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NATURA E SOCIETA' NEL PENSIERO DI EDMUND BURKE PREMESSA La presente edizione del saggio sulle origini del pensiero politico di Edmund Burke, già pubblicato nella Collana dell'Istituto di Filosofia del diritto e di studi storico - politici della Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Pisa nel 1966 Dall’Editore Giuffrè, comprende due nuovi capitoli, IV e V, dedicati a due altri scritti di Burke che completano il panorama degli interessi filosofici e storico politici del giovane Autore: A Philosophical ENQUIRY into the Origin of our Ideas of the Sublime ami Beautiful (1757), An Essay towards tm ABRIDGMENT of the English History (1757-1762). Si è potuto così approfondire il discorso che Burke aveva iniziato con il primo scritto, A VINDICATION of Natural Society (1757), per quanto riguarda la sua critica della filosofia e della ragione illuministiche nella “versione” che ne davano Bolingbroke e Hume, critica che ebbe ulteriori svolgimenti e precisazioni sia sul piano dell’estetica, fondata sull’analisi dei sentimenti e delle passioni che precedono il nostro giudizio, sia su quello della storia delle origini e della formazione della società e della nazione inglesi. Abbiamo pertanto ritenuto opportuno rivedere ed ampliare il capitolo VI, dedicato alle origini del pensiero politico di Burke, e precisare così il suo preromanticismo, che caratterizza per tanti aspetti il suo pensiero politico e storiografico Roma, dicembre 2007 UNO LA POLEMICA CON BOLINGBROKE Nella primavera del 1756 usciva a Londra per i tipi di Dodsley un piccolo saggio anonimo, dal titolo quanto mai cattivante per quanti si interessavano di argomenti politici, soprattutto quando erano svolti con una contrapposizione decisa e polemica: A vindication of natural society: or a view of the miseries and evils arising to mankindmfrom every species of

PREMESSA · Web viewcerto risentimento dello stesso Mallet e degli amici del Bolingbroke che avevano promosso l’edizione delle sue opere, tanto che, a quanto si ricorda, sentirono

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NATURA E SOCIETA' NEL PENSIERO DI EDMUND BURKE

PREMESSALa presente edizione del saggio sulle origini del pensieropolitico di Edmund Burke, già pubblicato nella Collana dell'Istituto di Filosofia del diritto e di studi storico - politici dellaFacoltà di Giurisprudenza dell’Università di Pisa nel 1966Dall’Editore Giuffrè, comprende due nuovi capitoli, IV e V,dedicati a due altri scritti di Burke che completano il panorama degli interessi filosofici e storico politici del giovane Autore: A Philosophical ENQUIRY into the Origin of our Ideas ofthe Sublime ami Beautiful (1757), An Essay towards tm ABRIDGMENT of the English History (1757-1762). Si è potuto così approfondire il discorso che Burke aveva iniziato con il primoscritto, A VINDICATION of Natural Society (1757), per quanto riguarda la sua critica della filosofia e della ragione illuministiche nella “versione” che ne davano Bolingbroke e Hume, critica che ebbe ulteriori svolgimenti e precisazioni sia sul pianodell’estetica, fondata sull’analisi dei sentimenti e delle passioniche precedono il nostro giudizio, sia su quello della storiadelle origini e della formazione della società e della nazioneinglesi. Abbiamo pertanto ritenuto opportuno rivedere edampliare il capitolo VI, dedicato alle origini del pensiero politico di Burke, e precisare così il suo preromanticismo, checaratterizza per tanti aspetti il suo pensiero politico e storiograficoRoma, dicembre 2007

UNO

LA POLEMICA CON BOLINGBROKE

Nella primavera del 1756 usciva a Londra per i tipi diDodsley un piccolo saggio anonimo, dal titolo quanto maicattivante per quanti si interessavano di argomenti politici,soprattutto quando erano svolti con una contrapposizione decisa e polemica: A vindication of natural society: or a view of the miseries and evils arising to mankindmfrom every species of artificial society. In a letter to lord …..by a late noble writer. Non era un saggio dotto, austero, ricco di citazioniatte a documentare le tesi che vi erano svolte con lo scrupolopedante e puntiglioso di chi intende far tacere gli avversariper sempre; era invece uno scritto agile, elegante, di piacevolelettura, caratterizzato da uno stile pressoché perfetto, senza“cadute” od “intoppi”, che consentiva di svolgere gli argomenti in modo “discorsivo”, con una serie di osservazionibrillanti e nello stesso tempo acute: si avvertiva che il discorso, alla fine, non mancava di un suo impegno profondo,nel senso di reclamare dal lettore una partecipazione viva alleconclusioni che vi si prospettavano. Ciò che colpì i lettori fulo stile, unitamente al particolare modo di argomentare, e alletesi sostenute. Non potevano esserci dubbi, almeno per alcuni, lo scritto anonimo doveva essere attribuito a Lord Bolingbroke, del quale erano state pubblicate due anni prima, in

una “autorevole” edizione - quattro volumi in ottavo grande - le opere: evidentemente questo scritto doveva essere sfuggito al Mallet che aveva per l’appunto curato l’edizione. L’episodio non mancò naturalmente di suscitare perplessità e uncerto risentimento dello stesso Mallet e degli amici del Bolingbroke che avevano promosso l’edizione delle sue opere,tanto che, a quanto si ricorda, sentirono il bisogno di recarsidal Dodsley per fargli esplicita richiesta della “provenienza”dello scritto anonimo, che a quanto risultava loro non eracompreso fra le carte del Bolingbroke.Un vero e proprio “caso letterario” che contribuì naturalmente al successo, alla diffusione del saggio anonimo e che sirisolse nell'anno successivo quando Dodsley pubblicò la seconda edizione: questa volta, però, compariva il nome dell’autore, un nome sconosciuto negli ambienti letterari, mondani,politici di Londra, un giovane irlandese, Edmund Burke.La of natura society è il primo scritto, di uncerto impegno filosofico - politico, con il quale Burke debuttònel mondo politico e letterario londinese: esso sostanzialmente conclude un periodo della sua vita caratterizzato dallaincertezza di operare una scelta definitiva fra la sua viva vocazione di scrittore, appassionato di problemi letterari, estetici, filosofici e politici, in quella dimensione propria della culturailluministica, specialmente inglese, nella quale l’impegno “letterario” è vissuto in stretta connessione con quello civile o piùpropriamente politico, e la professione legale alla quale lo voleva destinato la volontà paterna.Aveva studiato dal 1744 al 1750 al Trinity College di Dublino, l'università che tanto lustro doveva ricevere dall'insegnamento di Berkeley ed era stato subito notato per la suapassione per i classici, per la sua intelligenza viva, per la suaparola facile, brillante, per le sue qualità oratorie, che dovevano poi renderlo famoso. I suoi interessi culturali avevano unchiaro orientamento umanistico-letterario che per moltiaspetti ispira e sollecita i suoi studi di storia, di filosofia e dipolitica, nei quali assumono particolare rilievo gli argomenti ele questioni dì carattere etico-religioso. A quanto è dato sapere, non amava troppo gli studi di logica che molto probabilmente, dato il suo “temperan1ento" intellettuale, gli sembravano volti a mortificare la spontaneità e la discorsivitàdel ragionamento.Nel 1750 il padre lo aveva mandato a Londra perché iniziasse gli studi di diritto per dedicarsi poi alla carriera forense,ma la nuova esperienza di studio al Middle Temple, dovetteben presto convincerlo che fra il diritto colto nella sua vivadimensione storico-politica e il diritto dei giurisperiti, dei giudici, degli avvocati, con tutto il complicato corredo di formule, di principi, d'eccezioni, intercorreva una profonda differenza e che il secondo si riduceva, infine, ad un arido tecnicismo al quale si ribellava il suo temperamento, e finiva colcontrastare con la sua precedente formazione spirituale e culturale. Il suo epistolario testimonia le sue “perplessità”, ilcontrasto fra le sue vocazioni e il desiderio di rispettare la volontà paterna. Nell’aprile del 1751 scriveva al suo caro amicoShackleton: “ la mia salute è tollerabile, ringrazio Dio, i miei studi anche nello stesso modo, e la mia situazione non è spiacevole”; ed ancora nell’agosto del 1751 dava notizia all'amicodei suoi studi legali, con poco entusiasmo, e con la magra

consolazione che, alla fin fine, un mediocre “legale” vale,nella considerazione sociale, almeno tre volte un mediocrepoeta; ma doveva constatare dì fare scarsi progressi nello studio del diritto, che certamente non presentava alcuna difficoltà per coloro che erano disponibili ad apprenderlo, ma nonper quelli che non ne avevano alcuna intenzione.Molto probabilmente fra il 1753-1754 Burke dovette abbandonare gli studi legali per cominciare ad interessarsi, conuna certa continuità, di questioni letterarie in modo da poteriniziare la carriera del pubblicista che riteneva più confacentealle sue attitudini ed alle sue vocazioni culturali. La religioneè indubbiamente un costante punto dì riferimento nella formazione culturale del giovane Burke ed i problemi che comporta per quanto riguarda la convivenza umana costituisconole premesse di fondo dei suoi interessi e dei suoi scritti diestetica, di filosofia, di storia e di politica. La religione era unconnotato essenziale della sua tradizione di famiglia: suo padre Richard era un cattolico che si era convertito all’Anglicanesimo per poter continuare nella professione forense; la madre era rimasta cattolica e vi aveva educato la figlia. Il suocerodi Burke era anch’egli cattolico, ed aveva sposato una ferventepresbiteriana, che aveva educato la figlia al protestantesimo. Burke, allevato nella confessione religiosa paterna, vissenella sua giovinezza e nella sua maturità, soprattutto per ivincoli parentali, un’esperienza religiosa caratterizzata da unimpegno al dialogo interconfessionale sia nel protestantesimosia fra questo e il cattolicesimo. E forse proprio questa esperienza di divisione religiosa, pur nella comune convinzionecristiana di una sola fede e di un solo battesimo, che induceBurke a confessare al suo amico Shackleton che egli è benlungi dal ritenere che quanti non professano la sua confessione religiosa sono esclusi dalla salvezza e che di conseguenza si viene presi dalla “malinconia” quando constatiamola diversità delle sètte e delle opinioni che sussistono fra i cristiani: gli uomini non dovrebbero per questioni sostanzialmente poco rilevanti commettere il grande crimine di spezzare l'unità della Chiesa, Certo, nota Burke, se lo spirito diumiltà, che è la più grande virtù cristiana, fosse effettivamentela nostra guida, le nostre divisioni religiose sarebbero moltopoche.Questo forte sentimento dell’unità della fede e dellaChiesa fu molto probabilmente all’origine della simpatia peril cattolicesimo (tanto che in quegli anni si parlò fra gli amicidi una sua conversione) e si manifestò appieno nell’impegnocon cui Burke sostenne dal 1760 la causa dell’abolizione delleleggi discriminatorie nei confronti dei cattolici irlandesi chenegavano loro essenziali diritti civili e politici: come è statogiustamente rilevato, Burke non fu un convertito al cattolicesimo, ma alla causa del cattolicesimo irlandese. Nei Fragmems of Tract on the Popery Laws del 1765, in cui illustra i criteriper la riforma delle leggi limitative delle libertà dei cattoliciirlandesi, ricorda « che questa Religione che è così perseguitata nei suoi membri, è l'antica religione del Paese, e una voltala Religione riconosciuta dallo Stato; è proprio la stessa chericevette per secoli l'approvazione e la sanzione della Legge". Per il giovane Burke si trattava di intendere il valore, il significato e il ruolo della religione << in these enlightmed times », in cui, come avrebbe precisato negli stessi Tracts, tuttii benpensanti rifiutavano ogni forma di persecuzione religiosa:

« nella proporzione in cui il genere umano è diventato illuminato l'idea della persecuzione religiosa, per qualsiasi motivo,è stata pressoché universalmente screditata dai benpensanti ». Nelle note di Burke che si riferiscono al periodo dell’organico approfondimento dei suoi interessi culturali dopo ilTrinity College, 1750-1756, alcune riguardano la religione e irapporti fra filosofia e cultura, svolte in modo organico perpiù pagine sì da darci sicure indicazioni sulle convinzioni cheaveva tratto dai suoi studi su tali argomenti.Due note si riferiscono alle caratteristiche essenziali dellareligione, per precisarne l’intrinseca validità ed autonomia,che rinviano ad un'esperienza “originaria” e fondante la morale e la personalità dell'uomo contro ogni concezione “riduzionistica” della stessa religione, che la commisura e la accettasulla base del “metro razionale” o della utilità sociale. Laprima annotazione si riferisce al problema dei rapporti fra religione e politica, di particolare interesse per quanto riguardale motivazioni della critica di Burke all’illuminismo di Bolingbroke, di Voltaire, di Htune, e dei cosiddetti Free-thinkers,che sottolineavano la connotazione essenzialmente politicadella religione come un mero strumento di governo, basatosulle superstizioni, sulla credulità, sui timori e le paure delle plebi.Il titolo della nota è molto significativo: “Religion of noefficay as considered as a State engine". Per Burke la religionenon può essere considerata “una macchina dello Stato”, nonpuò essere ridotta ad un “mezzo” per consolidare l’unità e lacoesione sociale e per rafforzare il prestigio delle istituzioni: lareligione non può essere considerata ed usata come un comodo “strumentum” senza snaturarla e misconoscerne lavera essenza. Occorre riconoscere alla religione un proprioautonomo “ambito”, definito dalla convinzione che Dio sovrintende alle nostre azioni per remunerarle o condannarle.La religione si rivolge agli individui e alla loro coscienza e peril loro tramite ha un’influenza sulla società; solo la legge civilepuò esercitare ur1’azione diretta sulla società, la religione agisce invece in modo del tutto indiretto. Se consideriamo la religione non per come opera secondo i propri principi ma solamente come una “sorta di supplemento della legge civile”,cercando di trasformarla, contro la sua natura, in una sorta di“macchina politica”, finiamo per privarla di ogni efficacia politica.Ed è proprio in occasione di queste considerazioni sul valore che dobbiamo riconoscere alla religione che Burke fa un’altra osservazione di particolare rilievo per il suo orientamento critico nei confronti dei poteri “sovrani" si sarebbe tentati di dire “assoluti” - che l'illuminismo di Bolingbrokele di Hume riconosceva alla ragione nei confronti della religione. Questa, osserva il Nostro, non può essere “ricondotta” nei limiti della ragione, né essere accettata solamente se “avvolta" nel “mantello della ragione" dato che la sola ragione non riesce ad intendere il nucleo essenziale, il proprio della religione, che si riferisce a fini meta empirci, ultraterreni: « Pertanto come noi , restringiamo i fini della Religione a questo mondo, naturalmente annulliamo ogni sua operazione,tutte dipendenti dalla considerazione di un altro (mondo) ?Dio, secondo Burke, ha concesso al genere umano un altro principio attivo di conoscenza, “l’entusiasmo”, che supplisce le deficienze della ragione e che si “avvicina” alla « grandee comprensiva Ragione nei suoi effetti, sebbene non secondo

il modo di operare della Ragione comune; che lavora con argomenti determinati, precisi, comuni e perciò plausibili ».Certo “l'entusiasmo” spesso ci induce in errore: ma lo stessoaccade', bisogna riconoscerlo, anche per la ragione: ma questaè la condizione della nostra natura, né noi possiamo modificarla. Occorre rilevare inoltre che la nostra azione è veramente completa solamente quando noi agiamo con tutti i poteri della nostra anima, allorché noi ci serviamo dell’“entusiasmo” per elevare ed ampliare il nostro ragionamento e della nostra ragione per frenare gli slanci del nostro “entusiasmo” .La natura dell'uomo è caratterizzata, secondo Burke, dall’attività: << Dio ha fatto tutte le sue creature attive ed in modoparticolare l’uomo >>, ed ha pertanto un particolare rilievol'impegno dell'uomo nel superare le difficoltà ed i pericoli chesono spesso connessi all’adempimento delle azioni richiestedai nostri doveri, azioni spesso condizionate dall’opinione edalla conoscenza che abbiamo delle cose. Solamente una“forte” e fondata opinione. è in grado di promuovere unaazione risoluta: il dubbio e lo scetticismo non si addicono all'uomo che intende agire, che deve essere invece risoluto epositivo. Nessuna azione, conclude Burke, ma solamente deboli e imperfetti tentativi di agire possono scaturire da concezioni dubbiose e da incerti principi.Di qui l’importanza di una analisi del sentimento religioso, dei principi, dei doveri in cui esso si esprime cui Burkededica una lunga nota per precisare il nesso sussistente conl'attività e quindi la moralità dell’uomo e la sua intrinseca ragionevolezza. La religione si riferisce al rapporto fra l'uomo eDio riconosciuto “creatore” e principio di tutte le cose, unrapporto di dipendenza dall’Essere Superiore, che implica ildovere di riconoscenza e di accettazione della sua volontà.In questo rapporto Burke si sofferma sul rilievo centraleche ha il sentimento nella formulazione dei precetti religiosi,che vanno considerati nella prospettiva dell’analisi dei modicon cui l’avvertenza e la nozione di Dio vengono vissute dall’uomo. Gli uomini secondo Burke sono indotti dalla loro natura a “misurare” i loro doveri verso la divinità sulla base dibisogni e di sentimenti piuttosto che su quella di astratte speculazioni. I primi non ci ingannano, i secondi possono trarciin errore. Le speculazioni di carattere teorico-filosofico, fondate sulla mera ragione non ci garantiscono la “certezza” enon possono essere assunte ad unico fondamento dei nostridoveri. Secondo Burke confermano e rafforzano il nostro assenso solamente quando concordano con i nostri sentimenti,ma hanno uno scarsissimo valore quando sono contrari ad essi.Il desiderio e l'idea dell'immortalità dell’uomo, la convinzione che le nostre azioni siano la causa della nostra futura felicità o miseria piuttosto che le sanzioni dei nostri doveri, laconseguente consapevolezza che la nostra vita è una preparazione della futura sono espressioni del sentimento religioso cui corrisponde, per Burke, una “conoscenza”, o un’avvertenza di Dio, ingenita nella natura dell’uomo: << Gli uomini hanno una qualche conoscenza di Dio... Dio ci ha dato unaconoscenza di se stesso e noi crediamo che questa conoscenza sia di qualche importanza per noi >>. Perciò non dobbiamo “immergerci” troppo nelle cose che ci fanno ritenerequesta vita il nostro tutto, negando in certo qual modo noistessi, dato che l’indulgenza nei confronti dei nostri piaceri rimuove la nostra attenzione dagli altri fini della nostra vita, ed

indebolisce il nostro impegno per essi. Le passioni che scaturiscono dall’amore di se stessi contrastano spesso con i dovericonnessi alle relazioni fra gli uomini ed abbiamo un dannominore quando riusciamo a limitare i nostri desideri anzichéindulgere ad essi con pregiudizio degli altri. In conclusione, lospirito di rinuncia fondato sull'avvertenza del limite delle passioni e dei desideri è, secondo Burke, il secondo pilastro dellamorale e quindi di una ordinata convivenza fra gli uomini.Dio non è percepito dall’uomo solamente come Creatorema anche come Provvidenza, come presenza attiva e continuain tutti gli eventi della sua vita e del mondo in cui vive: la religiosità dell’uomo, cioè la sua dipendenza da Dio, si perfeziona e si invera nella convinzione della Provvidenza. Se Diofosse solo Creatore l'ordine delle cose, osserva Burke, sarebbecaratterizzato dalla necessità, con la conseguenza che noi potremmo solamente onorarlo, ma non amarlo e nemmeno temerlo o sperare in Lui. L’onorare si esprime mediante la lodee la gratitudine che sono sentimenti “inerti”, incapaci cioè dipromuovere attività, perché scaturiscono dalla considerazionedi ciò che fu fatto. La speranza e il timore corrispondono invece alla nostra ingenita propensione all’attività: promuovonoinfatti ogni nostra iniziativa perché si riferiscono ad un futuro“aperto”, non preordinato dalla necessità. Alla Provvidenza èconnessa pertanto la fiducia che la nostra attività, cioè la nostra libertà e responsabilità, ponga in essere un mondo umanoche si inserisce nell'ordine dei fini voluto da Dio.Gli argomenti contro la Provvidenza, secondo Burke,sono suggeriti dalla ragione, che riscontra nella natura un ordine strutturato secondo leggi immodificabili; nei nostri sentimenti invece non vi è nulla che la contraddica, anzi vi è una“consonanza" fra quelli e l’idea della Provvidenza. Grazie aquesta possiamo renderci conto che << Dio ha fatto per lamassima parte gli uomini strumenti di tutto il bene che operaper loro: infatti la maggior parte della loro forza deriva dallareciproca assistenza e la maggior parte del loro sapere dallamutua istruzione. Ciò è la prova che nell’uomo vi è un capitale di credito o di fede nei confronti del suo simile senza del quale questa assistenza ed istruzione sarebbero impraticabili >> . La logica della fiducia nella Provvidenza, che prescinde dalla conoscenza dei motivi o dei fini delle sue azioni,è la stessa della fiducia che riponiamo nei nostri simili (crediamo in loro e in ciò che faranno) senza cui la “buona volontà” non può sussistere fra gli uomini, e la stessa societàviene dissolta.L’azione della Provvidenza nel corso degli avvenimentiumani può essere compresa solamente alla luce del principiodella eterogenesi dei fini, che sovrintende anche a tutti glieventi naturali, in quanto inseriti nell’ordine della creazione:per Burke la “sapienza della natura" non è altro che la Provvidenza: << La sapienza della natura o piuttosto la provvidenza è proprio degna di ammirazione in questo, come in un migliaio di altre cose, per conseguire i suoi fini mediante mezziche sembrano diretti ad altri scopi >>. In conclusione la fiducia nella Provvidenza è l’essenza del sentimento religioso, tanto che negare la Provvidenza significa negare la stessa religione: << Eliminare la Provvidenza significherebbe perciò eliminare la Religione >> .Il sentimento di Dio e la corrispondente idea si “inverano” in quella conoscenza del divino che ci è stata data da Dio: non dobbiamo ritenere impossibile, osserva Burke, che

Egli ci abbia dato una conoscenza della sua natura o del suovolere e che non abbia trovato i mezzi adatti a comunicarciquesta conoscenza. Dobbiamo ritenere pertanto che il fattostorico della Rivelazione, quale ci è attestato da una costantetradizione fondata su una serie di testimonianze, è la verafonte della nostra conoscenza di Dio. Questa conoscenza richiede uomini incaricati di insegnarla, di interpretarla e di trasmetterla agli altri, in modo da garantire la continuità dottrinale dell’insegnamento delle verità religiose che non possono dipendere dalle arbitrarie interpretazioni dei singoli. La religione, in quanto Rivelazione, è pertanto intimamente connessa con una “società particolare” che sia al suo servizio,cioè con la Chiesa.La religione per Burke ha una sua “originaria autonomia”, come avvertenza e sentimento di Dio, che ha una sua “logica”, cioè un suo modo di esprimersi, distinto da quellorazionale, che “precede”, anticipa ed orienta la ragione. Sussiste, come si è visto, una corrispondenza fra le convinzionireligiose e i nostri sentimenti, le nostre passioni, che dannol’orientamento e l’impulso alla nostra attività, che si generapertanto, compresa quella razionale, nel sentimento e nellacoscienza religiosa. La ragione, in altri termini, non genera dase stessa, cioè non trae dalla sua razionalità l’impulso, la forza,la presa vitale sulla realtà che le consente di assimilarla, equindi di spiegarla e di conoscerla. La ragione, soprattuttoquando perviene ad un altissimo grado di analisi, non riescemai a rappresentare compiutamente la realtà. La convinzioneche solamente il razionale ha una “vera” esistenza e consistenza è infondata, come la pretesa che la realtà si “adegui" in tutto e per tutto al dettato razionale si che possa essere “riformata” in toto secondo criteri del legislatore illuminato.A scanso di eventuali fraintendimenti, occorre rilevare cheBurke non assume un atteggiamento scettico nei confrontidella ragione, nel senso di non riconoscerle alcuna sostanzialecapacità nel cogliere la verità, ma che diffida dì una ragioneche si fonda esclusivamente sull'intelletto, così come si rifiutadì ridurre tutto il campo del sapere a quello che può essereconosciuto dalla ragione. Così Burke non rifiuta, ad esempio,l’esperienza tutta intellettuale del dubbio, inteso propriocome essenziale momento pedagogico della nostra ragione; ma nello stesso tempo non esita a riconoscerne i limiti quando cerca di esaurire in se tutta la realtà, perché sa che inquesto caso lo stesso ragionamento finisce col vanificarsi inraffinate sottigliezze intellettuali, che non intendono i veriprincipi che informano la realtà che vogliamo conoscere,Il criterio che deve informare l’analisi razionale è quellodella semplicità. Burke osserva a tal proposito che quantopiù la mente dell’uomo si eleva dal “volgo”, cioè della gentecomune, tanto più si avvicina alla “semplicità” del suoaspetto, del suo linguaggio ed anche di non poche delle suenozioni. Questo uomo conosce bene la sua ragione, ma proprio per questo motivo ne diffida, la considera criticamente.Egli si affida in più di un’occasione alle sue passioni: le controlla,ima non le incatena. Il criterio della “semplicità" si collega con quello delle “ordinary roads of life”,con l'ordinario modo di vivere della gente comune", e quindi con il costume e le tradizione che ne costituiscono l'ispirazione dì fondo, L’uomo che è consapevole della sua natura, cioè del

rapporto sentimento passioni ragione, diffida sempre dei ragionamenti che lo portano fuori delle “ordinary roads of Life". “Noi, avverte Burke, dobbiamo sempre considerare ilcostume con grande deferenza, come non dobbiamo sempreirridere le convinzioni popolari. Vi è sempre un principio dicarattere generale a produrre i costumi, che è certamente unaguida più sicura delle nostre teorie”.Il “costume” non è la stratificazione o la istituzionalizzazione di un comportamento soprattutto quando è un costume universale che ritrova la sua giustificazione unicamente nellaragione dell’individuo che persegue il suo utile e benessere,ma è costituito .da quelle norme del comportamento etico - sociale di una comunità di individui che esprimono un principio e quindi una verità, che difficilmente la ragione riesce aspiegare o a comprendere allorché procede con metodo squisitamente intellettualistico, e che quindi debbono essere accolti nel loro contenuto di verità, proprio perché testimoniaticome tali dal costume stesso.Burke insiste nel criticare la “raffinatezza razionale”: nonc’è maggior pericolo di errore, avverte, di quando persistiamonell'inoltrarci lungo la “road of refinement”, nella pretesa dicomprendere e di spiegare tutto: per quanto lo riguarda “diffida e sospetta sempre dei suoi ragionamenti quando gli sembrano troppo curiosi, esatti e conclusivi”. Auspica che i nostriragionamenti non siano troppo “impegnati” e soprattutto chela perniciosa attività di raffinata analisi non si eserciti << sulleformalità e sulle cerimonie che sono usate in alcuni affari materiali come nelle più importanti vicende della vita ». Le ritrova in tutte le nazioni e in tutti i tempi e ritiene pertanto chesiano consone alla nostra natura: non gli fa piacere sentirlegiudicate delle frivolezze.La ragione che fa del criterio razionale il principio di tuttele cose, non solamente misconosce il contenuto di verità delcostume e delle tradizioni, pretendendo di sostituirli con lesue regole astratte perché prive di ogni nesso con i sentimentie le passioni umane, ma dissolve anche tutte le forme, i simboli, le cerimonie, le convenzioni, gli ideali con cui gli uominihanno dato un senso ed un significato alla morte, al dolore ealla miseria che l’accompagnano, al rapporto fra i sessi, all’amore, alla procreazione, alla nascita di nuovi esseri. Tutto èridotto alla mera natura fisiologica dell'uomo ed alle debolezze e necessità che ad essa sono connesse. Ma, rileva Burke,che cosa altro si può desiderare di più se non essere uomo, ilche implica che noi accettiamo con grande reverenza la nostranatura da desiderare di non essere privati delle sue “parti deboli”. Non dobbiamo desiderare di poter vivere, come qualcuno sostiene, senza essere costretti a nutrirci ed a dormire,ma dobbiamo ringraziare la Provvidenza che ha così felicemente unito la sussistenza del corpo con la sua soddisfazione. E perciò accettando la nostra natura, dobbiamo mutare in meglio la nostra condizione e dobbiamo tramutare le nostrenecessità, i nostri bisogni, le nostre imperfezioni in “eleganze”e, se possibile, in virtù.Fra il 1750 e il 1756, come si rileva dalle “note”, Burkematurò un orientamento critico nei confronti della ragione illuministica che, negli scritti di suoi autorevoli rappresentanti,si caratterizzava per una critica radicale delle tradizioni, equindi delle idee, dei valori, in particolare religiosi, che a

quelle erano connesse. Sembrava in particolare al giovane Burke che la ragione non doveva rifiutare il suo essenziale e vitale rapporto con la sfera del sentimento e delle passioni e chenon poteva avere, pertanto, come suo unico presupposto efondamento l’esperienza empirica delle sensazioni (Bolingbroke, Hume), ma la totale esperienza umana quale si esprimenella storia, che rappresenta la concreta prospettiva cui devesempre mirare la ragione. Di qui la scelta di scrivere la Vindication.La Vindication of natural society rappresenta l’inizio dellafortunata “carriera” letteraria del Nostro e “sancisce” la decisione, maturata indubbiamente a lungo, di non dedicarsi allaprofessione legale, forse più immediatamente redditizia e certamente più tranquilla e sicura, per scegliere invece quella delletterato, più libera, più interessante, indubbiamente più affascinante, ma, per il giovane irlandese privo di conoscenze e diprotezioni illustri, altolocate e sicure, in una società comel’inglese della seconda metà del settecento che ancora si strutturava sul “patronage” delle grandi famiglie aristocratiche, piena di “rischi” e di incertezze. La Vindication rappresentava per Burke una scelta particolarmente felice del tema e del momento nel quale presentarsi al pubblico londinese: l’edizione delle opere di Bolingbroke, soprattutto di quelle filosofiche, la maggior parte dellequali vedeva la luce per la prima volta, aveva richiamato l'attenzione del pubblico colto londinese sulla figura, sull’attivitàpolitica, sulla posizione nella cultura filosofico - politica inglesedell'ex ministro della Regina Anna, di un così illustre personaggio, che tanta parte aveva avuto negli importantissimi avvenimenti politici degli inizi del secolo in Inghilterra.Henry Saint John, discendente da un’antica famiglia aristocratica, aveva partecipato giovanissimo alla vita politica, tanto che a soli venticinque anni era entrato nella Camera deiComuni ed in breve era riuscito a diventare uno dei personaggi più cospicui del mondo politico inglese nell’agitato periodo che doveva concludersi con la pace di Utrecht. Dotatodi uno spirito brillante, acuto, pronto a far propri gli aspettipiù vivi della cultura del tempo, s’impose all’attenzione dellaCamera dei Comuni e dell'ambiente politico per le sue notevoli virtù oratorie - la sua eloquenza rimase proverbiale - per le sue indubbie doti di leader, che ne dovevano fare inpoco tempo uno dei capi riconosciuti del partito tory. A solitrentatre anni fu nominato segretario per la guerra, appenaagli inizi del conflitto europeo provocato dalla successionespagnola: nel 1710 fu segretario di Stato, carica che gli consentì di partecipare attivamente alla fase preparatoria della pace di Utrecht, che, se gli costò alcuni anni più tardi il processo di zmpeacbment e l’esilio, deve essere indubbiamenteconsiderata il suo capolavoro politico. Jonathan Swift chelo conobbe in quegli anni ci lasciò di lui un giudizio che dovette indubbiamente essergli stato suggerito, in gran parte, dalfascino che esercitava il giovane uomo politico: “I think Mr.san john the greatest young man I ever knew; vit, capacity,beauty, quickness of a piprehension, good learning, and anexcellent taste; the best orator in the House of Commons, admirable conversation, good nature and good manners; generous and a despiser of money”.La politica non costituì il suo unico interesse o la sua solapassione: fu animato anche da un non comune impegno versola cultura letteraria e filosofica che, sostenuto dalla vivezza delsuo ingegno, richiamò attorno a lui l'attenzione e l’an1icizia di

alcuni fra i più acuti e brillanti “spiriti” del secolo. AlexanderPope, indubbiamente il poeta più fine del Settecento inglese,dimostrò per Bolingbroke un’ammirazione profondissima: nel1736 così scriveva a Swift: “Nothing can depress his genius.Whatever befalls him, he will still be the greatest man in theworld, either in his own time, or with posterity”; l'Esmy onmen è, per molti aspetti, la trascrizione poetica delle idee delsuo amico sulla natura dell'uomo. Voltaire trovò in Bolingbroke un consigliere preziosissimo, sempre pronto ad orientarlo con suggerimenti illuminanti sulla cultura politica e filosofica inglese, si che, dedicandogli la tragedia Brutus, gli testimoniò la sua riconoscenza in termini di altissimo elogio: “Souffrez donc que je vous presente Brutus, quoique ecritdans une autre langue, docte sermonis utrfusque [ àvous qui me donneriez des leçons de français aussi bien qued’anglais, à vous qui m’apprendiez du moins à rendre à malangue cette force e cette energie qu’inspire la noble liberte depenser; car les sentiments vigoureux de l’áme passent toujoursdans le langage; et qui pense fortement, parle de rneme”.Bolingbroke, pertanto, seppe dare all’impegno politico laconsapevolezza di dover essere l’interprete di un’opinioneculturalmente qualificata: la fondazione del “Craftsman”, ilprimo giornale politico di opposizione, costituisce indubbiamente uno dei suoi meriti: su questo stesso giornale trattò iproblemi più vivi della costituzione inglese, che ebbe poi occasione di illustrare al suo amico Montesquieu, durante ilsoggiorno londinese di questi . Erano note d'altro canto le sue simpatie per gli atteggiamenti, soprattutto sul piano filosofico, di decisa critica delletradizioni e dei valori sui quali si fondava l'autorità dellaChiesa anglicana ed in genere quella delle religioni positive,Protestantesimo, Cattolicesimo, e quindi la sua adesione atutti quegli aspetti della cultura illuministica nei quali più decisamente si faceva posto ad uno “spirito” antimetafisico, attoa risolvere sul piano della critica razionalistica qualsiasi richiamo a valori trascendenti. La pubblicazione delle opere,soprattutto di quelle nelle quali si trattava ex professo il problema del fondamento meramente razionalistico della religione e si precisava quindi il vero, significato (almeno secondoil Nostro) che bisognava dare al deismo, alla religione di “natura”, svelava senza possibilità d'equivoci quella che era statauna convinzione nota a pochi amici nei confronti della religione positiva, quale causa prima di tutte le superstizioni cheavevano ostacolato ed ostacolavano il progresso della scienzae che aveva addirittura pervertito la società civile, fontequindi di disordini, di guerre, di incomprensioni, di intolleranze, di reciproci (ed inutili) odi fra gli uomini, strumento dioppressione e di tirannia.Queste considerazioni polemiche non poterono non suscitare perplessità, un senso di imbarazzo in certi ambienti politici londinesi, soprattutto in quelli del partito tory: la Chiesad’Inghilterra era pur sempre un valido puntello del sistemacostituzionale e delle forze sociali che si esprimevano in esso:quell’attacco così violento, che della tradizione non salvavanulla a parte il suo fondamento nel “merito”, era veramentemolto poco “parlamentare”, nel senso che infrangeva, sia pur

post mortem, una regola di riservatezza, di rispetto formale,nei confronti della religione “stabilita” che gli uomini politiciinglesi più rappresentativi avevano sempre professato. Nonmancarono i giudizi polemici nei confronti dì Bolingbroke: ilpiù noto, che nella sua asprezza ben esprime lo sdegno di coloro che si sentirono offesi nel loro sentimento religioso, èquello del celebre critico e letterato Samuel Johnson, il quale, a quanto ci racconta il suo biografo, non esitò a dichiarare:<< Signore, egli fu un farabutto e un codardo; un farabutto peraver caricato un fucile contro la religione e la moralità; un codardo perché non ha avuto il coraggio di sparare lui stesso eha lasciato mezza corona a un mendicante scozzese per premere il grilletto dopo la sua morte >>. Naturalmente l’ambiente ecclesiastico e quanti vi erano per vari motivi collegati,non lasciarono passare sotto silenzio un cosìaudace attentatoai valori sui quali si fondava l’autorità religiosa della ChiesaAnglicana.L’opera di Bolingbroke sembrava pertanto aver riapertonella cultura inglese la polemica sul deismo, che per tantiaspetti ormai poteva considerarsi esaurita almeno in Inghilterra: riproponeva il problema dei rapporti fra religione positiva ed ordine politico, che proprio in quel torno di tempo inFrancia,,ad opera dei “philosophes”, trovava una enunciazione ed una corrispondente soluzione negli stessi termini polemici di Bolingbroke. La Whidication of natural society di Burke si inserisce quindi in una polemica che investe sostanzialmente un momento essenziale del pensiero illuministico, dal quale in sostanza dipende tutto il suo sistema concettuale, lasua particolare sensibilità nel cogliere e valutare i comporta menti degli individui nella società, ir1 definitiva il suo particolare concetto di ragione, quello sul valore e sul significato dariconoscere alla religione. È proprio in occasione di questa polemica che possiamocogliere il distacco profondo di Burke, un distacco, possiamodire originario, un diverso modo di sentire, di avvertire larealtà sociale nella quale l'uomo vive, come carica di valoriche danno un senso ed un significato alla stessa attività dell’individuo e che non possono comunque essere ridotti, o risolti sul piano del puro fare empirico nel quale si esplica l'intelletto dell’individuo. La positività della religione, il fatto cheessa non possa essere ridotta ad una superstizione dannosaper la società, significa per Burke riconoscere, in sostanza,l’autonomia di un sentimento originario che precede l’agirerazionale dell'uomo, che lo orienta nelle sue scelte fondamentali. C’è in definitiva in questa sua scelta tutta la sua personalità, nel senso che il suo pensiero politico troverà il suo centro unitario e la sua prospettiva originale proprio nell’approfondire e motivare i significati di questo atteggiamento.Nell'introduzione alla seconda edizione uscita nel 1757,Burke precisava lo scopo di questo suo primo lavoro, chiarendo il suo intento polemico nei confronti degli scritti filosofici del Bolingbroke. L'edizione delle opere del Bolingbroke intendeva corrispondere all'interesse del pubblico coltodi conoscere finalmente, nella sua interezza, il pensiero di unuomo` che aveva avuto tanta parte nella politica inglese edaveva goduto di una posizione di primo piano nella stessacultura inglese. Purtroppo quest'aspettativa è andata delusa:una lettura consapevolmente critica non può non mettere inluce le profonde contraddizioni in cui cade continuamente ilpolitico-filosofo, la inconsistenza delle sue argomentazioni;

quel lungo divagare fra i filosofi antichi e moderni non si riduce in sostanza che a tentare di dimostrare che la religione,quale noi conosciamo nelle sue manifestazioni positive, tè un“sistema” di superstizioni le quali, naturalmente, non hannoaltra funzione che quella di assicurare il potere delle caste sacerdotali.

DUE

NATURA E SOCIETÀ IN BOLINGBROKE

Come si è accennato, nelle sue opere filosofiche Bolingbroke aveva a lungo trattato il tema del fondamento della religione naturale, per dimostrare la falsità delle religioni positive: il suo attacco era indirizzato principalmente contro lateologia delle Chiese “storiche": la cattolica, anzitutto, equelle nate dalla Riforma. La religione naturale si riduce allaragione stessa di Dio quale si esprime nella natura: questa èordinata, o sistematicamente organizzata, secondo delle leggiche la matematica e la fisica, attraverso una analisi sorrettadall’esperienza, riescono ad individuare: alla stessa guisa lanatura dell'uomo è regolata da norme che la ragione, illuminata anch’essa dall’esperienza, può individuare e comprendere nel loro sistematico connettersi. Dio è la ragione stessadelle cose, la sua realtà si esprime tutta ed esclusivamentenella sua “razionalità”: le religioni storiche, proprio perche sirivelano nei loro dogmi e nelle loro teologie decisamente “irrazionali", non sono altro che interpretazioni interessate dellasola vera religione, quella di natura, unica per tutti gli uomini,che li unifica sul piano della comune razionalità.Per Bolingbroke il fondamento della società politica risiede nell’amor di sé, che, sollecitato dall’istinto del piacere,sospinge l'uomo a formare la famiglia, come primo nucleo diunione e quindi come inizio della società. La ragione, comeprincipio della natura, grazie all’aiuto dell’esperienza ampliala prima società familiare in una comunità di famiglie, in unasocietà generale, In tal modo l’amor di sé mediante la ragionediventa consapevole che può essere soddisfatto solamente grazie ad una collaborazione sincera e durevole fra tutti i componenti della società: l’interesse del singolo individuo è strettamente connesso a quello della società: << Gli uomini non sitrovarono mai, dato che non avrebbero mai potuto vivere, inuno stato di assoluta individualità. L’amore' di sé, indirizzatodall’istinto del mutuo piacere, operò l'unione dell'uomo conla donna. L’amore di sé operò quella dei genitori e dei figli.L'amore di sé divenne socievolezza, e la ragione, un principiodella natura umana, così come l’istinto, lo rafforzò. La ragionelo promosse e lo estese alle relazioni più remote ed unì moltefamiglie in una sola `comunità, come l’istinto aveva unito gliindividui in una sola famiglia. La ragione ha realizzato ciò conl’aiuto dell’esperienza; e quale è il risultato dell’esperienza?Non è di fare qualcosa di nuovo in natura, ma di scoprire ciòche vi era in natura, prima inosservata. Il dovere naturale di

esercitare la benevolenza, di amministrare la giustizia, di rispettare i patti, è così evidente per la ragione umana, come ildesiderio di felicità è conforme all’istinto umano. Noi desideriamo mediante l'istinto ed otteniamo mediante la ragione >>·Bolingbroke insiste in modo particolare sul ruolo svoltodall’esperienza per quanto riguarda l’educazione dell'istinto:la critica cui sottopone la concezione hobbesiana dello statodi natura, oltre a evidenziare il motivo che in essa non è possibile trovare la giustificazione di un principio (Dio - legge di natura) che precede e sostiene la società civile e politica, perche realizza l'identificazione fra la legge dì natura e quella positiva e riduce sostanzialmente la prima alla seconda, sottolinea anche il fatto che la ragione, mediante la quale gli uominipongono in essere il contratto che fonda la società, è una ragione che non si ritrova allo stato di natura, ma che è il risultato proprio dell’esperienza: << sebbene Hobbes dica, conabbastanza infondatezza in alcune occasioni, che la retta ragione è la regola delle azioni anche prima delle leggi civili. Ma per pensare correttamente l'uomo nel suo proprio stato, noidobbiamo considerarlo soggetto all'attuale direzione di tuttele sue naturali facoltà, della sua ragione come dei suoi desideri, della sua ragione proprio sfornita di arte e non assistitadall'esperienza, ma non del tutto incapace, e in tutti i casi ingrado di indicargli i primi generali evidenti principi sui qualiè basata la felicità della sua specie, verso i quali è penosamente e fortemente diretto dalle necessità della sua natura >> .Bolingbroke ammette che la socialità possa esprimersicome vincolo fra più individui anche al di fuori dell'interesse,dell'utile “consapevole di sé", e quindi dell'ardor di sé. L'amicizia, ad esempio, può nascere e vivere indipendentemente daqualsiasi considerazione interessata: una certa simpatia intellettuale può unire indubbiamente più individui. In definitivapuò essere accolta l'osservazione di Cicerone che l'uomo, anche se non fosse costretto dalle necessità inerenti al suo statonaturale, avrebbe ricercato la società con gli altri, in odio allasolitudine e al fine di instaurare un dialogo con i suoi simili.Ma tutto questo riguarda la socialità propria di piccoli gruppidi individui non quella sulla quale si fonda la società politica,la “ general sociability”: la quale, tiene a ribadire Bolingbroke,ha un fondamento meramente utilitaristico. Si tratta di intendere il particolare modo, meglio il meccanismo mediante il quale la natura, cioè l’istinto, perviene aconoscere l'utile, quale principio che unifica in modo sistematico tutti i rapporti che si istituiscono fra gli individui in società. L'istinto, nell'uomo, significa la ricerca del piacere che èla norma del comportamento umano nelle manifestazioni elementari, di base della sua vita, naturali, nel senso di presociali:la ragione, invece, la seconda tendenza naturale dell’uomo, siricollega all’istinto ed ha la funzione di “organizzare” le sensazioni piacevoli, di collegare quelle passate e di prevederequelle future ed è la guida sicura dell'uomo verso il raggiungimento della felicità, piacere consapevole di se stesso.Solo la felicità dura, cioè salva il piacere dalla dispersioneche lo insidia e per durare deve essere l'anima della “general sociability”. Tutte le cosiddette virtù “morali” non sono altroche un'ulteriore specificazione della ragione naturale quale

sopra è stata intesa: e sono, inoltre, virtù sociali, quali la benevolenza, la giustizia perché utili e perciò necessarie a mantenere la società. Il piacere e la felicità, l'istinto e la ragionesono manifestazioni dell’amor di sé, che è il centro unificatoredi tutte le esperienze dell’individuo.In tal modo, secondo Bolingbroke, si realizza l'ordine fissato da Dio nella natura: ordine naturalmente che corrisponde alla sapienza divina e che può. essere conosciuto datutti gli uomini, senza alcun bisogno di “intermediari”, invirtù delle loro autonome capacità razionali: << Questa volontàappare essere nel fatto la vera costituzione della naturaumana. Essa è il piano comprensibile della sapienza divina.L'uomo è capace di comprenderlo e può essere indotto a seguirlo dal duplice motivo dell’interesse e del dovere. Per quanto riguarda il primo la reale utilità e la retta ragionecoincidono. Per il secondo, dato che l’autore della nostra natura ci ha fatti per desiderare irresistibilmente la nostra felicitàe ci ha costituiti così che il bene privato dipende da quellopubblico e la felicità di ogni individuo da quella della società,la pratica di tutte le virtù sociali è la legge della nostra naturae fatta tale dalla volontà di Dio, e avendo stabilito il fine eproporzionati i mezzi, ha voluto che noi dovessimo cercarcigli uni con gli altri >>. Coincidenza quindi dell’interesseprivato con quello pubblico, della felicità del singolo conquella della società, tendenza naturale ad attuare le virtù sociali poiché solo in tal modo l’uomo realizza compiutamentela sua personalità e perviene alla sua personale felicità: questoè il piano “provvidenziale” predisposto da Dio, sul quale sisvolge l’attività dell'individuo.La conseguenza più immediata dell’esistenza di un ordinenaturale, che esprime come si è visto la sapienza divina, Diostesso quale simbolo della ragione, è che le società politichedovrebbero esprimere un identico ordinamento o sistema dileggi: invece, e Bolinghroke ricordando Montaigne non se lonasconde, la storia grazie all’esame degli usi, dei costumi,delle leggi dei diversi paesi ci avverte che sono diversissimi fradi loro. Il che per il Nostro non inficia l’esistenza dell’ordinenaturale, che deve essere correttamente compreso, seguendodel resto Bacone, come la legge delle leggi: “The laws of nature are truly what my lord Bacon styles his aphorisms, thelaws of laws”.La fonte dalla quale promanano le leggi civili e politicheè pura, ma i canali per mezzo dei quali vengono diffuse nellesocietà sono sostanzialmente infetti dalle passioni, dai pregiudizi e dall’ignoranza degli uomini. Di qui le diversità, le contraddizioni, l’assurda pretesa di far valere due diversi criteri digiusto, l’oscurità delle stesse leggi: il che dipende anche dalfatto che le leggi, il più delle volte, non vengono fatte tenendopresente il riferimento alla legge di natura. Per tal motivo leleggi civili non si riducono ad altro che alle norme arbitrariedi una volontà assoluta, imposta agli uomini dalla forza odalla frode di alcuni e confermata dall'educazione é dal costume.La riconosciuta possibilità della non coincidenza delleleggi positive con quelle dì natura viene in sostanza ad alterare il piano provvidenziale di Dio, a turbare l'equilibrio fra

interesse privato e pubblico, felicità privata e pubblica. Oraper comprendere il senso della polemica di Bolingbroke neiconfronti delle passioni, dei pregiudizi e dell’ignoranzaumana, quali cause dell’infelicità dell'individuo e quindi delsuo vero male, occorre tener presente il modo con cui si costituisce la società civile. La famiglia rappresenta la primaforma di società naturale fondata sull’istinto, che esprime altresì la prima forma di governo, quello paterno: questo potereè assoluto finché 'i figli non sono in grado di provvedere aipropri bisogni, nel senso che non sono ancora intellettualmente maturi, diventa limitato quando i figli pervengono all’età della ragione, cessa quando i figli escono dalla famigliaper costituirne a loro volta un'altra.La prima forma di vita sociale dell’individuo è quella chesi attua nella famiglia, e la prima società naturale è quella ches'istituisce fra le famiglie: per Bolingroke questo è l’ambito nelquale si realizza la pura ragione naturale dell'individuo, che èin grado di far fronte a tutte le esigenze di questo particolarestato. Quando, a motivo soprattutto dell’accrescimento demografico che non consente più alla famiglia o ai gruppi familiaridi sopperire alle esigenze dei singoli individui in un determinato territorio, si passa all’unione di più famiglie o di piùgruppi. gentilizi, allora abbiamo una seconda forma di società,quella che è di solito chiamata civile o politica, caratterizzatadal fatto che essa tè in definitiva l'espressione della naturaumana quale è stata creata da Dio.Per la prima l'uomo ritrova da se stesso, senza alcun altroaiuto, le norme del suo comportamento: mentre per la seconda si richiede, sempre da parte dell’uomo, un coerentesvolgimento delle esigenze fondamentali della sua natura. Laprima quindi è una società naturale che nasce da un comportamento istintivo, immediatamente dedotto dalla naturaumana, mentre la seconda è una società “artificiale”, proprioperché formata da un complesso di relazioni, di leggi, che ritrovano il. loro fondamento, il loro titolo di legittimità, unicamente nel fatto di essere state individuate dalla ragione dell’uomo per poter conseguire la felicità. << È molto diverso nel caso della società politica. In questa non siamo lasciati a noi stessi. Non siamo liberi di scoprire, né di agire, a seguito dellascoperta, grazie alle nostre conoscenze. Noi vi siamo condottidalla mano di Dio, come avvenne, ed anche prima di avere ilpieno uso delle nostre conoscenze. Quando Dio fece l’uomo,fece una creatura la cui felicità dipendeva dalla sua socievolezza con gli animali della sua specie. Egli lo fece inoltre un animale socievole, un animale capace di percepire un immediato piacere e vantaggio della società. La necessità della società naturale precede quella della società artificiale e la prima, che è costituita dall'istinto, ci predispone alla seconda,alla quale siamo condotti dalla ragione ».Nell’analisi del fondamento della società politica acquistapertanto in Bolingbroke un rilievo particolarmente importante la distinzione fra società naturale e società artificiale: laprima è caratterizzata, come si è visto, da un insieme di rapporti spontanei, e da un governo - quello paterno - anch’esso espressione di un rapporto padre-figli, immediato, naturale; la seconda, che è storicamente preceduta dalla prima,si esprime invece nel vincolo delle leggi civili, che si riducono

alla natura compresa dalla ragione: le leggi civili pertantosono naturali-artificiali: << La vicinanza, uno scambio di buoniuffici, in una parola la mutua convenienza possono dare inizio, mediante l'unione di più famiglie fondata su contratti edaccordi, a società civili. Ma la causa principale di tali artificialio politiche unioni, fu di diversissima natura ».Le leggi artificiali quindi sono legittime solamente quandosono l’interpretazione che la ragione. dà alla comune legge dinatura, senza che l’interprete si lasci fuorviare in questa suafunzione dai pregiudizi e dalla superstizione. Purtroppo, osserva Bolingbroke, bisogna riconoscere che l’opera della ragione è continuamente insidiata dall’ignoranza, dall'errore,dalle tendenze irrazionali dell’uomo che prevalgono su quellerazionali:'ma, fra tutte le cause che inceppano e finiscono colfuorviare l'opera della ragione, la principale è indubbiamentela superstizione. Questa nasce e si alimenta nell'ambito dellereligioni positive o artificiali, che snaturano e contraffanno lareligione “naturale”, che accomuna invece tutti gli. uomini eche ci indica la vera essenza di Dio. Le religioni “artificiali” furono istituite da alcuni sapienticon l’unico scopo dì assicurare una maggiore efficacia alleleggi civili e per rafforzare il potere politico. Esse hanno finitocol promuovere una falsa concezione di Dio, e quindi col rafforzare la superstizione, corrompendo la socialità che uniscegli individui: a poco a poco insinua fra gli stessi individui unsentimento di divisione, di reciproca diffidenza che si sostituisce a quello naturale della benevolenza, dal quale dipende perl'appunto la socialità, vincolo che unifica gli uomini nel corpopolitico. D'altro canto, osserva Bolingbroke, bisogna riconoscere che la possibilità di istituire una società politica che riesce ad esprimere un ordine sufficientemente stabile ed unaforza che ne assicura l’osse1·vanza è necessariamente collegata,nella società primitiva, alla religione, nel senso che l’ordine eil potere debbono essere legittimati come emanazione dellavolontà divina.Nell'uomo primitivo le facoltà razionali sono molto attenuate: egli vive sotto la costante preoccupazione di dover soddisfare le necessità immediate in uno stato di continua agitazione che gli rende impossibile quella tranquillità, quel distacco, che sono le condizioni necessarie perche l'individuo possa razionalizzare il suo agire pratico. La superstizione, pertanto, è la forma tipica di conoscenza degli uomini delle società primitive ed essa deriva dal fatto che l'uomo interpretala realtà ritenendo se stesso come il centro del mondo che locirconda, si avvale così dell’immediata esperienza della suavita e riferisce ad essa tutti i fenomeni della natura. Non c’èsistema politico, nella primitiva antichità umana, che non èanche sistema religioso, non c’è politica che non è anche teologia, osserva Bolingbroke, proprio perché le menti dei rozzied ignoranti primitivi non avrebbero mai compreso i dettamidella religione naturale. Questa come sappiamo coincide conla ragione naturale, quale si manifesta nell’ordine fisico dellanatura, che per essere compreso appieno richiede una necessaria depurazione degli istinti e delle passioni e una conseguente educazione delle facoltà razionali umane, quale puòattuarsi solamente attraverso lo studio della filosofia o scienzasperimentale.

