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Prefazione di Paolo Cornaglia Ferraris 7 PRIMA PARTE Tumori dell’infanzia e dell’adolescenza Capitolo primo Aspetti medici 13 Capitolo secondo Fasi della malattia 29 Capitolo terzo Dolore fisico 39 SECONDA PARTE Aspetti psicologici Capitolo quarto Il bambino malato 55 Capitolo quinto La famiglia 75 Capitolo sesto L’équipe curante 93 TERZA PARTE Concetti chiave Capitolo settimo Qualità della vita 115 Capitolo ottavo Adattamento e psicopatologia 123 Indice

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Prefazione di Paolo Cornaglia Ferraris 7

PRIMA PARTE Tumori dell’infanzia e dell’adolescenza

Capitolo primo Aspetti medici 13

Capitolo secondo Fasi della malattia 29

Capitolo terzo Dolore fisico 39

SECONDA PARTE Aspetti psicologici

Capitolo quarto Il bambino malato 55

Capitolo quinto La famiglia 75

Capitolo sesto L’équipe curante 93

TERZA PARTE Concetti chiave

Capitolo settimo Qualità della vita 115

Capitolo ottavo Adattamento e psicopatologia 123

Indice

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Capitolo nono Prevenzione 147

Capitolo decimo Coping 161

Capitolo undicesimo La comunicazione in oncologia pediatrica 181

QUARTA PARTE Interventi

Capitolo dodicesimo Modelli di intervento psiconcologico 195

Capitolo tredicesimo Interventi psicosociali 205

Capitolo quattordicesimo La scuola in ospedale 235

Capitolo quindicesimo Gioco e attività distrazionali 261

Capitolo sedicesimo Interventi psicoterapeutici 275

Capitolo diciassettesimo Cure palliative e morte 285

QUINTA PARTE Appendici

Appendice 1 La carta dei diritti del bambino in ospedale 321

Appendice 2 Carta di EACH 329

Appendice 3 Cure palliative. Quando muore un bambino 331

Glossario 339

Bibliografia 363

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Il tumore è «una neoformazione di tessuto costituito da cellule atipiche modificate rispetto alla normalità». La malattia tumorale presenta almeno tre caratteristiche che la definiscono:

– clonalità: nella maggior parte dei casi, il tumore prende origine da una singola cellula mutata, che prolifera fino a formare un clone di cellule neoplastiche;

– anaplasia: mancanza della normale differenziazione cellulare;– autonomia: la crescita è svincolata dai meccanismi di regolazione

che operano nell’organismo normale (AA.VV., 1996, p. 709).

I tumori benigni crescono lentamente, con poche cellule che si riproducono gradualmente, hanno l’apparenza di un tessuto normale, sono incapsulati e non si diffondono ad altri tessuti. I tumori maligni, invece, crescono rapidamente e si diffondono nei tessuti e negli organi vicini, con molte cellule che si riproducono velocemente e hanno un aspetto diverso dalle cellule di un tessuto normale. Queste formazioni a distanza sono chiamate metastasi. Alcuni tumori, sebbene benigni, sono pericolosi se la loro posizione ostacola le funzioni degli organi circostanti o se la loro asportazione può lesionare organi vitali.

Epidemiologia1

Il cancro infantile è una patologia rara, la cui incidenza è sostanzialmente stabile. Si stima che ogni anno i nuovi casi, nella

CAPITOLO PRIMO

Aspetti medici

1 I contributi utilizzati per la stesura di questo paragrafo sono di Paolucci e Vecchi, 1985; Peyron, 1996; Miniero, 2001.

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popolazione sotto i 15 anni, siano 120/150 ogni milione di bambini, praticamente pari al 2% di tutte le neoplasie diagnosticate. Questo dato epidemiologico non varia in modo significativo tra le regioni italiane né in rapporto agli altri Paesi economicamente avanzati.

I tumori che colpiscono i bambini si caratterizzano per la preva-lenza di leucemie e linfomi rispetto ai tumori solidi, più frequenti negli adulti, e per la derivazione prevalentemente mesenchimale piuttosto che epiteliale. I tessuti più frequentemente colpiti sono quello emo-poietico, linfatico, nervoso e renale, mentre nell’adulto maggiormente colpiti sono l’apparato digerente, genitale e respiratorio.

Le varie forme di tumore hanno distribuzione diversa secondo l’età e il sesso: nei bambini fino a 10 anni la leucemia è il tumore più comune, seguito dai tumori del sistema nervoso centrale e dai linfomi. Nella prima infanzia sono inoltre frequenti il neuroblasto-ma e il tumore di Wilms; i tumori ossei, infine, sono la tipologia di neoplasia caratteristica dell’adolescenza (fig. 1.1).

I maschi sono in generale più colpiti rispetto alle femmine (tab. 1.1).

Nonostante la rarità, il cancro infantile rappresenta la seconda causa di morte nei Paesi occidentali per questa fascia d’età. Negli

< 5 anni

Altro9,0%

Leucemia acuta 36,0%

T. del SNC 13,0%

Linfoma 10,0%

Neuroblastoma7,0%

Nefroblastoma10,0%

Retinoblastoma6,0%

T. tessuti molli7,0%

T. gonadici2,0%

(continua)

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Fig. 1.1 Percentuali dei tumori primitivi rispetto alle sedi di origine per differenti gruppi di età (adattato da National Cancer Institute Monograph n. 57, SEER Program).

5-9 anni

10-14 anni

(continua)

Altro10,0%

Leucemia acuta 31,0%

T. del SNC 25,0%

Linfoma 16,0%

Neuroblastoma3,0%

Nefroblastoma5,0%

Retinoblastoma2,0%

T. tessuti molli5,0%

T. ossei3,0%

Altro16,0% Leucemia acuta

18,0%

T. del SNC 18,0%

Linfoma 25,0%

T. gonadici3,0%

T. della tiroide4,0%

T. tessuti molli5,0%

T. ossei11,0%

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ultimi 30 anni, l’acquisizione di nuovi farmaci, il miglioramento delle strategie terapeutiche e i progressi della terapia di supporto hanno migliorato la prognosi di molti tumori: il cancro infantile si caratterizza anche per la migliore risposta al trattamento. Seppure con una rilevante variabilità legata al tipo di tumore e allo stadio clinico al momento della diagnosi, la guarigione è un traguardo raggiungibile in un numero elevato di casi. Questo obiettivo deve sempre accompagnarsi all’attenzione per la qualità della vita durante e dopo il trattamento: le terapie, infatti, sono perlopiù molto aggres-sive e possono avere effetti collaterali, sia somatici che funzionali, molto importanti anche a lungo termine. Sequele tardive possono interessare sia gli organi colpiti dalla malattia sia la più generale risposta biologica, con maggiore probabilità di contrarre infezioni gravi, manifestazioni di slatentizzazione virale e aumentato rischio di un secondo tumore. Un effetto generalizzato della chemio- e della radioterapia è il ritardo dello sviluppo staturo-ponderale, sia per azione diretta sullo sviluppo osseo che interferendo sulla produzione dei fattori ormonali dell’accrescimento (Paolucci e Vecchi, 1985).

TABELLA 1.1Tumori infantili. Registro dei Tumori Infantili del Piemonte.Tassi di incidenza nel periodo 1990-1994 (standardizzati

sulla popolazione italiana al censimento 1981) per 1.000.000 di bambini

Tipologia di tumore Bambini Bambine

Leucemie 60.8 51.8

Linfomi 30.0 10.7

Tumori del SNC 39.6 32.4

Neuroblastoma 12.9 8.6

Retinoblastoma 4.6 5.8

Nefroblastoma 5.0 8.4

Tumori ossei 7.4 10.9

Sarcomi dei tessuti molli 10.0 9.5

Tumori delle gonadi 1.3 2.9

Altri 5.7 10.6

Totale 177.3 151.6

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Oltre a complicanze mediche, sono osservabili dei danni neuro-psicologici: può risultare compromesso il funzionamento intellettivo globale, ma soprattutto sono riscontrabili danni in specifiche aree funzionali. Questi deficit parziali possono interessare la velocità di elaborazione, l’integrazione visuo-motoria, la coordinazione motoria fine, l’attenzione, la concentrazione e la memoria sequenziale; da essi scaturiscono difficoltà nell’acquisizione dell’abilità verbale, della lettura, dell’apprendimento non verbale e delle capacità ma-tematiche (Armstrong e Horn, 1995).

Eziologia2

Diversamente dal cancro degli adulti, l’eziologia di molti tu-mori infantili è difficilmente determinabile. I tumori geneticamente determinati sono una minoranza: nel retinoblastoma, nel tumore di Wilms e nelle leucemie si è osservata una componente ereditaria rispettivamente pari al 45%, 3,5% e 2,5%. Sono state provate alcune associazioni con malattie ereditarie, con anomalie cromosomiche e aggregazioni di più casi di tumore in famiglie, ma si tratta di eventi rari caratterizzati da un alto rischio relativo, che spiegano peraltro solo un piccolo numero di casi.

I fattori ambientali (radiazioni, inquinamento, campi magne-tici…) non sembrano decisivi nell’insorgenza, a parte il ruolo delle radiazioni ionizzanti nelle leucemie acute. Sono necessari, comunque, ulteriori studi, anche per differenziare il ruolo di queste possibili cause nelle diverse forme di tumore. Si hanno prove di una relazione tra tumori infantili e farmaci citostatici, ma non per quanto riguarda altri farmaci. I virus potrebbero essere la causa di linfomi e leucemie acute, ma anche in questo caso sono necessarie ulteriori conferme. L’alimentazione materna durante la gravidanza e quella del bambino nei primi anni di vita non è risultata significativa come fattore di rischio né di protezione. Infine, il consumo di alcool durante la gravidanza e il fumo paterno sono considerati, invece, fattori di rischio.

Lo studio molecolare dei meccanismi di insorgenza del tu-more (patogenesi molecolare) sta ottenendo importanti risultati

2 Per la redazione di questo paragrafo è stato consultato il testo di Miniero, 2001 e AA.VV., 2001 (Registro dei Tumori Infantili del Piemonte).

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nell’evidenziare le modificazioni genomiche di vari tipi di tumore infantile. Questi tumori, infatti, sono spesso di natura embrionale, in quanto si originano da cellule immature, tipiche della vita pre-natale, che degenerano per cause non ancora accertate3 (Munne Bracker, 1986).

La difficoltà a individuare cause e fattori di rischio e protezione nelle neoplasie dell’età pediatrica rende la prevenzione impossibile. La diagnosi precoce (prevenzione secondaria), peraltro, risulta difficile, sia perché i quadri clinici iniziali sono spesso generici e silenti, sia perché il pediatra di base non considera sempre, nella diagnostica differenziale, la possibilità di una patologia neoplastica, rallentando in tal modo una diagnosi tempestiva.

Classificazione e descrizione4

I tumori infantili si differenziano per diversi aspetti dai tu-mori degli adulti e sono un gruppo molto eterogeneo di patologie. Ogni tumore si differenzia per incidenza, eziologia, sintomatologia, trattamento effettuabile e prognosi.

