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Scheda personaggio - Luigi Einaudi Luigi Einaudi nacque nel 1874 a Carrù in provincia di Cuneo. Statista ed economista liberale fu uno strenuo sostenitore del pro- getto della Federazione europea. Professore di Scienza delle Cinanze a Torino e alla Boc- coni di Milano è stato Senatore del Regno d’Italia nel 1919 e Presidente della repubbli- ca Italiana dal 1948 al 1955. Fin dal suo esilio in Svizzera durante la Resistenza fu membro del Movimento federalista europeo Morì nel 1961. “Nella vita delle nazioni di solito l'errore di non saper cogliere l'attimo fuggente e' irre- parabile. La necessita' di uniCicare l'Europa e' evidente. Gli stati esistenti sono polvere senza sostanza. Nessuno di essi e' in grado di sop- portare il costo di una difesa autonoma. Solo l'unione può farla durare. Il problema non e' tra l'indipendenza e l'unione; e' tra l'esi- stere uniti o scomparire. Le esitazioni e le discordie degli stati italiani della Cine del quattrocento costarono agli italiani la per- dita dell'indipendenza lungo tre secoli; ed il tempo della decisione, allora, duro' forse pochi mesi. Il tempo propizio per l'unione europea e' ora soltanto quello durante il quale dureranno nell'Europa occidentale i medesimi ideali di libertà.” (1954) “La Federazione Europea, questo e' l'unico ideale per cui vale la pena di lavorare; l'unico ideale capace a salvare la vera indi- pendenza dei popoli...” (1948) La settima elezione del Par- lamento europeo si è ormai conclusa, ma un senso di de- lusione rimane in chi dall'Eu- ropa si attende molto, molto di più. La diminuzione dell'af‐ 1luenza al voto, la crescita degli schieramenti euroscettici o di‐ chiaratamente contrari ad una maggiore integrazione politica giusti1icano questa sensazione, ma è un altro il motivo di fondo che preoccupa: cioè la dif1icoltà di collegare l’elezione del Parla‐ mento europeo alla de1inizione di un programma politico e a delle linee guida dell'Unione per i prossimi cinque anni. Quali sono i progetti e gli strumenti europei per ri- spondere alle s<ide della crisi e rilanciare lo sviluppo? Quali sono le risposte alle problema- tiche ambientali ed energeti- che? Quali sono le politiche verso il Medio Oriente, fonte principale dell'instabilità in- ternazionale, o verso la Russia, un paese fondamentale per gli approvvigionamenti di gas? Queste sono alcune delle doman‐ de cruciali per il nostro futuro alle quali avrebbero dovuto ri‐ spondere i partiti politici ed i candidati durante la campagna elettorale europea, e alle quali gli europei dovranno dare una ri‐ sposta indipendentemente dal risultato delle elezioni. Così, co‐ me sempre, saranno gli Stati na‐ zionali, ognuno sulla base dei propri interessi, a cercare di ri‐ spondere, dietro al velo del coor‐ dinamento europeo. Nella so‐ stanza resta questo, infatti, il meccanismo su cui si basa il fun‐ zionamento dell'Unione europea Publius Per un’ Alternativa Europea Giornale degli studenti dell’Università di Pavia. Informazione, riflessioni e commenti sull’Europa di oggi e di domani Universitari per la Federazione Europea Numero 2 - Luglio 2009 distribuzione gratuita Indice pag.1 Editoriale Publius pag.2 Compendio del politico europeo Davide Negri pag.4 La riforma del sistema monetario internazionale Nelson Belloni pag.5 L’Unione europea? Né unita, né europea .. parla Lucio Caracciolo Gabriele Felice Mascherpa pag.6 Quale Turchia per quale Europa? Luca Lionello pag.7 Quali iniziative per un mondo più equo? Tommaso Doria & Federico Butti Eccoci al secondo numero di Publius! Nell’editoriale di questo numero vi proponiamo una riflessione sulle elezioni europee e sulla politica europea. Gli altri articoli riguardano i rapporti tra Turchia ed Europa, la riforma del sistema monetario internazionale, l’analisi dell’Unione e il suo ruolo nel mondo e infine una nuova rubrica, “Il compendio del politico europeo.” segue a pag. 3

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Publius - per un'alternativa europea. Numero 2, luglio 2009 Il giornale degli studenti dell'Università di Pavia

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Scheda personaggio - Luigi EinaudiLuigi  Einaudi  nacque  nel  1874  a  Carrù  in provincia  di  Cuneo.  Statista  ed  economista liberale  fu  uno  strenuo  sostenitore  del  pro­getto  della  Federazione  europea.  Professore di  Scienza delle  Cinanze a Torino  e  alla  Boc­coni  di  Milano  è  stato  Senatore  del  Regno d’Italia nel 1919 e Presidente della repubbli­ca Italiana dal 1948 al 1955. Fin dal suo esilio in Svizzera durante la Resistenza fu membro del  Movimento  federalista  europeo  Morì  nel 1961.“Nella  vita delle  nazioni  di  solito  l'errore  di non saper cogliere  l'attimo  fuggente  e'  irre­parabile. La necessita' di uniCicare l'Europa e' evidente. Gli stati esistenti sono polvere senza sostanza.  Nessuno  di  essi e'  in grado di  sop­portare il costo di una difesa autonoma. Solo 

l'unione può farla durare.  Il problema non e' tra l'indipendenza e l'unione; e' tra l'esi­stere uniti  o  scomparire.  Le esitazioni  e  le discordie degli  stati  italiani  della  Cine  del quattrocento costarono agli italiani la per­dita dell'indipendenza lungo tre secoli; ed il tempo  della  decisione,  allora,  duro'  forse pochi  mesi.  Il  tempo  propizio  per  l'unione europea  e'  ora  soltanto  quello  durante  il quale  dureranno nell'Europa  occidentale  i medesimi ideali di libertà.”    (1954)“La Federazione  Europea, questo  e'  l'unico ideale  per   cui  vale  la  pena  di  lavorare; l'unico  ideale capace a salvare la  vera indi­pendenza dei popoli...” (1948)

La  settima  elezione  del  Par­lamento  europeo  si  è  ormai conclusa,  ma  un  senso di  de­lusione  rimane  in chi  dall'Eu­ropa  si  attende  molto,  molto di  più.  La  diminuzione  dell'af‐1luenza al voto,  la  crescita degli schieramenti  euroscettici  o  di‐chiaratamente  contrari  ad  una maggiore  integrazione  politica giusti1icano  questa  sensazione, ma è un altro  il  motivo  di fondo che  preoccupa: cioè  la dif1icoltà di  collegare  l’elezione del Parla‐mento  europeo  alla  de1inizione di  un   programma  politico  e  a delle linee guida dell'Unione per i prossimi cinque anni.Quali  sono  i  progetti  e  gli strumenti  europei  per  ri­spondere  alle s<ide  della  crisi 

e  rilanciare  lo sviluppo? Quali sono le risposte alle problema­tiche  ambientali  ed  energeti­che?  Quali  sono  le  politiche verso  il  Medio  Oriente,  fonte principale  dell'instabilità  in­ternazionale, o verso la Russia, un paese fondamentale per  gli approvvigionamenti  di  gas? Queste sono alcune delle doman‐de  cruciali  per  il   nostro  futuro alle  quali  avrebbero  dovuto  ri‐spondere  i  partiti  politici  ed  i candidati  durante  la  campagna elettorale europea, e alle quali gli europei  dovranno  dare  una  ri‐sposta  indipendentemente  dal risultato  delle  elezioni.  Così,  co‐me sempre,  saranno  gli Stati na‐zionali,  ognuno  sulla  base  dei propri  interessi,  a  cercare  di  ri‐

spondere, dietro al  velo del coor‐dinamento  europeo.  Nella  so‐stanza  resta  questo,  infatti,  il meccanismo  su cui si  basa il fun‐zionamento  dell'Unione  europea 

PubliusPer un’ Alternativa Europea

Giornale degli studentidell’Università di Pavia.

