesse lavo-rato giorno e notte, meglio di una macina del mulino, per fare la roba;e se il proprietario di una chiusa limitrofa36 si ostinava a non cedergliela,e voleva prendere pel collo Mazzarò, dover trovare uno stratagemmaper costringerlo a vendere, e farcelo cascare, malgrado la diffidenza con-tadinesca. Ei gli andava a vantare, per esempio, la fertilità di una tenutala quale non produceva nemmeno lupini37, e arrivava a fargliela cre-dere una terra promessa, sinché il povero diavolo si lasciava indurre aprenderla in affitto, per specularci sopra, e ci perdeva poi il fitto, la casae la chiusa, che Mazzarò se l’acchiappava – per un pezzo di pane. – Equante seccature Mazzarò doveva sopportare! – I mezzadri che veni-vano a lagnarsi delle malannate38, i debitori che mandavano in pro-

Mazzarò era analfabeta(firmava con la suabrava croce) e disprez-zava la nobiltà e i suoisimboli, come lo scudonobiliare di pietra.

La gente pensava cheMazzarò fosse fortunato,ma solo lui sapeva quantipensieri, quante fatiche,quante menzogne, quan -ti pericoli di andare ingalera aveva sopportatoper riuscire e come aves -se lavorato con intelli-genza (con quella testache era un brillante),senza mai arrendersi difronte ai rifiuti o alle dif-ficoltà.

La sua esperienza nonl’aveva reso generoso ecomprensivo, anzi, ledisgrazie altrui eranosolo seccature.

31. minchione: sciocco.32. non mandava... a dire: non avver-tiva.33. covoni: i mucchi di grano tagliato.34. carte bollate: atti di vendita.

35. scudo di pietra: il simbolo nobiliaredel barone, inciso su una lastra di pietraposta sopra la porta del palazzo.36. chiusa limitrofa: un terreno recin-tato (chiusa) confinante con il suo.

37. lupini: semi commestibili, di scarsovalore.38. malannate: annate cattive, con scarsiraccolti.

Il barone è l’unico per-sonaggio, oltre al pro-tagonista, presente nelracconto. È descritto dalpunto di vista di Maz-zarò, attraverso le sueparole: pareva un re, maera un minchione.Nelle considerazioni sulbarone emerge la filo-sofia di vita di Mazzarò:la roba non è di chi l’ha,ma di chi la sa fare.

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cessione le loro donne a strapparsi i capelli e picchiarsi il petto per scon-giurarlo di non metterli in mezzo alla strada, col pigliarsi il mulo o l’a-sinello, che non avevano da mangiare.

«Lo vedete quel che mangio io?» rispondeva lui, «pane e cipolla! esì che ho i magazzini pieni zeppi, e sono il padrone di tutta questa roba».E se gli domandavano un pugno di fave, di tutta quella roba, ei diceva:«Che, vi pare che l’abbia rubata? Non sapete quanto costano per semi-narle, e zapparle, e raccoglierle?» E se gli domandavano un soldo rispon-deva che non l’aveva.

E non l’aveva davvero. Ché in tasca non teneva mai 12 tarì, tanti cene volevano per far fruttare tutta quella roba, e il denaro entrava edusciva come un fiume dalla sua casa. Del resto a lui non gliene impor-tava del denaro; diceva che non era roba, e appena metteva insiemeuna certa somma, comprava subito un pezzo di terra; perché volevaarrivare ad avere della terra quanta ne ha il re, ed esser meglio del re,ché il re non può né venderla, né dire ch’è sua.

Di una cosa sola gli doleva, che cominciasse a farsi vecchio, e la terradoveva lasciarla là dov’era. Questa è una ingiustizia di Dio, che dopodi essersi logorata la vita ad acquistare della roba, quando arrivate adaverla, che ne vorreste ancora, dovete lasciarla! E stava delle ore sedutosul corbello39, col mento nelle mani, a guardare le sue vigne che gli ver-deggiavano sotto gli occhi, e i campi che ondeggiavano di spighe comeun mare, e gli oliveti che velavano la montagna come una nebbia, e seun ragazzo seminudo gli passava dinanzi, curvo sotto il peso come unasino stanco, gli lanciava il suo bastone fra le gambe, per invidia, e bor-bottava: «Guardate chi ha i giorni lunghi! costui che non ha niente!»

Sicché quando gli dissero che era tempo di lasciare la sua roba, perpensare all’anima, uscì nel cortile come un pazzo, barcollando, e andavaammazzando a colpi di bastone le sue anitre e i suoi tacchini, e stril-lava: «Roba mia, vientene con me!»

(G. Verga, Novelle rusticane)

Mazzarò era riuscito arealizzare il suo pro-getto: farsi la roba. Maera stato sconfitto dallavecchiaia e dall’avvici-narsi della morte, controcui non poteva nulla,salvo cercare di portarecon sé anitre e tacchini,ammazzandoli a basto-nate in un ultimo mo -mento di delirante viva-cità.

A Mazzarò non interes-sava il denaro, ma solola terra, che compravaappena aveva qualchesoldo.

39. corbello: cesto di vimini.

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L’autoreGiovanni Pascoli nacque a San Mauro di Romagnanel 1855. Quarto di dieci fratelli, trascorse la suainfanzia a ”La Torre”, una tenuta agricola di cui ilpadre Ruggero era amministratore. Cominciate leelementari a Savignano nel 1861, l’anno successivofu ammesso con i fratelli Giacomo e Luigi nel col-legio dei padri Scolopi a Urbino. Nel 1867 la mortedel padre costrinse la famiglia a lasciare la tenutae a stabilirsi a San Mauro, in difficoltà economiche.Seguirono anche una serie di lutti: nel 1868 mori-rono la madre e la sorella Margherita, nel 1871 il fra-tello Luigi e nel 1876 il fratello maggiore Giacomo.Costretto nel 1871 a lasciare il collegio per difficoltàfinanziarie, Pascoli continuò gli studi a Rimini e inseguito a Firenze dove, per interessamento di unsuo professore di Urbino, poté terminare il liceodagli Scolopi. Nel 1873, esaminato da Giosue Car-ducci (Pascoli raccontò dell’incontro in Ricordi diun vecchio scolaro), vinse una borsa di studio pressol’Università di Bologna, dove si iscrisse alla Facoltàdi Lettere. Nel 1877 la perdita della borsa di studio,per aver manifestato contro il ministro della Pub-blica Istruzione in visita a Bologna, lo costrinse alasciare l’Università. Per qualche tempo frequentòambienti socialisti e nel 1879 fu arrestato e tra-scorse alcuni mesi in carcere. Assolto, abbandonòl’attività politica e concluse gli studi, laureandosinel 1882 con una tesi sul poeta greco Alceo. Dopo

aver insegnato Latino e Greco in diversi licei, nel1895 si trasferì con la sorella Maria a Castelvec-chio e passò all’insegnamento universitario, otte-nendo l’incarico di Grammatica greca e latina primaa Bologna, poi a Messina e infine a Pisa (1903-905).Nel 1905 subentrò a Carducci nell’insegnamentodi Letteratura italiana all’Università di Bologna.Morì a Bologna nel 1912.

