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Publius - per un'alternativa europea. Numero 2, luglio 2009 Il giornale degli studenti dell'Università di Pavia
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Scheda personaggio - Luigi EinaudiLuigi Einaudi nacque nel 1874 a Carrù in provincia di Cuneo. Statista ed economista liberale fu uno strenuo sostenitore del progetto della Federazione europea. Professore di Scienza delle Cinanze a Torino e alla Bocconi di Milano è stato Senatore del Regno d’Italia nel 1919 e Presidente della repubblica Italiana dal 1948 al 1955. Fin dal suo esilio in Svizzera durante la Resistenza fu membro del Movimento federalista europeo Morì nel 1961.“Nella vita delle nazioni di solito l'errore di non saper cogliere l'attimo fuggente e' irreparabile. La necessita' di uniCicare l'Europa e' evidente. Gli stati esistenti sono polvere senza sostanza. Nessuno di essi e' in grado di sopportare il costo di una difesa autonoma. Solo
l'unione può farla durare. Il problema non e' tra l'indipendenza e l'unione; e' tra l'esistere uniti o scomparire. Le esitazioni e le discordie degli stati italiani della Cine del quattrocento costarono agli italiani la perdita dell'indipendenza lungo tre secoli; ed il tempo della decisione, allora, duro' forse pochi mesi. Il tempo propizio per l'unione europea e' ora soltanto quello durante il quale dureranno nell'Europa occidentale i medesimi ideali di libertà.” (1954)“La Federazione Europea, questo e' l'unico ideale per cui vale la pena di lavorare; l'unico ideale capace a salvare la vera indipendenza dei popoli...” (1948)
La settima elezione del Parlamento europeo si è ormai conclusa, ma un senso di delusione rimane in chi dall'Europa si attende molto, molto di più. La diminuzione dell'af‐1luenza al voto, la crescita degli schieramenti euroscettici o di‐chiaratamente contrari ad una maggiore integrazione politica giusti1icano questa sensazione, ma è un altro il motivo di fondo che preoccupa: cioè la dif1icoltà di collegare l’elezione del Parla‐mento europeo alla de1inizione di un programma politico e a delle linee guida dell'Unione per i prossimi cinque anni.Quali sono i progetti e gli strumenti europei per rispondere alle s<ide della crisi
e rilanciare lo sviluppo? Quali sono le risposte alle problematiche ambientali ed energetiche? Quali sono le politiche verso il Medio Oriente, fonte principale dell'instabilità internazionale, o verso la Russia, un paese fondamentale per gli approvvigionamenti di gas? Queste sono alcune delle doman‐de cruciali per il nostro futuro alle quali avrebbero dovuto ri‐spondere i partiti politici ed i candidati durante la campagna elettorale europea, e alle quali gli europei dovranno dare una ri‐sposta indipendentemente dal risultato delle elezioni. Così, co‐me sempre, saranno gli Stati na‐zionali, ognuno sulla base dei propri interessi, a cercare di ri‐
spondere, dietro al velo del coor‐dinamento europeo. Nella so‐stanza resta questo, infatti, il meccanismo su cui si basa il fun‐zionamento dell'Unione europea
PubliusPer un’ Alternativa Europea
Giornale degli studentidell’Università di Pavia.
Informazione, riflessioni e commenti sull’Europa di oggi
e di domani
Universitari per la Federazione EuropeaNumero 2 - Luglio 2009distribuzione gratuita
Indicepag.1 Editoriale
Publius
pag.2 Compendio del politico europeo
Davide Negri
pag.4 La riforma del sistema monetario internazionale
Nelson Belloni
pag.5 L’Unione europea? Né unita, né europea
.. parla Lucio CaraccioloGabriele Felice Mascherpa
pag.6 Quale Turchia per quale Europa?
Luca Lionello
pag.7 Quali iniziative per un mondo più equo?
Tommaso Doria &Federico Butti
Eccoci al secondo numero di Publius!
Nell’editoriale di questo numero vi proponiamo una riflessione sulle elezioni europee e
sulla politica europea. Gli altri
articoli riguardano i rapporti tra Turchia ed Europa, la riforma del sistema monetario
internazionale, l’analisi dell’Unione e
il suo ruolo nel mondo e infine una nuova rubrica, “Il
compendio del politico europeo.”
segue a pag. 3
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“Compendio del politico europeo”Domande e risposte per chi desidera far politica in Europa
Lectio I : Il nucleo federale
1) I principali momenti del processo sono noti a tutti: dalla costituzione della Ceca nel 1951, si è passati al Mercato comune e poi al Mercato Unico; dopo la creazione dell’Unione europea è stata adottata, con il Trattato di Maastricht, anche una moneta unica, l’euro. A che punto è il processo d’integrazione?
Purtroppo dal 1992 – dal Trattato di Maa‐stricht, cioè dopo che gli Stati cedettero il potere di batter moneta e di governare le politiche monetarie – di passi in avanti, che avessero come contenuto la cessione di quo‐te di sovranità, e quindi come 1ine esiti di tipo federale, non ne sono stati fatti.Il processo d’integrazione si è fermato: anzi da quasi vent’anni il processo è avviato sulla strada dell’involuzione. Ciò è stato accentua‐to e messo in evidenza da una serie di circo‐stanze collegate in buona parte alla 1ine della guerra fredda e dell’equilibrio bipolare.Una di queste circostanze è stata il conse‐guimento di tutti gli obiettivi intermedi – l’elezione diretta del Parlamento europeo e la creazione dell’euro – che la strategia del “gradualismo costituzionale” poneva prima di poter parlare di uni1icazione politica. Oggi il problema della cessione di sovranità è posto senza possibilità di rinvii o di diversioni. Una seconda circostanza è stata il risultato dei successivi allargamenti: il successo economico del model‐lo comunitario ha condannato al‐l’indebolimento, 1ino alla paralisi, la compat‐tezza e la capacità decisionale dell’Unione europea. Bisogna prendere atto che l’atteg‐giamento della classe politica e dell’opinione pubblica nei confronti non solo della pro‐spettiva di un’uni1icazione federale dell’Eu‐ropa, ma di qualsiasi prospettiva di raffor‐zamento delle istituzioni dell’Unione, rimane fortemente contrario in Gran Bretagna, nei paesi Scandinavi, nei paesi dell’Est europeo
ed evolve negativamente anche in alcuni paesi tradizionalmente favorevoli.Una terza circostanza è costituita dalla mio‐pia degli Stati nazionali che hanno scambiato il maggior sviluppo delle proprie economie, dovuto all’allargamento del libero mercato, alla collaborazione tra Stati membri attra‐verso le istituzioni e all’introduzione della moneta unica, per un proprio successo: i governi purtroppo guardano all’Europa per realizzare i propri interessi nazionali. Se l’Unione europea manterrà il quadro at‐tuale dei processi decisionali, le forze spon‐tanee sprigionate dall’equilibrio internazio‐nale spingeranno per la trasformazione del‐l’Unione in un’area di libero scambio sotto‐posta – per ora – all’egemonia americana.
