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1 PROPAGANDA POLITICA E DISCRIMINAZIONE RAZZIALE: I PALETTI DELLA SUPREMA CORTE. di Andrea Trappolini Con la sentenza n. 36906 resa il 23 giugno 2015 e depositata il 14 settembre 2015, la Corte di Cassazione è tornata a pronunciarsi sulla previsione normativa di cui all’articolo 3, comma I, lettera a), della legge 13 ottobre 1975, n. 654. 1. REATI IN TEMA DI DISCRIMINAZIONE: PRINCIPI COSTITUZIONALI E SOVRANAZIONALI, EVOLUZIONE NORMATIVA E VALORI TUTELATI Prima di soffermarci sul contenuto della pronuncia e sul caso sottoposto all’attenzione della Suprema Corte, appare utile brevemente richiamare la tematica sui reati di discriminazione evidenziando, in primo luogo, le fondamenta costituzionali ed internazionali e, successivamente, lo sviluppo del sistema interno 1 . Può affermarsi che il riconoscimento dello ius puniendi rispetto a condotte discriminatorie (su base raziale, etnica, etc.) poggia, nel nostro ordinamento, sul principio di uguaglianza e pari dignità, come declinato dall’articolo 3 della Costituzione 2 . Trattasi di disposizione che, nel caso in esame, va collegata ad altre due norme costituzionali: gli articoli 2 e 10 comma II. La prima di queste disposizioni garantisce il rispetto dei diritti inviolabili in quanto tali ed indipendentemente dalla nazionalità, la seconda assume importanza perché prevede l’impegno dell’Italia a conformarsi alle norme di diritto internazionale generalmente riconosciute. Orbene, il primo intervento normativo del legislatore italiano teso a stigmatizzare in sede penale la discriminazione razziale è stato la legge 20 giugno 1952, n. 645 (c.d. legge Scelba) 3 . La propaganda razzista veniva 1 Fra i tanti contributi sul tema si segnala G. Pagliarulo, “La tutela penale contro le discriminazioni razziali”, in Archivio penale 2014, n. 3. 2 Sul punto G. Pavich – A. Bonomi, “Reati in tema di discriminazione: il punto sull’evoluzione normativa recente, sui principi e valori in gioco, sulle prospettive legislative e sulla possibilità di interpretare in senso conforme a Costituzione la normativa vigente”, (2015) in www.penalecontemporaneo.it. 3 É la legge di attuazione della XII° disposizione transitoria e finale della Costituzione che aveva come obiettivo principale il divieto di riorganizzazione del partito fascista.

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PROPAGANDA POLITICA E DISCRIMINAZIONE

RAZZIALE: I PALETTI DELLA SUPREMA CORTE.

di Andrea Trappolini

Con la sentenza n. 36906 resa il 23 giugno 2015 e depositata il 14 settembre

2015, la Corte di Cassazione è tornata a pronunciarsi sulla previsione normativa

di cui all’articolo 3, comma I, lettera a), della legge 13 ottobre 1975, n. 654.

1. REATI IN TEMA DI DISCRIMINAZIONE: PRINCIPI COSTITUZIONALI

E SOVRANAZIONALI, EVOLUZIONE NORMATIVA E VALORI

TUTELATI

Prima di soffermarci sul contenuto della pronuncia e sul caso sottoposto

all’attenzione della Suprema Corte, appare utile brevemente richiamare la

tematica sui reati di discriminazione evidenziando, in primo luogo, le

fondamenta costituzionali ed internazionali e, successivamente, lo sviluppo del

sistema interno1.

Può affermarsi che il riconoscimento dello ius puniendi rispetto a condotte

discriminatorie (su base raziale, etnica, etc.) poggia, nel nostro ordinamento, sul

principio di uguaglianza e pari dignità, come declinato dall’articolo 3 della

Costituzione2. Trattasi di disposizione che, nel caso in esame, va collegata ad

altre due norme costituzionali: gli articoli 2 e 10 comma II. La prima di queste

disposizioni garantisce il rispetto dei diritti inviolabili in quanto tali ed

indipendentemente dalla nazionalità, la seconda assume importanza perché

prevede l’impegno dell’Italia a conformarsi alle norme di diritto internazionale

generalmente riconosciute.