L’operaIn ogni uomo, secondo Giovanni Pascoli, c’è un fan-ciullino, un essere dotato di un’infantile e genuinacapacità di cogliere la poeticità, il mistero nascostonelle situazioni ed esperienze comuni. La poesianon è quindi invenzione, ma scoperta da parte delpoeta di qualcosa che già si trova nelle cose e cheè possibile riconoscere solo se ci si libera da con-dizionamenti culturali.Pascoli si dedicò alla poesia fin dagli anni del liceoe dai primi anni di università, con componimentiche furono poi pubblicati in Poesie varie (1912). Neldecennio 1880-90 si colloca la composizione delnucleo centrale della raccolta Myricae, pubblicataper la prima volta nel 1891 e integrata e ripubbli-cata in edizioni successive fino al 1911. Del 1897 sonoi Primi poemetti, seguiti nel 1903 dai Canti di Castel-vecchio, dai Poemi conviviali (1904), da Odi e inni(1906), Nuovi poemetti (1909), Canzoni di re Enzo(1909), Poemi italici (1911).

Giovanni Pascoli

La cavalla storna è una delle ultime poesie composte per la raccolta Canti diCastelvecchio. Rievoca una vicenda familiare drammatica, che aveva segnatoindelebilmente la vita del poeta: il 10 agosto 1867, di ritorno dal mercato diCesena, il padre fu ucciso da una fucilata i cui responsabili rimasero ignoti.La morte del padre, che era allora amministratore della tenuta Torlonia a SanMauro, costrinse la famiglia a lasciare la casa e a fronteggiare un difficilecambiamento delle condizioni sociali ed economiche. Nella poesia il poetarievoca la morte del padre attraverso il dialogo tra la madre e la cavalla chetirava il calesse al momento dell’omicidio, unica testimone degli eventi.Il componimento è in distici (strofe di due versi) di endecasilabi (versi diundici sillabe) a rima baciata: AA BB CC ecc.

La cavalla storna

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Parafrasi

Nella tenuta della Torre il silenzio era profondo.I pioppi lungo il Rio Salto sussurravano [mossi dal vento].

I cavalli normanni nei loro box (poste) spezzavano il foraggio(biada) facendo rumore con lo strato esterno.

In fondo c’era la cavalla, appena domata (selvaggia), nata nella pineta presso la spiaggia ricca di sale marino (salsa);

tanto che aveva ancora nelle narici (froge) gli spruzzi del mare, e il rumore delle onde (urli) nelle orecchie appuntite.

Presso di lei c’era mia madre, con un gomito sulla mangiatoia(greppia); e le diceva a bassa voce (sommessa):

«O cavallina, cavallina storna,che portavi chi non tornerà più [il marito ucciso];

tu capivi i suoi gesti e le sue parole (detto)!Egli ha lasciato un figlio poco più che bambino;

il primo dei miei otto figli e figlie; e non ha ancora (mai) guidato un cavallo.

Testo originale

Nella Torre1 il silenzio era già alto. Sussurravano i pioppi del Rio Salto2.

I cavalli normanni3 alle lor poste frangean la biada con rumor di croste.

Là in fondo la cavalla era, selvaggia, nata tra i pini su la salsa spiaggia;

che nelle froge avea del mar gli spruzzi ancora, e gli urli negli orecchi aguzzi.

Con su la greppia un gomito, da essa era mia madre; e le dicea sommessa:

«O cavallina, cavallina storna4, che portavi colui che non ritorna;

tu capivi il suo cenno ed il suo detto! Egli ha lasciato un figlio giovinetto5;

15 il primo d’otto tra miei figli e figlie; e la sua mano non toccò mai briglie.

L’aggettivo alto, che definisce il silenzio, suggerisce che la scena si svolge in piena notte.

Guida alla lettura

I pioppi sussurravano (verbo onomatopeico che rivela la personificazione), creando un con-trasto con il silenzio della notte.

La cavalla è giovane e ancora selvaggia, come la pineta e il mare presso cui è nata. Questecaratteristiche dell’animale sono ribadite più volte nel corso della poesia.

L’atteggiamento della madre, che sta appoggiata alla mangiatoia e parla con voce sommessa,contrasta con l’immagine di forza selvaggia della cavalla.

È il più celebre verso della poesia, che si ritrova anche più avanti come un ritornello.

Il pronome personale tu, ripetuto più volte a inizio verso, con un accento più accorato cheimperativo (vv. 17, 18, 19, 39, 50, 51, 53), crea un senso di dialogo e comunicazione direttatra la donna e l’animale.

1. Torre: la tenuta con annessa scuderia,in cui Pascoli trascorse la sua infanzia ein cui è ambientata la vicenda.2. Rio Salto: corso d’acqua che costeggia

la tenuta.3. cavalli normanni: cavalli originari dellaFrancia settentrionale, molto robusti eadatti al lavoro.

4. storna: col mantello pezzato di biancoe grigio.5. giovinetto: Giacomo, il fratello mag-giore del poeta.

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Tu che ti senti [ancora selvaggia] come se avessi di fianco unuragano, obbedisci al tocco della sua mano da bambino.

Tu che ha nostalgia (hai nel cuore) la spiaggia deserta (brulla),tu obbedisci alla sua voce infantile.