In senso assolutamente generale, la sintomatologia, più o meno acuta a seconda del grado di malignità e della invasività del tumore, comprende:

– sintomi locali, in rapporto alla sede colpita (come dolore, paralisi, compressione di organi vicini, ecc.);

– sintomi generali (stanchezza, malessere, deperimento, anoressia, febbre, mutamenti dell’umore e del carattere, ecc.).

Una prima distinzione possibile è tra leucemie e tumori solidi. Questi ultimi interessano nell’età infantile vari organi e apparati. Si presentano in ordine decrescente di frequenza: nel SNC, nel sistema linfatico, nell’apparato urogenitale, nel sistema nervoso vegetativo e nelle ghiandole surrenali, nell’apparato osteo-articolare, nell’occhio e più raramente negli altri apparati.

3 Tali gruppi di cellule, per un errore nei processi di differenziazione nel corso del periodo embriofetale, conservano un’abnorme capacità proliferativa, in grado di attivarsi in ogni momento della vita del bambino, talora in rapporto a cause esterne scatenanti (traumi, infezioni), talora senza cause apparenti.

4 Sono stati consultati Peyron, 1996; Jankovic et al., 1998a; Miniero, 2001.

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Genitori

Il cancro è considerato una malattia della famiglia, in quanto questa diagnosi genera stress all’interno e all’esterno, mobilitando le risorse di tutti i membri della famiglia e modificando gli equilibri interni (Cincotta, 1993). Come per il bambino, anche per i genitori la diagnosi di tumore di un figlio rappresenta un trauma, cioè un evento psicologico per affrontare il quale non bastano le normali risorse psicologiche a disposizione dell’individuo. Per affrontare questa malattia è richiesta la concentrazione e l’impiego di energie emotive e concrete da parte di tutta la famiglia e la modifica im-mediata delle priorità fino ad allora stabilite e dei ritmi della vita quotidiana e delle attività lavorative. Alla famiglia è inoltre richiesto di gestire i rapporti con le istituzioni sanitarie, adattandosi a una posizione di dipendenza dai medici (Biondi et al., 1995).

Le reazioni dei genitori e la loro capacità di adattamento hanno un ruolo importante nel determinare la capacità del bam-bino di reagire alla malattia: il nucleo familiare rappresenta per il piccolo paziente un rifugio che lo difende e lo supporta (Sourkes, 1999; Goldbeck, 2001). La cooperatività, la capacità di mantenere l’organizzazione familiare e l’ottimismo, lo stile comunicativo, le emozioni espresse in particolare dalla madre e la situazione coniugale influenzano lo stato emotivo del bambino e la sua compliance (Lloyd et al., 1995; Last e van Veldhuizen, 1996; Scarzello, 2002).

È importante tenere sempre presente, soprattutto nell’approc-cio clinico, che la definizione di famiglia dipende dall’esperienza di ogni bambino e non sempre si identifica con la famiglia nucleare (Sourkes, 1999).

CAPITOLO QUINTO

La famiglia

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Aspetti psicologici

La diagnosi di cancro in un bambino precipita tutta la famiglia in una situazione di crisi. La drammaticità di questo evento non è costituita soltanto dalla possibile prognosi negativa, ma dalla diffi-coltà ad accettare l’idea della mortalità di un bambino. La malattia e la morte di un bambino sembrano avvenimenti ingiustificabili, assurdi e carichi di violenza, capaci di mettere in crisi ogni fiducia nella bontà e nella giustizia: per i genitori questo evento rappresenta un insulto alla vita ed è vissuto come un’ingiustizia. Inoltre essi percepiscono con angoscia la propria impotenza di fronte a questa reale minaccia di morte e vedono fallire il proprio primario compito di protezione dai pericoli.

Secondo Di Cagno e Massaglia (1990) la malattia cronica dell’infanzia, indipendentemente dall’età d’esordio, è vissuta come una catastrofe sul piano reale, che induce, sul piano mentale, uno sconvolgimento tipico delle situazioni di crisi: il legame relazionale si spezza, l’esperienza perde di significato e irrompono le angosce più primitive, non più contenute nella trama del rapporto reciproco. Viene a mancare per i genitori, e quindi per il bambino, la possibilità descritta da Bion (1961) di condividere le esperienze, di attribuire loro significato sul piano mentale e di utilizzarle per la crescita e lo sviluppo all’interno della relazione con l’altro. La situazione in-terna, causata dalle angosce massive scatenate dall’evento, si può definire come «disperazione», «confusione» e comporta sentimenti di solitudine e isolamento. In questo momento di crisi, come in generale in tutte le crisi evolutive, si ha una continua oscillazione tra la posizione depressiva e quella schizoparanoide, caratterizzata, quest’ultima, da proiezione e da identificazione proiettiva.

Una crisi prodotta da un evento così fortemente traumatico sconvolge il «progetto esistenziale» dell’individuo lasciando emer-gere nodi conflittuali fino ad allora sufficientemente controllati, destabilizzando i meccanismi di difesa, soprattutto quelli troppo rigidi o al contrario quelli poco strutturati, e attivando a volte tratti psicopatologici latenti. Questo processo si esprime, a livello com-portamentale e relazionale, nell’incapacità a gestire sia i bisogni affettivi e sociali modificati dall’evento malattia, sia le richieste provenienti dalla realtà mutata, provocando l’emergere di eventuali nuclei maniaco-depressivi endogeni o lo strutturarsi di nuclei ma-niaco-depressivi reattivi (Guarino, 2001).

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Il cambiamento imposto nella vita quotidiana dalla malattia viene compreso immediatamente dalla famiglia del bambino, anche se viene elaborato solo gradualmente. Le trasformazioni osservabili riguardano:

– il rapporto con la malattia del bambino, che da evento occasionale diventa condizione di quotidianità;

– il rapporto con le proprie angosce di separazione;– il rapporto con il «non-detto» nella famiglia;– il rapporto tra i componenti della famiglia, nel senso di sposta-

mento di investimenti;– il rapporto con l’ambiente ospedaliero, nel senso di accresciuta

dipendenza (Guareschi Cazzullo, 1992).

La difficoltà ad accettare la mortalità del proprio figlio e il senso di fallimento e di impotenza motivano la determinazione nel cercare di proteggere il bambino da angosce troppo intense e da una percezione troppo nitida della realtà. I genitori coltivano la speranza di distrarlo da pensieri di morte per sospingerlo in aree più leggere, distanti dalla sua esperienza di malattia: queste tecniche distraenti hanno un ruolo chiaramente difensivo e te-stimoniano la necessità, anche del genitore, di non pensare alla malattia. Gli adulti sentono questo bisogno di pensare ad altro come necessario e liberatorio, ma talvolta anche come un tragico inganno perpetrato ai danni del bambino. L’incoscienza infantile permette al bambino di giocare mentre il futuro è incerto, cosa che l’adulto sa e non può svelare. In questo contesto caratteriz-zato dalla difficoltà di comunicare e di sviluppare un significato personale dell’evento può aumentare la distanza tra genitori e figli malati (Gamba, 1998). In generale, dopo la diagnosi non è raro osservare l’instaurarsi di meccanismi di difesa rigidi e primitivi quali negazione, scissione, proiezione, idealizzazione, che spesso compromettono l’evoluzione mentale e ostacolano la comunica-zione, intralciando perciò la partecipazione alla vita sociale dei genitori e lo sviluppo affettivo-cognitivo del bambino. Il «non pensare», come difesa, serve a evitare l’impatto con un’esperienza traumatica e a volte può essere necessario come misura tempora-nea, per tollerare qualcosa di altrimenti intollerabile, ma se diventa abituale costituisce un ostacolo allo sviluppo mentale. Pensare significa innanzitutto incontrarsi con la sofferenza, la precarietà e l’impotenza e solo successivamente ritrovare una dimensione

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reale all’interno della quale collocarsi avendo ritrovato le proprie energie vitali e creative (Di Cagno, 1986).

Processo di adattamento

Kübler Ross (1964, in Barakat, 1995) ha delineato la sequenza di risposte, oggi non concordemente accettata, del processo di adat-tamento: alla negazione, che è spesso la prima reazione allo shock creato dalla diagnosi, fanno seguito la rabbia e il risentimento, i tentativi di accordo con i medici o con Dio, la depressione e l’ac-cettazione della morte. Trasversalmente a questi stadi si inserisce la speranza, che spesso convive con sentimenti opposti.

Periodo precedente la diagnosi

Il periodo precedente la diagnosi, in cui i genitori si rendono conto che il bambino ha un problema fisico persistente, è molto importante anche ai fini dell’adattamento successivo. A seguito delle preoccupazioni, delle ricerche mediche, dell’incertezza pro-vocati da questo stato, si verificano dei cambiamenti riguardanti l’immagine di se stessi come genitori e quella del proprio bambino. Cominciano a percepirsi come genitori di un bambino malato: solo al momento della diagnosi questa immagine diverrà stabile e gradualmente verrà accettata e integrata nella loro identità (Dixon-Woods, 2001).

Secondo molti genitori questo periodo è addirittura la fase peg-giore, per l’incertezza che la caratterizza e per il senso di impotenza che ne deriva (Cincotta, 1993, Sloper, 1996). Talvolta la diagnosi segna la fine di un periodo di frustrazione e di incomprensione da parte dei medici e porta la sensazione positiva dell’inizio di un intervento concreto. Il ritardo nella diagnosi ha un’importanza se-condaria nella frustrazione dei genitori, mentre sono percepiti come più gravi la sensazione di non essere presi sul serio o di non essere ascoltati. È una possibilità reale che i medici non comprendano la preoccupazione iniziale dei genitori, sottovalutando la serietà dei sintomi del bambino e la necessità di controlli richiesta dai genitori. In queste condizioni i genitori possono reagire insistendo per dei controlli più approfonditi o fidandosi del proprio pediatra; comunque al momento della diagnosi ciò provoca in loro rabbia e sensi di colpa. Un’implicazione importante, in grado di far com-

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prendere la delicatezza di questa fase, riguarda il fatto che attribuire la colpa del ritardo della diagnosi al medico induce una peggiore collaborazione con lo staff durante il trattamento (Sloper, 1996). Le famiglie che hanno atteso più tempo per la diagnosi possono essere particolarmente vulnerabili e avere bisogno di più aiuto per superare le ansietà e i problemi, ma anche per affrontare la rabbia contro il medico (Eiser, 1994). Il tempo medio per arrivare alla diagnosi, secondo questa ricerca, è di circa 17 settimane dalla prima visita. Nella ricerca di Dixon-Woods (2001), invece, la diagnosi venne fatta tra le 10 e le 32 settimane (media = 21 settimane) dalla comparsa dei primi sintomi. Sembra che l’iter per diagnosticare il tumore nei bambini sia più lento e meno attento di quello attuato sugli adulti, nonostante una diagnosi precoce dei tumori infantili possa sensibilmente diminuirne la mortalità.