Orbene, il primo intervento normativo del legislatore italiano teso a

stigmatizzare in sede penale la discriminazione razziale è stato la legge 20

giugno 1952, n. 645 (c.d. legge Scelba) 3 . La propaganda razzista veniva

1 Fra i tanti contributi sul tema si segnala G. Pagliarulo, “La tutela penale contro le discriminazioni razziali”, in

Archivio penale 2014, n. 3. 2 Sul punto G. Pavich – A. Bonomi, “Reati in tema di discriminazione: il punto sull’evoluzione normativa recente, sui principi

e valori in gioco, sulle prospettive legislative e sulla possibilità di interpretare in senso conforme a Costituzione la normativa

vigente”, (2015) in www.penalecontemporaneo.it. 3 É la legge di attuazione della XII° disposizione transitoria e finale della Costituzione che aveva come

obiettivo principale il divieto di riorganizzazione del partito fascista.

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considerata, dall’art. 1 della citata legge, come una delle modalità di

perseguimento delle finalità antidemocratiche proprie del partito fascista, la cui

ricostituzione veniva punita con la pena della reclusione da tre a dieci anni. Il

fenomeno razzista veniva, quindi, sanzionato incidentalmente ed

indirettamente, ma la legge Scelba restava comunque il primo atto normativo

con cui il legislatore italiano riconosceva il disvalore penale di condotte basate

sulla discriminazione razziale. Nel 9 ottobre 1967 veniva, poi, emanata la legge

n. 962, di attuazione della Convenzione contro il genocidio del 9 dicembre 1948,

che all’articolo 3, lettera c), dichiarava punibile il diretto e pubblico incitamento

al genocidio.

Di fondamentale importanza è la Convenzione di New York - approvata

dall’Assemblea generale dell’O.N.U. il 21 dicembre 1965 ed entrata in vigore il

7 marzo 1966 - sull’eliminazione di ogni forma di discriminazione razziale. Il

trattato riveste un ruolo essenziale in quanto le disposizioni penali che

puniscono le manifestazioni di discriminazione razziale prendono le mosse

dalla ratifica della citata Convenzione intervenuta con la legge 13 ottobre 1975,

n. 654 (la cd. Legge Reale). Sino ad allora il rilievo in sede penale dei

comportamenti di discriminazione basati sulla razza era stato piuttosto

marginale.

L’articolo 3 della legge 13 ottobre 1975, n. 654, ha introdotto nel nostro

ordinamento giuridico autonome fattispecie di reato caratterizzate dalla

matrice razzista: la propaganda razzista, l’incitamento alla discriminazione

razziale e agli atti di violenza nei confronti di persone appartenenti ad un

diverso gruppo nazionale, etnico o razziale, il compimento di atti di violenza

nei confronti dei medesimi soggetti e, infine, la costituzione di associazioni ed

organizzazioni con scopo di incitamento all’odio o alla discriminazione razziale.

Nella sua formulazione originaria l’art. 3, comma I, della citata legge, in

attuazione della disposizione di cui all’articolo 4 della Convenzione di New

York, puniva con la reclusione da uno a quattro anni (lett. a) “chi diffonde in

qualsiasi modo idee fondate sulla superiorità o sull’odio razziale”, ovvero (lett. b) “chi

incita in qualsiasi modo alla discriminazione, o incita a commettere o commette atti di

violenza o di provocazione alla violenza, nei confronti di persone perché appartenenti a

un gruppo nazionale, etnico o razziale”.

Un più organico intervento legislativo a carattere antidiscriminatorio si è avuto

con il decreto legge 26 aprile 1993, n. 122, coordinato con la legge di

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conversione 25 giugno 1993, n. 205 (cd. Legge Mancino), recante: “Misure

urgenti in materia di discriminazione razziale, etnica e religiosa”. Sintomatica,

al riguardo, appare, in primis, la clausola iniziale dell’articolo 3, comma I, della

citata legge n. 654, come modificato dalla “legge Mancino”, dove viene precisato

che scopo delle successive previsioni incriminatrici deve considerarsi “anche”

quello di dare esecuzione all’art. 4 della Convenzione di New York, mentre con

la precedente formulazione della norma si affermava che le disposizioni penali

in essa contenute erano preordinate tout court “ai fini” di dare attuazione

all’articolo 4 del Trattato4.

