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Le muse di Sinisgalli di Giuseppe Pontiggia Il testo qui riprodotto è l'introduzione al volume di L. Sinisgalli, L'ellisse. Poesie 1932-1972, Mondadori, Milano 1974. A Sinisgalli le Muse apparvero per la prima volta su una collina, "appollaiate tra le foglie", intente a "mangiare ghiande e coccole": "Vidi le Muse su una quercia / secolare che gracchiavano. / Meravigliato il mio cuore / chiesi al mio cuore meravigliato / io dissi al mio cuore la meraviglia". Lo sviluppo della sua poesia è già contenuto in questo incontro: dalla posizione di rilievo, arcaica e insieme modernamente visionaria, di quel passato remoto in prima persona ("Vidi") all'essere e al divenire fusi nella "quercia / secolare", dalla meraviglia che gli antichi ponevano all'origine della conoscenza e che qui viene trasferita ai moti del cuore (alla mente matematica sarà riservato il "furor": "il giuoco intellettuale mi inebria", dirà in una intervista a Camon) alla metamorfosi grottesca, quasi sarcastica, delle Muse che "appollaiate... gracchiavano": una presenza che ristabilisce, ma per deformarli ed esorcizzarli, sottili e complessi legami con l'antichità. L'etimologia di Musa ci riporta infatti a "mons", alle solitudini montane della Grecia e al sentimento di smarrimento e di paura che esse suscitavano nel viaggiatore. L'incontro con le ninfe dei monti fu sempre sentito come un rischio, giacché esse potevano dare la luce della poesia, ma togliere quella del sole, come accadde a Demodoco (0dissea, VIII, 63 sg.); oppure potevano essere menzognere, come confessarono a Esiodo sulle falde dell'Elicona (Teogonia, 22 sg.). Le Muse di Sinisgalli sono state invece svuotate di pericolosità, non sono più divinità, ma simulacri, proiezioni che rivelano la loro natura di doppio; esse invecchiano perciò con il poeta, che, circa trent'anni dopo, in Commiato, scriverà: "O musa, vecchia musa decrepita, il poeta è ogni anno più cieco, il tuo riso è una smorfia Calliope nel losco mattino. Su una striscia di sole il gattino va a caccia di mosche. Anche il poeta reumatico stenta a cogliere a volo un pensiero, sempre meno matematico, sull'essenza dello Zero". Sono rimaste la dimensione grottesca ("decrepita", "reumatico"), la visività della poesia (evocata dal suo contrario, il poeta che è sempre più cieco), ma il tono si è fatto più grave e le immagini

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Le muse di Sinisgalli

di Giuseppe Pontiggia

Il testo qui riprodotto è l'introduzione al volume di L. Sinisgalli, L'ellisse. Poesie 1932-1972, Mondadori, Milano 1974.

A Sinisgalli le Muse apparvero per la prima volta su una collina, "appollaiate tra le foglie", intente a "mangiare ghiande e coccole": "Vidi le Muse su una quercia / secolare che gracchiavano. / Meravigliato il mio cuore / chiesi al mio cuore meravigliato / io dissi al mio cuore la meraviglia".

Lo sviluppo della sua poesia è già contenuto in questo incontro: dalla posizione di rilievo, arcaica e insieme modernamente visionaria, di quel passato remoto in prima persona ("Vidi") all'essere e al divenire fusi nella "quercia / secolare", dalla meraviglia che gli antichi ponevano all'origine della conoscenza e che qui viene trasferita ai moti del cuore (alla mente matematica sarà riservato il "furor": "il giuoco intellettuale mi inebria", dirà in una intervista a Camon) alla metamorfosi grottesca, quasi sarcastica, delle Muse che "appollaiate... gracchiavano": una presenza che ristabilisce, ma per deformarli ed esorcizzarli, sottili e complessi legami con l'antichità. L'etimologia di Musa ci riporta infatti a "mons", alle solitudini montane della Grecia e al sentimento di smarrimento e di paura che esse suscitavano nel viaggiatore. L'incontro con le ninfe dei monti fu sempre sentito come un rischio, giacché esse potevano dare la luce della poesia, ma togliere quella del sole, come accadde a Demodoco (0dissea, VIII, 63 sg.); oppure potevano essere menzognere, come confessarono a Esiodo sulle falde dell'Elicona (Teogonia, 22 sg.). Le Muse di Sinisgalli sono state invece svuotate di pericolosità, non sono più divinità, ma simulacri, proiezioni che rivelano la loro natura di doppio; esse invecchiano perciò con il poeta, che, circa trent'anni dopo, in Commiato, scriverà: "O musa, vecchia musa decrepita, il poeta è ogni anno più cieco, il tuo riso è una smorfia Calliope nel losco mattino. Su una striscia di sole il gattino va a caccia di mosche. Anche il poeta reumatico stenta a cogliere a volo un pensiero, sempre meno matematico, sull'essenza dello Zero".