2) Se il processo d’integrazione si è fermato, chi ha la responsabilità di ridargli vigore, Kino a prendere la decisione del “salto federale”?
Dalla costituzione della Ceca ad oggi, i prota‐gonisti del processo d’integrazione sono stati i governi europei. I governi sono i luo‐ghi nei quali la sovranità si esprime nella sua forma più pregnante: dove il potere diventa volere. Ma proprio per questo essi sono an‐
che gli unici soggetti che, in una situazione di emergenza, possono decidere di abbando‐narla. Di fatto, ogniqualvolta si è trattato di far fare un passo avanti importante alla costru‐zione europea in periodi eccezionali, i governi sono sem‐
pre stati lo strumento decisivo. Gli uomini di governo esercitano il potere reale, anche se la loro iniziativa non potrà manife‐starsi che in una situazione eccezionale, sulla base di una forte spinta del popolo, cioè del detentore ultimo del potere costituente, e in un clima di dibattito che coinvolgerà l’intera classe politica.
3) Ma nell’attuale quadro dei 27 paesi membri dell’Unione europea, i governi potranno prendere una simile decisione?
Prima abbiamo constatato l’impossibilità di procedere in avanti nel processo anche con semplici revisioni dei trattati esistenti. Biso‐
gna abbandonare la prospettiva del mante‐nimento del quadro dell’Unione attuale per‐ché la volontà politica di unirsi in un vincolo federale potrà nascere soltanto tra i governi di un nucleo relativamente piccolo di Stati. Il pactum unionis dovrà avvenire fuori dalle istituzioni dell’Unione europea. Pensare che un nucleo federale possa essere realizzato all’interno di esse, mediante lo strumento delle cooperazioni rafforzate, signi1ica tenta‐re ipocritamente di neutralizzare l’iniziativa deviandola su di un binario morto. Il loro meccanismo prevede che gruppi di paesi di composizione di volta in volta diversa si formino per realizzare diversi obiettivi; ed esse devono essere autorizzate da tutti i paesi facenti parte dell’Unione europea. Tut‐to questo è chiaramente impossibile. Per questo motivo i paesi che avranno espresso l’iniziativa con una forte e irrevocabile vo‐lontà di unirsi in un vincolo federale do‐vranno adottare un “Patto federale”, che do‐vrà essere immodi1icabile; ma dovrà essere
Da Senso della storia e azione politica raccolta di scritti di Francesco Rossolillo(2009, a cura di Giovanni Vigo, edizioni il Mulino)
"Chiunque decida di impegnarsi in politica per un mondo migliore e non nell'intento di illustrare sé stesso o di acquisire potere fa perciò stesso una duplice professione di fede, quale che sia il suo grado di consapevolezza. Egli deve credere che la parola "migliore" abbia, almeno virtualmente, lo stesso contenuto semantico per tutti gli uomini, sia per i contemporanei che per coloro che verranno, cioè si applichi a situazioni più vicine di quella attuale ad un modello di convivenza fondato su valori condivisi da tutti. Ciò signiKica che egli deve credere all'esistenza di valori assoluti.Ed egli deve insieme credere che questi valori tendano a realizzarsi progressivamente nella storia, perché chi si batte per trasformare le condizioni della convivenza non può pensare che i risultati dei suoi sforzi, nel concatenarsi degli eventi, potranno essere a loro volta la causa di irreversibili involuzioni o ritorni indietro nel cammino dell'emancipazione umana, il che accadrebbe se la storia fosse un succedersi tumultuoso e casuale di eventi contraddittori, cioè fosse priva di senso" (p. 657)
I governi sono sempre decisivi per
fare un passo avanti alla costruzione europea
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aperto all’adesione di tutti coloro che ac‐cetteranno senza riserve le linee fonda‐mentali della sua costituzione. Altro è l’elaborazione della Costituzione federale: il pactum unionis non coincide con il pactum costitutionis. È del resto quello che, in un contesto non federale, è accaduto in occa‐sione della ricostituzione dello Stato repubblicano do‐po la seconda guerra mondia‐le in Francia e in Italia, dove prima è stato costituito il governo repubblicano, e dopo gli è stata data una costitu‐zione.
4) I governi di quali paesi vogliono oggi lo Stato federale europeo?Il problema non è quello di distinguere i paesi i cui governi vogliono lo Stato federa‐le europeo da quelli i cui governi non lo vogliono; ma quello di individuare un qua‐dro nel quale esistono i presupposti per la formazione della volontà di fondare uno Stato federale europeo. Oggi in quasi tutti i paesi manca la forte volontà politica ne‐cessaria per costituire un nucleo federale. Però in alcuni di essi se ci saranno deter‐minate condizioni – che la crisi economica mondiale sta creando – si formerà questa volontà: ciò accadrà in un gruppo di paesi con un forte grado di omogeneità, una forte interdipendenza economica e sociale e un grado avanzato di maturità europea dell’opinione pubblica.
5) Allora quali paesi dovrebbero comporre il nucleo?