È importante sottolineare anche che per i genitori, come per i bambini, le procedure diagnostiche e la loro invasività possono essere vissuti con angosce incontenibili perché sollecitate da un pericolo ignoto, che solo con la definizione della diagnosi si delinea come realtà più circoscritta e affrontabile.

La diagnosi

Giungere all’identificazione della malattia rappresenta dunque un momento di svolta per i genitori; tuttavia la comunicazione della diagnosi costituisce un momento particolarmente delicato: il medico definisce la patologia, la prognosi e il programma di trattamento. È necessario considerare però che tale comunicazione non si rea-lizza in un vuoto di attese e di competenze: lo stato emotivo in cui i genitori si trovano, le loro esperienze precedenti e le conoscenze, oltre che il livello socio-culturale, influenzano le loro possibilità di comprensione e di coping. Per questo è necessario che il personale medico sia disponibile ad affrontare l’argomento in più momenti e a rispondere a tutte le domande in modo chiaro e comprensibile. Secondo la ricerca di Eiser (1994), pochi genitori in questo primo momento riescono a porre ulteriori domande, perché non sanno cosa chiedere o credono di non aver capito o, ancora, per paura di mostrare la loro ignoranza. In un secondo momento, invece, essi si preoccupano non solo delle probabilità di sopravvivenza, ma anche del futuro possibile in caso di guarigione: in particolare le madri sono interessate alle complicazioni a lungo termine e agli

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effetti collaterali delle terapie; mentre i padri desiderano piuttosto conoscere i dati statistici sulla prognosi.

Le reazioni dei genitori variano a seconda dell’età del bam-bino: se la diagnosi riguarda un neonato, i genitori potranno non arrivare mai a sentirlo «normale» o uguale agli altri o, se il bambino è molto piccolo, potranno continuare a sentirlo particolarmente fragile e indifeso; con i bambini più grandi — e in particolare con gli adolescenti — il senso della perdita sarà acuito dal fatto che essi hanno già una propria collocazione nel nucleo familiare e un proprio temperamento.

L’impossibilità medica di spiegare l’eziologia della maggior parte dei tumori dell’infanzia genera ansie ulteriori e non permette di affrontare e superare i frequenti sensi di colpa. Nello studio di Eiser (1995) solo la metà dei padri intervistati e un quinto delle madri accetta che non ci sia un’unica causa imputabile; i genitori cercano prevalentemente spiegazioni genetiche o eventi scatenanti che rappresentano una forma di protezione, soprattutto per gli altri figli.

La diagnosi di cancro, del resto, sfida il ruolo di nutrizione e protezione dei genitori e implica perciò «la perdita della propria immagine di genitori in grado di tutelare la vita che hanno generato» (Massaglia e Bertolotti, 1998, p. 18). Si tratta di un momento molto delicato in cui essi possono rifiutare le cure proposte e/o ricercare soluzioni «magiche», di fatto trascurando l’intervento possibile sul bambino (Di Cagno, in AA.VV., 1992).

Il percorso emotivo successivo alla diagnosi risulta caratte-rizzato da tre fasi:

– lo shock, che dura qualche giorno, connotato da confusione e disorientamento, che rende i genitori incapaci di affrontare la situazione di emergenza e la vita quotidiana: dal comprendere adeguatamente le spiegazioni mediche, alla cura del figlio, fino alle attività quotidiane familiari e lavorative. La fase di shock comporta un senso di irrealtà, momenti di incomprensione, incredulità e rabbia impotente.

– Dopo questa fase si realizza l’accaduto e vengono messi in atto vari progetti per affrontare e gestire la situazione esterna e inter-na. Frequentemente si può osservare la negazione, più o meno massiva, della realtà, che può tradursi nel tentativo ostinato di affermare che il problema non esiste o è facilmente risolvibile. In

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questo momento è anche frequente la ricerca di secondi e terzi pareri e di interventi risolutivi o il tentativo di approfondimento personale. Questi vissuti e questi meccanismi difensivi non sono in loro stessi patologici né assurgono a indicatori di rischio, piut-tosto rappresentano spesso un passaggio necessario per iniziare a confrontarsi con la realtà. È comunque importante monitorarli e verificare che non persistano nel tempo.

– Il passo successivo è quello dell’accettazione, che consente di va-lutare effettivamente la situazione e di attivarsi per far fronte alle esigenze del trattamento. L’accettazione della diagnosi di cancro implica la morte del figlio idealizzato e con essa l’abbandono dei progetti su di lui: la dimensione del futuro diventa spesso irrap-presentabile, il presente viene completamente occupato da questa realtà. È raro che tale accettazione sia completa: la situazione più frequente è di convivenza con una situazione inaccettabile. A livello emotivo si osserva in questi genitori un’oscillazione tra sentimenti positivi e negativi nei riguardi di se stessi, del bambino e dello staff medico.

L’atteggiamento generale verso la malattia che le famiglie riescono a realizzare in questa prima fase è chiaramente connotato: una maggiore sottolineatura degli elementi di realtà, di concretezza, di realismo e di rispetto dell’evidenza dei fatti oggettivi è un modo di affrontare la malattia più orientato all’accettazione; all’opposto si pone che fa uso piuttosto di meccanismi di evitamento dell’angoscia, cioè chi tenta di tenere in vario modo lontana da sé e dagli altri la verità di una malattia grave per limitare il dolore e la sofferenza che deriverebbero dalla consapevolezza della serietà della situazione e dal peso di esprimere e condividere tali sentimenti.

Il trattamento

L’inizio del trattamento è un momento cruciale. La possibilità di attivarsi per risolvere il problema implica lo sviluppo della spe-ranza, ma comporta anche la necessità di fidarsi totalmente dello staff medico: per i genitori si tratta di ritrovare un senso di con-trollo sulla possibilità di vita del figlio, anche se vissuto attraverso l’intermediazione dei medici. D’altra parte l’impossibilità di avere delle certezze sull’efficacia della terapia costituisce motivo di una forte ansia. Il desiderio di chiarezza su punti centrali della malattia,

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sui quali il pensiero torna continuamente, non è sempre espresso direttamente: i genitori non possono essere rassicurati sull’esito della malattia e sembra così che anche le altre domande restino inespresse (Invernizzi, 1992). L’atteggiamento nei confronti del personale ospedaliero è in genere di idealizzazione, con tendenza a non esprimere direttamente critiche, a reprimere i dubbi all’insor-gere, oppure a esprimerli con violenza e con possibilità di decisioni impulsive («Cambiamo ospedale!»).

Durante il lungo periodo del trattamento la vita familiare è determinata dalla malattia e dalla terapia. Questo è «un tempo fatto di pieni e di vuoti», in cui gli impegni per il trattamento, con il loro carico di ansia e sofferenza, lasciano spazi vuoti di attesa misti di speranza e paura (Gamba, 1998).

Dopo la prima ospedalizzazione, generalmente lunga, le fa-miglie attendono impazientemente il ritorno a casa del bambino, tuttavia questo periodo si profila come molto stressante. L’ospe-dale, infatti, è a questo punto vissuto come sicuro per il continuo controllo medico: a casa i genitori si sentono senza protezione, si rinvigorisce il dubbio circa la capacità di assicurare il benessere fisico del bambino. Lo staff può aiutare la famiglia nella transizione dall’ospedale a casa mediante visite, suggerimenti e consigli sulle diverse eventualità che si possono presentare. Il bambino di solito durante il trattamento può restare a casa e sottoporsi alle cure in regime di day-hospital.

Remissione

Quando la terapia viene completata, vi possono essere espres-sioni di orgoglio e gioia, al limite dell’euforia,1 ma anche ansia per il timore delle recidive (Eiser, 1994; Sourkes, 1999).

In questa fase di sospensione della terapia, la vita familiare quotidiana può raggiungere un certo equilibrio, ma la percezione reciproca dei membri della famiglia e molte loro abitudini vanno

1 Secondo Cunningham e Davies (1985) a meno di un anno dalla diagnosi può verificarsi quella che essi definiscono come la fase euforica, durante la quale i genitori vedono il figlio come era prima della malattia, mettendo quest’esperienza sullo sfondo: secondo questi autori tale fase rappresenta un meccanismo necessario e sano per un ritorno alla vita normale.

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ricostruite. La realtà della malattia continua comunque ad essere presente. Il rapporto con gli altri può essere difficile anche per i genitori: parenti e amici possono allontanarsi di fronte alla paura della morte o per l’imbarazzo di non saper cosa dire: questo può portare a un senso di delusione, di isolamento, di ritiro che induce un ulteriore squilibrio nella famiglia.

La prospettiva del ritorno alla «normalità» può far emerge-re sentimenti di paura: preoccupazione per i nuovi aspetti che le relazioni possono assumere (per esempio, vi può essere la paura che altri bambini possano far soffrire il proprio per qualche frase inopportuna), turbamento per l’astio provato verso chi non riesce ad accogliere la propria sofferenza, ma la rifiuta minimizzandola o banalizzandola, ansia per le richieste che si presenteranno concre-tamente da parte degli altri componenti della famiglia o della realtà quotidiana. Altri sentimenti frequenti sono il senso di inadeguatezza per il futuro, la difficoltà di integrare il passato, la necessità di acco-gliere quotidianamente una realtà così difficile da pensare.

In questa fase statica del processo di cura può emergere la necessità di integrare i molteplici vissuti relativi alle prime fasi della malattia, che non è stato possibile affrontare consapevolmente e che pertanto sono ancora sentiti come estranei.

Nel corso del tempo le famiglie raggiungono una nuova stabili-tà: la speranza che la remissione durerà pone la base per ricominciare a fare piani per il futuro. Questo equilibrio è in realtà molto fragile: un’infezione o l’emergere di un effetto collaterale inaspettato può far ricadere nel vortice dei sentimenti di confusione e angoscia vissuti alla diagnosi. Col tempo può inoltre svilupparsi la preoccupazione che i medici non ricordino più bene il caso del figlio: per questo i genitori manifestano il bisogno di avere sempre lo stesso medico che cominciano a considerare «speciale».

Le recidive: una seconda crisi

La ricomparsa del tumore spezza il fragile equilibrio che la famiglia stava ricreando. Si rivivono con ancora maggiore intensità le emozioni provate all’inizio del trattamento: sono inoltre frequenti i sentimenti di paura, shock, ansietà, incredulità, colpa, rabbia e tristezza. Il vissuto predominante è la sensazione di fallimento del trattamento medico: esso mina la fiducia nello staff ospedaliero; parallelamente la maggiore consapevolezza della malattia, rispet-

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to al momento della diagnosi iniziale, sostanzia la formazione di aspettative meno positive.

Le strategie di coping più usate in questa fase sono quelle di controllo secondario, volte a modificare se stessi di fronte alle ri-chieste dell’ambiente piuttosto che quelle di controllo primario, in cui gli individui cercano di controllare l’ambiente: in particolare si fa più spesso ricorso al controllo vicario, attribuendo cioè una parti-colare forza ai medici e alleandosi con loro, e al controllo predittivo, cioè cercando di evitare le delusioni, preparandosi al peggio anche quando non è necessario (Grootenhuis e Last, 1996; 1997).