La cavalla girava la testa magra (scarna)verso mia madre, che diceva più triste:

«O cavallina, cavallina storna,che portavi colui che non ritorna;

lo so, lo so, che tu l’amavi con forza!Con lui c’eri solo tu nel momento in cui moriva.

O tu che sei nata nella foresta tra le onde e il vento,hai trattenuto nel cuore la paura;

sentendo nella bocca che il morso era allentato (lasso),smorzasti nel cuore veloce l’impeto della corsa:

adagio proseguisti la tua strada,perché trascorresse la sua agonia in pace...»

La magra e lunga testa del cavallo era accantoal dolce viso di mia madre che piangeva.

«O cavallina, cavallina storna,che portavi colui che non ritorna;

oh! egli ha certamente detto due parole!E tu le capisci, ma non le sai ripetere.

Tu con le briglie abbandonate tra le zampe,con negli occhi le fiammate (il fuoco delle vampe) [degli spari],

con l’eco del rumore degli scoppi nelle orecchie,hai proseguito la via tra i filari degli alti pioppi:

Tu che ti senti ai fianchi l’uragano, tu dài retta alla sua piccola mano.

Tu ch’hai nel cuore la marina brulla, 20 tu dài retta alla sua voce fanciulla».

La cavalla volgea la scarna testa

verso mia madre, che dicea più mesta:

«O cavallina, cavallina storna, che portavi colui che non ritorna;

25 lo so, lo so, che tu l’amavi forte! Con lui c’eri tu sola e la sua morte.

O nata in selve tra l’ondate e il vento, tu tenesti nel cuore il tuo spavento;

sentendo lasso nella bocca il morso, 30 nel cuor veloce tu premesti il corso:

adagio seguitasti la tua via, perché facesse in pace l’agonia...»

La scarna lunga testa era daccanto al dolce viso di mia madre in pianto.

35 «O cavallina, cavallina storna, che portavi colui che non ritorna;

oh! due parole egli dové pur dire! E tu capisci, ma non sai ridire.

Tu con le briglie sciolte tra le zampe, 40 con dentro gli occhi il fuoco delle vampe,

con negli orecchi l’eco degli scoppi, seguitasti la via tra gli alti pioppi:

L’immagine dell’uragano ai fianchi ricorda il carattere selvaggio della cavalla, che ha nostalgiadelle corse sulla spiaggia dov’è nata.

Il riferimento alla testa della cavalla è un motivo ricorrente nella poesia: scarna (v. 21), scarnalunga testa (v. 33) e lunga testa fiera (v. 45). Gli aggettivi descrivono l’aspetto realistico dellatesta un po’ ossuta del cavallo, ma alludono anche alla sua naturalezza, priva di inutili fronzoli.

La donna sa quanto la cavalla doveva essere spaventata per il fuoco delle vampe (v. 40) e per gliscoppi (v. 41) degli spari; quindi la ringrazia implicitamente per aver dominato lo spavento e ilcuor veloce e per aver proseguito adagio, consentendo al morente di fare in pace l’agonia (v. 32).

Dopo il grido precedente (due parole egli dové pur dire!) c’è una constatazione addolorata: l’a-nimale ha sentito e capito (tu capisci), ma non è in grado di pronunciare le parole.

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lo riportavi mentre il sole tramontava,perché noi potessimo udire le sue ultime parole».

Stava attenta la lunga testa fiera.Mia madre l’abbracciò sulla criniera.

«O cavallina, cavallina storna, portavi a casa sua chi non ritorna!

a me, chi non ritornerà mai più!Tu fosti buona... Ma non sei in grado di parlare!

Tu non sai [parlare], poverina; altri non osano [dire la verità suciò che è accaduto]. Oh! ma tu devi dirmi una, almeno una cosa!

Tu hai visto l’uomo che l’ha ucciso:la sua immagine (esso) è fissata nelle tue pupille.

Chi è stato? Chi è? Ti voglio dire un nome.E tu fa cenno. Dio t’insegni, come».

Ora i cavalli non spezzavano il foraggio (biada):dormivano sognando le strade bianche.

Non raspavano (battean) la paglia con gli zoccoli:dormivano sognando il girare rumoroso (rullo) delle ruote.

Mia madre alzò un dito nel grande silenzio:disse un nome... Suonò alto un nitrito.

lo riportavi tra il morir del sole, perché udissimo noi le sue parole».

45 Stava attenta la lunga testa fiera. Mia madre l’abbracciò su la criniera.

«O cavallina, cavallina storna, portavi a casa sua chi non ritorna!

a me, chi non ritornerà più mai! 50 Tu fosti buona... Ma parlar non sai!

Tu non sai, poverina; altri non osa. Oh! ma tu devi dirmi una una cosa!

Tu l’hai veduto l’uomo che l’uccise: esso t’è qui nelle pupille fise.

55 Chi fu? Chi è? Ti voglio dire un nome. E tu fa cenno. Dio t’insegni, come»,

Ora, i cavalli non frangean la biada: dormian sognando il bianco della strada.

La paglia non battean con l’unghie vuote6:60 dormian sognando il rullo delle ruote.

Mia madre alzò nel gran silenzio un dito: disse un nome... Sonò alto un nitrito.

(G. Pascoli, Canti di Castelvecchio)

Il tramonto, descritto come il morir del sole, simboleggia un’altra morte: quella del marito epadre.

Le variazioni rispetto ai versi precedenti accentuano il senso di dolore, richiamando i legamifamiliari (a casa sua) e personali (a me).

C’è una velata polemica nei confronti di chi per omertà non osò parlare, lasciando la famigliasola col suo lutto.

La ripetizione di una una rende più dolorosa e quasi supplichevole la richiesta della donna.

Viene ripresa l’immagine iniziale dei cavalli, che ora sono silenziosi, perché dormono e sognano,ignari del dramma che si sta svolgendo accanto a loro.

Dell’omicidio fu sospettato un uomo che in seguito prese il posto dell’ucciso come ammini-stratore della tenuta. Col suo nitrito il cavallo “risponde” alla domanda della donna.

6. unghie vuote: gli zoccoli del cavallo, al cui interno non vi carne.