Il testo dell’articolo 3, comma I, della legge 13 ottobre 1975, n. 654, novellato

dalla legge Mancino, puniva:

“a) con la reclusione sino a tre anni chi diffonde in qualsiasi modo idee fondate sulla

superiorità o sull'odio razziale o etnico, ovvero incita a commettere o commette atti di

discriminazione per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi;

b) con la reclusione da sei mesi a quattro anni chi, in qualsiasi modo, incita a

commettere o commette violenza o atti di provocazione alla violenza per motivi razziali,

etnici, nazionali o religiosi5”.

Se ne ricavava che, in un quadro di complessiva attenuazione delle

conseguenze sanzionatorie (gli estremi edittali risultano infatti generalmente

modificati verso il basso rispetto alla previsione del 1975), venivano distinte le

condotte di mera “diffusione delle idee” e di mero “incitamento alla

discriminazione”, punite con pena meno elevata, da quelle di incitamento alla

violenza, o violenza, o provocazione alla violenza, punite più gravemente (ma

sempre con pene meno elevate rispetto alla previsione originaria: infatti il

minimo edittale scende comunque da un anno a sei mesi).

Nel quadro di una più complessa e articolata riforma dei reati di opinione, la

recente legge 24 febbraio 2006, n. 85, all’articolo 13, ha ulteriormente

modificato l’art. 3 comma 1 della legge 654/1975. In particolare alla lettera a),

oltre a un’ulteriore diminuzione della pena (che ora è alternativa: reclusione

fino a un anno e sei mesi, oppure multa fino ad euro 6000), vengono modificati

i termini definitori della condotta penalmente rilevante: è punito non più chi

“diffonde in qualsiasi modo”, ma chi “propaganda idee fondate sulla superiorità o

4 G. Pagliarulo, “La tutela penale contro le discriminazioni razziali”, in Archivio penale 2014, n. 3, pagg. 5-6. 5 Si veda E. Fiorino, “Brevi considerazioni sul reato di incitamento a commettere violenza per motivi razziali”, in

Cassazione penale, 1999, fasc. 3 (marzo), pp. 984-987.

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sull'odio razziale o etnico”; non più chi “incita”, ma chi “istiga a commettere o

commette atti di discriminazione per motivi razziali, etnici, nazionali o

religiosi”.

2. LA VICENDA SOTTOPOSTA AL VAGLIO DELLA SUPREMA CORTE E

MOTIVI DI RICORSO

Tanto premesso, per comprendere al meglio la vicenda sottoposta all’esame

della Suprema Corte occorre ripercorrere i fatti che hanno portato alla

pronuncia in esame. L’episodio da cui prende le mosse la citata sentenza ha, in

particolare, ad oggetto la diffusione di un volantino di propaganda elettorale

avvenuta in occasione delle consultazioni per il rinnovo del Parlamento

Europeo, tenutesi il 6 e 7 giugno 2009, nel corso delle quali il ricorrente faceva

stampare e diffondeva un volantino in cui:

- su un lato compariva la propria foto sovrastata dalla scritta “Vota S.”, sotto

la quale si leggeva, a grandi caratteri, la frase “BASTA USURAI, BASTA

STRANIERI”. Sotto, il simbolo del partito di appartenenza (Destra Sociale –

Fiamma Tricolore), con una mano che vi appone una croce e scrive di fianco

“S.”. Più in basso, l’U.R.L.6 del blog del candidato;

- sull’altro lato, in alto, la scritta: “Elezioni europee 6-7 giugno 2009 DIFENDI

L’ITALIA - VOTA S.”. Più sotto, sei caricature che raffiguravano: a) un

cittadino dai tratti somatici asiatici che vende prodotti “made in China”; b) un

Abramo Lincoln con tanti dollari che gli svolazzano intorno; c) un uomo di

colore che offre droga; d) un arabo con una cintura di candelotti di dinamite

pronto a farsi esplodere; e) una donna italiana con un bambino in braccio e,

di fianco, una mendicante rom che allunga le mani in direzione dello stesso.

Sotto, come nell’altra facciata, il simbolo del partito di appartenenza (Destra

Sociale – Fiamma Tricolore), con una mano che vi appone una croce e scrive

di fianco “S.”. Più in basso, l’U.R.L. del blog del candidato.