Sono rimaste la dimensione grottesca ("decrepita", "reumatico"), la visività della poesia (evocata dal suo contrario, il poeta che è sempre più cieco), ma il tono si è fatto più grave e le immagini domestiche e familiari care a Sinisgalli, gli improvvisi primi piani che ingigantiscono un particolare, qui appaiono percorsi da una crudeltà ironica (il gatto e le mosche), anche se attenuata e resa sommessa dalla striscia di sole e dal diminutivo dell'animale: mentre fa la sua tardiva apparizione nella poesia, in presenza di Calliope, l'altra Musa di Sinisgalli, la Matematica: ma solo ora che il pensiero sembra eluderla e superarla con una meditazione, sempre più torpida e passiva eppure sensibile e desta, sull'essenza dello Zero.

Nella letteratura del nostro Novecento le due Muse di Sinisgalli furono una presenza inquietante e perciò, non poche volte, elusa: stupiva che potessero convivere e coabitare e che non solo lo scrittore ascoltasse le voci di entrambe, ma pensasse talora di fonderle in un unico suono. Né la cosa ha

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finito di disorientare, abituati come siamo a separare idealisticamente (e sempre in nome dell'unità dello spirito) i campi in cui spazia l'energia mentale e le discipline che si sogliono definire con un nome. Eppure uno dei titoli della grandezza di Sinisgalli è proprio di avere percepito con una intuizione radicale e perseguito con una eccezionale libertà di movimento in tempi politicamente e culturalmente sfavorevoli, Quaderno di geometria è del 1935, l'unità più profonda che è sottesa alle diverse aree di ricerca. Questo spiega anche il suo interesse per Leonardo, per i suoi trionfi e i suoi scacchi. E se un altro poeta del Novecento, Valéry, aveva tentato, nella Introduction à la métòde de Léonard de Vinci, di imprigionarne la sregolatezza in un metodo, Sinisgalli scoprì invece che "egli ci diede i primi suggerimenti per comporre una fisiologia del poeta, capì innanzi tutto la fulmineità dell'atto creativo. Troppi eventi nella natura e nell'intelletto accadono in un istante: sono cariche e scariche di energia enorme, di energia animale e cosmica, che distruggono la cosa per creare l'immagine".

L'intervento tardivo della coscienza potrebbe in questi casi essere catastrofico: "soltanto l'intelligenza del corpo può abolire anche il minimo ritardo di registrazione di tutta l'immensa vita dell'universo in sussulto".

Perciò Leonardo "non poteva lasciarci altro che una fisica (una fisica perfino della pittura, come i poeti, i grandi poeti, non ci lasciano che una grammatica (una fisica delle parole)".

Poetica di Leonardo si intitola il capitolo di Furor matematicus (1944) da cui sono tratti questi passi: e già il titolo da un lato suggerisce la mobilità fantastica che precede l'intuizione scientifica, dall'altro collega al suo retroterra la novità della prosa leonardesca, enigma di straordinaria concentrazione allusiva.