I fondatori delle religioni storiche, secondo Bolingbroke,sono tutti consapevoli dell'esistenza di un Dio unico, che siidentifica con l'ordine stesso della natura: essi nascondonoperò questa convinzione ai popoli per sottometterli al loropotere mediante la rappresentazione di un Dio che colpisca leloro menti rozze, mediante le forme e i simboli del culto, deiriti. La tradizione, la consuetudine, soprattutto attraversol'educazione hanno unito, quasi solidificando in un sol corpo,le norme del comportamento politico a quelle del comportamento religioso, e ne hanno fatto un ordinamento istituzionalizzato, che ha una sua autonoma consistenza.Ma se la società artificiale si serve della religione “artificiale” come dello strumento necessario per realizzare il suoordine politico, essa nel contempo predispone anche lo strumento più efficace di tirannia, di dispotismo, d’intolleranzache assoggetta, quasi fossero schiavi, gli uomini che avevanoinvece dato vita alla società politica per godere di una vita felice. L’istituzionalizzazione della religione artificiale è infatti lapremessa per sostituire alla legge di natura ed alle leggi civilida essa derivate l’interesse particolare, e quindi l’arbitrio, delgruppo oligarchico o del tiranno, che rompe il rapporto fral'utilità del singolo e quella pubblica, l’unico che consente all'individuo di poter pervenire alla felicità.Le religioni “artificiali", pertanto, sono tutte “false”: invece di rappresentare la religione “naturale”, la legge di natura, ne sono una “dolosa” distorsione, che finisce con l'allontanare sempre più gli uomini dalla verità. Delle religioni storiche, Bolingbroke ne salva solamente due, l’ebraica e la cristiana: la Bibbia e il Vangelo nella loro autentica dottrina, siriducono alla proclamazione della esistenza di un Dio unico,sola ragione della natura.. Ma occorre avvertire che le interpretazioni che nell’ambito del giudaismo e soprattutto del cristianesimo sono state date al Vecchio e al Nuovo Testamentodalle scuole filosofiche e teologiche sono tutte da respingere:tutte sostengono, con vari e speciosi argomenti, la sottomissione della ragione umana, incapace di pervenire da se allaverità, al principio d’autorità rappresentato dalle chiese, cuispetta indicare i principi e le regole fondamentali che debbono orientare la coscienza dell’individuo. Su questa pretesasostengono la subordinazione dell’ordine civile e politico aquello religioso e cercano così di sancire il riconoscimento diun imperium in imperio, quello della Chiesa nello Stato, unavera e propria assurdità, dal punto di vista di una concezione“scientifica” della politica, fonte di tutti i disordini, di tutte lelotte civili, di tutti i dispotismi.In effetti, a considerar bene l'ordine politico, ci si rendeconto che il suo fine è quello di assicurare alla ragione il primato su tutte le passioni ed inclinazioni degli uomini. Si osservino inoltre le seguenti affermazioni, il vero amor di sécoincide con l’amor sociale o con la benevolenza, l’autoredella natura ha organizzato il sistema dell’ordine civile umanoin modo che tutti gli uomini debbano coesistere in un comune sentimento di benevolenza. Possono essere dimostrate epossono essere condivise da qualsiasi uomo che sia in gradodi confrontare poche idee chiare e determinate. Ma ciò non

significa che l’uomo deve necessariamente comportarsi secondo principi che sono veri dal punto di vista speculativo. Noi siamo così fatti che basta un vantaggio presente, sia purmomentaneo, per distrarci dal perseguire un bene maggiore,ma futuro: a volte una piacevole sensazione, sia pur passeggera, ci distoglie dal perseguire la nostra vera utilità che solola ragione e la riflessione ci possono indicare,La filosofia, come ricorda Aristotele, educa chi segue isuoi insegnamenti a fare volontariamente quello che gli altrisono costretti a fare con la forza. Ma i più, in effetti, non sonofilosofi, e quanti comandano o aspirano a comandare ritengono che l’unico mezzo per far agire i molti secondo ragioneè quello di servirsi di strumenti ideologici, che si fondano tuttisul sentimento della paura, per indurli al rispetto delle leggied informare in tal modo i loro comportamenti a criteri razionali; è la stessa ragione a suggerire le “arti" che servono adasservire ai suoi fini le passioni degli uomini. Per questomotivo le religioni “artificiali”, che nel corso dell'esperienzastorica hanno reclamato prima un’autonomia e poi una supremazia che loro non spetta, debbono essere ricondotte alla lorofunzione originaria, e rientrare nell'ambito della loro vera legittimità, debbono tornare a svolgere la funzione discretadella convalida e del rafforzamento presso la coscienza dei piùdelle leggi, e dell’attività di governo.In Bolingbroke la polemica contro le religioni storiche,“artificiali', nel sottolineare i loro aspetti negativi, le conseguenze veramente disastrose per quanto riguarda la possibilitàdi pervenire da parte dell’uomo al vero, naturale scopo dellasocietà politica, la felicità, nel denunciare l’insanabile dualismo di Chiesa e Stato, fonte di tutti i mali, conclude con lanecessità di garantire il primato dell'ordine civile e politico,cioè della ragione naturale e quindi della religione naturalesulla religione artificiale, cioè sulla Chiesa. Questa propostad’autentica riforma della società “artificiale" può essere realizzata solo grazie ad una sempre maggior diffusione della filosofia “sperimentale”, l’unica che consente di« poter pervenirealla ragione naturale, e di una totale riduzione della religionea puro strumento della ragione atto ad asservire le passionidegli uomini ai suoi fini. Per Bolingbroke, che la religionepossa avere una sua originaria autonomia, indipendente dallaragione educata dall’esperienza, è una pretesa degna del “primitivismo di un Ottentotto”.

TERZO

NATURA E SOCIETÀ IN BURKE

Dopo tanto scetticismo sul piano etico-religioso e dopotanto pessimismo su quello politico Bolingbroke conclude,

come si è visto, con una prospettiva in cui si recupera sostanzialmente il momento positivo della stessa società politica “artificiale”. Ora è proprio su questo particolare aspetto che s'inserisce la critica di Burke alla filosofia politica dell’ex ministrodella Regina Anna. L’osservazione fondamentale, secondo Burke, è che questo pensiero politico è profondamente contraddittorio. Quegli stessi argomenti, quello stesso metodo usati per risolvere criticamente sul piano di un'analisi di tipo razionalistico i rapporti che si istituiscono nell’ambito della società, e per dimostrare l`inconsistenza delle forme di rispetto ed ossequio neiconfronti dei valori consacrati dalla tradizione, come quel gusto tutto intellettualistico di prospettare dubbi, di suscitareincertezze al fine di dimostrare la radicale contraddittorietàdel “vero” codificato dalle filosofie accademiche e dalla religione rivelata, nello stesso tempo forniscono i mezzi per “distruggere”, fzmditus, quella società politica, che invece si vorrebbe conservare dopo averla “depurata” di tutte le scorie,rappresentate dalla religione e dalla superstizione: << Il proposito era quello di dimostrare che senza l’impiego di alcunaconsiderevole forza le stesse macchine che furono impiegateper la distruzione della religione possono essere impiegatecon eguale successo per la sovversione del governo; e chequegli speciosi argomenti possono essere usati contro quellecose che essi, che dubitano di ogni altra cosa, non permetteranno mai che vengano messe in questione ».Ma c’è di più, rileva acutamente Burke: questa filosofiache pur sembra criticare tutto, dubitare di tutto, in sostanzanasconde accuratamente, con una certa qual raffinata astuziatutta intellettuale, alcuni principi che non possono esseremessi in discussione: in altri termini li dà per scontati, li accetta “acriticamente”, e sul piano dell’operare pratico lì difende “senza esclusione di mezzi"; in effetti, ricostituisce su diessi una nuova forma di autorità altrettanto sacra ed inviolabile, anche se priva del prestigio riconosciuto alla “vecchia”dalla tradizione.Lo scopo della vindication è pertanto quello di risolverequesta contraddizione, non del solo Bolingbroke, come si vedrà, ma del pensiero politico illuministico che si fonda suipresupposti filosofici illustrati dallo stesso Bolingbroke: occorre tirar fuori il deus absconditus di questa filosofia politica,esaminarlo, obbiettivamente, spassionatamente, senza prevenzioni di sorta, per dimostrarne la vera natura. Per tal motivo,tutte le argomentazioni che sono svolte nella vindication sonocondotte sul filo sottile di un’ironia “puntuta ed affilata”, chesa “dissezionare” i concetti degli avversari con una “tecnicaindolore", e con una perizia consumata: non la polemica decisa, aperta, violenta, per abbattere e distruggere l'avversario,ma l’analisi delle sue ragioni svolta con garbo.La vindication prende le mosse da un precedente dialogonel quale l’amico del filosofo, pur concordando con i risultaticui si era pervenuti durante la discussione - si erano individuati i fondamenti della società politica non si era poi sentito di continuare ulteriormente nell’esame dell'ubi consistamdella società: avvertiva che una “curiosità” di tal genere, unavolta appagata, avrebbe finito col distruggere l’intero edificiosociale. Ma, osserva Burke nei panni di Bolingbroke, a questopunto non ci si può tirare indietro, bisogna stare al gioco:

d’altro canto la verità non ci può arrecare alcun danno, datoche solo l'errore costituisce la vera causa dei dolori, delle disgrazie, dei mali che l’individuo deve sopportare.I principi sui quali si fonda la società politica vanno esaminati in tutte le loro conseguenze con assoluta spregiudicatezza: noi siamo abituati a considerare con riverenza, quasicon timore, quanto ci è stato tramandato dalla tradizione, amantenere nei confronti delle istituzioni dei nostri antenati unrapporto di timore riverenziale, ma la verità, ritorna a precisare Burke, esige l’i1npegno di scandagliare a fondo tutte le opinioni ricevute, anche se il risultato di questa “operazione”dovesse concludersi con la dimostrazione della radicale infondatezza di quanto ci sembrava essere così stabile, giusto evero, e se questa stessa dimostrazione, divenuta principio diconcreto operare politico, dovesse radicalmente contrastare inostri stessi interessi .Non lasciamoci sedurre, continua ad incalzare Burke, dalvecchio ma sempre ascoltato avvertimento della tipica mentalità bigotta, che sconsiglia di dimostrare l'infondatezza deipregiudizi popolari per le gravi conseguenze che potrebberoderivarne per quanto riguarda la stabilità dell’ordine politico,che si fonda sull'obbedienza del popolo e proprio sull'accettazione passiva dei principi e dei valori contenuti nei “ pregiudizi”. Questa, invece, è una pretesa assurda e blasfema: la nostra felicità dipende esclusivamente dalla pratica della virtù equesta, a sua volta, è possibile solamente se si svolge sul pianodella verità, quanto a dire, sulla base della conoscenza di queirapporti eterni che Dio ha fissato quali norme che regolano lavita degli uomini. Dobbiamo essere particolarmente accorti anon pretendere di forzare la natura con l’imporle delle norme“artificiali”, frutto delle nostre invenzioni: solo lo studio dellanatura, condotto senza pregiudizi, ci ha consentito di conoscere alcune verità che costituiscono poi il vero fondamentodi quel poco di libertà e di felicità di cui godiamo.L’epoca nella quale viviamo, nota Burke, è caratterizzatadalla lotta contro la superstizione: infatti l’edificio che sifonda sopra di essa è stato in gran parte demolito, soprattuttoin Inghilterra. Da tempo sono state messe in luce le miserieche la religione, - fonte prima di tutte le superstizioni - eil governo dispotico delle chiese sui fedeli hanno provocatoall'umanità: ormai si pensa e si agisce sulla base della ragionee della natura. Ma se questo è vero per molte persone, nonbisogna dimenticare che la maggioranza vive ancora secondoschemi e principi frutto della superstizione: precisazionequanto mai importante da tenere sempre presente, in quantoè sempre possibile il pericolo che la tensione spirituale necessaria per continuare la lotta contro la superstizione si allenti,tanto più che, come è noto, purtroppo la fonte di tutte le superstizioni, “degli entusiasmi senza senso, della sacra tirannia”suscita ancora, sia pur formalmente, la riverenza e la stimadelle stesse persone illuminate: chiara allusione all'attività politica dello stesso Bolingbroke, che, in diverse occasioni, parteggiò per la Chiesa d'Inghilterra e ne sostenne i concreti interessi temporali.Ricordiamoci, infine, che il potere politico ritrae la sua

forza proprio dalle istituzioni ecclesiastiche che gli garantiscono di poter contare, nell'ambito della società, su consensiampi ed omogenei; e che le leggi “artificiali", necessario vincolo di tutto l’ordine politico, incutono il timore riverenzialeche le fa rispettare grazie all’avallo della religione “artificiale”.Perciò dobbiamo tener costantemente presente che l'idea direligione e dì governo sono intimamente connesse: accettiamoil governo come necessario, o quantomeno utile per conseguire il nostro benessere, e siamo disposti, anche a nostro dispetto, ad accogliere questa o quella forma di religione “artificiale”, della quale il volgo sarà sempre schiavo, ed anche lepersone di cultura subiranno, sia pure involontariamente, lasua influenza. Il rapporto religione-società va esaminato, quindi, conspirito veramente illuminato, senza alcun timore delle possibili conclusioni, liberandoci in definitiva di quel senso di rispetto, sia pur formale, verso la religione stessa, che impedisce agli uomini di cultura di essere veramente coerenti e cheli rende partecipi, in fondo, dell'asservimento delle coscienzeoperato per l’appunto dalla Chiesa. Per tal motivo, un’analisi,sufficientemente approfondita, del modo con cui si realizzal’ordine politico della società umana non è niente altro che lacontinuazione dell'opera dì “illuminazione” delle coscienzeche il secolo sta attuando sul piano della religione.,La società umana passa attraverso due forme fondamentali, come del resto la religione: la società naturale e quella“artificiale”. La prima si fonda sull’istinto sessuale e sul vincolo che lega le persone appartenenti a questo primo gruppo:il padre, la madre, i figli costituiscono la società naturale. Iprimi uomini vissero in uno stato naturale di perfetta uguaglianza, nutrendosi dei prodotti della natura. Ovviamente, inquesto stato l’umanità dei tempi primitivi dovette assoggettarsi a gravissime limitazioni, derivanti sostanzialmente dallamancanza di una più ampia ed articolata unione d'individui,il che voleva dire l’impossibilità di fruire dei vantaggi connessicon il reciproco aiuto e la comune assistenza e di risolvere pacificamente le eventuali controversie per la mancanza di ungiudice comune. Gravi inconvenienti, indubbiamente connessi con la società naturale, ma che non impedivano all’uomo di vivere libero, in perfetta eguaglianza con i suoi simili: se l’uomo, fosse rimasto entro i limiti “sociali" fissatiglidalla natura, la famiglia o al massimo i parenti, la sua felicitàsarebbe stata garantita. Invece l'uomo, resosi conto dei vantaggi che ritraeva dal vivere insieme nella famiglia, ritenne chealtri maggiori vantaggi gli sarebbero derivati da una societàpiù ampia, dalla riunione di più famiglie in un sol corpo politico. E poiché la natura non aveva creato alcun vincolo “naturale’' d'unione, l’uomo supplì a questa mancanza con l'inventare le leggi: questo è il vero fondamento della societàpolitica, la quale, proprio perché fondata sulle leggi, “invenzioni” degli uomini, è una società “artificiale”. A ben considerare, la società artificiale nasce, alla fin fine,dalla radicale incapacità dell’uomo di saper individuare il suolimite, dal non sapersi contentare, da questa volontà che loanima e lo sospinge a volere sempre di più: non sappiamo maivenire a patti con la nostra condizione, siamo sempre pronti a

perdere quello che abbiamo guadagnato pur di appagare l'insaziabile voglia di avere di più. L'uomo, in sostanza, cede lasua libertà ed uguaglianza naturali per un maggior benessere,che si dimostra del tutto illusorio. Non rimane quindi checonsiderare la società artificiale nei suoi vari aspetti. L’analisidelle “conseguenze” della società artificiale per quanto riguarda la vita umana ci darà una dimostrazione quanto maiconvincente, si che, alla fine, dovremo concludere che l'origine di tutti i mali che affliggono l’individuo si ritrova proprionella società artificiale.Lo Stato, o società politica, osserva Burke, può essereconsiderato sotto diversi punti di vista: o nei rapporti fraStato e Stato, o nei rapporti che si istituiscono all’internodello Stato fra chi comanda e chi obbedisce, oppure nei rapporti che si istituiscono nell’ambito della stessa società civile.Se consideriamo il modo con cui si sono attuati i rapportifra i singoli Stati, non possiamo fare a meno di riferirci inun'ampia prospettiva alla storia umana, per vedere di coglierequal è stato in definitiva il risultato di questi rapporti. Leconclusioni che dobbiamo ricavare da un esame spassionatodegli avvenimenti che hanno caratterizzato la storia umana,per lo meno dal punto di vista politico, sono del più sconsolante pessimismo: non troviamo l'amicizia, la concordia, labenevolenza, la comprensione nei rapporti fra gli Stati, ma ilsospetto, l'ambizione, la volontà di potenza, molte volte l'odioe l’intolleranza, si che la guerra è il solo risultato delle relazioni che si istituiscono fra le società “artificiali”, o gli Stati.La storia universale si riduce, pertanto, ad una drammatica,angosciosa, orrida descrizione di guerre, di lotte civili: la storia sembra non avere alcun altro significato che quello di dimostrare che lo Stato e il potere sono fondati esclusivamentesul sangue. Il riferimento a Machiavelli, a questo punto, èquasi d’obbligo, Una considerazione del Segretario fiorentino,consente a Burke dj osservare che la guerra costituisce l'unicavera preoccupazione di chi detiene il potere politico: la pacenon ha altro scopo che quello di preparare la guerra.Basta appena accennare, per avvalorare la tesi enunciata,alla storia dei grandi imperi dell’antichità, delle società “artificiali”, delle cui gesta la storia ci ha conservato ricordi abbastanza sicuri. Tutta l'antica civiltà egiziana sembra concentrarsi, a quanto è tramandato, nel grande sforzo militare conil quale Sesostri cercò di estendere i suoi domini lungo le coste del Mediterraneo orientale sino alla Colchide. Si parla di un esercito di settecentomila uomini con cui il faraone tentòdi allargare i suoi domini. Questa operazione militare significòla distruzione d'intere popolazioni che cercarono di difenderela loro libertà e nello stesso tempo la morte di molti dei suoisoldati uccisi in battaglia, e soprattutto dagli stenti e- dallemalattie. Possiamo calcolare che circa due milioni di uominipersero la vita nelle spedizioni militari di Sesostri e, dobbiamodire inutilmente, dato che, a quanto ci ricorda Giustino,quelle conquiste furono effimere e non servirono ad altro chea soddisfare le passioni di dominio e di conquista del faraone.Consideriamo la storia degli Assiri, dei Babilonesi, dei

Medi, dei Persiani: è un continuo tentativo di assicurare conla guerra la stabilità del proprio dominio, di garantire all’interno stesso della società “artificiale” l’ordine e l’obbedienzaal potere politico. Semiramide e Nino sono ricordati come legrandi personalità politiche di questo periodo in virtù dellaloro capacità di fondare imperi: ma ciò significa guerre continue, con tutte le loro tragiche conseguenze.E la storia greca è anch’essa il racconto delle lotte continue fra città e città, fra le opposte fazioni all'interno dellestesse città, una lotta fratricida, in fondo, combattuta a volteper il possesso di pochi ettari di terreno, dalla quale la Greciausci stremata di forze, per essere assoggettata dalla Macedonia. Ed anche l’impero d'Alessandro significò, in sostanza,una pace relativa: alla sua morte i regni di Siria e di Egitto,quelli di Pergamoe di Macedonia si combatterono per duecento anni.E continuando nell’analisi della storia antica, quale spettacolo di devastazioni, di massacri, di proscrizioni, di deportazioni non offre la Sicilia prima del consolidamento del dominio romano a causa delle guerre intestine fra i seguaci delleopposte fazioni politiche, e delle lotte fra i Greci, i Cartaginesi, e i Romani. Infine l’affermarsi di Roma sulle popolazioniitaliche e poi l’estendersi e il consolidarsi del suo impero suggeriscono indubbiamente l’idea di una sorte di “catastrofe"del mondo antico se pensiamo a quante vite furono distrutte,quante popolazioni furono ridotte in schiavitù, quanti sacrificie vessazioni dovettero subirei vinti.Ma nella storia antica c’è quella di un popolo che forsepiù che ogni altra può essere importante per intendere quantomale e quanto dolore si contenga nella società “artificiale”: èla storia di Israele. Il suo insediamento “politico” nella terrapromessa fu possibile solo scacciando le popolazioni che viabitavano in precedenza, e fu difeso con ostinate lotte con ipopoli vicini sino a che i re degli Assiri e di Babilonia non ridussero in servitù l’intero popolo. La tragedia finale del popolo ebreo, che si concluse con la distruzione di Gerusalemme, ha, ai fini della nostra indagine, un significato benpreciso: se un popolo così piccolo, in un territorio cosi limitato, ebbe a sopportare tanti lutti, tanti dolori, tante traversie,dobbiamo ovviamente ritenere che una somma maggiore dimali debbano aver sopportato popoli di gran lunga più numerosi, il cui domir1io politico si estendeva su un più ampio territorio. « La storia non conosce limiti ai dolori ed alle pene degliuomini: ci sono stati periodi in cui sembrava di essere vicinialla totale distruzione del genere umano. L’invasione dei barbari, alla fine dell’Impero romano, devastò la Gallia, l'Italia, laSpagna, la Grecia e l’Africa: ovunque vi furono distruzioni,eccidi. La furia dei barbari trasformò quelle terre, una voltapopolose e fertili, in un deserto.È certamente inutile continuare in questa noiosa cronistoria di guerre e di stragi che hanno falcidiato il genere umano:del resto, la storia dei tempi moderni è nota a tutti. Ma nonpuò essere passato sotto silenzio il fatto che la conquista delle Americhe fu attuata mediante la distruzione d'intere popolazioni, si calcola intorno a dieci milioni di morti. Purtroppo glieccidi e le sopraffazioni in Africa ed in America non sono ancora terminati.

La storia umana come campo di attività delle società politicamente organizzate non si riduce ad altro che ad un gigantesco campo di battaglia, nel quale riposano, di volta in volta,fra i corpi martoriati dei vinti, stremati, i vincitori: allo storiconon rimane altro compito che quello di redigere il conto consuntivo di tante stragi. Il numero che si ricava - l'indagine statistica naturalmente deve essere accolta con cautela, date le scarsissime informazioni in nostro possesso - è tale da angosciare qualsiasi uomo dotato di un minimo senso dì responsabilità.Cosa insegna, in fondo, la tragica esperienza della storiaumana? La società artificiale è un meccanismo che l’uomonon riesce a controllare. Con troppa facilità, infatti, l’uomo sidimentica che il suo animo ha una naturale propensione perle passioni che sono soddisfatte sul piano della forza e dellavolontà di dominio: ma queste passioni hanno un ben limitatocampo d’azione, e quindi scarsissime possibilità di poter raggiungere il proprio oggetto, nell'ambito della società “naturale”. Non così nella società “artificiale”, nella quale inveceesse hanno la possibilità di ritrovare gli strumenti più idoneiper il soddisfacimento delle loro pretese: la così detta societàcivile con l’ordinato sistema delle sue istituzioni, è in grado diunificare la forza dei singoli individui in un'unica forza sociale, e di attuare un “meccanismo sociale" che consente aduno o pochi individui di servirsene. L’unica preoccupazione,in fondo, di tutta la società politica consiste proprio nel rendere sempre più perfetta la forza sociale, nell'aumentare il suopotere dj offesa, vale a dire di distruzione e di morte: sottoquesto punto di vista non può negarsi che il progresso verso“il meglio” è indubbiamente costante: << Dai primi albori dellasocietà politica ad oggi le invenzioni degli uomini hanno affilato e perfezionato il mestiere dell’assassinio, dai primi rudisaggi di clave e di pietre sino alla presente perfezione di fucili, cannoni, bombarde, mine e tutte queste specie di artificiale, colta e raffinata crudeltà, nella quale noi siamo ora cosìesperti, che forma la parte principale di ciò che i politicihanno insegnato a credere essere la nostra principale gloria ».Nella società “naturale” invece, questa concentrazione diforze non era assolutamente possibile: l'uomo, in ultima analisi, doveva unicamente preoccuparsi del male che poteva provenirgli da un altro uomo, da una forza più o meno, ma sempre, proporzionata alla sua e dotata di un potere d’offesaestremamente limitato. L’uomo delle società “artificiali” invece si è ridotto ad essere il più feroce di tutti gli animali proprio perché la sua forza è stata moltiplicata, tanto da convincerlo di poter sottomettere i suoi simili alla sua volontà di dominio.È proprio questa l’essenza del potere politico, e quindi ilvero fondamento della società “artificiale”, la causa di tutti inostri mali. La società politica, in ultima analisi, riposa su diun fondamentale rapporto di subordinazione quale intercorrefra il padrone e lo schiavo, e per tal modo l’avarizia, l'interesse, l’ambizione, l’orgoglio di un uomo di governo sonoleggi per quanti non hanno alcun proprio fondato convincimento. La politica è ormai considerata come immediatamentecollegata con la malvagità dell’uomo: quella parola suscita, bisogna riconoscerlo, un senso di ripulsa in quanto ci richiama,si può dire automaticamente, un comportamento completamente distaccato da qualsiasi considerazione etica. D'altro

canto non c’è scrittore politico il quale non riconosce che ilgoverno dello Stato è necessariamente connesso con la violazione della giustizia: la famosa “ragion di Stato” indica perl’appunto quella suprema necessità politica che consente aigovernanti di violare in alcuni casi quelle norme etiche su cuisi fonda la giustizia e che costituiscono la vera garanzia di libertà per l’individuo.Queste brevi osservazioni sulla natura della politica ciconsentono, secondo Burke, di poter esaminare nella loro“verità effettuale” gli ordinamenti formali mediante i quali ilpotere politico realizza la sua funzione di governo delle società umane. Dobbiamo innanzitutto osservare che tutte lecostituzioni possono essere ricondotte ad una sola, la più semplice: quella dispotica. Il dispotismo sembra corrisponderealla vera natura del potere politico “artificiale”, nel senso che un’analisi oggettiva, spassionata, non condizionata da timorireverenziali, dei presunti valori rappresentati dall’autorità fondata sulla tradizione, ci dimostra, senza possibilità di equivoci,che il complicato meccanismo delle costituzioni politiche nonha altro scopo che quello di nascondere il fondamentale rapporto di sudditanza, proprio del governo dispotico, che legala massa dei governati ai governanti.Per dispotismo dobbiamo intendere la forma di governonella quale tutti i centri di potere dipendono unicamente dallavolontà del potere supremo: svuotati dì qualsiasi autonomiasono governati tutti nello stesso modo, esclusivamente dallavolontà “occasionale” di colui che impersona il supremo potere. È proprio il felice aggettivo che Burke usa, “occasional”, a denotare la caratteristica fondamentale del dispotismo: ilfatto cioè della sua radicale incapacità ad esprimere una volontà coerente ed organica, tale cioè da garantire il conseguimento del bene pubblico.Il dispotismo è indubbiamente la forma più semplice digoverno, e quindi quella più diffusa: poche sono le societàpolitiche che riescono a darsi una costituzione diversa daquella dispotica, ma anche queste sono continuamente insidiate dal dispotismo. Consideriamo le manifestazioni tipichedella costituzione che s’informa a tale principio: la volontà delsupremo reggitore, per realizzarsi nella sua pienezza e nellasua assolutezza, deve necessariamente porre in atto una seriedi accorgimenti che finiscono con l’annullare qualsiasi possibilità di vita autonoma e libera da parte dei singoli individuie quindi con il corrompere ed alla fine disgregare il tessutodelle relazioni sociali, in modo da lasciare l’individuo solo,senza possibilità di aiuto, di fronte alla assolutezza del poterepolitico.La volontà assoluta, quale si esprime nel dispotismo, è insostanza volontà essenzialmente "capricciosa”, pronta a seguire i consigli di chi con più abilità e con più accortezza salusingarla ed orientarla verso quei provvedimenti volti a realizzare quanto sembra soddisfare i suoi “appetiti”. Per tal motivo il potere politico deve necessariamente asservire tutto etutti ai suoi fini, con i quali a poco a poco debbono identificarsi quelli della società: l'obbedienza più cieca è il risultato

di questo metodo di governo e nello stesso tempo la condizione perché possa continuare ad operare. Così si pongono lenecessarie premesse perché il potere politico possa pretenderedi indagare, di scrutare la coscienza stessa dei sudditi per assicurarsi che ci sia un’effettiva coincidenza fra la sua volontàe quella dei sudditi, e l'individuo viene, in tal modo, privatodi quello che è il suo bene più prezioso, l’interiore libertà,cioè la determinazione autonoma dei fini delle sue azioni, e,quindi, ridotto al rango di uno schiavo,.Libera da qualsiasi vincolo, la volontà assoluta del reggitore è dominata da un insaziabile desiderio, una vera e propria “concupiscenza”, di avere sempre di più e di diverso.Nulla riesce ad appagarla completamente: essa nella suaazione di governo deve continuamente volere, qualcosa dinuovo. Dietro l’apparente stabilità, il governo dispotico nasconde sostanzialmente una profonda instabilità che è data,per l'appunto, dalla essenziale mutevolezza dei fini che si propone la volontà politica.Questo governo si realizza solo a patto di asservire tuttigli individui ai suoi voleri per mezzo della forza, che la stessasocietà ha messo a sua disposizione, e per mezzo della corruzione, della frode, della paura. L’oppressione che si esercitasulla massa degli individui che compongono la società politicadiventa nel governo dispotico sempre più pesante: in effetti, ilprincipe governa per mezzo dei suoi favoriti, di quei consiglieri che riescono a cattivarsi la sua simpatia e la sua benevolenza, i quali, osserva Burke, rendendosi conto che la benevolenza del loro signore è di breve durata, cercano di realizzarequanto più possono finché dura il “loro” potere. Due “corti",quella del principe e quella del favorito, costituiscono la caratteristica del dispotismo, quella del potere legale e quelladel potere “di fatto", l’una contro l’altra armata con le insidiose e velenose armi della calunnia più o meno nascosta,della frode, della corruzione, talché la fede pubblica e privata,che costituisce uno dei vincoli fondamentali della società, nonpiù può essere considerata come un valore centrale per la stabilità delle relazioni sociali.In un regime dispotico ogni individuo deve fare unicamente affidamento sulle qualità peggiori del suo carattere: gli ingenui, gli onesti, i “poveri di spirito" sono facile preda degli astuti e dei violenti. Questa forma d’oppressione. genera undiffuso senso di scoraggiamento, di profonda apatia che finisce col togliere alla società qualsiasi interesse per tutte quelleiniziative che richiedono la collaborazione degli individui sulpiano sociale e che sono tanto necessarie per perseguire ilprogresso civile e sociale. È forse proprio per questo motivoche il dispotismo finisce per causare una diffusa indigenza checolpisce le società soggette ad una tal forma di governo.Possiamo considerare ora in sintesi quali i “benefici” effetti della forma più semplice della società “artificiale”: la mancanza assoluta di libertà sia nelle espressioni della vitapubblica che in quelle della vita privata, la coartazione e ilprogressivo svuotamento della coscienza del singolo, l'oppressione di uno o di pochi attuata al solo scopo di soddisfare lasmodata ambizione di chi comanda, la disgregazione dei valori fondamentali sui quali si fonda il costume sociale, la corruzione della vita pubblica e privata, l'assoluta insicurezzanella vita e nei beni, lo sfruttamento e la conseguente miseria

ed abbrutimento della stragrande maggioranza degli individui. Perciò, osserva Burke, questa prima “costituzione”, o modo di organizzare il potere o la forza sociale, non corrisponde alle attese di benessere e di felicità, di maggiore autonomia e libertà che si sono ripromessi gli individui costituendo la “società artificiale": abbiamo visto quali ne sonostati i concreti risultati. In questa forma di governo la naturaumana è degradata alla brutalità delle bestie e, come osservagiustamente Locke, essa è peggiore dell’anarchia: è indubbiamente meglio vivere nella società di natura, affrontando tuttii rischi che questa comporta, anziché avvalersi del presuntoordine e della presunta tranquillità che offre il governo dispotico. Si osserverà, continua Burke, che se la forma di governodispotica, la più diffusa sulla terra perché la più semplice, è lacausa di tanti mali per gli individui, lo stesso non può dirsiper altre costituzioni, che sono state elaborate proprio per ovviare ai gravissimi inconvenienti della prima. Le costituzioniaristocratica, democratica e soprattutto mista, nella quale sicontemperano i principi delle tre costituzioni tipiche, secondoquanto affermano la maggior parte degli scrittori politici, ineffetti garantirebbero, soprattutto l’ultima, il raggiungimentodi quella libertà, sicurezza e tranquillità cui aspira l’uomo conla formazione della società “artificiale”. Purtroppo uno studioattento, condotto con animo disincantato che non si lascicommuovere dall’apparente autorità di alcuni principi o valori fondati sulla tradizione o sul costume ci dimostra chequeste altre forme di governo, in definitiva, non fanno che accentuare i malanni insiti nel dispotismo. E indubbiamente una conclusione paradossale, almeno ad una prima considerazione, ma che alla fine deve essere accettata in tutta la sua verità, non appena ci rendiamo conto del concreto meccanismodelle stesse costituzioni.Nel corso dell’esperienza storica il primo tentativo, ingenuo del resto, di eliminare il dispotismo deve essere statoquello che si ridusse a cambiare la persona di chi governa:questa sostituzione, cui si pervenne di solito dopo atroci lottecivili, servì a ben poco. Il nuovo principe per un breve periodo di tempo informò il suo governo ai principi del pubblico interesse, poi, a poco a poco, instaurò di nuovo la costituzione dispotica: in fondo è nella natura stessa del poterepolitico realizzarsi nella sua forma più assoluta. Ammaestratida successive esperienze gli individui ritennero, allora, che affidando il potere ad un numero ristretto di persone dotate divirtù riconosciute da tutti i cittadini, avrebbero avuto un governo efficiente e nello stesso tempo rispettoso dei diritti ditutti i consociati, anche perche i nuovi governanti, dotati diun patrimonio ragguardevole, non avrebbero avuto alcunasollecitazione ad arricchirsi a spese dei concittadini.Ma anche in questo caso si tratta di un'illusione: in effetti,l’esperienza stessa si incarica di dimostrare che il governo aristocratico si distingue solo formalmente da quello dispotico,dato che quando il popolo viene escluso dal potere legislativoesso diventa automaticamente schiavo della classe aristocratica, così come lo era stato del principe: anzi, la tirannia chedeve sopportare è più pesante, in quanto ogni nobile ha di

solito l’alterigia di un sultano e la sua azione di governo risulta infine ispirata alla gelosa custodia dei propri averi molto spesso confinante con l’avarizia , all’orgoglio connesso con le proprie tradizioni familiari, alla paura dì perdereun potere che in definitiva non ha alcuna corrispondenza neiconcreti e reali interessi della società. Consideriamo, ad esempio, le repubbliche di Genova e di Venezia: il loro governonon è altro che un dispotismo mascherato. La “ragion distato” di queste repubbliche è sostanzialmente il sospetto, contutte le relative conseguenze che finiscono col corrompere lospirito pubblico e col fondare la costituzione su di un rapporto di soggezione che sottomette il popolo all’aristocrazia .D'altro canto, che la costituzione aristocratica renda ancor più pesante il potere dispotico di cui dispone è comprovato da una considerazione di cui non si tiene il debito conto:l'aristocrazia, come corpo politico, tende a rendere omogeneal’azione politica di coloro che vi appartengono, e, gelosa dellesue prerogative e tradizioni, cerca di mantenersi come un ordine chiuso che si perpetua nel tempo, conservando inalteratii suoi principi di governo e non consentendo alcuna modificazione o innovazione nel modo di governare gli affari pubblici. Per tal motivo, osserva acutamente Burke, nella formadel dispotismo “puro”, nella quale il potere è affidato ad unasola persona, c’è sempre un periodo di tempo, sia pur breve,nel quale il dispotismo si attenua dì molto o addirittura sparisce (anche se i casi sono certamente rari) in occasione dellasuccessione o sostituzione del principe: basta ricordare a questo proposito Tito, Vespasiano, Antonino Pio, Marco Aurelio.La possibilità, invece, che il governo dispotico sia notevolmente ridotto oppure sostituito con una forma di governomonarchico rispettoso della dignità e della Libertà dei cittadini, è esclusa nelle forme aristocratiche di governo, in quantoin esse non gli individui ma il corpo politico esercita in effettiil potere politico. Consideriamo, ad esempio, il caso dellarepubblica di Venezia, che sembra avere un governo sufficientemente moderato: essa nasconde un regime dei più tirannici,che si manifesta nella particolare cura con cui l’aristocraziapersegue il fermo proposito di mantenere il popolo in unostato di generale apatia, mediante quegli accorgimenti atti aprovocare il suo disinteresse per tutto quello che riguarda lacosa pubblica. La profonda corruzione civile, che soffocaqualsiasi tentativo di dare al popolo, alla maggioranza dei cittadini, una propria dignità ed una sua autonoma funzionenell'ambito della costituzione, è in definitiva la conseguenzadella politica perseguita con tenacia dall’aristocrazia di privareil popolo di qualsiasi forma di libertà, col tenerlo costantemente sottomesso mediante il timore di un’implacabile inquisizione di Stato. Così, anche questa volta, bisogna dire che laseconda forma di governo, escogitata per garantire alla “società artificiale” il conseguimento del benessere collettivo edella libertà di tutti, non corrisponde agli scopi prefissi, anziessa non fa che rendere ancora più dura e più stabile l’oppressione propria del dispotismo: « In breve i regolari e metodici

procedimenti di un'aristocrazia sono più intollerabili degli eccessi propri di un dispotismomo, e, in generale, più lontani daogni rimedio ».La terza forma dj governo, costituita per sottrarsi alla tirannia della classe aristocratica, è quella democratica, nellaquale il popolo diventa l'unico soggetto attivo del potere sovrano. Potrebbe sembrare, e molti lo hanno sostenuto, che lademocrazia assicuri finalmente alla società politica il godimento di quei beni per i quali è stata costituita: ma ancorauna volta bisognerà dire che anche questa nuova costituzione,e forse più delle precedenti, realizza un tipo di governo che sifonda sul più spietato, assurdo assolutismo. Come già nellealtre due costituzioni, quella monarchica e aristocratica, l’esercizio del potere da parte del popolo, non limitato da altra istituzione od ordine politico, ricrea le stesse condizioni che determinarono l’instaurarsi del dispotismo.Il “meccanismo” mediante il quale si corrompe, a poco apoco, o per dir meglio è “consumato”, l’insieme dei valori checostituiscono la trama essenziale del costume sociale, è sostanzialmente identico a quello delle altre costituzioni: anche ilpopolo viene a poco a poco corrotto dall'esercizio del poteresovrano; la sua volontà non si determina sul piano della consapevolezza razionale, ma su quello delle passioni, dei sentimentalismi. Anche il popolo, più del monarca, è sensibile allelusinghe, al fascino dei demagoghi che sanno blandirlo, commuoverlo, suscitare la sua ira e il suo furore, il suo sdegno,trovare con arte sottile la strada giusta per pervenire al suocuore e servirsi delle sue stesse passioni più nobili per convincerlo della sua assolutezza, del fatto che la sua volontà è sopra la stessa legge,La storia della democrazia per eccellenza, quella d’Atene,ci fornisce ammaestramenti utili sul rapido processo di degenerazione del sistema democratico e su come il potere del popolo si trasformi nella più spietata delle tirannie. Si cominciacon l’allontanare a poco a poco dal governo gli uomini più illustri e più capaci, che non sanno indulgere a favorire o a blandire le passioni del popolo: il principio della assolutaeguaglianza di tutti i cittadini trova in tal modo una primaapplicazione, per ispirare poi tutte le istituzioni politiche delregime democratico, con l’unico risultato di eliminare dallavita politica quanti con la loro personalità, o con la loro posizione sociale, possono elevarsi al di sopra della media dei cittadini. L’ostracismo è l’istituto che, più d’ogni altro, esprimelo spirito egualitario che anima le democrazie, che finisce conl’allontanare i migliori dalla vita politica e col dividere il popolo in contrapposte fazioni, ognuna delle quali convinta diperseguire il bene della collettività. La volontà del popolo, come quella del tiranno, non trovapiù una sua interna e coerente stabilità, ma credendo d’interpretare sempre e comunque il giusto e l'onesto, muta a seconda delle situazioni, e soprattutto delle suggestioni, finendocol perseguire unicamente il particolare interesse della maggioranza dei cittadini che formalmente la esprime. La storia d’Atene ci ricorda provvedimenti della più palese ingiustizia,in cui vennero obliate le più elementari norme della convivenza civile: come non rammentare, questo proposito, il provvedimento dell'assemblea ateniese, durante la prima fasedella guerra peloponnesiaca, con il quale, onde escludere unaparte del popolo dalla distribuzione del grano inviato dal redi Egitto durante il periodo della carestia, tolse a cinquemilaAteniesi il diritto di cittadini, confiscando i loro patrimoni e

disponendo nel contempo, cosa ancora più abominevole, chefossero venduti come schiavi?Non può negarsi certo che la stravaganza, il capriccio,l’ira, il furore, la persecuzione ingiusta e malvagia, la prevaricazione a danno dei singoli e delle minoranze sono continuamente presenti nella storia della democrazia ateniese e ci ammoniscono che il popolo può essere, a volte, più tiranno dellostesso Nerone. Le vicende politiche ateniesi dimostrano inoltre che la democrazia non riesce a garantire la tranquillità, lasicurezza, la libertà dei singoli cittadini: anzi il principio dellasovranità del popolo non conduce ad altro risultato che aquello di legittimare le fazioni e le loro lotte, al cui termine ilvincitore di turno aveva il diritto dì opprimere, esiliare, bandire, a volte condannare a morte i suoi avversari. La vita,l’onore, gli averi di un cittadino erano garantiti unicamente daun'incerta, effimera maggioranza che sosteneva la fazione cuiapparteneva o che lo annoverava fra i suoi seguaci: Atene è lacittà che bandi Temistocle, che ostracizzò Aristide, che costrinse all'esilio Milziade, che allontanò Anassagora e che uccise con il veleno Socrate.Il governo democratico era incapace di esprimere una volontà politica unitaria ed omogenea, in grado dì realizzare inconcreto il benessere collettivo, proprio perché si fondava sudi una fiducia popolare “fragile”, e quindi variabile, a motivodel sospetto con il quale il popolo riguardava sempre i governanti per il timore di essere sminuito nella sua autorità o addirittura di essere privato della sua potestà sovrana. È questa,in sostanza, la profonda antinomia della costituzione democratica, una volontà che diffida di se stessa, una volontà in sostanza sterile, che non riesce a tradursi in atto, proprio perchésottopone ad un continuo controllo gli strumenti del suo volere e tende a renderli poco efficienti. In questo regime ungenerale non poteva né vincere né perdere una battaglia, unfilosofo non poteva usare di quella libertà della quale godevano invece tutti gli altri cittadini: la libertà politica, paradosso del regime democratico, non ammetteva la libertà dipensiero.L’instabilità, in sostanza, è la caratteristica fondamentaledel regime democratico: la politica si riduce ben presto allalotta delle opposte fazioni per assicurarsi il potere, conquistasempre effimera; ir1 questa costituzione, di volta in volta, sisuccedono, come è stato acutamente notato sin dall’antichità,il governo monarchico, del demagogo cioè che riesce a concentrare su di sè il favore popolare, quello aristocratico delristretto gruppo che riesce a orientare le decisioni dell’assemblea ed a farsi nominare ai posti di comando infine quellopopolare, quando in alcune occasioni il governo, cioè gli attiche gli competono, vengono direttamente assunti dall'assemblea stessa. La costituzione democratica è un caotico alternarsi di forme di governo in una lotta spossante che finiscecon lo stremare e col ridurre all'indigenza la società politica:<< Siccome vi è un perpetuo mutamento, uno che si innalza el'altro che decade, voi avrete tutta la violenza e una politicamalvagia, con cui un potere che nasce deve sempre acquistarela sua forza, e tutta la debolezza dalla quale gli Stati che decadono sono portati alla completa distruzione >>.