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L’autoreLuigi Pirandello nacque nel 1867 presso Girgenti(oggi Agrigento) in Sicilia, in una famiglia di agiatecondizioni economiche. Dopo il liceo, fece studi uni-versitari a Palermo, Roma e infine a Bonn, dove silaureò in Lettere con una tesi sul dialetto di Gir-genti. Intanto aveva iniziato a collaborare con diverseriviste. Tornato in Italia, si sposò e si trasferì con lafamiglia a Roma, per insegnare Letteratura italianaalla Facoltà di Magistero. Nel 1904 il fallimento eco-nomico del padre e il peggioramento della malattiamentale della moglie, che degenerò fino alla pazzia,segnarono profondamente la sensibilità dello scrit-tore e fecero maturare in lui una concezione moltoamara della vita, che si riflette nelle sue opere, incui nevrosi e pazzia sono motivi ricorrenti. Costrettoa intensificare la sua produzione letteraria per motivieconomici, cominciò a pubblicare alcune novelle eromanzi; nel 1910 iniziò la sua attività per il teatro.Gli anni successivi furono molto fecondi per la suaproduzione narrativa e teatrale, dandogli notorietàe riconoscimenti ufficiali: nel 1929 fu insignito deltitolo di Accademico d’Italia e nel 1934 ricevetteil Premio Nobel per la Letteratura. Morì a Romanel 1936.

L’operaLa produzione di Pirandello presenta una vasta casi-stica di personaggi, trame e situazioni che sviluppòsia nelle novelle che nei romanzi e drammi tea-trali. La realtà, come egli stesso scrisse, è costi-tuita da “una costruzione illusoria continua” eognuno si illude di poter dare alle cose “una forma”,una realtà. Ma è solo un’illusione, perché non esisteuna sola verità valida per tutti, ma tante quanteognuno di noi dà di sé e della propria esistenza.Oltre a poesie e saggi, Pirandello scrisse romanzi,tra cui Il fu Mattia Pascal, Uno, nessuno e centomila,e soprattutto numerose commedie e opere teatrali,come Così è (se vi pare), Sei personaggi in cercad’autore, Enrico IV. Le novelle, scritte nel corso dellasua vita, furono pubblicate nella raccolta Novelleper un anno per la prima volta nel 1922 e successi-vamente tra il 1932 e il 1935, in 15 volumi di 15 novelleciascuno. Nelle novelle l’autore ha usato uno stilesemplice e una lingua vicina a quella parlata, perrappresentare in modo più autentico la realtà degliuomini e delle cose, osservando con grande atten-zione i particolari e la psicologia dei personaggi.Alcune novelle hanno fornito a Pirandello lo spuntoanche per romanzi e opere teatrali.

Luigi Pirandello

La giara è una novella che Pirandello scrisse nel 1906 e da cui trasse un attounico per il teatro nel 1916. La novella fu pubblicata nella raccolta Novelle perun anno nel 1917. Ambientata nella campagna siciliana, la novella riproponetemi cari a Pirandello, come la diversità di interpretazione che si può dare a uno stesso avvenimento, i conflitti interpersonali, il valore della giustizia,poiché la ragione e il torto possono cambiare a seconda dei punti di vista dei personaggi. Gli avvenimenti si collocano nello spazio di una giornata.

La giara

Piena1 anche per gli olivi, quell’annata. Piante massaje2, carichel’anno avanti, avevano raffermato3 tutte, a dispetto della nebbia che leaveva oppresse sul fiorire.

Lo Zirafa, che ne aveva un bel giro4 nel suo podere delle Quote a Pri-mosole, prevedendo che le cinque giare5 vecchie di coccio smaltato che

AntefattoLa raccolta delle olive sipresentava molto ab -bondante e per questoDon Lollò Zirafa avevacomprato una giara nuo -va per contenere l’olio.

Guida alla lettura

1. Piena: raccolto abbondante.2. Piante massaje: piante che dannobuoni frutti.

3. raffermato: confermato la loro solitaproduzione abbondante.4. un bel giro: una bella quantità.

5. giare: vasi di terracotta usati per con-tenere acqua o alimenti.

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aveva in cantina non sarebbero bastate a contener tutto l’olio della nuovaraccolta, ne aveva ordinata a tempo una sesta più capace a Santo Ste-fano di Camastra, dove si fabbricavano: alta a petto d’uomo, bella pan-ciuta e maestosa, che fosse delle altre cinque la badessa6. Neanche a dirlo,aveva litigato anche col fornaciajo7 di là per questa giara. E con chi nonla attaccava8 Don9 Lollò Zirafa? Per ogni nonnulla, anche per una pie-truzza caduta dal murello di cinta, anche per una festuca10 di paglia, gri-dava che gli sellassero la mula per correre in città a fare gli atti11. Così, afuria di carta bollata e d’onorarii12 agli avvocati, citando questo, citandoquello e pagando sempre le spese per tutti, s’era mezzo rovinato.

Dicevano che il suo consulente legale, stanco di vederselo compa-rire davanti due o tre volte la settimana, per levarselo di torno, gli avevaregalato un libricino come quelli da messa: il codice, perché si scapasse13

a cercare da sé il fondamento giuridico alle liti che voleva intentare. Prima, tutti coloro con cui aveva da dire, per prenderlo in giro gli

gridavano: «Sellate la mula!» Ora, invece: « Consultate il calepino14!» E Don Lollò rispondeva: «Sicuro, e vi fulmino tutti, figli d’un cane!» Quella giara nuova, pagata quattr’onze15 ballanti e sonanti, in attesa

del posto da trovarle in cantina, fu allogata provvisoriamente nel pal-mento16. Una giara così non s’era mai veduta. Allogata in quell’antrointanfato17 di mosto e di quell’odore acre e crudo che cova nei luoghisenz’aria e senza luce, faceva pena.