La ripresa del trattamento può dare nuovamente speranza, ma è molto difficile difendere l’equilibrio raggiunto durante la remissione. È complessa anche la situazione in cui la famiglia si viene a trovare in ospedale: non fare più parte del gruppo delle remissioni e necessitare di un trattamento individualizzato separa da altre famiglie ed esperienze. L’atteggiamento da parte dei medici può mutare, i genitori possono sentirsi allontanati e abbandonati e possono percepire che ormai anche i medici nutrono minori speran-ze. Una comunicazione aperta e chiara può rassicurare i genitori, mentre l’elaborazione dei vissuti di delusione da parte dei medici può evitare atteggiamenti di allontanamento e distacco.

Una nuova remissione può attivare intense paure di un’ulte-riore recidiva. Se si verificano più di una volta, le recidive portano infatti a un’escalation della tensione familiare con oscillazioni tra il voler «fare tutto il possibile», cioè tentare ogni trattamento medico disponibile, e il desiderio di avere pace e tranquillità.

La malattia terminale

La decisione di interrompere il trattamento rappresenta l’ul-timo scacco nella lotta contro il tumore: il sentimento prevalente in questa fase è l’impotenza, che spesso per reazione spinge a ricercare soluzioni alternative, fuori della comunità scientifica tradizionale: in questo momento, infatti, i genitori possono essere vulnerabili ai guaritori e ai rituali di tipo magico (Massaglia e Bertolotti, 1998). Essi sperimentano un’oscillazione continua tra pensieri di speranza e di morte e si sentono impotenti: possono per questo sembrare talvolta poco cooperativi e facilmente frustrati. È anche possibile, in questa fase, che essi sperimentino un distacco fisico e psicologico dal bambino, atteggiamento interpretabile più come un aspetto

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normale del dolore anticipatorio, che come un segno di indifferenza (Barakat, 1995). È fondamentale fare in modo che i genitori possano giungere a un’accettazione senza colpa.

La morte di un bambino è una delle più grandi tragedie della vita di una persona ed è dirompente nei suoi effetti sul sistema familiare. I genitori soffrono sia per la perdita del bambino sia per la perdita di ciò che significava per loro: la morte del bambino è vissuta come la perdita di una parte di sé.

A livello pratico bisognerebbe parlare con i genitori sulle moda-lità con cui, probabilmente, avverrà il decesso del bambino e aiutarli a prendere le ultime, fondamentali quanto dolorose, decisioni; non ultima quella sul luogo in cui far morire il bambino. Il genitore in questa fase è di solito pienamente concentrato sul tentativo di non far soffrire il bambino: alleviare il dolore fisico è pertanto il primo obiettivo da assicurare loro, sia in ospedale che a casa. Molti geni-tori, infatti, temono che riportando a casa il bambino non saranno in grado di assicurare la stessa qualità delle cure, per questo non è infrequente che all’avvicinarsi del momento della morte le famiglie scelgano di tornare all’ospedale (Sourkes, 1999).

Dopo la morte può essere importante per i genitori stare con il corpo del figlio per potersi accomiatare dal bambino in privato: osservarlo giacere in pace, finalmente senza dolore può concedere un necessario senso di «fine». Il ritorno a casa con le cose del bam-bino ma senza di lui dà invece un dolore profondo e rappresenta la definitiva presa di coscienza della perdita.

Differenze di genere

I coniugi reagiscono in modo diverso alla malattia e raggiun-gono livelli di adattamento diversi, ma per entrambi l’esperienza della malattia aumenta le probabilità di sperimentare elevati livelli di ansia, problemi di salute, isolamento sociale e problemi coniu-gali e sessuali (Eiser, 1994). Si trovano nella difficile situazione di dover affrontare le proprie emozioni senza poter smettere di sostenere il figlio nella gestione delle prove concrete relative al tumore e nell’elaborazione del proprio vissuto emotivo (Biondi et al., 1995).

A partire dalla prima fase della malattia, si stabilisce una stretta unione madre-bambino, in cui la madre si assume la funzione di «Io ausiliario» per la coppia e a volte per il resto della famiglia.

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L’ansia e il timore che frequentemente sperimenta possono generare momenti di rifiuto, di rabbia, di insofferenza verso il figlio che ella può vivere come insopportabili. Questa ambivalenza, a sua volta, può essere all’origine di un rapporto quasi «fusionale» col bambino (esclusivo ed escludente qualsiasi altra possibilità d’incontro), o può portare a intrecciare relazioni paritarie e familiari con gli operatori (che compromettono l’indispensabile differenziazione reciproca). A lungo termine questa forte interdipendenza tra madre e figlio malato può avere effetti di disgregazione familiare, in quanto il padre e i fratelli si sentono irrimediabilmente esclusi e possono sviluppare risentimenti inconsci e problemi di comunicazione che avranno l’effetto di allontanarli sempre di più.

Secondo uno studio condotto da Slooper (1996) su un grup-po di genitori britannici, il lavoro, soprattutto per le madri, è a rischio dopo una diagnosi di tumore che riguarda il proprio figlio: dimissioni e aspettative sono soluzioni non infrequenti. Il fatto di occuparsi degli impegni pratici relativi alla cura implica che la madre sostenga un peso maggiore rispetto al padre: spesso deve lasciare il lavoro o optare per impieghi part-time e anche per questo ha meno opportunità di relazioni sociali extra-familiari (Eiser, 1994). L’impossibilità di gestire il proprio tempo e la propria libertà rap-presenta un’ulteriore fonte di stress e può determinare alterazioni nel normale attaccamento madre-bambino, perlopiù aggravando situazioni di squilibrio preesistenti (Scarzello, 2002). Anche per questo motivo le madri risultano avere maggiori probabilità di sviluppare sintomi depressivi, ansia, disturbi fisici e psichiatrici, inoltre esse riferiscono più spesso paura di non essere in grado di reagire, senso di impotenza e isolamento sociale (Hoekstra-Weebers et al., 1998, Frank et al., 2001).

Relativamente alle reazioni dei padri si hanno invece minori informazioni, dato che per la difficoltà a contattarli sono stati con-dotti pochi studi: i dati raccolti fin qui indicano che a livello pratico, pur preservando il proprio impiego, sperimentano una persistente condizione di stress e di stanchezza, nel tentativo di conciliare gli eventi e l’impiego lavorativo e che dal punto di vista affettivo mostrano meno reazioni emotive negative, non differendo per vari sintomi psicopatologici dai gruppi normativi. Si può comunque ipotizzare che il minore coinvolgimento sia esso stesso in realtà l’effetto del disagio sperimentato: la fuga in un esasperato impegno lavorativo, razionalizzata dalla necessità di maggiori guadagni per

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far fronte alle cure può rappresentare un’espressione indiretta della difficoltà a sostenere la situazione. Inoltre, è anche possibile che un certo tipo di educazione impartita agli uomini possa impedire loro di esprimere apertamente il dolore e di mostrare apertamente la propria vulnerabilità (Senatore Pilleri, 1989).

Numerosi studi (Stuber et al., 1994b; Hoekstra-Weebers et al., 1998; Goldbeck, 2001) hanno indagato le differenze di genere nelle reazioni dei genitori alla diagnosi e negli stili di coping alla malattia. Secondo lo studio di Hoekstra-Weebers et al. (1998), le differenze di genere non sono riscontrabili al momento della diagnosi, ma emer-gono nelle fasi successive. Lo sconvolgimento indotto dalla diagnosi sarebbe, in quest’ottica, più forte di modelli comportamentali cultu-ralmente determinati: le madri sarebbero meno centrate sui propri problemi e i padri più disposti a manifestarli (Hoekstra-Weebers et al., 1998). Gli stereotipi culturali dominanti possono invece indurre degli effetti nell’adattamento a lungo termine.

Hoekstra-Weebers et al. (1998) riportano strategie di coping diverse tra madri e padri: mentre gli uomini tendono a preferire comportamenti di coping più attivi (risoluzione dei problemi e riduzione di tensioni), le donne usano maggiormente il supporto sociale e stili di coping centrati sulle emozioni. Da questo studio è emerso inoltre che le madri dei bambini malati ricorrono anche a strategie quali la ricerca di informazioni e il ricorso alla fede, i padri al contrario utilizzano spesso meccanismi di negazione. Quindi se alla diagnosi i padri usano più comportamenti attivi di risoluzione di problemi e successivamente meno reazioni palliative (cioè strategie tese a ridurre e minimizzare l’impatto della diagnosi), le madri si adoperano, spesso con successo, per mantenere l’integrazione fa-miliare, la stabilità personale e l’ottimismo e per comprendere lo stato medico del bambino. Tutte queste differenze entro le coppie possono avere importanti conseguenze: la dissincronia del coping, per esempio, può portare i membri della famiglia a sentirsi isolati l’uno dall’altro e può essere vissuta come abbandono o mancanza di empatia (Adams-Greenly, 1986). Secondo Goldbeck (2001), tuttavia, le dissimilarità non sono necessariamente negative, in quanto possono rappresentare reazioni tra loro complementari. Inoltre, nonostante queste differenze e anche se i ruoli assunti dai genitori sono diversi (le madri tendono a stare con il bambino, mentre il padre lavora), essi valutano la qualità della vita in modo simile (Hoekstra-Weebers, 1998, Scarzello, 2002).

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Una diagnosi di tumore rappresenta certamente un trauma, una fonte di stress di grande entità per il bambino e per la famiglia: oltre a determinare una reazione immediata, per il suo protrarsi a lungo nel tempo può favorire l’instaurarsi di un disagio più duraturo, dando come esiti, talvolta, sintomi psicopatologici di vario tipo. Si tratta, in effetti, di un evento in grado di superare le capacità adattive dei soggetti coinvolti e le loro usuali abilità di coping; le ospedaliz-zazioni frequenti, le procedure mediche e i trattamenti dolorosi, le limitazioni fisiche e le restrizioni nella vita sociale si pongono come ulteriori fonti di stress e pertanto di rischio psicopatologico.

La nozione di rischio, secondo l’ottica di D’Alessio (1995), implica la possibilità di interferire con il processo di sviluppo armonico di un soggetto e interessa sia aspetti individuali, cognitivi ed emotivi, che sociali. Il concetto stesso di rischio rimanda a diversi possibili esiti, quali la sofferenza psichica, l’emarginazione, l’isolamento, il rifiuto, la criminalizzazione, tuttavia nessun fattore di rischio permette di predire la patologia futura: qualunque predizione è sempre statistica e non individuale. L’individuazione dei fattori di rischio e di resistenza permette di avere, però, una guida euristica per lo sviluppo di tratta-menti d’intervento per questi pazienti (Varni e Katz, 1997).

