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La Voce dei Berici Domenica 13 aprile 2014 8 Chiesa locale La parrocchia sempre vicina alla missione di “Giampa” La Voce dei Berici Domenica 13 aprile 2014 9 Chiesa locale La Diocesi in Cameroun dal 1976 La missione della diocesi di Vicenza in Cameroun è iniziata nel 1976, con la convenzione stipulata con la diocesi di Sangmelina (nel sud del Paese) e l’invio dei preti vicentini don Francesco Ferro e don Luciano Rua- ro. Alla scadenza della convenzione, nel 1987, ne viene siglata una di nuova con il Vescovo di Maroua-Moko- lo, diocesi che si trova all’estremo nord del Cameroun, la parte più povera e popolosa del Paese. Vi abita- no circa 1.700.000 persone, divise in più di una cinquantina di etnie. I cattolici battezzati sono circa 60mila, più numerosi sono i catecumeni e i simpatizzanti. I musulmani rappresentano un terzo della popolazione. Le relazioni tra la Chiesa cattolica e l’Islam ufficiale sono amicali. La Chiesa cattolica conta 35 parrocchie e 7 distretti, retti da un amministratore laico e da un prete moderatore. In diocesi operano una quarantina di preti diocesani e, fra questi, i quattro vicentini a servizio di due parrocchie: Tchére-Tchakidjebè (don Gia- nantonio Allegri e don Giampaolo Marta) e Loulou (don Leopoldo Rossi e don Maurizio Bolzon). Dal 1987 ad oggi hanno operato nella Diocesi di Maroua-Mokolo 14 preti fidei donum vicentini. * Notizie tratte da Per le vie del mondo, inserto curato da La Voce dei Berici sulle parrocchie della Dioce- si di Vicenza in terra di missione (ottobre 2011) MOLINA DI MALO Tra i parenti e gli amici di don Giampaolo «So che le probabilità sono 50 e 50. Ho massima fiducia, ma non è faci- le». Rosa Emma è l’unica dei cinque fratelli di Giampaolo Marta a parla- re con la stampa. Una signora forte, dagli occhi grandi, 13 anni più vec- chia del fratello, rimasta vedova a 26. Una donna che conosce intima- mente il significato della privazione inaspettata. Ha sentito l’ultima volta Giam- paolo la domenica prima del rapi- mento (il 30 marzo), a casa della madre, malata. «Ogni domenica ci alterniamo tra fratelli, una volta al mese circa a testa - racconta -. Domenica toccava a me; Giampao- lo - com’era solito fare - mi ha chia- mata. Mi ha chiesto come stesse la mamma. Gli risposi: “Bene. Sta bene, ha un bel periodo”. “Ma la mamma sta davvero bene? Davve- ro?” Insistette tre volte, come se volesse esserne certo. Era la prima volta che si comportava così. Oggi, con il senno di poi, mi chiedo se sospettasse qualcosa, se intuisse del rapimento. Che cosa hanno voluto dire quelle frasi?». «Spero tanto che non lo torturino psicologicamente - continua la don- na -. Le percosse fisiche sono certe, spero che evitino quelle psicologi- che. “Giampa” era sempre di corsa, sarà dura per lui stare fermo. Ha sempre avuto un rapporto speciale con la mamma. Lo ebbe tardi, a 41 anni. L’anno dopo nacque Loren- zo». I due fratelli frequentarono entrambi il seminario: Giampaolo lo finì, Lorenzo lasciò. «Per andare a studiare usavano la mia auto. Mia figlia e Giampaolo hanno solo 8 anni di differenza, sono cresciuti insieme. Siamo una grande famiglia» rac- conta la sorella. È stato proprio Lorenzo, il fra- tello più giovane, ad avvertire Rosa Emma del rapimento, sabato scor- so.«Era a Milano, mi ha chiamata verso le 6. Ero sveglia dalle 5, incre- dula, come se sentissi qualcosa». Insieme a tutta la diocesi in que- sti giorni sta pregando per Giam- paolo il parroco di Molina di Malo, don Martino Prandina, che cono- sce bene entrambi i rapiti. «Giam- paolo fu ordinato nel 1992 - rac- conta - io dal ‘90 al ‘94 frequentavo il Mandorlo, al Seminario minore. Ci conoscevamo bene. Doveva tor- nare a casa in ottobre. Spero tanto che la vicenda abbia lo stesso epi- logo di quella del prete francese, Georges Vandenbeusch». Vicino al campanile della parroc- chiale, abita il cugino di Giampaolo, Giuseppe Meda, sceso in Cameroun, nel 2011, con don Arrigo Grendele, direttore dell’Ufficio missionario dio- cesano. «Mi viene da piangere se penso a tutto quello che è stato fat- to, solo