Si è dimostrato in tal modo che le tre forme tipiche di governo, monarchica, aristocratica, democratica, non sono chetre diversi aspetti dell'unica fondamentale forma di governo,il dispotismo: pure, osserva Burke, al fine di eliminare qualsiasi eventuale perplessità, possiamo ammettere chele treforme di governo di cui si è parlato abbiano realizzato nelcorso dell’esperienza storica, e tuttora realizzino, un certogrado di libertà, di sicurezza, di tranquillità per i cittadini. Maanche questa concessione alla tesi degli avversari serve a benpoco, allorché intendiamo considerare la questione nella suainterezza, se la società “artificiale” è un bene o un male pergli individui che la costituiscono.Occorre tener conto che le tre forme di governo di cui siè trattato garantiscono, nella migliore delle ipotesi, la libertàpolitica ad un ristrettissimo numero d'individui: ad Atene ilnumero dei cittadini oscillava fra i diecimila e i trentamila, magli schiavi ammontavano a circa quattrocentomila, e in determinati periodi superarono anche questo numero. A Sparta il numero dei cittadini liberi era, proporzionalmente agli schiavie agli Iloti, molto inferiore a quello d'Atene. Queste osservazioni possono essere fatte a tutti gli ordinamenti politici dell’antichità, e come vedremo, alla maggior parte di quelli moderni.Se si tiene conto che gli Stati che hanno informato il loroordinamento politico a principi, sia pur formali, di libertàsono un’esigua minoranza rispetto agli altri, e che all’internodi questi stessi Stati i liberi sono un'altra esigua minoranza,dobbiamo necessariamente ritenere dopo quanto si è detto nel corso dell’esame delle singole forme di governo, che la società “artificiale” non è assolutamente in grado di assicurareagli uomini il godimento di quei diritti e di quel benessere peri quali sarebbero state costituite. L’ordine politico “artificiale”, considerato nelle sue manifestazioni tipiche e con riferimento non a questa o quella singola esperienza storica, ma atutto il genere umano, non si riduce ad altro che ad unaristretta oligarchia che si mantiene al potere mediante l’usospietato della forza: il governo popolare, pertanto, è un puronome, che non ha alcun riscontro con la concreta realtà istituzionale della società politica.Come si è visto la monarchia, l’aristocrazia e la democrazia non corrispondono ai fini per i quali è stata fondata la società “artificiale”: ma, si dirà, le forme di governo non sonoesaurite, gli uomini nella loro secolare esperienza, ammaestratidai mali subiti dalle precedenti costituzioni, hanno cercato diovviare agli inconvenienti, mediante la fusione delle tre formedi governo in una sola costituzione, la quale, conservando iprincipi della monarchia, dell’aristocrazia e della democrazia,riuscisse nello stesso tempo ad eliminare i gravi difetti di ciascuna. È la costituzione “mista" o governo “misto", che permolti scrittori politici sembra aver finalmente garantito allasocietà la stabilità dell’ordine politico nel rispetto dei diritti edella libertà dei membri della società.La costituzione mista, se esaminata con animo veramentecritico e spoglio di pregiudizi, rivela ben presto la sua inconsistenza, la sua incapacità a realizzare gli scopi che le sonoprefissi, dato che la pretesa di attuare un reciproco controllo

ed un bilanciamento fra le forze sociali, che si esprimono politicamente nella monarchia, nell’aristocrazia e nella democrazia, è irrealizzabile e, all'atto pratico, pone in essere una costituzione così macchinosa da generare, nella società, degli statidi tensione politica fra i diversi ordini che costituiscono unacontinua minaccia all’unità stessa dello Stato. Sono proprio leosservazioni sulla costituzione mista e quelle che seguono, aproposito delle fondamentali istituzioni civili sulle quali siregge l’organizzazione della stessa società, che consentono dirilevare come la critica di Burke si riferisce, a volte in modopalese, alla vita politica inglese della prima metà del settecento, e cosa ancor più interessante, alla situazione sociale,che sembrava riprodurre in Inghilterra l'antica distinzionedello Stato classico fra liberi e schiavi.Non possiamo nasconderci, precisa Burke che le diverse“parti" che costituiscono la costituzione mista, hanno, o perlo meno rivendicano, ciascuna una propria autonomia e distinta funzione, che non sono però specificate con regole precise. I loro diritti sono quanto mai vaghi sì che quando sipongono questioni che per essere risolte richiedono condiviseinterpretazioni e concordi accertamenti di responsabilità, sihanno invece discussioni, controversie che hanno come unicoscopo quello dì lasciare impuniti gli abusi che sono commessinell’esercizio delle pubbliche funzioni. In tal modo, quel controllo che la costituzione mista dovrebbe garantire su quantisono incaricati della cosa pubblica viene sostanzialmente amancare, onde, a poco a poco, gli abusi stessi sono prima tollerati e poi legittimati: la pratica, quindi, dell’esercizio di poteri di fatto, non previsti dalle leggi, diventa sempre più diffusa e finisce nel tempo col modificare il costume civile e politico, affermando il principio dell’assoluta impunità per tuttiquelli che partecipano al governo della cosa pubblica.L’inconveniente più grave, che provoca delle conseguenzedannosissime, è indubbiamente quello che si riferisce ai rapporti dei tre ordini, il monarchico, l'aristocratico, il democratico. Benché uniti nella stessa costituzione, ciascuno di loroserba intatto, se così possiamo dire, il proprio spirito dicorpo, e costituiscono tre parti separate e distinte, ciascunagelosissima delle sue attribuzioni, delle sue prerogative, dellesue tradizioni, onde le relazioni che si istituiscono fra di essesono improntate alla reciproca diffidenza: il re ambizioso, lanobiltà orgogliosa, il popolaccio sempre tumultuoso, prontoalla rivolta e ingovernabile.Formalmente ogni “parte” sembra voler convivere pacificamente con le altre, ma il suo costante, se pur segreto, proposito rimane quello di “insidiare” le posizioni delle altre, didiminuirne il prestigio e il potere, onde accade che nelle questioni di una qualche importanza sia che riguardino gli affariinterni che quelli esterni, si considerano i provvedimenti daassumere più per quanto attiene agli eventuali vantaggi chepossono provenire a questa o quella parte, che per la bontàintrinseca degli stessi provvedimenti e ci si preoccupa di vedere se le leggi richieste aumentano o diminuiscono i poteridella Corona, se restringono od allargano i diritti dei cittadini. Così i più urgenti e gravi problemi della società sononormalmente risolti senza alcuna particolare considerazione

per quanto riguarda la garanzia del bene pubblico, ma unicamente in vista degli interessi particolari di questo o quel partito, con l’ovvia conseguenza che la famosa e tanto vantata“bilancia” dei poteri non è mai in equilibrio ma in effettipende sempre o da una parte o dall'altra, con “oscillazioni”che turbano profondamente l’ordine politico e civile dellastessa società.Per tal motivo, il governo, nella costituzione mista o “bilanciata”, si riduce di volta in volta ad essere l'espressione diuno solo, del monarca, che si serve del potere politico a suoesclusivo arbitrio, o di un’astuta “confederazione” di pochiavente lo scopo di ingannare il principe e di opprimere il popolo, oppure di una frenetica ed ingovernabile moltitudine. Sitenga inoltre presente, dopo quanto si è detto, che l’animadella costituzione mista è il partito, e che lo spirito che accomuna tutti i partiti e che li determina nella loro azione politica è quello dell'ambizione, degli interessi particolaristici: ilpartito si sostituisce, a poco a poco, alle istituzioni politiche,onde tutti i valori ed i principi del costume pubblico vengonorapportati unicamente agli interessi partitici.Ed è proprio questo spirito, osserva Burke, che alla finedistrugge tutti i principi che una natura benevola ha posto innoi, che finisce con l’annullare qualsiasi sentimento d’onestà,di `giustizia, che vanifica molte volte perfino i legami della società naturale, cioè l’affetto che unisce i componenti di unastessa famiglia. Così l’esperienza della vita politica, quale sisvolge nell'ambito della costituzione mista, ci rende chiaroche il governo che si esercita per il tramite dei partiti si riducedi solito ad una vera e propria oppressione simile a quella deldispotismo, e a volte del tutto uguale ad una vera e propriatirannia.Il peggio è che l’opinione pubblica in fondo finisce conl’accettare questo stato di cose, proprio. perché siamo abituatia vedere che i più sacrosanti diritti sui quali si fonda l’ordinedella società diventano oggetto di quotidiani compromessi,senza alcuna preoccupazione di giustificarli, salvando almenole forme apparenti della giustizia. Ebbene, osserva Burke, noiconsideriamo tutto questo senza la benché minima emozione,proprio perché siamo cresciuti in questa pratica: non ci sorprendiamo affatto che si richieda ad un uomo dì essere unimpostore o un traditore con la stessa semplicità con la qualegli si domanda di solito un favore, e siamo infine abituati avedere rifiutate queste richieste, non perché contrastano con ipiù elementari principi della giustizia e della morale, ma perché l’interessato ha già aderito ad analoghe profferte formulate da altro partito.Tutte queste osservazioni potrebbero essere ulteriormenteillustrate con altri argomenti, desunti dalla ricca “fenomenologia” della vita politica propria della costituzione mista: nonrimarrebbe che l’imbarazzo della scelta. Basterà accennarnesolamente alcuni. Si esalta ad esempio la tolleranza che è possibile attuare solamente nella costituzione mista: certo noisiamo liberissimi di criticare la costituzione cinese o di condannare, tanto per fare un esempio, i trucchi e l’assurda bigotteria dei bonzi, ma non appena queste critiche sono mosse

al costume politico inglese ed alla religione da noi in auge siviene immediatamente tacciati di ateismo e di tradimento, contutte le relative conseguenze. La storia politica inglese, d'altrocanto, ci consente di rilevare che lo stesso partito dapprimaha sostenuto la legittimità della resistenza armata del popolocontro la monarchia e poi non ha esitato a giustificare unaprerogativa regia così estesa da confinare con il più rigido degli assolutismi. Sempre la storia inglese non ci avverte che non abbiamomai avuto un parlamento, il quale mentre si preoccupava di fissare dei limiti alla prerogativa regia, nello stesso tempo cercava di porre dei limiti a se stesso? Non sono mancati i Re cheper mezzo della violenza o della frode hanno tentato di violare la costituzione? I tentativi di riformare i gravissimi difettidella nostra costituzione, più e più volte denunciati, nonhanno fatto altro che aggravare i mali lamentati? E così la nostra tanto vantata libertà a volte è addirittura calpestata, avolte è portata vertiginosamente in alto, sì che essa ha un’esistenza del tutto precaria, condizionata dalle contese, dalleguerre, dai complotti. Non c’è nessun altro paese d’Europa incui il patibolo è stato così spesso arrossato dal sangue dei nobili: confische, esili, processi, esecuzioni ricorrono continuamente nella storia delle famiglie aristocratiche, molte dellequali furono distrutte. Certo la vita politica non è caratterizzata più da quegli episodi di ferocia e di sangue: bisogna riconoscere che l’esperienza politica è riuscita a trovare altrimezzi di governo diversi da quelli che si fondavano sullaspada. Bisogna anche ammettere che, in definitiva, sono forsepreferibili i vecchi, spietati, ma leali mezzi di governo, ainuovi che si fondano sulla corruzione e sul tradimento.L’esame della società “artificiale” non deve limitarsi, perBurke, alla costituzione, al modo con cui è regolato l'eserciziodel potere politico, ma deve essere anche esteso a quelli chesono gli “strumenti” essenziali della vita “civile” e sociale dell’individuo, alle istituzioni fondamentali, alle reali condizionidi vita della maggioranza degli individui nella società “artificiale". In questo caso Burke riprende le critiche rivolte allecondizioni della società inglese del suo tempo e che il pensiero politico illuministico, in particolare quello di Bolingbroke, non prendeva in alcuna considerazione.È stato da molti osservato, anche Locke lo ha detto, cheuno dei più grandi inconvenienti della società naturale è cheogni individuo, qualora gli sia stato fatto un torto, debba essere giudice della sua stessa causa. Per tal motivo una delleistituzioni fondamentali della società “artificiale”, forse quellache la caratterizza, deve ravvisarsi nel fatto di affidare ad unterzo, estraneo agli interessi dei contendenti, la soluzionedella controversia. Ben presto però ci si accorse che la garanzia della vita, degli averi, dell’onore degli individui era affidataad una volontà, quella del giudice, del tutto arbitraria, perchénon soggetta ad alcun controllo: invece di garantire la libertàdegli individui mediante un giudizio imparziale e disinteressato si erano sottoposti gli individui stessi ad un potere che sirivelò ben presto insopportabile. Si pensò allora di limitare lavolontà del giudice mediante le leggi, che avrebbero dovutogarantire un giudizio obiettivo, e quindi giusto.

Introdotte le leggi, ci si rese conto che le stesse, nella lorosemplicità e. brevità lasciavano ancora troppa libertà al giudice: occorreva aggiungere alle vecchie, nuove leggi, che precisassero ed integrassero le prime. Si riscontrarono nuove,gravi difficoltà, che resero macchinosa e complessa l’amministrazione della giustizia. Le nuove leggi ponevano difficili problemi interpretativi per quanto riguardava i rapporti con levecchie: la terminologia giuridica era diventata complessa, percui la necessità di ricorrere ai commenti, alle glosse, alle relazioni, ai rerponsa prudentum. Gli uomini, che avevano inventato le leggi per regolare i loro rapporti, erano diventati pocoa poco prigionieri delle loro stesse leggi, trasformate in unodei più validi strumenti di soggezione e di oppressione.A motivo dell'interpretazione il diritto è diventato unascienza complessa, appresa da una ristretta categoria di persone, che detiene il monopolio della conoscenza e dell’applicazione delle leggi, le quali, peraltro, erano state inventate affinché ogni individuo potesse sapere con certezza quali fossero i suoi diritti e quali le relative garanzie. La certezza deldiritto è in sostanza una pura illusione: chi consideri la complessa macchina dell'amministrazione della giustizia dovràconvenire che sono proprio le leggi a rendere incerti, confusi,aggrovigliati i rapporti degli individui nella società. “La confusione cresce, la nebbia si fa più spessa, sèno al punto chenon si è più in grado di stabilire quello che è permesso oquello che è proibito, quali sono le cose di nostra proprietà della comunità. In tale incertezza (incertezza per unospecialista, ma vera oscurità simile a quella che nasconde lalingua egiziana all'umanità) le parti che si costituiscono ingiudizio sono rovinate più per la lunghezza dello stesso giudizio che per l'ingiustizia di una qualsiasi decisione. Le nostreeredità sono ormai diventate il prezzo delle dispute giudiziarie e queste diventano la nostra eredità”.Si tenga inoltre presente, continua Burke, che i professoridella legge “artificiale” sono sempre intimamente legati aquelli della teologia “artificiale'‘. In fondo il loro scopo èidentico: essi hanno, ciascuno nel suo campo, elaborato le rispettive dottrine in modo da “confondere la ragione dell’uomo e da incatenare la sua libertà naturale". I teologi nonesitano a scagliare i loro anatemi contro chi osa venir meno aidoveri sanciti dalle leggi artificiali e dal canto loro gli uominidi legge professano verso il diritto una venerazione di tipo religioso, che si esprime nel rigido e solenne formalismo, con ilquale hanno rivestito tutti i rapporti che si costituiscono fra lepersone ne a società.La conseguenza dell'intimo nesso che è stato stabilito frala legge “artificiale" e la teologia “artificiale” si rende evidentenon appena noi ci rivolgiamo al giudice affinché venga garantito un nostro diritto: non si discute sulla “cosa” che interessachi promuove il giudizio, ma sulle forme che sono state usate,o che si sarebbero dovute usare per quel determinato dirittoe in quella determinata vertenza: l’oggetto principale della liteviene immediatamente perso di vista e tutta la sapienza siesercita unicamente sulle parole, sulle formule, la cui presenzao la cui assenza può decidere del patrimonio, dell’onore, avolte della vita di un individuo.La proprietà, è stato detto, è la prima e vera garanzia della

tranquillità, della sicurezza, della libertà dell'individuo e diconseguenza la tutela della proprietà è la condizione essenziale perché siano garantiti l’ordine e la pace, senza le qualinon può esistere alcuna società politica. Orbene, non appenauna persona si rivolge al giudice, deve rendersi conto a suespese che la tutela che le leggi dovrebbero garantirgli è unaparola vana: L’amministrazione della giustizia è cosi complessa, cosi macchinosa, la procedura cosi complicata, che acausa delle spese del processo rischia di perdere prima che siadecisa la causa. E quando dopo tante fatiche, dopo tanti affanni, ottiene una sentenza favorevole, la vittoria è spessovana: l’avversario riesce sempre a trovare un errore commessonel corso del giudizio che giustifica il proseguimento dellacausa presso un’altra corte: << La mia causa, che due agricoltori avrebbero deciso in mezz’ora, impegna invece la corte pervent’anni. Quando arrivo alla fine della mia fatica ed ottengoin compenso del mio lavoro e delle vessazioni subite una decisione favorevole, un astuto comandante del campo avversario trova un errore nella procedura seguita: il mio trionfo sitrasforma automaticamente in lutto. Si scopre che ho usato“o” invece di “e”, o qualche altro errore: rinnovo così la miacausa, vado di corte in corte, passo da quella d’equità a quelladi “state law" e un'eguale incertezza mi attende ovunque; intal modo un errore al quale io non ho partecipato decide improvvisamente della mia libertà e della mia proprietà, inviandomi dal tribunale alla prigione e trascinando la mia famiglianella povertà e nella fame. Signori, io sono del tutto innocentedell’oscurità e dell'incertezza della vostra scienza. Io non horeso oscura questa scienza con nozioni assurde e contraddittorie, né l'ho confusa con l’inganno e con i sofismi. Voi miavete escluso in tutti i modi dalla condotta della mia causacon il motivo che la scienza era troppo profonda per le miecognizioni, il che riconosco: ma era troppo profonda ancheper voi, e avete reso la via così intricata, si che alla fine vi cisiete perduti voi stessi, La conclusione di tutto questo è chevoi sbagliate e poi punite me per i vostri errori ».Né può essere sottaciuta un’altra grave incongruenza delsistema giudiziario e processuale: per quanto è tarda e lenta lagiustizia allorché tratta di questioni attinenti al patrimoniodelle persone, altrettanto è sollecita, rapida quando è investitadi questioni la cui definizione implica la vita o la morte di unindividuo: riesce veramente incomprensibile comprenderecome mai quando sono in gioco interessi, indubbiamente importanti, ma non essenziali, la giustizia si circondi di tantecautele e proceda con una circospezione così eccessiva da ingenerare gli inconvenienti che si sono lamentati, ed invecequando si deve decidere su interessi essenziali, quali la vita,l'onore, la libertà della persona, quegli accorgimenti, tanto necessari per garantire i beni supremi dell’individuo, sono invece del tutto omessi.I “politici” hanno sempre sostenuto che lo scopo fondamentale delle leggi, come si è già ricordato, è quello di garantire la sicurezza, la tranquillità, la vita, l'onore, il patrimoniodi tutti gli, individui che costituiscono la società, di assicurarela giustizia a tutti al fine di difendere il povero e il debole

dalle sopraffazioni del ricco e del potente. Ma, ancora unavolta il richiamo ai reali e concreti rapporti di fatto consentedi dimostrare quanto tale affermazione è, in sostanza, astratta:in un sistema giudiziario il cui costo è altissimo, la giustizia èriservata esclusivamente ai ricchi ed i poveri, di fatto, sonoesclusi da quelle garanzie, da quella tutela e difesa dei loro interessi e diritti, per le quali fu invece costituita la società “artificiale". Nella società naturale l'individuo poteva sempre difendersi contro le sopraffazioni del suo simile più forte, avevasempre il diritto di soddisfarsi del torto subito esercitandoun’azione di rappresaglia mediante la sorpresa o l'astuzia:<< invece nella società politica “artificiale” il ricco può derubarmi in mille modi, né io posso difendermi, dato che il denaro è l'unico mezzo mediante il quale io sia autorizzato acombattere, E se io oso vendicarmi l’intera forza di quella èpronta a completare la mia rovina ».L’esame della società “artificiale” non può dirsi completose non prendiamo in considerazione, nel suo vero ed autentico significato, la distinzione cui si è accennato fra ricco epovero, su cui, in ultima analisi, riposa l'intero ordine politicoe sociale della società. I ricchi sono pochi e i poveri costituiscono la stragrande maggioranza della società “artificiale”: ilsistema è organizzato in modo tale che ai poveri è impostol’onere di fornire i mezzi che consentano ai ricchi di viverenell’ozio e nel lusso, e che i ricchi hanno l’unica preoccupazione di escogitare i mezzi migliori onde mantenere i poverinella schiavitù. La soggezione che sottomette il povero alricco, questo è il rapporto fondamentale su cui si fonda ilcomplesso meccanismo dei comandi e delle obbedienze checonsente il “funzionamento” della società “artificiale”.Certo nella società di natura una delle leggi fondamentali,se non la prima, è quella che sancisce che i nostri acquistidebbano essere in proporzione del nostro lavoro: ma nella società politica questa stessa legge è capovolta: chi lavora hapoco o niente e chi non lavora gode, invece, dei benefici e deivantaggi derivanti delle fatiche altrui. Noi, in verità, nonSiamo abituati a considerare. tale aspetto della nostra società,benché, quotidianamente, ci cadano sott’occhio moltissimiepisodi che vi si riferiscono direttamente.Nella sola Inghilterra, ad esempio, più di centomila persone lavorano nelle miniere per le industrie tanto necessarie alle nostre esigenze “civili": << Queste persone infelici appenavedono la luce del giorno, esse sono seppellite nelle visceredella terra, ove lavorano in un durissimo e spaventoso mestiere senza la minima prospettiva di potersene un giorno liberare; si nutrono del peggior vitto, la loro salute si deterioramiserabilmente, la loro vita è notevolmente accorciata dalfatto di trovarsi continuamente confinati fra i dannosi vaporidi questi minerali. Altre centinaia di migliaia di persone sonotorturate senza remissione dal fimo soffocante, dal fuoco intenso e dalla continua fatica necessaria per manipolare, e raffinare i prodotti delle miniere >>.Questo è quanto possiamo dire dell'Inghilterra: ma è benpoca cosa se estendiamo la nostra analisi agli altri Stati ed allealtre collettività sparse nel mondo. Allora possiamo dire senzacorrere il rischio di. essere smentiti che << milioni di uomini

ogni giorno fanno il bagno nei velenosi vapori e nei distruttivieffluvi del piombo, dell'argento, del rame, dell'arsenico. Pernon parlare di altri lavori, pieni di miseria e di disprezzo, neiquali la società civile ha sistemato i numerosi enfant perda:della sua armata >>. Così la società “artificiale" nasconde accortamente nel suo seno una schiavitù forse più intollerabiledell’antica: essa in sostanza è un meccanismo che rende possibile l'oppressione, lo sfruttamento dì pochi nei confrontidella stragrande maggioranza.Pure, si dirà, tutto questo è necessario, non può che essere così, affinché almeno pochi, i ricchi, possano essere felici:ma anche questa è un'illusione, l'ultima, di quanti credononella positività della società “artificiale”. I ricchi, infatti, possono essere distinti in due categorie: quelli che s’interessanodella cosa pubblica e che si dedicano quindi all’attività politica e quelli che vivono nell’ozio, dediti unicamente ai piaceried a consumare le ricchezze prodotte da altri. Per i primi lavita si trasforma ben presto in una serie di continui affanni, didolori, d’amarezze, di cocenti delusioni, di roventi gelosie, dipreoccupazioni, tormentati continuamente da un’ambizioneche non viene mai soddisfatta. La politica a poco a poco litrasforma, indurisce il loro cuore, li rende incapaci di sentirequalsiasi affetto, di godere l'amicizia; il loro animo si fa gelido, lì rende veramente insensibili a quanto alimenta e costituisce l’umanità dell'uomo, ed alla fine li lascia stanchi, disillusi, amareggiati per non aver potuto conseguire il sogno digrandezza: in una parola, infelici.Consideriamo ora l'altra “specie" dei ricchi, “quelli chededicano il loro tempo e le loro fortune all'ozio e al piacere".In fondo anche questi sono degli infelici. Si tenga presente atal proposito che i piaceri che procurano reali e durevoli soddisfazioni sono quelli naturali, e quindi comuni a tutti gli individui, ricchi e poveri. I piaceri invece che derivano dalle artie dalle invenzioni umane non ottengono mai il loro scopo: essirichiedono una raffinatezza sempre più sottile e nello stessotempo più complessa, onde impegnano l’individuo in una ricerca di nuove esperienze in grado di sostituire le vecchie, ormai esaurite, che si fa a poco a poco più laboriosa, più pesante, finché finisce, con la fatica che comporta, con lo stancare chi la persegue. Il piacere alla fine si distrugge e lascia alsuo posto uno stato d'incontentabilità, tanto più acuta quantopiù intensa e più lunga è stata la ricerca del piacere stesso.Si tenga inoltre presente che in questa spasmodica ricercadel piacere la mente perde gradatamente il suo vigore intellettuale e non riesce più ad intendere la verità e con ciò stessonon è in grado di riconoscere la felicità. In fondo la societàartificiale parifica il povero e il ricco per quanto riguardal’impossibilità perle due categorie di pervenire alla felicità:<< I poveri per il lavoro eccessivo e i ricchi per l’eccessiva lussuria sono messi allo stesso livello, sono resi egualmente ignoranti di quel sapere che può condurli alla felicità. Una vistaben miserevole della vita ir1terna d’ogni società civile! Laclasse più umile è angariata ed abbrutita dalle più crudelidelle oppressioni, e i ricchi con il loro artificiale metodo divita si procurano i peggiori dei mali, quegli stessi mali che con

la loro tirannia infliggono alle persone sottomesse al loro potere >>.Infine, l'ultimo argomento in difesa della società “artificiale”, che l’ineguaglianza sociale cui si è accennato, con tuttele conseguenze, è necessaria onde consentire la nascita e l’affermarsi delle “arti”, senza le 'quali non è possibile la vita civile, dopo tutto quello che si è detto mostra chiaramente lasua radicale ir1consistenza, si risolve cioè in una petizione diprincipio. La società “artificiale” è necessaria per l'esistenzadelle arti, e queste sono necessarie perche possa sussistere lasocietà: un argomento che in realtà non spiega nulla, e dimostra solamente che quando noi cerchiamo di dare una spiegazione plausibile, una giustificazione alla società “artificiale”,in realtà ci rinchiudiamo in un circolo vizioso dal quale nonsiamo poi più in grado di uscire.Burke è così giunto alla fine della sua analisi della società“artificiale” e può riassumere i risultati del suo esame, checome ha precisato all’inizio è stato condotto attenendosi allostesso metodo con il quale Bolingbroke aveva studiato i rapporti fra la religione naturale e l'artificiale: essi sono decisamente negativi. La società civile è la causa di tutti i mali di cuisoffrono gli individui, tutti, come abbiamo visto, ricchi e poveri. Il genere umano, organizzatosi politicamente nelle società “artificiali”, si è diviso in tante collettività particolari,ciascuna animata da odio, da intolleranza nei confronti dellealtre, che si sono nel corso della storia distrutte a vicenda: lastoria Lunana, a motivo della presenza della società “artificiale” che concentra nelle mani di pochi un immenso poteredi distruzione al servizio delle passioni più abbiette, fruttoanch’esse della stessa società e sconosciute in quella di natura,si riduce ad un bellum omzzium comm omnes, ad una puralotta per il predominio, nella quale gli uomini finiscono coldistruggere se stessi. L'ordine politico costituzionale, in qualsiasi forma è considerato, si riduce ad un dispotismo più omeno nascosto, più o meno giustificato dal punto di vista formale; il rapporto di soggezione su cui si fonda il potere politico è connaturato con la prima relazione che si istituisce fragli uomini, basata sull'assoggettan1ento del povero al ricco,sulla quale si struttura tutta la vita della società.<< Considerate, osserva infine Burke, ancora una volta il labirinto delle leggi, la iniquità connessa con la loro oscurità. Considerate le malvagità commesse nel seno di tutte le collettivitàdall’ambizione, dall’avarizia, dall’invidia, dalla frode, dall'apertaingiustizia e dalla pretesa amicizia: vizi i quali trovano scarsapossibilità di affermarsi, nella società di natura, ma che fioriscono e prosperano nella società artificiale. Considerate tutto ilnostro discorso: aggiungete tutte quelle riflessioni che vi possono essere suggerite dal vostro intelletto e fate uno sforzo persollevarvi sopra la filosofia volgare, onde confessare che la causadella società artificiale è impossibile come quella della religioneartificiale, che essa in fondo costituisce una deroga all’onore delnostro Creatore, così come sovverte la ragione umana e produceun male senza fondo per il genere umano >> .

QUARTO CAPITOLO

LA CONCEZIONE DELLA SOCIETÀ

NELLA PHILOSOPHICAL ENQUIRY

Ai fini dello studio delle origini del pensiero politico diBurke, i problemi posti dalla vindication debbono essere ulteriormente approfonditi e considerati alla luce degli altri duepiù importanti scritti del primo periodo dell'attività letterariadel Nostro fra il 1756 e il 1760, A Philosophical Enquiry intothe origin of our ideax of the Sublime and Beatzful, pubblicato per la prima volta nel 1757, e An Esmy towards un Abridgment of English History, che scrisse, per conto dell’editoreDodsley fra il 1757 e il 1762 e che fu pubblicato postumo nel1815. Il primo è un_ saggio d’estetica che impegna Burke adun’analisi dei rapporti fra la ragione e le passioni, cioè fra laragione e la sfera del_ sentimento e dell’immaginazione equindi ad un più diretto confronto, anche se non formalmente esplicitato, con la filosofia dì Hurne. Il secondo è unasintesi della storia inglese, che si riferisce alla formazione dellanazione e del suo ordinamento politico dalla dominazione romana al regno di Giovanni senza terra e alla concessione dellaMagna Carta (1216), con cui furono per la prima volta sancirele libertà inglesi. Il pensiero di Burke si orienta quindi verso una concezione della politica che, grazie ad una analisi dellepassioni e dei sentimenti degli uomini, sia in grado di rendersiconto del ruolo che le stesse passioni hanno nella formazionee nella dinamica della società politica, che trova poi nella storia la sua ulteriore e più compiuta determinazione.Della produzione burkiana del primo periodo lo scrittopiù noto e di maggior successo è indubbiamente l’Enquiry, dicui Burke curò una seconda edizione nel 1759 con varianti edaggiunte, fra cui la più importante è 1"Introduzione" dedicataalla definizione ed analisi del concetto di “gusto”, scritta in“risposta” all’analogo saggio di Hume, di cui Burke non avevapotuto tener conto, essendo stato pubblicato pochi mesi prima. La distinzione fra l'idea del bello e quella del sublimeimpegna Burke nell’analisi delle passioni, considerate come<< organi della ragione », e da un punto di vista più generale,di ciò che attiene alla sfera del sentimento, soprattutto perquanto riguarda la sua capacità di saper percepire ed anticipare le conoscenze della ragione. Si tratta di rendersi conto diciò che viene prima della ragione, di ciò che la promuove e laorienta, di ciò che le consente di potersi “impadronire” dellarealtà che intende conoscere.Il sentimento, le passioni, rappresentano l’unione “vitale"fra il soggetto e la “cosa” oggetto della passione: il sentimentosi manifesta così come esperienza “vissuta”, che deve essereanalizzata per poter comprendere il fine specifico cui tende.Questa indagine ha un rilievo anche per la politica, dato chefra le passioni che sono proprie dell’animo del singolo individuo vi sono quelle che si riferiscono alla << più generale societàche ci unisce agli uomini e agli altri animali e che possiamo in

un certo senso dire ci unisca anche col mondo) inanimato >>. Per Burke la società è un “mondo umano", è una“totalità” che è il risultato di tutte le attività dell’uomo. Sitratta pertanto di “superare” il razionalismo proprio di unaconoscenza meramente (perché rigorosamente) empirica, cheproduce solamente verità aride e prive di vita, per far valereesigenze che scaturiscono dai nostri più veri ed autentici sentimenti. Si pongono così le premesse di una critica della filosofia di Hume, in particolare del suo scetticismo accademico,per i suoi effetti negativi non solo sul sentimento religioso, maanche per la coerenza e costanza degli uomini nell'assolvere ailoro impegni sia privati che pubblici, rilievo cui già si accennanelle “Note sulla religione”.Occorre riconoscere la specifica autonomia ed originarietà della religione, quale si coglie nell’esperienza religiosa,tramite la fede, il sentimento e la ragione. Come sappiamo,l'unione della fede e del sentimento si manifesta, per Burke,come “entusiasmo”, la nobile passione per i grandi ideali dellareligione, che occorre riconoscere come tali, nella consapevolezza che l’entusiasmo` nei suoi effetti è più vicino alla “grande e comprensiva ragione" che non la “comune ragione” cheopera secondo le regole dei luoghi comuni. Sussiste pertantola possibilità di una comprensione più profonda dell’esperienza, in sostanza della nostra vita, mediante l’armonico contemperamento di entusiasmo e ragione.L’entusiasmo eleva la ragione e le apre nuovi orizzonti ela ragione, a sua volta, controlla gli slanci dell’entusiasmo. Laricerca filosofica non può che informarsi al criterio di un armonico contemperamento della ragione e del sentimento e riconoscere che la conclusione delle sue indagini sta nel riconoscimento della saggezza divina come fondamento dei nessi edei rapporti delle relazioni, in ultima analisi dell’ordine che sirinviene nella natura dell'uomo. Il fine degli studi è l'elevazione della mente: << Con quanta maggior cura osserviamo lamente umana, più forti, più vive tracce troviamo ovunquedella saggezza di Colui che la creò. Se la dissertazione sull’utilità delle parti del corpo si può considerare come un inno alCreatore, l’utilità delle passioni che sono gli organi dellamente, non può essere priva di lodi a Lui, né incapace di destare in noi quella nobile e singolare unione di scienza e dìammirazione, che solo una contemplazione delle opere dellainfinita sapienza può dare ad una mente razionale; mentre riferendo a Dio tutto ciò che troviamo di giusto, di buono e dibello in sé stesso scoprendo la sua forza e la sua sapienza anche nella nostra debolezza ed imperfezione, onorando quellelà dove noi chiaramente le scopriamo e adorando la loro profondità là dove noi ci perdiamo nella nostra ricerca, noi possiamo essere indagatori senza impertinenza, ed elevarci senzainorgoglirci; possiamo essere ammessi, se cosi possiamo dire,nel consesso dell'onnipotente, attraverso una mediazionedelle sue opere. L’elevazione della mente deve essere il principale scopo di tutti i nostri studi, poiché se essi non la conseguono in qualche misura, sono di scarsissima utilità pernoi >>. Questo sentimento religioso costituisce l’ispirazionedi fondo dell'Enquiry: la conoscenza, che si basa certamentesui dati fornitici dall'esperienza quindi sulle nostre sensazioni,è promossa e sollecitata dai nostri sentimenti, e si avvale di

principi costanti, validi per tutti gli uomini, che la sottraggonoai condizionamenti ed alle incertezze dello scetticismo.La verità di Dio costituisce in Burke il presupposto checonsente alla ragione umana di pervenire ad un risultato positivo: la ragione non ha il suo fondamento solamente neiprincipi e nel metodo mediante i quali elaborare i dati dell’esperienza sensibile, liberandosi in tal modo dal condizionamento delle emozioni e delle passioni, ma anche nell'avvertenza e quindi nel riconoscimento del sentimento religiosoche la rende immediatamente partecipe della realtà di Dio.Per tal motivo la ragione acquisisce un’“apertura”, una “prospettiva” che le consentono di osservare e comprendere le articolate e complesse manifestazioni della natura umana, senzarinchiudersi in un astratto e arido intellettualismo che le impedisce un reale contatto con il mondo umano.Nell'introduzione dedicata al “Gusto", scritta con un sottinteso riferimento alle tesi sostenute da Hume nell'analogoscritto, possiamo cogliere le riserve che Burke formula neiconfronti dell’empirismo filosofico humiano e della connessaconcezione della razionalità. L’introduzione si richiama esplicitamente ad una ragione, fondata sulla comune naturaumana, che consegue risultati sicuri e fornisce pertanto principi obiettivi all'attività dell’uomo <<I poteri naturali dell'uomo a me noti, che sono in rapporto con gli oggetti esterni,sono i sensi, l’immaginazione e il giudizio. Noi crediamo edobbiamo credere che, come la conformazione dei vari organiè del tutto o quasi la medesima in tutti gli uomini, così modo di percepire gli oggetti esterni è in tutti gli uomini lostesso o lievemente diverso >>. Se invece riteniamo che << i sensioffrano ai diversi uomini immaginazioni diverse delle cose,questo scetticismo renderà vano e insignificante ogni sorta diragionamento su ogni soggetto, persino quello stesso ragionamento scettico che ci ha indotto a formulare un dubbio circal’accordo delle nostre percezioni >>.Non dobbiamo lasciarci trarre in inganno dalle differenzeche notiamo fra i pensieri, i sentimenti, i piaceri ed i gusti degli uomini: infatti << nonostante questa differenza, che ritengopiù apparente che reale, è probabile che la ragione e il gustoabbiano in tutte le creature umane le stesse caratteristiche.Poiché, se non vi fossero principi di giudizio, così come disentimento, comuni a tutti gli uomini, non si potrebbe farenessun affidamento sulla loro ragione e sulle loro passioni,tale da permettere l’ordinario rapporto di vita >>. Burkepuò affermare di conseguenza che lo scopo della sua “ricercafilosofica” << è di trovare se vi sono dei principi in base aiquali l’immaginazione è colpita, così generali, così fondati ecerti, da fornire i mezzi per ragionare in modo soddisfacenteintorno ad essi E tali principi del gusto io ritengo vi siano:per quanto paradossale ciò possa sembrare a coloro che, daun punto di vista superficiale, ritengono vi sia tanta diversitàdi gusti, sia nel genere, sia nel grado che nulla possa essere dipiù indeterminato >>.Secondo Burke la validità delle conclusioni frutto dell’analisi delle nostre sensazioni si fonda su principi intrinseci

alla esperienza, intesa come esplicazione dei “poteri naturali"dell'uomo. Fra i sensi, l'immaginazione e le idee sussistonorapporti fondati su principi costanti, che ci consentono dicomprendere non solo il nesso fra i sentimenti e l'attività razionale, ma anche di formulare conclusioni valide e convincenti. Attenendosi alla “logica” lockiana Burke nella sua analisi ritiene valido il rapporto causa effetto, rifiutandone la critica humiana: tiene a precisare che i principi con i quali analizziamo e valutiamo l’esperienza non sono << derivati da abitudini o da interessi >>, assumendo così, sia pure implicitamente, una posizione decisamente critica nei confronti dellaconcezione di Hume che fonda la validità delle conclusionitratte dall’esperienza sulla consuetudine; << E queste cause agiscono quasi uniformemente su tutti gli uomini perché agiscono in base a principi esistenti in natura, e non derivati daabitudini ed interessi. Amore, dolore, timore, ira, gioia, tuttequeste passioni hanno a turno colpito l’animo d’ognuno, enon in modo arbitrario e casuale, ma secondo principi certinaturali e costanti ». Fra i poteri naturali dell’uomo, come sappiamo, vi è l’immaginazione, alla quale Burke riconosce un ruolo rilevantenell’ambito delle passioni e nella formazione delle idee. Mal’immaginazione non è quella di cui ci parla Hume, la libera ein sostanza arbitraria capacità di invenzione dell'uomo << contutta l’apparenza della realtà >>, che deve essere controllatamediante la “credenza” (la convinzione convalidata dalla consuetudine): è invece il "potere creatore della mente" che è"affetta" da << principi così generali, così fondati e certi, dafornire i mezzi per ragionare in modo soddisfacente intornoad essi ». L’immaginazione, per Burke, non rappresental’insidia dell’irrazionale, ma è il vero centro motore delle passioni, dei sentimenti e dei pensieri dell’uomo: dall’immaginazione dipendono in sostanza l’esperienza del bello e del sublime e da essa promanano le passioni che si riferiscono allacostituzione e alla vita della società. Le idee non solo derivanodalle sensazioni, ma sono anche “create” dall’immaginazionee sono altrettanto importanti ai fini dell’attività umana quantole prime. All’immaginazione << appartiene tutto ciò che sichiama intelletto, fantasia, invenzione », sì che deve essereconsiderata come << il più esteso campo del piacere e del dolore il campo dei nostri timori e delle nostre speranze e ditutte le speranze ad esse connesse ».Il compito della ragione è quello di analizzare, suddividere, individuare le differenze fra due oggetti, fra le parti o glielementi di un tutto, quello dell’immaginazione intesacome “spirito”, fantasia, invenzione è di riconoscere le somiglianze, ciò che accomuna, che unifica. Questa operazioneè più gratificante per la mente di quella dell’analisi, perché« rilevando le somiglianze noi produciamo nuove immagini,coordiniamo, allarghiamo la nostra esperienza », mentrequando facciamo << distinzioni non offriamo alcun elementoall’immaginazione; il compito stesso è più severo e noioso »L'esperienza non è più una serie di dati di fatto, che la ragione conosce nella loro determinazione empirica, ma diventaessenzialmente “esperienza vissuta”, la “nostra” esperienza,

arricchita, allargata dall’immaginazione, sì che essa comprende a pieno titolo anche il bello e il sublime, che consentono di conoscere momenti ed aspetti particolarmente importanti dell’esperienza degli uomini. Di qui il valore di concretezza che Burke riconosce alla << pratica >> nei confronti dellateoria, al sentimento_ nei confronti della ragione, anche se ciònon significa sminuire l'importanza dell’analisi razionale edella sua incidenza sulla “pratica”: << Ritengo sia comunel'aver torto in teoria e ragione in pratica: e siamo ben lieti chesia così. Gli uomini sovente agiscono bene se seguono il lorosentimento, ma ragionano poi male su di esso per i loro principi; ma dal momento che è impossibile evitare un tentativodi ragionamento ed è ugualmente impossibile prevenire ilfatto che esso eserciti un influsso sulla pratica, vale certo lapena, affrontando pure qualche sofferenza di averlo esatto efondato sulla base di una sicura esperienza ».Il riconoscimento del ruolo primario della fantasia o dell’invenzione nell’attività di “ideazione” della mente ridimensiona la concezione illuministica della razionalità nella suapretesa di ridurre la realtà ai criteri meramente empirici. Laragione, avverte Burke, non riesce mai a comprendere ed adefinire in modo esaustivo la realtà, che per la sua complessità sfugge sempre ad una compiuta “presa di possesso" razionale La ragione illuministica, proprio perché è sicura dei suoirisultati conseguiti secondo una procedura rigorosamente razionale, finisce per rinchiudersi in se stessa, con il risultato diproporre una conoscenza limitata ed a volte astratta dellecose. Di qui la diffidenza di Burke nei confronti del primatodella definizione, « il celebrato rimedio » contro l’incertezza ela confusione; La definizione restringe l’orizzonte della nostraragione nell’ambito dei termini di cui ci serviamo per le nostre analisi, mentre la natura, la realtà, è di gran lunga più ricca, più articolata e complessa. Perciò, osserva Burke, vipossono essere « definizioni esattissime, eppure esprimonosolo approssimativamente la natura della cosa ».Le definizioni pertanto, più che acquisizioni di verità sicure e compiute, debbono essere considerate come le conclusioni di una ricerca di cui interessa analizzare con cura il“percorso” compiuto per pervenire ad esse. Al metodo d’insegnamento basato sulle definizioni, che ci offre << poche verità aride e prive di vita », Burke ritiene si debba sostituirequello della ricerca, per rendere consapevole l’allievo delmodo con cui si è pervenuti alla scoperta della verità: << ma da parte mia sono convinto che il metodo di insegnamento che più si avvicina al metodo di ricerca è incomparabilmente il migliore; dal momento che insoddisfatto di dare poche verità aride e prive di vita esso conduce alla loro genesi e tende a porre il lettore sulla traccia dell’invenzione e a dirigerlo verso quei sentieri che l’autore ha percorso per giungere alle sue scoperte ».l’avvertenza che non bisogna proporre verità “aride eprive di vita" significa per Burke che la ragione non deve stabilire una distinzione netta, una vera e propria separazione contrapposizione, con l’immaginazione, ma deve cercare di comprendere il rapporto che intercorre fra la sua “logica” equella dell’immaginazione, per una conoscenza più profondae più reale della natura dell’uomo. Anche l’immaginazione,grazie all’invenzione, alla fantasia che alimentano l'attività artistica in tutte le sue forme, esprime le verità della vita, e con maggiore immediatezza ed efficacia, anche se con minoreesattezza dal punto di vista della definizione logico concettuale. La cultura delle nazioni “più ignoranti e barbare”, secondo il criterio della ragione riflettente ed intellettualizzata, si esprime per

Burke proprio nell’ambito dell’immaginazione: queste nazioni se << sono state deboli e retrograde nel distinguere e nell’ordinare le loro idee, spesso hanno facilità nelle similitudini, paragoni, nelle metafore e nelle allegorie >>, con cui manifestano e “definiscono” mediante la loro produzione artistica le loro “verità di vita”.Esse esprimono proprie originarie culture e civiltà, che certamente non rientrano nei canoni dell’estetica e del gusto proposti dalla ragione illuministica, ma che rappresentano manifestazioni significative ed importanti dei diversi modi con cuisi manifesta, in diverse situazioni ambientali e storiche, la comune natura umana.In questa prospettiva volta ad evidenziare la funzionedella immaginazione nel processo cognitivo, Burke tende amettere in risalto la funzione che esercitano le passioni nellaconoscenza stessa, cercando di istituire fra la ragione e le passioni un rapporto dinamico contro la concezione associazionistica e meccanicistica di Hume. L’attività dell’ani1no umano ècaratterizzata dalle passioni, « gli organi della mente » secondo l’espressione burkiana, nel senso cioè che il processomediante il quale la mente attua le sue facoltà si origina, èpromosso e sostenuto dalle passioni. La conoscenza inizia conla prima e semplice “emozione” dell'animo, la curiosità, suscitata dalla novità. Ma la curiosità si esaurisce presto perché“consuma” rapidamente le novità che la suscitano; di qui lanecessità di rinnovare l’interesse dell’uomo con altre passioniche lo impegnino con maggiore forza e per un maggior lassodi tempo che, per Burke, sono il dolore e il piacere, e le passioni che da essi derivano.Queste due passioni non costituiscono per Burke lasomma di tutte le altre, sia sgradevoli che gradevoli, nel sensoche queste possono essere definite come successive gradazioni, o come diversa composizione delle due stesse passioni fondamentali: in effetti il dolore e il piacere sono due esperienze primarie e originarie, l’una distinta dall’altra, tanto chenon possono reciprocamente influenzarsi. Ciò significa cheBurke ha sostanzialmente abbandonato il metodo della psicologia associazionistica proprio dell’empirismo humiano per unmetodo che privilegia la descrizione delle diverse fondamentali esperienze emozionali ,e passionali dell’animo umano che riesca a coglierne il momento genetico e ad individuarne laspecifica funzione per quanto riguarda la riflessione, la conoscenza e il comportamento dell’uomo. Ciò consente di ottenere << un’analisi razionale delle nostre passioni necessaria pertutti coloro che vogliono comprenderle in base a principi solidi e sicuri >>, evitando così le incertezze e i dubbi di un’analisi meramente empirica. A tal proposito occorre avvertire chenon bisogna limitarsi ad una conoscenza “generale" delle passioni: « per penetrarle sottilmente o per giudicare con proprietà un'opera intesa a penetrarle, dovremmo conoscere i limiti esatti del campo in cui agisce ciascuna di esse, seguirlenella varietà di tutti i loro aspetti, e penetrare in profondo inquelle parti della nostra natura che possono sembrare inaccessibili >>.In questa prospettiva lo “stato di quiete” della nostramente (una sorta di “disincanto” nei confronti delle passioni),al quale fa riferimento Hume per garantire alla ragione di riflettere e di analizzare le idee, assume per Burke una valenzanegativa. La quiete dell'animo, il distacco concepito come assenza di dolore e di piacere è per Burke anche la “quiete” della ragione: la riflessione, il ragionamento, la razionalità scaturisce dalla tensione creata dall’esercizio e dal lavoro: « Il miglior rimedio per tutti questi mali è l’esercizio e il lavoro: e il lavoro è un superamento di difficoltà, è uno sforzo del potere di contrazione dei muscoli

e come tale assomiglia in tutto, tranne che nel grado, al dolore, che consiste nella tensione e nella contrazione. Il lavoro non è soltanto necessarioper mantenere gli organi meno delicati in uno stato adatto alleloro funzioni; ma è pure necessario agli organi più fini e delicati per mezzo dei quali agiscono l’immaginazione e forse le altre facoltà intellettuali più delicate del sistema ».Le passioni hanno un ruolo rilevante per quanto riguardala concezione della società e il ruolo degli individui nella suaformazione. A tal fine Burke distingue le passioni in duegrandi categorie, quelle che si riferiscono all’individuo comesingolo e quelle che attengono alla società, con l’avvertenzache tutte le nostre passioni sono finalizzate o all’uno o all’altra: << La maggior parte delle idee capaci di produrre una forteimpressione nella mente, sia semplicemente idee di dolore odi piacere o idee della modificazione di questi, può essere ridotta con una certa approssimazione a queste due principaliidee, la preservazione di se stessi e la società; ai fini dell'unao dell'altra delle quali si calcola rispondano tutte le nostrepassioni ».Intanto l’individuo e la società sono due “fatti originari"nel senso che la loro sussistenza si fonda sul processo mediante il quale si esprimono le passioni che sono proprie dell’uno e dell’altra. La conservazione di se stessi non corrisponde all’analogo principio considerato come norma fondamentale del comportamento dell’individuo in Hobbes, Locke e Hume, perché secondo Burke è intimamente connesso conle emozioni più forti, o impressioni che può provare l’animoumano e quindi con le idee di dolore, dì morte, di pericolo,dato che le idee di vita e di salute, benché producano piaceree gioia, non arrivano mai a provocare un’'impressione così intensa come le prime due. Così se per l'empirismo inglesel’istinto di autoconservazione esprime in ultima analisi il criterio dell'utile che a poco a poco con il progresso della ragione diventa la norma riconosciuta del comportamento etico sociale dell'individuo e pertanto fondamento della giustizia,del diritto, della proprietà, dell’ordine sociale, nonché dellastessa religione positiva, per Burke, invece, questo istinto èintimamente connesso al sentimento del dolore o del pericolo,che per essere << le più forti di tutte le passioni >> producononell’individuo « la più forte emozione che l’animo sia capacedi sentire », che lo libera dai determinismi dell’esperienza sensibile e gli manifesta la sua sostanziale individualità. In queste emozione consiste l’esperienza del “sublime”.Per Burke il connotato essenziale dell’individuo non è la“razionalità” cui si riferiscono Hobbes, Locke e Hume, ma lacoscienza del significato e del valore del suo esistere, acquisitacon l’esperienza fondante della sua “individualità”,'che è anche la più forte emozione che l’animo umano possa sentire,quella del “sublime”. Tramite questa “passione” l’uomo scopre il suo se stesso originario, acquista cioè coscienza dellasua esistenza, si distacca completamente dalla natura ed avverte l’esistenza di un Essere che lo domina, infinitamente superiore, dinanzi al quale l’uomo si sente come annullato, manello stesso tempo si percepisce come il soggetto di questaesperienza che lo costituisce nella sua originarietà, cioè comeun’esistenza sua propria, completamente distinta dalla realtàche lo circonda.