A questa chiave di lettura, unica pur nella duplicità apparente, converrà attenersi per penetrare nel mondo di Sinisgalli stesso e, sul versante della sua attività "matematica", verificare la "poetica" che la precedeva ("La non-poesia è il territorio segreto della Poesia. La geometria s'ingrandì con la croce di Cartesio, positiva e negativa. L'algebra toccò il cielo con gl'immaginari. Trovò una scrittura per le forze, oltre che per le forme, scoprì la metrica dell'invisibile"); sarà così possibile ripercorrere anche il senso delle sue scelte: a cominciare dal 1926, quando si iscrisse alla facoltà di matematica dell'Università di Roma ("Posso dire di aver conosciuto giorni di estasi tra gli anni 15 e gli anni 20 della mia vita, per virtù delle matematiche") per arrivare alla crisi del 1929, quando rifiutò l'invito di Fermi a frequentare il suo istituto di Fisica: "Potevo trovarmi nel gruppo dei ragazzi che hanno aperto l'era atomica, preferii seguire i pittori e i poeti e rinunciare allo studio dei neutroni lenti e della radioattività artificiale".

Così se, in Quaderno di geometria del 1935, si occupa delle soluzioni impossibili di un'equazione, quali furono individuate da Diofanto alessandrino, è per metterle in rapporto con il germe dell'immaginario, se cita il principio di continuità della retta, quale fu postulato da Dedekind, uno dei "legislatori dell'infinito", lo enuncia con una battuta di Apollinaire, tratta dalla sua commedia presurrealista Le mammelle di Tiresia, se in Furor matematicus

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illustra la chiave dell'universo trovata dal suo insegnante di matematica Fantappiè (il regno dell'invisibile è fatto di coni) illumina nel contempo un paragrafo del proprio Horror vacui ("il regno del visibile è fatto di coni"), facendo balenare una unità di invisibile e visibile che "dovrà somigliare a quell'autoritratto di Jean cocteau contenuto nelle tavole della Maison de la Santé".

Con lo stesso sincretismo, quando, in un contesto pratico, progetterà la pubblicità della Olivetti, allestirà a Milano, tra il '36 e il '40, vetrine che anticipano le tecniche della pop-art. E se dal '53 al '59 fonderà e dirigerà, per le Aziende della "Finmeccanica", la rivista "Civiltà delle macchine", considererà suo precedente il "Politecnico" di Cattaneo, mentre il suo programma di spiegare le macchine agli ingegneri e ai poeti muoverà dal presupposto, come dirà nell'intervista a Camon del 1965, che "c'è una simbiosi tra intelletto e istinto, tra ragione e passione, tra reale e immaginario". Questa simbiosi darà un significato unitario anche alla sua attività successiva, all'ENI di Mattei e come direttore di "La botte e il violino", un bimestrale dedicato al design ("La fantasia deve trasformarsi in ferramenta. L'universo è in subbuglio; la spirale è la sua linea guida").

Destino curioso, ma esemplare, di Sinisgalli è di essere stato generalmente considerato un poeta che sconfina nella scienza e nella tecnologia e di non essere stato adeguatamente riconosciuto nella sua funzione eccezionale di precursore: eppure si tratta di non pochi anni di anticipo su orientamenti cui il tempo e la moda daranno l'autorità e l'invadenza, anche se non la qualità, del numero. Inoltre, oggi, strutturalisti e tecnologi tendono soprattutto a ridurre a scheletri la varietà dei corpi, alle cui sparse membra non sanno spesso restituire alcuna vita. Oppure, per converso, la sterminata quantità dei materiali forniti dall'analisi stimola le ipotesi più azzardate e gratuite, da cui c'è solo da aspettarsi l'elisione dell'una ad opera dell'altra. Mentre in Sinisgalli l'ampiezza circolare dell'orizzonte è direttamente proporzionale alla organicità della visione e alla mobilità del suo centro.