Informazione, riflessioni e commenti sull’Europa di oggi

e di domani

Universitari per la Federazione EuropeaNumero 2 - Luglio 2009distribuzione gratuita

Indicepag.1  Editoriale

Publius

pag.2 Compendio del politico europeo

Davide Negri

pag.4 La riforma del sistema monetario internazionale

Nelson Belloni

pag.5 L’Unione europea? Né unita, né europea

  .. parla Lucio CaraccioloGabriele Felice Mascherpa

pag.6 Quale Turchia per quale Europa?

Luca Lionello

pag.7 Quali iniziative per un mondo più equo?

Tommaso Doria &Federico Butti

Eccoci al secondo numero di Publius!

Nell’editoriale di questo numero vi proponiamo una riflessione sulle elezioni europee e

sulla politica europea. Gli altri

articoli riguardano i rapporti tra Turchia ed Europa, la riforma del sistema monetario

internazionale, l’analisi dell’Unione e

il suo ruolo nel mondo e infine una nuova rubrica, “Il

compendio del politico europeo.”

segue a pag. 3

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“Compendio del politico europeo”Domande e risposte per chi desidera far politica in Europa

Lectio I : Il nucleo federale

1) I principali momenti del processo sono noti a tutti: dalla costituzione della Ceca nel 1951, si  è passati al Mercato comune e   poi  al Mer­cato  Unico;    dopo  la  creazione  dell’Unione  europea    è stata  adottata,  con  il Trattato  di Maastricht, anche una moneta unica, l’euro. A che punto è il processo d’integrazione?

Purtroppo  dal  1992  –  dal  Trattato  di  Maa‐stricht,  cioè  dopo  che  gli  Stati  cedettero  il potere  di  batter  moneta  e  di  governare  le politiche monetarie – di passi in avanti, che avessero come contenuto la cessione di quo‐te  di  sovranità,  e quindi  come  1ine esiti  di tipo federale, non ne sono stati fatti.Il processo d’integrazione si è  fermato: anzi da quasi vent’anni il processo è avviato sulla strada dell’involuzione. Ciò è stato accentua‐to e messo in evidenza da una serie di circo‐stanze collegate in buona parte alla 1ine della guerra fredda e dell’equilibrio bipolare.Una  di  queste  circostanze  è  stata  il  conse‐guimento  di  tutti  gli  obiettivi  intermedi  – l’elezione diretta del  Parlamento  europeo  e la creazione  dell’euro  –  che  la  strategia  del “gradualismo  costituzionale”  poneva  prima di  poter  parlare  di  uni1icazione politica. Oggi il problema della cessione di  sovranità è  posto senza possibilità di rinvii o di diversioni. Una seconda circostanza è stata  il  risultato dei successivi allargamenti:  il successo economico del model‐lo  comunitario  ha  condannato  al‐l’indebolimento, 1ino alla paralisi, la compat‐tezza  e  la  capacità  decisionale  dell’Unione europea.  Bisogna prendere atto  che  l’atteg‐giamento della classe politica e dell’opinione pubblica  nei  confronti   non  solo  della  pro‐spettiva  di  un’uni1icazione  federale  dell’Eu‐ropa,  ma  di  qualsiasi  prospettiva  di  raffor‐zamento delle istituzioni dell’Unione, rimane fortemente  contrario  in  Gran  Bretagna,  nei paesi Scandinavi, nei paesi dell’Est  europeo 

ed   evolve  negativamente  anche  in  alcuni paesi tradizionalmente favorevoli.Una  terza circostanza è costituita dalla mio‐pia degli Stati nazionali che hanno scambiato il  maggior  sviluppo  delle proprie economie, dovuto  all’allargamento  del  libero mercato, alla  collaborazione  tra  Stati  membri  attra‐verso  le  istituzioni  e  all’introduzione  della moneta  unica,  per  un  proprio  successo:  i governi  purtroppo  guardano  all’Europa per realizzare i propri interessi nazionali. Se  l’Unione  europea manterrà  il quadro  at‐tuale dei processi decisionali,  le  forze spon‐tanee  sprigionate  dall’equilibrio  internazio‐nale spingeranno per  la trasformazione del‐l’Unione  in un’area di libero scambio  sotto‐posta – per ora – all’egemonia americana. 

2) Se  il processo  d’integrazione si è  fermato, chi ha la responsabilità di ridargli  vigore, Kino a prendere la decisione del “salto federale”?

Dalla costituzione della Ceca ad oggi, i prota‐gonisti  del  processo  d’integrazione  sono stati  i governi europei.  I  governi sono  i  luo‐ghi nei quali la sovranità si esprime nella sua forma più pregnante: dove il potere diventa volere. Ma proprio per questo  essi  sono an‐

che  gli  unici  soggetti  che,  in una situazione  di  emergenza, possono decidere di abbando‐narla. Di fatto, ogniqualvolta si è trattato di  far  fare un passo avanti  importante alla costru‐zione  europea  in periodi  ec­cezionali,  i  governi sono  sem‐

pre  stati  lo  strumento  decisivo.  Gli uomini di governo esercitano il potere reale, anche se la loro iniziativa non potrà manife‐starsi che in una situazione eccezionale, sulla base di una forte spinta del popolo, cioè del detentore ultimo del potere costituente, e in un clima di dibattito che coinvolgerà l’intera classe politica. 

3) Ma  nell’attuale quadro  dei 27 paesi mem­bri  dell’Unione  europea,  i  governi  potranno prendere una simile decisione?

Prima abbiamo  constatato  l’impossibilità di procedere in avanti  nel  processo  anche  con semplici revisioni dei trattati  esistenti. Biso‐

gna  abbandonare  la  prospettiva del mante‐nimento del quadro dell’Unione attuale per‐ché la volontà politica di unirsi in  un  vincolo federale potrà nascere soltanto  tra i governi di un nucleo  relativamente piccolo di Stati. Il pactum  unionis   dovrà  avvenire  fuori  dalle istituzioni  dell’Unione europea.  Pensare che un  nucleo  federale  possa  essere  realizzato all’interno  di  esse,  mediante  lo  strumento delle cooperazioni rafforzate, signi1ica tenta‐re ipocritamente di neutralizzare  l’iniziativa deviandola  su  di  un  binario  morto.  Il   loro meccanismo  prevede che gruppi di  paesi di composizione  di  volta  in   volta  diversa  si formino  per  realizzare  diversi  obiettivi;  ed esse  devono  essere  autorizzate  da  tutti  i paesi facenti parte dell’Unione europea. Tut‐to  questo  è  chiaramente  impossibile.  Per questo motivo  i paesi che avranno  espresso l’iniziativa  con  una  forte  e  irrevocabile  vo‐lontà  di  unirsi  in  un  vincolo  federale  do‐vranno adottare un “Patto federale”,  che do‐vrà essere  immodi1icabile; ma dovrà essere 

Da Senso della storia e azione politica raccolta di scritti di Francesco Rossolillo(2009, a cura di Giovanni Vigo, edizioni il Mulino)