Nel sublime l'individuo, come ha giustamente rilevatoCassirer, ritrova la sua originarietà, riconosce un se stesso nondeducibile da qualsiasi altro tipo di esperienza, non più mero“registro” ed attento “organizzatore” del materiale che ricevedalla realtà esterna, ma attività creatrice di nuove idee, dinuovi valori. Il concetto di passione è così radicalmentecapovolto rispetto a quello di Hume, il quale non avrebbe maipotuto accettare la tesi burkiana che la passione più forte,l’emozione totalmente “possessiva" del sublime costituiscal’origine della ragione dell’uomo,' sia l'esperienza vitale mediante la quale l’individuo si appropria, assimila la realtà che lo circonda e comincia a pensarla. Per Burke la tensionedell’animo che si esprime nell’esperienza del sublime operauna immedesimazione del soggetto con il dato della realtà,dalla quale risulta un tipo di conoscenza “vissuta”, che anticipa, ispira ed orienta la conoscenza riflessa, la ragione: << Lapassione causata da ciò che è grande e sublime in natura,quando le cause operano con il loro maggiore potere, è lo stupore: e lo stupore è quello stato d’animo in cui ogni motosospeso, regna un certo grado di orrore. In questo casol'anima è così assorta nel suo oggetto, che non può pensarneun altro, e per conseguenza non può ragionare sull’oggettoche la occupa. Di qui nasce il potere del sublime che lungidall'essere prodotto dai nostri ragionamenti li previene e cisospinge innanzi con una forza irresistibile ».Dio, per Burke, è una verità di ragione, che trova unacorrispondenza nel sentimento, nell’immaginazione. A questapremessa si connette il problema dell'origine del rapporto uomo-Dio, del modo con cui viene avvertito, vissuto e pertantoconosciuto; solo se riusciamo ad acquisire il valore e il significato dell’originaria esperienza religiosa, possiamo comprendere il valore autentico della religione e renderci in tal modoconto di come la “verità" di Dio costituisca il primo e sicuropunto di riferimento della ragione e la “società” dell'uomocon Dio il presupposto e il fondamento della società degli uomini. Si tratta pertanto di indicare quale particolare esperienza ci consente di pervenire a queste conclusioni muovendo da un'accurata analisi delle passioni che si riferisconoal bello ed al sublime. Per Burke il Dio della ragione ha una sicura “testimonianza", una conferma, nella più significativa esperienza vissuta dell'individuo, quella del sublime: la religiosità dellaquale parla Burke attinge i suoi connotati essenziali e caratteristici, la sua inconfondibile tipicità per la quale non può essere risolta in altre manifestazioni od esigenze dell’animoumano (Hume), proprio dall’esperienza pre razionale del sublime. Il Dio della ragione, definito secondo le qualità e gliattributi che Gli riconosce la ragione, rimane lontano e distaccato dall'uomo, una “astratta verità” di ragione, che non impegna l’immaginazione << Affermi dunque che mentre consideriamo la Divinità puramente come oggetto di conoscenza,in quanto costituisce un'idea complessa di potere, di sapienza,giustizia, bontà, qualità tutte elevate a un grado che va moltoal di là dei limiti della nostra comprensione, mentre consideriamo la Divinità sotto questo aspetto raffinato ed astrattol'immaginazione e le passioni sono poco o per nulla affattoimpressionare >>.

Ma ben altro significato e valore si riconoscono a Dio allorché non viene considerato. come puro concetto dellamente, ed è invece presente al nostro animo, grazie alla nostraimmaginazione, nella sua espressione originaria di potenza infinita. In questo caso l’individuo partecipa dell’esperienza delsublime, in cui si sente come annullato di fronte alla potenzainfinita di Dio, dominato da un timore sacrale che nasce dalmanifestarsi della maestà divina: « Ora sebbene in una esatta idea della Divinità nessuno dei suoi attributi sia forse predominante, pure per la nostra immaginazione la sua potenza è digran lunga più notevole. Una riflessione, un confronto è necessario per convincersi della sua sapienza, giustizia, bontà.Per essere colpiti dal suo potere è solo necessario che noiapriamo gli occhi; ma mentre contempliamo un essere cosìvasto, come se fossimo sotto il braccio della sua onnipotenza,ci rannicchiamo nella piccolezza della nostra natura e ci sentiamo in certo senso annichiliti dinanzi a lui. E sebbene laconsiderazione degli altri suoi attributi possa alleviare in uncerto senso le nostre apprensioni pure nessuna convinzionedella giustizia con cui è esercitata; né dalla misericordia da cuiè mitigata, può completamente allontanare il terrore che nasce naturalmente da una considerazione di una forza cui nullapuò resistere. Se noi gioiamo, gioiamo con tremore, e persinonel momento in cui riceviamo un beneficio, non possiamofare a meno di rabbrividire dinanzi a una potenza che può distribuire benefici di tanta importanza. Quando il profeta Davide contempla i miracoli dì saggezza e di potenza che sonoevidenti nella costituzione dell’uomo, sembra colpito da unaspecie dì orrore divino e grida: “In modo terribile e meraviglioso io sono stato creato! ”... Ma solo la Sacra Scrittura puòoffrire idee conformi alla maestà di questo soggetto. Nella Sacra Scrittura, dovunque Dio è rappresentato mentre appare o'parla, tutto ciò che vi è di terribile in natura è chiamato a raccolta per rafforzare il senso di timoroso rispetto e di solennitàche la divina presenza suscita. I salmi e i libri dei profeti sonodensi di esempi di questo genere: “La terrà tremò, dice il salmista, il cielo pure si riversò alla presenza del Signore" >> .La religione in Burke si esprime sostanzialmente comeoriginaria esperienza di Dio, come il primo modo con cui Dioappare all’uomo e nel contempo l'uomo avverte la sua presenza, si rende conto della sua esistenza. La conoscenza diDio si richiama nella sua originarietà ad un’esperienza chenon può essere risolta nei principi e nei concetti della ragionefilosofica: la religione non può essere ridotta alla filosofia. Perl'esperienza religiosa Dio non è un'idea “chiara e distinta”: èl'infinita potenza che si manifesta all'uomo nell’assoluta indeterminazione visiva, nell'oscurità, come un Essere avvolto nelmistero, che suscita stupore attonito, terrore sacrale cioè lamassima tensione dell'animo, dalla quale l'uomo cerca di fuggire ma verso la quale si sente irresistibilmente attratto, partecipando così alla sua “verità". Il nucleo essenziale della religiosità appare cosi a Burke come manifestazione del sublimee quindi si esprime nella dimensione del tremendum, del misterium, del fascinans, del luminoso; di qui l'insistito richiamo

alla religiosità del Vecchio Testamento in particolare all’episodio di Giobbe che indica in modo emblematico come siesprima l’originario rapporto dell’uomo con Dio: << Vi è unpasso del Libro di Giobbe stupendamente sublime e questasublimità è dovuta principalmente alla terribile incertezzadella cosa descritta. “Nei pensieri derivati dalle visioni dellanotte, quando il sonno profondo cade sugli uomini, un timoremi assalì e un fremito mi scosse tutte le ossa. Allora uno spirito passò davanti al mio viso. I peli del mio corpo si rizzarono. Rimasi fermo ma non potei discernere la forma; un’immagine era davanti ai miei occhi; v'era silenzio ed io udii unavoce: Deve un mortale essere più giusto di Dio?" ».Che il sublime sia inizialmente connesso alla fondamentale esperienza del sacro è comprovato, secondo Burke, dallaconstatazione degli stretti rapporti dj colleganza di significatifra alcune parole, terrore, stupore, ammirazione, reverenza,rispetto: << Lo stupore,,come ho detto, è l’effetto del sublimenel più alto grado: gli effetti inferiori sono l’ammirazione, lareverenza, il rispetto... Varie lingue possono essere testimonidell’affinità di tali `idee. Esse spesso usano la stessa parola perindicare indifferentemente gli aspetti dello stupore, dell’ammirazione e del terrore. €·)étu[3og è in greco timore e stupore;òewoç significa terribile e rispettabile; otìòéw significa venerare o temere. Vereor è in latino quello che è otìoéw in greco.I Romani usavano il verbo stupeo, un termine che indica conforza lo stato di una mente stupita, per esprimere l’effetto odi un semplice timore, o dello stupore; la parola czttorzzfus(colpito dal tuono) esprime anch’essa l’affinità di taleidea >>.Anche la società ha una propria realtà, si avvale di una“autonoma” struttura nella quale l'individuo è inserito nongià per il suo consenso finalizzato alla ricerca dell'utile ma perl’impulso di << tutte le nostre passioni >>. Burke riconosce duetipi di società: “la società dei sessi” e la “società generale”. La prima, costituita dall’unione dell’uomo e delladonna, ha come scopo la propagazione della specie: non è determinata solamente dall'istinto, ma è promossa e sostenutadal sentimento della bellezza, che orienta l’uomo e la donnanelle loro scelte e che è l’oggetto di quella passione complessaindicata con il termine di amore: << Chiamo la bellezza unaqualità sociale; perché quando gli uomini e le donne, e nonsolo essi, ma anche gli altri animali, ci danno un senso di gioiae di piacere nel guardarli..., ci ispirano sentimenti di tenerezzae di affetto verso le loro persone; ci piace allora vederli vicino,ed entriamo volentieri in rapporto con loro, a meno che nonabbiamo forti ragioni per fare il contrario >>.La famiglia e i gruppi parentali costituiscono il presupposto della “società generale” che << ci unisce agli uomini e aglialtri animali, e che possiamo in un certo senso dire che ci unisca anche con il mondo inanimato >>. La società generale

pertanto, è una unità-totalità, nel senso che per il suo tramitele vite dei singoli si integrano fra di loro, talché non possonopiù sussistere se non nell'articolato sistema dei rapporti resopossibile dalla società, che tramuta anche il dato materialedell’insediamento territoriale in un rapporto di unione cioè inun sentimento affettivo che ci lega ai luoghi nativi. La societàgenerale offre all’individuo numerose occasioni di istituire"società particolari” dalle quali può trarre un “ particolare piacere": « Una buona compagnia, una conversazione animata el’affetto di un’amicizia riempiono l'anima di grande piacere >>;ma il vivere in società non implica che un temporaneo isolamento non sia << per se stesso piacevole », mentre << l’assolutae completa solitudine, cioè la totale e continua esclusione daogni società è un dolore tanto grande che a stento possiamoimmaginarlo ». Il rapporto individuo - società non deveessere inteso in modo “totalizzante", nel senso che all’individuo non venga riconosciuto un ambito di propria autonomia;il “temporaneo isolamento” ci consente di sottrarci agli impegni della società e di attendere ad esigenze di carattere contemplativo: la virtù dell’individuo sociale in Burke si esprimearistotelicamente nell'intimo nesso fra azione (pratica) e contemplazione (teoria): << Questo può forse provare che noisiamo creature nate tanto per la contemplazione che perl'azione dal momento che l’isolamento ha i suoi piaceri, cosìcome li ha la società >>.La società generale si presenta così come un sistemamolto articolato di relazioni che si fondano sulle passioni degli uomini tutte necessarie perché la società pervenga ai finiche le sono propri; per Burke possono essere ricondotte a trepassioni fondamentali: << Sotto questa denominazione di società rientrano passioni di un genere complicato, che si suddividono in varie forme, adatte a quella varietà di fini a cuidevono servire nella lunga catena della società. I tre principalianelli di questa catena sono la “simpatia”, l'“imitazione” el'ambizione >>.La simpatia è la più importante delle passioni sociali, permezzo di essa si forma il primo reale e sostanziale vincolo fragli individui che li fa sussistere come società. Mediante lasimpatia l’individuo partecipa ai sentimenti e all'attività deisuoi simili, perché grazie a questa passione ci immedesimiamonegli altri in una reale “partecipazione di vita”: ne consegueche le considerazioni e le scelte degli individui non sono tantoil frutto di una distaccata e tranquilla riflessione ma sono disolito promosse ed orientate dalla simpatia, cioè dalle vicendee dalle passioni delle persone con le quali si sono istituite relazioni: « Sotto l’impulso della prima di queste passioni siamoportati ad interessarci degli altri, siamo toccati da ciò che lìtocca, non possiamo rimanere più spettatori indifferenti di alcuna cosa che gli uomini possono fare o subire. infatti la simpatia deve essere considerata come una specie di sostituzione,per cui ci mettiamo al posto di un altro uomo e siamo colpiti,sotto molti aspetti, da ciò che colpisce lui; cosicché questapassione può o partecipare della natura di quelle che si riferiscono alla preservazione dì se stessi e improntandosi al dolore, può essere una causa del sublime, oppure rivolgersi ad

idee di piacere, e allora tutto ciò che è stato detto degli effettisociali, sia che essi si riferiscano alla società in generale, o soltanto ad alcune forme di esse, può essere qui applicato ».Per Burke la maggior parte delle nostre passioni è provocata dalla partecipazione “simpatetica” alle passioni degli altri, o ad avvenimenti, o a situazioni, quindi a fatti sociali ingrado di suscitare in noi quelle determinate passioni. Unapartecipazione si noti che non è promossa dalla ragione, proprio perché essa si manifesta come una specie di impulso equindi con una immediatezza che “anticipano” la ragionestessa, che, del resto, ha uno scarso potere nel suscitare lepassioni: << Temo che sia un metodo troppo comune nelle ricerche di questo genere attribuire la causa dì sentimenti chenascono semplicemente dalla struttura meccanica dei nostricorpi o dalla naturale costituzione delle anime nostre, a certeconclusioni della ragione sugli oggetti che ci vengono presentati; poiché sono propenso e credere che l'influsso della ragione nel destare le nostre passioni non sia affatto così estesocome comunemente si crede>>.Accanto alla simpatia l'altra fondamentale passione sociale è l'imitazione, per cui l’individuo è portato a ripeterequanto fanno i suoi simili. Essa esprime la naturale condiscendenza dell’uomo verso i suoi simili e presiede, per Burke, alla“cultura di base” di ciascun individuo, che per essere il risultato della reciproca imitazione dei comportamenti degli associati, si riferisce ad una comune cultura che, essendo frutto dicomportamenti, di abitudini e di consuetudini comuni, realizza e rafforza il vincolo sociale. Da questo punto di vista lasocietà ha una forte valenza pedagogica, che investe l’interapersonalità dell'individuo: « E per via dell'imitazione, moltopiù che per l'insegnamento, che noi impariamo; e ciò che apprendiamo per tale mezzo non solo lo apprendiamo in una forma più pratica, ma anche più piacevole. Così si formano lenostre abitudini, le nostre opinioni, le nostre vite. Limitazioneè uno dei più forti vincoli della società; è una specie di reciproca condiscendenza che gli uomini hanno l'uno per l’altro.spontaneamente, e che è lusinghiera per tutti >>.La terza passione sociale è l’ambizione, l’impulso che sospinge l’individuo a distinguersi dagli altri, ad affermare la sua“diversità” e la sua superiorità, e quindi ad innovare a volteradicalmente le convinzioni comuni e gli assetti sociali consolidati. Se la società si fondasse unicamente sulla simpatia esull’imitazione sarebbe condannata ad una piatta uniformità amotivo della monotona ripetizione di comportamenti completamente omologati, e, di conseguenza, ad essere governata secondo i principi di un tirannico conformismo: « tuttavia segli uomini. si dessero unicamente all'imitazione e ognuno seguisse l'altro, e così via, in ciclo continuo, è facile osservarecome non potrebbe mai esservi progresso fra di loro. Gli uomini, come i bruti, rimarrebbero alla fine identici a quello chesono oggi e che erano all’inizio del mondo. Per impedire ciò,Dio ha posto nell’uomo un senso di ambizione e una soddisfazione che nasce dalla vista della sua superiorità sui propri simili in qualcosa cui essi attribuiscono valore >>. L'ambizione rappresenta, pertanto, il principio dell’individualismo

come innovazione, come impulso a superare il proprio similee quindi a non ripetere passivamente ma a fare di più e meglio: da questo punto di vista essa è anche il principio del“movimento” della società e del suo progresso. L'ambizionesollecita infine la dialettica delle passioni sociali, che costituisce la dinamica dell'articolato e complesso sistema delle relazioni sociali sul quale si fonda l'ordine politico della società.'La società generale, che comprende gli uomini, le lorocose e l’ambiente in cui vivono, è un vero e proprio “mondoumano" (secondo l'espressione vichiana) che affonda le sueradici nella struttura più profonda della natura umana. Ha unautonomo fondamento essendo la necessaria “espressione”delle passioni dell’uomo, che la formano e la fanno sussisterecome una unità-totalità, che include in sé tutte le manifestazioni della vita degli individui. Per tal motivo l’ordine politicoe la corrispondente organizzazione politica sono intimamente connessi, possiamo dire “vitalmente” connessi con la societàgenerale, ne sono una essenziale espressione. Di qui il rifiutodi Burke di ridurre la politica al momento dell’utile, alla razionalità utilitaristicamente intesa, infine alla civiltà comeespressione della sola ragione, che si è finalmente affrancatadalle passioni e che sa quindi porsi come obiettivo l’utile sociale. Ma in questo caso la ragione si separa dalla vita, dallaconcreta realtà umana, mentre la politica e in particolare ilpotere debbono invece continuamente confrontarsi, “convivere" con quella realtà che è, come si è visto, caratterizzataproprio dalla dialettica di quelle passioni che la ragione dovrebbe mettere fra parentesi prima di esprimere il suo giudizio.Il potere, proprio perché rappresenta l'esigenza che l'ordine politico sussista nella sua effettività, prima di essereun’istituzione positiva che si fonda sull’ordinamento politicoe sugli interessi sociali che tutela, esiste come “entità” che silegittima mediante le passioni connesse al “sublime", il timore, la reverenza, il rispetto: « In realtà è così naturale questa timidezza nei riguardi del potere ed è così fortementeconnaturata in noi, che pochissimi sono capaci di vincerla, senon col mischiarsi molto negli affari del gran mondo, o conl’usare non poca violenza alle loro naturali disposizioni ».Il potere si esprime inizialmente, originariamente, nella sferadel sacro, cioè nell’esperienza delle passioni e dei sentimentiche sono connessi e derivati dal “sublime”, di qui la maestà el’assolutezza del Supremo reggitore come manifestazione diquel sacro che lo legittima a decidere della vita e del destinodei singoli e della comunità.La politica è “all'inizio” strettamente connessa con la religione, per certi aspetti deriva dalla religione: la distinzione ela dialettica contrapposizione fra religione e politica propriadell'esperienza cristiana nell’illuminismo di Bolingbroke, diVoltaire e di Hume è risolta sul piano di una razionalità checostituisce e legittima il potere e che riduce la religione ad unmezzo di governo trasformandola in un'utile “macchina politica", In tal modo il potere è del tutto scisso e in sostanzacontrapposto al “sacro”, la cui esperienza è considerata la

fonte delle superstizioni che rendono così difficile il progressocivile degli uomini. Ma in questo caso la sfera del “sacro”,come esigenza di avvertire e concepire l’assoluta grandezza dacui dipende l’ordine delle cose e degli uomini, si ricostituisceall’interno del potere, che rivendica una propria autonomaforza ed energia che rendano effettive le sue decisioni e i suoicomandi senza i quali la società si disarticola in una caoticamoltitudine di gruppi e d’individui in continua lotta fra diloro. Così quando la ragione intellettualistica, di solito occupata << nel riscontrare motivi di errore sulla via dell’immaginazione, nel dissipare le scene del suo incanto », dissolve con lasua critica le passioni e i sentimenti che attengono alla sferadel potere, per renderlo un'istituzione di pura ragione, inrealtà lo riporta alla sua originaria manifestazione di onnipotenza, con l’aggravante della convinzione che le sue decisionie i suoi comandi corrispondono in tutto e per tutto alla veraragione e al bene della comunità. Disconosciuti i limiti delpotere posti dal sacro, vengono a cadere quelli posti dall'eticae dalla ragione a motivo dell’identificazione di potere e ragione, per cui il primo non può non volere che il vero e il bene. Di qui l’in1portanza secondo Burke dei modi con cui si“rappresenta", e nello stesso tempo si “circoscrive” la “potenza” del potere, cioè i simboli e il cerimoniale, che secondoBurke appartengono all'“estetica” del potere e promuovonoin noi con immediatezza quei sentimenti che sono il presupposto dei limiti del potere.Nella P/ozlosop/vical Erzquiry Burke, pur avvalendosi della terminologia filosofica e della gnoseologia dell’empirismo di Locke, finisce poi col “tramutare” 'l’esperienza empirica nell'esperienza della vita dell'individuo e della società, sul modello dell’esperienza estetica del sublime e del bello. Va rilevato a tal proposito che in Burke la passione non indica tanto una mera sensazione non depurata della sua forza e vivacità iniziali, non intellettualizzata, quanto l’unione “vitale” dell’individuo con larealtà che lo circonda, una vera e propria presa di possesso di questa realtà, che si tramuta nell'individuo in forza ed attività creatrice, che risolve in sé, unificandoli in modo originale, tuttii dati forniti dalle sensazioni. La politica può guardare ormai al “tutto” della società, considerata nella dinamica delle passioni che la fanno sussistere e quindi delle “forze” che la costituiscono e la promuovono nel corso di un lungo processo storico.La politica “riscopre” cosi la storia come la dimensione in cui è possibile cogliere il valore e il significato della sua attività.

CAPITOLO QUINTO

STORIA E POLITICA

Negli anni immediatamente seguenti alla Vindication e all’Enqury Burke si dedico, come si e accennato, alla composizione di un’opera di carattere storico, An Essay towards an Abridgment of English History, che secondo gli accordi con l’editore Dodsley avrebbe dovuto comprendere l’intera storia inglese dalle origini sino alla regina Anna. L’Abridgment non corrispondeva solamente al vivo interesse per gli studi storici che aveva caratterizzato la sua formazione culturale; riprendeva e per molti aspetti continuava il discorso che aveva iniziato con la Vindication, cioè con la concezione del rapporto fra religione, filosofia, politica e storia, quale era stato proposto da Bolingbroke, alla cui opera si richiamavano gli autori che avevano espresso gli orientamenti più significativi della storiografia dell’ultimo ventennio, Voltaire, Montesquieu, Hume. L’Abridgment doveva tener conto non solamente dei nuovi orientamenti storiografici, ma anche della tradizione

della storiografia erudita, di Rapin Thoyras, la cui opera, nonostante le riserve di Burke, offriva un insostituibile punto di riferimento per un’informazione approfondita sulla storia inglese basata su un’attenta ricognizione delle fonti. Il lavoro dovette rivelarsi ben più impegnativo di quello previsto: si trattava di approfondire gli studi per il periodo delle origini e del medioevo, sul quale gravavano incomprensioni e decise condanne da riconsiderare criticamente, mentre sino a quel momento i suoi interessi di storia inglese si erano concentrati sul periodo moderno, con particolare riguardo alla storia irlandese. Nel 1759 aveva avuto proprio con Hume una vivace discussione sulla tradizionale condanna da parte degli storici inglesi dell’insurrezione irlandese del 1641. Lo studio delle origini e dell’età medievale sino a Govanni senza terra e la relativa redazione della storia occuparono Burke dal 1757 sino al 1762. Molto probabilmente i nuovi impegni connessi con l’inizio della sua promettente carrierapolitica che lo induceva a dedicarsi alla pubblicistica politicacontemporanea (il saggio sulla Popery Law) lo convinsero adinterrompere definitivamente il suo lavoro: rimasto inedito, fupubblicato postumo nel 1815. Va inoltre rilevato che il periodo storico trattato nell' Abridgment aveva in sostanza esaurito gli interessi storiografici di Burke, concentrati sul problema dei rapporti fra giustizia, diritto e storia con riferimento alle origini e alla formazione storica delle leggi e delleistituzioni politiche inglesi, considerate in una prospettivamontesquiviana e con una visione preromantica della storiamedioevale inglese.L' Abridgment inizia con il periodo della dominazione romana, si sofferma sull’insediamento sassone, sulla diffusionedel cristianesimo e del monachesimo, sulle leggi ed istituzionisassoni, sulla serie dei re sassoni; tratta poi dell’insediamentodei Normanni e della monarchia normanna, da Guglielmo ilconquistatore sino a Giovanni senza terra, prestando particolare attenzione per questo ultimo periodo ai contrasti e agliscontri fra monarchia, aristocrazia, chiesa e popolo delle città,che si sarebbero poi conclusi, dal punto visto politico-costituzionale, con la concessione della Magna Carta, il primo riconoscimento delle fondamentali libertà inglesi. La storia dell'Inghilterra, come storia della nazione e dello Stato inglesi, èvista in stretta connessione con la storia della formazione dell’Europa come repubblica cristiana (la diffusione del cristianesimo), per gli essenziali rapporti con gli eventi storici europei, in particolare quelli del nord Europa (i Sassoni, i Danesi,i Normanni), per la dialettica fra potere temporale e spirituale- l’impero e il Papato - che si riflette a volte in modo determinante nella politica inglese; per l’importanza che rivestono le crociate che coinvolsero tante nazioni europee, compresa l’Inghilterra; per le comuni leggi ed istituzioni feudali.Ciò che colpisce chi legge Abridgment è proprio la consapevole affermazione da parte di Burke della dimensione europeadella storia relativa alla formazione della nazione e dello Statoinglesi.La premessa all’indagine storica svolta nell’ Abridgment ‘ èdata da un “Frammento”, dedicato a un saggio sule leggi Inglesi, in cui si indicano i criteri storiografici seguiti e si sottolinea, con un implicito richiamo ai capitoli trentesimo e trentunesimo dello Spirito delle legge, il decisivo contributo della ricerca storico-giuridica per la storia dei “tempioscuri” (le origini) dell’Inghilterra. Si tratta di rendersi contodelle fasi del processo di formazione delle leggi inglesi, chevanno considerate in stretta connessione con gli eventi storici,secondo l’avvertenza montesquiviana che << bisogna illuminarela storia con le leggi e le leggi con la storia ».

<< Fra gli oggetti della nostra curiosità - nota Burke - nulla di più razionale delle origini, dei progressi e delle rivoluzioni delle leggi umane, Gli eventi politici e militari sonocaratterizzati dall'ambizione e dalla violenza; la storia delleleggi invece è la storia della giustizia. Non vi è indagine piùgratificante di quella che cerca di tracciare i progressi degliuomini nel tentativo di imitare il Supremo Reggitore in unodei suoi più gloriosi attributi; e di considerarli nell’esercizio diuna prerogativa che desta meraviglia sia affidata alla gestionedi un essere così debole. Nel corso di questa ricerca incontriamo spesso prove di questa “fragilità”, ma nello stessotempo riscontriamo tali nobili sforzi di saggezza e di equità,da giustificare pienamente la ragionevolezza di quella straordinaria disposizione, per cui gli uomini, in un modo o nell'altro, si sono sempre posti sotto il dominio di persone simili aloro. Che cosa di più istruttivo che rintracciare le prime e nascoste fonti di quella giurisprudenza, che oggi “irriga”ed arricchisce intere nazioni con così copiose inondazioni; che osservare il manifestarsi dei primi principi del DIRITTO, involtinella superstizione e contaminati dalla violenza, finché con ilpassare del tempo ed a seguito di circostanze favorevoli essihanno potuto farsi valere in modo chiaro; le leggi, talvoltaperdute e seppellite nella confusione delle guerre, dei tumulti;e talvolta soverchiate dalla mano del potere; poi, vittoriosesulla tirannia; diventando più forti, più certe, più ferme per laviolenza che hanno sofferto; arricchite proprio da quelle conquiste straniere che cercarono di distruggerle; dirozzate e mitigate dalla pace e dalla Religione; promosse ed esaltare dalcommercio, dalla vita civile e da quella scienza sincera cheapre le menti? >>.Il diritto, le leggi e la giustizia non sono per Burke la meraespressione del loro contesto storico, ma scaturiscono daun’esigenza costitutiva dell’umanità dell’uomo che trova fondamento nella sua connaturata religiosità, << in an attempt toimitate the Supreme Ruler in one ot the most glorious of hisattributes >>. Ed è proprio l'insopprimibile esigenza di giustizia che costituisce il principio dinamico del diritto e che hainsieme alle altre esigenze e passioni degli uomini una partedeterminante nella generale dinamica della storia.Burke polemizza contro i fautori della concezione diun’originaria e perfetta legge inglese che si sarebbe conservatainalterata per tanti secoli; contro le concezioni politico-partitiche della legge sostenute dai Tories e dai Wighs (per i primi la legge deriverebbe unicamente dalla volontà del re, per i secondi da precise istanze e richieste del popolo); infine controi teorici di un sistema di leggi originariamente e tipicamenteinglese cresciuto su se stesso, senza alcun apporto di leggistraniere, che sarebbero state sempre espunte dalla legislazione inglese ogni qual volta si tentò di inserirle.Tutte queste interpretazioni sono sostanzialmente astrattenel senso che non tengono conto della realtà, cioè della suaconcreta dinamica, che può essere compresa solamente nelladimensione storica: lusingano la vanità nazionale e la grettezzaprofessionale, espongono i loro sostenitori a << macroscopichecontraddizioni >>, a tali << assurdità che sarebbe ridicolo menzionarle >>.

Il corpo delle leggi inglesi sino al periodo normanno l’originario nucleo storico - si riferisce a tre fonti principali:gli antichi, tradizionali costumi delle genti del Nord Europa,che furono diffusi con le conquiste a‘ seguito delle invasionibarbariche e che essendo conformi al << genio >> del popoloformarono << il grande corpo e il principale flusso delle leggisassoni »; i canoni della Chiesa, che se non erano ancora statiricondotti a criteri uniformi di interpretazione, contribuironoa correggere, mitigare e perfezionare le rozze istituzioni deipopoli del Nord; alcune parti del diritto romano e le consuetudini della altre nazioni germaniche. iIl problema della formazione storica della società inglese,delle sue leggi ed istituzioni, induce Burke ad una riflessionesulla “originaria” società britannica sulla base delle fonti antiche, greco-romane, delle nuove acquisizioni degli “antiquari”,degli usi, delle tradizioni, dei “monumenti” dei popoli diquelle età, di una maggiore consapevolezza dell’influenza chela collocazione geografica e le condizioni ambientali ebberosulla vita di quelle antiche popolazioni. Basti accennare cheBurke dedica il primo libro dell’ Abridgment alle origini dellasocietà britannica ed alla dominazione romana, soffermandosiin modo particolare sui costumi, sulle tradizioni e le istituzioni religiose di quella società per rilevarne le essenziali caratteristiche e per illustrare poi i criteri cui si informò l'amministrazione romana della Britannia, in particolare nel periododel tardo Impero.Secondo le notizie tramandateci da Cesare nel De belloGallico le primitive popolazioni britanniche provennero dallavicina Gallia: i Celti, i Belgi e gli Aquitani, che si insediaronorispettivamente nel centro, nel nord e nel sud dell’isola. Iprimi, dediti alla caccia e alla pastorizia, furono spinti versol’interno dai Belgi, che poterono realizzare stabili insediamenti sulle zone costiere, grazie all’agricoltura che costituivala loro principale attività. I costumi e i caratteri erano sostanzialmente quelli delle popolazioni della Gallia descrittici daCesare, << impazienti, fieri, incostanti, vanitosi, vanagloriosigamanti delle novità e come tutti i barbari, fieri, infidi e crudeli ». L’arte militare era sostanzialmente inesistente: eranotemibili solamente per la destrezza nel predisporre imboscate.Fra i Britanni, come del resto fra tutte le altre nazioni primitive, erano del tutto inesistenti vincoli di carattere “politico” o “civile”: l’unica forma di “autorità” cui facevano capole relazioni dei gruppi parentali era quella del padre di famiglia, al quale era riconosciuto il potere di vita e di morte sututti i componenti della stessa famiglia che comprendevano iliberi e i servi. A1 di sopra dell’autorità paterna era riconosciuta quella dei sacerdoti, i Druidi, che, oltre ad amministrare il culto con cui si sancivano le più importanti deliberazioni comuni, esercitavano tutti i poteri di suprema giurisdizione sui liberi e sulle famiglie: la religione esprimeva così leconvinzioni comuni dei Britanni necessarie a rinsaldare il sentimento di appartenenza ad una comunità politica. Burke sisofferma sulla teologia dei Druidi, fondata sull’immortalitàdell’anima, sulla metempsicosi, sulle loro conoscenze astronomiche, geografiche, di matematica e di medicina mista a pratiche magiche, sulla loro capacità di celebrare con canti

eroi della comunità e di tradurre il loro sapere in massime redatte in versi, sulla loro arte divinatoria. Era una religione chedivinizzava la natura, i fondamentali elementi naturali ilfuoco, il sole, la luna, i pianeti, l'acqua; teneva in particolarevenerazione le querce e le foreste.La religione non è una “superstizione” che alimenta il terrore o le assurde fantasie degli uomini, e quindi l'efficacestrumento per realizzare la tirannia della casta sacerdotale, maè la prima forma di sapere dei popoli primitivi, compresiquelli più “acculturati”, i Greci e i Romani; è quella concezione della vita e del mondo che, tradotta nei simboli e nelleforme del culto, rende possibile la prima forma di ordine civile e politico della società: « The first openings of civilityhave been every where made by religion: amongst the Romans, the custody and interpretation of the laws continuedsolely in the college_ of the pontifs for above a century >>.Essa pertanto rappresenta il principio d’identità di quella società primitiva, ciò che le consente di riconoscersi comeun'unità di intenti, finalizzata soprattutto alla difesa contro gliinvasori o a sostenere la ribellione contro gli oppressori: Burke ricorda la crudele strage dei Druidi ordinata dal comandante romano Paulino, per privare i Britanni dei loro capi“spirituali” che promuovevano e sostenevano la resistenzacontro l’invasore.Il progetto di estendere a consolidare il dominio romanosulla Britannia fu ripreso nel 42 d.C. da Claudio e le operazioni militari, a causa della strenua resistenza delle popolazioni britanniche, si protrassero per circa trent’anni prima cheil dominio romano, durante l’impero di Vespasiano, graziealla saggia condotta militare di Agricola, potesse stabilmenteinsediarsi. Agricola sa che la forza militare da sola non riescea sottomettere i popoli: la conquista per essere duratura nondeve essere l'occasione per instaurare una tirannia. Il dominio pertanto deve essere temperato e legittimato dalla partecipazione dei dominati alla civiltà dei vincitori e da un rapportodi collaborazione ad intenti comuni. Agricola riuscì a “riconciliare” i Britanni ai Romani, proponendo ai Britanni tutti ivantaggi della civiltà dei Romani. Egli sottomise i Britannirendendoli civili e li indusse a scambiare una << selvaggia libertà » con una << civile e lieve >> sottomissione. << La sua condotta, conclude Burke, è il modello perfetto per coloro cui èaffidato l’infelice ma necessario incarico di sottomettere unrozzo ma libero popolo >>.Burke si sofferma in dettaglio sulle vicende dell’amministrazione romana nella Britannia da Adriano (171) sino adOnorio (432), quando l’isola fu di fatto abbandonata dalleforze romane, per sottolineare gli eventi e gli episodi in cui èdato riscontrare un certo ruolo che la Britannia ebbe nellafase del tentativo di consolidamento dell’Impero e poi nel periodo della decadenza e della fine. La dominazione romana,protrattasi per circa quattrocento anni, non riuscì a promuovere nella Britannia una stabile organizzazione politico-amministrativa in grado di poter contrapporre una valida difesadell’isola dalle incursioni dei suoi nemici. Per questi motivi,quando i Romani abbandonarono l"isola (432), i Britanni nonriuscirono ad esprimere un governo in grado di far fronte agli

attacchi degli invasori.L’intesa raggiunta di riconoscere un re, garanti per uncerto periodo la pace interna e consentì di organizzare la difesa nei confronto dei Pizi. Nel 447 i Britanni, constatatal’impossibilità dì continuare a far fronte agli attacchi dei nemici, avendo perso ogni fiducia nel loro re e in fondo in sestessi, decisero nell'assemblea nazionale di chiamare in aiuto iSassoni, una popolazione del nord della Germania, nota perla sua forza e per il suo valore militare. L'aiuto si trasformò inbreve volgere di tempo in una vera e propria invasione, che siconcluse con lo stabile insediamento dei Sassoni e dei loro alleati, gli Angli, nella Britannia e con il totale assoggettamentodei Britanni, che se non furono ridotti in schiavitù, come sostengono alcuni storici (Hunie), furono privati di ogni dirittopolitico, “degradati" precisa Burke, una specie di capzìzlv demizmtzo: in effetti furono dissolti come “nazione”, la loro religione e la loro lingua furono cancellate, e furono assorbiti dainuovi dominatori, gli Anglo-Sassoni.La storia degli Anglo-Sassoni dai loro primi insediamentisino alla costituzione della monarchia è caratterizzata dallamancanza di fonti storiche attendibili: le cronache di quel periodo non sono altro che una rappresentazione fantastica dellegesta dei personaggi leggendari di quei tempi. Sono narrazioni, osserva Burke, che offrono tanti spunti per i poeti e suscitano invece tante perplessità negli storici: in effetti è il“tempo" mitico ed eroico della nostra nazione.L’Inghilterra anglosassone esce da questo periodo“oscuro" con la diffusione del cristianesimo a seguito dellamissione del priore del monastero di S. Andrea, Agostino,promossa dal papa Gregorio Magno, e della conversione diEthelbert, re del Kent, e della sua nobiltà: secondo Burke, fula “rivoluzione” più rilevante della storia inglese: << nor isthere indeed any revolution so remarkable in the English History >>. L’importanza del cristianesimo nel processo diformazione della società civile e politica inglese durante ilmedioevo è sottolineata da Burke nel capitolo secondo delterzo libro dedicato allo « Stabilimento del Cristianesimo,delle istituzioni monastiche e dei loro effetti >>.I successi dello zelo missionario dei monaci nell’opera diconversione del popolo furono dovuti non solamente alla lorovita pia ed austera ma anche al fatto che cercavano di istruireil popolo nelle attività necessarie a soddisfare bisogni primaridella vita civile: Burke ricorda l’iniziativa del vescovo Wilfridvolta a diffondere fra le popolazioni della costa del Sussexl’arte della pesca, da loro prima non praticata, offrendo cosìad esse la possibilità di affrancarsi da una situazione di totalemiseria, che spingeva molti al suicidio. L’attività dei monasteriera in sostanza ispirata alla costante preoccupazione di conseguire il bene` del popolo. `Quando i re donavano alle chieseterre che erano state conquistate ai loro nemici pagani, il clerobattezzava e liberava da ogni peso i nuovi vassalli; si avvalevano della benevolenza dei dotti e dei consiglieri per indurli amitigare il rigore della legge di conquista: << essi gioivano nel

vedere la religione e la libertà avanzare con un uguale progresso >>.Per Burke nulla merita maggiore lode che lo zelo dei monaci per la libertà delle persone: nei loro canoni, come nelletransazioni stipulate con i grandi proprietari, era sempre inserito un preciso richiamo a favore della libertà. Le penitenzeerano finalizzate ad atti di beneficenza, per cercare dì trarredalle azioni malvagie occasioni per operare il bene; il (grandefeudatario penitente era sollecitato a liberare i propri schiavied a redimere quelli degli altri, oppure gli si suggeriva di riparare le strade, di costruire chiese, ponti e di provvedere adaltre opere di pubblica utilità. I monasteri erano le uniche organizzazioni con carattere di perenne continuità, ai quali si rivolgeva chi desiderava istituire lasciti patrimoniali per soccorre i poveri, sicché essi rappresentavano l'unico canale attraverso cui la liberalità dei ricchi passava in un continuoflusso ai poveri, che potevano sempre contare sul soccorsodelle istituzioni monastiche.La confidenza che il monachesimo aveva suscitato in tuttele classi sociali per le sue austere regole di vita, ben lontanedall’avarizia e dal desiderio di ricchezza che lo caratterizzò nelsecolo successivo, promosse la crescita dei monasteri. Essitrasformarono, mediante bonifiche e dissodamento di terreincolte, i siti sperduti in cui si erano insediati e costruironosplendide abbazie, che non furono solamente centri di vitareligiosa, ma ebbero anche un ruolo rilevante nella vita civilee politica. I monasteri e le abbazie rappresentarono in queitempi di ricorrente anarchia politica, caratterizzati da guerrecontinue, un luogo di sicuro rifugio per re, principi, conti,grandi feudatari, rispettato di solito da tutti i contendenti. Daquesto fatto nasce il diritto di immunità che fu poi riconosciuto ufficialmente ai monasteri ed alle terre di loro proprietà, il che consentì di allargare la possibilità di rifugio atutte le classi sociali, in particolare al popolo minuto, maggiormente esposto alle vessazioni dei feudatari. In tal modo imonasteri esercitavano un importante ruolo volto a contenerela feroce lotta politica ed a proteggere le classi meno abbienti:grazie alla loro influenza L’interpretazione delle “barbare”consuetudini e leggi cominciò ad essere informata a criteri diequità e di umana considerazione.I monasteri furono anche gli unici centri di attività culturale e di diffusione di “sapere civile": se lo spirito del monachesimo, come si suol ritenere, contribuì alla decadenza dellescienze nell’Impero romano è certo però che la diffusionedella cultura e della civiltà nel Nord Europa fu merito esclusivo dell'iniziativa e dell’impegno dei monaci. Si noti a talproposito che la spiegazione e l’approfondimento dei testi sacri richiedeva una cultura che si riferiva alle scienze, alle lettere, alle arti delle civiltà latina e greca: la conoscenza dellalingua latina necessaria per tutte le funzioni del culto, per il“governo” delle istituzioni ecclesiastiche e per le loro relazioniin Inghilterra e con Roma, implicava naturalmente lo studiodegli autori classici, che erano stati salvati dal naufragio dellaletteratura antica. Grazie a quelle esigenze ed a quegli interessi di carattere religioso-culturale furono trasmessi sino ainostri giorni quegli inestimabili “monumenti” della letteratura

e della scienza classica, che sarebbero certamente stati distrutti in occasione dei saccheggi, delle rapine, delle stragi checaratterizzarono quei tempi dell’alto medioevo.Burke rileva inoltre l’importanza dei pellegrinaggi, promossi dalla religiosità cristiana diffusa ed alimentata dal monachesimo, che, se possono essere oggetto di riserve e critiche, risultarono di sicuro vantaggio per la cultura. Le loromete erano Roma, che ancora conservava il poco che si erasalvato dalla rovina dell’Impero; Gerusalemme, che li portavanel cuore dell’impero greco, ove erano vivi gli antichi studi,cui si aggiungevano nuove conoscenze nell’ambito delle arti.Quando gli Arabi occuparono la Palestina i pellegrini ebberol'occasione di apprendere le nuove scoperte di “quel popololaborioso". Essi stabilirono pertanto, in quei tempi così avversi, contatti fra l’isola e tante altre nazioni di cui si sarebbeappena avuto notizia, portando in patria tante informazioniche non si riferivano solamente ai miracoli e alle leggende, maanche a nuove conoscenze utili per le esigenze della loro vita.I pellegrinaggi in tal modo preservarono, rileva Burke, quelloscambio di relazioni proprio del genere umano, che nell’etàmoderna è garantito dalla politica, dal commercio e dalla “curiosità colta".Proprio quei viaggi portarono in Inghilterra i semi del sapere e del progresso, che furono coltivati nella tranquillità enel rifugio dei monasteri, le uniche istituzioni che potevanoassolvere a tale compito che richiedeva una categoria di persone che fosse libera dal condizionamento degli impegni dellavita quotidiana e che, dati i tempi, non fosse assillata dalla totale incertezza del domani, dal timore di un'incombente miseria e di imminenti pericoli di vita. In effetti, osserva Burke, laconservazione e la diffusione del sapere furono rese possibilidal fatto che la vita contemplativa era stata distinta e separatadal resto della comunità, garantendole uno status particolare,come condizione necessaria per poter svolgere il suo ruolo diconservare ed alimentare la fede ed il sapere, che avrebberodato un contributo essenziale alla “civilizzazione” della società inglese e del nord Europa. C'è in queste considerazioni di Burke l’implicita affermazione del primato della vita “contemplativa” su quella pratico-operativa, della conoscenza teologico - religiosa, filosofica, letteraria, su quella delle arti e dei mestieri, come necessaria premessa storica di quella civiltà delsapere che rende possibile e continuamente promuove le conoscenze utili all'uomo e alla società: in altri termini il ,bios ..... presuppone per quanto riguarda la nascita deinuovi popoli e delle nuova società europee il ,bios ..... intimamente connesso, come la storia ci ricorda, al sentimento religioso. Né va dimenticato che un contributo notevole alla culturainglese fu dato dai prelati stranieri nominati dal Papa per meriti religiosi e vasta dottrina alla più alta carica ecclesiasticainglese. Fra questi Burke ricorda il settimo arcivescovo diCanterbury, il greco Teodoro, che introdusse intorno al 669 lostudio della lingua greca in Inghilterra, creando a tal fine unascuola presso la cattedrale, dotandola di preziosi manoscrittigreci fra i quali un “magnifico codice contenente i poemiomerici: << and thus the other great fountain of knowledge,the Greek tongue, was opened in Englandu. >>. Se il sud dellaInghilterra si giovò del diretto “canale" con Roma per promuovere e diffondere la cultura; nel nord dell'Inghilterra tale