chi ha visto può capire l’im- portanza dei preti fidei donum ( dal latino, letteralmente “Dono della fede”. Sono i presbiteri, i diaconi e i laici diocesani, inviati a realizzare un servizio temporaneo in terra di missione, sulla base di quanto sta- bilito dall'omonima enciclica, di papa Pio XII, il 21 aprile 1957 , ndr), se non ci fossero loro, non ci sareb- be niente - racconta seduto in salo- ne con la moglie e il fratello Pier- paolo -. Non so neanche come face- vano a vivere lì. È una fascia di ter- ra abbandonata, molto lontana dal- la capitale. C’è chi fa e chi disfa». Molina di Malo è il fulcro degli aiuti al Cameroun: dalla parrocchia in questi anni sono partiti tre con- tainer, carichi soprattutto di generi alimentari. L’ultimo, partito a dicem- bre, arrivato 20 giorni fa circa, tra- sportava anche la campana per la chiesa della parrocchia di Loulou, imbottita di completini da calcio: magliette, pantaloncini, calzettoni, un regalo del Molina Calcio, per le partite nelle giornate che, in alcune zone dell’Africa, trascorrono tutte uguali. Le fondamenta e i muri del- la chiesa, sono stati costruiti da muratori di Molina e zone limitrofe. Oggi è ancora senza tetto. «Gli ope- rai dovevano partire due giorni dopo il rapimento del francese, ma don Maurizio Bolzon decise per lo stop» spiega Giuseppe. «Una sberla in fac- cia avrebbe fatto loro meno male - aggiunge la moglie - avevano i biglietti in tasca, ci rimasero malis- simo». Le valigie erano già pronte, di là in garage, c’era anche la sopressa, tanto amata da Giampaolo -. «Al telefono l’ho sempre sentito sereno, felice di essere in missione - conti- nua il cugino -. Non mi ha mai det- to di aver paura, di sospettare qual- cosa, ma lui è fatto così. È brillante, decisamente di poche chiacchiere, dinamico e molto attivo. Era adora- to soprattutto dai bambini». «All’ini- zio pensavo ad uno scherzo! Mi sem- bra ancora che non sia vero» inter- viene l’altro cugino, Pierpaolo, sce- so in Camerun due volte. «Giù è meraviglioso, è come se mi avessero portato via del “mio”. La diocesi ha costruito così tanto. La possibilità che tutto possa essere piantato lì è terribile. Anche se li libereranno - cosa che spero con tutto me stesso - sarà uno scom- penso enorme per i rapiti - conclu- de Giuseppe -. La faccenda avrà uno strascico enorme. Rientreranno a casa senza salutare nessuno, nien- te sarà più come prima». «C’è un disegno divino in tutto questo?». «C’è - risponde la moglie - solo che adesso non lo vediamo». Marta Randon Quella valigia in stile “Eta Beta” piena di biscotti La missione in Cameroun All’Estremo nord di un Paese che da cinquant’anni vive in pace “Una parola è troppa e due sono poche”: è la prima cosa che mi è venuta in mente - facendo mia una fra- se del celebre Nonno Libero -, quando sabato 5 apri- le, alle 7 di mattina, mentre ero in auto, sono stata rag- giunta da una telefonata dal Cameroun, che mi infor- mava che due sacerdoti della diocesi di Vicenza erano stati rapiti. Il cuore ha sobbalzato. Non ci potevo cre- dere. Il mio primo pensiero è andato a don Maurizio Bolzon, che avevo intervistato per Famiglia Cristiana, lo scorso novembre, poco dopo il rapimento del padre francese, Georges Vandenbeusch. Mi aveva raccomandato di prestare attenzione alle parole, e a me sembrava di aver fatto un pezzo di grande diplomazia. Ma quella telefonata mi ha mandato in crisi. Se quella testimonianza fosse risultata sco- moda? Avevo riportato davvero una parola di troppo? Qualche volta, la delicatezza delle situazioni fa a pugni col mestiere. Ma la seconda telefonata, giunta poco dopo, ha chiarito che non si trattava di don Maurizio, bensì di don Giampaolo Marta, don Gianantonio Alle- gri e suor Gilberte Bussiére. La preoccupazione non veniva meno, cambiava solo nome. Don Giampaolo l’ho conosciuto bene, nel gen- naio 2011, quando con don Arrigo Grendele, diretto- re dell’Ufficio missionario diocesano, abbiamo accom- pagnato don Leopoldo Rossi, che prendeva servizio nella parrocchia di Loulou, per dare man forte a don Maurizio, da un anno e mezzo rimasto solo. Con noi