Nell’ambito dell’attuale Unione non esi‐stono due, ma più gradi diversi di matura‐
zione europea. Bisogna chiarire prima di tutto che il processo dovrà avere bisogno di un motore che gli consenta di decollare. Questo motore non potrà che essere la comune volontà dei due paesi che costitui‐
scono il cuore dell’Europa e la cui storica riappaci1icazione ha dato inizio al cammino dell’integrazione europea. Si tratta della Francia e della Germania. Se in uno solo di essi o in entrambi non na‐scerà la volontà di fondare il primo nucleo di Stato fede‐rale, il processo non potrà
neppure iniziare. Però una federazione a due sarebbe dif1icile da go‐vernare perché le divergenze d’interessi tra i due Stati membri non potrebbero essere mediate dall’intervento di altri pat‐ner. Servono più paesi per costituire la massa critica necessaria per imprimere forza al processo e per sostenerlo con l’appoggio di un’opinione pubblica estesa, diversi1icata e matura. Fin dall’avvio del processo di uni1icazione europea, si è sto‐ricamente coagulato attorno a Francia e Germania un gruppo di altri paesi stretta‐mente interdipendenti: Belgio, Olanda, Lussemburgo e Italia. La loro lunga storia comune iniziata con la fondazione della Ceca stabilisce tra di loro un forte legame destinandoli naturalmente a questo ruolo.
6) Ma come si porrebbero i rapporti tra il nucleo federale e l’Unione europea?
La soluzione più semplice che viene in mente è senz’altro quella della successio‐ne del nucleo federale ai suoi Stati membri nelle varie istituzioni dell’Unione: pertan‐to, ad esempio, in questo caso, nel Consi‐
glio e nella Commissione il nucleo avrebbe un solo rappresentante che prenderebbe il posto di quelli degli Stati membri.Una soluzione simile avrebbe l’indubbio vantaggio di permettere una regolamenta‐zione unitaria dei rapporti tra nucleo e Unione: però non va dimenticato che non esistono regole certe quando si tratta di stabilire rapporti politici, e il fenomeno di successione tra Stati nei trattati – da una pluralità di Stati sovrani si passa ad un unico Stato federale – è spesso una nego‐ziazione politica tra gli Stati interessati, in questo caso tra nucleo federale e Unione europea. Infatti bisognerà ride1inire il ruo‐lo del nucleo all’interno dell’Unione che avrà un peso maggiore rispetto a quello degli Stati membri, ma soprattutto neces‐siterà di una fase di consolidamento e di affermazione della propria sovranità ap‐pena acquisita. Pertanto dif1icilmente si sottometterà a regole di coordinamento delle politiche estere e di sicurezza degli Stati membri e di “fedeltà” della politica estera e di sicurezza europea alla NATO, che in ultima analisi ne impedirebbero una piena affermazione come nuovo sog‐getto in grado di rispondere alle s1ide che l’Europa deve fronteggiare. In sostanza, la nascita del nucleo federale porrà al tempo stesso la questione di una rifondazione anche dell’Unione europea, in modo da salvaguardare l’acquis communautaire nel nuovo quadro che sarà caratterizzato dalla presenza di un forte magnete politico che ne riorienterà l’intera struttura.
Davide Negri
Il problema è individuare un
quadro dove si può formare la volontà di fondare lo Stato federale europeo
nei campi cruciali da cui dipende il futuro degli europei. Ma è evidente che la somma o il coordinamento di decisioni nazionali non può neanche lontanamente avere lo stesso impatto e la stessa ef<icacia di una effettiva politica continentale. Purtroppo, né il confronto sulle candi‐dature alla presidenza della Commissione europea, che potranno essere approvate o respinte dal Parlamento europeo, né l’even‐tuale entrata in vigore del Trattato di Li‐sbona potranno far uscire l’Europa da que‐sta impasse, dandole un governo democra‐tico legittimo che sia espressione di un coe‐rente progetto politico. Eppure oggi più che mai gli europei dovrebbero portare a termine la "rivoluzione" europea che fu alla base del progetto dei Padri fondato
ri delle prime Comunità e che aveva nella creazione della Federazione europea il suo obiettivo dichiarato. Questo per almeno due ragioni principali. La prima consiste nel fatto che molte delle questioni che siamo abituati a classi1icare come solo italiane sono in realtà in forme diverse e con vari livelli di intensità, comuni agli altri Stati europei; basti pensare per esempio ai problemi della sicurezza interna ed inter‐nazionale, all’immigrazione, alla riconver‐sione in senso ecologico della produzione e dei consumi. La seconda ragione sta invece nel fatto che la portata sovranazionale di queste problematiche e l'evidente inade‐guatezza dei governi nazionali nell’affron‐tarle stanno mettendo in crisi la politica e la democrazia a livello nazionale, trasfor‐
mandole dal campo e dalle istituzioni in cui si manifesta il legame tra la volontà genera‐le e il governo dei problemi nell’arena di scontro di oligarchie e di tendenze populi‐ste. In questo senso la frase di Luigi Einaudi secondo cui "per gli Stati europei, ben lungi dal competere per la supremazia europea, si tratta ormai di perdurare unendosi o di scomparire come attori politici, perché gli Stati europei, da soli, sono polvere senza sostanza" (in Lo Scrittoio del Presidente, 1951) rimane ancora di profonda attualità ed è un monito a ricordare che non c’è fu‐turo per gli europei senza la creazione di uno Stato federale europeo.