esigenza fu assolta da due monasteri, quello di Hii e quello diDurham che furono riconosciuti con giudizio concorde comeautorevoli centri di dottrina religiosa e di sapere “profano". Nell’opera del << venerabile >> Beda, il più dotto religiosodi quel periodo, si esprime, a giudizio di Burke, l’impegnodella cultura ecclesiastica di connettere le esigenze di un approfondimento della dottrina religiosa con una esposizione sistematica delle conoscenze che si riferivano alle discipline ealle arti tramandate dal mondo classico. Di Beda, oltre agliscritti di commento alle Sacre Scritture, ad argomenti di filosofia naturale, dì grammatica, di retorica, di etica, vanno ricordati gli scritti storici, in particolare la sua Historia ecclesiastica, che rimane, nonostante un certo disordine nella distribuzione della materia e certe ingenuità per le interpretazionidecisamente miracolistiche di alcuni avvenimenti, una fontepreziosa per la storia di quei tempi.Nel giudizio sulle opere di Beda non bisogna soffermarsisolamente sulle ingenuità e le concezioni erronee dettate dasuperstizioni e da pregiudizi religiosi, ma mettere in risalto,con una giusta valutazione storica, il valore positivo che ebbero per la società del loro tempo nel promuovere un significativo progresso culturale e scientifico. Esse educarono lementi ad avere una concezione sistematica della realtà, a concepire i rapporti e gli interessi derivanti dalla comune vita sociale secondo un determinato ordine ed a disciplinare e controllare gli impulsi delle passioni con i valori della religione ei principi della morale. E, cosa particolarmente importante,l’interesse dimostrato per la lingua inglese della quale si cominciò a perfezionare e ad arricchire le sue capacità “espressive” sul modello delle lingue e della cultura classiche. Di quil'alto apprezzamento di Burke dell'opera di Beda, « this father of the English learning >>, al quale è impossibile rifiutare« the praise of an incredible industry and a generous thirst ofknowledge >>. Va altresì riconosciuto che nessun'altra nazione,tranne quella inglese, che aveva cominciato ad uscire da una“totale” barbarie solamente cinquant'anni prima, riuscì adesprimere in così poco tempo un fiorente centro di cultura edun così eminente maestro.La diffusione del cristianesimo nell’Inghilterra rese più“civili” i costumi barbari delle popolazioni, attenuando la loroferocia e rozzezza, e favorì il consolidarsi fra quelle popolazioni di una serie di rapporti e di relazioni che consentironouna prima forma di unione fra i cinque regni costituitisi all’indomani della conquista anglosassone: il Wessex, la Mercia, ilNorthumberland, il Kent e l’Essex. L’impulso a questo primotentativo di unificazione politica dell’Inghilterra provennedall'esempio offerto dalla politica di unificazione imperiale diCarlo Magno, alla cui corte era stato ospitato Egbert re delWessex, che nell’827 riuscì a realizzare l'unione dei cinque regni.L’autorità e il potere della monarchia in effetti eranomolto fragili: la mancanza di vincoli e rapporti (istituzionalidefiniti e precisi poneva la monarchia alla merce della grandearistocrazia, che di fatto era sovrana nelle sue vastissime proprietà. Si aggiunga che la successione al trono era spesso l'occasione di gravi conflitti fra i pretendenti: non vi erano normeprecise che la regolassero e doveva essere confermata dall'elezione degli ordini. La stabilità e la durata del potere monarchico erano pertanto affidate unicamente alle capacità e alla

personalità del monarca. Se Egbert riuscì a mantenere conautorità il suo potere ed a respingere gli assalti dei Danesi,che cercavano di insediarsi nell'isola, il suo successoreEthelwolf, mite, devoto, interessato più alle pratiche di pietàreligiosa che agli affari di governo, fu del tutto incapace dicontrastare validamente i loro attacchi. I suoi successoriEthelbert ed Ethelred non riuscirono ad arrestare il processodi disarticolazione della monarchia. Il regno sassone era talesolo di nome, di fatto si era dissolto e le “parti" che lo costituivano erano ritornate alla loro antica indipendenza, favoritadalla situazione di anarchia determinata dagli attacchi e dagliinsediamenti dei Danesi.La ricostituzione dell’unità del regno sassone fu dovutaall'energia, alle capacità militari e di governo del nuovo re Alfredo, che, dopo alterne vicende, riuscì a scacciare i Danesidal Wessex, dalla Mercia e dal Northumberland e ad obbligarli ad un tributo nell'Est Anglia, conseguendo, questa volta,una durevole pace. Oltre che alla difesa e alla “restaurazione” dell’unità politica del regno sassone Alfredo provvidead una organica riorganizzazione legislativa ed amministrativadei suoi domini, che ne garantisse l'ordine e la tranquillità,talché egli è ricordato con onore come << the founder of ourLaws and Constitution >>. Le contee furono suddivise in cento“distretti”, ripartiti- in “tythings" delle quali dovevano farparte gli uomini liberi, vincolati dal mutuo impegno di preservare la pace e di evitare il furto e la rapina. Particolare attenzione fu rivolta all’amministrazione della giustizia, al fine dimigliorare la preparazione dei giudici, che dati i tempi eranosforniti di una adeguata cultura giuridica, e di garantire unagiustizia obbiettiva con severe condanne nei confronti dei frequenti casi di corruzione. Fu promossa inoltre un’organicaraccolta delle leggi, degli usi, delle consuetudini, nella qualefurono inseriti diversi commenti come orientamento per i giudici al fine di assicurare la certezza del diritto e garantire unacorretta applicazione delle leggi.Dopo la morte di Alfredo i suoi successori furono dinuovo impegnati nella lotta con il nemico di sempre, i Danesi,senza peraltro riuscire ad incidere efficacemente sulle loro capacità offensive. La guerra contro i Danesi, che nel frattempoerano riusciti ad insediarsi stabilmente nell'isola, continuò fraalterne vicende ed impegnò i monarchi sassoni dal 900 sino al1016, quando il re dei Danesi Canuto, alla morte di Edmund,l'ultimo dei successori di Alfredo, riuscì a farsi designare dall’assemblea degli ordini re d’Inghilterra. La monarchia danesenon durò a lungo, per l’incapacità dei successori di Canuto eper la forte opposizione dell’aristocrazia anglosassone: allamorte di Hardicanute, l'ultimo re danese, appena trentatréanni dopo l’avvento al trono di Canuto l'assemblea del regnoricostituiva con voto unanime la monarchia sassone nell’ultimo discendente Edward il confessore, che si era rifugiato inquegli anni nel ducato di Normandia.Edward disilluse ben presto l'aristocrazia sassone che lo

aveva sostenuto con la sua politica dichiaratamente favorevoleai suoi amici normanni che si concluse con lo scontro apertocon Godwin, conte di Kent, capo del “partito” sassone. Sierano costituite cosi le premesse per l’intervento dell'assemblea del regno in occasione della morte dì Edward, che nonaveva lasciato eredi diretti. Fu eletto al posto del pronipote diEdward, Edgar Atheling, legittimo erede, il figlio di Godwin,Harold II, sancendo così il principio elettivo per la successione al trono d’Inghilterra. Ma l'esclusione del successore legittimo e la designazione al trono di un estraneo allafamiglia, reale consentirono a Guglielmo duca di Normandiadi disconoscere la nomina per far valere la sua pretesa allaCorona, fondata sulle promesse del re defunto.Fu l'ir1izio di un conflitto che si concluse con lo sbarco inInghilterra dell’esercito normanno e con la sconfitta e lamorte di Harold II nella battaglia di Hastings. La nobiltà sassone, insieme alla città di Londra, « che nota Burke persino a quel tempo era molto potente >>, tentò di organizzare la resistenza riconoscendo come re il legittimo successoreEdgar Atheling. Ma ben presto si manifestò l'inconsistenzadel tentativo, per la mancanza di fiducia nel nuovo re, per i reciproci sospetti che dividevano gli aristocratici, per la paura ela confusione che dominava nell’assemblea costituita da rappresentanti di ordini in contrasto fra di loro. Quando Guglielmo, dopo aver passato il Tamigi si avvicinò a Londra, << il clero, i cittadini, la gran parte dei nobili - conclude Burke -, che avevano di recente messo la Corona sulla testa diEdgar, gli andarono incontro per fargli atto di sottomissione,per accompagnarlo poi in trionfo a Westmmster, ove fu solennemente incoronato re d’Inghilterra. Tutta la nazione seguìl'esempio dj Londra: una sola battaglia concesse l'Inghilterraai Normanni, la cui conquista era costata tanto tempo e tantosangue ai Romani, ai Sassoni e ai Danesi ».Secondo Burke la sconfitta dell'esercito anglosassonenella battaglia di Hastings non fu la causa della fine del regnoanglosassone (come ritengono alcuni storici, fra i quali Hume)ma fu l’episodio finale della lunga crisi che minò ogni possibilità di efficace resistenza del regno. Per Burke il processod'unificazione politica avviato da Egoberto e che aveva trovato nell'opera di Alfredo la sua espressione più organica ecoerente non era riuscito a conferire un'effettiva stabilità alnuovo ordinamento politico. Intanto la legge che obbligavaogni individuo ad appartenere ad una Tything Court avevarinchiuso la società anglosassone in una rigida struttura che fula prima causa della mancata integrazione fra le due popolazioni, l’originaria britannica e quella anglosassone, e che nonconsentì alcuno sviluppo delle energie sociali, finendo peristerilirle e provocando cosi la decadenza della nazione anglosassone. D’altro canto due secoli di guerre contro i Danesiavevano praticamente dato fondo a tutte le risorse, mentre lecapacità, di difesa e di recupero erano sostanzialmente moltolimitate: non esistevano città costruite in mattoni, né si era ingrado di poter costruire posti fortificati con muratura in cuipoter concentrare e riorganizzare la difesa, in modo da poter

affrontare in condizioni di vantaggio l'esercito invasore. Laloro tecnica militare era elementare ed arretrata, come la lorociviltà, rispetto a quella dei Normanni.Dal punto di vista dell’organizzazione politica la crisi simanifestava con il progressivo indebolimento del potere regio. Le lotte continue contro i Danesi avevano offerto l’occasione perché il potere degli Alderman aumentasse ogni giornodi più a scapito di quello regio (« too great to obey, and toolittle to protect >>) mentre l'aristocrazia “regia”,che costituivala struttura portante del regno e il nerbo della nazione, sempre a motivo delle guerre, si era ridotta a un numero veramente esiguo di famiglie. Si aggiunga che per l'istituto delGalvelkind che ammetteva alla successione delle terre “nobili" tutti i figli maschi in parti uguali e ir1 mancanza di questi anche le figlie, la proprietà si era suddivisa, con il risultatodi determinare un continuo cambiamento nella titolarità – e relativa riduzione - dei poteri connessi con quelle proprietà:il governo anglosassone entrò cosi in uno stato di “continuafluttuazione”. In quella situazione il potere tendeva a concentrarsi in pochi gruppi, ostili fra di loro: le famiglie aristocratiche più rappresentative, aspirando tutte alla corona d'Inghilterra, rendevano sempre più incerti i diritti dei legittimi successori. Tutto ciò si rifletteva nelle assemblee del regno, nelleriunioni del “parlamento” anglosassone, che era praticamentediviso fra le opposte fazioni delle grandi famiglie che aspiravano al trono, e quindi incapace di promuovere una valida resistenza, perché senza una guida, senza un preciso indirizzopolitico; alla fine i Grandi preferirono sottomettersi ad unprincipe straniero, anziché a chi ritenevano un loro eguale enemico.Secondo Burke non possiamo avere una piena comprensione della storia della monarchia anglosassone se non ci rendiamo conto del nesso sussistente fra le sue leggi ed istituzionie la sua attività politica: si tratta, come aveva suggerito Montesquieu, di << illuminare la storia con le leggi e leggi con lastoria ». Anche per Burke, come per Montesquieu, le leggisono intimamente connesse con l'ambiente, con il carattere,con l’indole, con il grado dì cultura, con il generale sistema divita: lo “spirito delle leggi” è il principio unificatore di tuttiquesti fattori, che debbono essere considerati come parti diun tutto che si articola e si specifica in un processo storico. Lecondizioni di vita dei Sassoni e lo stato della loro cultura sonoi primi dati che dobbiamo tener presente per comprendere lo“spirito” delle loro leggi.Un popolo barbaro, la cui unica occupazione era- laguerra, senza arti, senza “industrie”, aveva vincoli politiciestremamente labili, per la mancanza di quella trama di- rapporti e di relazioni propria delle società civili, che consente diconcentrare la forza sociale in un unico potere e di realizzarnele deliberazioni per il conseguimento dei fini comuni. Altracaratteristica tipica di quei popoli era la mancanza di una distinzione fra legge e costume: le leggi dei Sassoni si identificavano con il costume, erano l’espressione delle consolidate_convinzioni collettive. Fra queste la più radicata, che esprimeva lo spirito di quell’elementare ordine sociale e politico,stabiliva la regola che le deliberazioni che riguardavano ilcomportamento di tutti i membri della comunità dovevanoessere approvate dall’assemblea di tutti gli uomini liberi. Più

precisamente, nota Burke, i popoli di razza germanica, secondo quanto attesta Tacito, consentivano che i loro capiavessero un pieno potere nel decidere le “ cose minori”, comele controversie che si verificavano fra i singoli, ma non le questioni che riguardavano l’intera comunità: si riconosceva ailoro principi e re il potere giudiziario, ma non quello legislativo, che apparteneva all’assemblea.Burke, se partecipa con Montesquieu alla convinzione cheil principio ispiratore dei governi liberi è proprio delle popolazioni di razza germanica, non si lascia trascinare dall’entusiasmo per questa costituzione primitiva, quasi fosse il modello, indubbiamente semplice ma compiuto, del sistema costituzionale inglese. Quella “costituzione” è l’espressione dellescarse relazioni comunitarie proprie di un popolo primitivo ebarbaro, prive di qualsiasi incentivo atto ad incrementarle,che avrebbero mantenuto i Germani in quelle condizioni divita primitiva. Se il “sistema costituzionale", come vuole Montesquieu, è .stato inventato nella foreste della Germania, bisogna anche considerare, avverte Burke, che finché rimase inquelle foreste ed anche per lungo tempo dopo, fu ben lontanodall’essere un buon sistema; in effetti fu un tentativo moltoimperfetto di fare un governo. Era un sistema per un popolorozzo e barbaro, calcolato per mantenerlo nella sua barbarie.L’ordinamento politico della società anglosassone si basasul rapporto di subordinazione che vincola il libero che ricevele armi dal signore il quale gliele consegna e che impegna ilprimo a porsi al servizio del suo signore: è questo un obbligoche riguarda tutti i liberi atti alle armi, che possono scegliersiil signore cui affidarsi. Questo rapporto, secondo Burke, sibasa su i due fondamentali sentimenti della natura umana:l’ambizione, che spinge un uomo, anche a costo di qualsiasirischio e sacrificio, ad assumere la guida degli altri; e l’ammirazione, che induce gli altri a seguirlo per il mero piacere diappagare questo sentimento, cui si accompagna una specie di“secondaria” ambizione, fra le più diffuse fra gli uomini; questi due principi creano una volontaria ineguaglianza e dipendenza fra gli uomini. Ma fra gli uguali, fra i signori, non poteva che sussistere un vincolo di tipo confederale: essi sonoricordati nelle leggi sassoni con il titolo di Seniore e di Cavaliere ed i loro subordinati con il termine di “fratelli alleati”,con il compito di sostenere il reame e la monarchia. Infine il rapporto di subordinazione implicava che il signoreprovvedesse al mantenimento dei subordinati a ricompensadei loro servizi.A Questi principi individuano una categoria di persone, checostituisce la “struttura portante” dell'organizzazione politicaanglosassone: l'aristocrazia militare. L'ereditarietà del ruolopolitico che fini poi per caratterizzare questa classe o “ordine" è, secondo Burke, il risultato della trasformazione di unrapporto di carattere squisitamente personale fondato sulla libera scelta, e' quindi precario perché soggetto- al mutevolecomportamento di individui leali ma violenti, in uno di carattere istituzionale, garantito dal diritto. L’ereditarietà dello status di “signore” era l’unico modo per dare stabilità e continuità ai rapporti di carattere politico fra il “signore” e subordinati, garantendo in tal modo la sicurezza e la pace dell’intera comunità. A queste imprescindibili esigenze di stabilità

occorreva provvedere in occasione della morte del re e deigrandi feudatari, mediante il riconoscimento dei “diritti delsangue" garantiti dalla successione ereditaria, che in determinate occasioni erano riconosciuti dall’assemblea della comunità mediante l'elezione.L'ordine politico della società, basato sul rapporto di natura clientelare, si strutturava sulle categorie sociali in cui era` divisa la società anglosassone: nobili, vassalli, liberi e schiavi che facevano capo alla famiglia gentilizia sulla quale si fondava la rudimentale organizzazione Giuridico - amministrativa. La costituzione anglosassone riconosceva un ruolo eminente alla nobiltà che era al servizio del monarca, alla quale era assegnato, per le spese dei dipendenti e degli armati, un vasto territorio con piena giurisdizione sui suoi abitanti). La ripartizione amministrativa del regno si fondava sulla Tything Court, formata da dieci capi famiglia liberi e di “qualche considerazione", che deliberava sulle questioni e sulle controversie che potessero turbare la concordia della comunità: il fine della Tything era proprio quello di garantire la reciproca fiducia fra i suoi componenti; ogni uomo del regno, in quanto sottoposto ad ur1a Corte signorile, era obbligato a far parte dì una Tything. Dieci di queste costituivano una Hundred Court, che si riuniva una volta al mese per decidere sui reati minori. Le questioni più importanti, compreso l’atto di fedeltà al re, erano trattate e decise dalla County o Shire Court, la ripartizione amministrativa più grande del regno, presieduta da un nobile di grande prestigio denominato Ealdorman, sempre affiancato dal vescovo, per le questioni che si riferivano all'ordine ecclesiastico. In effetti, tiene a precisare Burke, il rispetto che si portava al clero e la cultura superiore del vescovo, ne facevano il presidente di fatto della Corte e l’ispiratore delle sue decisioni, consentendogli in tal modo di temperare la rigidità e la severità delle leggi anglosassoni. L’assemblea del regno denominata Wittenagemote, il “parlamento” anglosassone, era considerata superiore a tutte le altre corti perché era formata dai membri più influenti degli ordini del regno, aristocrazia e clero, e dagli alti ufficiali di Corte. Ogni persona di qualsiasi rango sociale poteva assistere al Wittenagemote, per essere informata del risultato dei suoilavori. Ma ciò non significa, avverte Burke, che essa possa essere considerata una sorta di assemblea rappresentativa delle contee e delle città, come fu poi la Camera dei Comuni: l’ideadi rappresentanza era troppo complessa per le menti semplicidegli Anglo Sassoni, che fra l'altro disprezzavano le attivitàconnesse all’esercizio delle arti e del commercio, che costituirono il presupposto di quegli interessi, di quelle esigenze e di quelle relazioni che ebbero poi un riconoscimento mediantela loro rappresentanza politica nei Comuni. La composizione del parlamento sassone, secondo Burke, non era stabilita con certezza. Si può ritenere che allorché sirendeva necessario assumere provvedimenti di carattere legislativo, che riguardassero tutti i sudditi, il re convocava il Wittenagemote e riuniva nel luogo della sua corte i vescovi etutte le altre persone che riteneva più opportune, Conti e grandi feudatari. Le leggi, dopo essere state approvate, erano comunicate per la loro esecuzione alle Corti dei “borghi”, circoscrizioni comprendenti più città e villaggi, nelle quali il popolo si impegnava ad osservarle e ad unirsi per perseguire quanti l’avessero violate. In tal modo, secondo `Burke, la forma di governo del periodo anglosassone era in sostanza una confederazione, che era continuamente rinnovata, in occasione dell’impegno ad eseguire le leggi espresso dalle Corti dei “borghi” . Altrettanto incerti erano i poteri che il re esercitava nell'assemblea: la legge, proclamata in nome del re,era proposta dalla persona incaricata di redigerla, ed era considerata l’espressione del consenso unanime dell’assemblea più che la manifestazione della volontà di un legislatore che lastabiliva di propria autorità. Di nuovo Burke rileva quanto siaerrato ritenere che l’ordinamento costituzionale inglese risalgaa quei tempi remoti, senza rendersi conto << che così forticambiamenti nei costumi, nel corso di tante età, debbonoprodurre sempre un considerevole cambiamento nelle leggi, enelle forme come nei poteri di tutti i governi >>.

La stessa osservazione vale per le leggi anglosassoni, cheriflettono il carattere di quelle popolazioni, la loro semplicitàe rozzezza: esse erano finalizzate ad assicurare la pace fra ivari clan familiari ed a fissare pertanto, con riferimento allediverse categorie sociali, l'importo dell’indennizzo che l'offensore avrebbe dovuto pagare all’offeso: leggi “imperfette”,prive dì alcun criterio di coordinamento, che sancivano consuetudini dei clan familiari fra loro diverse e contrastanti.Esse pertanto sono ben lontane da quella perfezione che attribuiscono loro i soliti panegiristi delle istituzioni e delle leggianglosassoni. Altrettanto semplici i principi sui quali si basavail processo, in particolare quello penale. Ogni controversia eradecisa o sulla base del giudizio e dell’intesa delle parti, oppure sulla base dell’opinione della comunità, oppure con l’appello al giudizio di Dio, denominato ordàlia, che si sarebbemanifestato mediante le prove dell’acqua bollente o del ferrorovente: chi le avesse superate, doveva essere considerato innocente.Al fine di evitare per quanto era possibile la severa procedura dell’ordàlia e nello stesso tempo per non lasciare adito allo spergiuro, si ammise nella pratica giudiziaria il principiodella prova e del giudizio sulla base dell’affidamento e dellaconoscenza dei vicini, della comunità. L'imputato che fosseassistito in giudizio da dodici “compurgatori”, che attestavanoche il suo giuramento era conforme al vero, era proscioltodall’imputazione: se l’opinione di alcune persone legittimava1’accusa, l’opinione di dodici persone stimate valeva a liberarlo dalla stessa accusa: << If opinion supports all government, it not only supported in the general sense, but it directed every minute part, in the Saxon polìty >>.A quei principi fu ispirato il giudizio basato sulla giuria,Trial by the Country, cioè di affidarsi per ogni questione dubbia al giudizio di persone del luogo, che conoscessero le persone e i fatti. La giuria non era vincolata, tranne un caso particolare previsto da uno specifico statuto, ad alcuna regolaprocessuale predeterminata ma era libera di giudicare sullabase delle sue informazioni e presunzioni. La legislazione penale anglosassone era molto moderata. La pena di morte erararissima e non era contemplata la tortura: essa era sostanzialmente finalizzata alla composizione delle reazioni che suscitavano i reati gravi che avrebbero certamente turbato la pacedella comunità; era ispirata pertanto al principio di mirare allacompensazione dell’offesa e del danno ricevuti. Il governosassone si limitava ad esercitare la funzione d'arbitro fra ledue parti contendenti, fissando l’entità della composizione egarantendone l'esecuzione.' Burke si sofferma sul rilievo che ha la proprietà della terranell’ordinamento politico della società anglosassone. Secondola consuetudine sassone, propria di tutti i popoli germanici, leterre erano ridistribuire annualmente fra le famiglie e i gruppigentilizi; dopo l’insediamento nell’isola britannica si provvideinvece all’assegnazione di vasti territori ai capi dei clan gentilizi per la difesa della “conquista”. Il possesso a vita riconosciuto a chi aveva ricevuto tale assegnazione, questa primaforma storica di proprietà, ebbe come scopo quello di renderestabile una serie di rapporti che si costituivano fra il titolaredel possesso ed i suoi dipendenti, in particolare il rapporto

clientelare che legava i secondi al primo, e quello di soggezione che vincolava schiavi e semiliberi alla coltivazione dellaterra che era stata concessa.Questa forma di possesso, proprio perché univa per tuttala vita l’uomo e la sua famiglia ad un determinato territorio,si trasformò a poco a poco in un vero e proprio diritto cuivenne riconosciuto il carattere dell’ereditarietà, affinchéquella stabilità dei rapporti sociali che era a fondamento dellaconcessione a vita delle terre fosse ulteriormente garantita erafforzata dal perdurare del possesso nella stessa famiglia, che,secondo l’espressione di Burke, era di fatto “murata” nei suoipossedimenti dalle “proprietà" confinanti di altre famiglieconcessionarie. Già al tempo del re Alfredo (871-897) questigrandi possessi si trasmettevano per successione nella stessafamiglia,Accanto a queste “proprietà” denominate Bookland, erariconosciuta un'altra forma di proprietà, normalmente piùpiccola e quindi politicamente meno importante, il cui titolonon si fondava sulla concessione reale, ma sulla prescrizione,sul possesso mantenuto per un lungo periodo di tempo, laFolkland. Queste terre erano libere dai vincoli di concessione, potevano essere lasciate in eredità sia ai figli maschi chefemmine e potevano essere liberamente alienate. Dopo questidue tipi di proprietà vi erano le concessioni di terra date dalre in vista di servizi particolari, per certi aspetti simili ai feudi,introdotti più tardi, a seguito della conquista normanna.La conquista normanna ha per Burke il merito storico diaver finalmente inserito l'isola britannica nella più ampia società politica europea, rendendola partecipe di una forma superiore di civiltà grazie alla possibilità di costanti, proficuicontatti con gli altri Stati europei, che avrebbero così, sia pureindirettamente, contribuito al processo di incivilimento dellasocietà inglese. La specifica connotazione della storia inglese, data dal suo “sistema politico" che si organizza a pocoa poco intorno alla monarchia e i cui principi saranno definiticon la Magna Carta, non deve farci dimenticare - avverteBurke - che essa si svolge in parallelo con quella europea pergli stretti nessi fra la politica inglese e quella dei ducati delNord Europa, della Francia e dell’impero, peri continui rapporti di carattere religioso e culturale con la Francia del Nord(il ducato di Normandia) e in particolare con la Chiesa diRoma. Basti accennare all’importanza che le Crociate ebberonella politica della monarchia normanna ed ai riflessi dellalotta per le investiture fra Impero e Chiesa sulla politica ecclesiastica della stessa monarchia, impegnata a garantire la suapiena sovranità temporale nei confronti di Roma. La storia inglese del periodo della monarchia normanna deve essere studiata, secondo Burke, con riferimento al quadro storico dell’Europa fra l’ottocento e il mille, nel cui ambito si espressero le dueistituzioni a carattere universale, l'Impero e la Chiesa, che caratterizzano la storia medioevale.La società europea dell’alto medioevo si costituisce a seguito dell’insediamento dei popoli di razza germanica nei territori dell’ex Impero romano con forme di organizzazione politica assai rudimentali. I tempi oscuri della società europea

corrispondono a questo primo periodo, caratterizzato da unaricorrente instabilità politica, dalla estrema difficoltà di superare il particolarismo delle aggregazioni politiche tribali - familiari, dalle continue guerre di rapine e di conquista, tali dadarci l’impressione di un disordine totale e di una permanenteanarchia. Si aggiunga inoltre che proprio in questo periodol'invasione degli Arabi e le loro rapide conquiste sembraronodestinate ad aver facile ragione di una società disgregata dalotte e conflitti continui. Ciononostante in questa stessa società, osserva Burke, si erano già espressi quegli ideali e queiprincipi di una superiore unità dei popoli e delle nazioni europee, che le avrebbero consentito di dar vita ad ordinamentipolitici garanti di quel tanto di stabilità e di ordine necessariad avviare un lento ma continuo progresso civile.Il rapporto di colleganza fra i regni, i principati e le entitàpolitiche minori europee era rappresentato dalle due istituzioni a carattere universale, l’Impero e la Chiesa, che garantirono il processo di formazione della società europea. Anchein questo caso Burke afferma la sua convinzione sul ruolo essenziale del cristianesimo e della Chiesa nel creare dei vincolidi carattere religioso, spirituale e culturale, nel proporre cioèuna concezione della vita che consentì all’Europa “barbarica”di uscire da una situazione di anarchia e di stabilire al suo interno una serie di rapporti e di relazioni, che formarono latrama che rese partecipe la società europea di comuni ideali evalori. La religione cristiana appare quindi a Burke come laforza spirituale che salvò l’Europa dalla dispersione e dall’anarchia, mentre la politica della Chiesa seppe con grandesaggezza costruire un potere fondato esclusivamente sull’opinione, sfruttando tutte le occasioni favorevoli per consolidareil suo potere spirituale su quello politico temporale, per sottrarsi alla soggezione di quest’ultin1o e per affermare alla finela sua autonomia ed indipendenza.Burke riconosce al Papato una grandissima arte politico diplomatica. I Papi seppero “servirsi” sia delle virtù che deicrimini dei grandi: favorirono la brama dei re per un'autoritàassoluta e il desiderio di libertà dei sudditi: provocarono laguerra e si adoperarono per la pace ed ogni volta riuscirono acrescere nell'opinione e nella considerazione generale. Il loropotere poté così estendersi dalla sfera ecclesiastica a quella politica, passare dalla sottomissione all’indipendenza ed assumere così i caratteri di un potere universale, analogo a quellodell’Impero.La premessa storica dell'Impero fu la costituzione inFrancia di una forte monarchia alleata della Chiesa, l’unicaistituzione che poteva sancire la legittimità della monarchia,riconoscendole il ruolo di garante della giustizia e del diritto,e quindi dell’ordine e della pace temporali, contro ogni tentativo di violenza e di sopraffazione. La politica di Pipino equella di Carlo Magno ebbero il loro pieno riconoscimentocon l’incoronazione di Carlo Magno quale Imperatore dei Romani. La società politica medioevale poteva avere un costantepunto di riferimento, che dava coerenza e continuità ai rapporti che si stabilivano fra le diverse entità politiche, regni,

principati, contee, città e comuni. La storia medioevale, perBurke, è caratterizzata dai rapporti fra Impero e Chiesa, frapotere spirituale e temporale, dal reciproco tentativo di affermare e consolidare la propria superiorità. Né sfugge a Burkecome proprio nel conflitto fra Impero e Chiesa, che ebbecome principale teatro di combattimento l’Italia, si inserisceuna nuova forza politica, rappresentata dalle entità politicheminori, i regimi cittadini, in particolare le città marinare e icomuni italiani, che, avvalendosi delle libertà e dell’autonomiericonosciute loro dalla Chiesa e dall’Impero, si dedicaronoalle attività commerciali, pervenendo in breve ad un rilevantegrado di potenza e di civiltà. Il quadro storico dell'Europa ècompletato infine dai Normanni per la costituzione del ducato dì Normandia nella Francia e dei regni normanni a Napoli, in Sicilia e in Inghilterra.La politica della monarchia normanna fu rivolta innanzitutto al consolidamento del potere regio sulla base della riorganizzazione rigorosamente feudale del regno, della repressione delle pretese e dei comportamenti di piena autonomiadei grandi feudatari, di un controllo dell’ordine ecclesiasticoaffinché la sua giurisdizione e le sue decisioni non invadesseroe non contrastassero la giustizia e la politica del regno. Laprima fase dell’insediamento della monarchia normanna inInghilterra fu caratterizzata dalla politica di Guglielmo di cercare un'intesa con gli Inglesi, con la nobiltà e con l’ordine ecclesiastico, con le città, in sostanza con il “partito anglosassone”, al fine di unire le due nazioni. Confermo alla città diLondra la carta delle libertà che era stata concessa dai re anglosassoni. Rispettò le proprietà degli Inglesi che non avevanopreso le armi contro di lui e per le concessioni di terre ai suoiseguaci si avvalse dei patrimoni dei suoi nemici dichiarati,delle terre demaniali e di quelle “ecclesiastiche” di cui potevadisporre. Per consolidare ulteriormente il suo potere cercò difavorire, in nome delle comuni origini, l’integrazione fra iNormanni e i Danesi che si erano insediati nell'isola al tempodi Canuto ed erano rimasti in rapporti di inimicizia con gliAnglo-Sassoni.Con questi provvedimenti Gugliemo ritenne di aver pacificato i suoi nuovi domini e di potere allontanarsi dall'Inghilterra per un breve ritorno in Normandia. Ma il suo viaggio ful’occasione che consentì agli oppositori del regime normannodi tentare una insurrezione, che Gugliemo, ritornato in Inghilterra, riuscì a domare. Fu l’inizio di una politica di dura repressione ed oppressione della nobiltà e del popolo anglosassone, che coinvolse anche l'ordine ecclesiastico a motivo delladecisione di deporre tutti i vescovi anglosassoni per sostituirlicon ecclesiastici normanni. Nel corso di questi provvedimentii capi del partito anglosassone, fra i quali Edgar Atheling,l’ultin1o discendente dell’antica monarchia, riuscirono a rifugiarsi in Scozia e ad ottenere l'aiuto dell'esercito del re. Questa volta l’insurrezione, per l’intervento della Scozia, perl’aiuto della Danimarca e per la convergenza delle forze dicoloro che si erano ribellati ai Normanni in diverse regionidell’Inghilterra del nord, assunse le caratteristiche di unaguerra organizzata, che sconvolse l’Inghilterra per circa dueanni. In quell’occasione si manifestarono il coraggio e le capacità militari di Gugliemo, che riuscì a distogliere i Danesi dall'alleanza con gli`Scozzesi ed a sconfiggere successivamente i

suoi avversari. Dopo questa vittoria definitiva sui suoi nemici,sancita da una seconda solenne cerimonia di incoronazionenella cattedrale di Wmchester, Guglielmo poté assumere queiprovvedimenti atti a dare al suo regno uno stabile e sicurofondamento. La monarchia normanna basava il suo potere su un ordinamento rigidamente feudale, cioè su un rapporto di “vassallaggio”, che promanava dal re e che, per successive concessioni, dai vassalli del re a quelli di minore rango, si estendevaa tutto il regno. Il feudo era finalizzato soprattutto all'organizzazione e al reclutamento dell'esercito che faceva carico soprattutto ai grandi feudatari, i “vassalli del re”, che, secondoBurke, erano pochi, si da avere una grande posizione ed ungrande rilievo politico agli occhi del popolo, con il risultato dicostituire una specie di diaframma fra il popolo e il monarca,sminuendone in tal modo l’immagine e l'autorità, come gliavvenimenti successivi avrebbero dimostrato. All’iniziodell'impresa militare il re appariva formidabile alla testa deisuoi numerosi vassalli, perché il giuramento feudale li obbligava a seguirlo in guerra, ed essi adempivano a quest'obbligocon piacere. Ma quell'esercito che incuteva tanto timore poteva dissolversi come un sogno, perché quel “popolo” fiero edindisciplinato non aveva costanza e il servizio feudale era contenuto in limiti molto ristretti.Le regole feudali riconoscevano al cavaliere che si era dedicato alla professione delle armi la facoltà di scegliere il signore al quale prestare i suoi servizi, ma era un obbligo didurata limitata, dopo il quale il cavaliere era libero 'di cercarsiun altro signore, Questa libertà si basava sulla professione militare che istituiva un rapporto di uguaglianza fra coloro chela esercitavano. Un cavaliere era un pari del re: ambedue fondavano il loro ruolo sulle loro capacità militari. Era perciò facile trovare un certo numero di persone sempre pronte a seguire ogni bandiera, ma era difficile portare a termine unainiziativa che richiedeva un’azione regolare e continua. Eraproprio questa l'intrinseca debolezza della monarchia feudale,essendo fondata su un principio che non solamente la limitava, ma minacciava di vanificare il suo potere e dì determinare nel regno una situazione di sostanziale anarchia, comeavrebbe sperimentato a suo spese il terzo re della monarchianormanna, Stefano.Particolare attenzione Guglielmo rivolse alla politica ecclesiastica sostanzialmente ispirata, secondo Burke, alla preoccupazione che la “macchina” dell’organizzazione ecclesiastica,che tanto lo aveva sostenuto nella conquista del potere, nonpotesse essere impiegata contro dì lui. Cominciò con l'assoggettare le vastissime proprietà della Chiesa agli obblighi previsti dalle leggi feudali a favore della Corona e del fisco. Deisessantamila feudi esistenti in Inghilterra circa ventottomilaappartenevano alla Chiesa inglese, liberi dagli oneri feudali difornire un certo numero dì armati e dal pagamento delletasse: con una serie di provvedimenti Guglielmo abolì queiprivilegi e pretese dalle autorità ecclesiastiche le prestazionipreviste per i feudi di cui erano titolari. Stabili che fra le sueprerogative sovrane vi era anche quella di sovrintendere airapporti fra la Chiesa d'Inghilterra e Roma: le “comunicazioni” fra la Chiesa inglese e il Papa dovevano avvenire con lapreventiva informazione e con il consenso del re e per quantoriguardava le nomine pontificie nella Chiesa inglese sancì il

principio che i sudditi dovevano prestare obbedienza solamente agli ecclesiastici la cui nomina fosse stata convalidatadall’approvazione regia.L’esercizio del potere nella società feudale si può comprendere nelle sue caratteristiche di dominio e di oppressionese consideriamo con attenzione il sistema tributario del regnonormanno: la finanza pubblica, avverte Burke, esercita la sua“influenza” ed incide su quasi tutte le attività sociali degli individui, sì che la sua organizzazione ci consente di comprendere non solamente la dinamica e il conflitto di interessi frachi detiene il potere ed i suoi soggetti, ma anche la forma e ipoteri del governo in ogni tempo. Solamente se teniamo presente il sistema tributario feudale come fu posto in atto daGuglielmo possiamo renderci conto della particolare formastorica che assunse a poco a poco il conflitto fra la nobiltà, laChiesa, il popolo delle città e la monarchia normanna e comesi arrivò all’“alleanza" fra i tre ordini che impose la concessione della Magna Carta. Il re era titolare di un diritto d’imposizione tributaria sostanzialmente assoluto, di cui si servivacontro i feudatari sospettati di essere suoi nemici, e che favoriva la corruzione e le malversazioni dei funzionari che amministravano la riscossione, informata il più delle volte alla procedura della requisizione militare. Il fisco era particolarmenteoppressivo e rapace nei confronti del “popolo”, cioè dei liberiabitanti nelle città e nei “borghi”, che, nota Burke, sino al regno di,Enrico II vivevano in una condizione non molto lontana dalla schiavitù.L'unico temperamento alla politica dura ed oppressiva diGugliemo fu dovuto all’azione di Lanfranco, un ecclesiasticoitaliano di grande cultura e di straordinaria pietà, arcivescovodi Canterbury, che come consigliere del re riuscì a far valerecon indipendenza e libertà di giudizio una politica di moderazione nelle più importanti questioni di governo. Così gli inglesi, rileva Burke, dovettero alla virtù di uno straniero e all'influenza che ebbe sul re, quel poco dì libertà di cui potettero godere.Anche la monarchia normanna, come già l'anglosassone,non riuscì a “sottrarsi” ai gravi conflitti che seguirono allasuccessione al trono fra i pretendenti alla Corona. Alla mortedi Guglielmo, che negli ultimi anni del suo regno era statocostretto ad intervenire in Normandia contro il primogenitoRoberto, la successione del secondogenito Guglielmo II erastata impugnata proprio da Roberto con l’aiuto del re di Francia. Il conflitto si era risolto, con un. accordo. fra i fratelli favorito dalla decisione di Roberto di partecipare alla prima crociata bandita proprio in quel torno di tempo da Urbano II eche aveva suscitato un generale entusiasmo ed universalepartecipazione al messaggio di liberazione dei luoghi sacri perla tradizione cristiana.Alla morte dj Guglielmo II la successione al trono fu occasione di profondi contrasti (premessa di futuri conflitti) frala nobiltà, la Chiesa favorevole a Roberto (anche se assente) eil terzogenito del Conquistatore, Enrico. Ma proprio questocontrasto, secondo Burke, apre un primo sostanziale spazio dilibertà per il “popolo delle città e dei borghi”. Enrico pervincere la resistenza della nobiltà e della Chiesa, sollecito ilconsenso del “popolo" e richiese il suo “aiuto”, sulla base

della promessa di un governo più mite di quello duro e tirannico del padre e del fratello e di un programma che avrebberestituito alla Chiesa il godimento delle sue immunità, al popolo le sue libertà, ai nobili i loro privilegi ed abolito la legislazione sulle foreste e l’odiosa distinzione “politica” fra inglese e normanno. La conferma e la concessione d’ulterioriprivilegi alla città di Londra e di una “carta” che riguardavatutti i suoi sudditi con cui si sancivano le promesse di libertàrappresentano per Burke l’inizio di una prassi che avrebbeavuto il suo pieno riscontro con la concessione della MagnaCarta.Enrico cercò innanzitutto di stabilizzare l'autorità e il potere della monarchia. Trasferitosi nei suoi domini francesi riuscì a sconfiggere l’esercito di Roberto, che, ritornato dalla Palestina, aveva manifestato l’intenzione di riproporre le suepretese al trono. Pacificata la Normandia con la “reclusione”di Roberto che durò sino alla sua morte, indirizzo la sua attività di governo a ridurre i grossi abusi presenti nell’amministrazione civile; a umiliare i grandi baroni; a contenere lo spirito ambizioso del clero per restituire alla monarchia quel potere di direzione della politica del regno che le veniva disconosciuto o notevolmente limitato dai grandi feudatari e daidignitari della Chiesa. Il re non adempì gli obblighi sancitidalla “carta” che aveva concesso; le foreste, possesso dellaCorona sottratto ad ogni disciplina delle leggi e ad ogni controllo della giustizia, furono mantenute, incrementate ed “amministrate” con maggior rigore di prima. Le tasse furono aumentate e distribuite ad arbitrio del sovrano: un atto di verae propria tirannia, che se aveva oppresso la nazione, commenta Burke, non l’aveva offesa, perché i grandi erano tenutinella dovuta soggezione e la giustizia era amministrata con regolarità.Il contrasto fra il re e la Chiesa, il più ostinato e pericoloso di tutti quelli che Enrico aveva dovuto affrontare in quegli anni, si riferiva alla questione delle investiture che contrapponeva l’impero al Papato e che interessava tutti i regni d'Europa. Burke nell’analisi delle origini storiche dell’autorità vescovile (necessaria a suo giudizio per intendere i motivi dellaquestione) si dichiara sostanzialmente favorevole alla tesi imperiale, nel senso che ritiene giusto ed opportuno che fra i vescovi e il re sussistano dei “legami” che consentano a quest’ultimo di sovrintendere alle questioni di carattere temporale epolitico, affinché la Chiesa inglese non abbia un rapporto didiretta ed assoluta dipendenza dal Papa.Peraltro Burke riconosce che la condanna del concilio diRoma (1099) dell’investitura laica del vescovo non fu “impopolare”, ebbe un largo consenso perche denunciò i gravissimiabusi cui si prestava l’investitura laica, abusi che si verificarono in Inghilterra (anche durante il regno di Enrico) in numerose sedi vescovili, mantenute a lungo vacanti per voleredel re per essere poi conferite con grande scandalo al migliorofferente. Nonostante le vivacissime rimostranze della ChiesaEnrico mantenne le prerogative della Corona. Il suo più fierooppositore fu Anselmo d’Aosta, arcivescovo dì Canterbury« a man of Lmblameable life and of learning for his time >>, che si rifiutò di consacrare vescovi gli ecclesiastici che erano statiprecedentemente investiti della loro sede dal re e fu pertantocostretto a lasciare l’Inghilterra. Alla fine si arrivò ad un’intesafra il re e il Papa, nel senso che i vescovi nell’atto della loronomina dovevano prestare “omaggio e fedeltà' al sovrano cherinunciava al diritto di investitura.

Alla morte di Enrico, l’assemblea del clero e della nobiltà,avendo constatato che il re era morto lontano dal regno e chela figlia Matilde era anch’essa lontana, elesse al trono d’Inghilterra Stefano, nipote per parte di madre di Guglielmo il conquistatore. Anche Stefano, per consolidare le ragioni della suasuccessione,fu costretto a seguire la politica del suo predecessore ed a confermare i privilegi già concessi da Enrico, rinnovando la solenne rinuncia alle foreste. Ma i privilegi confermati alla nobiltà finirono per legittimare la moltiplicazione deicastelli che trasformò i grandi feudi in tante signorie localisottratte alle leggi ed alla giustizia del regno, le une contro lealtre armate, ma quasi tutte impegnate a rapinare quanti viaggiavano per le strade di cui avevano il controllo. Il tentativodi Stefano di porre fine a queste situazione d'anarchia e di rapine “legalizzate” fu l'inizio di una lunga e sanguinosa guerracivile, provocata dall'intervento del partito favorevole alla successione al trono di Matilde sostenuta dal re dì Scozia, chedopo alterne vicende, si concluse con il trattato di Vallingford con il quale si stabiliva, fra l’altro, di riconoscere come erede al trono Enrico, nipote di Enrico I, nella cui persona siriunivano la discendenza dei re normanni e quella dei re anglosassoni.Alla morte di Stefano (1154) Enrico II successe al tronoper la prima volta dopo Edoardo il Confessore in modo pacifico senza alcuna contestazione: essendo discendente sia diGuglielmo il conquistatore che degli antichi re inglesi ed essendo stato adottato da Stefano e riconosciuto dai baroni,possedeva in effetti tutti i titoli per regnare. E poiché si eraormai consolidata la prassi che, il re in occasione della sua incoronazione concedesse una carta delle libertà, anche EnricoII deliberò un analogo “provvedimento”, ma, nota Burke,nella forma e nella sostanza differente dalle prime “concessioni”: non era un documento dettagliato in cui si precisavanoi diritti dei sudditi, nobili, ecclesiastici e popolo, ma una semplice dichiarazione di carattere generale, quindi un “dono”del re, non un impegno sancito in modo solenne. Fu un “segnale” della ferma volontà politica di Enrico II di garantirealla monarchia una piena autonomia ed indipendenza, in particolare nei confronti dell’ordine ecclesiastico: occorreva riportare la giurisdizione ecclesiastica nei suoi giusti limiti sullabase del principio che la giustizia laica, per tutte le questionidi carattere “temporale”, doveva considerarsi sopraordinata aquella ecclesiastica. L’ex cancelliere del regno Tommaso Becket, che su indicazione regia era stato eletto e consacrato arcivescovo di Canterbury avrebbe dovuto favorire il propositodi riforma del re. Sennonché Becket, ordinato sacerdote edeletto vescovo, non solamente ispirò la sua condotta ad un rigido impegno religioso ma si manifestò anche strenuo difensore delle immunità ecclesiastiche e della piena indipendenzadell’ordine ecclesiastico.Burke tiene a precisare che la valutazione storica dell’intera vicenda deve tener conto innanzitutto del fatto che l’autorità, l’autonomia e l’indipendenza rivendicate dalla Chiesanei confronti del potere del re, si erano affermate ed eranostate riconosciute nel corso di un lungo processo storico, checaratterizza la formazione della nazione inglese, delle sue leggied istituzioni. Non possiamo valutare quegli avvenimenti conle nostre convinzioni che si sono formate quasi sei secolidopo: dobbiamo invece tener presenti le ragioni storiche che

consentirono alla Chiesa di far valere le sue pretese, senza dimenticare che la grandissima autorità della Chiesa era di carattere spirituale e culturale, un potere fondato sulla convinzione e sull'opinione.L’occasione che radicalizzò i rapporti fra il re e Becketfu data da un conflitto di carattere giurisdizionale, determinato dal rifiuto dell'arcivescovo di sottoporre al giudizio deltribunale del re un sacerdote che era stato già giudicato econdannato da un tribunale ecclesiastico. Per risolvere laquestione che proponeva il principio della piena sovranitàdella monarchia nei confronti della Chiesa per quanto riguardava l’ordine temporale, fu convocato a Clarendon ungrande Consiglio di tutti gli ordini del regno, nel quale,nota Burke, i vescovi e gli abati ebbero una vasta rappresentanza ed una parte di rilievo. Gli ecclesiastici non si opposero né formularono alcuna riserva alla legge con cui si limitava la loro giurisdizione anzi sembrarono favorirla. AClarendon si decise che tutte le cause di carattere penale ecivile dovevano essere giudicate dai tribunali del re; qualoral'imputato fosse stato un ecclesiastico la giurisdizione sarebbe stata definita dalla corte suprema del re, che avrebbenominato un giudice per assistere al processo se fosse statoassegnato ad un tribunale ecclesiastico; nessun magistrato oufficiale del re poteva essere scomunicato senza il consensodel re; nessun ecclesiastico poteva lasciare il regno senzadare piena garanzia che non avrebbe fatto nulla che fosse dipregiudizio per il re o per la nazione. Le costituzioni di Clarendon, considerate da Burke « famose per essere state il primo freno legale al potere del cleroin Inghilterra >>, non ottennero l’approvazione del papa Alessandro III, che le considerò contrarie al diritto canonico; Becket, che le aveva accettate con grande riluttanza, si pentìdella sua acquiescenza e decise di opporsi con il massimozelo. Fu l'inizio di un conflitto con il re durato sette anni, conalterne vicende e che divise profondamente l’Inghilterra ecoinvolse il re di Francia l'Impero e il Papato: l’episodio piùdrammatico fu indubbiamente l’assassinio di Beoket, commesso nella cattedrale da quattro cavalieri della corte del re.L'orrore per il barbaro assassinio suscitò un generale odionei confronti del re: con estrema difficoltà Enrico II riuscì a"districarsi" dalle gravissime responsabilità che gli furono addebitate e che lo mantennero in una sorta di “lazzaretto" politico per circa due anni, finché non venne riammesso nellasocietà dei monarchi europei, dopo aver “espiato” le suecolpe e soprattutto dopo aver rinunciato alle “costituzioni" diClarendon. Secondo Burke, Becker può essere giustificatoed anche lodato per la sua difesa dei diritti e delle immunità ecclesiastiche che garantivano l’autonomia e l’indipendenza della Chiesa: lo storico però deve rilevare che le suepretese erano sostanzialmente eversive di uno stabile ordinamento politico e che per le sue “stravaganti" convinzioni(l’“esorbitante” potere della Chiesa e del Papato), per il suospirito inflessibile - che le sue virtù rendevano sempre piùpericoloso - la sua morte risultò di vantaggio per la composizione del conflitto. Ma essa fu certamente << sacrilega e detestabile ».