I fattori di rischio sono quegli

[…] elementi del comportamento individuale, dell’ambiente sociale e della relazione interpersonale che anticipano, segnalano, favoriscono, determinano l’esito indesiderato che la nozione di rischio prospetta. (D’Alessio, 1995, p. 77)

I fattori protettivi sono quegli elementi che permettono di aumentare le capacità di resilience del soggetto favorendo processi

CAPITOLO NONO

Prevenzione

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che consentono la riduzione dell’impatto con la condizione di ri-schio e ostacolano la catena di reazioni negative generabile da una situazione di stress; attraverso tali elementi si consolidano senti-menti di autostima e di efficacia personali e competenze relazionali (Rutter, 1990).

A priori un elemento non può essere definito come fattore pro-tettivo o di rischio: quello che sembra importante è «la sensazione di poter incidere sulla propria vita e di influenzare più efficacemente il corso degli eventi» (Zani, 1999b, p. 183). L’esame dei vari fattori di rischio, considerati isolatamente, non fornisce dunque una spiegazione esaustiva dell’adattamento, che appare piuttosto l’esito delle interazioni tra i vari fattori, che si svolgono nel tempo e che modulano l’azione dei fattori stessi secondo complessi rapporti di dipendenza reciproca (D’Alessio, 1995).

Se, dunque, è utile conoscere i fattori di rischio e le loro pos-sibili conseguenze a livello epidemiologico, è anche importante valutare alcune variabili complementari, come la competenza, la vulnerabilità e la resilienza individuali.

La competenza è la capacità attiva di utilizzare le attitudini sensoriali e motorie per agire o tentare di agire sull’ambiente, rico-nosciuta già nel lattante e comunque variabile tra individui diversi. Determinano la competenza alcune caratteristiche quali l’irritabilità, la consolabilità e la capacità di ritiro.

La vulnerabilità è definibile come la capacità (o l’incapacità) di resistere alle tensioni dell’ambiente: Freud la definisce come una barriera protettiva contro gli stimoli. Dipende in parte da una componente genetica e in parte dalla percezione dell’individuo, determinata dalle esperienze precedenti, della propria capacità di prevedere gli eventi e modificarne il corso (Marcelli, 1999).

Con il termine «resilience» si fa riferimento alla

[…] capacità di recupero come risposta interna di una persona ad affron-tare le situazioni difficili della vita e la cui assenza viene generalmente definita «sindrome di Charlie Brown» e consiste in un sentimento di impotenza che fa sentire il soggetto incapace di controllare le situa-zioni e quindi alla continua ricerca di aiuto e sostegno. (Schettini, cit. in Iavarone e Iavarone, 2004, p. 49)

Secondo Marcelli (1999) la resilienza può avere origine da una competenza intrinseca al soggetto o da fattori ambientali protettivi.

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Se in senso medico la «prevenzione primaria» dei tumori in-fantili non è possibile nella maggior parte dei casi e la «prevenzione secondaria» risulta spesso difficile per la sintomatologia sovente aspecifica, la cosiddetta «prevenzione terziaria», invece, è un campo di aperto interesse, come abbiamo evidenziato specificando l’utilità delle misure della QoL.1

Come detto più volte, l’impatto totale di una malattia cronica come il cancro è il risultato dell’interazione fra tre sistemi: il bam-bino, la famiglia, la comunità. Per una gestione completa di questo evento debbono attuarsi interventi di prevenzione a più livelli: individuale, sociale e di comunità.

A livello individuale agire in un’ottica preventiva vuol dire innanzitutto riconoscere le potenzialità del soggetto e le sue ri-sorse, sostenerle e rafforzarle: gli interventi saranno cioè mirati all’empowerment personale. Nel contesto ospedaliero anche il personale medico-infermieristico può essere identificato come risorsa; altri professionisti possono essere idonei a promuovere l’empowerment individuale ma essi devono essere adeguatamente formati a riconoscere le problematiche dei pazienti e delle fami-glie al fine di poter fornire un’adeguata rete di supporto formale e informale.

A livello di comunità possono essere importanti, per esempio, gli interventi nelle classi scolastiche, con alunni e insegnanti, tesi a facilitare il rientro di un piccolo paziente dopo il primo lungo periodo di ospedalizzazione oppure interventi per migliorare il sostegno sociale.2

Per quanto riguarda il livello sociale facciamo riferimento a interventi di formazione specializzata per medici e infermieri e alle modificazioni, strutturali e sociali, che coinvolgono l’ospedale, oltre a tutta la legislazione in materia sanitaria, in particolare quella riguardante l’infanzia.

1 Seguendo Korchin (cit. in Francescato et al., 2002) e la prospettiva di ana-lisi della medicina sociale, indichiamo come prevenzione primaria quegli interventi finalizzati a ridurre la possibilità di malattia nei soggetti a rischio; prevenzione secondaria i provvedimenti tesi a diminuire durata, diffusione e contagio di una malattia e la sua diagnosi precoce; prevenzione terziaria gli interventi che cercano di limitare le conseguenze della malattia.

2 Per l’importanza del sostegno sociale per la promozione e protezione del benessere si veda il testo di Francescato et al., 2002.

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In psicologia di comunità questi ultimi interventi si definisco-no di prevenzione primaria proattiva, per differenziarli da quelli di prevenzione primaria reattiva, cioè quelli in cui, non potendo eliminare le fonti di stress ambientali, si cerca di aiutare i soggetti ad affrontare meglio la situazione, come per esempio gli interventi individuali prima citati (Francescato et al., 2002).

Sul piano pratico, i possibili interventi attivabili saranno di-scussi estesamente nella Quarta parte di questo volume.

Il bambino a rischio

Secondo il modello di Varni e Wallander (Varni, Waldron, Gragg, Rapoff, Bernstein, Lindsley e Newcomb, 1996b; Varni e Katz, 1997) le malattie croniche pediatriche rappresentano una condizione di tensione persistente sia per i bambini che per i genitori che richiede un riadattamento costante e interferisce con l’adem-pimento delle attività quotidiane, influenzando negativamente l’adattamento psicologico e sociale. Gli autori hanno individuato alcuni fattori di rischio e di resistenza: i primi sono identificati con le caratteristiche della malattia, l’indipendenza funzionale e lo stress psicosociale; tra i secondi vengono distinti i fattori personali (come competenza, temperamento, abilità di problem-solving), i fattori sociologici (come il supporto familiare e sociale), e i fattori legati allo stress (quali la valutazione cognitiva e le strategie di coping). Fondamentali per questi ultimi sono le percezioni soggettive di minacciosità dello stress e di disponibilità di supporto, più delle loro valutazioni oggettive.

Fattori di rischio per i piccoli pazienti

L’esposizione al fattore traumatico, più o meno intensa, è la prima determinante dell’adattamento; ad esso si aggiungono avver-sità concomitanti che possono provocare la persistenza di sintomi quali per esempio un’ansia generalizzata. Per tale ragione i bambini sottoposti a trattamenti medici più intensi risulterebbero essere più a rischio, come anche quelli più ansiosi e con maggiori sequele mediche dovute al trattamento (Stuber et al., 1997). Come hanno recentemente confermato Kullegren, Morris, Morris e Krawiecki

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TABELLA 9.1Variabili implicate nell’adattamento dei bambini alla

malattia

Variabili Autori (anno)

Modalità di affrontare pro-cedure dolorose

Peterson (1989); Dahlquist et al. (1996); Varni et al. (1996b); Bonichini e Axia (2000); Bradlyn et al. (1993); Ounnoughène et al. (2003); Guarino, Lopez e D’Alessio (2005).

Cambiamenti nell’immagine del corpo e nell’autostima

Varni et al. (1997); Woodgate (1997); Roberts et al. (1998); Cavusoglu (2001); Stepanian e Cohn (2004).

Modificazioni delle relazioni con i pari e i compagni di classe

Roberts et al. (1998); Noll et al. (1999).

Isolamento sociale Katz e Varni, (1993); Noll et al. (1999); Moore et al. (2003).

Reintegrazione scolastica Bouffet et al. (1997); Kroll e Petermann (2000); Labay et al. (2004).

Funzionamento cognitivo ed effetti neuropsicologici dei trattamenti

McCabe et al. (1997); Buter e Copeland (2002); Jansen et al. (2005); Moore et al. (2003); Kaleita (2002); Merchant (2006).

Coping generale con la malattia

Greenberg et al. (1989); Sorgen et al. (2002); Guarino, Lopez e D’Alessio (2005).

(2003), che hanno verificato che trattamenti medici multipli e una bassa competenza sociale predicono, a lungo termine, ulteriori difficoltà sulla competenza sociale stessa.

L’assenza di informazioni dirette sulla malattia, peraltro, non preserva dallo stress della diagnosi (Scrimin e Axia, 2004).

Alcune caratteristiche familiari, quali in particolare la coesione, la comunicazione e l’adattabilità, sono buoni predittori di un migliore adattamento, come si vedrà anche nel paragrafo sui predittori di un buon adattamento familiare (Varni et al., 1996a; Trask, Paterson, Trask, Bares, Birt e Maan, 2003). Del resto, secondo molti studi il supporto sociale è il miglior predittore dell’adattamento alla ma-

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lattia, ma soprattutto fondamentale sembra essere la percezione della disponibilità di tale supporto. Essa non dipende né dal numero delle persone che assistono, né dal numero di comportamenti di aiuto messi in atto degli altri, ma dalla valutazione cognitiva di adeguatezza e disponibilità del supporto sociale stesso per specifici bisogni. Il sostegno ricevuto è tanto più efficace quanto più è in grado di facilitare il relativo processo di coping: questo concetto si può denominare «supporto della crisi» (Varni, Katz, Colegrove e Dolgin, 1994). Di recente è stato osservato che a lungo termine il supporto sociale aiuta a ridurre l’insicurezza e a prevenire l’emar-ginazione sociale: ciò sarebbe possibile anche perché la relazione con un amico sembra supportare positivamente l’immagine di sé e l’autostima (Fossen, 2004) e questi due aspetti si sono dimostrati, a loro volta, predittori di alcuni sintomi psicopatologici relativi alla depressione e all’ansia sociale (Cavusoglu, 2001; Scrimin e Axia, 2004). Inoltre, la percezione della possibilità di controllare la situazione di malattia è ritenuta fondamentale nel determinare l’adattamento dei bambini, quanto il locus of control negli adulti (Goertzel e Goertzel, 1991). Infine l’attivazione delle strategie di coping, che della sensazione di controllo è il riflesso, determina un adattamento che sarà predittivo dei livelli di stress successivi e della loro persistenza (Scrimin e Axia, 2004).

Varni et al. (1994) propongono di intervenire mediante tec-niche di gestione dello stress cognitive e comportamentali, come il

TABELLA 9.2Principali studi sui fattori di resistenza

Fattori sociologici

Supporto familiare Varni et al., 1996a; Kazak e Ba-rakat, 1997; Gelfand e Dahlquist, 2003; Yaskowich, 2003; Trask et al., 2003

Supporto sociale Varni et al., 1994; Trask et al., 2003; Axia et al., 2004; Fossen, 2004

Fattori legati allo stress

Valutazione cognitiva

Goertzel e Goertzel, 1991

Strategie di coping

Sorgen et al., 2002; Scrimin et al., 2004

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problem-solving, il rilassamento muscolare, l’immaginazione guida-ta per diminuire i microstressor che pongono il bambino di recente diagnosi a rischio di maladattamento. È stato, infatti, verificato che questi interventi hanno un effetto di aumentata immunocompetenza e forse di aumento della sopravvivenza (Fawzy et al., 1993). Anche un training di abilità sociali può migliorare l’adattamento al ritorno a scuola e diminuire lo stress relativo a situazioni sociali, che può a sua volta portare a effetti sull’immunocompetenza e sulla qualità della vita (Waxler-Morrison et al., 1991; Gotay et al., 1992).