Tale condotta è stata ritenuta idonea, inizialmente dal Tribunale di Udine (con

sentenza emessa in data 3 dicembre 2010), e successivamente dalla Corte di

Appello di Trieste (con sentenza emessa in data 24 aprile 2013), ad integrare il

reato di cui all’articolo 3, comma I, lettera a), della legge 13 ottobre 1975, n. 654.

Ed infatti secondo il Giudice di Appello il volantino elettorale propagandava

6 Uniform Resource Locator (sequenza di caratteri che identifica univocamente l’indirizzo di una risorsa internet).

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idee fondate sulla superiorità di una razza rispetto ad un’altra e sull’odio

razziale.

Avverso tale pronuncia la Difesa dell’imputato presentava ricorso per

Cassazione deducendo due motivi.

In primo luogo il ricorrente lamentava la carenza di motivazione in ordine alla

sussistenza degli elementi costitutivi del reato contestatogli, evidenziando

che la Corte d’Appello confermava la sua responsabilità richiamandosi alla

motivazione del Giudice di prime cure, il quale, però, non offriva alcuna valida

spiegazione del perché il volantino elettorale in esame avrebbe dovuto ritenersi

discriminatorio e, pertanto, tale da integrare il reato di propaganda razziale.

Secondo la tesi proposta in ricorso non si tratterebbe di un volantino contro

altre etnie ma contro i delinquenti di altre etnie.

Nel secondo motivo di ricorso il ricorrente lamentava l’erronea applicazione

della legge penale con riferimento all’articolo 3, comma I, lettera a), della

legge 13 ottobre 1975, n. 654. Secondo il ricorrente, infatti, la Corte di Appello

era incorsa in un errore di diritto laddove riteneva che la condotta dell’imputato

integrasse gli elementi soggettivi ed oggettivi del delitto di propaganda

razziale, soprattutto con riferimento all’elemento soggettivo del reato.

3. IL REATO DI CUI ALL’ARTICOLO 3, COMMA I, LETTERA A), DELLA

LEGGE 13 OTTOBRE 1975, N. 654: ELEMENTI COSTITUTIVI E

APPLICAZIONE DEL PRECETTO PENALE

La Corte di Cassazione ha accolto il ricorso annullando senza rinvio la

sentenza impugnata perché il fatto non sussiste.

Nel giustificare la propria pronuncia gli Ermellini colgono l’occasione per

svolgere delle importanti precisazioni riguardo gli elementi costituivi del delitto

in questione.

È stata preliminarmente affermata la continuità normativa tra l’articolo 3,

comma I, lettera a), della legge 13 ottobre 1975, n. 654, e la medesima norma

come da ultimo modificata dall’articolo 13 della legge 24 febbraio 2006, n. 85: ed

infatti, secondo la Suprema Corte, la sostituzione del concetto di diffusione

delle idee razziste con quello di propaganda di tali idee, da un lato, e del

concetto di incitamento con quello di istigazione, dall’altro, non integra un

fenomeno di discontinuità normativa e ciò in quanto, la condotta di

propaganda delle idee fondate sulla superiorità o sull’odio razziale o etnico era

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già ricompresa in quella, originariamente prevista, consistente nella diffusione

in qualsiasi modo, delle medesime idee7 (nello stesso senso si veda Corte di

Cassazione, III° Sezione Penale, sentenza n. 35781 del 7 maggio 2008). Ciò che

muta è, invece, il trattamento sanzionatorio che con la novella del 2006 è stato

sostanzialmente modificato in misura più favorevole al reo 8 . Sostanziale

equivalenza vi è, invece, tra la nozione di istigazione (così come adoperata dalla

normativa vigente) e quella precedente di incitamento. La sostituzione del

verbo “incitare” col verbo “istigare”, infatti, non è altro che una precisazione

linguistica che non modifica affatto la portata incriminatrice della norma.

La giurisprudenza di legittimità, dunque, pur riconoscendo che la fattispecie

recente sia più ristretta rispetto a quella originaria9, ha ritenuto che «la nuova

formulazione introdotta dal legislatore del 2006 non ha circoscritto la

fattispecie penale prevista dal legislatore del 1993» poiché «la propaganda

prevista dalla norma del 2006 non è diversa dalla diffusione più incitamento

già contemplati dalla norma del 1993»10 e che non abbia avuto luogo un caso di

abolitio criminis ex art. 2, comma II, codice penale, ma di mera modificazione

della norma preesistente, ai sensi del comma IV del medesimo articolo di legge.