Dopo il drammatico episodio dì Becker la politica di Enrico II fu indirizzata verso iniziative miranti a ristabilire rapporti di concorde intesa con la Chiesa. La conquista del1’Irlanda, che agli inizi del regno era stata già “approvata” da unabolla di Adriano IV servì a ristabilire i contatti con Roma.Dopo l'esito vittorioso dell’impresa irlandese, dopo la conclusione anch’essa vittoriosa della guerra civile suscitata da suoifigli (la monarchia non era ancora riusciva a sottrarsi alla rovinosa anarchia insita nell'ordinamento feudale) e la riconquistadella Normandia, Enrico II cercò di rafforzare l'autorità realee contenere il potere dei grandi feudatari mediante l’istituzione di giudici itineranti ed il rafforzamento della giurisdizionedegli sceriffi; concesse inoltre l'uso delle armi al popolo cheera raro severamente vietato dopo la conquista normanna.Questo provvedimento rese possibile, secondo Burke, laformazione di una milizia ai diretti ordini del re, reclutatasulla base di un rapporto di dipendenza “politica” e non piùfeudale, al fine di poter controbilanciare le forze militari chefacevano capo ai grandi feudatari. Per contenere il potere dell’aristocrazia e riportarlo nell’ambito delle leggi del regno Enrico II si avvalse questa volta dell'appoggio della Chiesa:aveva appreso a sue spese che non conveniva combattere contro due avversari, ma che doveva allearsi con quello che avevamaggior peso nelle convinzioni e nelle opinioni e la cui autorità era sancita da una lunga tradizione.Nonostante questi “saggi” provvedimenti, che sembravano garantire al regno un periodo di tranquillità, di nuovo leambizioni e le gelosie dei figli del re furono all’origine di divisioni e di cospirazioni che afflissero Enrico II nei suoi ultimianni di regno. La situazione si aggravò con la successione diRiccardo I, la cui passione guerriera lo aveva portato permolti anni fuori della patria, quale comandante di un esercitocon il quale aveva partecipato alla terza crociata, che continuava a costituire un evento centrale nella vita politica europea. La lunga assenza del nuovo re determinò un “affievolimento” del potere monarchico, che indusse l'aristocrazia e laChiesa a cercare di assumere un ruolo nel governo dell'isola,che si sarebbe manifestato durante il successivo regno di Giovanni senza terra.Il regno di Giovanni è, secondo Burke, uno dei periodipiù interessanti della storia d’Inghilterra, perché la società politica inglese riuscì a fissare i principi costituzionali per comporre i conflitti e i contrastanti interessi fra monarchia, aristocrazia, Chiesa e popolo, per determinare le prerogative sovrane e per garantire le essenziali libertà degli Inglesi. Tutte le "rivoluzioni" che nel corso di seicento anni sembrarono essere determinate da motivi occasionali, arbitrari, o dallo “spirito" di conquista, dalla volontà di dominio, dall’ambizionedel potere, erano state in effetti l'espressione di un vero eproprio processo storico ed avevano contribuito a formareuna società politica che riuscì ad attuare la “grande rivoluzione in favore della libertà”.In occasione della morte di Riccardo I, nonostante il reavesse indicato come erede al trono suo fratello Giovanni, sirir1novarono le questioni e i contrasti relativi ai criteri da seguire nella designazione del successore: in particolare si trattava di decidere se la designazione da parte degli ordini delregno implicasse una vera e propria elezione. A favore diGiovanni si erano dichiarati Uberto, arcivescovo di Canterbury, e Glaville, il supremo giudice del regno, praticamentel'ordine ecclesiastico e la magistratura del regno. Sosteneva

Giovanni un’altra forza politica, il popolo delle città che aveva“approfittato” dello “spazio politico” che si era aperto per iperiodi di “vacanza” del potere monarchico e per i contrastie le lotte fra i feudatari per crescere economicamente, acquisire una certa autonomia amministrativa, e far valere la suapresenza politica.La nobiltà che si era vista sopravanzata dalla Chiesa, dallamagistratura e dal popolo non aveva assunto alcuna iniziativa,né alcuna decisione; non le rimaneva altro da fare che concorrere alla nomina di Giovanni, che conosceva ed odiava. Ma lanobiltà, se non era in grado di escludere Giovanni dalla successione al trono, era però tanto forte da obbligarlo a promettere in modo solenne che avrebbe riconfermato gli antichi diritti e privilegi che essa proclamava di aver sempre avuto, anche se (nota con ironia Burke) non li aveva mai pienamentegoduti e non ne aveva inteso il valore. Secondo Burke, Giovanni accettò una “sovranità” sostanzialmente “dimezzata”proprio da coloro che gliela concedevano, nella sostanza egli“si sottomise ai tempi”.La politica del re fu dettata unicamente dal suo carattereincline alla tirannia, alla dissolutezza, alla crudeltà, che lo rendeva incapace di perseguire un organico disegno politico cheavesse di mira l’autorità e la stabilità della monarchia. Neisuoi interventi militari in Normandia non si rese conto del disegno politico del suo “vero” nemico, il re di Francia FilippoAugusto, che mirava a privare i grandi feudatari del suo regnodei loro domini e quindi ad estrometterlo proprio dalla Normandia. Accettò in un primo momento le proposte di pace diFilippo rompendo l'alleanza con l`Imperatore e con il Contedelle Fiandre che garantiva i suoi possessi francesi, consentendo cosi a suo nipote Arturo, subornato dal re di Francia,di tentare la conquista di parte dei suoi domini. Trasferitosi inFrancia riuscì a sconfiggere i suoi nemici, ma non seppe trarrefrutto dalla sua vittoria: si lasciò trascinare dal suo carattereferoce e vendicativo, facendo assassinare suo nipote, che erasuo prigioniero.Il fatto suscitò l’indignazione generale; Filippo colse l'occasione per intimare a Giovanni, in qualità di vassallo del regno di Francia di presentarsi alla Corte dei Pari a Parigi, peraver fatto uccidere un vassallo del regno: al rifiuto del re inglese si mosse con un grosso esercito alla volta della Normandia. Giovanni assistette inerte alla conquista del ducato dalquale la sua famiglia aveva tratto le sue origini e la sua potenza; lasciò che Rouen, la città a lui favorevole, fosse presad’assedio senza portarle alcun aiuto. I baroni, che lo avevanoseguito nella sua spedizione militare, sdegnati dalla sua ignavia abbandonarono l’esercito regio e ritornarono in Inghilterra. Giovanni approfittò dell'occasione per imporre ai baroni la cessione di un settimo dei loro beni mobili come penaper l'abbandono del suo esercito e per pretendere un'identicaimposizione sulla proprietà ecclesiastica, senza preoccuparsidi darne alcuna giustificazione.Questi provvedimenti e le violenze perpetrare contro iprivati per soddisfare i suoi vizi finirono per determinare un

diffuso sentimento di disprezzo, di rancore e di odio nei confronti di Giovanni, che si manifestò in occasione del conflittocon la Chiesa. L'elezione del nuovo arcivescovo di Canterburyavvenuta all’insaputa del re e con una procedura irregolareper favorire l’elezione,del vice priore dell’abbazia di S. Agostino, determinò la reazione di Giovanni che impose unanuova elezione nella persona da lui designata; La questionenaturalmente fu deferita al giudizio del Papa, Innocenzo III.Fu l’inizio dell’intervento di Roma e della Chiesa inglese cheavrebbe determinato la serie degli eventi politici che si conclusero con la concessione della Magna Carta.Innocenzo III, che mirava a cogliere ogni occasione perconsolidare ed ampliare la giurisdizione papale, giudicò irregolari sia la prima che la seconda elezione ed in virtù della sua plerzzludo potestatzk ordinò che si ripetessero le elezioni, indicando come candidato il suo amico cardinale Stefano Langton, che fu il deus ex macchina della concessione della MagnaCarta. Il rifiuto di Giovanni di accettare il giudizio del Papaprovocò prima l'interdetto contro il regno inglese e poi, persistendo la resistenza del re, la scomunica che scioglieva isudditi dal vincolo di fedeltà ed invitava il re di Francia aprendere possesso della corona “vacante”. I provvedimentipapali e la minaccia dell’intervento diretto sul territorio inglese da parte del re dì Francia, che disponeva di grandi forze,costrinsero Giovanni ad accettare la mediazione dei legati delPapa ed a subire l’estrema umiliazione di fare omaggio dellacorona d'Inghilterra agli stessi legati per poterla ricevere “purificata”, quale concessione del Papa.Nessuno, commenta Burke, protestò per l’atto di “soggezione” del re che colpiva in fondo tutta la nazione; il contrasto dei partiti era tale che tutti erano d’accordo non solo nelrendere omaggio alla sede romana, ma anche nell'adempiereal formale riconoscimento del rapporto di vassallaggio con laChiesa di Roma. Gli amici del re perché speravano che in talmodo potesse riconquistare il potere e i suoi nemici che vedevano la sua umiliazione con piacere, perché ritenevano cheavrebbe finito per condizionare il suo potere a loro favore; ilclero che vedeva aumentati il suo prestigio e la sua influenza.L'assoluzione dalla scomunica pose, inaspettatamente, Giovanni di fronte all’obbligo di rispettare alcuni principi dicondotta politica che limitavano il suo potere sovrano, chepensava di potere “riavere” integro. Ed a ricordargli quei limiti era l'arcivescovo di Canterbury, proprio quando a nomedel Papa lo assolveva dalla scomunica. Gli ricordò non solamente i doveri religiosi ma anche quelli di sovrano di nonpretendere alcun tributo senza l'approvazione del gran consiglio e di non punire alcun individuo se non dopo un giudiziodelle corti di giustizia; in due principi, osserva Burke, era sintetizzata l'intera Magna Carta.Il re doveva imparare a sue spese che il'aver fatto attod'ossequio alla suprema autorità spirituale e pubblica ammenda dei suoi errori non serviva a garantirgli il vecchio potere, libero da ogni vincolo e da ogni controllo. Quando si accinse ad intraprendere la guerra contro Filippo II incontrò ladecisa resistenza di parte della nobiltà che si rifiutò di seguirlo, né poté ricorrere ai vecchi mezzi repressivi nei loro

confronti perché ne venne “trattenuto" dall’arcivescovo chegli ricordò la promessa fatta di rispettare le leggi e lo ammonìche qualora avesse disposto confische ed arresti senza l’espletamento dei giudizi previsti sarebbe di nuovo incorso nellascomunica.L’arcivescovo non si limitò a frenare il re, assunse un’iniziativa ben più importante, quella di spiegare ai baroni il valore e il significato legale e costituzionale della loro resistenzaed in qual modo l’aspirazione di vedere garantite le loro libertà e i loro privilegi potesse ottenere un riconoscimentonel l’ambito dell’ordinamento del regno. In occasione di un sinodo che si teneva nella chiesa di S. Paolo a Londra, Langtonincontrò privatamente alcuni dei maggiori baroni ai quali,dopo aver ricordato e descritta, la miserevole situazione delregno ed averne indicate le cause, commento la- carta dei diritti e dei privilegi, concessa da Enrico I, precisando che le rimostranze alte dovevano essere presentate dall’intero ordinedella nobiltà al fine di ottenere una permanente garanziadelle loro libertà. Occorreva pertanto che i presenti alla riunione si facessero promotori di un'intesa, una specie di “confederazione", con gli altri baroni per realizzare quell'unità diintenti, necessaria per il riconoscimento dei loro diritti. I presenti accolsero con entusiasmo le indicazioni e le esortazionidell’arcivescovo: potevano richiamarsi ad un precedente autorevole e conferire così alle loro rimostranze una piena legalità. Il re si rese ben presto conto che gli incontri fra i baronierano finalizzati ad un “complotto” contro la sua autorità. Neltimore che si realizzasse un’intesa fra i due ordini, che gliavrebbe precluso qualsiasi possibilità di resistenza, ritenne opportuno ricorrere di nuovo all’aiuto del Papa, riconoscendoancora una volta la sua giurisdizione. Ma, contrariamente allesue attese, l’intervento del Papa ottenne l'effetto opposto: invece di dividere, unì i due ordini, la nobiltà e gli ecclesiastici:Langton oppose un’efficace resistenza passiva al nuovo intervento del Papa, protestando pubblicamente contro l'atto disottomissione del re, formalizzato con la “cessione” della Corona inglese al Pontefice. I baroni invece mantennero unatteggiamento passivo nei confronti del re, probabilmenteperché turbati dall’intervento del Papa e perche il loro proponimento politico non era ancora pienamente maturato.Approfittando dell’atteggiamento remissivo dei suoivassalli, Giovanni tentò ancora una volta di riacquistare lasua autorità: organizzò un esercito per riprendere la guerrain Francia e cercare di ottenere una vittoria decisiva. Agliinizi sembrava che l’impresa dovesse essere coronata dasuccesso, ma nella battaglia di Bovines gli eserciti di Giovanni e dell’Imperatore furono duramente sconfitti daiFrancesi. Non c’era altro da fare per il re d'Inghilterra chechiedere, tramite il legato del Papa, un lungo armistizio eritornare nel suo regno. Ma questa volta i baroni approfittando dell'assenza del re, avevano portato a termine le lorointese, la loro “confederazione”, avevano maturato il proposito politico di una ferma azione comune. Dopo l’arrivo delre a Londra una delegazione della nobiltà, a nome dell’interoordine, gli presentò una petizione molto “ossequiosa" nella

forma, ma “dura” nella sostanza, nella quale si dichiaravano leloro libertà e si chiedeva che esse fossero riconosciute e garantite dall’autorità del re. Giovanni cercò di eludere la richiesta precisando cheaveva bisogno di tempo per valutarla, in realtà per cercare i"mezzi" che gli consentissero di rifiutarla. Assunse dapprimail solenne impegno di partecipare alla crociata poi pretese unnuovo giuramento di fedeltà da parte del popolo, infine richiese di nuovo aiuto al Papa. Forte di questi “puntelli” dellasua autorità oppose un deciso rifiuto alla richiesta dei baroniquando fu rinnovata, « che egli non avrebbe mai garantito talilibertà che lo avrebbero fatto uno schiavo di se stesso >>.Questa volta i baroni ricorsero alle armi; grazie alle loro inteseraccolsero in breve un esercito e ben consapevoli che nessunainiziativa che riguardava tutto il popolo poteva essere presa senon con l'avallo della religione, nominarono il loro comandante << Maresciallo dell'esercito di Dio e della santa Chiesa >>,per sancire l’intesa fra nobiltà, Chiesa e popolo. Londra, lacittà il cui favore era ormai decisivo nelle contese civili, dichiarò il suo pieno sostegno all’azione dell’aristocrazia neiconfronti del re.Giovanni si trovò così completamente isolato, di fatto prigioniero nella Torre di Londra una volta roccaforte del suopotere, senza la possibilità di ricevere alcun aiuto dai suoi ex alleati. Non gli rimase che accettare le richieste dei baroni; il15 giugno del 1215 firmò i due documenti in cui erano precisate in distinti articoli le richieste dei baroni e del popolo, laMagna Carta e la Carta delle foreste, con le quali furono delimitate, per la prima volta, le prerogative della monarchia,prima ritenute senza alcun limite, e furono poste le basi dellelibertà inglesi: << il re Giovanni... firmò quei due memorabilidocumenti che per la prima volta disarmarono la Corona dellesue illimitate prerogative, e posero il fondamento della libertàinglese >>. Burke ricorda che le due Carte furono redatteper quanto riguarda il loro preambolo con la formula delledonazioni disposte a favore dei monasteri, « per il bene dell’anima del re e per quelle dei suoi successori», quasi a volersottolineare il contributo determinante dato dalla cultura ecclesiastica alla prima dichiarazione delle libertà inglesi.Per garantire l'osservanza delle due Carte i baroni ottennero inoltre che venisse riconosciuto un consiglio formato daventicinque baroni, scelti dall'ordine nobiliare senza alcun intervento da parte del re, con il compito di fungere da tribunale per giudicare tutte le violazioni degli articoli delle dueCarte. Quest’ultima concessione aveva dì fatto “detronizzato”il re: Giovanni si vide privato della sua stessa autorità “regale”, Tentò di nuovo di riacquistare le sue prerogative sovrane, questa volta con una “riconquista” dell’Inghilterra, persconfiggere definitivamente la nobiltà e sottomettere l’ordineecclesiastico. Si rivolse inizialmente al Papa, ma i baroni, sostenuti dall’Arcivescovo, non furono intimoriti dai provvedimenti di condanna emanati da Roma; risolse allora di reclutare un esercito nelle Fiandre e in Germania, fidando nellospirito di avventura della nobiltà cadetta di quelle nazioni, eriuscì a formare due armate che avrebbero dovuto invadere

l’Inghilterra dal nord e dal sud.I baroni rimasti privi del consiglio politico dell’Arcivescovo, che aveva dovuto abbandonare l'Inghilterra a motivo dell’interdetto, nella loro “rude” imprevidenza non si eranoresi conto delle macchinazioni del re: quando ebbero notiziadell’imminenza dell’invasione, ricorsero per aiuto al re .diFrancia ed accettarono come loro re suo figlio Luigi. L'intervento del re di Francia muto radicalmente la situazione: glieserciti di Giovanni, senza disciplina e disorganizzati non ressero il confronto con le forze inglesi sostenute dai francesi efurono rapidamente sbaragliati. Luigi poté entrare a Londra ericevere l’omaggio di tutti gli ordini. Né valsero le nuove condanne del Papa a fiaccare la resistenza inglese e ad indurre ilre di Francia a desistere dal suo intervento; l’Arcivescovo, cheera stato reintegrato nella sua sede di Canterbury, rimase fedele alla sua politica di sostegno dei baroni e delle libertà inglesi e di fatto vanificò l’interdetto papale continuando nell'esercizio del culto divino. Il re abbandonato da tutti, distrutto nel suo prestigio, affaticato dalle continue fughe per sfuggire ai suoi nemici, morì in quello stesso anno dopo diciotto anni di regno, o piuttosto di lotta per conservare il regno, << il più turbolento e il più calamitoso sia per il re che peril popolo di quelli che sono ricordati nella storia inglese ».Secondo Burke le due Carte devono essere valutate storicamente al fine di interpretarne il contenuto secondo le esigenze e lo stato della società inglese, e quindi secondo le consuetudini e le leggi del tempo: occorre osservare a tal proposito che le istanze di libertà si precisano riferimento ai diritti “positivi" che le interpretano e le garantiscono in quelcontesto storico. In questa prospettiva ha un particolare rilievo, secondo Burke, la Carta delle foreste, la meno famosa,perché essa rispecchia una realtà sociale che ci consente di intendere i “diritti di libertà” che furono garantiti alle categoriesociali minori, che formavano la maggioranza del popolo,contro i soprusi e le vessazioni del potere regio e dei signorifeudali. Le foreste si estendevano su vastissimi territori che appartenevano al demanio reale ed erano amministrare secondoleggi particolari completamente distinte da quelle che facevano capo alla giurisdizione ecclesiastica ed alla “common law". Esse risalivano all’insediamento delle popolazioni delnord in Inghilterra per le quali la caccia rappresentava unadelle primarie fonti di alimentazione e che con i Normannidivenne una delle attività preferite, una vera e propria passione dei re e dell'alta aristocrazia. Agli inizi del 1200 si contavano sessantotto foreste reali alcune di vastissima estensione: esse non erano incluse in alcuna ripartizione giuridico amministrativa, nel loro ambito non avevano vigore né la legislazione ecclesiastica né la common law e le relative giurisdizioni. Per tal motivo le leggi delle foreste, che prevedevanopene severissime, legittimavano una giurisdizione penale arbitraria e sottratta ad ogni forma di controllo. “L’ordinamento”delle foreste consentiva una delle forme più dure di oppressione nei confronti delle classi più umili, che erano soggette,quando rientravano nella loro giurisdizione, ad ogni forma divessazione: la minima infrazione di queste “leggi” 'era considerata reato di alto tradimento nei confronti del re, il checomportava pene molto crudeli, senza quelle garanzie di giudizio che erano previste dalla legge ecclesiastica e dalla “common law”.Questo tipo di “governo” delle foreste aveva effetti deltutto negativi anche dal punto di vista economico-sociale, nel

senso che era la causa prima della “desolazione” che affliggeva vastissime zone di territorio, in quanto incideva in modogravissimo su ogni forma di attività economica del popolo, colrendere estremamente difficili le comunicazioni e i commerci,bloccando in tal modo ogni tentativo di sviluppo e progressoeconomico. Si aggiunga inoltre che l'uso invalso da parte deldemanio reale e dei grandi feudatari di aggregare altre terrealle foreste, aveva dì fatto consentito la spoliazione dei proprietari confinanti, che non potevano contare su alcun rimedio giuridico contro tali provvedimenti. La Carta delle foreste, proprio perché era finalizzata all’abolizione di molte foreste, a vietare la pratica del loro incremento abusivo, a mitigaree ad “accertare” le pene, rappresentava per la società inglesedel tempo una fondamentale garanzia di libertà civile, premessa dì quella politica.Per quanto riguarda la Magna Carta possiamo parlare diuna prima garanzia di libertà politica, ma con alcune essenziali precisazioni. Il documento deve essere ir1terpretato sullabase della common law, quale ordinamento che si formò inInghilterra mediante la “fusione” delle consuetudini anglosassoni con le norme e gli istituti del feudalesimo introdotto inInghilterra dai Normanni enon si può sostenere, osserva Burke, come vorrebbero invece i nostri storici e i nostri giuristi,che sia un “rinnovo” di leggi sassoni o di leggi di S. Edoardo.Il fine della Magna Carta è il temperamento del sistema feudale quale fu instaurato in Inghilterra dai Normanni. Nési rinviene in quel documento alcuna disposizione che possaessere interpretata con riferimento alla proprietà intesa comefondamentale e originario diritto dell’individuo e ai privilegi,considerati come diritti di libertà che appartengono originariamente all'individuo; proprietà e privilegi derivano dalla concessione del re per loro e per i loro eredi che è l’unica fontedi legittimazione dei diritti e dei privilegi.Fatta salva questa premessa si rendeva meno gravosa unaserie d'obblighi cui era tenuto il possessore dei feudi nei confronti del re: furono così ridotte le altissime prestazioni in denaro che l’erede del feudo doveva versare all’amministrazionereale in occasione della immissione nel possesso del feudo, atitolo di riconoscimento della dipendenza feudale dal sovranoma che in effetti si riduceva ad un vero e proprio riscatto dell'intera proprietà. Furono anche eliminati gli oneri che gravavano sui matrimoni dei feudatari di cui il re si serviva per imporli o per impedirli al fine di prevenire un ignobile mercatodelle persone degli eredi.Se queste norme attenuarono la dipendenza feudale dell’aristocrazia dalla Corona, quelle che riguardarono l'amministrazione della giustizia ebbero una più vasta portata perchégarantirono dall’uso arbitrario del potere la generalità del popolo. Le ammende da pagare per la definizione dei giudizinon erano più lasciate alla discrezionalità del giudice, che,come funzionario del re, fissava spesso un ammontare cheequivaleva di fatto alla confisca del patrimonio del condannato a beneficio del demanio reale, ma doveva essere commisurato al reato e alla condizione sociale del condannato. Furono istituiti tribunali “fissi”, Common pleas, per le vertenzecivili, distinti e sottratti alla giustizia “itinerante" del re, fontedi gravissimi inconvenienti ed abusi: si introdusse in tal modoil principio che la giustizia dovesse essere amministrata da un

corpo di giudici costituito per legge e sottratto alla diretta influenza del re: << Ma anche questa (disposizione) può essereconsiderata come una grande rivoluzione. Fu costituito untribunale, una “creatura" della sola legge, ir1dipendente da unpotere personale, e questa separazione dell'autorità del Redalla sua persona fu un fatto di vaste conseguenze nella promozione delle idee di Libertà e nel confermare la sacralità e lamaestà della legge >>. Si stabili infine la norma che nessunopoteva essere condannato se non in base ad un giudizio deisuoi pari: questo per Burke è << il grande articolo che cementatutte le parti dell’edificio della libertà ».Con il penultimo articolo ogni feudatario fu tenuto ad attuare nel suo feudo le norme sancite dalla Carta, che furono intal modo estese all’intera nazione inglese. I “privilegi” richiesti econcessi con la Magna Carta ebbero l’effetto “rivoluzionario” diincidere sulla rigida e chiusa struttura feudale e di rendere possibili rapporti di intesa e di collaborazione fra l’aristocrazia e glialtri due ordini, aprendo spazi di autonomia e libertà al popolo.I grandi aristocratici facevano stabilmente parte del governodella nazione inglese, consapevoli ormai della necessità di agirecome ordine e di mantenersi uniti Fine di garantire l’osservanza dei “privilegi” sanciti nella Magna Carta. Con l'ultimo articolo veniva istituito un consiglio di venticinque baroni, sceltidai propri pari senza alcun intervento del re, che avrebbe dovuto giudicare di tutte le infrazioni commesse contro le normesancite dalla Carta: le sue decisioni dovevano considerarsi, peresplicita dichiarazione del re, immediatamente esecutive. Il potere del re riconosceva cosi un limite di carattere legislativo edistituzionale, che avrebbe costituito il presupposto del sistemacostituzionale inglese.Nel regno di Giovanni i contrasti, i conflitti fra monarchia, aristocrazia, Chiesa e popolo che avevano caratterizzatola monarchia normanna ma che risalivano per molti aspetti aquella anglosassone, trovano alla fine una loro storica conclusione nella << grande rivoluzione in favore della libertà >> che consente di considerare la storia inglese in una precisa prospettiva. Possiamo così comprendere il processo di formazione storica della società e dello Stato inglesi, quali le forze, ele istituzioni che agirono in quel processo e le ragioni specifiche per cui la dinamica dei conflitti politici fra monarchia,aristocrazia, Chiesa e popolo ebbe come risultato istituzionalela Magna Carta. La continua “lotta" della Chiesa per il riconoscimento delle sue “libertà” fu la premessa perché il popolopotesse ottenere le proprie “libertà”, che furono sostenutedalla Chiesa in quanto finivano per _consolidare quelle di cuiessa già godeva. La mente politica della resistenza a Giovanni,dell'intesa fra Chiesa,.aristocrazia e popolo, non poteva essereche il cardinale Langton, che si era reso conto che la libertàdella Chiesa poteva essere garantita dalle indebite ingerenzedel potere reale solamente se avesse fatto parte delle libertàdegli altri due ordini, la nobiltà e il popolo, rappresentatodalle città e dalle altre comunità minori. Con la Magna Cartale forze politiche della società inglese entrano in un rapporto

di reciproca connessione ed interdipendenza e danno vita aun “sistema politico", a un ordine costituzionale, con cui ildiritto comincia a regolare e disciplinare le prerogative sovranedel potere del monarca.

CAPITOLO SESTO

LE ORIGINI DEL PENSIERO POLITICO DI BURKE

Il pensiero politico di Burke ha tre iniziali punti di riferimento: problema dei rapporti fra religione e società, Vindication, quello dei rapporti fra passioni e società, Enquzŕy, equello dei rapporti fra storia e società, Abrzldgment, con riferimento alla filosofia illuministica di Bolingbroke e di Hume.La Vindication intende dimostrare che il rapporto postoda Bolingbroke fra religione naturale e religione artificiale conle sue relative conseguenze vale anche per il successivo rapporto, società naturale - società artificiale, intendendosi perquest'ultìn1a la società “storica", politicamente organizzata,così come aveva precisato Bolingbroke . La tesi, come sivisto, è svolta sul piano di un argomentare che è continuamente animato da un'ironia discreta, quasi nascosta, ma sottile, che sottintende una meditata maturazione dei problemiche vengono trattati, e che si compiace di riferirsi ai concetti,ai principi, alle tesi sostenute nelle opere di Bolingbroke, percoglierne la sostanziale contraddittorietà. Bisogna riconoscereche nella sua critica Burke ha buon gioco, che l'ex ministrodella regina Anna, come è stato rilevato, troppe volte portanei suoi scritti filosofici l’animosità e l’“abito” dell’uomo politico che svolge tesi ed usa argomenti a seconda degli interessi del momento, senza darsi eccessiva preoccupazione diorganizzare in una concezione armonica e coerente le tesi e gliargomenti via via sostenuti. Perciò, a volte, il discorso cheBurke svolge nella Vindication si avvale di affermazioni brillanti ma un po' paradossali e sotto un certo punto di vista inparte scontate, dato che lo scrittore irlandese in tutto il brevesaggio mantiene costante la sua punta polemica nei confrontidel pensiero di Bolingbroke.In altri termini non è una critica che individua e svolgenuovi principi o nuove posizioni di pensiero politico, quantouna critica che si muove all'interno delle argomentazioni dell'avversario, che usa il suo stesso metodo, nel senso checontinua il suo ragionamento e lo porta alle sue ultime conseguenze, che non possono non esprimersi, a volte, se non sulpiano del paradosso. L’importanza della Vindication perquanto riguarda le origini del pensiero politico di Burke, risiede nella sua decisa presa di posizione nei confronti delpensiero politico di Bolingbroke, strettamente connesso con iprincipi e i valori della filosofia illuministica: tale proposito ciconsente di individuare, al di sotto del discorso critico, alcuneconvinzioni profonde che costituiscono, in sostanza, il puntodi partenza per la successiva speculazione politica burkiana.Occorre rilevare, al fine di evidenziare il vero e profondo

significato della polemica burkiana, che la Vindication non siriferisce solamente a Bolingbroke: certo i riferimenti testuali,soprattutto la prefazione alla seconda edizione nella quale,come si è accennato, l’autore dichiara esplicitamente il suo intento onde dissipare fra l’altro i dubbi che erano sorti sullapaternità del saggio, sono quanto mai precisi. Bolingbroke,infatti, non era il solo che avesse teorizzato, in una prospettiva illuministica, la società politica come società “artificiale”.Bolingbroke si avvale del termine “artificiale” per precisareche le leggi e le istituzioni che consentono l’unione di unamoltitudine di individui su un vasto territorio sono “inventate” dagli uomini, sono i “mezzi", gli “strumenti” fatti dagliuomini che si sono educati alla razionalità per il tramite dell’esperienza, si che le leggi politiche, in quanto artificiali, nonhanno alcun fondamento in valori e principi meta empirici. Lasocietà “artificiale” è, in definitiva, l’espressione dell’amor dise, che ispira tutte le azioni dell'individuo, che si manifestainizialmente nella ricerca del proprio interesse, e che acquistaconsapevolezza di se stesso allorché si rende conto della coincidenza con l’interesse pubblico: la conclusione è che l’amordi sé ha la sua completa esplicazione e la sua chiara espressione “razionale" solamente nell’ambito della società “artificiale”.Non mancano nei frammenti filosofici di Bolingbroke riferimenti ad una teoria della società “artificiale. Ma chi inquegli anni propose una compiuta, organica e coerente giustificazione dal punto di vista filosofico della società politicacome società “artificiale” è indubbiamente Hume, amico edestimatore di Bolingbroke e per tanti aspetti compartecipedegli orientamenti culturali del visconte. Non è qui il casodi dare una compiuta esposizione del pensiero di Hume sull'argomento che è, come è noto, uno dei più interessanti e piùimportanti del suo pensiero politico: basterà richiamare per inostri fini alcuni concetti, alcune argomentazioni che possano}mettere in evidenza certe consonanze e a volte alcune identitàdi posizione fra Bolingbroke e Hume.Nel volume terzo del suo Trattato della natura umana epiù precisamente nella parte seconda, Hume esamina il concetto di giustizia e l’indagine prende le mosse proprio dalquesito se la giustizia sia una virtù “naturale” o “artificiale”,“Justice, whether a natural or artificial virtue”, per affermare e dimostrare che: << we must allow, that the sense ofjustice and injustice is not derived from nature, but arises artificial, tho necessarily from educations and human conventions >>. Sempre nella seconda parte, soprattutto nella sezione sesta, Hume si preoccupa di chiarire il significato diquesta sua affermazione, ribadendo in termini ancora più precisi il suo concetto. Dopo aver ricordato che la stabilità deipossessi, la possibilità di trasferirli mediante il consenso e ilrispetto delle promesse costituiscono le tre fondamentali leggidi natura sulle quali si costituisce la società politica e si garantisce la pace e la sicurezza; che la società è l’unico mezzo per

realizzare il benessere, cioè la felicità degli uomini, e che questo benessere è il reale fondamento delle società; che se leleggi di natura hanno imposto una disciplina alle passioni degli uomini, queste stesse leggi sono i mezzi più elaborati e piùidonei per soddisfare le passioni, Hume termina le sue considerazioni precisando l'essenza meramente “artificiale" dellasocietà: << La natura ha inoltre affidato questo compito interamente alla condotta degli uomini, e non ha posto nella mentealcun particolare originale principio per determinarci ad uncomplesso di azioni, verso le quali sono sufficienti a guidarcigli altri principi del nostro umore e della nostra costituzione.E per convincerci più compiutamente di questa verità, possiamo formulare nuovi argomenti per provare che quelleleggi, quantunque necessarie, sono completamente artificiali eun’invenzione umana; conseguentemente la giustizia è unavirtù artificiale e non naturale ».In Bolingbroke e in Hume si ritrovano altre coincidenze;ad esempio anche in Bolingbroke la società politica ha comesua giustificazione primaria il fatto che solamente in essa èpossibile operare una scelta fra i bisogni presenti e quelli futuri, anticipare le necessità future e raffrontarle con quellepresenti: una tesi che, come è noto, ha particolare rilievo nelpensiero politico di Hume. Altri temi comuni si riferisconoalla società “naturale” fondata sull'istinto sessuale e alla società “artificiale” fondata sulla ragione educata dall’esperienza; alla benevolenza, alla giustizia intese come virtù sociali, e quindi “artificiali”; al ruolo fondamentale dell'amor disé nella formazione della società, all'educazione ed al costumeper quanto riguarda l’istituzionalizzazione dei comportamentisociali degli individui; ed infine al comune impegno (filosoficamente di gran lunga più maturo e più consapevole inHume) di respingere qualsiasi connessione fra la politica eprir1cipi o valori trascendenti che dovessero giustificarsi o sulpiano metafisico o su quello della religione.Per questi motivi la critica mossa a Bolingbroke nella Vindication si riferisce anche alle identiche tesi, sostenute con benaltro rigore filosofico, di Hume. E molto improbabile che Burke, avendo maturato la decisione di dedicarsi alla carrieraletteraria ed avendo scelto, come primo, un argomento relativo ai problemi più vivi del pensiero filosofico-politico inglese di quegli anni, non si fosse preoccupato di conoscere gliscritti pubblicati in materia che avevano contribuito e contribuivano ad alimentare l'interesse ed a ravvivare il dibattito suquegli stessi problemi; né poteva sfuggirgli il fatto che Humeapparteneva, in fondo, allo stesso ambiente culturale di Bolingbroke. Del resto non mancano nella Vindication delle osservazioni che possono essere puntualmente riferite a passi delTrattato, dei Saggi e dei Discorsi ci sembra difficile che possatrattarsi di una mera coincidenza casuale.La Vindication presuppone pertanto i problemi dell'illuminismo inglese quali erano stati svolti da Bolingbroke e daHume: ir1 questa prospettiva possiamo cogliere, a quanto cisembra, la premessa delle considerazioni svolte da Burke in

questo suo primo scritto. A tal fine occorre soffermarsi sull'affermazione conclusiva che l’ordine politico considerato sottol'aspetto con cui si organizza e si amministra il potere politico(costituzione) e l’ordine civile e, sociale, in altri termini la società “artificiale”, non riesce a garantire all’ir1dividuo la libertà, la sicurezza, la tranquillità, anzi è la fonte di tutti i malidi cui soffre l'individuo. La società politica significa, in definitiva, forza, soggezione, oppressione, sfruttamento, miseria,dolore, ignoranza, perversione, noia, disperazione, infelicità:la storia si riduce al racconto del “tempo” passato dagli uomini ad uccidere e sottomettere i propri simili.Con questa conclusione di un cosi radicale pessimismoBurke riprende, in sostanza, un “vecchio”, ma sempre attuale,discorso che era stato fatto agli inizi della speculazione filosofico - politica da Platone. Il filosofo aveva avvertito che la riduzione del mondo venerato e sacro delle leggi, della giustizia,ad un principio empirico, all’utile, ad un principio fondatosulla “doxa” e non sull'“episteme”, porta fatalmente il mondopolitico alla disgregazione, alla lotta delle fazioni, alla lottafratricida fra polis e polis e ad accettare quale unico principiodi coesione quello della forza. In altri termini l'ordine e lastabilità politiche presuppongono che sia mantenuto attuosol’intimo nesso che fa partecipe l'individuo di un ordine meta empirico, dell'idea del sommo bene. Una volta che si sia negata questa realtà, la vera, e che tutto sia ricondotto all’individuo empirico, al fare, quale si esprime e si coglie nella immediata sensazione, si sarebbe a poco a poco disgregato il delicato sistema delle norme etico - religiose che costituiscono ilfondamento di quella autorità che,unica, legittima il poterepolitico e ne costituisce il principio che dall'interno, nel solomodo sostanziale, lo mantiene in quei limiti che garantisconola stabilità dell'ordine politico e l'attuazione della giustizia.Nei confronti del pensiero politico illuministico, con particolare riferimento a Bolingbroke e ad Hurne, Burke avvertelo stesso problema: la sua polemica, che prende l'avvio dalvalore e dal significato da attribuire alla religione, ha un immediato esito politico, proprio perché il giovane scrittore irlandese (aveva ventisette anni quando scrisse la Vindication)avverte, sia pur non con quella consapevolezza delle operedella maturità, che la società politica reclama una giustificazione che trascenda la realtà propria del limitato sapere e fareempirici dell'individuo, ai quali sono riportati non solamentela verità ma soprattutto la moralità.La pretesa di razionalizzare tutti i valori, i principi, leistituzioni, i comportamenti degli individui nella società, diusare come unico metro nell'esame di tutte le questioni la ragione intellettualisticamente determinata, di ridurre la religione nelle sue manifestazioni storiche ad una superstizione(anche la giustizia per Hume è una superstizione, ma è utilealla società) ed infine di dare alla morale un fondamento edonistico-utilitaristico, significa per Burke privare la società politica del suo vero centro unificatore, il principio religioso, cuideve essere riconosciuta una sua realtà autonoma, che dà unsignificato ultimo e un fondamento all’ordine della societàpolitica e all’agire dell’individuo. Si vanifica la religione nellesue manifestazioni del culto e nella sua espressione teologicae poi si pretende che la stessa religione serva a rafforzare ed

a legittimare il vincolo costituito dalle leggi civili: evidentemente non ci si rende conto che una volta criticato il sentimento religioso non è più possibile, almeno nell’ambito dellaragione come sopra determinata, la pari dignità etico - spirituale di ogni uomo.Proprio perché si è risolto sul piano della critica intellettuale il vero centro dell'ordine politico sociale, la società politica non può essere, coerentemente, che ridotta ad un meccanismo che riceve l’impulso e continua a funzionare graziead una forza il cui unico fine è di conservarsi, “riproducendosi” sempre identica a se stessa. Perciò la storia dell’umanitàsi riduce ad una storia di guerre, senza alcun altro contenuto,si che non è possibile riscattarla nemmeno sul piano della civiltà. Perciò tutte le costituzioni, la monarchica, l’aristocratica, la democratica, compresa la tanto celebrata costituzionemista, non riescono a mantenere il potere o la forza politicanei suoi limiti e quindi a garantire la libertà il benessere, la felicità degli individui, sì che l’unica vera forma di governo èquella dispotica.Ne è possibile salvarsi dal dispotismo, dato che la ragionestessa, che è l'unica legittimazione, nella concezione razionalistica della società, del potere politico, non offre in effetti altrascelta: si dice che gli uomini sono animati e sollecitati da passioni ingovernabili che li sospingono gli uni contro gli altri eche, al fine di sottrarre gli uomini a questo stato di anarchia edi disordine, viene costituito un governo che li mantenga nellapace e nell'ordine. Ma tè una soluzione solo apparente. Ancheil governo è costituito da uomini che continuano ad esseresollecitati da quelle stesse passioni, né è stata ancora dataun’esauriente dimostrazione che l'uomo, per il fatto stesso diessere stato incaricato di governare, perda la sua “natura lupesca” e diventi seguace di virtù e giustizia. Si rinnova cosi ilvecchio quesito: “Quis custodiet ipsos custodes?”. E a questadomanda non si può rispondere se non con la considerazioneche, date le premesse, la “custodia dei custodi" non è realizzabile, sì che l’individuo è praticamente alla mercé del potereche lui stesso ha contribuito a costituire.Alla stessa conclusione dobbiamo pervenire quando esaminiamo la società dal punto di vista civile e sociale: è indubbiamente questa la critica più interessante della Vendicationcon la quale Burke coglie i limiti della concezione illuministica proposta da Bolingbroke .e da Hume. Il sistema delleleggi civili, invece di assolvere all’esigenza fondamentale digarantire la stabilità dei possessi e soprattutto della proprietà,il godimento della proprietà e la sua trasmissione pacifica fragli individui, il rispetto della parola data e quindi l’obbligatorietà dei contratti, sottopone la società civile, cioè i concretirapporti degli individui, a quello stesso dis otismo, a quellastessa oppressione che caratterizzano la politica. Agli individui è in sostanza sottratta l'amministrazione dei propri interessi, affidata ad una ristretta categoria di persone, avvocati egiudici che detengono il monopolio della conoscenza delleleggi, che, peraltro, sono talmente complesse e “inviluppate”in un formalismo così rigoroso ed astruso da vanificare la certezza che dovrebbe caratterizzare i rapporti fondati sullestesse leggi, rendendo così illusoria la stabilità dei possessi, lagaranzia e la tutela della proprietà e l’obbligatorietà dei contratti.