Fattori di rischio per i sopravvissuti

I sopravvissuti a tumori infantili quali leucemia e linfomi hanno un maggiore rischio di sperimentare sintomi di depressione o distress somatico rispetto ai fratelli (Zebrack, Zelter, Whitton, Mertens, Odom, Berkow e Robison, 2002), mentre i sopravvissuti a un tumore cerebrale infantile sembrano essere a rischio per com-promessa competenza sociale e qualità della vita a lungo termine, oltre che per difficoltà cognitive e scolastiche (Fuemmeler, Elkin e Mullins, 2002; Baumeister, 2004). I resoconti in letteratura sui livelli di adattamento psicologico di questi soggetti variano ampia-mente in gran parte a causa dell’utilizzo di tecniche di valutazione inadeguate, mancanza di appropriati gruppi di controllo e campioni troppo piccoli (Fuemmeler et al., 2002).

Alcuni dati possono tuttavia essere tratti:

– come nella popolazione generale, alti livelli di distress nei so-pravvissuti sono associati con sesso femminile, basso reddito familiare, minore titolo di studio, non essere sposato, stato di disoccupazione nei precedenti 12 mesi e peggiore stato di salute fisica;

– nessuna variabile diagnostica o legata al trattamento sembra di-rettamente e significativamente associata con aumenti nei sintomi di distress per i sopravvissuti a un tumore cerebrale infantile: il trattamento del cancro, cioè, non sembra contribuire direttamente ad accrescere il distress psicologico. Esso sembra piuttosto as-sociato a un diminuito funzionamento sociale che può essere in parte determinato dal tipo di cancro o dal trattamento (Holmquist e Scott, 2002; Glover et al., 2003; Zebrack et al., 2004).

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Grazie agli enormi progressi compiuti in campo medico-far-macologico negli ultimi decenni, il cancro è oggi considerabile, per molti aspetti, una condizione cronica piuttosto che una patologia mortale senza possibilità di sopravvivenza. La lunga durata della malattia implica, comunque, che il bambino malato e la sua famiglia siano sottoposti a uno stress prolungato, che mette a dura prova tutte le loro risorse. Inoltre, gli effetti collaterali a medio e lungo termine, provocati dai trattamenti, compromettono la qualità della vita del bambino e il suo percorso di sviluppo.

Per questi motivi è essenziale che l’équipe medica sia affiancata da psiconcologi in grado di riconoscere i bisogni, sovente inespressi, della famiglia e del bambino e di affrontarli adeguatamente: la «presa in carico» deve coinvolgere tutta la famiglia e non solo il bambino, ma soprattutto deve svilupparsi lungo tutto il percorso diagnostico e terapeutico.

Accanto agli aspetti propriamente psicologici e psicopatologici individuali è necessario occuparsi degli aspetti relazionali e psico-sociali. L’attenzione a questi aspetti non si realizza solo attraverso interventi specialistici, ma deve in parte concretizzarsi quotidiana-mente a opera di tutti i membri dello staff. Inoltre può essere utile, specie per l’età evolutiva, affiancarvi quegli interventi, qui definiti «distrazionali»,1 che permettono di coinvolgere i bambini ricoverati

CAPITOLO DODICESIMO

Modelli di intervento psiconcologico

1 Ci si riferisce a diverse attività organizzate e proposte in molti ospedali: la comicoterapia, la musicoterapia, l’arte-terapia, la pet-therapy. Tutte queste attività possono avere, come alcune ricerche stanno dimostrando, benefici effetti sul benessere psicologico del bambino e sul suo adattamento, ma riferendoci ad esse ci sembra abusato il termine «terapia».

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in nuove e piacevoli attività, così da spostare la loro attenzione, temporaneamente, oltre la malattia.

D’altra parte non è solo la famiglia ad aver bisogno di aiuto e sostegno: la stessa équipe medica ha bisogno di essere sostenuta e di imparare ad affrontare lo stress che inevitabilmente si genera. Come si è più volte avuto modo di notare, i medici e gli infermieri si confrontano continuamente con la realtà della morte e con i limiti, oltre che con i risultati, della ricerca scientifica e della professione medica: essi possono aver bisogno di ricavare un tempo in cui ri-conoscere la propria sofferenza ed elaborarla, per non esserne alla fine sommersi e per contrastare la tendenza alla sua negazione.

Gli interventi attuati in ambito psiconcologico sono finalizzati a limitare gli effetti psicologici disadattivi, a breve, medio e lungo termine, dovuti alla diagnosi di tumore e ai trattamenti necessari: questi interventi vengono definiti di prevenzione terziaria.2 Adat-tamento e qualità della vita sono certamente le parole chiave da considerare in questo discorso: riattivare e indirizzare le energie e le risorse della famiglia e facilitare i rapporti con l’équipe medica sono gli obiettivi degli interventi psicologici.

Capello, Tremolada, Scrimin e Axia (2004) propongono uno schema a piramide per descrivere le tipologie di intervento possibili in un reparto e/o in un day hospital di oncologia pediatrica (fig. 12.1 e tab. 12.1): tale diagramma permette di rappresentare graficamente la diversa frequenza di impiego dei vari tipi di intervento, in quanto rispecchia i dati emersi da varie ricerche sul rischio psicosociale di queste famiglie (fig. 12.2).

Più specificamente gli interventi psicosociali rispondono al tentativo di curare in modo globale il paziente, riconoscendolo come persona prima che identificarlo con un corpo malato; per questo sono indirizzati a tutti i pazienti e a tutte le loro famiglie. Nel curare il bambino malato l’équipe medico-infermieristica, infatti, non può ignorare le necessità di un individuo in crescita: il bambino deve affrontare la malattia e i trattamenti che essa richiede, ma deve continuare a crescere. Il suo percorso evolutivo deve essere rico-nosciuto, sostenuto e stimolato. Alla luce di questa fondamentale premessa vanno letti tutti quegli interventi che cercano di ricreare angoli e momenti di normalità, primo fra tutti l’introduzione della

2 Per un approfondimento si veda il capitolo nono.

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Fig. 12.1 Piramide degli interventi in psiconcologia pediatrica (modificato da Capello et al., 2004).

Specialistico II livello

(molti fattori di rischio)

Specialistico I livello(più fattori di rischio)

Di base o preventivo

(pochi fattori di rischio)

Interventi generali mirati a favorire un ascolto empatico e una comunicazione efficace.Interventi di tipo psicoeducazionale e psicosociale: fornire informazioni adeguate ai genitori e ai piccoli pazienti sulla malattia, favorire il reinserimento a scuola e nelle attività extra-scolastiche.Interventi di supporto nell’ospedale pediatrico: musicoterapia, pet-therapy, clown-terapia, ecc.

Interventi mirati all’inse-gnamento di determinate strategie per affrontare la malattia e le varie procedure dolorose: ad esempio tecniche cogni-tivo-comportamentali (di-strazione, immaginazione, rilassamento, ecc.).Social skill training: inse-gnare specifiche strategie comportamentali per il rientro a scuola. Gruppi auto aiuto per i genitori.

Interventi per famiglie che hanno uno scarso sistema naturale, che deve essere compensato da un mag-giore e specificato suppor-to psicologico da parte del sistema esperto.Interventi di counseling psicologico indicati quan-do mancano strategie di controllo e serve un sostegno specifico.Psicoterapia individuale e/o familiare per la ge-stione di disturbi d’ansia, depressione, difficoltà comunicative, conflitti familiari, ecc.

psicologi,psicoterapeuti

psicologi, medici, infermieri, educatori,

ecc.

psicologi, medici, infermieri,

insegnanti, educatori, esperti dell’informazione,

volontari, esperti in particolari interventi

di sostegno, ecc.

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Fig. 12.2 Distribuzione del rischio psicosociale (Kazak et al., 2003).

scuola in ospedale.3 L’esperienza dell’ospedalizzazione è, infatti, fortemente traumatica per i bambini: i limiti imposti dall’istituzione, oltre a quelli legati alla patologia, inducono passività, dipendenza e regressione; si genera inevitabilmente un vissuto di separazione e talvolta di abbandono, seppure non sempre fisico, rispetto ai geni-tori, alla famiglia allargata e agli amici. È fondamentale in questo contesto che l’équipe medico-infermieristica instauri un dialogo con i piccoli pazienti, fatto anche di ascolto, già dalla fase diagno-stica, supportando i genitori presi a loro volta nell’elaborazione di questo shock.4 L’ascolto, in particolare, non deve limitarsi alle comunicazioni intenzionali ed esplicite del bambino, ma si realizza attraverso l’osservazione costante del comportamento relazionale e di gioco, oltre che mediante la creazione di specifici contesti e situazioni in cui egli può esprimersi. Creare un clima di accoglienza e di contenimento è il primo imprescindibile passo verso una presa in carico globale del bambino.

Gli interventi psicoeducazionali e informativi, che si stanno moltiplicando nei vari reparti a partire dalle risorse in essi presenti, come i membri stessi dell’équipe, le associazioni di volontariato o professionisti come insegnanti, educatori professionali, assistenti

3 A questo argomento è dedicato il capitolo quattordicesimo.4 Si veda il capitolo undicesimo sulla comunicazione.

altomediobasso

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TABEL

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sociali, devono rivolgersi a tutti i pazienti e ai loro familiari per facilitare la comprensione degli aspetti medici della malattia, i trattamenti necessari e per stimolare risposte adattive. A tutti i bambini bisognerebbe insegnare ad affrontare le procedure medi-che, i trattamenti e il dolore che essi spesso comportano, partendo dal riconoscimento delle loro risorse, oltre che dalla conoscenza di una serie di caratteristiche quali l’età, il sesso, lo stile di coping generale, le esperienze precedenti, la paura generalizzata delle procedure mediche, il livello d’ansia dei genitori e la loro capacità di anticipare il dolore del figlio.

Fattori individuali, familiari e situazionali, possono essere, invece, alla base di specifici disturbi psicopatologici che richiedono un intervento psicoterapeutico: è importante uno screening psico-logico accurato per individuare precocemente i bambini a maggior rischio5 e programmare interventi individualizzati. La necessità di sostegno psicologico è in generale maggiore in occasione di una recidiva: secondo Hinds, Birenbaum, Pedrosa e Pedrosa (2002) i bambini normalmente vivono questo periodo tentando di «pro-teggere la pace della mente» attraverso tre fasi che vanno dalla reazione acuta, con il tentativo di distrarsi, al riconoscimento del bisogno del «ri-trattamento» fino alla ricerca di alternative per sostenere il trattamento.