La Corte ricostruisce il reato in chiave plurioffensiva, poiché posto a tutela sia

dell’ordine pubblico (inteso come diritto alla tranquillità sociale) che della

dignità umana, con una preminenza, tuttavia, che dottrina e giurisprudenza

riconoscono al secondo. Trattasi, peraltro, di un reato di pura condotta, o di

pericolo astratto, nella misura in cui non rileva che l’azione abbia prodotto

degli effetti, id est che nell’immediatezza del fatto l’incitamento o la propaganda

siano stati o meno recepiti. Ciò che occorre, invece, in ossequio al principio di

materialità, è che le espressioni discriminatorie siano percepite da altra

persona, quand’anche questa non ne abbia colto la portata lesiva della

7 Non si può far a meno di rilevare, tuttavia, che secondo l’accezione linguistica corrente i termini di

propaganda e diffusione sono sinonimi e che l’etimo del primo sia nella lingua latina “propagare” che

significa diffondere. 8 “Hate speech e discriminazione per motivi razziali in un recente approdo della Corte di Cassazione”, (2015) in

www.giurisprudenzapenale.com. 9 Sul punto, Corte di Cassazione, Sezione III, 13 dicembre 2007, Bragantini ed altri, cit.; Id. Sezione Terza, 7

maggio 2008, Mereu, in Cassazione Penale, 2009, 3023. 10 Sul punto, Corte di Cassazione, Sez. III, 7 maggio 2008, Mereu, cit. Il ragionamento seguito dalla

Suprema Corte è il seguente: posto che la propaganda altro non è che una diffusione di idee tendente ad

incitare al mutamento del pensiero e dei comportamenti del pubblico, e che la norma del 1993 puniva

anche l'incitamento alla discriminazione razziale, la condotta da ultimo ridefinita era già penalmente

sanzionata prima della modifica del 2006, sia pure in due figure delittuose distinte.

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propria dignità.

La normativa in esame, tuttavia, pone dei problemi interpretativi poiché non

contiene alcuna definizione dei concetti di razzismo, di discriminazione e di

odio razziale. A tal fine i giudici di legittimità procedono alla ricostruzione dei

citati concetti traendoli dai dati normativi e giurisprudenziali sovranazionali.

Quanto alla nozione di discriminazione, l’articolo 1 della Convenzione di

New York, sancisce che essa “sta ad indicare ogni distinzione, esclusione,

restrizione o preferenza basata sulla razza, il colore, l’ascendenza o l’origine

etnica, che abbia lo scopo o l’effetto di distruggere o di compromettere il

riconoscimento, il godimento o l’esercizio, in condizioni di parità, dei diritti

dell’uomo e delle libertà fondamentali in campo politico, economico, sociale e

culturale o in ogni altro settore della vita pubblica”. Nell’ordinamento italiano

una nozione di discriminazione pressoché identica si evince dall’art. 43 del

decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286 (Testo Unico sull’immigrazione), sia

pure in esclusiva collocazione alla normativa in cui tale disposizione è collocata.

Nella giurisprudenza della Corte Europea dei diritti dell’uomo il concetto di

discriminazione è, invece, descritto in modo assai generico ed ampio come “il

trattare in modo differente, salvo giustificazione oggettiva e ragionevole,

persone che si trovano in situazioni comparabili"(vedi CEDU, Willis c. Regno

Unito, ric. n. 36042/97, par. 48; cfr. anche CEDU, Zarb Adami c. Malta, ric. n.

17209/02, par. 71). Il fondamento della nozione fornita dalla Corte di Strasburgo

è costituito dall'art. 14 della Convenzione Europea dei diritti dell'uomo

secondo cui il godimento dei diritti e delle libertà riconosciuti nella

Convenzione deve essere assicurato senza nessuna discriminazione, in

particolare quelle fondate sul sesso, la razza, il colore, la lingua, la religione, le

opinioni politiche o quelle di altro genere, l’origine nazionale o sociale,

l’appartenenza a una minoranza nazionale, la ricchezza, la nascita od ogni altra

condizione.