Occorre inoltre considerare che il sistema delle leggi civiliche si fonda sull’istituto della proprietà sancisce, di fatto, unagravissima limitazione della garanzia di cui dovrebbero godere tutti gli individui, quella cioè di richiedere l’interventodella giustizia a tutela dei propri diritti. Dato l’altissimo costodella giustizia questa possibilità è praticamente consentita solamente ai ricchi, si che le leggi finiscono per sancire l’innaturale distinzione fra ricchi e poveri e la stessa giustizia vienetrasformata in uno “strumento” del ricco per opprimere ilpovero, al quale viene tolta di fatto ogni possibilità di difesa,dato che la società non esiterebbe ad intervenire contro il povero che intendesse ribellarsi a questo stato di cose.Questa stessa situazione si manifesta in tutta la sua crudarealtà allorché noi consideriamo la “genesi” della proprietà,come nasce e come si “legittima". La proprietà è l’istituzionetipica della società artificiale, che si costituisce mediante lanegazione del principio sul quale si fonda la società di “natura”, che l'individuo tanto possiede per quanto lavora e che tutto il frutto del suo lavoro gli appartiene, per affermare invece la regola che il prodotto del lavoro della stragrande maggioranza degli individui possa concentrarsi nelle mani di pochi. Questa è l’essenza della proprietà: essa si fonda su unaappropriazione indebita e sullo sfruttamento e ribadisce pertanto, sul piano sociale, quella stessa soggezione ad un poteredispotico che caratterizza, come si è visto, la società politica.La proprietà sancisce la schiavitù di tanti uomini, condannati ad un lavoro abbrutente nelle miniere, nelle fabbriche,ove si trasformano le materie prime, in condizioni che li disumanizza e li riduce al rango di bestie. Il sistema delle leggi civili (ir1 particolare la proprietà) presuppone (ma li nasconde)la miseria, il dolore, il sacrificio, L’avvilimento, lo sfruttamentodi tanti uomini - forse la maggioranza della società in definitiva lo stato di oppressione da parte di pochi su molti cherende ancora più forte e “penetrante” il dispotismo che caratterizza l’ordina mento politico.Burke riprende i motivi di una polemica svoltasi nel pensiero politico inglese al tempo della rivoluzione puritana, daiLivellatori e successivamente dagli Zappatori, che sottolineavaproprio la contraddittorietà delle leggi naturali con quelle artificiali sulle quali si fonda la società : in questo caso, aquanto ci sembra, la sua critica e il suo intento polemico sonorivolti anche nei confronti di Hurne, che non aveva esitato astigmatizzare le pretese sostenute proprio durante la rivoluzione puritana, che tendevano a scardinare la posizione egemonica della proprietà privata nell’ordinamento politico inglese, ed a giustificare l’opera di repressione del magistratonei confronti di quegli “esaltati". Oltre gli intenti puramente polemici, le osservazioni di Burke dimostrano una sensibilità ed una “apertura” di carattere politico e sociale neiconfronti dei problemi connessi all'incipiente processo di industrializzazione inglese, anticipando considerazioni che saranno formulate solamente dopo circa un cinquantennio. Unasensibilità completamente assente nei teorici della società “artificiale”.Bolingbroke e Hume secondo Burke propongono, in definitiva, una società che intende essere l’espressione dell’esperienza empirica degli individui, basata quindi sulla “concretezza” dei fatti convalidati da quella stessa esperienza; maquesta società si risolve invece in una “finzione” che ignora lesituazioni reali presupposto della società e dell'ordine politico

e che in effetti legittima lo “stato di fatto", una società rigidamente aristocratica, in cui la “cittadinanza” è riconosciuta aduna ristretta categoria di persone. Fuori di questa società cisono gli “'altri”, il popolo, “populace”, i molti, animati di voltain volta, a seconda delle situazioni, o dall’entusiasmo o dallasuperstizione, e che, benché tenuti a freno dalle leggi dellasocietà, potrebbero alla fine prevalere se non venissero pertempo sottomessi ad un potere assoluto.Come si è accennato la società “artificiale” non riesce afar valere un principio che garantisce la stabilità dell’ordinepolitico, che oscilla continuamente fra due tipi di assolutismo,o quello della moltitudine o quello del monarca: Hume in unsaggio politico del 1741, intitolato significativamente: Se il governo britannico inclini più verso la monarchia assoluta oppure verso la repubblica sembrava aver teorizzato proprioquella conclusione, dichiarando di scegliere fra i due mali ilminore, quello di una monarchia assoluta ir1 grado di garantire l’ordine e la pace contro la tirannide della moltitudine:« La cosa va perciò rimessa all’opera dello sviluppo naturale;e la Camera dei Comuni conformemente alla sua attuale costituzione deve essere l’unico corpo legislativo di questo governo popolare. Ma gli inconvenienti che accompagnano unsimile stato di cose si presentano a migliaia. Se la Camera deiComuni, in questo caso specifico, si scioglie, cosa che non èda attendersi, dovremmo sopportare tutta la tirannia di unanuova fazione suddivisa in nuove. E poiché un governo violento di questo genere non può durare a lungo, alla fine, dopomolte convulsioni e guerre civili, troveremo riposo nella monarchia assoluta, che sarebbe stato meglio per noi aver instaurata pacificamente fin dal principio. La monarchia assoluta,perciò, è la migliore morte, la vera eutcmaszá della costituzioneinglese ». Le conclusioni dell’esame condotto nella Whdztatzbn ci richiamano a quanto aveva' sostenuto Hume a proposito dell’esito ultimo del sistema costituzionale inglese: la ragionescettica non solamente dissolve le religioni storiche e le culture che ad esse si richiamano confinandole fra le superstizioni, ma finisce per “disarticolare” anche quell’ordine politico che si sarebbe voluto salvare in nome della libertà. Oraproprio questa conclusione mette in forse concetto di civiltàsu cui l’illuminismo tanto insiste: quale significato hanno laciviltà, le arti e le scienze che contribuiscono a formarla, sealla fine viene a mancare la libertà che ne è il presupposto necessario e lo spirito animatore? E poi ha un valore umanoquesta civiltà da cui è esclusa la stragrande maggioranza degliuomini? Riesce ad unire con ideali e valori comuni tutti gliindividui che costituiscono la società che l'ha promossa?La risposta non può che essere negativa, proprio perchéla ragione ha scavato un abisso fra i pochi e i molti, impedendo loro qualsiasi rapporto di vera collaborazione ed hatolto alla società ogni contenuto che potesse costituire un comune punto di riferimento dei pochi e dei molti. Perciò la società artificiale si riduce, come si è detto, alla pura forza,l’unico mezzo per mantenerla unita, e perciò la forza è il solo“personaggio" della storia dell’umanità, che non può, registrare altro se non gli avvenimenti e gli episodi collegati all'uso della forza, cioè le guerre. Riferita alla società “artificiale" la civiltà sembra perdere qualsiasi consistenza e significato. D'altro canto la distinzione fra i pochi e i molti, proprio

perché si realizza nella concreta esperienza sociale come distinzione fra ricchi e poveri, finisce per disumanizzare tutti gliindividui che appartengono alle due categorie - gli uni perché resi aridi dal tormento di una insaziabile voglia di dominio o da una sfibrante ricerca di un piacere sempre più raffinato che alla fine non dà più alcuna soddisfazione, gli altriperché istupiditi o imbestialiti da una fatica che non conoscesoste. È vanificato in tal modo ogni principio e valore etico morale. Questa conclusione con la quale Burke pronuncia la condanna definitiva della società “artificiale" ci richiama aquanto, all’incirca due anni prima, Rousseau aveva sostenutonel Discorso sulla disuguaglianza, scritto che quasi certamenteil giovane scrittore irlandese conobbe e dovette tener presentenella redazione della sua lG7’ZdZ‘CáŕiO7’l. Già in Rousseau, comeè noto, il mondo della società “artificiale" era stato radicalmente condannato, ed esaltato quello semplice e spontaneodella natura, proprio perché il processo di formazione dell'ordine politico, che ha come suo istituto costitutivo quello dellaproprietà, mette capo necessariamente al dispotismo che finisce per disumanizzare l’uomo e col pervertire l'ordine deiprincipi e dei valori sui quali si fonda la moralità dell'individuo. Le analogie che si riscontrano fra la Vindication e il Discorso sulla diseguaglianza attestano che Burke si rendeconto come la contrapposizione fra società naturale e societàartificiale scaturisce per così dire all'interno della concezioneilluministica come primato della ragione fondato sul continuoprogresso delle scienze e delle arti, un primato che dissolve lavera, naturale umanità dell'uomo per formare, mediante l’invenzione della società politica, un uomo del tutto “artificiale”.E questo secondo Rousseau il risultato della fondazione e delcontinuo “perfezionamento” della società politica: <<In unaparola egli spiegherà come l’anima e le passioni umane alterandosi insensibilmente cangino per così dire di natura; perché i nostri piaceri ed oggetti cambino a lungo andare di oggetto, perché svanendo l’uomo originario a gradi, la societànon offra più, agli occhi del saggio che un'accolta di uominiartificiali e di passioni fittizie, che sono il prodotto di tuttequeste relazioni nuove, e non hanno alcun vero fondamentonella natura ». In questa prospettiva la cultura della ragione illuministapone le premesse per una lenta ma progressiva e fatale corruzione e disintegrazione della società artificiale, divisa al suointerno dal contrasto degli interessi, dalle diffidenze e dagliodi di classe, fautori di disordini, di lotte e di rivoluzioni, chesi concluderanno con l’affermazione del dispotismo, << in cuitutto si riporta - nota Rousseau - alla sola legge del piùforte e in conseguenza a nuovo stato di natura differente daquello da cui abbiamo preso le mosse, in quanto quello è unostato di natura nella sua purezza, e quest’ultimo è il prodottodi un eccesso di collusione >>. Ma il dispotismo o la monarchia assoluta, avverte Rousseau, non risolve i problemidella stabilità e dell'ordine politico, come riteneva Hume,dato che la legge del più forte implica che si succedano al potere tutti quelli che, di volta in volta, nelle continue mutevolisituazioni proprie delle società corrotte, risultano i più forti. Le critiche della società “artificiale” che per certi aspetti

ricollegano la Vindication al Discorso sulla diseguaglianza noncorrispondono ad un uguale intento e non si collocano in unacomune prospettiva. Burke critica la ragione illuministicanella sua pretesa di assolutizzarsi cioè di riportare nel suo ambito tutto il complesso mondo delle passioni e dei sentimentiche finisce per proporre un tipo di convivenza umana deltutto convenzionale, “artificiale”, che non trova un principiodi reale aggregazione e coesione, e si pone nel contempo ilproblema di individuare il vero rapporto che deve sussisterefra le passioni, i sentimenti e la ragione: di qui la sua polemicanei confronti della ragione astratta e di conseguenza della società artificiale.Rousseau invece vede nella ragione e soprattutto nelmodo con cui viene concepita dai teorici del primato dellescienze e delle arti, della civiltà dei lumi, da Voltaire, Diderot,d’Alembert, l’espressione dell’amor proprio cioè dell’originario principio della disuguaglianza, che distingue, diversifica,promuove l'utile, l'interesse, che è sempre il proprio utile, ilproprio interesse, il progresso delle arti e delle scienze, il raffinamento del gusto e delle convenzioni sociali. La ragione distrugge la moralità originaria dell'uomo, i sentimenti diumana solidarietà, di libertà e di uguaglianza e la sostituiscecon una morale meramente convenzionale adeguata all’uomo“artificiale", discendente diretto di questa stessa ragione:« Quella che genera l’amor proprio è la ragione, quella che lofortifica è la riflessione, essa ripiega l'uomo su se stesso, essalo separa da tutto ciò che lo molesta, e lo affligge. Quello chelo isola è la filosofia: per via di essa egli dice in segreto, al vedere un uomo che soffre: Muori se vuoi, io sono al sicuro >>. Al primato della ragione filosofica dei “philosophes" Rousseau contrappone quello della volontà, della moralità, che rigenerano la società “artificiale” ricostituendola exuovo per restituire all’uomo la sua originaria natura in unacomunità in cui si realizzino gli indissolubili rapporti diumana solidarietà, di libertà, di uguaglianza. Ma per Burkeanche il primato della volontà e della moralità proposto daRousseau rimane, come la ragione dei “philosophes”, nell’ambito della società “artificiale”, perché finisce per proporre unavolontà ed una moralità astratte che escludono la concretarealtà e dinamica dei sentimenti e delle passioni umane.La Vindication è la risoluzione critica del concetto di società artificiale e della contrapposizione illuministica fra questa e la società naturale: si poneva pertanto per Burke il problema di individuare il fondamento della società umana, sì dacomprendere il rapporto sussistente fra ciò che viene primadella ragione e la ragione stessa, cioè fra i sentimenti, le passioni che forniscono i dati della conoscenza, orientano e sollecitano la ragione affinché si traduca in attività pratica. Lasocietà umana è il risultato dell’attività pratica, che promanada un rapporto di “continuità” fra passioni, sentimenti, ragione, ed è perciò fatta da tutti, illetterati e letterati, “incolti”e “colti”, ed ha una “consistenza reale", non è un “artificio”una “convenzione” della ragione. Questo problema è affrontato nel secondo scritto di Burke A Philorophical Eriquiry intothe Origin of our Ideas of the Suhlime and Beautiful.i llEr1quz`r rivela la preoccupazione di Burke di “calare” la

ragione nel mondo umano dei sentimenti e delle passioni, perstudiare il rapporto che sussiste fra il pre razionale, ciò cheviene prima della ragione e la ragione stessa, per riconoscereil ruolo che svolge soprattutto nell’attività pratica dell’individuo ed individuare i principi che le consentono di essere consapevole della corrispondenza della sua analisi e dei suoi giudizi alla realtà, al concreto. Burke si richiama nel suosaggio soprattutto a Locke, ed anche a Hume, come si è visto, per precisare giudizi e considerazioni sul concetto di gusto. La gnoseologia lockiana, con la sua proposta della conoscenza fondata sulle sensazioni, lasciava sostanzialmente impregiudicato il problema di una natura che rifletteva in sél'ordine della creazione e quindi del riferimento alla ragione ealla volontà divine come garanzie di principi e valori meta empirici che costituivano il presupposto delle norme morali. Varicordato a tal proposito che nel Trattato sulla tolleranzaLocke ritiene che questa non si riferisce né ai cattolici, a suogiudizio intolleranti e decisi avversari della libertà religiosa, néagli atei, perché negare l’esistenza di Dio significa negare ilpresupposto essenziale sul quale si fonda il principio di buonafede, regola fondamentale di ogni società politica,L’empirismo dì Hume è certamente un’interpretazione' rigorosa e coerente del sensismo di Locke, che risolve sul pianognoseologico qualsiasi nesso o riferimento ad una istanza dicarattere metafisico 'o trascendente ed in questo ambito rientra la critica delle religioni storiche, le cui origini ne mostranol’essenza superstiziosa; per quanto riguarda invece il problema della religione intesa come esigenza di principi edideali meta empirici con riferimento all’esistenza della Divinità, l'unica soluzione è quella di una sospensione di giudizio,non possiamo né affermare né negare. Possiamo così intendere perché nell'Enqz¢iry Burke si richiami più di una voltaa Locke a conforto della sua analisi sul rapporto ragione – sensazioni - passioni e svolga invece una critica delle considerazioni relativiste in materia di “gusto” di Hume, insistendosulle connessioni dì carattere oggettivo che sussistono fra lesensazioni, le percezioni e le “passioni” degli individui, chesono pertanto il presupposto di un comune giudizio di veritàsulle qualità essenziali delle cose ai fini della loro valutazioneestetica. Burke con il termine “natura” intende una realtà, comprendente anche l'uomo in quanto “organismo vivente”, che,in virtù di un principio teologico - religioso (per essere statacreata da Dio), ha una intrinseca razionalità, per cui può essere conosciuta dalla ragione umana, ed è il presupposto diquelle conoscenze di carattere scientifico che consentono diconoscere sempre di più le leggi fisiche della natura. In questa prospettiva più di una volta Burke si richiama alla sapienzadivina, alla Provvidenza, e non manca dì rilevare che il fineultimo della conoscenza è il riconoscimento proprio della sapienza divina, come suprema e vera garanzia dell’ordine razionale del creato. La conoscenza della ragione nella prospettiva illuministicasignifica conoscere sempre di più perfezionando nel contempo le conoscenze già acquisite: è una convinzione allaquale Burke aderisce, ma con una duplice avvertenza. La razionalità della ragione non risolve in sè la natura: ciò significache la conoscenza razionale non riesce a pervenire alla ragione

ultima dei fenomeni che indaga, Ogni nuova scoperta allargacertamente l’orizzonte del nostro sapere, ma nel contempo cirende sempre più consapevoli dell’estrema, complessità delleinterrelazioni che sussistono nella serie infinita della cause naturali, e ci richiama pertanto ai limiti della ragione umana, lacui avvertenza, per Burke, è strettamente collegata al sentimento religioso dell`infinita sapienza cli Dio. Questo non significa dichiarare il “fallimento” della ragione, o assumere unatteggiamento “scettico" nei suoi confronti, ma riconoscerle lacapacità di pervenire a risultati oggettivi ‘e veritieri nell’ambitodei limiti che le sono propri. Né la ragione si dichiara pagadei risultati che consegue ma è sempre animata e sollecitataad allargare il campo delle sue conoscenze dalle passioni pre razionali, lo stupore, la meraviglia, la curiosità, che alimentano il desiderio di conoscenza. Questo si traduce nell’amoredella verità, che di nuovo rinvia a principi e valori meta empirici garanti della continuità e del progresso dell’attività razionale. L’uomo fa parte della natura, di un “tutto” organico e vivente, ma nello stesso tempo è totalmente altro dalla natura, èuna “coscienza originaria” che diventa consapevole di sestessa nell’esperienza della più alta emozione che può provare, quella del sublime, alla quale è connessa l'avvertenzadell’esistenza-presenza di Dio, del sentimento religioso cheper Burke svela il significato di verità della nostra esperienzaed attività. Ed è proprio quest’ultima che acquista una particolare rilevanza nei confronti della ragione, nel senso che l’attività pratica perviene secondo Burke ad una comprensione“reale”, concreta, della realtà e non formale, astratta comequella della ragione “illuministica” che identifica la realtà conla sua razionalità, mentre l’esperienza insegna, avverte Burke,che si “ha ragione in teoria e torto in pratica".In questa prospettiva Burke avverte l’esigenza di intendere il nesso “vitale” che intercorre fra le passioni, i sentimenti e la ragione che consente una conoscenza non formale,astratta della realtà, ma concreta, che stabilisca un rapporto“vero” diretto con le cose, con la complessa ed articolatarealtà della società umana. Questa ha il suo fondamento nellepassioni e nei sentimenti e non nella consapevolezza tutta razionale dell'utile degli individui: sia le due società cosiddette“naturali" perché fondate sul vincolo di sangue, la società deisessi - la famiglia, il gruppo parentale - sia la società generale si richiamano al sentimento estetico per cui siamo portatiad istituire forme di “convivenza” con le persone e le cosebelle e gradevoli, cui si connettono le altre due passioni, lasimpatia e limitazione, che stabiliscono vincoli di carattereaffettivo fondati su una reale '“partecipazione dj vita con vita"fra tutti gli associati. L’articolazione dei rapporti della società,che potrebbe risultare uniformemente omogenea se promossae sostenuta solamente dalla simpatia e dall'imitazione, è garantita dall’ambizione che sollecita il senso della “diversità”,del valore e del ruolo dei meriti e della capacità.L’organizzazione politica che si esprime nel potere, comecentro di unificazione dei comandi e delle obbedienze necessari alla vita e al governo della società, affonda le sue radicinelle passioni degli uomini, nel senso che il potere, primadella sua legittimazione di carattere razionale, sussiste con una

propria autonomia basata sulle passioni derivate dall’esperienza del sublime: il timore, la reverenza, il rispetto, che sonoL’insostituibile premessa dell’efficacia dei suoi comandi. Lasocietà generale proprio perché comprende non solamente gliuomini, ma anche le “cose" con cui gli uomini “entrar1o insocietà" per vivere insieme, compreso il territorio e l’ambiente, i luoghi della memoria che conservano i nostri ricordi, è una totalità che continuamente si “compie", unmondo umano che alimenta il sentimento della nostra individualità. Perciò, secondo Burke, l’ipotesi di una completa, continua esclusione dalla società suscita nell’uomo un dolore insopportabile, anche se non manca dì riconoscere all’individuoil diritto al “temporaneo isola mento” per poter corrisponderealle esigenze della “vita contemplativa”, come momento dinecessario raccoglimento per lo studio e la ricerca. .La società generale come totalità vivente significa per Burke che le manifestazioni dell’attività, dell’ingegno, della fantasia, dell’immaginazione, dell’arte, dei sentimenti e delle passioni degli uomini riuniti in società sono connesse fra di loro: per studiarle meglio dobbiamo considerarle separate l’unadall’altra, ma nella concretezza della vita pratica sono in vitalerapporto fra di loro. La società generale è pertanto un'unitàvivente, che ha una continuità che si prospetta nel futuro eche si "estende" non solamente nello spazio ma anche neltempo. La vita della società si esprime pertanto nella storia,anzi, per certi aspetti tende a coincidere con la storia. L’ Abridgment of English history continua in sostanza il discorso sullasocietà generale-politica, che Burke aveva svolto nella Abridgment e nell'Enquiry per rendersi conto del processo di formazione storica di quella società con particolare riferimentoalla società inglese. I giovanili interessi per gli studi storici di Burke si eranoulteriormente precisati ed approfonditi negli anni della preparazione e della stesura della Vindication, naturalmente con riferimento agli scritti di Bolingbroke, alla sua concezione deirapporti fra politica e storia; dobbiamo ritenere inoltre che a esse seguito con particolare attenzione il dibattito suscitatodalla pubblicazione della History of England di Hume che rifletteva gli orientamenti politici dei whigs e dei tories nella interpretazione della storia politico costituzionale inglese.Questi interessi per Burke non potevano essere disgiunti dallaconsiderazione del problema della storia quale era stato proposto dalle due opere più importanti sull'argomento cheerano uscite proprio in quegli anni l’Esprit des lois di Montesquieu (1749) e l’Essai sur l'hz`stoire généml et sur les nzoeurset l'esprit des nations dì Voltaire (1756). La prima sostiene L’interdipendenza e la reciproca connessione fra lo Stato, le leggi, le istituzioni, in sostanza la politica,e la storia: << Per Montesquieu gli eventi politici sono il centrodel mondo storico; lo Stato è il vero anzi è l’unico soggettodella storia universale. Lo spirito della storia coincide con lo“spirito delle leggi” >>. La seconda invece “marginalizza” polemicamente gli avvenimenti politici, le imprese e la politicadei re e dei principi, e ritiene che lo scopo precipuo dellastoria è quello di tracciare le linee del progresso dello spiritoumano grazie ad un’accurata selezione dei fatti più importantial fine di « offrire al lettore un filo direttivo e metterlo ingrado di farsi da sé un giudizio dell’estinzione, della rinascita

e dei progressi dello spirito umano e per fargli vedere il carattere dei popoli e dei loro costumi ». Di qui l’affermazione delprimato della ragione che finisce per diventare il “deus exmacchina della storia”, una specie di letto di Prouste per ilfatto storico: giustamente Cassirer osserva: « così questo(Voltaire) applica con disinvoltura la sua misura razionale alpassato >>. Burke non poteva pertanto che far propriol’orientan1ento storiografico di Montesquieu che in effetti offriva i criteri metodologici per la corretta determinazione storica degli eventi, senza correre il rischio di ignorarli o di svisarli sulla base di una valutazione razionale sostanzialmenteastratta. Nell'Abridgment Burke definisce Montesquieu << The greatest genius, which has enlightened this age >> che indica i criteri per interpretare il processo storico di formazione e di successiva lenta trasformazione delle istituzioni e delle leggi feudali, fra i quali ha particolare rilevanza il rapporto fra la società feudale - i suoi usi, costumi, le sue originarie tradizioni, la sua “cultura” - e le sue leggi ed istituzioni. Secondo Montesquieu, bisogna rendersi conto della“maniera di pensare dei nostri padri” nelle sue espressioni rozze, primitive e superstiziose spesso ritenute di nessun valore storico: è invece la testimonianza di una razionalità intrinseca ai costumi, alle esigenze, agli “stili di vita" della società di quei tempi.Non possiamo tralasciare le fonti di parte ecclesiastica,come ad esempio le vite dei santi, sulla base del giudizio chesono un mero racconto di miracoli frutto di esaltare fantasiereligiose, perché sono testimonianze preziosissime degli usi edei costumi di quei tempi, il necessario presupposto di quelleleggi e di quelle istituzioni di cui intendiamo comprendere ifini. Né dobbiamo scoraggiarci, avverte Montesquieu, se lefonti della storia medievale possono dare l’impressione di unmare sconfinato senza riva: dobbiamo invece impegnarci inuna loro accurata lettura ed analisi, se vogliamo intendere lastoria di quei tempi: << Tutti questi scritti freddi, aridi, insipidie duri, bisogna leggerli, bisogna divorarli, come la leggendadice che Saturno divorò le pietre » .Alla luce di queste premesse il primo criterio che esprimel’esigenza di una corretta interpretazione storica è la raccomandazione di non valutare le istituzioni, le leggi, le tradizionidel passato alla stregua dei principi e delle esigenze del presente << Trasferire in secoli lontani tutti i principi di quello nelquale si vive - avverte Montesquieu - è tra le fonti di errorila più feconda, A chi vuol rendere moderni i secoli antichi,dirò ciò che i sacerdoti egiziani dissero a Solone: “© Ateniesivoi non siete che dei fanciulli” ». Un criterio che Burkefa proprio, come esplicitamente dichiara a proposito del giudizio sulle controversie relative alle immunità e alla giurisdizione ecclesiastiche: << and not judge, as some have inconsiderately done, of the affaire of those times by ideas taken fromthe present manners and opinions ».Da Montesquieu Burke deriva l’idea che la società politica, lo Stato è il risultato di un lungo processo storico; chenello Stato si esprime e continua a vivere il principio di identità che realizza l’intima connessione fra tutte le parti che locostituiscono. Lo Stato, per richiamare la metafora montesquiviana a proposito delle leggi feudali, è simile ad una<< quercia antica. l’occhio ne scorge di lontano il fogliame: ci

si avvicina se ne vede il tronco ma non le radici: bisogna scavare per trovarle ». Solo la storia ci consente di trovare leradici e di comprendere il processo di formazione della comunità politica nella quale viviamo, come di quelle con cui siamoin rapporti di amicizia o di conflitto: la storia è molto di piùdi una naturale curiosità, attiene in ultima analisi alla consapevolezza dei principi e dei valori della società nella quale viviamo, dei diritti e dei doveri che abbiamo nei suoi confronti,per partecipare consapevolmente a quel processo storico chefa sussistere lo Stato.Per Montesquieu la storia non è una "collezione di fatti”,ma è una “connessione di fatti”, una serie di eventi caratterizzata da una continuità e da una molteplicità di “collegamenti”da costituirli in una vero e proprio “processo” storico. A questo criterio fondamentale si attiene Burke nel suo Abridgmentsi tratta di rendersi conto della genesi della società politica inglese, cioè del processo di formazione della “nazione” e delsuo ordinamento politico e del ruolo che vi ebbe la religionecristiana. “Spirito delle leggi" significa appunto individuare ilnesso che sussiste fra le convinzioni religiose, i costumi, letradizioni, le condizioni materiali ed ambientali delle “nazioni” e delle società politiche ed i loro ordinamenti politici elegislativi in cui si esprime la loro “personalità storica", il“proprio” delle loro istituzioni e leggi. Lo “spirito delle leggi”non rinvia alla ragione fondata sulla sua interna coerenza che, per essere la vera essenza dell’uomo e del suo operare,riporta la storia a se stessa per adeguarla ai suoi schemi razionali , ma alla ragione “maturata” nell’esperienza e nella tradizione storiche, in grado di comprendere le complesse dinamiche politiche e sociali che promuovono il mutamento e leriforme degli ordinamenti politici.L’impegno a precisare la concreta dimensione storica delleleggi e delle istituzioni si esprime in modo chiaro nel brevesaggio introduttivo all’abridgment, An Esmy towards the History of Laws of England, particolarmente rilevante perquanto riguarda la definizione dei principi e dei criteri aiquali deve corrispondere una corretta interpretazione storicadelle dinamiche della società politica, non astrattamente considerata cioè da un punto di vista meramente teorico razionale, ma con riferimento alla sua concreta esistenza storica,Il brevissimo saggio nasce, come sappiamo, dalla profonda insoddisfazione di Burke nei confronti del metodo d’insegnamento del diritto seguito in Inghilterra. L’osservazionefondamentale del Nostro si riduce alla constatazione che essoè eccessivamente formale, astrattamente razionale e quindi assolutamente privo di senso storico. Il “sistema” delle leggi inglesi, distaccato completamente dal processo storico nel qualesi è venuto a poco a poco costituendo, diventa incomprensibile. L’assurda pretesa, così radicata nelle menti anguste deiprofessori di diritto, dei giudici e degli avvocati, che le leggi,e relative formalità e procedure, sono le stesse che furono poste al tempo degli Anglosassoni e della conquista normanna,senza che subissero l”influenza di principi o di istituti propridi diritti stranieri, ha come unico risultato quello di mummificare il diritto, facendolo scadere al rango di una casisticacosì complessa da mortificare e spegnere qualsiasi interesse.

D’altro canto, questa sorta d’eternità che si vuol riconoscere al sistema delle leggi inglesi, mentre pone i suoi sostenitori in gravissimi imbarazzi a causa delle continue contraddizioni in cui cadono, consente di giustificare dal punto di vistaideologico-politico tutte le tradizioni giuridiche, che vengonosistematicamente interpretate solo per dimostrare la validità ela legittimità di norme e principi che sono le espressioni di interessi politici attuali, misconoscendo il genuino contenutostorico delle leggi, alterando e falsificando in tal modo il lorovero significato. Nonostante il panegirico che i nostri scrittoridi politica e di storia fanno delle leggi “costituzionali” anglosassoni non possiamo fare a meno di considerarle per quelloche effettivamente sono e cioè un “monumento", una “visibile", chiara testimonianza che ancora sussistono nella nostralegislazione, esempi della nostra “antica rozzezza": << queiscrittori non possono persuaderci che le rudimentali istituzioni di un popolo illetterato avessero già raggiunto quellaperfezione che solamente gli sforzi uniti della ricerca, dell’esperienza, del sapere e della necessità sono riusciti a conseguire nel corso di molte età >>. Anche in questo caso vale l’essenziale avvertimento di Montesqieu: << Bisogna illuminare lastoria con le leggi e le leggi con la storia ».' Il diritto, inteso proprio come sistema di leggi, alla stessastregua della lingua e della cultura (learning), è in definitiva il“prodotto” di un lungo processo storico, nel quale si fondonoa poco a poco principi e istituti di diversa provenienza, alcunipropri, originari della società nella quale si esprime quel determinato diritto, altri appartenenti a legislazioni straniere, aloro volta modificati, trasformati a seconda delle esigenze,che, in diverse situazioni storiche, sono state poste dai costumi, dalla religione, dal commercio dei popoli. Il compitodello storico consiste nel cogliere la trama complessa ma unitaria nella quale si compongono in un nuovo sistema concezioni e tradizioni giuridiche diverse, e nel saperne quindi individuare lo specifico contributo alla formazione della nuovaesperienza giuridica.Il sistema delle leggi ha in Burke un particolare significato, nel senso che rinvia alla giustizia intesa come valore chepromuove la loro formazione e il loro coordinamento. La giustizia è l’originaria, istintiva, profonda aspirazione dell'uomoad imitare Dio “in uno dei suoi più gloriosi attributi”, che sirealizza nella storia, attraverso un’esperienza di errori, di incertezze, di debolezze, di superstizioni, di violenze che costituiscono l’unica condizione per mezzo della quale quell’aspirazione può diventare consapevole di se stessa e riconoscersi,ed essere riconosciuta, come il vero fondamento della societàe dell’ordine politico. Così la giustizia in Burke è anima e ragione della storia, vichianamente “idea umana di vita", comune patrimonio del Gentleman e dello slaving Poor checonferisce ad entrambi un'autentica, pari dignità civile e politica: è appena il caso di accennare quanto questo concettodella giustizia sia lontano da quello dì Hume, per il quale lagiustizia ritrovava il suo unico fondamento nella proprietà enei diritti a questa connessi, e, priva di qualsiasi valore sostanziale, si riduceva ad un insieme di formule e di regole mediante le quali risolvere le controversie connesse con la proprietà.Burke è fuori dell’ottica humiana della “storia naturale

della religione e della società civile". La giustizia non è un'idea nel significato illuministico, humiano del termine, una mera “in1pressione” determinata dalla sensazione, come consapevolezza di ciò che ci è utile, ma è un principio meta empirico, che si esprime e si fa valere in un contesto storico caratterizzato dalla violenza, dal dominio, dall'oppressione, dall'arbitrio, e che consente di intendere come il contrasto, la lotta fra gli interessi contrapposti si compongano in un processostorico che per il tramite delle “rivoluzioni”, di radicali e profonde modificazioni degli usi, delle consuetudini, perviene al riconoscimento ed all’affermazione del diritto e delle leggi. Come si è già osservato per Burke il diritto, secondo l'espressione vichiar1a, è “un’idea umana di vita”, con la quale l'uomo, gli uomini fanno la storia, iniziando dai tempi dellabarbarie delle menti seppellite nei corpi e nei sensi a quellidella civiltà e degli Stati propri della ragione tutta dispiegata,In questa storia la forza, il dominio, la guerra, le oppressionie le sopraffazioni sono le occasioni che consentono al dirittodì manifestarsi nei modi e nelle forme storicamente conformiai costumi, alle convinzioni, alla cultura della società di queltempo. Il sentimento della giustizia e del diritto in Burke, comesappiamo, è intimamente connesso all'esperienza religiosa dell’uomo, dalla quale scaturisce l'impulso e l'orientamento della sua attività pratica. Da questa premessa deriva la convinzionedi Burke che il cristianesimo deve essere riconosciuto comeun’essenziale categoria storiografica della storia medievale,per studiare la formazione dei nuovi regni e comunità politiche costituitesi dopo la dissoluzione dell’Impero romano e le invasioni delle genti germaniche e di quelle del nord Europa,e quella nuova società di regni, principati, ducati, città, di popoli e di genti, che fu l'Europa medioevale. Di qui la visione europea che Burke ha della storia ingleseche, possiamo dire, è geneticamente connessa con quella dell’Europa, cominciando dal periodo romano, in cui la Britannia entra a far parte della comune civiltà euro mediterranea.L’Inghilterra aveva “rinnovato” i suoi rapporti con Roma, nonpiù potenza mondiale, ma centro della cristianità che conservava significative testimonianze della civiltà greco-romana un punto di riferimento costante nel processo di formazionedella società inglese -, con la missione dell’abate Agostino,inviato da Gregorio Magno. La conversione al cristianesimodel regno sassone è considerata da Burke la premessa di carattere etico - religioso e culturale che inciderà profondamentesui costumi, sulle istituzioni della società inglese e che, con lacorrispondente organizzazione ecclesiastica, costituì un fattore determinante della storia medievale inglese. Il rapportocon l’Europa assunse maggiore consistenza con la monarchianormanna: questo rapporto incise profondamente sulla storiainglese nel senso di promuovere un rinnovamento delle consuetudini, dei modi, delle leggi ed ebbe un ruolo rilevante negli eventi politici che si conclusero con la concessione dellaMagna Carta.Il riconoscimento del cristianesimo come categoria storicaimplica, per Burke, il problema del significato che assumenell’ambito di questo riconoscimento il rapporto fra la Provvidenza e la storia. L’insediamento dei Sassoni in Inghilterraavvenne in un periodo della storia dell’Europa caratterizzatadalle migrazioni delle popolazioni dell’Europa del nord e dell'est che portarono alla distruzione dell'Impero romano d’occidente e ad uno stato di anarchia per le lotte continue e feroci, apportatrici di morte e di miserie per ogni nazione. Nellaconsiderazione di questa “rivoluzione” totale che distrusse il

mondo e la civiltà antica e che “sorpassò', per l’entità catastrofica dell’evento, ogni comprensione di carattere razionale,lo storico Burke confessa di essere distolto dalla ricerca dicause connesse alle vicissitudini delle grandi trasmigrazionidei popoli e di essere invece indotto a riconoscere “la manodi Dio in queste immense rivoluzioni, con le quali in certi periodi, Egli manifesta la sua suprema potenza e determina quelgrande sistema di mutamento che è forse così necessario allamorale come si trova esserlo nel mondo naturale”.Il richiamo alla Provvidenza intende porre in evidenzache quel radicale mutamento di carattere catastrofico fu un“forte sistema di mutamento”, cioè la premessa per la formazione di un nuova società politica, con caratteri propri rispetto alla società antica greco-romana, corrispondenti permolti aspetti ai principi e ai valori della nuova religione, il cristianesimo, che avrebbe rappresentato un costante punto diriferimento per le “nazioni", i regni, le altre entità politichecostituitesi a seguito di quel mutamento. L’umanità riesce ad“uscire” dalla notte della barbarie e della ferocia in cui èsprofondata perché l’attività dell'uomo determinata dalle passioni, dalla voglia di rapina e dì guerra e caratterizzata dall'incostanza, dalla mutevolezza e dall’arbitrio, perviene 'ad un risultato che non si disperde, che tende a durare nel tempo,perché si tramuta in istituzioni, leggi, e si esprime come potere, cioè come affermazione di un principio di coesione diuna moltitudine di individui. Quando si studia quel periododì totale disordine e di diffusa anarchia possiamo rilevarecome sono proprio le passioni e i sentimenti più forti che indussero quegli uomini barbari ed ignoranti a stabilire vincolisociali e politici stabili e duraturi, a precisare ed a sancire gliessenziali doveri e diritti dei consociati, in modo da disciplinare quella naturale libertà, che di solito sconfinava nell'arbitrio, nella violenza, negli assassini, negli scontri e nelle guerrecontinue. Il fine immediato delle invasioni barbariche fu larapina e il saccheggio: ma quando quelle popolazioni cominciarono ad insediarsi con la conquista e il dominio furono incerto qual modo “costrette” a realizzare un governo “regolare” che comprendesse dominatori e dominati, un risultatoche esse non avevano previsto.Nella storia gli effetti delle azioni degli uomini non siesauriscono nel conseguimento del fine “immediato” perchéquegli effetti si connettono con quelli di tante altre azionispesso in radicale contrasto fra loro, per conseguire risultatinon previsti e spesso non voluti nelle intenzioni e dalle previsioni dei singoli: la storia in definitiva è caratterizzata dalprincipio della eterogenesi dei fini, cioè da un processo postoin atto e realizzato dagli uomini e che ha un suo risultato, chelo storico è in grado di comprendere proprio perché sa ricostruire quel processo, l’inizio, le sue varie fasi, la pluralità deisoggetti che vi hanno partecipato, i rapporti di interdipendenza che si sono istituiti fra di loro, ponendo in risalto comei fini particolari pervengano ad un fine che riguarda tutti.A La Provvidenza, che secondo Burke appare con chiarezzamirare al continuo “mescolarsi” del genere umano, non lascia

la mente umana senza un principio per realizzare questo fine,che a volte è conseguito da un “istinto migratorio”, a volte dauno spirito di conquista; in certe situazioni l'avarizia spingegli uomini fuori delle loro case, in altre invece essi sono sospinti da una brama di conoscenza; quando nessuna di questecause può operare, la santità di alcuni luoghi (Gerusalemme,Roma, la Mecca) induce migliaia di uomini ad intraprenderelunghissimi viaggi: << Così una comunicazione fu aperta fraquesta remota isola e paesi dei quali essa poi assai raramenteavrebbe udito fare menzione; e così i pellegrinaggi preservarono quei rapporti nel genere umano, che oggi sono promossidalle relazioni, dal commercio e dalla dotta curiosità >>.La Provvidenza non significa che Burke cerchi dì far intervenire il soprannaturale, il miracoloso direttamente nellastoria: proprio con riferimento alle fonti ecclesiastiche dellastoria inglese, che rappresentano le uniche per il periodo trattato nell’abridgmen, oltre alle raccolte di leggi, egli tiene aprecisare che non intende esprimere in sede storica un giudizio di merito sui numerosi miracoli che ricorrono in quellecronache, si limita a notare che la convinzione della loro verità contribuì alla rapida conversione dei Sassoni e alla diffusione del cristianesimo. Nella ricostruzione storica si tratta diconcentrare l'attenzione sulle altre cause tutte << umane e politiche che concorsero indubbiamente a quell'evento e che inun periodo dì tempo relativamente breve consentirono al monachesimo di diventare una sorta di “ordine” dello Stato fra i più stimati >>.Il compito dello storico è quello di considerare « some of the human and political ways », cioè di individuare le "vie”, i “percorsi” che gli uomini hanno seguito per pervenire a determinati risultati. Ciò significa che si tratta di ricostruire questo “viaggio", cioè come fu possibile “mettersi in viaggio"(per continuare nella metafora) e continuare a viaggiare e dalpunto di vista storico quali le “origini” dell'aggregazioneumana che iniziò il suo “cammino storico” e la continuità degli eventi che la caratterizzarono. L'inizio e la continuità poneil problema della formazione di una unità di intenti cioè dicome una pluralità e diversità di esigenze, di istanze, di speranze, di interessi, di convinzioni spesso in radicale conflittofra di loro riescano a produrre un’azione comune e quindi adar vita ad un evento storico che è poi la premessa dei susseguenti che consentono, per l’appunto, di continuare il “cammino storico”.La continuità degli eventi storici e lo stesso evento assumono, nella ricostruzione storica di Burke, il carattere di unvero e proprio processo storico, nel quale vengono risoltetutte le azioni di coloro che partecipano e soprattutto vivonouna generale comune situazione storica. Processo storico significa anche comprendere la connessione dinamica deglieventi e scoprire nella successione temporale la loro interdipendenza e la loro genesi storica. Sono principi dinamici delprocesso storico la necessità, le passioni, le convinzioni (comprese quelle “storte”, le superstizioni), gli interessi e quindi icontrasti, i conflitti, le guerre, il dominio e l’oppressione, il

sentimento della giustizia e quindi la lotta contro l'oppressione. Mediante quest'esperienza storica gli uomini esprimonouna comunità di intenti e danno vita allo Stato, come l'istituzione che consente alla loro vita di attuarsi nella totalità dellesue espressioni. Ma questo “cammino” è lungo, accidentato,richiede soste per meditare sulla strada percorsa e su quellache si intende intraprendere, per rendersi conto che proprioquella scelta continua la precedente. Lo Stato è il risultato diun lungo processo storico: lo Stato costituzionale inglese è il“prodotto" in ultima analisi di dieci secoli di storia inglese edeuropea. In occasione della Rivoluzione francese Burke rilevava che i grandi Stati europei non potevano essere fondatio ricostituiti in pochi anni di “passione rivoluzionaria".Si tratta naturalmente di dar conto di come inizia questoprocesso storico, che cosa lo promuove e lo “alimenta”, qualisono gli attori e quali le pretese da far valere. In questa prospettiva si pone il problema della continuità della storia inglese per indicare come da una serie di eventi, dalle ripetuteincursioni dei Sassoni e delle altre popolazioni nordiche, dallelotte continue per rendere stabili ed allargare i primi insediamenti si sia riusciti ad instaurare un regno, quello anglosassone e poi quello normanno, che rimasero il punto di riferimento delle vicende storiche inglesi, caratterizzate da una ricorrente anarchia di poteri, il cui esito ultimo, per quanto riguarda il periodo storico considerato nell’abridgmen, è laMagna Carta, con cui furono fissati principi essenziali dell’ordinamento costituzionale, che caratterizza in modo particolarela storia inglese.Ha particolare rilievo in Burke il problema delle origini,della genesi storica delle leggi, delle istituzioni e quindi deiprincipi, delle regole fondamentali della vita delle comunità.Nei costumi, negli usi, nelle consuetudini, nelle convinzionicomunemente accettate c’è un principio di riposta razionalitàche li ispira in quanto soluzioni dei problemi elementari edessenziali della vita delle comunità primitive: come sappiamo,in Burke la razionalità è anticipata dall’avvertenza emozionale passionale, dal sentimento del sublime, dall’immaginazione.L’origine,· pertanto, esprime il principio costitutivo della comunità, del popolo, della “nazione”, cioè il principio “identitario”, la personalità storica del popolo, inteso come totalitàdi tutti i suoi componenti, comprensiva naturalmente di tuttele sue istituzioni e leggi. Le origini sono le “radici" di un popolo, di una società, di uno Stato, ciò che continuamente loalimenta e ne fa una vivente unità storica.Ben diversa la concezione del valore e del significato storiografico delle origini in Hume che vi dedica nella Historypoche pagine sbrigative. l’origine in Huine, coincide con ladebolissima e sfigurata “immagine” di una umanità sprofondata nel buio dell’ignoranza, dominata dal terrore e dalle passioni più selvagge, schiava delle superstizioni più assurde, eserve unicamente per rendersi conto del progresso compiutodalle arti, dalle scienze, in ultima analisi dalla ragione e dallaciviltà. Per quanto riguarda la “costituzione” inglese è datadai “remoti indistinti e sfigurati originali” che a mala penapossono essere riconosciuti nelle “più perfezionate e più nobili istituzioni”. Il costante punto di riferimento per leggere, comprendere e scrivere la storia è la “ragione illuminata", la ragione che

riconosce come suo fondamento l'esperienza empirica. Questa ragione è il “metro”, la misura di tuttii fatti storici. Per tal motivo la storia acquista un senso ed unsignificato veramente umano solamente quando è illuminatadai lumi della ragione. Il problema della continuità deglieventi storici è considerato da Hume nei termini dei progressicompiuti dalla ragione empirica, grazie all’inizio e alla diffusione delle arti e delle scienze. `Il progresso, in Hume, è dato dalla lenta ma continua affermazione della ragione empirica contro quanto la nega e lacondiziona, soprattutto la superstizione, alimentata dalla religione positiva, il cristianesimo: il progresso è visto in terminidi maggiore acquisizione della razionalità empirica che automaticamente, possiamo dire “naturalisticamente”, disponecon la sua luce gli animi alla simpatia, alla benevolenza, albuon gusto, alla gentilezza dei modi cioè a quel vivere civileche è sinonimo di civiltà. Il passato serve solamente a commisurare la distanza che separa i tempi “civili” da quelli primitivi ed a richiamare la nostra attenzione a non farsi sedurredalle superstizioni, sempre in agguato per insignorirsi dellanostra ragione. La storia pertanto acquista un valore ed un significato solamente nel momento in cui “interviene" la ragione empirica, cioè le arti e le scienze: per quanto riguardala storia medioevale Hume ritiene che quel momento storicodeve essere collocato dopo il regno di Gugliemo il conquistatore: nel precedente periodo sassone i popoli cristiani sprofondarono completamente nell’ignoranza e di conseguenza indisordini di ogni sorta.Il progresso ha così un'origine meramente intellettuale: ilcontesto in cui si manifesta l’intelletto acquisisce i caratteridella storicità. Lo stesso criterio vale per tutti gli avvenimentisuccessivi che si riferiscono alla formazione e alla vita dellasocietà civile. La storia in ultima analisi acquista un valore“cognitivo” perché può offrire al filosofo della politica e dellamorale numerosi esempi dai quali trarre principi, regole perla vita privata e per quella pubblica, per la società civile e perlo Stato: la storia in ultima analisi è il grande gabinetto disperimentazione per lo studioso della politica e del diritto. La tradizione, in Hume, si riduce alla conservazione ealla trasmissione dei risultati cui è pervenuta la ragione umananelle successive situazioni storiche, che acquistano un significato e garantiscono una continuità storica solo per il lorocontenuto di razionalità e di civiltà. Senza questa tradizione lastoria si riduce all'inf1nita serie di eventi totalmente diversi,determinati dalle passioni e quindi dall’arbitrio, il cui"aspetto”, come per i secoli bui del Medioevo, appare « horrid and deformed >>. Perciò l’informe caos di eventi che sembra caratterizzare ad una prima considerazione la storia deveessere costantemente riferito al “natural progress of humanthought" affinché ci si concentri sugli avvenimenti e sui relativi periodi storici in cui si verificano quelle << revolutions of mind >> che promuovono e sostengono i progressi della societàcivile.La storia, in definitiva, ha in Hume un valore strumentale,consente la necessaria sperimentazione per individuare i principi e le regole sui quali si fonda la società civile, la civiltà. PerBurke invece la storia ha un valore di carattere “esistenziale',

nel senso che si riferisce a tutte le manifestazioni della vitadell’uomo, che sono espressioni delle potenzialità del suoanimo e delle facoltà del suo intelletto. La ragione in Burke,come sappiamo, ha un deciso esito pratico ed è perciò anticipata, ispirata ed orientata dal sentimento più profondo qualesi esprime nell'avvertenza e nell'esperienza religiosa, che èl'originario principio .costitutivo dell'aggregazione e coesistenza umana, il fondamento quindi della società e della civiltà. Da un punto di vista storiografico e in particolare per lastoria medioevale, nei due autori ha un particolare rilievo ilrapporto religione-superstizione. Burke riconosce l'autonomiae l'originarietà della religione nelle sue espressioni di culto edistituzionali e sa che essa quando viene vissuta e praticata puòesprimersi in forme superstiziose alimentate dalle paure, dalrisentimento, dalle attese, dalle speranze, che la ragione distingue e mantiene separate come forme corrotte. Hume invece ritiene che la religione per essere espressione del terroree della paura equivale senz'altro a superstizione, ad errore,fonte di ogni fantasia ed arbitrio, strumentalizzata, nell’esperienza storica delle società barbariche, dall'ordine sacerdotaleper i suoi fini di potere.Di qui la diversa valutazione storica del ruolo del cristianesimo nella formazione della società medioevale in Burke ein Hume: per il primo è il principio di formazione ed unificazione della società inglese ed europea, per il secondo inveceuna superstizione che sancisce l’arbitrio, l'oppressione e il dominio dell’ordine ecclesiastico, che finisce per legittimare l'ordinamento feudale, cercando di condizionare il potere laicorappresentato dal monarca. Ciò che risalta ad una letturacomparativa dell’abridgmen e dei primi due volumi della History sono proprio i giudizi radicalmente diversi sui personaggi e sugli eventi connessi con la diffusione del cristianesimo, con l’affermarsi della Chiesa in Inghilterra e con la politica ecclesiastica della monarchia sassone e normanna. Tre episodi ci sembrano interessanti come testimonianza dei duediversi orientamenti storiografici del ruolo del cristianesimo edella Chiesa nella storia medievale inglese ed europea.Burke considera la conversione dei Sassoni al cristianesimo come la “rivoluzione” più importante nella storia dell'Inghilterra, con cui essa “nasce” alla civiltà: << Light scarcebegins to dawn until the introduction of christianity; which,bringing with it the use of letters, and the arts of civil life, affords at once a juster account of things and facts, that aremore worthy of relation: not is there indeed any revolution soremarkable in the English story », e dedica un intero capitolo all'essenziale contributo della cultura ecclesiastica alladiffusione dei primi “rudimenti” di una società civile fra iSassoni. Per Hurne la conversione fu un episodio di un certorilievo (mise in contatto l’Inghilterra con gli Stati dell’Europapiù civili), ma non incise in modo sostanziale sui costumi barbari dei Sassoni, ai quali viene proposta in sostanza una nuovasuperstizione, che cercava di soggiogare le coscienze ad unapassiva obbedienza al clero e al vescovo di Roma, premessa diogni forma di “corruzione” intellettuale e morale. In effetti“quel nuovo sapere" (doctrine) per essere passato attraverso i“corrotti canali di Roma” si trasformò in una “copiosa misceladi crudeltà e di superstizione egualmente distruttiva dell’intelletto e della moralità" .