Publius
da pag. 1
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Il quadro mondiale attuale è caratterizzato non solo dagli effetti che la crisi <inanziaria sta producendo sull’economia reale, ma anche dalle dif<icoltà e dalle contraddizioni che minano il sistema monetario internazionale. Le regole che erano state 1issate a Bretton Woods nel 1944 avevano visto gli Stati Uniti, vincitori della seconda guerra mon‐diale, imporre le basi del sistema e soprattutto il ruolo di moneta guida del dolla‐ro, che avrebbe dominato in‐contrastato 1ino alla crisi mone‐taria della 1ine degli anni ‘60; crisi sancita dalla dichiara‐zione di Nixon del 15 agosto del 1971 che annunciava la 1ine della conver‐tibilità del dollaro in oro e l’inizio del co‐siddetto dollar standard. Negli anni suc‐cessivi, questo tipo di regime ha permesso agli Stati Uniti di sfruttare il proprio status di superpotenza economica e politica del mondo occidentale scaricando sul resto del mondo i costi del suo sviluppo, svalu‐tando e rivalutando il dollaro in base ai propri interessi. Oggi, che i rapporti di forza nel mondo stanno cambiando pro‐fondamente, soprattutto per l’ascesa della Cina e dell’India – ma anche dei paesi pe‐troliferi, che non possono più essere igno‐rati – questo sistema che ruota intorno agli USA non appare più sostenibile, so‐prattutto perché l’America è oggi il paese più indebitato del mondo e presenta una bilancia dei pagamenti fortemente passiva e un debito pubblico in continua ascesa. Anche l’emergere, nonostante l’assenza politica dell’Europa, dell’euro sui mercati mondiali – che offre possibilità di diversi‐1icazione monetaria per quanto riguarda sia le riserve nazionali, sia gli scambi commerciali – ha contribuito a mettere in crisi il ruolo del dollaro. Già alcuni paesi sudamericani hanno deciso di scindere i legami con la moneta statunitense, dopo l’esperienza disastrosa della fase della cosiddetta dollarizzazione della loro eco‐nomia, e lo stesso yuan cinese si è almeno in parte sganciato dal cambio con il dolla‐ro. Proprio la posizione particolare della Cina, grande potenza emergente sotto ogni punto di vista, che rispetto agli Stati Uniti ha un rapporto di complementarietà eco‐nomica e di potenziale con1littualità politi‐ca, spiega la ragione dell’intervento del Presidente della Banca centrale cinese
Zhou Xiaochuan lo scorso marzo per chie‐dere l’introduzione di una nuova moneta di riserva mondiale, di fatto proponendo, anche se non a brevissimo termine, la ri‐forma del sistema monetario internazio‐nale. Zhou, infatti, da un lato rileva l’ina‐deguatezza del sistema attuale per gestire gli enormi 1lussi monetari generati dalla globalizzazione e l’anacronismo delle isti‐
tuzioni interna‐zionali su cui si basa (basti pensare che nel consiglio d e l F o n d o Mon e t a r i o Internaziona‐le il voto della Cina pesa un q u a r t o d i quello statu‐n i t e n s e , l a metà di quello giapponese e
poco più di quello italiano). Ma soprattut‐to pone il problema di trovare una nuova moneta di riserva mondiale, che non sia quella di un singolo paese – legata ad interessi nazionali speci1ici – per evitare le distorsioni provocate dalla svalutazione o rivalutazione arbitraria della moneta di riferimento del sistema e assicurare così la stabilità degli scambi 1inanziari e commer‐ciali a livello globale, facilitando lo svilup‐po economico.
Come scrive Xiaochuan, “I paesi che emettono monete di riserva sono costan‐temente davanti al dilemma tra il conse‐guimento dei propri obiettivi nazionali e il far fronte alla domanda degli altri paesi che chiedono moneta di riserva. Da un lato le autorità monetarie non possono semplicemente focalizzare l’attenzione sugli obiettivi nazionali liberandosi dalle responsabilità internazionali, dall’altro non possono perseguire obiettivi nazionali e internazionali allo stesso tempo… Esiste ancora il dilemma di Trif1in, e cioè i paesi che emettono la moneta di riserva di rife‐rimento non possono al tempo stesso mantenere il suo valore e garantire la li‐quidità monetaria mondiale”.
Zhou Xiaochuan propone perciò di allargare il paniere di monete che com‐pongono i Diritti Speciali di Prelievo (oggi esse sono il dollaro, l’euro, lo yen e la ster‐lina), di iniziare ad utilizzare questi ultimi come moneta di riserva sovranazionale e nel tempo af1idare al FMI parte della ge‐stione delle riserve dei paesi partecipanti. E’ una proposta che si rifà in parte a quel‐
la di Keynes del 1940 di introdurre il ban‐cor, moneta virtuale basata sul valore di 30 beni di prima necessità, che fu scartata a Bretton Woods.
La Cina non sembra però aver fretta, e si dimostra cauta nel fare le sue proposte attraverso Zhou Xiaochuan e nell’attacca‐re il dollaro e gli USA, dato il complesso intreccio di interessi che lega i due paesi. Si tenga conto che gran parte delle sue immense riserve monetarie (per un valore di oltre duemila miliardi di dollari) sono espresse proprio in moneta Usa, che la Cina è il più grosso investitore in titoli del debito pubblico americano, che gli inve‐stimenti cinesi negli Stati Uniti sono eleva‐tissimi. Ciò non toglie che attraverso le parole del Presidente della sua banca cen‐trale la Cina dimostri la propria preoccupazione per la situazione mondiale che “ri<lette vulnerabilità e rischi sistemici nel sistema monetario internazionale”. E che quindi auspichi “una gran‐de visione politica” e un “grande coraggio” per iniziare ad attuare una riforma globa‐le.
In questo dibattito l’Unione europea brilla per la sua assenza. Anche a livello internazionale è evidente la tendenza in atto in Europa di un ritorno al nazionali‐smo invece che ad una politica di raffor‐zamento del processo di uni1icazione. Ba‐sti pensare che, 1inora, i paesi dell’Ue han‐no spesso preso decisioni divergenti all’in‐terno del FMI, quando invece, uniti, avreb‐bero potuto essere determinanti nell’im‐porre un particolare orientamento. In ge‐nerale l’Europa e, in particolare i paesi dell’area euro, se non fossero divisi, po‐
trebbero avere in effetti un ruolo di riequili‐brio monetario all’in‐terno del sistema in‐ternazionale; ma ci vorrebbe uno Stato federale europeo, e
quindi un governo, in grado di fare una vera politica monetaria e di agire con una voce sola. Nelle attuali condizioni, invece, l’euro, non avendo una politica monetaria alle spalle, perde gran parte delle sue po‐tenzialità.
L’Europa per ora rinuncia quindi a giocare un ruolo di riequilibrio a livello mondiale sia in campo monetario, che in campo economico e politico, lasciando agli altri protagonisti della scena mondiale il compito di farsene carico. Quello che si può dire è che, sicuramente, oggi, quella grande visione politica e quel coraggio necessari per una riforma globale del sistema, cui si richiama Zhou Xiao‐chuan, non esistono in Europa.
Nelson Belloni
La Cina non sembra aver fretta, e si dimostra cauta nel
fare le sue proposte ...
La riforma del sistema monetario internazionale
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L’Unione europea? Né unita né europea… parla Lucio Caracciolo.