c’erano anche tre dei fratelli di don Damiano Meda (all’epoca assieme al cugino don Giampaolo nella par- rocchia di Tchére-Thakidjebè, poi rientrato a Vicenza lo scorso giugno, e sostituito da don Gianantonio): Pierpaolo, Rosetta e Giuseppe. Venivano per la prima volta a vedere dove viveva il fratello. Rosetta mi fece tanta tenerezza, fin dalla prima notte, trascorsa in un’N’Djamena, totalmente avvolta dal buio, perché lì la corrente elettrica va a singhiozzo. Allora si atterrava all’aeroporto della capitale del Ciad, per poi prose- guire in auto fino in Cameroun. Saranno 300 chilo- metri, ma oggi quella strada non è più praticabile, a meno di non essere scortati. Quando arrivammo a Tchéré, una delle valigie dei fratelli Meda ricordava quella di Eta Beta. Ne uscirono sacchetti di biscotti, scatole di pasta, vasetti di nutella, e ogni sorta di ben di Dio, perché quando si vive in posti così lontani, mi disse Rosetta, «si ha bisogno di qualche “coccola”». In quell’occasione conoscemmo anche suor Gilberte, canadese, della congregazione di “Notre Dame de Montreal”: è una donna di ottant’anni, dinamica, tena- ce, piena di amore verso quei bambini ai quali da 35 anni fa da insegnante. Bimbi che si devono destreg- giare fin dalla più tenera età tra il mofu (idioma loca- le) e il francese (dal XVII secolo il Paese venne colo- nizzato dagli europei, attirati dal commercio degli schiavi e dall’avorio. Prima arrivarono i tedeschi, poi, dopo la prima guerra mondiale, le forze alleate pose- ro la colonia sotto mandato francese, a eccezione di una piccola parte, a ovest, affidata alla Gran Bretagna, ndr). Suor Gilberte era stata qualche settimana a casa, in Canada, per un problema di salute, ma, come quasi sempre accade con i missionari, nonostante le consorelle le avessero consigliato di non tornare nel Paese africano, lei non aveva voluto sentire ragioni. «È un bene che sia con i due nostri sacerdoti, perché, se pur fisicamente è la più debole, è una donna di gran- de fede, e questa è la sua forza», dice don Arrigo Grendele. «Mi sembra di vedere la gente di Tchéré - dice don Lorenzo Zaupa, che quella parrocchia l’ha aperta nel 1994, e vi è rimasto quattro anni -. Immagino una lunga fila, silenziosa, che da tutte le comunità si incam- mina verso la parrocchia per avere notizie. Dimostra così, con la presenza, l’affetto per i suoi preti scom- parsi, per suor Gilberte, maestra di due generazioni. Questo è il popolo camerunese ». Che idea ti sei fatto della situazione? «Lo ripeto. La gente non c’entra nulla, nutre grande attaccamento per i missionari, ne riconosce il valore e l’impegno. Ma in quella zona, a 80-90 chilometri dal confine con la Nigeria, si sviluppano grossi traffici. In Nigeria si com- pra di tutto con poco: petrolio, benzina, pezzi di ricam- bio, carburante, e poi si rivende in Cameroun. Lì, la nostra parrocchia è esposta a troppi sguardi». Quando andai lì, mi colpì l’isolamento di quella ter- ra, l’Estremo Nord del Cameroun, al confine con il Ciad (a nord), la Nigeria (a nord-ovest, per quasi 1.700 chilometri), la Repubblica Centrafricana (a est), lontanissimo da Yaoundé, la capitale, che sta a sud, e quindi dal governo centrale. Il fatto che il Paese vives- se stabilità politica da cinquant’anni, metteva una cer- ta tranquillità, ma la non distribuzione della ricchezza è un fattore esplosivo. Quando la pancia è vuota, è faci- le diventare preda del fondamentalismo, dell’idea che qualsiasi straniero sia un nemico da combattere. L’Estremo nord è una regione montagnosa e piena di sassi, dove case di terra e tetti di paglia si confon- dono con le rocce. Il miglio è l’alimento quotidiano, da cui si ricavano la polenta, la birra, il foraggio per le capre, la corda per i tetti di paglia, e viene utilizzato anche come offerta agli antenati. Ma spesso, l’uomo il miglio se lo beve, sottoforma di bil-bil, un intruglio responsabile dell’alcolismo dilagante. Il clima alterna stagioni molto secche a periodi di piogge torrenziali, e ad altri “spazzati” dall’harmattan (il tipico vento), che rende il terreno duro e aspro. Durante la stagione delle