Da due giorni era cominciata l’abbacchiatura18 delle olive, e DonLollò era su tutte le furie perché, tra gli abbacchiatori e i mulattierivenuti con le mule cariche di concime da depositare a mucchi su la costaper la favata19 della nuova stagione, non sapeva più come spartirsi, achi badar prima. E bestemmiava come un turco e minacciava di ful-minare questi e quelli, se un’oliva, che fosse un’oliva, gli fosse mancata,quasi le avesse prima contate tutte a una a una su gli alberi; o se nonfosse ogni mucchio di concime della stessa misura degli altri. Col cap-pellaccio bianco, in maniche di camicia, spettorato20, affocato21 in voltoe tutto sgocciolante di sudore, correva di qua e di là, girando gli occhilupigni22 e stropicciandosi con rabbia le guance rase, su cui la barbaprepotente rispuntava quasi sotto la raschiatura del rasojo. Ora, allafine della terza giornata, tre dei contadini che avevano abbacchiato,entrando nel palmento per deporvi le scale e le canne, restarono23 alla

Il protagonistaDon Lollò Zirafa era unproprietario terriero,ricco e avaro, che vedevanemici dappertutto e perquesto era molto liti-gioso (aveva litigato colfornaciajo); ricorreva fre -quentemente alle que -rele giudiziarie (gli atti)e per questo s’era mezzorovinato.

L’avvio della vicendaLa giara nuova, bellapanciuta e maestosa, dicui Don Lollò andavafiero, viene trovata spac-cata in due.

6. badessa: la madre superiora di un con-vento femminile; il termine è usato insenso figurato per indicare che la nuovagiara avrebbe dovuto essere la più impor-tante di tutte.7. fornaciajo: il padrone del forno dovesi cuoceva la terracotta.8. non la attaccava: non attaccava briga,non litigava.9. Don: appellativo usato all’epoca in Siciliaper indicare le persone importanti.10. festuca: filo.

11. fare gli atti: fare la denuncia.12. onorarii: compensi in denaro.13. si scapasse: ci perdesse la testa.14. calepino: libretto di consultazione, inquesto caso il codice delle leggi.15. onze: monete da un’oncia (circa 30grammi) d’oro.16. allogata… palmento: sistemata nelmagazzino dove si conservava il mostoricavato dall’uva spremuta, in attesa chesi trasformi in vino.17. intanfato: puzzolente.

18. abbacchiatura: battitura dei ramid’olivo per far cadere le olive da racco-gliere.19. favata: semina e successiva raccoltadelle fave, un legume molto nutriente.20. spettorato: con la camicia aperta sultorace.21. affocato: col volto infiammato, arros-sato.22. lupigni: attenti e brillanti come quellidi un lupo.23. restarono: si fermarono sorpresi.

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vista della bella giara nuova, spaccata in due, come se qualcuno, conun taglio netto, prendendo tutta l’ampiezza della pancia, ne avesse stac-cato tutto il lembo davanti.

«Guardate! guardate!» «Chi sarà stato?»«Oh mamma mia! E chi lo sente ora Don Lollò? La giara nuova,

peccato!» Il primo, più spaurito di tutti, propose di riaccostar subito la porta

e andare via zitti zitti, lasciando fuori, appoggiate al muro, le scale e lecanne.

Ma il secondo: «Siete pazzi? Con Don Lollò? Sarebbe capace di credere che gliel’ab-

biamo rotta noi. Fermi qua tutti!» Uscì davanti al palmento e, facendosi portavoce delle mani, chiamò: «Don Lollò! Ah, Don Lollòooo!» Eccolo là sotto la costa con gli scaricatori del concime: gesticolava

al solito furiosamente, dandosi di tratto in tratto con ambo le mani unarincalcata al cappellaccio bianco. Arrivava talvolta, a forza di quelle rin-calcate, a non poterselo più strappare dalla nuca e dalla fronte. Già nelcielo si spegnevano gli ultimi fuochi del crepuscolo, e tra la pace chescendeva su la campagna con le ombre della sera e la dolce frescura,avventavano24 i gesti di quell’uomo sempre infuriato.

«Don Lollò! Ah, Don Lollòoo!»Quando venne su e vide lo scempio, parve volesse impazzire. Si sca-

gliò prima contro quei tre; ne afferrò uno per la gola e lo impiccò almuro, gridando:

«Sangue della Madonna, me la pagherete!» Afferrato a sua volta dagli altri due, stravolti nelle facce terrigne e

bestiali25, rivolse contro se stesso la rabbia furibonda, sbatacchiò a terrail cappellaccio, si percosse le guance, pestando i piedi e sbraitando amodo di quelli che piangono un parente morto:

«La giara nuova! Quattr’onze di giara! Non incignata26 ancora! Voleva sapere chi gliel’avesse rotta! Possibile che si fosse rotta da sé?

Qualcuno per forza doveva averla rotta, per infamità o per invidia! Maquando? ma come? Non si vedeva segno di violenza! Che fosse arrivatarotta dalla fabbrica? Ma che! Sonava come una campana!

Appena i contadini videro che la prima furia gli era caduta, comin-ciarono a esortarlo a calmarsi. La giara si poteva sanare. Non era poirotta malamente. Un pezzo solo. Un bravo conciabrocche27 l’avrebberimessa su, nuova. C’era giusto Zi’28 Dima Licasi, che aveva scopertoun mastice29 miracoloso, di cui serbava gelosamente il segreto: un mastice,che neanche il martello ci poteva, quando aveva fatto presa. Ecco, se

La descrizione di DonLollò si arricchisce dialtri particolari: era dif-fidente (sarebbe capacedi credere che gliel’ab-biamo rotta noi), con-trollava senza sosta illavoro (Eccolo là sotto lacosta con gli scaricatoridel concime: gesticolavaal solito furiosamente),era violento coi dipen-denti (ne afferrò uno perla gola e lo impiccò almuro) e con se stesso(rivolse contro se stessola rabbia furibonda... sipercosse le guance).

24. avventavano: spiccavano, si face-vano notare.25. terrigne e bestiali: grigiastre comeil terreno e inespressive come quelle di

un animale.26. incignata: usata.27. conciabrocche: artigiano che riparale brocche e altri contenitori di terracotta.

28. Zi’: zio, titolo usato un tempo in segnodi rispetto.29. mastice: colla.

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Don Lollò voleva, domani, alla punta dell’alba, Zi’ Dima Licasi sarebbevenuto lì e, in quattro e quattr’otto, la giara, meglio di prima.

Don Lollò diceva di no, a quelle esortazioni: ch’era tutto inutile; chenon c’era più rimedio; ma alla fine si lasciò persuadere, e il giornoappresso, all’alba, puntuale, si presentò a Primosole Zi’ Dima Licasi conla cesta degli attrezzi dietro le spalle.