A livello giurisprudenziale e dottrinale, invece, si noti come la

discriminazione venga descritta ponendo l’accento sulla violazione della

condizione di pari dignità degli individui; essa è infatti intesa quale

sentimento di avversione immediatamente volto alla esclusione di condizioni di

parità, ovvero come manifestazione di superiorità rispetto ad altri, legata alla

razza, all’origine etnica o al colore.

In merito alla nozione di odio razziale, la Corte, ribadendo un orientamento già

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sostenuto, ha specificato che odiare significa manifestare un’avversione tale

da desiderare la morte o una grave danno per la persona odiata, per cui non si

può qualificare come odio qualsiasi sentimento di avversione o di antipatia11.

In ordine all’elemento psicologico, l'orientamento prevalente in dottrina e

giurisprudenza ritiene che sia costituito dal dolo generico, consistente nella

coscienza e volontà di propagandare idee tese a suscitare sentimenti razzisti ed

essendo lo scopo di condizionare la pubblica opinione insito nella condotta

propagandistica. A tal fine, secondo la Suprema Corte, è sufficiente che

“l’agente sia consapevole del contenuto dell’idea che volontariamente

propaganda e della idoneità oggettiva a condizionare l’altrui opinione”.

4. IL PERCORSO LOGICO – ARGOMENTATIVO SVILUPPATO DALLA

CORTE DI CASSAZIONE

Sulla base di quanto detto, la Suprema Corte è passata ad analizzare il punto

nodale della questione che non trova precedenti significativamente

sovrapponibili nella giurisprudenza di legittimità esistente. Focus della vicenda

è stato stabilire se sia possibile o meno sussumere all’interno della fattispecie

prevista e punita dall’articolo 3, comma I, lettera a), della legge 13 ottobre 1975,

n. 654, la condotta perpetrata dal ricorrente.

In punto di diritto, avuto riguardo alle modalità grafiche del volantino

elettorale in questione, la Corte ha ritenuto che gli stranieri non fossero

additati come persone da discriminare in quanto meramente appartenenti ad

un’altra razza, ma solo nella misura in cui essi ponevano in essere una serie

di delitti12.

Così letto il comportamento giudicato illecito nei due gradi di merito, gli

Ermellini hanno ritenuto che non vi fosse spazio per l’integrazione della

condotta descritta nell’articolo 3, comma I, lettera a), della legge 654/1975, di

ratifica alla Convenzione di New York del 7 marzo 1966, così come via via

modificato fino alla versione, vigente al momento del fatto, introdotta dalla

legge 24 febbraio 2006, n. 85 che punisce “chi propaganda idee fondate sulla

superiorità o sull’odio razziale o etnico, ovvero istiga a commettere o commette atti di

discriminazione per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi”.

11 “Hate speech e discriminazione per motivi razziali in un recente approdo della Corte di Cassazione”, (2015) in

www.giurisprudenzapenale.com. 12 Sul punto F. Baldi, “Nessun reato se il volantino elettorale valorizza solo i comportamenti illeciti degli stranieri”, in

Quotidiano giuridico 2015.

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Così argomentando la Corte di Cassazione si riporta al dictum della sentenza

n.13234 resa il 13.12.2007 e depositata il 28.03.2008, emessa in un caso solo

apparentemente analogo ma decisamente diverso. Nel caso del 2008 – in cui la

Suprema Corte aveva annullato la sentenza impugnata con rinvio, demandando

al giudice di merito il compito di accertare se la condotta contestata agli

imputati, consistita nell’avere pubblicizzato una petizione contro i campi

nomadi abusivi, fosse stata determinata da un’idea discriminatoria basata sulla

semplice diversità etnica ovvero su un pregiudizio non sanzionabile – gli

imputati, nelle vesti di rappresentanti di un noto partito politico, avevano

assunto l’iniziativa di invitare i cittadini veronesi a sottoscrivere una petizione

in cui appariva palese la discriminazione degli zingari per il solo fatto di essere

tali, senza indicare alcuna plausibile ragione a sostegno dell’allontanamento.

L’iniziativa era stata pubblicizzata mediante l’affissione di manifesti sui muri

della città dal seguente tenore: “No ai campi nomadi. Firma anche tu per mandare

via gli zingari”.