Lucio Caracciolo è considerato uno dei maggiori esperti italiani di geopolitica. Giornalista e docente, ex capo redattore di Micromega, ha fondato e dirige dal 1993 Limes, la rivista italiana di geopolitica.Ad un convegno organizzato a Palazzo Ma‐rino dal Movimento Federalista Europeo in collaborazione con il Comune di Milano si è confrontato con i candidati all’europarla‐mento, svolgendo la relazione iniziale sul‐l’attuale situazione politica in Europa: un’analisi articolata e precisa, a tratti pun‐gente.L’incipit della relazione ha subito lasciato poco spazio alla dilagante ipocrisia e all’au‐tocompiacimento della classe politica dei paesi europei: l’Unione europea non è certamente europea ed è ben lontana dall’essere un’Unione.Dalla 1ine del sistema bipolare a oggi si è veri1icato un continuo moltiplicarsi di fron‐tiere nello spazio geogra1ico che va dal‐l’Atlantico agli Urali: Stati nuovi, semi‐Stati ed entità dif1icilmente classi1icabili. Solo la metà dei soggetti del continente aderisce, con modalità differenti, allo spazio comuni‐tario, mentre altri paesi permangono in orgogliosa neutralità, come la Svizzera o i paesi dell’area nordica, e altri ancora, come i Balcani, sono troppo instabili per poter esser integrati. Vi è poi l’area dell’Europa orientale, con gli Stati nati dalla disgrega‐zione del blocco sovietico, considerati dai russi in “libertà provvisoria”; alcuni sono già in procinto di rientrare nell’ambito del‐l’impero russo, come ha dimostrato la guer‐ra georgiana dell’agosto 2008. Insomma, una vera e propria “macedonia” di frontie‐re!Con mezzo continente fuori dallo spazio comunitario, l’UE non può ancora conside‐rarsi europea, ma perché non è possibile attribuirle a pieno titolo l’appellativo di unione? L’UE si può de1inire come un ac‐cordo istituzionalizzato tra paesi membri
che mettono in comune risorse e sovranità per poi contendersele nuovamente, sempre a partire dall’esercizio delle rispettive so‐vranità nazionali, sulla base dei rapporti di potere reciproci. A dispetto di quanti molti dicono, sia tra i critici che tra gli entu‐
siasti dell’UE, non è l'Unione che determina gli Stati, ma sono gli Stati a determinare l'Unione: chi prende le decisioni è il Consi‐glio, ovvero l’organo che riunisce i governi degli Stati, e non la Commissione. Pertanto, anche se la sovranità degli Stati è erosa costantemente, essa non viene ricostituita a livello europeo, e questo mina la legittimità delle istituzioni europee e delle decisioni prese a quel livello.La classe politica e l’opinione pubblica, invece, sono vittime di questo arti1icio retori‐co e di questa defor‐mazione ideologica, per cui vengono attri‐buite all’Unione politi‐che che in realtà sono gli Stati a stabilire ed attuare; e questa situazione è una delle ragioni principali della scarsa affezione del pubblico nei confronti dell’Europa. Inoltre, le istituzioni create a livello europeo nega‐no di fatto i principi fondamentali della democrazia così come è stata conquistata a livello degli Stati nazionali: non può esiste‐re infatti un vero parlamento se non all’in‐terno di un quadro statuale in cui vengono rispettati gli equilibri tra i diversi poteri e
in cui il popolo esercita la sovranità. Per questo il Parlamento europeo è ridotto a un forum di rappresentanti degli Stati, ed è privo di un reale potere.A questo grave de1icit strutturale dell’Unio‐ne si somma il fatto che i successivi allar‐gamenti l’hanno resa sempre meno omoge‐nea, tanto che l’unica caratteristica che oggi sembra accomunare tutti i paesi membri è, paradossalmente, la mancanza di un pro‐getto condiviso. In particolare, con gli ulti‐mi ingressi, hanno aderito paesi che non
solo non condividono la 1inalità dell’integrazio‐ne, ma che non voglio‐no nemmeno mettere in discussione la pro‐pria sovranità statale. Tutto il contrario di quanto avveniva nei
primi anni Cinquanta, agli albori della Co‐munità europea: i sei paesi fondatori e le rispettive leadership avevano ben chiaro le 1inalità e gli obiettivi del progetto, nato per la volontà profonda di risparmiare alle ge‐nerazioni future la tragedia della guerra
appena terminata.E’ questo il nodo centrale dell’europeismo forte, o meglio, del pensiero federalista: l’idea era quella di superare de1initivamen‐te la divisione dell’Europa in Stati sovrani contrapposti creando un quadro normativo e istituzionale in grado di rendere impossi‐bile la guerra sul continente. Era un pro‐getto estremamente ambizioso, che ora è scomparso dal dibattito pubblico, a parte
pochissime eccezioni. Ancora nel 1994, inve‐ce, il presidente del gruppo parlamentare della CDU/CSU (il par‐tito democristiano te‐desco, allora al gover‐no) Wolfgang Schäuble,
e un altro importante esponente, Karl La‐mers, presentarono al Bundestag un pro‐getto dettagliato in vista della creazione dell’euro, proprio rifacendosi al progetto originario dei padri fondatori e invitando a riformare l’Unione europea sulla base del modello federale. I cinque Stati fondatori più omogenei (Francia, Germania e Benelux – l’Italia infatti era troppo lontana dal ri‐spettare i criteri economici e 1inanziari ba‐silari) avrebbero dovuto avviare questo
processo, per realizzare una vera unità po‐litica (oltre che economica) e militare a livello europeo.Analogamente, nel 2000, l’allora ministro degli esteri tedesco Joschka Fischer, in un famoso discorso tenuto all’Università Humboldt di Berlino propose di creare uno Stato europeo, simile nella struttura alla Repubblica Federale Tedesca. Fischer parlò a titolo personale, in quell’occasione, e non come rappresentante del governo tedesco: si presentò infatti in scarpe da tennis, per poter parlare quasi come un federalista! In ogni caso, fu un discorso di rottura, che però, purtroppo, rimase isolato in Germa‐nia e ricevette un’accoglienza tiepida in Francia.Oggi non solo mancano progetti forti, ma è carente la leadership politica, nessuno Sta‐to sembra avere la capacità di proporsi co‐me guida del processo di integrazione, e, soprattutto, il motore franco tedesco in questa fase non funziona più. Contempora‐neamente, stiamo assistendo alla perdita di in1luenza da parte americana sul nostro continente: il vincitore della guerra fredda,
L’unica caratteristica che accomuna oggi tutti i paesi
membri è, paradossalmente, la mancanza di un progetto
condiviso.