Era un vecchio sbilenco, dalle giunture storpie e nodose, come unceppo antico d’olivo saraceno. Per cavargli una parola di bocca ci voleval’uncino. Mutria30, o tristezza radicate in quel suo corpo deforme; oanche sconfidenza31 che nessuno potesse capire e apprezzare giusta-mente il suo merito d’inventore non ancora patentato. Voleva che par-lassero i fatti, Zi’ Dima Licasi. Doveva poi guardarsi davanti e dietro,perché non gli rubassero il segreto.

«Fatemi vedere codesto mastice», gli disse per prima cosa Don Lollò,dopo averlo squadrato a lungo, con diffidenza.

Zi’ Dima negò col capo, pieno di dignità. «All’opera32 si vede». «Ma verrà bene?» Zi’ Dima posò a terra la cesta; ne cavò un grosso fazzoletto di cotone

rosso, logoro e tutto avvoltolato; prese a svolgerlo pian piano, tra l’at-tenzione e la curiosità di tutti, e quando alla fine venne fuori un pajod’occhiali col sellino33 e le stanghe rotti e legati con lo spago, lui sospiròe gli altri risero. Zi’ Dima non se ne curò; si pulì le dita prima di pigliaregli occhiali; se li inforcò; poi si mise a esaminare con molta gravità lagiara tratta su l’aja34. Disse:

«Verrà bene». «Col mastice solo però», disse per patto lo Zirafa, «non mi fido. Ci

voglio anche i punti».«Me ne vado», rispose senz’altro Zi’ Dima, rizzandosi e rimetten-

dosi la cesta dietro le spalle. Don Lollò lo acchiappò per un braccio. «Dove? Messere e porco, così trattate? Ma guarda un po’ che arie

da Carlomagno35! Scannato36 miserabile e pezzo d’asino, ci devo metterolio, io, là dentro, e l’olio trasuda! Un miglio di spaccatura, col masticesolo? Ci voglio i punti. Mastice e punti. Comando io».

Zi’ Dima chiuse gli occhi, strinse le labbra e scosse il capo. Tutti così!Gli era negato il piacere di fare un lavoro pulito, filato coscienziosa-mente a regola d’arte e di dare una prova della virtù del suo mastice.

«Se la giara» disse «non suona di nuovo come una campana...»«Non sento niente», lo interruppe Don Lollò. «I punti! Pago mastice

e punti. Quanto vi debbo dare?»«Se col mastice solo...»

30. Mutria: malinconia.31. sconfidenza: mancanza di fiducia.32. All’opera: messa in opera, utiliz-zata.

33. sellino: la parte della montatura chesi appoggia sul setto nasale.34. aja: il cortile della fattoria.35. arie da Carlomagno: atteggiamento

di superbia, come se fosse l’imperatorestesso.36. Scannato: povero, senza nulla.

Inizio del contrastoZi’ Dima vorrebbe usaresolo il suo mastice mira-coloso, ma Don Lollònon si fida e vuole anchei punti.

L’antagonista Zi’ Dima Licasi è l’unicopersonaggio descritto inmodo particolareggiato.Era un vecchio sbilenco(Per cavargli una paroladi bocca ci voleva l’un-cino). Era un concia-brocche f iero del suomastice e della sua abi-lità nell’aggiustare legiare, ma convinto chenessuno potesse capire eapprezzare giustamenteil suo merito d’inventorenon ancora patentato.

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«Càzzica37, che testa!» esclamò lo Zirafa. «Come parlo? V’ho dettoche ci voglio i punti. C’intenderemo a lavoro finito: non ho tempo daperdere con voi».

E se n’andò a badare ai suoi uomini. Zi’ Dima si mise all’opera gonfio d’ira e di dispetto. E l’ira e il dispetto

gli crebbero a ogni foro che praticava col trapano nella giara e nel lembostaccato per farvi passare il fil di ferro della cucitura. Accompagnava ilfrullo della saettella38 con grugniti a mano a mano più frequenti e piùforti; e il viso gli diventava più verde dalla bile e gli occhi più aguzzi eaccesi di stizza. Finita quella prima operazione, scagliò con rabbia iltrapano nella cesta; applicò il lembo staccato alla giara per provare sei fori erano a egual distanza e in corrispondenza tra loro, poi con letenaglie fece del fil di ferro tanti pezzetti quant’erano i punti che dovevadare, e chiamò per ajuto uno dei contadini che abbacchiavano.

«Coraggio, Zi’ Dima!» gli disse quello, vedendogli la faccia alterata. Zi’ Dima alzò la mano a un gesto rabbioso. Aprì la scatola di latta

che conteneva il mastice, e lo levò al cielo, scotendolo, come per offrirloa Dio, visto che gli uomini non volevano riconoscerne la virtù: poi coldito cominciò a spalmarlo tutt’in giro al lembo staccato e lungo la spac-catura; prese le tenaglie e i pezzetti di fil di ferro preparati avanti39, e sicacciò dentro la pancia aperta della giara, ordinando al contadino d’ap-plicare il lembo alla giara, così come aveva fatto lui poc’anzi. Prima dicominciare a dare i punti:

«Tira!» disse dall’interno della giara al contadino. «Tira con tuttala tua forza! Vedi se si stacca più? Malanno a chi non ci crede! Picchia,picchia! Suona, sì o no, come una campana, anche con me qua dentro?Va’, va’ a dirlo al tuo padrone!»

«Chi è sopra comanda, Zi’ Dima», sospirò il contadino, «e chi èsotto si danna! Date i punti, date i punti».

E Zi’ Dima si mise a far passare ogni pezzetto di fil di ferro attra-verso i due fori accanto, l’uno di qua e l’altro di là dalla saldatura; e conle tenaglie ne attorceva i due capi. Ci volle un’ora a passarli tutti. I sudori,giù a fontana, dentro la giara. Lavorando, si lagnava della sua malasorte. E il contadino, di fuori, a confortarlo.

«Ora ajutami a uscirne», disse alla fine Zi’ Dima. Ma quanto larga di pancia, tanto quella giara era stretta di collo. Zi’

Dima, nella rabbia, non ci aveva fatto caso. Ora, prova e riprova, nontrovava più modo a uscirne. E il contadino, invece di dargli ajuto, eccololà, si torceva dalle risa. Imprigionato, imprigionato nella giara da luistesso sanata, e che ora «non c’era via di mezzo» per farlo uscire, dovevaesser rotta daccapo e per sempre.