piogge (giugno-settembre) si lavora sodo per mettere nel granaio miglio sufficiente alla sopravvivenza durante la lunga stagione secca. Chi può, emigra in città, in cerca di lavoro, oppure si indebita, o si mette a servizio di padroni senza scrupoli. Quando la pioggia tarda, oppure è scarsa, oppure arri- vano le cavallette, il raccolto non è buono. Allora regna la fame. In tale contesto, se non ci fossero i missionari, non ci sarebbe nessuno. La gente lo sa, pre- ga, e aspetta. Romina Gobbo Prima e dopo ogni messa si prega per i rapiti «Quando lo libereranno mi chiami pure, così viene qui a scattare una bella fotografia con mio cugino». Marcella Allegri è l’unica parente stretta che risiede vicino a Magrè, comunità che don Giannantonio Allegri, orfano di padre e di madre e figlio unico, ha condotto con amore dal 2002 al 2013, prima di partire per il Cameroun come pre- te fidei donum. «Sono stata avvertita del rapimento da don Arrigo Grendele, direttore del- l’Ufficio missionario diocesano sabato mattina presto - racconta la donna al telefono -. Purtroppo non ci sono novità. Sono giorni diffici- li, l’apprensione è terribile, siamo chiusi nel nostro dolore e non pos- siamo fare altro che pregare». Nel bar piazzetta di fronte alla canonica, sulle strade, nei negozi del paese, tutti ricordano don Gia- nantonio con grande affetto. «Da sabato mattina il telefono continua a squillare e molte per- sone sono venute a trovarmi - rac- conta il parroco don Luigino Perin, già rettore del Seminario minore. I parrocchiani sono affranti, incre- duli. È stato portato via un fratel- lo, un amico. Ho detto messa saba- to mattina e ho dato la notizia alle venti, trenta persone che c’erano in chiesa. Nel giro di un’ora la voce si è sparsa. Dobbiamo vivere l’av- venimento con fede e pregare». «Ci siamo dati una regola - conti- nua il sacerdote -: prima e dopo ogni messa chi vuole può fermar- si a pregare per i due rapiti». Gianantonio era già stato in mis- sione, sempre in Cameroun, dal 1991 al gennaio 2002. «Mi aveva detto che la situazione era cam- biata, che il Cameroun non era più lo stesso - racconta Agnese, una laica che ha prestato servizio in Ciad e in Palestina per tanti anni -. Aveva nostalgia e quando il Vescovo gli ha chiesto di partire ha detto sì con il cuore in mano. Ven- t’anni fa si poteva dormire con la branda sotto le stelle. Oggi ci sono troppe armi». Don Bruno Stenco, parroco di Schio, città natale di Gianantonio sta coordinando i vari gruppi par- rocchiali per la preghiera. «La pre- occupazione è altissima - raccon- ta -. Ma sono fiducioso. Siamo in comunicazione con i due fratelli attraverso la preghiera e la loro forza si riflette su di noi». Don Gianantonio ha ancora alcuni oggetti personali in canoni- ca, che è stata la sua casa per tan- ti anni. Oggi è la cugina Marcella depositaria di tutto quello che ha lasciato in Italia. Fu ordinato pre- te nel 1982, a 25 anni, fu cappel- lano a Sandrigo e poi cappellano a Valdagno fino al 1991. «Non solo è molto amato - rac- conta don Luigino -. È un parroco generoso e di grande equilibrio. Non credo ci fosse un timore con- creto, ma sapevo che era stato avvertito del pericolo. Era a cono- scenza di alcune infiltrazioni. Ha lasciato una parrocchia molto organizzata, vivace e io ho mante- nuto la sua impostazione. Ci sono molti gruppi: gruppo fidanzati, gruppo battesimi, gruppo scout. Abbiamo vissuto insieme per lo scambio di consegne per quasi un mese ed è stata una bellissima esperienza». «Lo caratterizza uno stile molto giovanile - conclude il prete -. La sua forza è la sintonia con i ragaz- zi. Credo che in Africa fosse lo stesso». «Perché non li fanno rientrare tutti in Italia? - chiede ad alta voce un parrocchiano al bar, visibil- mente commosso-. Servono tanti preti qui da noi, soprattutto come don Giannantonio. Spero di poter- lo riabbracciare presto». Ma.Ra. MAGRÈ DI SCHIO Nella comunità di don Gianantonio Don Gianantonio, a destra, assieme a mons. Beniamino Pizziol Don Giampaolo Marta La comunità di Dogbà assieme al Vescovo di Vicenza e ai missiona- ri fidei donum vicentini