L’articolo seguente è la rielaborazione della relazione tenuta dal Prof. Lucio Caracciolo al convegno “L’Europa di fronte alle sKide del nuovo quadro mondiale: al bivio tra unità e disgregazione” 8 maggio 2009, Palazzo Marino, Comune di Milano
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Il rapporto tra Europa e Turchia è ormai arrivato ad un bivio fondamentale. Le scelte che verranno prese nel prossimo futuro determineranno non solo gli equilibri in Medio Oriente, ma saranno decisivi anche per il destino del processo di integrazione europea.
Nel 2005, dopo il Consiglio europeo di Stoccolma, sono iniziate le trattative uf1i‐ciali per l’ingresso della Turchia nell’Unio‐ne. Le condizioni 1issate da Bruxelles sono
le stesse poste ad ogni altro candidato: riformare e rafforzare le istituzioni demo‐cratiche ed adeguarsi alle condizioni eco‐nomiche e politiche stabilite dai criteri di Copenaghen; in particolare è stato chiesto alla Turchia di riconoscere Cipro ed il genocidio degli Armeni. Nel complesso si tratta di impegni molto dif1icili da rispet‐tare per lo Stato turco, specialmente per quanto riguarda il riconoscimento delle proprie colpe recenti, che comportano una condanna severa del nazionalismo. D’al‐tronde proprio qui si gioca il futuro del paese e la sua adesione de1initiva ad un modello di politica democratica e di socie‐tà aperta.
La Turchia oggi vive un periodo di profonde lacerazioni interne che accompagnano il processo di trasformazione in corso. L’alternativa è tra la deriva antidemocratica nelle forme dell’estremi‐smo islamico o, anche per reazione, del nazionalismo fascista – e la direzione trac‐ciata dalle recenti riforme del governo Erdogan, soprattutto in materia di laicità dello Stato e di libertà di stampa, sembra rendere molto concreto questo rischio –;
oppure la vittoria delle forze moderate e progressiste che spingono verso una piena integrazione con l’Occidente ed il supera‐mento delle ataviche contraddizioni che impediscono al paese di valorizzare le proprie risorse. Ciò che è certo, comunque, è che l’eredità di Ataturk non basta più alla Turchia. Le istituzioni, gli equilibri di pote‐re, i modelli politici che i turchi hanno seguito e riprodotto per quasi un secolo non assicurano più alla società turca né la
prosperità economica, né tan‐to meno la spinta ideale per guardare con serenità e de‐terminazione al futuro. Queste contraddizioni sono ancora più evidenti se si os‐servano da vicino le scelte politiche e le riforme istitu‐zionali degli ultimi anni. In‐cassato il sì dell’euroburoca‐zia alla candidatura all’Unio‐ne, il governo Erdogan si è impegnato in una serie di ri‐forme costituzionali piuttosto ambivalenti. Il progetto politi‐co portato avanti dall’AKP consiste proprio nel cercare di combinare, in una visione dif1icile da comprendere per
gli europei, i principi della tradizione islamica con quelli dell’antistatalismo li‐berista. Fra i punti fondamentali della ri‐forma costituzionale compaiono da una parte l’affermazione dei diritti individuali, soprattutto economici, ed il riconoscimento delle au‐tonomie locali; dall’altra l’elezione diretta del Pre‐sidente della Repubblica, l’aumento delle decisioni da prendere a maggioran‐za semplice ed un ridi‐mensionamento dei poteri della Corte Costituzionale, da sempre ba‐luardo della difesa della laicità dello Stato. Ancora irrisolte rimangono, inoltre, sia la questione del “crimine di attentato al‐l’identità nazionale turca” prevista dall’ar‐ticolo 301 del codice penale, sia l’effettiva devoluzione dei poteri di autogoverno alle regioni orientali a maggioranza curda. Resta in1ine dif1icile sapere se davvero la riforma costituzionale riuscirà ad essere approvata. La forte contrarietà del partito di opposizione e del Presidente della Re‐pubblica getta infatti molte ombre su que‐
sto progetto perseguito da Erdogan. Inol‐tre, se anche tutto ciò passasse, non sem‐bra però suf1iciente per dare risposte strutturali e precise alla crisi del paese, che è soprattutto una crisi di identità.
Sarebbe super<iciale liquidare il problema della vocazione europea della Turchia con un semplice sì o con un no. Come la Russia, così la Turchia è un paese a metà tra l’Europa e l’Asia, ed è proprio questa caratteristica a renderla così ricca ed importante. Ma ciò che lascia perplessi è la diagnosi sullo stato di salute delle sue istituzioni democratiche ed il grado di maturità della coscienza civica. Il processo di modernizzazione e di laicizza‐zione che ha reso la Turchia un unicum nel panorama degli Stati musulmani, d’altron‐de, è stato reso possibile proprio da quello stesso esercito che fa ancora del nazionali‐smo il suo baluardo e che ha impedito il pieno radicamento nel paese delle istitu‐zioni democratiche e del pensiero liberale. Per questo, la strada da compiere per rag‐giungere i futuri partner europei sulla via della democrazia è ancora lunga e richie‐derà tempo. L’importante però è che il paese non si perda lungo il percorso, e questo dipenderà non solo dalle capacità della politica e della società turche, ma anche dalle scelte del vecchio continente. L’atteggiamento che l’Unione eu‐ropea ha dimostrato negli ultimi anni ver‐so la Turchia è stato infatti profondamen‐te irresponsabile. L’assenza di un vero
progetto politico ha spinto l’Unione ad uno sconside‐rato processo di allarga‐mento che ha di fatto bloc‐cato lo slancio verso l’uni‐1icazione, riducendo l’Eu‐ropa a poco più di un gran‐de mercato unico. Non de‐ve allora stupire che la bu‐
rocrazia europea, sostenuta da paesi anti‐federalisti come la Gran Bretagna e dalle pressioni statunitensi, abbia accettato la candidatura della Turchia senza porsi il problema delle conseguenze che questa adesione determinerebbe in assenza di un precedente approfondimento politico. Allo stesso tempo molti leader europei, biso‐gnosi di rassicurare le opinioni pubbliche nazionali e spaventati dai problemi interni della Turchia, ri1iutano pubblicamente l’ingresso di questo paese nell’Unione. In effetti, nel caso di una piena adesione oggi
La Turchia oggi vive un periodo di profonde la-cerazioni interne che ac-
compagnano il processo di trasformazione in corso
un tempo promotore dell’integrazione, si è allontanato dall’Europa, mentre la Rus‐sia, miracolosamente sopravvissuta, sta espandendo la propria in1luenza a comin‐ciare dai nuovi “partners” dell’Europa occidentale.