La stessa "poetica" orienta la sua attività creativa sul versante letterario: nelle prose autobiografiche e narrative (da Fiori pari, fiori dispari del 1945 a Belliboschi del 1948), dove le distanze della memoria si fondono con le prospettive spaziali ("La bambina dall'altra parte della vasca era un piccolo punto bianco, reclina a buttare sassolini nell'acqua. La sagoma di un cigno bastava a nasconderla"); nelle pagine geniali di quel Furor mathematicus che nella nostra cultura appare come un masso erratico di altre epoche, quasi un planisferio rinascimentale in cui l'unità del sapere si realizza ancora una volta in ogni direzione, dai rapporti tra ottica e metafisica nei Greci alle "macchine oniriche", dalla esperienza torricelliana del vuoto all'"horrore" dell'abisso in Pascal (e creando una sorta di genere particolarissimo, che ricorda il gusto di Borges per la "contaminatio" di mondi apparentemente remoti, ma, a differenza di Borges, conserva, al di là delle suggestioni fantastiche, il reticolo dei nessi nella loro legittimità); la stessa "poetica", infine, è anche il centro, segreto e arduo, della sua poesia.

Già in una Lettera a Gianfranco Contini, scritta a Milano il 6 novembre 1941, Sinisgalli accennava a una coscienza vettoriale della poesia come energia,

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esprimibile mediante il binomio a - bj, dove a e b sono quantità reali e j è "il famoso operatore immaginario", anfibio tra l'ente e il non ente, somma di un reale e di un immaginario, che "ci darebbe un'idea di quella che è l'alterazione prodotta dal linguaggio sulla realtà", certo seguirlo su questa difficile linea di demarcazione tra i due versanti risulta, almeno per i non matematici, più un presagio che una esperienza della verità. Tuttavia in una Seconda lettera a Gianfranco Contini di alcuni anni più tardi questa coscienza fisico-matematica della poesia sembra diventare più accessibile al linguaggio della parola: "... nell'azione del poeta, per la nascita e lo sviluppo della poesia, entrano in giuoco delle cariche di energia incommensurabili, che vivono magari per attimi infinitesimali e si consumano in un soffio. Tuttavia non sono i fenomeni del mondo fisico che possono offrirci qualche analogia di questi transiti, ma proprio alcuni fenomeni biologici cosmici e nucleari". E comunque l'essenziale non è tanto di verificare la convergenza dei linguaggi del numero e della parola, quanto di percepirne la correlazione e scoprire dietro a entrambi un'unica intuizione del reale: "La natura entra placidamente nelle nostre capsule, nelle parole e nei simboli, nelle lettere e nelle cifre. Ci entrano anche i pensieri. Entrano le formule semplicissime che regolano il mondo. Le equazioni di Einstein sono brevi come le formule dell'acqua e del sale. Dio è laconico".

Per questa via sarà forse più agevole cogliere il particolare peso specifico che la sua parola possiede già nei primi versi, il retroterra che contribuisce a differenziarla da quella pascoliana e crepuscolare e poi da quella di Ungaretti e Montale (con cui pure la critica maggiore, da Anceschi a Bo, da De Robertis a Contini, l'ha giustamente posta in un vitale e dialettico rapporto).

Tale retroterra è percepibile fin dalle 18 poesie del 1936 che, precedute dal consenso di Ungaretti e seguite da quello di un critico come De Robertis, valsero a Sinisgalli l'immediata collocazione nell'area più interessante e vitale dell'ermetismo, accanto a Betocchi, Gatto, Sereni, Luzi. Al di là però delle comuni ascendenze (al crocevia delle linee Pascoli-crepuscolari e Mallarmé-Valéry) e delle suggestioni esercitate dai contemporanei Ungaretti e Montale, "l'antieloquenza" che fu subito riconosciuta come uno dei tratti distintivi dell'analogismo di Sinisgalli non era solo un correttivo di ogni enfasi retorica, ma affondava le sue radici in strati più profondi. L'evidenza fisica che le sue figure sprigionano non è infatti tanto visiva e sensoriale, quanto riconducibile a quel capovolgimento della gerarchia anima-corpo che Sinisgalli aveva attribuito a Leonardo. Essa accentua, anziché attenuare, l'intensità fantastica dell'immagine:

I fanciulli battono le monete rosse

contro il muro. (Cadono distanti

per terra con dolce rumore.)

...

Una moneta battuta si posa

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vicino all'altra alla misura di un palmo.