"Chiunque decida di impegnarsi in politica per un mondo migliore ­ e non nell'intento di illustrare sé stesso o di acquisire potere ­ fa perciò stesso una duplice professione di fede, quale che sia il suo grado di consapevolezza. Egli deve credere che la parola "miglio­re" abbia, almeno virtualmente, lo stesso contenuto semantico per tutti gli uomini, sia per i contemporanei che per coloro che ver­ranno, cioè si applichi a situazioni più vicine di quella attuale ad un modello di convivenza fondato su valori condivisi da tutti. Ciò signiKica che egli deve credere all'esistenza di valori assoluti.Ed egli deve insieme credere che questi valori tendano a realizzarsi progressivamente nella storia, perché chi si batte per trasfor­mare le condizioni della convivenza non può pensare che i risultati dei suoi sforzi, nel concatenarsi degli eventi, potranno essere a loro volta la causa di irreversibili involuzioni o ritorni indietro nel cammino dell'emancipazione umana, il che accadrebbe se la storia fosse un succedersi tumultuoso e casuale di eventi contraddittori, cioè fosse priva di senso"  (p. 657)

I governi sono sempre decisivi per

fare un passo avanti alla costruzione europea

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aperto all’adesione di  tutti  coloro  che ac‐cetteranno  senza  riserve  le  linee  fonda‐mentali  della  sua  costituzione.  Altro  è l’elaborazione della  Costituzione federale: il  pactum unionis non coincide con il pac­tum  costitutionis.  È   del  resto quello che, in un contesto non federale,  è accaduto  in occa‐sione  della  ricostituzione dello  Stato  repubblicano  do‐po la seconda guerra mondia‐le in Francia  e  in Italia,  dove prima  è  stato  costituito  il governo repubblicano, e dopo gli  è  stata  data  una  costitu‐zione.

4) I governi di quali paesi  vogliono oggi lo Stato federale europeo?Il  problema non  è quello  di  distinguere  i paesi i cui governi vogliono lo Stato federa‐le europeo  da  quelli  i  cui  governi  non  lo vogliono; ma quello di individuare un qua‐dro nel quale esistono  i presupposti  per la formazione  della  volontà  di  fondare  uno Stato federale europeo. Oggi in quasi tutti i paesi manca  la  forte  volontà  politica  ne‐cessaria per costituire un nucleo  federale. Però in alcuni di essi se ci  saranno deter‐minate condizioni – che la crisi economica mondiale  sta  creando –  si  formerà questa volontà: ciò accadrà in un  gruppo di paesi con  un   forte  grado  di  omogeneità,  una forte interdipendenza economica e sociale e un  grado  avanzato di maturità  europea dell’opinione pubblica. 

5) Allora quali paesi dovrebbero comporre il nucleo?

Nell’ambito  dell’attuale  Unione  non  esi‐stono due, ma più gradi diversi di matura‐

zione  europea.  Bisogna chiarire  prima di tutto  che il  processo  dovrà avere bisogno di un  motore che gli consenta di decollare. Questo  motore  non  potrà  che  essere  la comune volontà dei due paesi che costitui‐

scono il cuore dell’Europa e la cui  storica riappaci1icazione ha  dato  inizio  al  cammino dell’integrazione europea. Si tratta  della  Francia  e  della Germania.  Se  in uno solo di essi  o  in  entrambi  non  na‐scerà la volontà di fondare il primo nucleo  di  Stato  fede‐rale,  il  processo  non   potrà 

neppure  iniziare.  Però  una federazione a due sarebbe dif1icile da go‐vernare  perché  le  divergenze  d’interessi tra  i  due  Stati  membri  non  potrebbero essere mediate dall’intervento di altri pat‐ner.  Servono  più  paesi  per  costituire  la massa  critica  necessaria  per  imprimere forza  al  processo  e  per  sostenerlo  con l’appoggio di un’opinione pubblica estesa, diversi1icata  e  matura.  Fin  dall’avvio  del processo di uni1icazione europea, si è sto‐ricamente  coagulato  attorno  a  Francia  e Germania un  gruppo di altri paesi  stretta‐mente  interdipendenti:  Belgio,  Olanda, Lussemburgo e Italia. La loro  lunga storia comune  iniziata  con  la  fondazione  della Ceca stabilisce tra di loro un forte  legame destinandoli naturalmente a questo ruolo.

6) Ma  come si  porrebbero i rapporti  tra il nucleo federale e l’Unione europea?

La  soluzione  più  semplice  che  viene  in mente è senz’altro quella  della successio‐ne del nucleo federale ai suoi Stati membri nelle varie istituzioni dell’Unione: pertan‐to,  ad esempio,  in questo  caso,  nel  Consi‐

glio e nella Commissione il nucleo avrebbe un solo rappresentante che prenderebbe il posto di quelli degli Stati membri.Una  soluzione  simile  avrebbe  l’indubbio vantaggio di permettere una regolamenta‐zione  unitaria  dei  rapporti  tra  nucleo  e Unione: però non va dimenticato che non esistono  regole  certe  quando  si  tratta  di stabilire rapporti politici, e il fenomeno di successione  tra Stati  nei  trattati  –  da una pluralità  di  Stati  sovrani  si  passa  ad   un unico  Stato  federale – è spesso una nego‐ziazione politica tra gli Stati interessati,  in questo  caso  tra nucleo  federale  e Unione europea. Infatti bisognerà ride1inire il  ruo‐lo  del  nucleo  all’interno  dell’Unione  che avrà  un  peso  maggiore  rispetto  a  quello degli Stati membri, ma soprattutto neces‐siterà  di una fase  di  consolidamento  e di affermazione  della  propria  sovranità  ap‐pena  acquisita.  Pertanto  dif1icilmente  si sottometterà  a  regole  di  coordinamento delle  politiche  estere  e  di  sicurezza degli Stati membri  e  di  “fedeltà”  della  politica estera  e  di  sicurezza  europea  alla  NATO, che  in  ultima  analisi  ne  impedirebbero una piena affermazione come nuovo  sog‐getto in grado di rispondere alle s1ide che l’Europa deve fronteggiare.  In sostanza, la nascita del nucleo  federale porrà al tempo stesso  la  questione  di  una  rifondazione anche  dell’Unione  europea,  in  modo  da salvaguardare  l’acquis communautaire  nel nuovo quadro che sarà caratterizzato dalla presenza di un forte magnete politico che ne riorienterà l’intera struttura.

Davide Negri

Il problema è individuare un

quadro dove si può formare la volontà di fondare lo Stato federale europeo

nei campi cruciali  da cui  dipende il  futuro degli europei.  Ma è evidente  che  la  som­ma  o  il  coordinamento di  decisioni  na­zionali  non può neanche  lontanamente avere  lo stesso impatto e  la  stessa  ef<i­cacia  di  una  effettiva  politica  continen­tale. Purtroppo, né il  confronto sulle candi‐dature  alla  presidenza  della  Commissione europea,  che  potranno  essere  approvate o respinte dal Parlamento europeo, né l’even‐tuale  entrata  in  vigore  del  Trattato  di  Li‐sbona potranno far uscire l’Europa da que‐sta impasse, dandole un governo democra‐tico legittimo che sia espressione di un coe‐rente progetto politico. Eppure oggi più che mai  gli  europei  dovrebbero  portare  a termine  la  "rivoluzione"  europea che  fu alla base del progetto  dei Padri fondato­

ri delle prime Comunità e che aveva nel­la  creazione  della  Federazione  europea il  suo  obiettivo  dichiarato.  Questo  per almeno  due  ragioni  principali.  La  prima consiste nel fatto che molte delle questioni che  siamo abituati  a  classi1icare  come solo italiane  sono  in  realtà  in   forme  diverse  e con vari livelli di intensità, comuni agli altri Stati europei;  basti pensare per esempio ai problemi  della  sicurezza  interna ed  inter‐nazionale,  all’immigrazione,  alla  riconver‐sione in senso ecologico della produzione e dei consumi. La seconda ragione sta invece nel  fatto  che  la  portata  sovranazionale  di queste  problematiche  e  l'evidente  inade‐guatezza  dei  governi  nazionali  nell’affron‐tarle  stanno mettendo  in  crisi  la politica  e la  democrazia  a  livello  nazionale,  trasfor‐

mandole dal campo e dalle istituzioni in cui si manifesta il legame tra la volontà genera‐le  e  il  governo  dei  problemi  nell’arena  di scontro di oligarchie  e di  tendenze populi‐ste. In questo senso la frase di Luigi Einaudi secondo cui "per gli  Stati europei, ben lungi dal competere per  la supremazia europea, si  tratta ormai di perdurare unendosi o di scomparire  come attori politici,  perché gli Stati europei, da soli, sono polvere senza  sostanza"  (in Lo  Scrittoio  del  Presidente, 1951) rimane  ancora di profonda attualità ed  è un monito a ricordare che non c’è fu‐turo  per  gli  europei  senza  la  creazione di uno Stato federale europeo.