Alle risa, alle grida, sopravvenne Don Lollò. Zi’ Dima, dentro lagiara, era come un gatto inferocito.

37. Càzzica: accidenti, esclamazione dia-lettale.

38. frullo della saettella: il rumore dellapunta del trapano.

39. avanti: in precedenza.

Il lavoroGonfio d’ira e di dispetto,Zi’ Dima eseguì il lavorocome aveva preteso DonLollò.Fatti i buchi e preparatii pezzetti di fil di ferroper i punti, Zi’ Dimaspalmò il mastice suilembi della rottura, sicacciò dentro la panciaaperta della giara einiziò a fissare i punti difil di ferro.

L’imprevistoQuanto larga di pancia,tanto quella giara erastretta di collo. Zi’ Dima,nella rabbia, non ci avevafatto caso. Zi’ Dima si trovò cosìimprigionato nella giarada lui stesso sanata.

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«Fatemi uscire!» urlava. «Corpo di Dio, voglio uscire! Subito! Datemiajuto!»

Don Lollò rimase dapprima come stordito. Non sapeva crederci. «Ma come? Là dentro? s’è cucito là dentro?»S’accostò alla giara e gridò al vecchio: «Ajuto? E che ajuto posso darvi io? Vecchiaccio stolido40, ma come?

non dovevate prender prima le misure? Su, provate: fuori un braccio...così! e la testa... su... no, piano! Che! giù... aspettate! così no! giù, giù...Ma come avete fatto? E la giara, adesso? Calma! Calma! Calma!» simise a raccomandare tutt’intorno, come se la calma stessero per per-derla gli altri e non lui. «Mi fuma la testa! Calma! Questo è caso nuovo...La mula!»

Picchiò con le nocche delle dita su la giara. Sonava davvero comeuna campana.

«Bella! Rimessa a nuovo... Aspettate!» disse al prigioniero. «Va’ asellarmi la mula!» ordinò al contadino; e, grattandosi con tutte le ditala fronte, seguitò a dire tra sé: «Ma vedete un po’ che mi capita! Questanon è giara! quest’è ordigno del diavolo! Fermo! Fermo lì!

E accorse a regger la giara, in cui Zi’ Dima, furibondo, si dibattevacome una bestia in trappola.

«Caso nuovo, caro mio, che deve risolvere l’avvocato! Io non mi fido.La mula! La mula! Vado e torno, abbiate pazienza! Nell’interesse vostro...Intanto, piano! calma! Io mi guardo i miei. E prima di tutto, per sal-vare il mio diritto, faccio il mio dovere. Ecco vi pago il lavoro, vi pagola giornata. Cinque lire. Vi bastano?»

«Non voglio nulla!» gridò Zi’ Dima. «Voglio uscire!» «Uscirete. Ma io, intanto, vi pago. Qua, cinque lire.» Le cavò dal taschino del panciotto e le buttò nella giara. Poi domandò,

premuroso: «Avete fatto colazione? Pane e companatico41, subito! Non ne volete?

Buttatelo ai cani! A me basta che ve l’abbia dato». Ordinò che gli si désse; montò in sella, e via di galoppo per la città.

Chi lo vide, credette che andasse a chiudersi da sé al manicomio, tantoe in così strano modo gesticolava.

Per fortuna, non gli toccò di fare anticamera42 nello studio dell’av-vocato; ma gli toccò d’attendere un bel po’, prima che questo finisse diridere, quando gli ebbe esposto il caso. Delle risa si stizzì:

«Che c’è da ridere, scusi? A vossignoria non brucia! La giara è mia!» Ma quello seguitava a ridere e voleva che gli rinarrasse il caso, com’era

stato, per farci su altre risate. Dentro, eh? S’era, cucito dentro? E lui,Don Lollò, che pretendeva? Te... tene... tenerlo là dentro... ah ah ah...ohi ohi ohi... tenerlo là dentro per non perderci la giara?»

«Ce la devo perdere?» domandò lo Zirafa con le pugna serrate. «Ildanno e lo scorno43?»

40. stolido: sciocco.41. companatico: il ripieno del panino.

42. fare anticamera: aspettare a lungo. 43. scorno: umiliazione insopportabile.

La reazione di Don LollòDopo l’incredulità ini-ziale e la rabbia, DonLollò, seguendo il suoabituale copione nelleliti, ricorse all’avvocato:«Mi fuma la testa!Calma! Questo è casonuovo... La mula!»

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«Ma sapete come si chiama questo?» gli disse in fine l’avvocato. «Sichiama sequestro di persona!»

«Sequestro? E chi l’ha sequestrato?» esclamò lo Zirafa. «S’è seque-strato lui da sé! Che colpa ne ho io?»

L’avvocato allora gli spiegò che erano due casi. Da un canto, lui,Don Lollò, doveva subito liberare il prigioniero per non rispondere disequestro di persona; dall’altro, il conciabrocche doveva rispondere deldanno che veniva a cagionare con la sua imperizia o con la sua stordi-taggine.

«Ah!» rifiatò lo Zirafa. «Pagandomi la giara!» «Piano!» osservò l’avvocato. «Non come se fosse nuova, badiamo!» «E perché?» «Ma perché era rotta, oh bella!» «Rotta? Nossignore. Ora è sana. Meglio che sana, lo dice lui stesso!

E se ora torno a romperla, non potrò più farla risanare. Giara perduta,signor avvocato!»

L’avvocato gli assicurò che se ne sarebbe tenuto conto, facendoglielapagare per quanto valeva nello stato in cui era adesso.

«Anzi», gli consigliò, «fatela stimare avanti da lui stesso». «Bacio le mani44» disse Don Lollò, andando via di corsa. Di ritorno, verso sera, trovò tutti i contadini in festa attorno alla giara

abitata. Partecipava alla festa anche il cane di guardia saltando e abbaiando.Zi’ Dima s’era calmato, non solo, ma aveva preso gusto anche lui allasua bizzarra avventura e ne rideva con la gajezza mala dei tristi45.