Così, anche in Vidi le Muse del 1943 (la raccolta che segna l'abbandono di Sinisgalli a una modulazione più intima e commossa della memoria), una lirica che ha un attacco arioso ("che incredibile mattino") termina in un leonardesco calando "denso e grave":

Siamo in fondo alla valle

come in fondo ad un lago.

Questa geometria, come coscienza dello spazio terrestre, dà alla rievocazione della figura del padre quella singolare commozione che nasce dalla coincidenza di una dimensione affettiva con una visiva:

È un uomo, un piccolo uomo

ch'io guardo di lontano.

È un punto vivo all'orizzonte.

Spazio privilegiato, nella poesia di Sinisgalli, è la Lucania, arcaica, remota, fuori del tempo. Già presente in evocazioni di ampio respiro lirico nei Nuovi Campi Elisi del 1947 (dove l'apertura narrativa del linguaggio lirico tocca in Sinisgalli la massima estensione), essa ispira le filastrocche raccolte e trascritte nella Vigna vecchia del 1952, che ha offerto al nostro Novecento esempi di un folclore spoglio ed essenziale, lontano sia dalle scenografie dannunziane sia dalla Ciociaria surrealista e favolosa di de Libero. Ma questa Lucania, povera ed elementare, dove si stagliano le figure amate dei genitori, introduce anche la dimensione del tempo, quello dell'infanzia e della adolescenza.

Fissato in immagini nitide e visionarie, il paesaggio lucano è sempre stato rivissuto da Sinisgalli in un presente che non è quello temporale dei greci (l'attimo che si fa eterno) né quello atemporale della poesia pura: esso è piuttosto una sovrapposizione di tempi, il riaffiorare di una memoria aperta ai presagi del futuro:

Fredda alita la sera

su questi prati che toccai con la fronte

calda e felice della corsa.

Oppure, con accenti di rinnovata classicità:

Mi ricorderò di questo autunno

splendido e fuggitivo dalla luce migrante,

curva al vento sul dorso delle canne.

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Alla sua terra il poeta tornerà in ogni suo libro, come a un polo del suo esistere: all'altro c'è un irrequieto nomadismo, un succedersi di camere ammobiliate, di alberghi, di città, cui fa da ironico contrappunto l'immobilità dello scriba (così si intitola una sezione dell'Età della luna del 1962, l'opera in cui più immediato è il trapasso dalle commozioni represse della memoria ai sarcasmi desolati del presente e al Nulla vissuto come limite estremo, ma non invalicabile della poesia e della scienza). Tutta l'opera di Sinisgalli, nell'arco di oltre trent'anni, suggerisce l'incontro dei limiti in cui la nostra vita è racchiusa, quelli dello spazio e del tempo. Dirà in Furor mathematicus: "ci sono luoghi dove vorremmo restare sepolti. Noi andiamo alla ricerca di questi luoghi".

Nomi di strade, di piazze, di fiumi, di città riflettono continuamente, anche nei titoli delle sue liriche, questa coscienza dello spazio terrestre: Narni-Amelia Scalo, Corso Vercelli a Milano, Una Strada a Udine, Via Velasca, Via Maqueda, Circonvallazione Clodia, Rue Sainte Walburge, San Babila, Via Spiga, Piazzale di San Domenico, Udine piazza delle erbe, La chiesa di St. Thomas d'Aquin a Parigi, Piazza di Siena, Lungotevere, L'Olona, Borgo Valtellina, Valle Giulia, Aquileia ("Portiamo in giro la nostra miseria di adulti che sospirano fedeltà, che chiedono tregua"); e ogni luogo è un punto nel tempo, un frammento della esistenza, un momento del giorno, e i giorni si susseguono nelle stagioni, con un ritmo uguale che una eredità arcaica e agricola fa ancora percepire al poeta, coincidendo con il suo senso cosmico della natura: Aprile in Rugabella, Dicembre a Porta Nuova, Monte Parioli ottobre, Crepuscolo di febbraio a Monte P., Quaresima a Valle Giulia, Primavera a Chiaia, Domenica al Pincio.