Secondo i giudici di legittimità, invece, nel diverso caso in esame e “in maniera

alquanto grossolana”, si vuole veicolare un messaggio di ostilità ed avversione

politica verso una serie di comportamenti illeciti che, con una

generalizzazione che appare una forzatura anche agli occhi del destinatario

più sprovveduto, vengono attribuiti a soggetti appartenenti a determinate

razze o etnie: il cinese che vende prodotti contraffatti, l’uomo di colore che

spaccia sostanze stupefacenti, la rom che tenta di rapire il bambino, l’arabo che

si fa esplodere in un attentato terroristico, e Abramo Lincoln con i suoi dollari, a

rappresentare la finanza e le banche, e probabilmente correlato alla scritta “basta

usurai”. Va al riguardo ulteriormente osservato che, ad avviso della Corte,

proprio la presenza di Lincoln lascia intendere che il senso del messaggio

non possa essere quello di propagandare la superiorità di una razza rispetto

ad un’altra o l’odio razziale; si legge testualmente: “anche nella mente del più

razzista degli ideatori del volantino non si vede, infatti, su cosa potrebbe fondarsi una

pretesa superiorità di etnia o un odio razziale verso un simbolo dei popoli statunitensi”.

La Suprema Corte, quindi, si trova per la prima volta davanti ad un caso di

Hate Speech, con ciò intendendosi tutte quelle manifestazioni della parola di

estrema avversione ed intolleranza nei confronti di una persona o di un

gruppo sociale sulla base di alcune caratteristiche quali la razza, l’etnia, la

religione, l’orientamento sessuale e l’identità in genere. Ciononostante gli

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Hate Speeches non possono integrare tout court il delitto di propaganda di idee

razziste, in quanto essi costituiscono pur sempre libera manifestazione del

pensiero, che, quale diritto costituzionalmente garantito ai sensi dell’art. 21

della Costituzione, tollera limiti solo davanti alla necessità di tutelare diritti

costituzionali di pari rango. Anche la Corte E.D.U., per cui pure il diritto di

libera manifestazione del pensiero è stato sempre considerato di fondamentale

importanza, si è trovata ad affermare reiteratamente la necessità del

bilanciamento con il divieto di discriminazione, solennemente affermato nel

citato articolo 14 della Convenzione13. Ed è proprio la preminente rilevanza

costituzionale del bene della dignità umana a giustificare, se lesa, la limitazione

del diritto di manifestare il pensiero. Nell’ottica di quanto riportato la

Cassazione rileva quindi come, in materia di bilanciamento tra la dignità

dell’uomo e la libera manifestazione del pensiero, non esista un orientamento

preciso ed univoco da parte dei giudici della Corte di Strasburgo, per quanto,

comunque, sia possibile trarre delle indicazioni generali per affrontare i casi in

cui si profilino dei punti di frizione tra i due beni giuridici tutelati. Alla luce di

quanto detto, pertanto, occorre sempre procedere ad un attento bilanciamento

dei valori costituzionali in gioco. A tal fine è fondamentale la corretta

contestualizzazione delle condotte e, secondo i principi del diritto penale, la

verifica che esse si risolvano in esternazioni davvero in grado di disvelare una

concreta pericolosità per il bene giuridico tutelato. Nell’operare il

bilanciamento, la Corte di Cassazione ricorda inoltre che nell’ambito delle

competizioni elettorali, la giurisprudenza costante in materia di diritto di critica

politica ritiene doversi tener conto del particolare clima in cui si svolgono le

competizioni elettorali e per ciò ammettere l’utilizzo di toni più pungenti ed

incisivi rispetto a quelli comunemente adoperati nei rapporti interpersonali tra

privati (così, ex plurimis, Corte di Cassazione, V° Sezione Penale, sentenza n.

12013 del 21 ottobre 1999 e Corte di Cassazione, V° Sezione Penale, sentenza n.

38747 del 14 ottobre 2008)14.

Nel caso di specie la Suprema Corte, procedendo a tale bilanciamento e alla

contestualizzazione della condotta, ritiene che la diffusione del volantino

13 In realtà, come non ha mancato di sottolineare la dottrina, la Corte EDU,ha fatto quasi sempre prevalere,

sul piatto della bilancia, il diritto della libera manifestazione del pensiero, tranne che in relazione al

fenomeno del cd. negazionismo e limitatamente ai casi in cui lo stesso riguardi la Shoah. 14 “Hate speech e discriminazione per motivi razziali in un recente approdo della Corte di Cassazione”, (2015) in

www.giurisprudenzapenale.com.