Publius

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Il  quadro mondiale attuale  è carat­terizzato   non  solo  dagli  effetti  che  la crisi  <inanziaria  sta  producendo  sul­l’economia  reale, ma  anche  dalle  dif<i­coltà e dalle contraddizioni che minano il sistema monetario internazionale.  Le regole  che  erano  state  1issate  a  Bretton Woods  nel  1944  avevano  visto  gli  Stati Uniti, vincitori della seconda guerra mon‐diale,  imporre  le basi del sistema e  soprattutto  il ruolo di moneta guida  del  dolla‐ro,  che  avrebbe dominato  in‐contrastato  1ino alla  crisi  mone‐taria  della  1ine degli  anni  ‘60; crisi  sancita dalla  dichiara‐zione  di  Nixon del 15 agosto del 1971 che annunciava la  1ine della conver‐tibilità del dollaro  in  oro  e  l’inizio del co‐siddetto  dollar  standard.  Negli  anni  suc‐cessivi, questo tipo di regime ha permesso agli Stati  Uniti di sfruttare il proprio status di  superpotenza economica e  politica  del mondo  occidentale  scaricando  sul  resto del mondo  i  costi del  suo sviluppo, svalu‐tando  e  rivalutando  il   dollaro  in  base  ai propri  interessi.  Oggi,  che  i  rapporti  di forza  nel  mondo  stanno  cambiando  pro‐fondamente, soprattutto  per  l’ascesa della Cina e dell’India – ma anche dei paesi pe‐troliferi, che non possono più  essere igno‐rati  –  questo  sistema  che  ruota  intorno agli  USA  non  appare  più   sostenibile,  so‐prattutto perché  l’America  è  oggi  il  paese più indebitato  del mondo  e  presenta una bilancia dei pagamenti fortemente passiva e  un  debito  pubblico  in  continua  ascesa. Anche  l’emergere,  nonostante  l’assenza politica dell’Europa,  dell’euro  sui  mercati mondiali – che offre possibilità di diversi‐1icazione monetaria  per  quanto  riguarda sia  le  riserve  nazionali,  sia  gli   scambi commerciali  – ha contribuito  a mettere  in crisi  il  ruolo  del dollaro.  Già  alcuni  paesi sudamericani  hanno  deciso  di  scindere  i legami  con  la  moneta  statunitense,  dopo l’esperienza  disastrosa  della  fase  della cosiddetta dollarizzazione  della  loro  eco‐nomia, e lo stesso yuan cinese si è almeno in  parte sganciato dal cambio  con il dolla‐ro.  Proprio  la  posizione  particolare della Cina, grande potenza emergente sotto ogni punto di vista,  che rispetto agli Stati Uniti ha un  rapporto  di  complementarietà eco‐nomica e di potenziale con1littualità politi‐ca,  spiega  la  ragione  dell’intervento  del Presidente  della  Banca  centrale  cinese 

Zhou Xiaochuan lo scorso marzo per chie‐dere  l’introduzione di  una  nuova moneta di  riserva mondiale, di  fatto  proponendo, anche  se non a brevissimo termine,  la  ri‐forma  del  sistema  monetario  internazio‐nale.  Zhou,  infatti,  da  un lato  rileva  l’ina‐deguatezza del sistema attuale per gestire gli  enormi  1lussi  monetari  generati  dalla globalizzazione e l’anacronismo delle  isti‐

tuzioni  interna‐zionali   su  cui si  basa  (basti pensare  che nel  consiglio d e l  F o n d o Mon e t a r i o Internaziona‐le il voto della Cina  pesa  un q u a r t o  d i quello  statu‐n i t e n s e ,  l a metà di quello giapponese  e 

poco più di  quello italiano). Ma soprattut‐to pone il problema di trovare una nuo­va moneta di riserva mondiale, che non sia quella di un singolo  paese  –  legata ad interessi nazionali speci1ici – per    evitare le distorsioni provocate dalla svalutazione o  rivalutazione arbitraria della moneta di riferimento del sistema e assicurare così la stabilità degli scambi 1inanziari e commer‐ciali a livello globale, facilitando lo  svilup‐po economico. 

Come  scrive  Xiaochuan,  “I  paesi  che emettono monete di  riserva  sono  costan‐temente davanti  al  dilemma  tra  il  conse‐guimento dei propri  obiettivi nazionali e il far  fronte    alla  domanda degli  altri  paesi  che chiedono  moneta  di riserva.  Da  un  lato  le autorità  monetarie  non possono  semplicemente focalizzare  l’attenzione sugli   obiettivi  nazionali  liberandosi  dalle responsabilità  internazionali,  dall’altro non possono perseguire obiettivi nazionali e internazionali allo stesso tempo… Esiste ancora il dilemma di Trif1in, e cioè  i paesi che emettono la moneta di riserva di rife‐rimento  non  possono  al  tempo  stesso mantenere  il  suo  valore e  garantire  la  li‐quidità monetaria mondiale”. 

Zhou  Xiaochuan  propone  perciò  di allargare  il  paniere  di  monete  che  com‐pongono i  Diritti Speciali di Prelievo  (oggi esse sono il dollaro, l’euro, lo yen e la ster‐lina), di iniziare ad utilizzare questi ultimi come moneta di  riserva  sovranazionale  e nel  tempo  af1idare al FMI  parte della  ge‐stione delle riserve dei paesi partecipanti. E’ una proposta che si rifà  in parte a quel‐

la di Keynes del 1940 di introdurre il  ban‐cor, moneta virtuale basata  sul valore   di 30 beni di prima necessità, che fu  scartata a Bretton Woods.

La Cina non sembra però aver  fretta,  e si dimostra cauta nel  fare  le sue proposte attraverso Zhou Xiaochuan e   nell’attacca‐re il  dollaro e gli  USA,  dato  il complesso intreccio di  interessi  che lega i  due paesi. Si  tenga  conto  che  gran  parte  delle  sue immense riserve monetarie (per un valore di  oltre  duemila miliardi  di  dollari)  sono espresse  proprio  in moneta  Usa,  che  la Cina è il più grosso investitore in titoli del debito  pubblico  americano,  che  gli  inve‐stimenti cinesi negli Stati Uniti sono eleva‐tissimi.  Ciò  non  toglie  che  attraverso  le parole del  Presidente della sua banca cen‐trale  la Cina  dimostri  la propria  preoc­cupazione  per  la  situazione  mondiale che  “ri<lette  vulnerabilità  e  rischi  si­stemici nel sistema monetario interna­zionale”. E che quindi auspichi “una gran‐de visione politica” e un “grande coraggio” per iniziare ad attuare una riforma globa‐le.