Il giudizio sulla Crociata è anch’esso sintomatico per ladiversa valutazione dei grandi eventi del Medioevo in cui ilsentimento religioso rappresentò un fattore decisivo. Per Burke la Crociata è << one of the most extraordinary events,which are contained in the history of mankind », che influenzò in modo determinante gli avvenimenti politici inglesie quelli europei per un lungo periodo. Burke ritiene che l'idea di essa nacque dal proposito di Urbano II di ricostituirel’unità di intenti fra i cristiani, posta in crisi dal lungo scismache aveva diviso l’Europa e intaccato l’autorità del Papato.`Era radicata e diffusa nella religiosità di quel tempo la convinzione dell’importanza del pellegrinaggio nei luoghi dellaprima predicazione cristiana, in particolare a Gerusalemme, edi conseguenza altrettanto diffuso lo sdegno suscitato dai racconti dei pellegrini sottoposti ad ogni forma di angheria daparte dei Maomettani. Di qui l'entusiasmo che suscitò la predicazione di Pietro l'eremita sulla necessità di liberare la TerraSanta dal dominio dei Maomettani e la successiva proclamazione della Crociata al concilio di Clermont. L’esortazione“Dio lo vuole” si diffuse rapidamente di villaggio in villaggio,di città in città, per tutta l’Europa. All’entusiasmo popolarefece riscontro a livello europeo la devozione e lo spirito di cavalleria della nobiltà, All’inizio, osserva Burke, si avventurarono nell’impresa moltitudini di persone guidate da sacerdotisenza alcuna consistente assistenza militare, che furono inparte massacrare e in parte disperse, si che è “difficile dire,commenta Burke, se è da lamentare più la distruzione diquelle moltitudini, o la frenesia che gliela portò addosso".Ben diverso e soprattutto dal punto di vista storico, ilgiudizio di Hume, per il quale il rumore delle “insignificantiguerre ed agitazioni" inglesi era completamente sovrastato daltumulto delle crociate che avevano richiamato l’attenzionedell'Europa ed “hanno sin d'allora sollecitato la curiosità delgenere umano come la più ragguardevole e la più duratura testimonianza dell’umana follia che sia apparsa in ogni età o nazione”. Le crociate si spiegano con lo stato di totale ignoranzae superstizione in cui versava l'Europa, con il dominio incontrastato da parte degli ecclesiastici delle menti delle moltitudini, che non avvertendo alcun senso dell’onore o del rispettodella legge si abbandonavano ad ogni sorta di crimini e disordini, nella convinzione che non vi fossero altre forme diespiazione se non quelle imposte loro dai loro pastori spirituali, fra le quali in modo particolare la partecipazione allaguerra per la liberazione della Terra Santa. A questa “abiettasupestizione” si aggiunse lo spirito guerriero, privo di qualsiasi addestramento e disciplina militare che era diventato lapassione principale delle nazioni governate dalla legge feudale, e che ebbe un’influenza nefasta soprattutto nella nobiltàinglese.La categoria della superstizione spiega secondo Humel'accanita, e per certi aspetti ossessiva, pretesa di Becket dipiegare la volontà di Enrico Il a riconoscere i privilegi chegarantivano l'autonomia e l'indipendenza della Chiesa d'Inghilterra per imporre un vero e proprio patronato sulla monarchia che la rendeva in sostanza politicamente dipendente

dalla Chiesa e quindi in definitiva succube della “politica” seguita dal Papa, pretesa che fu all’origine di un conflitto con ilmonarca, per molti aspetti unico nella storia inglese e che si“concluse” con il barbaro assassinio dell’Arcivescovo. Lafede, per Hume, è una convinzione talmente irrazionalefantastica da trasformare la personalità senza che il soggettose ne renda conto, assoggettandone la mente ai suoi fantasticiideali. L’ambizione, che presuppone una tenace volontà didominio, assume la forma della vera virtù, in quanto supremadedizione ai valori spirituali ed eterni.Becker, osserva Hume, era un ecclesiastico << of the mostlofty, intrepid, and infexible spirit, who was able to cover tothe World and probably to himself, the entreprises of prideand ambition under the disguise of sanctity, and of zeal forthe interests of religion >>. Certo un personaggio straordinarioche doveva rimanere fedele ai suoi precedenti importanti incarichi pubblici ed indirizzare pertanto la veemenza del suocarattere nella difesa e nel promovimento del diritto e dellagiustizia, invece di farsi coinvolgere dai pregiudizi del tempoe di sacrificare i suoi impegni privati ed i suoi rapporti pubblici ai vincoli che egli immaginava o riteneva superiori adogni civile e politica considerazione. Ed in questa convinzioneBecket era assolutamente sincero, perché in effetti egli nonfaceva altro che partecipare << to the genius of that age >>, nelquale lo spirito di superstizione era cosi prevalente che infallibilmente si impadroniva di ogni incauto pensatore, e soprattutto di quelli che erano sollecitati nei loro pensieri dall’interesse, dall'onore e dall'ambizione. << Tutta la misera letteraturadi quel tempo non era altro che una “decorazione” della superstizione; i balucinamenti di senso comune di qualche santo(o visionario) potevano a volta passare attraverso la spessanuvola di ignoranza o, ciò che era peggio, le illusioni dello“snaturato” che aveva cancellata la sensazione e nascosta lafaccia della natura. La follia si era impadronita di tutte lescuole come di tutte le chiese e i suoi devoti assumevano ilnome di filosofi, insieme con le insegne della loro dignità spirituale >>. La superstizione assumeva così un significato epocale e finiva in tal modo per coinvolgere tutto il Medioevo,come età storica caratterizzata dal magico, dal miracoloso,dalle fantasie e dalle follie collettive che alimentavano le passioni più cieche, fonte di continue violenze ed arbitri.In Burke non vi è alcun accenno al carattere superstiziosoed esaltato della religiosità e della personalità di Becker, comespiegazione del conflitto fra la Chiesa ed Enrico II, ma, comesi è accennato, un preciso richiamo alle ragioni storiche diquel conflitto, e quindi ad una considerazione delle originistoriche della giurisdizione e delle immunità e privilegi dellaChiesa inglese, per rendersi conto dei motivi per cui la Chiesaesercitava un così vasto potere, “al fine di non giudicare,come alcuni hanno fatto inconsideratamente, gli affari di queltempo con idee ricavate dalle abitudini e dalle opinioni delnostro tempo" ma per esprimere una serena e corretta valutazione storica dell'episodio e del personaggio.

Per le leggi e l’ordinamento politico costituzionale dell’Impero romano la giurisdizione ecclesiastica non poteva assumere alcun diretto ruolo politico: gli ecclesiastici potevanofar valere solamente un potere di influenza. Ma con i nuoviregni barbarici la giurisdizione ineriva al possesso della terra,il che consentì alla Chiesa, grazie alle sue vastissime proprietà,di diventare uno dei tre “ordini” dello Stato e di svolgere unvero e proprio ruolo politico: in tal modo il potere spiritualeera strettamente connesso con quello politico: << and all theorders had their privileges, the Clery had theirs, and were noless steady, and ambition to extend them >>. Il ruolo politico eil potere della Chiesa non si spiegano solamente con la devozione, né ovviamente, almeno per Burke, con la superstizione,ma con la “necessità dei tempi", cioè con le concrete condizioni storiche della società inglese, che “elevarono” la Chiesaa quel potere per molti aspetti eccessivo.Burke indica le ragioni di questa “grandezza”: la culturadel tempo era nelle mani degli ecclesiastici e, dato che pochifra i laici sapevano appena leggere, solamente il clero potevaessere impiegato nei pubblici affari; essi erano gli uomini politici, essi erano i giuristi; fra essi erano spesso scelti i magistrati del re nelle corti signorili, qualche volta gli sceriffi dellecontee, e quasi sempre i Giustizieri del regno. << I re normanni»-continua Burke - sempre gelosi delle proprie prerogative,furono spesso costretti ad impiegarli. Nelle abbazie si studiavail diritto; le abbazie erano il palladio della libertà pubblicaperché custodivano le “carte” reali delle concessioni dei privilegi ai sudditi e la maggior parte degli atti di governo. In conclusione, essi erano necessari ai grandi per il loro sapere;venerabili per i poveri per la loro assistenza; temuti da tuttiper il potere di scomunica; la condizione di ecclesiastico eraesaltata sopra ogni altra cosa nello Stato; e non poteva esserealtrimenti in quei tempi, mentre ciò non è possibile ai nostrigiorni >>.La Chiesa rappresenta per Burke una delle grandi forzestoriche dell'Inghilterra medievale, il cui ruolo deve essere valutato dal punto dì vista storico, nella prospettiva dell’interoprocesso di formazione della nazione e dello Stato inglesi,della dinamica dei principi e degli ideali e delle forze cheerano espressione delle condizioni politiche, sociali ed economiche determinate dall'ordinamento feudale. Possiamo cosìintendere il ruolo decisivo svolto dall'arcivescovo di Canterbury, Stefano Langton, nelle vicende politiche che portaronoalla concessione della Magna Carta da parte di Giovannisenza terra: fu in quegli eventi la guida politica e spiritualedell’aristocrazia e del popolo, rappresentando il sentimento diindipendenza dell’intera nazione anche nei confronti della politica di Innocenzo III.Le forze storiche, l’aristocrazia feudale, la monarchia, lachiesa, le città e il “popolo” debbono essere considerate comepartecipi di un unico processo torico, che istituisce fra diesse una serie di interrelazioni, per cui entrano in una molteplicità di rapporti reciproca interdipendenza da cui scaturiscono tensioni e conflitti: questa è la vera dinamica politico sociale che modifica dall’interno i rapporti di potere, le istituzioni, le leggi, il sistema giudiziario e quello tributario fiscale,

creando le condizioni per liberare le categorie sociali asserviteal lavoro della terra e delle arti minori.Burke cerca sempre di precisare il rapporto dinamico chesussiste fra il “sistema delle norme giuridiche e politiche”(l'amministrazione della giustizia e il governo della società) ele condizioni storiche in cui vivono gli uomini (le loro necessità, i loro costumi, le loro convinzioni e credenze) per individuare le successive innovazioni e trasformazioni che, pur avvalendosi dì modelli giuridici più colti che si richiamavano aldiritto romano ed a quello canonico, si svolsero secondo iprincipi e le caratteristiche proprie di quell'antico ordinamento giuridico-politico sassone, dal quale trasse origine il sistema di Common law, come proprio della “nazione” inglesee delle sue libertà. Burke nel corso dell'abridgmen sipreoccupa sempre di segnalare gli interventi più significatividei re sul piano delle riforme legislative e giudiziarie, di richiamare l’attenzione sui motivi politico-giuridici che le avevano determinate, di precisarne l'importanza ai fini di un migliore, cioè di un più efficiente ordinamento del regno: lecontinue invasioni, le guerre con i Danesi, i conflitti fra igrandi feudatari e fra questi e il re rappresentavano la lottapolitica per fondare una nuova entità politica cui non bastavano le armi per sussistere, come drammaticamente confermava l'esperienza delle invasioni e delle guerre, ma che doveva essere consolidata e garantita dalle leggi, dal diritto.L’esigenza di ordine e di stabilità è intimamente connessacon l’instaurazione e il riconoscimento di un’autorità e un potere politico: modifiche e innovazioni si resero necessarie aicostumi e alle tradizioni sassoni con l’insediamento in Inghilterra e con la scelta di un re. Con la conversione al cristianesimo, una rivoluzione, precisa Burke, che promosse « stillmore essenti al changes in their manners and government », si avvertì l'esigenza di redigere una raccolta scritta delle leggi,cioè dei costumi e delle consuetudini. La raccolta, ordinata daEthelbert, re del Kent, non fu redatta in latino, come per glialtri regni “barbarici" ma nella lingua anglosassone: la scomparsa del latino nell'Inghilterra sassone costrinse i monaci, unici che sapevano scrivere, ad “adattare” i caratteri latini allaprimitiva lingua inglese, "altrimenti ben pochi avrebbero potuto ricavare vantaggio dalle cose che intendevano ricordare”.La “nuova lingua” sancisce così l’originarietà della “commonlaw" come il diritto che nasce e si esprime con il formarsidella nuova comunità politica. L’iniziativa di Ethelbert fu seguita dai suoi successori Edric e Lotario e ripresa da Ina, re del West Saxons “famoso per la sua sapienza e la sua pietà" eda Offare della Mercia: la continuità dell’opera “legislativa”dei primi re sassoni attesta che l'esigenza di garantire la “certezza” e la “pubblicità” delle norme necessarie alla vita comunitaria era intrinseca all’esistenza e alla continuità dell'autoritàpolitica.Quest’opera di certificazione delle norme sancite dal costume e dalla consuetudine ebbe la sua espressione più importante nella raccolta delle leggi promossa e realizzata da Alfredo il grande, che, secondo Burke, con la sua iniziativa ebbeil merito storico di affermare il diritto, la certezza del dirittocome una ineludibile esigenza di ordine e di giustizia proprionel corso di una “guerra crudele, della quale non vide l’inizioné visse da vedere la fine; egli riuscì a fare per l'ordine e lagiustizia più di quello che ogni altro principe aveva fatto in

tempo di pace”. Nel preambolo al suo “codice” Alfredo precisa che egli si è limitato a raccogliere dalle “leggi” di Ina, diOffa e degli altri suoi predecessori, quanto gli appariva di piùvalido, omettendo ciò che gli sembrava erroneo o non adattoai tempi. L’opera di revisione e di “ammodernamento” di Alfredo fu continuata dai suoi successori: “sono pochi (notaBurke) quelli che non ci hanno lasciato una raccolta di leggi”.Quando i Danesi riuscirono ad insediarsi stabilmente in Inghilterra, si dimostrarono non “meno solleciti degli Inglesi araccogliere e a rinforzare le leggi, dimostrando così (osservaBurke) di essere desiderosi di riparare alle ingiurie che avevano commesso nei loro confronti”.Il codice di Canuto il grande è “il più moderato, equo ecompleto di tutte le altre antiche raccolte di leggi". Non vi fualcuna modifica sostanziale del sistema normativo anglosassone, il re si preoccupo di abolire molte delle antiche consuetudini inglesi che effettivamente risultavano odiose. Fra gli ultimi re anglosassoni Edoardo il confessore promosse una raccolta delle leggi sassoni per rafforzane l'osservanza, raccoltache non deve essere confusa, avverte Burke, con il noto codice di S. Edoardo, tanto ricordato dagli storici del tempo,che fu redatto più tardi ed attribuito al re. Il “codice” divennela testimonianza più autorevole delle “libertà" anglosassonialla quale si richiamarono gli Inglesi per denunciare l’oppressiva legislazione “feudale” della monarchia normanna. Chi consideri il complesso della “legislazione sassone” vi nota uncontinuo perfezionamento dovuto soprattutto al “contributo"dei diritti “stranieri”, il diritto canonico rappresentato dallecostituzioni ecclesiastiche inserite nelle raccolte e il diritto romano. Il diritto sassone si rifaceva pertanto a tre fonti: “gli antichi tradizionali costumi delle popolazioni del Nord Europa; i canoni della chiesa: gli ecclesiastici furono i “legislatoridi fatto”, “che corressero, mitigarono ed arricchirono quellerozze istituzioni nordiche"; il diritto civile romano, che ebbeperò una minore rilevanza nel processo di formazione dellalegislazione sassone. La conquista normanna, con l’instaurazione della nuovamonarchia, dette un notevole impulso al diritto inglese che fuletteralmente “riempito di cultura straniera”: si trattò, secondo Burke, di un “incremento di diritto” imposto dal potere reale, anziché di una vera e propria crescita dovuta ad unprocesso di assimilazione e rinnovamento realizzatosi nell’ambito delle precedenti leggi inglesi. Le leggi di S. Edward e quelle normanne furono considerate in netta contrapposizione fra loro, opinione radicata nello stato di tensione e di conflitto fra. gli Anglosassoni che cercavano di servirsi delle prime e i Normanni che imponevano le seconde. Guglielmosecond promise di governare « by St. Edward’s laws a promise extremely grateful and popular to all parties >>, salvo poi ignorare tale promessa, ma il suo successore Enrico primo ritenne piùsaggio per la stabilità delle nuove istituzioni redigere unnuovo “corpo” di leggi, al fine di contemperare il nuovo ordinamento con il vecchio, cercando di ridurre al minimol'odiosa distinzione di Inglesi e Normanni. L'autorità politicaaveva acquisito la consapevolezza dell'importanza del dirittoai fini della reale pacificazione ed unità del regno. Di qui leimportanti riforme dell'amministrazione della giustizia attuatedurante il regno di Enrico II, per le garanzie offerte di stabiliistituzioni giudiziarie che offrivano agli Inglesi un importantemezzo di difesa nei confronti dell’oppressione della feudalità

normanna. In conclusione, secondo Burke la conquista,la lotta per il potere si tradussero in lotta per il diritto: « TheNorman conquest is the great era of ours Laws >>.Per Hunie, invece, la lotta politica ha uno scarsissimo rilievo, se non un effetto negativo sul riconoscimento del dirittoche a suo giudizio comincia ad affermarsi e il suo studio sistematico a diffondersi solamente dopo l’accidentale scopertadel Dzgesto avvenuta ad Amalfi intorno al 1130 : la possibilità di poter accedere alla più compiuta espressione dellaragione giuridica e di potersi avvalere di questa “scienza” e lasua diffusione ebbero, a suo giudizio, un vero e proprio ruolo“demiurgico” nel promuovere il primo “incivilimento” dellabarbara e rozza società anglosassone, in quanto resero possibile l’inizio di quel progresso delle arti e delle scienze che sisarebbe poi delineato con più chiari connotati nel quindicesimo secolo. Il “lume” dell’antica scienza del diritto, modellodi ragione formata sulla pratica degli affari civili, cominciò adiradare le tenebre dell’ignoranza e della superstizione per lasua insita capacità di eliminare l’errore e di convincere lementi. Per Hume il quadro storico nel cui ambito s’iniziò e sidiffuse lo studio del diritto sembra non avere alcun rilievo,nessuna influenza se non quella negativa propria di una società barbara e rozza dominata dalla superstizione che caratterizzò anche il cosiddetto “diritto” della società anglosassone. Burke nell’abridgment non si avvale del modello di società civile proposto da Voltaire e da Hume per giudicare circostanze, situazioni, avvenimenti, personaggi della storia medioevale inglese, perché ritiene che questa storia debba esserecompresa e ricostruita secondo i suoi “authentic monuments”, che esprimono una determinata condizione umanache aveva in se stessa i principi e le “ragioni” del suo esisterestorico: ciò significa che gli uomini cercavano di risolvere iloro problemi secondo le loro storiche necessità, convinzionied esigenze, e con questo impegno ponevano le premesse ecostruivano il loro futuro. La storia dei "tempi oscuri",dei popoli rozzi e primitivi, delle continue invasioni e insediamenti (Sassoni e Danesi), delle rapine e dei saccheggi, delleconquiste (Normanni), come quella degli altri popoli europeie dell’Europa, ha in se stessa i principi che ne spiegano losvolgimento, indipendentemente dal confronto con la ragionedei lumi, e che la legittimano come un periodo storico epocale. Il Medioevo è la storia della informazione delle nazioni,dei popoli europei e dei loro ordinamenti politici e dei lorocomuni principi religiosi e politici.Non bisogna considerare la storia medioevale con il “sentimento" e la sensibilità culturale propria dell’illuminista chetutto riporta ai principi e alle categorie del suo intelletto e chedisconosce ed esclude tutto quello che non vi corrisponde, mabisogna comprendere quella storia nella sua interna dinamica,cioè individuando le necessità, le esigenze, le tradizioni, leconsuetudini, la “cultura” delle popolazioni che formarono lenuove comunità politiche a seguito delle invasioni e degli insediamenti resi possibili dalla disarticolazione e dal “crollo”

dell’Impero romano. La dinamica della società medioevale,secondo Burke, è promossa ed è resa “coerente” dalla religiosità e dalla fede cristiana, che costituisce un costante punto diorientamento, dal quale non si può prescindere se intendiamoricostruire il corso di quegli avvenimenti ed intenderne il verosignificato storico. Occorre rendersi conto che << a simple religious people >> è il presupposto non solamente del prestigioche circonda la Chiesa e della sua influenza, ma anche dibuona parte dei sentimenti e delle convinzioni della societàmedioevale, che si esprime in un mondo umano che ha proprie caratteristiche religiose, culturali ed istituzionali. Questehanno un’intrinseca e storica ragion d’essere, una propria legittimità che deve essere riconosciuta dallo storico di quel periodo per non incorrere nell’errore di appiattire la prospettivastorica sulle idee e le esigenze del presente.Il sentimento e le convinzioni religiose non possono essere confinati nella categoria della “superstizione" perchéesprimono esigenze ed ideali che sovrastano il potere e la regalità ed influenzano l’intero ordinamento, mantenendo sempre viva l’esigenza di giustizia, di difesa dall’oppressione, dilibertà e di pace. L’intensa religiosità, quando si accompagnaalle responsabilità di chi deve provvedere alla continua difesadel regno dall’assalto di nemici invasori, a volte attenua quellastessa responsabilità sostituendovi gli impegni religiosi, ma altre volte rafforza le energie di governo e le indirizza verso ilbene della comunità. Certo, osserva Burke, la religiosità diEthelwolf rinchiuse il re nella sua sfera privata, i doveri religiosi assunsero un’importanza particolarmente rilevante:<< era un mite e virtuoso principe, pieno di una timida pietà,che rende del tutto inadatti a governare; e cominciò a regnareproprio quando era richiesta la più grande capacità di governo >>. Lascio l’Inghilterra in un momento particolarmente critico per un lungo pellegrinaggio a Roma, suscitando un generale scontento che si tramutò al suo ritorno in una ribellione, che egli riuscì a comporre, lasciando il governo a suo figlio e ritirandosi nel Kent per godere di una << ingloriosaprivacy >>. Edward il confessore « era stato educato in un monastero, nel quale egli apprese la pietà, la continenza e l’umiltà, ma nulla dell’arte di governo. Egli fu semplice ed ingenuo ma di vedute molto ristrette, senza alcune capacitàd'iniziativa >>. Ebbe il buon senso di affidare il governo inmani capaci. Le poche cose che curò personalmente furonotutte buone: una nuova raccolta di leggi sassoni favorevoli aisuoi sudditi, l’adozione di un gravoso tributo e la restituzione di quanto era stato ingiustamente prelevato. << In brevevi è poco nella sua vita che può mettere in questione il suo titolo di santità; ma non può in alcun modo essere riconosciutofra i grandi re ». Se in Ethelwolf e in Edward i valori religiosi ispiraronoun atteggiamento di sostanziale “disincanto” nei confrontidella politica, in Alfredo il grande la religione invece promosse quella costante energia che caratterizzò la sua attività digoverno << La religione che nel padre di Alfredo (Ethelwolflfu così pregiudizievole agli impegni di governo, senza esserein lui in alcun modo inferiore nello zelo e nel fervore, fu di

un più comprensivo e nobile genere; lontano da essere di pregiudizio al suo governo appare essere stato il principio che lo sostenne in così tante fatiche e nutrì come una fonte abbondante le sue virtù civili e militari ». La storia pertanto è una “ricostruzione partecipativa" delperiodo oggetto degli studi e della ricerca per rendersi contodel << generale orientamento delle menti degli uomini di queltempo », cercando di comprendere la formazione dei loroconvincimenti, sulla base delle necessità, delle esigenze che divolta in volta li determinarono e li ispirarono. Le passioni e isentimenti hanno un'intensità esistenziale che è propria diquel determinato periodo storico: il primitivismo delle popolazioni, la ferocia, che si esprime nella volontà di preda e didominio, a volte si converte nel terrore religioso per i delitticommessi, nel pentimento e nel rifiuto ascetico del mondo,che scaturiscono da un sentimento profondo dell’anin1o edesprimono il riconoscimento dell’interiore voce della coscienza. E quindi non è mera superstizione religiosa.Le superstizioni hanno un rilievo del tutto secondarionella ricostruzione storica di Burke che tiene invece in considerazione le credenze e le opinioni sancite dalle tradizioni,dagli usi, dai costumi in quanto sapienza riposta dei popoli edelle nazioni, cioè quella che è stata appresa nell'esperienzastorica vissuta insieme dagli uomini di una collettività, per“fare”, cioè per organizzare una vita comune. Essi, secondoBurke, sono intrinsecamente connessi alla storia: gli usi, i costumi, con le convinzioni e le opinioni che sanciscono, nonpossono essere studiati solamente descrivendoli e giudicandoli con il metro della ragione dei lumi, per distinguere ibuoni dai cattivi, come fa Voltaire. Proprio perché sono unadelle principali testimonianze della storia dei popoli, debbonoessere compresi e valutati sulla base del loro processo di formazione storica, della loro concreta determinazione storica.Non ci sono i “moeurs” da una parte e le necessità, leistituzioni, il potere, i re, le guerre e le battaglie dall’altra: essifanno parte di un unico processo storico e sono pertanto intimamente connessi. Il dato filologico, nel senso più ampiodel termine, attiene alla concreta determinazione storica deipersonaggi, degli avvenimenti, delle situazioni, delle istituzioni e soprattutto delle opinioni e delle convinzioni perchéattesta la loro esistenza storica con le loro specifiche caratteristiche. Di qui l’impegno dello storico a prestare particolareattenzione al dato filologico e a riconoscerlo nella sua intrinseca validità storica per una ricostruzione degli avvenimentiche sia quanto più possibile serena ed oggettiva, e che nonpretenda di servirsi delle idee, delle opinioni dei suoi tempiper interpretare quelle dei tempi passati.La religiosità medioevale si esprime secondo i principi, gliideali, il culto che si richiamano all'insegnamento della Chiesadi Roma: Burke avverte che la storiografia illuministica (Bolingbroke, Voltaire, Hume) per tanti aspetti continua la storiografia protestante - il riferimento in particolare è a Rapin Thoyras - che identifica la storia medievale con il dominio

della Chiesa fondato sulle superstizioni religiose. La storia medioevale si riduce pertanto a “svelare” i motivi politicidelle invenzioni superstiziose della Chiesa ed a dimostrare leconseguenze funeste delle convinzioni che a quelle si richiamavano. Si consideri ad esempio la lotta delle investiture cheè provocata dal desiderio di dominio di Gregorio VII: la suamemoria per Voltaire << è cara e rispettabile al clero romanoodiosa agli imperatori ed a ogni buon cittadino per gli effettidella sua ambizione inflessibile. La Chiesa". l'ha messo nelnumero dei santi. I saggi l’han messo nel numero dei pazzi >>.Non c’è spiegazione storica a quelle guerre, se si eccettua laconsiderazione che << il fanatismo dei sudditi conduce i principi alla rovina »: in effetti_ la lotta per le investiture fu una« guerra sanguinosa ed assurda ».Per Burke invece il conflitto ha una sua origine e motivazione storica ben precisa: risiede nella formazione storica dell’autorità' vescovile e dell’organizzazione ecclesiastica cosicome fu riconosciuta dagli Imperatori romani e poi dai nuoviregni che si formarono a seguito degli insediamenti delle popolazioni germaniche e del nord Europa, il cui ordinamentopolitico finì per conferire all’autorità vescovile una “giurisdizione feudale” che la inseriva nel sistema delle relazioni edelle dipendenze feudali che facevano capo al re e all’Imperatore. Si ponevano cosi le premesse del conflitto fra il poterepolitico e l’autorità religiosa per la concreta definizione delmodo con cui garantire la reciproca indipendenza e nel contempo precisare gli obblighi cui doveva corrispondere l”autorità vescovile nei confronti del proprio sovrano. Burke considera naturalmente la lotta delle investiture con riguardo allastoria inglese che a suo giudizio consente di cogliere il proponimento del Papato di rendere indipendenti i vescovi nei confronti dei duchi, dei re e dell'Imperatore, per rafforzare laloro dipendenza da Roma, rendendo più forte e sicura l’organizzazione ecclesiastica, ed accentuando una supremazia dicarattere spirituale che finisce per invadere anche l’ambitoproprio del potere politico. Burke critica l’interpretazionevolta ad avvalorare credenze superstiziose, ma riconosce, nelcontempo, che la condanna della Chiesa delle investiture denunciava la pratica diffusa di subordinare l'incarico vescovilea fini meramente temporali che si traducevano nella legittimazione della malversazione dei beni della Chiesa e nella nominadi persone del tutto impreparate e senza alcun prestigio di carattere spirituale. La lotta delle investiture è quindi un momento particolarmente importante della dialettica fra l’Impero e la Chiesa, che rappresenta per tanti aspetti il centro propulsivo e il principiodinamico della storia medievale. Questa stessa dialettica la ritroviamo all’interno dei singoli Stati, fra la monarchia e l’ordine ecclesiastico, in modo particolare in Inghilterra: la monarchia trae dalla concezione ecclesiastica della regalità, come potere impegnato a garantire l’ordine, la pace, la giustizia una legittimazione che le riconosce un’autonoma sfera di supremocomando e di indirizzo che la pone al di sopra dì tutti gli ordini, ma nello stesso tempo subisce il condizionamento della grandissima influenza che la Chiesa esercita nella società e cheessa fa valere in occasione della successione al trono, soprattutto quando questa è contesa fra più pretendenti. La politica di Enrico II fu informata al principio di<< spezzare il potere del clero, che ciascuno dei suoi predecessori, sin da Edoardo, aveva cercato di alzare e di deprimere, prima con lo scopo di guadagnare quel potente ordine ai propri interessi e poi

per preservarsi di diventare soggetti a quella stessa autorità che proprio loro gli avevano conferito. I vescovi avevano eletto Stefano; essi avevano deposto Stefano ed eletto Matilde; e nelle formule che essi usarono in quelle occasioni avevano riconosciuto a se stessi il pieno diritto di eleggere i re d'Inghilterra. Il loro contributo sia nel promuovere che nel deprimere quel principe dimostrò che essi possedevano un potere che non poteva sussistere con la sicurezza e la dignità dello Stato >>. Il conflitto scaturiva dall’interno dell'ordinamento politico feudale ed era caratterizzato dallacontemporanea affermazione e negazione del potere regio equindi dalla necessità di trovare una soluzione di caratteregiuridico - istituzionale che potesse garantire la continuità el'autonomia del potere monarchico, nel rispetto dei privilegi equindi delle libertà, dell’aristocrazia, della Chiesa e del popolo, che cominciava a far valere le sue esigenze. In questa prospettiva la Chiesa è una forza storica: la considerazione dei suoi fondamentali motivi ispiratori è indispensabile per intendere la vita politica medioevale, la consistenza culturale - istituzionale della storia di quel periodo. La storiamedioevale non può essere ricostruita con il criterio propriodella storiografia protestante, e continuato per tanti aspetti daquella illuministica, di “svelare” e denunciare le invenzionisuperstiziose della Chiesa per i suoi fini di dominio spiritualee politico: in tal modo ci precludiamo la conoscenza dei termini reali con cui si svolse il processo storico e finiamo per far valere anacronisticamente esigenze, idee, convinzioni propriedel nostro tempo nella storia del passato. La storia rischia intal modo di perseguire fini di propaganda religiosa o politica,invece di cercare di ricostruire gli avvenimenti con uno studioattento delle fonti. La società medievale, secondo Burke, non è caratterizzatasolamente dal particolarismo proprio dell’ordinamento feudale, ma anche dall’avvertenza di essere partecipi di una società di gran lunga più ampia, che comprende altri popoli, altre genti, altre città, altri regni, l’Europa. Il medioevo è il periodo storico in cui si forma una nuova “entità politica”, cioè una società di popoli, di “nazioni”, di città, di regni che riconosce comuni principi di unione che si risolvono in due supreme autorità: la Chiesa e l’Impero. L’Europa, esposta agliattacchi e alle invasioni degli Arabi, disgregata al suo internoda guerre continue, sembrava condannata ad uno stato di totale anarchia: eppure al suo interno erano operanti due principi grazie ai quali si sarebbe costituita la nuova società europea: <<Nondimeno, nel mezzo di questo caos furono attiviprincipi che ridussero le cose ad una certa forma e gradualmente espressero un sistema in cui i principali promotori e le prime cause erano il potere del Papa e quello dell’Imperatore;L’aumento o la diminuzione dì questi poteri furono la tendenza di quasi tutte le scelte politiche, gli intrighi e le guerre che impegnarono e sconcertarono l’Europa in quel tempo >>. Il centro propulsore di questo nuovo ordinamento e di questa nuova società è la Chiesa di Roma, che rappresenta con la sua dottrina e con il suo sapere il punto di riferimentodel processo storico di formazione dei vincoli religiosi, spirituali culturali e politici dei popoli europei. La ricostituzione e il rafforzamento della monarchia in Francia con Pipino e Carlomagno, la vittoria di quest’ultimo sui Longobardiin difesa della Chiesa furono la premessa per la ricostituzionedell’Impero da parte del Papa nella persona del vincitore.L’autorità imperiale, prima appartenuta alla Francia, poi divisa con la Germania ed a questa definitivamente attribuita,rappresenta l'unità, la legittimità e l’autonomia del poteretemporale nei confronti di quello spirituale: il conflitto fraImpero e Chiesa, determinato dalla rispettiva pretesa alla propria supremazia, contrappose la 'forza delle armi, l'Impero,

alla forza dell’influenza ecclesiastica: poteri che in quel periodo si bilanciavano. Impero e Chiesa non furono l’espressione del “primitivismo’, dell’ignoranza, della superstizionedei popoli europei, ma erano due forze storiche che con laloro dialettica concorrevano alla formazione ed all’organizzazione della società europea.La divisione e le lotte fra i partigiani dell’Impero e quellidella Chiesa, per quanto riguarda l’Italia, ebbero come risultato la formazione di liberi ordinamenti cittadini, come le repubbliche di Venezia, Genova, Firenze, Pisa, che conquistarono ben presto con i loro commerci (un’attività « abbandonata e disprezzata dalla gente rozza dei governi marziali » « aconsiderable degree of wealth, power, and civility >>. L’insediamento dei Danesi in Inghilterra e in Normandia, che consentìl'ulteriore “movimento” verso il Sud dell'Europa, con la conquista di Napoli e della Sicilia, per dar vita ad un nuovo regno, completò nel primo secolo dopo il .mille il quadro politico europeo.L’Europa delle città, dei comuni, delle repubbliche, deiregni, dei ducati, dell'Impero e della Chiesa cominciava adesprimere un sistema politico in cui le iniziative e gli avvenimenti politici dei singoli soggetti erano per tanti aspetti caratterizzati da mutua dipendenza o influenza. La guerra delle investiture e le Crociate avevano creato una generale situazioneeuropea in cui occorreva tener in conto, per conservare il potere o per assumere con successo un’iniziativa politica, la politica e gli interessi degli altri soggetti politici. Ciò era validosoprattutto per l’Inghilterra: la conquista normanna fu preceduta da un’accorta preparazione diplomatica da parte di Guglielmo per ottenere il consenso dei conti d’Anjou, di Bretagna, di Ponthieu; << dopo di ciò - precisa ancora Burke -fu egualmente necessario conciliare alla sua impresa le tregrandi potenze di cui si è parlato, il cui atteggiamentoavrebbe avuto la più grande influenza sui suoi affari »: il regno di Francia, l’Impero ed infine il Papa: un consenso praticamene da parte di tutta l’Europa che contava. La politica della monarchia normanna fu per molti aspetti, soprattutto per quanto riguardo la politica ecclesiastica, strettamente connessa alle situazioni politiche che si determinavanoa livello europeo. In particolare le vicende politiche inglesiche portarono alla concessione della Magna Carta, furono influenzate a volte in modo decisivo dal regno di Francia e dallaChiesa di Roma.Con un sottinteso riferimento alla tesi montesquievianasulla diffusione europea del feudalesimo, Burke osserva cheun altro importante vincolo politico, per la società europea erarappresentato dal consolidamento del sistema feudale nei regni del “continente europeo" e dalla diffusione dei “modi' emaniere” della disciplina e del valore militare, dello spiritomarziale, propri dell’istituzione feudale: « The feudal discipline extented itself every where, and influenced the conductof the Courts, and the manners of the people, with its irregular martial spirit ». Si tratta pertanto di rendersi contodelle ragioni storiche delle istituzioni feudali e dell'influenzache esercitarono non solamente sulla “condotta delle Corti”,cioè sul modo di governare, ma anche sulle “maniere del popolo", sul comportamento e sulle convinzioni che lo ispiravano.Burke non partecipa della polemica voltairiana e humiananei confronti del feudalesimo e del suo spirito marziale, ritiene invece che la disciplina militare è una componente necessaria e primaria nella organizzazione delle comunitàumane, e tende ad esprimere una propria etica di comportamento: in questa prospettiva si tratta di comprendere la “generale disposizione delle menti degli uomini” soggetti a

quella disciplina. I grandi feudatari, i vassalli, i cavalieri, lecategorie che partecipavano al potere feudale, erano subordinati gli uni agli altri da un vincolo di fedeltà e di lealtà ma ilimiti dell’obbedienza erano fissati dal vassallo e dal cavaliere,perché nella “generale disposizione delle menti" la professione delle armi parificava tutti i soggetti del rapporto feudale. Di qui la dialettica interna al sistema feudale che lo caratterizzò e fu' uno dei motivi della sua trasformazione: al re,fonte del potere feudale, si contrapponevano spesso i grandifeudatari, che, nota Burke, pur soggetti alle << complicate leggidi una varia e rigorosa servitù esercitavano tutte le prerogativedi un potere sovrano >> del quale erano i soli giudici.Esempi ci sono offerti dalle vicende degli ultimi anni deiregni di Gugliemo il conquistatore e di Enrico II, che dimostrano come l’investitura feudale conferiva un senso di autonomia e di indipendenza e nel contempo suscitava un cosìforte sentimento di fedeltà nei confronti del signore o re cuisi prestava omaggio da infrangere e sostituire i vincoli tradizionali fondati sull’autorità,paterna; Così si spiegano, secondoBurke, le tensioni, i conflitti sino allo scontro armato nella famiglia dei due re Guglielmo ed Enrico II., che rappresentarono non solamente un pericolo gravissimo per la stabilità delregno ma anche un’esperienza amarissima e tormentata per idue re la cui vita era stata coronata da tanti successi e vittorie: avevano conseguito un potere tanto forte ed esteso quantomai conseguito prima in Inghilterra. Guglielmo rischiò di essere ucciso dal figlio Roberto se, per un caso fortuito, nonfosse stato riconosciuto proprio quando stava per essere sopraffatto; Enrico II, sistemato nella bara nell'imminenza dellamorte e lasciato ai piedi dell'altare della chiesa, morì in totalesolitudine: dopo la morte la salma, depredata e privata deglistessi vestiti, fu abbandonata per giorni nella chiesa.La monarchia era impegnata a “far valere” le sue prerogative per garantire la stabilità e l’efficienza del suo governo,e finiva per scontrarsi il più delle volte con i suoi feudatari,che nei loro feudi amministravano a proprio piacimento lagiustizia e suscitavano spesso conflitti con i loro vicini, diventando così in più di un’occasione arbitri della pace del regno.Il feudalesimo fu un regime politico che oscillava, come osserva Montesquieu, fra la “norma”, cioè l’ordine, << con una certa tendenza all’anarchia, e l'anarchia con una certa tendenza all’ordine e all’armonia ». Secondo Burke questacontraddizione interna all’ordina mento feudale è .i1 principiodinamiche spiega gran parte degli avvenimenti politici diquel periodo e del lento progressivo affermarsi sulla scenapolitica delle categorie “popolari”, che sino ai tempi di Guglielmo vivevano in uno stato di soggezione simile alla servitù.La contraddizione deve essere compresa nel suo ruolostorico, per spiegare storicamente l’origine della dialettica ordine-anarchia, come il dominio tende a tramutarsi in anarchia,e per individuare i motivi per cui nell’anarchia si esprime latendenza all'ordine e all'armonia. L’anarchia di poteri si manifestò in tutta la sua crudezza ed oppressione durante il regno di Stefano nel corso della guerra civile fra il re e il pretendente al trono Enrico, nipote di Guglielmo H, fra il 1138

e il 1153. Ed è in questa situazione, osserva Burke, che si manifestò una presa di coscienza del significato etico della virtùmilitare, dell’onore militare come tutela e difesa delle personeper le quali si esercitava il mestiere delle armi; Si affermò cosìe si diffuse lo spirito di cavalleria, la professione delle armiimpegnava a combattere in difesa dei deboli, degli indifesi,contro coloro che si servivano delle armi per usare violenza,commettere rapine, uccidere, opprimere.Era una manifestazione della “tendenza” ad uscire dall’anarchia per cercare di dar vita a un ordine e un'armonia diintenti, di cui si rendevano interpreti le classi popolari, che,grazie ai conflitti che finivano per indebolire la monarchia e ifeudatari, cominciarono a richiedere e poi a pretendere inquanto soggetti all'obbligo feudale di fedeltà al re la concessione di privilegi inerenti al loro status di abitanti di città e dicomunità, alle quali si cominciò a riconoscere un'autonomagiurisdizione di carattere amministrativo, sul modello diquelle feudali. Lo spirito marziale che caratterizzava l’ordinamento feudale aveva finito per informare di sé le “maniere” e`le menti del popolo, sottraendolo ad un stato di mera passività e soggezione ed impegnandolo nella lotta per la difesa deisuoi diritti. Con il regno di Enrico I la richiesta e la concessione di carte delle libertà alle città, a quella di Londra in particolare, ed al "popolo” divennero una condizione necessariaper il riconoscimento e la consacrazione del successore altrono d’Inghilterra, il che secondo Burke cominciò a formareuna sorta di prassi costituzionale, che avrebbe avuto il suopieno riconoscimento con la Magna Carta e con la Carta delleforeste, << due memorabili documenti; che per la prima voltadisarmarono la Corona delle sue illimitate prerogative e posero il fondamento della libertà inglese>>. Burke tiene ad evidenziare la specificità storica delle dueCarte, di documenti che debbono essere interpretati con riferimento all’ordinamento feudale dal quale in sostanza promanano: essi pertanto non possono essere considerati, come ritengono i nostri storici (compreso Hume), un ritorno o unrinnovamento delle leggi di Sant Edward o delle antiche leggisassoni.Le due Carte invece ebbero lo scopo preciso di correggere l'ordinamento politico feudale”, la “feudal policy” e pertanto si avvalsero di principi, di norme propri dell’ordinamento feudale. Secondo la consuetudine feudale i baroni richiesero che le “libertà" fossero “garantite a loro ed ai loroeredi dal re e dai suoi eredi": ciò dimostra, rileva Burke, chela dottrina di un possesso feudale inalienabile fu sempre dominante nelle loro menti. Anche la loro idea di libertà non eraperfettamente libera: essi non rivendicarono i loro privilegisulla base di un principio di natura o altro indipendente fondamento, ma, in virtù del possesso delle loro terre, li pretesero dal re. Secondo la legge feudale, la proprietà della terraderivava dalla Corona, per concessione immediata o derivata.La Magna Carta e la Carta delle foreste sono il risultatodell'interna dialettica del sistema feudale, della “feudal policy”,. o della monarchia feudale inglese. Esse sono la testimonianza, la prova, chele lotte, i conflitti, persino all'internodella famiglia reale per la successione al trono dei figli controil padre, come nel caso di Enrico II, e poi fra il re e i grandi

feudatari, fra il re e la Chiesa, furono i principi della dinamicainterna della “feudal polìcy”, che ebbe come risultato la prima“correzione” o riforma del sistema feudale. Si provvide così adelimitare e definire le prerogative della monarchia, a riconoscere e ad inserire nell'ordinamento costituzionale i poteri deigrandi feudatari, a sancire le essenziali garanzie di libertà degli uomini liberi.I principi fondamentali dello Stato costituzionale ingleseebbero per Burke una lunga “gestazione” storica che. Duròcirca seicento anni dalla fondazione dei regni sassoni e dallaloro successiva unificazione sino alla Magna Carta. La monarchia sassone, inizialmente una sorta di irregolare “repubblica”, costituita dalle tribù che riconoscevano un unico capo,si trasformò lentamente in una monarchia altrettanto irregolare, in cui non erano, definiti né i poteri del re né le regole disuccessione al trono, e il suo ordinamento politico-amministrativo aveva le caratteristiche di una confederazionedei “grandi distretti”, borougs. L’autorità e il potere digoverno e di coordinamento della monarchia sassone si affermò a poco a poco nel corso dei quattro secoli della sua durata quando fu assunta e rafforzata da una più rigida organizzazione feudale da parte della monarchia normanna. L'istituzione di un potere unitario e della sua organizzazione politica,amministrativa, giudiziaria e fiscale procedette con estremalentezza secondo i ritmi di un processo storico in cui tutti imembri della comunità sono “chiamati” a fare la “policy”, loStato, secondo le proprie condizioni, convinzioni e capacitàstoriche dal re, all’aristocratico, all’ecclesiastico, al libero, alservo.Nell’Abridgment il medioevo è “riscattato” dalla visioneilluministica del “tempo” della barbarie, della inciviltà, dellasuperstizione, della “notte della ragione”, ma è visto invececome il periodo storico in cui possiamo intendere le originidella nuova società europea, dei nuovi popoli e delle diversenazioni che lentamente la formarono grazie ai principi, agliideali della religiosità cristiana, che richiamarono l’istituzionetipica di quei tempi, il feudalesimo, ai suoi intrinseci idealidella lealtà, della fedeltà, della difesa dei deboli, degli inermi,di quanti, la stragrande maggioranza, non praticavano il mestiere delle armi. Pur con la sua ferocia e brutalità, con la suapropensione all’avventura, alla rapina, al dominio, il feudalesimo esprime con la “cavalleria” il sentimento dell’onore edell'impegno disinteressato, insieme alla convinzione che laforza ha come fine la difesa del debole e` dell'oppresso, e pertanto promuove un rapporto dell’uomo con il potere fondatosu quei principi e valori che sono per Burke alla base dellavita civile e politica dell’Europa moderna.Il tema delle origini e della formazione della nazione inglese non può essere scisso, secondo Burke, da un sentimentodi “venerazione" per l’antichità e quindi da una partecipazione simpatetica ai sentimenti, alle passioni e soprattutto alla“religiosità” di quelle popolazioni e di quei tempi, onde poterintendere il processo di lenta formazione ed integrazione dellenazioni europee come delle vere e proprie “totalità etiche”

con proprie consuetudini, tradizioni in cui si esprimono leloro specifiche caratteristiche. Si precisa così ulteriormente ilpreromanticismo di Burke, che si era già manifestato nell’estetica con la teoria del sublime: nell’abridgment si esprime nellaconvinzione che la tradizione storica è un insostituibile fonda»mento delle istituzioni e degli ordinamenti politici di cui lostorico deve saper riconoscere il profondo contenuto di verità.Dal punto di vista del pensiero politico la conclusionedell'abridgment è che lo Stato non si “costituisce” con le delibere di un’Assemblea, né può essere ricostituito o rifondatocon le rivoluzioni, che possono correggere e innovare nei limiti in cui si inseriscono e continuano il processo storico da cui promana l’istituzione che si intende riformare. È proprioquesta la premessa essenziale delle considerazioni che sarannopoi svolte nelle riflessioni sulla rivoluzione francese. Conl’abridgment Burke matura la convinzione che la politica èintimamente connessa con la storia, rappresenta per moltiaspetti il principio dinamico della storia, ne spiega il movimento che connette le azioni degli uomini in un processo unitario che garantisce la continuità storica cioè il principio diidentità delle grandi formazioni ed organizzazioni politiche.Di qui la caratteristica del pensiero politico burkiano di considerare la politica in una prospettiva storica, cioè di analizzare i fatti e gli eventi politici nel contesto della dinamica storica del suo tempo, con un preciso richiamo ai precedentistorici che ne spiegano le origini.La politica ha nella storia il suo intrinseco completamento: i fini che essa persegue possono essere compresi nelloro vero significato e valore solamente in una prospettivastorica. In conclusione la ragione “concreta” è la ragione storica che si commisura al corso degli avvenimenti storici perintendere come le necessità, le esigenze, le aspirazioni, gliideali, le ragioni degli uomini si traducono nella realtà, diventano cioè mondo delle istituzioni, delle leggi, delle relazioni,del sapere e delle convinzioni umane. Perciò, in Burke, larealtà, il concreto non è altro che storia: la teoria della societàe della politica non può prescindere dal problema storiografico, cioè dai criteri che presiedono alla ricostruzione storicadegli avvenimenti e alla loro corrispondente valutazione storica. Alla ragione illuministica Burke contrappone la ragionestorica, cioè quella che è in grado di comprendere << the necessity of the times », una necessità anch'essa storica, cioè latotalità e quindi l’unità delle_ situazioni e delle condizioni deitempi.