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non sia sufficiente ad integrare il reato di propaganda di idee razziste proprio

per la mancanza del requisito della propaganda, come sopra descritto. Ed

infatti, interpretando la nozione di propaganda non come mera diffusione di

idee ma come condotta richiedente un quid pluris, cioè come manifestazione in

grado di fare nascere ed alimentare lo stimolo che spinge all’azione di

discriminazione, la Corte ritiene che la condotta del ricorrente non abbia tali

requisiti.

In conclusione i giudici di legittimità affermano che spetterà al Giudice di

merito valutare nel caso concreto, dandone adeguatamente conto in

motivazione, se l’azione sottoposta al suo giudizio, per le sue intrinseche

caratteristiche e per il contesto nel quale si colloca, nonché in relazione al

concreto pericolo di comportamenti discriminatori, costituisca reato, in modo

da raggiungere un soddisfacente punto di incontro tra i valori costituzionali in

gioco. In particolare, con riferimento al caso in esame, va evidenziato che il

Tribunale di Udine prima, e la Corte di Appello di Trieste poi, non avevano

operato la suddetta valutazione, che avrebbe avuto un esito favorevole per

l’imputato. Ad avviso della Corte appare evidente, infatti, che il messaggio del

volantino era quello di propagandare un’avversione non verso i soggetti sullo

stesso raffigurati in maniera caricaturale, ma verso le attività illecite dagli

stessi posti in essere. Tuttavia, nel necessario bilanciamento di interessi

costituzionalmente protetti di cui si è detto, da operare di volta in volta nel caso

concreto, appare nell’occasione prevalere il diritto alla libera manifestazione

del pensiero politico nell’ambito di una competizione elettorale.

5. PRINCIPIO DI DIRITTO E CONSIDERAZIONI CONCLUSIVE

Alla luce di tale ragionamento, la Suprema Corte ha affermato il seguente

principio di diritto: la propaganda razziale è penalmente rilevante quando si

fonda sulle qualità del soggetto e non sui comportamenti, onde la

discriminazione per l’altrui diversità è cosa ben diversa dalla discriminazione

per l’altrui criminosità; un soggetto può anche essere legittimamente

discriminato per il suo comportamento, senza che si incorra in una sanzione

penale, ma non per la sua qualità di essere diverso. Tanto premesso, ne deriva

che il presupposto per la configurabilità del reato di propaganda di idee

discriminatorie previsto e punito dall’articolo 3, comma I, lettera a) della

citata legge è l’effettiva sussistenza di un’idea discriminatoria fondata sulla

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diversità determinata da una pretesa superiorità razziale o da odio etnico,

nazionale o religioso.

Alla luce dell’indicato arresto monofilattico e del percorso argomentativo ivi

seguito, a parere di chi scrive, la decisione assunta con la pronuncia in esame è

assolutamente condivisibile. Del resto una soluzione diametralmente opposta

non troverebbe addentellati ordinamentali giustificativi creando una grave

disarmonia sistematica.

Il tema è quanto mai ampiamente dibattuto in Dottrina e, considerato il

drammatico momento storico in cui versa la situazione dei migranti, alla luce di

tutti quei proclami di discriminazione ed odio nei confronti delle diverse etnie,

occorre un monitoraggio attento della problematica che è inevitabilmente

destinata a conoscere un’ imponente espansione.

Non vi è dubbio, in ogni caso, che al di là del rilievo penale, la condotta oggetto

della pronuncia appare comunque sintomatica di un decadimento del dibattito

politico-culturale che sotto altri versi spiega il ricorso a toni eccessivamente rudi

e volgari, rispetto ai quali il mondo della politica e della informazione devono

porre necessariamente un argine al fine di evitare il pericoloso ritornello dello

scontro di civiltà che sta avvelenando la dialettica dei rapporti sociali ed

internazionali.

Rimane, alla luce di quanto detto, illuminate l’insegnamento di Albert Einstein,

il quale, quando cercò rifugio in America, dovette compilare un modulo per il

passaporto. Richiesto di indicare a quale razza appartenesse rispose: “IO

APPARTENGO ALL’UNICA RAZZA CHE CONOSCO, QUELLA UMANA”.