In  questo  dibattito  l’Unione  europea brilla per  la  sua assenza. Anche a  livello internazionale  è  evidente  la  tendenza  in atto  in Europa di  un  ritorno  al nazionali‐smo  invece  che  ad una politica di  raffor‐zamento del processo  di uni1icazione.  Ba‐sti pensare che, 1inora,  i paesi dell’Ue han‐no spesso preso decisioni divergenti all’in‐terno del FMI, quando invece, uniti, avreb‐bero  potuto  essere  determinanti  nell’im‐porre un particolare orientamento.  In ge‐nerale  l’Europa  e,  in  particolare  i  paesi dell’area  euro,  se  non  fossero  divisi,  po‐

trebbero  avere in effetti un  ruolo  di  riequili‐brio monetario  all’in‐terno  del  sistema  in‐ternazionale;  ma  ci vorrebbe  uno  Stato federale  europeo,  e 

quindi un  governo,  in  grado  di  fare  una vera politica monetaria e di agire con  una voce sola.  Nelle attuali  condizioni,  invece, l’euro,  non avendo  una politica monetaria alle spalle,  perde gran parte delle sue po‐tenzialità.

L’Europa  per ora  rinuncia  quindi  a giocare un ruolo di riequilibrio a livello mondiale  sia  in  campo monetario,  che in campo economico e politico,  lascian­do  agli  altri  protagonisti  della  scena mondiale  il  compito  di  farsene  carico. Quello  che si  può dire è che, sicuramente, oggi, quella  grande visione politica e quel coraggio necessari per una riforma globale del  sistema,  cui  si  richiama  Zhou   Xiao‐chuan, non esistono in Europa.

Nelson Belloni

La Cina non sembra aver fretta, e si dimostra cauta nel

fare le sue proposte ...

La riforma del sistema monetario internazionale

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L’Unione europea? Né unita né europea… parla Lucio Caracciolo.

Lucio  Caracciolo  è  considerato  uno dei maggiori  esperti  italiani  di  geopolitica. Giornalista e docente, ex capo redattore di  Micromega,  ha  fondato  e  dirige  dal 1993 Limes, la rivista italiana di geopoli­tica.Ad un convegno  organizzato a Palazzo Ma‐rino dal Movimento Federalista Europeo  in collaborazione con il  Comune di Milano si è confrontato  con  i  candidati  all’europarla‐mento,  svolgendo  la  relazione  iniziale sul‐l’attuale  situazione  politica  in  Europa: un’analisi articolata e precisa,  a  tratti pun‐gente.L’incipit  della  relazione  ha  subito  lasciato poco spazio alla dilagante ipocrisia e all’au‐tocompiacimento  della  classe  politica  dei paesi  europei:  l’Unione  europea  non  è certamente  europea  ed  è  ben  lontana dall’essere un’Unione.Dalla  1ine  del sistema bipolare  a oggi  si  è veri1icato un continuo moltiplicarsi di fron‐tiere  nello  spazio  geogra1ico  che  va  dal‐l’Atlantico  agli Urali: Stati  nuovi,  semi‐Stati ed  entità dif1icilmente classi1icabili.  Solo la metà  dei  soggetti  del  continente  aderisce, con modalità differenti, allo spazio comuni‐tario,  mentre    altri  paesi  permangono  in orgogliosa neutralità,  come  la Svizzera  o  i paesi dell’area nordica, e altri ancora, come i  Balcani,  sono  troppo  instabili   per  poter esser  integrati.  Vi  è  poi  l’area  dell’Europa orientale,  con  gli  Stati  nati dalla  disgrega‐zione  del  blocco  sovietico,  considerati  dai russi  in  “libertà  provvisoria”;   alcuni  sono già in procinto di rientrare nell’ambito del‐l’impero russo, come ha dimostrato la guer‐ra  georgiana  dell’agosto  2008.  Insomma, una vera e propria “macedonia” di  frontie‐re!Con  mezzo  continente  fuori  dallo  spazio comunitario,  l’UE non può ancora conside‐rarsi  europea,  ma perché  non è  possibile attribuirle  a  pieno  titolo  l’appellativo  di unione?  L’UE si  può  de1inire  come un  ac‐cordo  istituzionalizzato  tra  paesi  membri 

che mettono  in comune risorse e sovranità per poi contendersele nuovamente, sempre a  partire  dall’esercizio  delle  rispettive  so‐vranità  nazionali,  sulla base  dei rapporti di  potere  reciproci.  A  dispetto  di  quanti molti dicono, sia tra i critici che tra gli  entu‐

siasti dell’UE, non è l'Unione che determina gli  Stati,  ma  sono  gli  Stati  a  determinare l'Unione: chi prende le decisioni è il Consi‐glio, ovvero  l’organo  che riunisce i  governi degli Stati, e non la Commissione. Pertanto, anche  se  la  sovranità  degli  Stati   è  erosa costantemente, essa non viene ricostituita a livello europeo, e questo mina la legittimità delle  istituzioni  europee  e  delle  decisioni prese a quel livello.La  classe  politica  e l’opinione  pubblica, invece,  sono  vittime di questo  arti1icio  retori‐co  e  di  questa  defor‐mazione  ideologica, per  cui  vengono  attri‐buite  all’Unione  politi‐che che in  realtà sono gli Stati a stabilire ed attuare;  e  questa  situazione  è  una  delle ragioni principali della scarsa affezione del pubblico  nei confronti  dell’Europa.  Inoltre, le istituzioni create a livello europeo nega‐no  di  fatto  i  principi  fondamentali  della democrazia così come è stata conquistata a livello degli Stati nazionali: non può esiste‐re infatti un vero  parlamento se non all’in‐terno di un quadro  statuale in cui vengono rispettati gli equilibri  tra  i  diversi  poteri  e 

in   cui  il  popolo  esercita  la  sovranità.  Per questo il Parlamento europeo è ridotto a un  forum di  rappresentanti  degli  Stati, ed è privo di un reale potere.A questo grave de1icit  strutturale dell’Unio‐ne  si  somma il  fatto  che  i  successivi  allar‐gamenti l’hanno resa sempre meno omoge‐nea, tanto che l’unica caratteristica che oggi sembra accomunare tutti i paesi membri è, paradossalmente,  la  mancanza  di  un  pro‐getto condiviso. In particolare,  con  gli ulti‐mi  ingressi,  hanno  aderito  paesi  che  non 

solo non condividono la 1inalità  dell’integrazio‐ne, ma che  non voglio‐no  nemmeno  mettere in   discussione  la  pro‐pria  sovranità  statale. Tutto  il  contrario  di quanto  avveniva  nei 

primi anni  Cinquanta,  agli  albori della  Co‐munità  europea: i sei  paesi  fondatori  e le rispettive leadership avevano ben chiaro le 1inalità e gli obiettivi del  progetto, nato per la volontà profonda di risparmiare alle ge‐nerazioni  future  la  tragedia  della  guerra 

appena terminata.E’  questo  il  nodo  centrale  dell’europeismo forte,  o  meglio,  del  pensiero  federalista: l’idea era quella di superare de1initivamen‐te  la  divisione dell’Europa  in Stati  sovrani contrapposti creando un quadro normativo e istituzionale in grado di rendere impossi‐bile  la guerra  sul continente.    Era un pro‐getto  estremamente  ambizioso,  che  ora  è scomparso  dal  dibattito  pubblico,  a  parte 

pochissime  eccezioni. Ancora  nel 1994,  inve‐ce,  il  presidente  del gruppo  parlamentare della  CDU/CSU  (il  par‐tito  democristiano  te‐desco,  allora  al  gover‐no) Wolfgang Schäuble, 