Il bilancio che se ne può trarre, quindi, è che l’Europa non sta procedendo verso una maggiore unità, ma nemmeno si sta veri1icando un processo di disgregazione “forte”: l’Europa del 2009 è ferma in una zona grigia e intermedia fatta di compro‐
messi, di blando coordinamento tra go‐verni, di indecisione istituzionalizzata.Una prospettiva, a nostro avviso, per nulla allettante...
Gabriele Felice Mascherpa
Quale Turchia per quale Europa?
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della Turchia alle istituzioni europee, que‐ste diventerebbero (viste le dimensioni del paese, che ben presto supererà anche la Germania in termini di popolazione, e quelle del suo esercito, già oggi il più forte rispetto a quello degli altri membri del‐l’Ue) dipendenti dall’andamento di un paese politicamente instabile, ancorato a logiche nazionaliste ed in preda a profondi squilibri sociali ed economici. In realtà anche i nuovi membri dell’Europa cen‐tro‐orientale presentano caratteristiche simili; ma queste nel caso della Turchia sono molto più accentuate. D’altro canto ri1iutare a questo punto di proseguire sul‐la strada dell’integrazione dello Stato tur‐co in Europa darebbe un colpo mortale alla prospettiva di una sua de1initiva de‐mocratizzazione e condannerebbe le forze progressiste interne ad una sicura e de1ini‐tiva scon1itta.
Da un certo punto di vista, avendo l’al‐largamento del 2005 reso comunque im‐possibile ogni ulteriore approfondimento politico all’unanimità, verrebbe quasi da domandarsi se non valga comunque la pena accogliere la Turchia già adesso per appro1ittare dei vantaggi economici e stra‐tegici che la sua adesione sembrerebbe garantire. Ma i rischi sarebbero enormi. Innanzitutto, l’opinione pubblica europea, ancora fortemente con‐traria, 1inirebbe per scostarsi ancora di più dal progetto europeo. Inoltre, l’adesione della Turchia ad un’Europa mercato, priva di uno nucleo politico, po‐t r e bbe ve ramen t e sconvolgere in breve tempo l’intera Unione, che già adesso fatica a funzionare e a tute‐lare le conquiste raggiunte. Anche perché è prevedibile che i turchi, per quanto be‐ne1icati in termini di democrazia e benes‐sere, sarebbero portati, ancora più dei paesi dell’Est, a ricambiare l’Unione con una politica nazionalista e a ri1iutare le
future riforme di cui l’Europa mercato avrà comunque bisogno anche dopo Li‐sbona. Benché il futuro dell’integrazione europea stia tutto nel ruolo delle avanguardie e nell’ipotesi delle due velocità, è sicuramente meglio che la creazione del nucleo federale avvenga in un quadro comunitario ancora va
gamente stabile ed omogeneo, e che non debba diven‐tare l’extrema ratio a fronte del crollo dell’edi1icio del‐l’Unione. Infatti, per quanto possa sembrare suggestiva la possibilità che l’ulteriore crisi delle istituzioni euro‐pee, determinata dalla piena adesione della Turchia, spinga un’avanguardia di
Stati verso la scelta de1initiva dell’uni1ica‐zione, vale davvero la pena di augurarsi il “tanto peggio, tanto meglio”?
Certo che se si creasse in tempi brevi un’Europa politica tra pochi Stati, l’adesione della Turchia al mercato e alla moneta europea sarebbe un grande vantaggio per tutti. La Turchia 1inal‐
mente potrebbe agganciarsi al sistema occidentale ed iniziare un ulteriore pro‐cesso di crescita civile e democratica. Dal‐l’altra parte l’Europa unita godrebbe di un partner prezioso da integrare sempre di più e con cui realizzare una politica in Me‐dio Oriente tutta volta alla stabilità e allo sviluppo di quella regione. Ci troviamo davanti ad una speranza dif1icile da rea‐lizzare. Ma il progetto politico è buono e può funzionare. L’Europa ha bisogno di farsi Stato per se stessa e per il mondo. E’ quanto richiede la politica della realtà. Se invece si vuole cedere all’opportunismo o al buonismo ben vengano nell’ “Europa che non c’è” tanto la Turchia, quanto Israe‐le, la Russia e tutti gli altri. Il premio Nobel Pamuk da anni invita i paesi europei ad accettare la Turchia nell’Unione. Non è con i facili sì o con i drastici no che si può ac‐cogliere il suo invito. L’unica risposta con‐vincente può essere data dalla rivoluzione interna che l’Unione europea deve realiz‐zare, creando uno Stato federale, a partire da un’avanguardia di paesi.
Luca Lionello
Sarebbe superficiale liquidare il problema della vocazione europea della
Turchia con un semplice sì o con un no.
Quali iniziative per un mondo più equo?