I bisogni di aiuto, ovviamente, si modificano durante il per-corso diagnostico e terapeutico e con essi cambiano gli interventi necessari. In particolare durante la fase terminale, quando anche i bambini più piccoli sono consapevoli dell’avvicinarsi della morte,6 la comunicazione aperta e il coinvolgimento più possibile attivo, oltre al mantenimento di una buona rete di contenimento, possono aiutare il bambino ad affrontare il distacco imminente e il dolore crescente. Ancora una volta, comunque, variabili individuali, quali l’età di insorgenza della malattia, la durata e la gravità della malattia e gli esiti fisici dei trattamenti, determinano le diverse reazioni alla malattia.

Tutto ciò è valido anche per i genitori: gli interventi anche in questo caso possono variare in funzione della fase della malattia,

5 Si veda il capitolo nono.6 Sul tema della comprensione del concetto di morte in età evolutiva e sulla

consapevolezza della propria morte si veda il capitolo quarto.

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oltre che di altre variabili individuali e familiari e riguardare il singolo genitore, la coppia o l’intero sistema familiare. In gene-rale, è importante che i genitori siano sostenuti nel loro percorso di accettazione e gestione della malattia e di riconoscimento delle emozioni sperimentate anche dagli altri membri della famiglia. I temi comunemente da affrontare sono la reazione dei genitori alla malattia del bambino, l’impatto sulla vita di coppia e familiare, le strategie di coping messe in atto e le capacità di comunicazione con l’ambiente esterno. Soprattutto in fase diagnostica è importante offrire informazioni e occasioni di confronto con gli altri genitori e specificare strategie concrete per fronteggiare la malattia. Può anche essere utile impiegare tecniche comunemente usate in casi di shock, come il debriefing, per rendere più rapido il processo di superamento del forte sconvolgimento indotto dalla malattia; anche per i genitori, infine, possono attuarsi interventi più propriamente psicoterapeutici. Diverse sono le esigenze quando si affrontano le recidive di malattia: questa fase si caratterizza per l’oscillazione continua tra la scelta di riprendere il trattamento e la preparazione alla perdita. L’esacerbazione di questo atteggiamento si osserva durante la fase terminale: i genitori devono, infatti, continuare a prendersi cura del bambino preparandosi comunque alla perdita imminente; spesso, inoltre, devono confrontarsi con il proprio senso di colpa per non aver fatto tutto il possibile. La reazione dei genitori alla fase terminale può essere influenzata da più variabili, quali la stadio di vita e il tipo di organizzazione della famiglia, la reazione personale allo stress di ogni componente, la rete sociale cui si appartiene, le credenze e i valori sociali e culturali. Oltre che il sostegno psicologico propriamente detto, è necessario fornire infor-mazioni e appoggio per le scelte che riguardano la morte: i genitori, infatti, hanno difficoltà a pensare alternative alla morte in ospedale; inoltre, sono spaventati dal modo in cui può avvenire il decesso. La morte del bambino produce uno sconvolgimento totale e possono manifestarsi difficoltà di vario tipo dovute a svariati fattori relativi alla malattia e al suo decorso e ad aspetti ed esperienze personali e familiari: i genitori devono essere aiutati ad affrontare il distacco e tutte le emozioni che comporta, con l’obiettivo di giungere ad accettare questo evento, attraverso incontri con l’équipe medica per rivedere l’intero percorso di cura, gruppi di auto-aiuto o un sostegno psicologico specifico.

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Lo stress sperimentato dai fratelli dei bambini malati non deve essere sottovalutato: come si è detto precedentemente,7 il rischio di sviluppare sintomi psicopatologici è, per loro, addirittura mag-giore di quello dei fratelli malati. Per questo motivo interventi di gruppo psicoeducativi e/o di sostegno sono strumenti di screening e prevenzione utili anche in questo caso. Hitcham (1995) identifica come aree di lavoro preferenziali la condivisione di ciò che succede in famiglia, il fornire informazioni — adeguate all’età — relative al decorso del tumore e la costituzione di un ambiente accogliente per esprimere emozioni e sentimenti. Un’attenzione particolare va posta nella fase avanzata di malattia e dopo la morte del fratello malato: bisogna considerare la loro capacità di elaborare il lutto, che è in funzione della loro età, ma anche della capacità della famiglia di sostenerli. Un elemento di maggiore difficoltà è costituito dal fatto che i fratelli siano stati donatori di midollo osseo nei casi in cui sia stato necessario un trapianto.

Interventi di vario tipo possono inoltre essere indirizzati a coloro che sono sopravvissuti al tumore infantile: è fondamentale un costante monitoraggio dello stato psicologico di questi bambini e adolescenti, in considerazione dei possibili effetti collaterali a lungo termine legati al trattamento, oltre che del persistente vissu-to di incertezza che essi sperimentano.8 Interventi psicosociali ed educativi sono utili anche in questo caso per fronteggiare il senso di vulnerabilità frequentemente avvertito.

Axia et al. (2004) propongono il concetto di caring niche per indicare l’ambiente che ruota intorno al bambino malato: diver-samente dai bambini sani la «nicchia» di questi bambini, cioè «le persone responsabili direttamente della sua salute fisica e psichica», è composta di due sottosistemi. Al sistema naturale, rappresentato dalla famiglia nucleare e allargata e dalla loro rete sociale, si affianca il sistema esperto, costituito dai medici e dagli infermieri che si occupano della sopravvivenza del bambino. La proposta è interes-sante perché aiuta a considerare insieme, come forze collaboranti e complementari, la famiglia e l’équipe.

Nei successivi capitoli saranno presentati i possibili interventi cui si è qui accennato: nessuno di essi è in sé la risposta al disagio

7 Si veda il capitolo quinto.8 Si veda il capitolo quarto.

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sperimentato dai bambini e dalle loro famiglie; ognuno si rivolge ad aspetti diversi, ma comunque importanti. Quello che in questa sezio-ne si vuole delineare è un insieme di possibilità che permettono di prendersi cura del bambino malato nel suo percorso di crescita.

Fig. 12.3 La caring niche del bambino e dell’adolescente malati di cancro (Axia et al., 2004).

Risorse economiche

Ricerca

Volontariato

Ecologia

Cultura

Politiche sanitarie

Scuola e servizi sociali

Sistema espertoMedici Infermieri Psicologi

Bambino malato

Sistema «naturale»Famiglia

Famiglia estesaRete sociale

NICCHIA

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I continui ricoveri per ulteriori accertamenti diagnostici e per alcuni trattamenti, i lunghi cicli di terapia in day hospital e il frequente e pericoloso abbassamento delle difese immunitarie, dovuto alla malattia e alle cure, impongono l’interruzione della frequenza scolastica per molti mesi, spesso per l’intero anno scolastico.

Le conseguenze di tali limitazioni sono molteplici: perdita di contatto con la classe di appartenenza e con il circuito delle relazioni affettive nate al suo interno, perdita della mediazione con la realtà rappresentata dal gioco, compromissione del percorso cognitivo, perdita di progettualità, depressione dell’autostima (Ballestrin e Putti, 2004).

I progressi medici, come più volte già ribadito, pongono, peraltro, un nuovo obiettivo ai curanti: il criterio di valutazione di una buona cura è oggi la qualità di vita, non più la mera so-pravvivenza. L’ottica dell’assistenza globale (medica, psicologica, sociale) induce a fornire ai bambini malati nuove e importanti opportunità di crescere, svilupparsi, prepararsi al futuro, o quantomeno a preservare quelle che hanno i loro coetanei che godono di buona salute.

In generale si impone, nel trattamento di un individuo nel corso del suo sviluppo, la presa in carico anche della sua condi-zione evolutiva. Ciò significa ridurre al minimo indispensabile le interruzioni delle sue attività quotidiane, ma anche difendere le aspettative e la possibilità di progettare la propria vita e aiutare i genitori a conservare il proprio ruolo educativo.

Il riconoscimento della complessità dell’esperienza che il minore e la sua famiglia vivono è preliminare alla riduzione del

CAPITOLO QUATTORDICESIMO

La scuola in ospedale

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rischio psicopatologico,1 individuale e familiare (Perricone, Polizzi e Morales, 2005).

L’ambiente scolastico è il sistema sociale che, durante gli anni di malattia, può contribuire in maniera determinante allo sviluppo armonico della personalità del bambino e, d’altra parte, costituisce un importante tramite con la società nella diffusione di conoscenze precise sulla malattia e sulla sua possibilità reale di guarigione. Molti sono gli obiettivi che la scuola in ospedale può contribuire a raggiungere (tab. 14.1), tra essi è fondamentale quello di custodire e rafforzare l’identità del bambino all’interno di un ambiente spesso anonimo e spersonalizzante, carico di angosce e di paure. Il contesto educativo diventa, in questo senso, uno spazio in grado di promuovere una serie di fattori di protezione interni, quali la possibilità che il vissuto del bambino non sia totalmente invaso dalla malattia, ma anche che egli avverta di poter gestire la situazione e, non ultimo, la possibilità di percepirsi come normale anche se malato. La creazione di contesti tali da consentire il ritiro strategico, lo sviluppo del Sé, il riconoscimento di se stessi e l’in-contro con gli altri, che è prerogativa dell’istituzione scolastica in ospedale, rende la scuola stessa un efficace mezzo di prevenzione della salute psichica del bambino. Creando questi spazi stiamo in-fatti contribuendo allo sviluppo di alcune capacità, quali il senso di autostima, l’autoefficacia percepita, il coinvolgimento, ma anche la metacognizione, che sono generalmente più difficili da conquistare o da preservare nei bambini ospedalizzati. Il possesso di queste capacità, inoltre, precorre lo sviluppo di altre competenze che, come si è visto precedentemente, sono fondamentali per un buon adattamento e una compliance ottimale, quali, tra l’altro strategie di coping più numerose e flessibili (Perricone et al., 2005, Ballestrin e Putti, 2004).

In questo senso la scuola in ospedale ha effetti positivi anche per l’équipe curante. Analogamente la sua presenza in reparto ha effetto anche sulle famiglie, dato che modera e modula gli effetti

1 Il rischio, come evidenziato anche nel capitolo nono, è determinato sia dalla vulnerabilità del minore (sofferenza, paura, mancanza di certezze) e della famiglia (sconvolgimento degli equilibri interni, caratteristiche del sistema familiare, quanto alle relazioni interne e a quelle con l’esterno) che dalla rischiosità della situazione (reale minaccia di morte, continua fonte di stress, trattamenti impegnativi, sia economicamente che psicologicamente).

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dello stress legato all’ospedalizzazione e, soprattutto, restituisce, anche ai genitori un senso di normalità che li sostiene nel tentativo di mantenere il loro ruolo educativo.