e  un altro  importante  esponente,  Karl La‐mers,  presentarono  al  Bundestag  un  pro‐getto  dettagliato  in   vista  della  creazione dell’euro,  proprio  rifacendosi  al  progetto originario dei padri fondatori e invitando a riformare  l’Unione  europea  sulla  base  del modello  federale.  I  cinque  Stati  fondatori più omogenei (Francia, Germania e Benelux –  l’Italia  infatti  era  troppo  lontana  dal  ri‐spettare i criteri economici e 1inanziari ba‐silari)   avrebbero  dovuto  avviare  questo 

processo, per realizzare una vera unità po‐litica  (oltre  che  economica)  e  militare  a livello europeo.Analogamente,  nel  2000,  l’allora  ministro degli  esteri  tedesco  Joschka Fischer,  in  un famoso  discorso  tenuto  all’Università Humboldt di Berlino propose di creare uno Stato  europeo,  simile  nella  struttura  alla Repubblica Federale Tedesca. Fischer parlò a titolo personale, in quell’occasione, e non come rappresentante del governo  tedesco: si presentò  infatti  in scarpe da  tennis, per poter parlare quasi come un federalista! In ogni  caso,  fu  un  discorso  di  rottura,  che però,  purtroppo,  rimase  isolato  in Germa‐nia  e  ricevette  un’accoglienza  tiepida  in Francia.Oggi non solo mancano progetti forti, ma è carente la leadership politica, nessuno Sta‐to sembra avere la capacità di proporsi co‐me  guida  del  processo  di  integrazione,  e, soprattutto,  il  motore  franco  tedesco  in questa fase non funziona più. Contempora‐neamente, stiamo assistendo alla perdita di in1luenza  da  parte  americana  sul   nostro continente: il vincitore della guerra fredda, 

L’unica caratteristica che accomuna oggi tutti i paesi

membri è, paradossalmente, la mancanza di un progetto

condiviso.

    L’articolo seguente  è  la  rielaborazione  della  rela­zione  tenuta dal Prof.  Lucio Caracciolo al convegno “L’Europa  di  fronte  alle  sKide  del  nuovo  quadro mondiale:  al  bivio  tra  unità  e  disgregazione”  ­  8 maggio 2009, Palazzo Marino, Comune di Milano

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Il  rapporto  tra  Europa  e  Turchia  è ormai arrivato ad un bivio fondamenta­le.  Le  scelte  che  verranno  prese  nel prossimo  futuro  determineranno  non solo gli  equilibri  in Medio Oriente, ma saranno  decisivi  anche  per  il  destino del processo di integrazione europea. 

Nel 2005, dopo  il  Consiglio  europeo di Stoccolma,  sono  iniziate  le trattative uf1i‐ciali per l’ingresso della Turchia nell’Unio‐ne. Le condizioni 1issate da Bruxelles sono 

le  stesse  poste  ad  ogni  altro  candidato: riformare e rafforzare  le istituzioni demo‐cratiche ed  adeguarsi  alle  condizioni eco‐nomiche e politiche stabilite dai criteri di Copenaghen; in particolare è stato chiesto alla Turchia      di  riconoscere  Cipro ed il genocidio  degli  Armeni.  Nel  complesso  si tratta di  impegni molto dif1icili da rispet‐tare per  lo  Stato  turco,  specialmente per quanto  riguarda  il  riconoscimento  delle proprie colpe recenti, che comportano una condanna  severa  del  nazionalismo.  D’al‐tronde  proprio  qui  si   gioca  il  futuro  del paese  e  la  sua  adesione  de1initiva  ad  un modello di politica democratica e di socie‐tà aperta. 

La  Turchia  oggi  vive  un  periodo di profonde  lacerazioni  interne  che  ac­compagnano il  processo di  trasforma­zione in corso. L’alternativa è tra la deriva antidemocratica  nelle  forme  dell’estremi‐smo  islamico  o,  anche  per  reazione,  del nazionalismo fascista – e la direzione trac‐ciata  dalle  recenti  riforme  del  governo Erdogan,  soprattutto  in materia  di  laicità dello  Stato  e di libertà di stampa, sembra rendere  molto  concreto  questo  rischio  –; 

oppure  la vittoria  delle  forze moderate  e progressiste che spingono verso una piena integrazione con  l’Occidente  ed il  supera‐mento  delle  ataviche  contraddizioni  che impediscono  al  paese  di  valorizzare  le proprie risorse. Ciò che è certo, comunque, è che l’eredità di Ataturk non basta più alla Turchia. Le istituzioni, gli equilibri di pote‐re,  i  modelli  politici  che  i  turchi  hanno seguito  e  riprodotto  per  quasi  un  secolo non assicurano più  alla società turca né la 

prosperità economica, né tan‐to  meno  la  spinta  ideale  per guardare  con  serenità  e  de‐terminazione al futuro. Queste  contraddizioni  sono ancora  più  evidenti  se  si  os‐servano  da  vicino  le  scelte politiche  e  le  riforme  istitu‐zionali   degli  ultimi  anni.  In‐cassato  il  sì   dell’euroburoca‐zia  alla  candidatura  all’Unio‐ne,  il  governo  Erdogan  si  è impegnato  in  una  serie  di  ri‐forme costituzionali piuttosto ambivalenti. Il  progetto politi‐co  portato  avanti   dall’AKP consiste proprio nel cercare di combinare,  in   una  visione dif1icile  da  comprendere  per 

gli  europei,  i  principi   della  tradizione islamica  con  quelli   dell’antistatalismo  li‐berista.  Fra i punti  fondamentali della  ri‐forma  costituzionale  compaiono  da  una parte l’affermazione dei diritti individuali, soprattutto  economici,  ed  il riconoscimento  delle  au‐tonomie  locali;  dall’altra l’elezione  diretta  del  Pre‐sidente  della  Repubblica, l’aumento  delle  decisioni da prendere a maggioran‐za  semplice  ed  un  ridi‐mensionamento dei poteri della Corte Costituzionale,  da sempre ba‐luardo della difesa della laicità dello Stato. Ancora  irrisolte  rimangono,  inoltre, sia la questione  del  “crimine  di  attentato  al‐l’identità nazionale turca” prevista dall’ar‐ticolo 301 del codice penale, sia   l’effettiva devoluzione dei poteri di  autogoverno alle regioni  orientali  a  maggioranza  curda. Resta in1ine dif1icile sapere  se  davvero  la riforma  costituzionale  riuscirà  ad  essere approvata. La forte contrarietà del partito di  opposizione  e del Presidente della  Re‐pubblica getta infatti molte ombre su que‐

sto   progetto perseguito da Erdogan. Inol‐tre, se anche tutto ciò passasse,  non sem‐bra  però  suf1iciente    per  dare    risposte strutturali  e  precise  alla  crisi  del   paese, che è soprattutto una crisi di identità. 