A questo senso ciclico del tempo andrà probabilmente ascritto anche l'uso che Sinisgalli fa di citazioni allusive nei suoi versi (ad esempio quelle pascoliane: "Tu senti che è primavera", "c'è qualcosa di nuovo nell'aria"). Ed è grazie a questo stesso senso, affettivo e cosmico, della natura che in Sinisgalli acquistano un significato particolare gli ingrandimenti degli esseri più minuti, le liriche dedicate agli insetti (Poesia per una mosca, Poesia per una cicala, Mosche cherubine, Mosche canine). Sono titoli che richiamano gli epigrammi ellenistici: ma mentre in questi l'impegno era di un virtuoso esercizio di retorica, in Sinisgalli l'occhio è naturalistico e lo sguardo insieme assorto e tetro:

Fido ha le natiche grasse.

È un vecchio cane di chiesa

che siede sorto gli altari.

...

Ha allungato la testa tra le zampe,

ha cacciato la lingua: di colpo

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ingoia un moscone che l'annoia.

Nell'ultimo volume di versi (Il passero e il lebbroso, 1970) questo sguardo ha acquistato la lucidità ellittica che rispecchia la distanza giusta raggiunta, con fatica e pena, tra sé e la propria esperienza:

Da un buco nel muro

o da una crepa nel cuore

può sporgersi l'insetto

che fa marcire frutti e fiori.

Le rondini le lune restano fuori.

L'attenzione alla natura tradisce ora accenti di pacato sconforto. così, in Pasqua ai giardini:

Puoi trascorrere ore e ore

a guardare le foglie nuove.

Il mondo è lontano di là.

e in Due poeti ai giardini:

Quando stanno meglio

e possono camminare spediti

fanno una visita

al Museo di Storia Naturale.

Guardano i mammut, i cristalli,

gli scheletri dei pesci e degli uccelli:

teste grandi come teatri,

ossa sottili come aghi. Siedono

sulla panchina davanti al lago.

Permane però, anche in queste ultime liriche, l'analogismo fulmineo e subito bloccato di Sinisgalli:

Entra un trillo che non è inquieto,

un puntolino di colore in agitazione.

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E in tale analogismo materico riappare, accanto alla Musa della poesia pura, l'altra Musa, quella della non-poesia.

Sinisgalli, per la poesia, ha ripudiato la saggezza ("il mio sforzo per scrivere versi è stato appunto il disprezzo della mia saggezza"), ha ripudiato la cultura ("Spero tanto nella vecchiaia per arrivare all'asfissia, all'imbecillità. Raduno tesori che non tocco, libri che non taglio, giardini che non esploro, ammasso capitali che non mi godrò mai"), ma dietro ogni sua pagina c'è il bisogno di un sapere totale e indifferenziato e insieme il suo oblio in una sintesi ulteriore, che è la parola della poesia. Sinisgalli ha cioè cercato e vissuto fino in fondo il senso non immediato, ma ultimo della parola. Il suo muovere dal silenzio della scienza alla poesia, che gli fu talvolta imputato come contraddittorio, è invece la testimonianza del suo coraggio e la vitalità della sua poetica, in cui è contenuto il germe delle sue liriche più compiute.

Le tensioni che la alimentano sono tanto più radicali, quanto più il poeta stesso vorrebbe sopprimerle. Dice in Calcoli e fandonie (1970), con la recisione amara dei suoi ultimi scritti: "i fisici si trovano di fronte a un bivio: mondo e antimondo. E i poeti devono scegliere tra poesia e non-poesia".

Di nuovo, dunque, una lacerazione, una divisione? Ma c'è una pagina, in Furor mathematicus, dedicata alla sfera, che sembra mostrarci i Campi Elisi: "Nella sfera ogni punto è ugualmente prezioso e ugualmente trascurabile, è un punto qualunque della sfera, privo di ogni singolarità. Tutti gli spostamenti la ritrovano identica negli infiniti piani di simmetria, nell'unica faccia che ne nasconde la perfezione.

Non saprà mai piegarsi da un lato o dall'altro. Non sa negare, non sa consentire: anche quando sembra sporgersi, riflettere, cadere. Una sola misura la determina: un raggio!, questa parola che sposa l'idea di una forma incantevole a una delizia celeste...".