Nella realtà di tutti i giorni, comunque, c’è ancora un lungo cammino da percorrere, sia perché la scuola nei reparti pediatrici ha ancora, a dispetto dei molti anni che sono trascorsi dalla sua istituzione, alcuni tratti di sperimentazione e, per questo, di sog-gettività,2 sia perché la relazione tra essa e i diversi professionisti

TABELLA 14.1Obiettivi della scuola in ospedale

– Salvaguardare il diritto costituzionale allo studio e limitare la dispersione scolastica, anche attraverso forme di istruzione do-miciliare.

– Garantire la tempestività dell’intervento didattico, evitando così che il bambino ricoverato perda il contatto con la realtà esterna, offrendo stimoli positivi, di crescita culturale ed emotiva, seppur nel contesto della malattia.

– Favorire, appena possibile, la frequenza in un’aula, che, posta come spazio privilegiato, costruito sui suoi interessi, permette di rompere la monotonia del reparto, di confrontarsi con un piccolo gruppo, di ritrovare un ambiente «normale».

– Aiutare il bambino ad accettare la separazione dai quotidiani riferimenti affettivi e i propri limiti momentanei, rendendolo pro-tagonista di un processo di produzione culturale che gli restituisca il senso di continuità con il suo mondo e le sue sicurezze.

– Far esprimere al bambino le paure e le ansie legate alla malattia e all’ospedalizzazione, aiutandolo a superare la demotivazione, l’abulia e l’apatia.

– Far sì che ogni ragazzo, attraverso la mediazione educativa si senta parte di un progetto comune, in cui ognuno possa mettere le proprie abilità, i propri linguaggi, la propria voglia di essere attivo e creativo.

– Assicurare la continuità del processo educativo mantenendo i con-tatti con la scuola di appartenenza per favorire il rientro, affinché sia superato il disagio provocato dalla prolungata assenza.

2 Da una recente indagine, che si proponeva una rassegna preliminare della realtà della scuola in ospedale in alcuni reparti di oncologia pediatrica romani, è emerso che c’è una grossa difficoltà a soddisfare tutti i criteri previsti dalle ordinanze ministeriali e che la situazione è molto variegata (Lopez e Guarino, 2006, in stampa).

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presenti in reparto è resa complessa da vari fattori, non ultimi importanti pregiudizi residui.

Riferimenti normativi

La prima esperienza di scuola in ospedale in Italia è rappre-sentata dal servizio scolastico per i bambini ricoverati in ospedale istituito a Milano nel 1925. Il primo documento normativo invece è la Circolare Ministeriale del 31 luglio 1936 che accoglie il progetto presentato dall’Associazione Educatrice Italiana (AEI). La Circolare si rivolge ai Prefetti di varie province d’Italia affinché rilevino la necessità della presenza di figure educative a integrazione di quel-le sanitarie nelle strutture pediatriche, nel tentativo di arginare i «danni alla carriera scolastica e i danni morali allo sviluppo armonico della personalità».

Fino agli anni Ottanta, però, la scuola in ospedale era con-siderata, e pertanto organizzata, come una «scuola speciale» e si rivolgeva a studenti dei primi cicli scolastici (scuola materna ed elementare). Nel decennio successivo, invece, si assume un’ottica diversa: il diritto allo studio dei bambini e dei ragazzi impone una continuità d’azione con la scuola territoriale. La scuola ospedaliera, pertanto, non più relegata a un intervento episodico, è scuola «nor-male» a tutti gli effetti (Pedrielli, 2000). Inoltre, come dichiarato nella Carta Europea dei bambini degenti in ospedale del 13 maggio 1986, l’istruzione scolastica è un diritto anche nel caso di ricovero breve o di convalescenza presso il proprio domicilio.

Attualmente non esiste, nel nostro Paese, una normativa organica sulla scuola in ospedale né una legge specifica che tuteli i diritti del bambino malato, nonostante le numerose proposte di legge finora presentate e mai approvate: l’attività della scuola in ospedale è regolamentata da numerose circolari del Ministero dell’Istruzione e da alcuni Protocolli d’intesa Interministeriali (tab. 14.2).

Uno dei capisaldi dei numerosi provvedimenti legislativi si trova nella Circolare del Ministero dell’Istruzione del 2 dicembre 1986, n. 345, che prende in esame la situazione delle scuole ele-mentari statali funzionanti presso i presidi sanitari allo scopo di verificarne l’organizzazione e migliorarne il funzionamento. In essa si afferma che:

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TABELLA 14.2Principali riferimenti legislativi sulla scuola in ospedale

LeggeData

emanazioneOggetto

C.M. n. 345 12/01/1986 Scuole elementari statali funzionanti presso i presidi sanitari.

C.M. n. 324 29/11/1990 Le scuole ospedaliere rientrano nella ca-tegoria delle scuole e istituzioni speciali e a indirizzo didattico differenziato.

Legge Quadro n. 104

05/02/1992 Legge-quadro per l’assistenza, l’inte-grazione sociale e i diritti delle persone handicappate.

C.M. n. 80 23/03/1993 Sono previsti abbassamenti del nume-ro dei bambini per classe in scuole con particolari finalità educative e in classi di scuola media in ospedale.

C.M. n. 353 07/08/1998 Il servizio scolastico nelle strutture ospedaliere.

Protocollo di In-tesa MPI – Sani-tà – Solidarietà Sociale

27/09/2000 Tutela dei diritti alla salute, al gioco, all’istruzione e al mantenimento delle relazioni affettive e amicali dei cittadini di minore età malati.

C.M. n. 43 26/02/2001 Estensione del diritto allo studio per le scuole in ospedale di ogni ordine e grado e, pertanto, anche per le scuole secondarie di II grado.

C.M. n. 149 10/10/2001 Specifici fondi vengono destinati per attività di formazione e sostegno di progetti in tutte le regioni italiane.

C.M. n. 84 22/07/2002 Potenziamento e qualificazione dell’of-ferta di integrazione scolastica degli alunni ricoverati in ospedale o seguiti in regime di day-hospital.

C.M. n. 56 04/07/2003 Rinnovo dello stanziamento di fondi a tutte le direzioni scolastiche regionali italiane.

Decreto Diri-genziale

13/10/2004 Viene costituito il Comitato Tecnico Nazionale per la scuola in ospedale e per il servizio domiciliare.

Protocollo d’In-tesa MIUR – Ministero della Salute

24/10/2003 Servizio di Istruzione Domiciliare.

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L’attività educativa non potrà prescindere da un’accurata program-mazione, funzionale alla diversa durata della degenza in ospedale dei singoli allievi, e dovrà concretizzarsi in interventi didattici differenziati, commisurati alle effettive possibilità di ciascun alunno, nel quadro delle condizioni cliniche e del tipo di reparto ove i bambini sono ricoverati. Risulta evidente che l’opera educativa rivolta ai bambini ospedalizzati richiede un’adeguata qualificazione professionale dei docenti, individuabile nell’approfondita preparazione psicopedagogica, garante della padronanza di metodologie diversificate da utilizzare nella prassi didattica; nell’uso consapevole delle nuove tecnologie dell’informazione e dei sussidi didattici; in una specifica conoscenza della organizzazione ospedaliera, della vita di reparto e degli effetti, temporanei o definitivi, che alcune particolari patologie o terapie possono provocare sul processo di apprendimento.

Per quanto riguarda, invece, l’assegnazione al reparto del personale docente si sostiene che:

Sarà opportuno agevolare, laddove la complessità della situazione lo richieda, la rotazione degli insegnanti nei vari reparti, sia perché una conoscenza più estesa delle problematiche connesse alle differenti tipologie di malattie facilita la collaborazione tra i docenti dei diversi reparti e tra docenti e personale sanitario, sia perché ogni nuova esperienza di lavoro comporta l’attivazione di specifiche modalità di intervento, che arricchiscono la professionalità del docente e lo stimolano all’impegno e all’aggiornamento.

Mentre relativamente agli alunni si afferma:

L’insegnante di classe compilerà mensilmente appositi moduli nei quali saranno indicati i dati anagrafici, la scuola e la classe di prove-nienza, i giorni di frequenza; avrà cura altresì di mantenere rapporti costanti con la scuola di provenienza del bambino ricoverato. Per tutti gli alunni dimessi sarà rilasciato un attestato di frequenza even-tualmente accompagnato da ogni utile informazione che l’insegnante riterrà di fornire alla scuola di provenienza per agevolare il rientro dei bambini nella classe precedentemente frequentata. Qualora la degenza del bambino dovesse protrarsi fino alla conclusione dell’anno scolastico sarà richiesto alla scuola di provenienza il nullaosta per la valutazione finale e per gli esami di licenza.

La Circolare Ministeriale n. 324, del 29 novembre 1990, fa rientrare le scuole ospedaliere nella categoria delle scuole e istitu-zioni speciali e a indirizzo didattico differenziato.

La legge-quadro n. 104 del 5 febbraio 1992, all’articolo 12 prescrive che:

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[…] negli ospedali, nelle cliniche e nelle divisioni pediatriche gli obiettivi di cui al presente articolo (assistenza, integrazione sociale e diritti delle persone handicappate) possono essere perseguiti anche mediante l’utilizzazione di personale in possesso di specifica forma-zione psicopedagogica, che abbia un’esperienza acquisita presso i nosocomi o segua un periodo di tirocinio di un anno sotto la guida di personale esperto.

La Circolare Ministeriale n. 80, del 23 marzo 1993, in ac-compagnamento al Decreto interministeriale del 14 gennaio 1993, riconoscendo la peculiarità dell’intervento formativo che si attua in ospedale, prevede, all’art. 1 comma 3, «abbassamenti del numero dei bambini per classe in scuole con particolari finalità educative».

Ma è con la Circolare Ministeriale n. 353 del 7 agosto 1998 che si riconosce l’importanza e la valenza della scuola in ospedale, affermando che essa

[…] da evento episodico, legato alla sensibilità di operatori e di isti-tuzioni, deve trasformarsi in struttura scolastica reale e organizzata, nell’ambito dell’ampliamento dell’offerta formativa prevista, come esplicazione possibile dell’autonomia organizzativa e didattica.

Attraverso di essa per la prima volta vengono date indicazioni dettagliate sulle attività didattiche e organizzative della scuola in ospedale:

Alla scuola in ospedale spettano i seguenti compiti fondamen-tali:

– promuovere l’istruzione degli alunni lungodegenti;– recuperare i ritardi cognitivi degli alunni ricoverati per brevi periodi;– programmare gli interventi per gli alunni curati in day hospital; – personalizzare la dimensione dell’accoglienza;– garantire tendenzialmente la presenza di tutti gli ordini e gradi

scolastici;– programmare il raccordo con la scuola di provenienza.

Indicazioni vengono fornite anche relativamente alla profes-sionalità dell’insegnante che opera in ospedale:

Si tratta di fare in modo che sulla indispensabile competenza profes-sionale di base — curricolare e didattica — si innesti una preparazione specifica centrata sulla conoscenza delle molteplici e differenziate metodologie di intervento educativo consone alle situazioni individuali e di renderle operative nella quotidiana prassi didattica, nonché sulle opportunità offerte alla didattica dall’uso delle nuove tecnologie.