Sarebbe  super<iciale  liquidare  il problema della vocazione europea del­la Turchia  con un semplice sì  o con un no.  Come la  Russia,  così     la Turchia  è  un paese  a  metà  tra  l’Europa  e  l’Asia,  ed  è proprio  questa  caratteristica  a  renderla così ricca ed  importante. Ma ciò che lascia perplessi  è la diagnosi sullo stato di  salute delle  sue  istituzioni  democratiche  ed  il grado di  maturità della coscienza civica. Il processo di modernizzazione e di laicizza‐zione che ha reso la Turchia un unicum nel panorama degli Stati musulmani, d’altron‐de, è stato reso possibile proprio da quello stesso esercito che fa ancora del nazionali‐smo  il  suo  baluardo  e  che ha  impedito  il pieno  radicamento  nel paese delle  istitu‐zioni democratiche e del pensiero liberale. Per questo, la strada da compiere per rag‐giungere i futuri partner europei sulla via della democrazia è ancora lunga  e richie‐derà  tempo.  L’importante  però è  che  il paese non si perda  lungo il percorso, e questo dipenderà  non  solo dalle  capa­cità della politica e della società turche, ma  anche  dalle  scelte  del  vecchio con­tinente.  L’atteggiamento  che  l’Unione eu‐ropea ha dimostrato negli  ultimi anni ver‐so la   Turchia è stato infatti profondamen‐te  irresponsabile.  L’assenza  di  un   vero 

progetto  politico  ha  spinto l’Unione  ad  uno  sconside‐rato  processo  di  allarga‐mento che ha di fatto bloc‐cato  lo  slancio  verso  l’uni‐1icazione,  riducendo  l’Eu‐ropa a poco più di un gran‐de mercato unico.  Non de‐ve allora stupire che la bu‐

rocrazia europea,  sostenuta da paesi anti‐federalisti  come  la Gran Bretagna  e dalle pressioni  statunitensi,  abbia  accettato  la candidatura  della  Turchia  senza  porsi  il problema  delle  conseguenze  che  questa adesione determinerebbe in  assenza di un precedente approfondimento politico. Allo stesso  tempo  molti  leader  europei,  biso‐gnosi di  rassicurare  le opinioni pubbliche nazionali e  spaventati dai problemi interni della  Turchia,  ri1iutano  pubblicamente l’ingresso  di  questo  paese  nell’Unione.  In effetti, nel caso di una piena adesione oggi 

La Turchia oggi vive un periodo di profonde la-cerazioni interne che ac-

compagnano il processo di trasformazione in corso

un tempo promotore dell’integrazione,  si è allontanato dall’Europa, mentre la Rus‐sia,  miracolosamente  sopravvissuta,  sta espandendo la propria in1luenza a comin‐ciare  dai   nuovi  “partners”  dell’Europa occidentale.

Il bilancio che se ne può trarre, quindi,  è che  l’Europa  non  sta  procedendo  verso una maggiore  unità, ma nemmeno  si sta veri1icando un processo  di disgregazione “forte”:  l’Europa del 2009 è ferma in una zona grigia e intermedia fatta di compro‐

messi,  di  blando  coordinamento  tra  go‐verni, di indecisione istituzionalizzata.Una prospettiva, a nostro avviso, per nulla allettante... 

Gabriele Felice Mascherpa

Quale Turchia per quale Europa?

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della Turchia alle istituzioni europee, que‐ste diventerebbero (viste le dimensioni del paese,  che  ben  presto  supererà  anche  la Germania  in  termini  di   popolazione,  e quelle del suo esercito, già oggi il  più  forte rispetto  a  quello  degli  altri  membri  del‐l’Ue)  dipendenti  dall’andamento  di  un paese  politicamente  instabile,  ancorato  a logiche nazionaliste ed in preda a profondi squilibri   sociali  ed  economici.  In  realtà anche  i  nuovi  membri  dell’Europa  cen‐tro‐orientale  presentano  caratteristiche simili;  ma  queste  nel  caso  della  Turchia sono  molto  più  accentuate.  D’altro  canto ri1iutare a questo punto di proseguire sul‐la strada dell’integrazione dello  Stato  tur‐co  in  Europa  darebbe  un  colpo  mortale alla  prospettiva  di  una  sua  de1initiva  de‐mocratizzazione e condannerebbe le forze progressiste interne ad una sicura e de1ini‐tiva scon1itta.

Da un certo punto di vista, avendo l’al‐largamento  del  2005  reso  comunque  im‐possibile  ogni  ulteriore  approfondimento politico  all’unanimità,  verrebbe  quasi  da domandarsi  se  non  valga  comunque  la pena accogliere la Turchia già adesso per appro1ittare dei vantaggi economici e stra‐tegici  che  la  sua  adesione  sembrerebbe garantire.  Ma  i  rischi  sarebbero  enormi. Innanzitutto,  l’opinione pubblica europea, ancora  fortemente  con‐traria,  1inirebbe  per scostarsi  ancora di  più dal  progetto  europeo. Inoltre, l’adesione della Turchia  ad  un’Europa mercato,  priva  di  uno nucleo  politico,  po‐t r e bbe  ve ramen t e sconvolgere  in   breve tempo  l’intera  Unione, che già adesso fatica a funzionare e a tute‐lare  le conquiste  raggiunte.  Anche perché è prevedibile  che i  turchi,  per quanto be‐ne1icati  in termini di democrazia e benes‐sere,  sarebbero  portati,  ancora  più  dei paesi  dell’Est,  a  ricambiare  l’Unione  con una  politica  nazionalista  e  a  ri1iutare  le 

future  riforme  di  cui  l’Europa  mercato avrà  comunque  bisogno  anche  dopo  Li‐sbona. Benché  il  futuro dell’integrazio­ne  europea  stia  tutto  nel  ruolo  delle avanguardie  e  nell’ipotesi  delle  due velocità,  è  sicuramente  meglio  che  la creazione del  nucleo federale  avvenga in  un  quadro  comunitario  ancora  va­

gamente  stabile  ed  omoge­neo, e che non debba diven‐tare l’extrema ratio  a  fronte del  crollo  dell’edi1icio  del‐l’Unione.  Infatti,  per  quanto possa  sembrare  suggestiva la  possibilità  che  l’ulteriore crisi  delle  istituzioni  euro‐pee, determinata dalla piena adesione  della  Turchia, spinga  un’avanguardia  di 

Stati verso la scelta de1initiva dell’uni1ica‐zione, vale davvero la pena di augurarsi il “tanto peggio, tanto meglio”?

Certo    che  se  si  creasse  in  tempi brevi un’Europa politica tra pochi Stati, l’adesione  della  Turchia  al  mercato  e alla moneta europea  sarebbe  un  gran­de vantaggio  per  tutti.  La Turchia 1inal‐

mente  potrebbe  agganciarsi  al  sistema occidentale  ed   iniziare  un  ulteriore  pro‐cesso di crescita civile e democratica. Dal‐l’altra parte l’Europa unita godrebbe di un partner  prezioso  da  integrare  sempre  di più e con cui realizzare una politica in  Me‐dio Oriente  tutta volta  alla stabilità e allo sviluppo  di  quella  regione.  Ci  troviamo davanti  ad    una speranza dif1icile da rea‐lizzare. Ma  il  progetto  politico  è  buono  e può  funzionare.  L’Europa  ha  bisogno  di farsi Stato per se stessa e per  il mondo. E’ quanto richiede  la politica della realtà.  Se invece si vuole cedere all’opportunismo o al  buonismo  ben  vengano  nell’  “Europa che non  c’è” tanto la Turchia, quanto Israe‐le, la Russia e tutti gli altri. Il  premio Nobel Pamuk  da  anni  invita  i  paesi  europei  ad accettare la Turchia nell’Unione. Non è con i facili sì o con i drastici no che si può ac‐cogliere il  suo  invito. L’unica risposta con‐vincente può essere data dalla rivoluzione interna che l’Unione europea deve  realiz‐zare,  creando uno Stato federale, a partire da un’avanguardia di paesi.

Luca Lionello

Sarebbe superficiale liquidare il problema della vocazione europea della

Turchia con un semplice sì o con un no.

Quali iniziative per un mondo più equo?