Lo Zirafa scostò tutti e si sporse a guardare dentro la giara. «Ah! Ci stai bene?» «Benone. Al fresco» rispose quello. «Meglio che a casa mia».«Piacere. Intanto ti avverto che questa giara mi costò quattr’onze,

nuova. Quanto credi che possa costare adesso?»«Con me qua dentro?» domandò Zi’ Dima. I villani46 risero. «Silenzio!» gridò lo Zirafa. «Delle due l’una: o il tuo mastice serve

a qualche cosa, o non serve a nulla: se non serve a nulla, tu sei un imbro-glione; se serve a qualche cosa, la giara, così com’è, deve avere il suoprezzo. Che prezzo? Stimala a tu».

Zi’ Dima rimase un pezzo a riflettere, poi disse: «Rispondo. Se lei me l’avesse fatta conciare col mastice solo, com’io

volevo, io, prima di tutto, non mi troverei qua dentro, e la giara avrebbesu per giù lo stesso prezzo di prima. Così sconciata con questi puntacci,che ho dovuto darle per forza di qua dentro, che prezzo potrà avere?Un terzo di quanto valeva, sì e no».

«Un terzo?» domandò lo Zirafa. «Un’onza e trentatré?» «Meno sì, più no».

44. Bacio le mani: espressione di salutoin uso in Sicilia.

45. gaiezza... tristi: la gioia malevola deimaligni.

46. villani: contadini.

Due furbi a confrontoDon Lollò e Zi’ Dimasono molto diversi traloro, ma hanno aspetticomuni: sono entrambicocciuti, poco consape-voli dei loro limiti e silasciano influenzare dal-l’istinto più che dallaragione. Il loro con-trasto permette quindiall’autore di creare unacomicità basata su unasituazione grottesca, incui ciascuno dei due eracontemporaneamentedebitore e creditore del-l’altro e pensava di avervinto.

L’avvocatoLa vicenda suscitò nel-l’avvocato più ilarità chepreoccupazione (quelloseguitava a ridere e vo -leva che gli rinarrasse ilcaso, com’era stato, perfarci su altre risate). L’in-troduzione del perso-naggio dell’avvocatoserve all’autore per:• rendere ancora piùcomica la posizione diDon Lollò;• interrompere la ten-sione narrativa prece-dente;• preparare il lettorealla possibile conclu-sione del racconto.

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«Ebbene», disse Don Lollò. «Passi la tua parola, e dammi un’onzae trentatré».

«Che?» fece Zi’ Dima, come se non avesse inteso. «Rompo la giara per farti uscire», rispose Don Lollò, «e tu, dice l’av-

vocato, me la paghi per quanto l’hai stimata: un’onza e trentatré».«Io pagare?» sghignazzò Zi’ Dima. «Vossignoria scherza! Qua dentro

ci faccio i vermi». E tratta di tasca con qualche stento la pipetta intartarita47, l’accese

e si mise a fumare, cacciando il fumo per il collo della giara. Don Lollò ci restò brutto48. Quest’altro caso, che Zi’ Dima ora non

volesse più uscire dalla giara, né lui né l’avvocato l’avevano previsto. Ecome si risolveva adesso? Fu lì lì per ordinare di nuovo: «La mula!», mapensò ch’era già sera.

«Ah, sì» disse. «Ti vuoi domiciliare nella mia giara? Testimoni i tuttiqua! Non vuole uscirne lui, per non pagarla; io sono pronto a romperla!Intanto, poiché vuole stare lì, domani io lo cito per alloggio abusivo eperché mi impedisce l’uso della giara».

Zi’ Dima cacciò prima fuori un’altra boccata di fumo, poi rispose,placido:

«Nossignore. Non voglio impedirle niente, io. Sto forse qua per pia-cere? Mi faccia uscire, e me ne vado volentieri. Pagare... neanche perischerzo, vossignoria!»

Don Lollò, in un impeto di rabbia, alzò un piede per avventare uncalcio alla giara; ma si trattenne; la abbrancò invece con ambo le manie la scrollò tutta, fremendo.

«Vede che mastice?» gli disse Zi’ Dima. «Pezzo da galera!» ruggì allora lo Zirafa. «Chi l’ha fatto il male, io

o tu? E devo pagarlo io? Muori di fame là dentro! Vedremo chi la vince!»E se n’andò, non pensando alle cinque lire che gli aveva buttate la

mattina dentro la giara. Con esse, per cominciare, Zi’ Dima pensò difar festa quella sera insieme coi contadini che, avendo fatto tardi perquello strano accidente, rimanevano a passare la notte in campagna,all’aperto, su l’aja. Uno andò a far le spese in una taverna lì presso. Afarlo apposta, c’era una luna che pareva fosse raggiornato49.

A una cert’ora Don Lollò, andato a dormire, fu svegliato da un bac-cano d’inferno. S’affacciò a un balcone della cascina e vide su l’aja, sottola luna, tanti diavoli: i contadini ubriachi che, presisi per mano, balla-vano attorno alla giara. Zi’ Dima, là dentro, cantava a squarciagola.

Questa volta non poté più reggere, Don Lollò: si precipitò come untoro infuriato e, prima che quelli avessero tempo di pararlo, con uno spin-tone mandò a rotolare la giara giù per la costa. Rotolando, accompagnatadalle risa degli ubriachi, la giara andò a spaccarsi contro un olivo.

E la vinse Zi’ Dima. (L. Pirandello, Novelle per un anno)

47. intartarita: macchiata dall’uso.48. brutto: male.

49. fosse raggiornato: fosse tornato ilgiorno.

La conclusioneZi’ Dima, usando le cin -que lire che proprio DonLollò gli aveva dato inpagamento dell’aggiu-statura, aveva organiz-zato una festa.Svegliato da un baccanod’inferno, Don Lollò,come un toro infuriato...mandò a rotolare la giaragiù per la costa. Rom-pendo la sua giara, DonLollò perse ogni possi-bilità di rivalersi e lavinse Zi’ Dima.

Senza via d’uscitaDon Lollò aveva co -stretto Zi’ Dima a valu-tare la giara (Rompo lagiara per farti uscire... etu, dice l’avvocato, me lapaghi per quanto l’haistimata).Zi’ Dima, però, avevatrovato una soluzioneche né Don Lollò né l’av-vocato l’avevano pre-visto... «Io pagare... Vos-signoria scherza! Quadentro ci faccio i vermi»