La crisi 1inanziaria ha messo in discussio‐ne le politiche e i modelli economici svi‐luppatisi negli ultimi venti anni; ora, il fatto che si ritorni a parlare della necessi‐tà di un mondo più equo e di nuovi model‐li di sviluppo è il sintomo che qualcosa sta cambiando. Attorno a questo tema e all'analisi delle possibili iniziative concrete in questa direzione si è incentrata la conferenza del Professor Alberto Majocchi (presidente dell'ISAE) durante il dibattito tenutosi lo scorso 20
Aprile in aula del '400 dal titolo "Quali iniziative per un mondo più equo?". In termini generali, spiega Majocchi, le stra‐tegie economiche degli ultimi vent’anni avevano l'obiettivo di garantire l'ef1icien‐za con l'idea che non fossero necessarie misure di politica economica perché il mercato era in grado di risolvere tutti i problemi. Quello che era stato chiamato da Stiglitz il "Washington consensus" dava per scontato che, grazie a questi principi e all'egemonia americana, il mondo fosse
avviato verso la 1ine della storia e il rag‐giungimento del benessere per tutti. La globalizzazione rendeva possibile un em‐brione di mercato mondiale che aveva il proprio fondamento nel “governo” ameri‐cano del mondo. Effettivamente, con l'aiu‐to delle straordinarie innovazioni tecno‐logiche nel campo dell’informazione e delle comunicazioni, ma grazie anche alle politiche americane relative alla liberaliz‐zazione dei movimenti di capitali e dei mercati internazionali e alla presenza del
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dollaro come moneta “mondiale” ‐ garan‐tita dalla potenza egemone‐, è stato pos‐sibile un forte aumento della ricchezza mondiale. Da una parte, nei paesi emer‐genti come Cina e India, due miliardi e mezzo di persone hanno avuto la possibi‐lità di migliorare le proprie condizioni di benessere e dall’altra i paesi ricchi hanno potuto ottenere beni di consumo a minor costo. Questo modello tuttavia ha mostra‐to ora i suoi limiti e la crisi ha rappresen‐tato proprio il fallimento del governo uni‐laterale del mondo. Infatti, se la ricchezza globale è cresciuta, al tempo stesso è aumentato anche il divario tra ricchi e poveri e non si è realizzata una redistribuzione su scala mondiale. Basta osser‐vare infatti che la per‐centuale di persone che vivono in condizioni di povertà è salita al 40% (ri‐spetto al 36% del 1981) e più del 16% della popolazione mondiale vive in condi‐zioni di povertà estrema. La prospettiva verso cui bisogna indirizzarsi è quindi quella di un mondo più equo e di un go‐verno multilaterale dell'economia mon‐diale. In quest'ottica l'Europa sarebbe l'area del mondo in grado di offrire una "balance of power" rispetto agli Stati Uniti. Se nascerà un nuovo modello di sviluppo, infatti, questo potrà sorgere in Europa e avere come base il modello sociale europeo, che si contrappone al model
lo americano e asiatico. Per uscire dalla crisi, tuttavia, l’Europa non può utilizzare le politiche tradizionali ma deve puntare sull’innovazione e quindi lanciare una politica di investimenti pubblici e di so‐stegno agli investimenti nella ricerca, nell’istruzione e nella formazione. Infatti non è possibile competere con i paesi emergenti sul livello dei prezzi, e inoltre la delocalizzazione della produzione, se da una parte è una logica di mercato, dal‐l’altra è un fenomeno inevitabile se vo‐gliamo che il resto del mondo cresca e
raggiunga livelli di be‐nessere simili ai nostri. E’ necessario quindi puntare su qualità e sostenibilità ambienta‐le senza innescare una competizione al ribas‐so che metta in discus‐sione le conquiste so‐ciali ottenute negli anni
passati. Tuttavia nessuno dei paesi europei è in grado di portare avanti questi investimenti perché i bilanci sono limitati e ci sono i vincoli alla 1inan‐za pubblica stabiliti dal Trattato di Maa‐stricht. Se si vuole realizzare un simile piano di crescita sostenibile è quindi necessario che esso venga elaborato a livello europeo e <inanziato con risorse stanziate sempre a livello europeo, ad esempio con la creazione di un grande prestito europeo per lo sviluppo 1inanzia‐to utilizzando la forza dell’euro sui mer‐cati internazionali ed entrando in compe‐tizione con il dollaro. Un altro progetto
dovrebbe riguardare il lancio di un “piano Marshall” per l’Africa, per fornire i capitali per lo sviluppo a quest’area che pone non solamente una que‐stione etica ma anche un problema politi‐co dato che se non siamo in grado di aiu‐tare i paesi più poveri i problemi di immi‐grazione si moltiplicheranno nel tempo. Questa crisi tuttavia ha mostrato anche l’impotenza dell’Europa, che neppure il Trattato di Lisbona in via di approvazione potrà migliorare. L’elemento cruciale è infatti quello di fondare un potere euro‐peo creando uno Stato federale in Europa. La questione centrale per noi europei, oggi, ruota quindi intorno alla domanda su chi debba prendere l’iniziativa politica per creare le condizioni che permettano di realizzare gli Stati Uniti d’Europa. E’ evidente che la struttura dovrà seguire uno schema a cerchi concentrici, con un nucleo centrale che decide di federarsi attuando politiche comuni, e un cerchio più ampio che mantiene il mercato comu‐ne. L’iniziativa in tale senso dovrebbe essere diffusa e una responsabilità spetta senza dubbio alla classe intellettuale, alla classe sociale. Fino a quando non esisterà una vera Federazione europea, la politica continuerà a regolarsi in base al potere nazionale e quindi non potranno esistere politiche europee degne di tale nome.
Tommaso Doria & Federico Butti
“La prospettiva verso cui bisogna indirizzarsi è
quindi quella di un mondo più equo e di un governo multilaterale dell'econo-
mia mondiale.”
Publius - Per un’alternativa europeaNumero 2 - Luglio 2009
publius.unipv.blogspot.comVia Villa Glori, 8 Pavia - Tel: 3492518646 - E-mail: [email protected]
Direttore responsabile: Laura FilippiRedazione: Valentina Barioli, Nelson Belloni, Federico Butti, Martina Cattaneo, Tommaso Doria, Laura Filippi, Gianmaria Giannini, Luca Lionello, Gabriele Mascherpa, Laura Massocchi, Davide Negri, Carlo Maria Palermo, Giulia Spiaggi.Stampato presso: Tipografia P.I.M.E Editrice S.r.l
Puoi trovare Publius, oltre ai vari angoli dell’Università, anche presso: bar interno facoltà di Ingegneria, bar facoltà di Economia, mensa Cravino, sala studio San Tommaso, bacheca A.C.E.R.S.A.T cortile delle statue.
Periodico trimestrale degli studenti dell’Università di Pavia. Informazioni, riflessioni e commenti sull’Europa di oggi e di domani.Registrazione n. 705 del Registro della Stampa Periodica - Autorizzazione del tribu-nale di Pavia del 19 Maggio 2009
Iniziativa realizzata con il contributo della Commissione A.C.E.R.S.A.T dell’Univer-sità di Pavia nell’ambito del programma per la promozione delle attività culturali e ricreative degli studenti.Distribuito con licenza Creative Commons Attribution-Share Alike 2.0 Generic