La crisi 1inanziaria ha messo in  discussio‐ne  le politiche e  i modelli  economici  svi‐luppatisi  negli  ultimi  venti  anni;  ora,  il fatto che si ritorni a parlare della necessi‐tà di un mondo più equo e di nuovi model‐li  di sviluppo è il sintomo che qualcosa sta cambiando.  Attorno  a  questo  tema  e all'analisi delle possibili iniziative con­crete  in questa direzione si è incentra­ta  la  conferenza del Professor Alberto Majocchi (presidente dell'ISAE) duran­te  il  dibattito   tenutosi  lo   scorso  20 

Aprile in aula del  '400 dal titolo "Quali iniziative per  un mondo più equo?".  In termini generali,  spiega Majocchi, le  stra‐tegie  economiche  degli  ultimi  vent’anni avevano  l'obiettivo  di  garantire  l'ef1icien‐za  con  l'idea  che non  fossero  necessarie misure  di  politica  economica  perché  il mercato  era  in  grado  di  risolvere  tutti   i problemi.  Quello  che  era  stato  chiamato da Stiglitz  il "Washington  consensus" dava per scontato che, grazie a questi principi e all'egemonia  americana,  il  mondo  fosse 

avviato  verso  la  1ine della  storia e  il rag‐giungimento  del  benessere  per  tutti.  La globalizzazione rendeva possibile  un em‐brione  di mercato mondiale  che aveva  il proprio fondamento nel “governo” ameri‐cano del  mondo. Effettivamente, con l'aiu‐to  delle  straordinarie  innovazioni  tecno‐logiche  nel  campo  dell’informazione  e delle comunicazioni, ma grazie anche alle politiche americane relative alla liberaliz‐zazione  dei  movimenti  di  capitali  e  dei mercati  internazionali e alla presenza del 

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dollaro come moneta “mondiale”  ‐ garan‐tita dalla potenza egemone‐, è stato  pos‐sibile  un  forte  aumento  della  ricchezza mondiale.  Da una parte,  nei  paesi  emer‐genti  come  Cina  e  India,  due  miliardi  e mezzo di persone hanno avuto  la possibi‐lità di migliorare le proprie condizioni di benessere e dall’altra i paesi ricchi hanno potuto ottenere beni di consumo a minor costo. Questo modello tuttavia ha mostra‐to ora i suoi limiti e la crisi ha rappresen‐tato proprio il  fallimento del governo uni‐laterale del mondo. Infatti, se la ricchezza globale  è  cresciuta,  al tempo  stesso  è  aumen­tato  anche  il  divario tra  ricchi  e  poveri  e non  si  è  realizzata  una redistribuzione  su  scala mondiale.  Basta  osser‐vare  infatti   che  la  per‐centuale di persone  che vivono  in   condizioni  di povertà è salita al  40% (ri‐spetto  al  36%  del  1981)  e  più  del  16% della popolazione mondiale vive in  condi‐zioni  di  povertà  estrema.  La  prospettiva verso  cui  bisogna  indirizzarsi  è  quindi quella di un mondo  più  equo  e di  un  go‐verno  multilaterale  dell'economia  mon‐diale. In quest'ottica l'Europa sarebbe l'area del mondo in grado di offrire una "balance of power" rispetto agli Stati Uniti. Se nasce­rà un nuovo modello di sviluppo, infat­ti,  questo  potrà  sorgere  in  Europa  e avere  come  base  il  modello  sociale europeo, che si contrappone al model­

lo americano e asiatico. Per uscire dalla crisi,  tuttavia, l’Europa non  può utilizzare le politiche  tradizionali ma  deve puntare sull’innovazione  e  quindi  lanciare  una politica di  investimenti  pubblici  e  di  so‐stegno  agli  investimenti  nella  ricerca, nell’istruzione e nella  formazione.  Infatti non  è  possibile  competere  con  i  paesi emergenti sul  livello dei prezzi,  e inoltre la  delocalizzazione  della  produzione,  se da una parte è una logica di mercato, dal‐l’altra  è  un  fenomeno  inevitabile  se  vo‐gliamo  che  il  resto  del  mondo  cresca  e 

raggiunga  livelli  di  be‐nessere simili ai nostri. E’  necessario  quindi puntare  su  qualità  e sostenibilità  ambienta‐le senza  innescare una competizione  al  ribas‐so che metta in discus‐sione  le  conquiste  so‐ciali ottenute negli anni 

passati.  Tuttavia  nessuno dei  paesi  europei  è  in   grado  di  portare avanti questi investimenti perché i bilanci sono  limitati e ci sono i vincoli  alla 1inan‐za  pubblica stabiliti  dal  Trattato di Maa‐stricht. Se  si vuole realizzare un simile piano  di  crescita  sostenibile  è  quindi necessario che esso venga  elaborato a livello europeo e <inanziato con risor­se  stanziate sempre a  livello  europeo, ad  esempio con  la creazione di un grande prestito europeo per lo sviluppo 1inanzia‐to  utilizzando  la  forza  dell’euro  sui mer‐cati internazionali ed entrando  in compe‐tizione con  il dollaro. Un  altro progetto 

dovrebbe  riguardare  il  lancio  di  un “piano Marshall”  per  l’Africa,  per for­nire  i  capitali  per   lo  sviluppo  a  que­st’area che pone non solamente una que‐stione etica ma anche un problema politi‐co dato che se non  siamo in grado di aiu‐tare i paesi più poveri i problemi di immi‐grazione  si  moltiplicheranno  nel  tempo. Questa  crisi  tuttavia  ha mostrato  anche l’impotenza  dell’Europa,  che  neppure  il Trattato di Lisbona in  via di approvazione potrà  migliorare.    L’elemento  cruciale  è infatti quello  di  fondare  un potere euro‐peo creando uno Stato federale in Europa. La  questione  centrale  per  noi  europei, oggi,  ruota  quindi  intorno  alla  domanda su chi debba prendere l’iniziativa politica per  creare  le condizioni  che permettano di  realizzare  gli  Stati  Uniti  d’Europa.  E’ evidente  che  la  struttura  dovrà  seguire uno  schema  a cerchi  concentrici,  con  un nucleo  centrale  che  decide  di  federarsi attuando  politiche  comuni,  e  un  cerchio più ampio che mantiene il  mercato comu‐ne.  L’iniziativa  in   tale  senso  dovrebbe essere diffusa e una responsabilità spetta senza dubbio  alla classe intellettuale, alla classe  sociale.  Fino a  quando  non  esi­sterà una vera Federazione europea, la politica continuerà a  regolarsi  in base al  potere  nazionale  e  quindi  non  po­tranno  esistere  politiche  europee  de­gne di tale nome.

Tommaso Doria & Federico Butti

“La prospettiva verso cui bisogna indirizzarsi è

quindi quella di un mondo più equo e di un governo multilaterale dell'econo-

mia mondiale.”

Publius - Per un’alternativa europeaNumero 2 - Luglio 2009

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Direttore responsabile: Laura FilippiRedazione: Valentina Barioli, Nelson Belloni, Federico Butti, Martina Cattaneo, Tommaso Doria, Laura Filippi, Gianmaria Giannini, Luca Lionello, Gabriele Mascherpa, Laura Massocchi, Davide Negri, Carlo Maria Palermo, Giulia Spiaggi.Stampato presso: Tipografia P.I.M.E Editrice S.r.l

Puoi trovare Publius, oltre ai vari angoli dell’Università, anche presso: bar interno facoltà di Ingegneria, bar facoltà di Economia, mensa Cravino, sala studio San Tommaso, bacheca A.C.E.R.S.A.T cortile delle statue.

Periodico trimestrale degli studenti dell’Università di Pavia. Informazioni, riflessioni e commenti sull’Europa di oggi e di domani.Registrazione n. 705 del Registro della Stampa Periodica - Autorizzazione del tribu-nale di Pavia del 19 Maggio 2009

Iniziativa realizzata con il contributo della Commissione A.C.E.R.S.A.T dell’Univer-sità di Pavia nell’ambito del programma per la promozione delle attività culturali e ricreative degli studenti.Distribuito con licenza Creative Commons Attribution-Share Alike 2.0 Generic