Quella valigia in stile “Eta Beta”

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Page 1: Quella valigia in stile “Eta Beta”

La Voce dei Berici Domenica 13 aprile 20148Chiesa locale

La parrocchiasempre vicinaalla missionedi “Giampa”

La Voce dei Berici Domenica 13 aprile 2014 9 Chiesa locale

La Diocesi in Cameroun dal 1976La missione della diocesi di Vicenza in Cameroun è iniziata nel 1976, con la convenzione stipulata con ladiocesi di Sangmelina (nel sud del Paese) e l’invio dei preti vicentini don Francesco Ferro e don Luciano Rua-ro. Alla scadenza della convenzione, nel 1987, ne viene siglata una di nuova con il Vescovo di Maroua-Moko-lo, diocesi che si trova all’estremo nord del Cameroun, la parte più povera e popolosa del Paese. Vi abita-no circa 1.700.000 persone, divise in più di una cinquantina di etnie. I cattolici battezzati sono circa 60mila,più numerosi sono i catecumeni e i simpatizzanti. I musulmani rappresentano un terzo della popolazione.Le relazioni tra la Chiesa cattolica e l’Islam ufficiale sono amicali. La Chiesa cattolica conta 35 parrocchie e7 distretti, retti da un amministratore laico e da un prete moderatore. In diocesi operano una quarantinadi preti diocesani e, fra questi, i quattro vicentini a servizio di due parrocchie: Tchére-Tchakidjebè (don Gia-nantonio Allegri e don Giampaolo Marta) e Loulou (don Leopoldo Rossi e don Maurizio Bolzon). Dal1987 ad oggi hanno operato nella Diocesi di Maroua-Mokolo 14 preti fidei donum vicentini.

* Notizie tratte da Per le vie del mondo, inserto curato da La Voce dei Berici sulle parrocchie della Dioce-si di Vicenza in terra di missione (ottobre 2011)

MOLINA DI MALO Tra i parenti e gli amici di don Giampaolo

«So che le probabilità sono 50 e 50.Ho massima fiducia, ma non è faci-le». Rosa Emma è l’unica dei cinquefratelli di Giampaolo Marta a parla-re con la stampa. Una signora forte,dagli occhi grandi, 13 anni più vec-chia del fratello, rimasta vedova a26. Una donna che conosce intima-mente il significato della privazioneinaspettata.

Ha sentito l’ultima volta Giam-paolo la domenica prima del rapi-mento (il 30 marzo), a casa dellamadre, malata. «Ogni domenica cialterniamo tra fratelli, una volta almese circa a testa - racconta -.Domenica toccava a me; Giampao-lo - com’era solito fare - mi ha chia-mata. Mi ha chiesto come stesse lamamma. Gli risposi: “Bene. Stabene, ha un bel periodo”. “Ma lamamma sta davvero bene? Davve-ro?” Insistette tre volte, come sevolesse esserne certo. Era la primavolta che si comportava così. Oggi,con il senno di poi, mi chiedo sesospettasse qualcosa, se intuissedel rapimento. Che cosa hannovoluto dire quelle frasi?».

«Spero tanto che non lo torturinopsicologicamente - continua la don-na -. Le percosse fisiche sono certe,spero che evitino quelle psicologi-che. “Giampa” era sempre di corsa,sarà dura per lui stare fermo. Hasempre avuto un rapporto specialecon la mamma. Lo ebbe tardi, a 41anni. L’anno dopo nacque Loren-zo». I due fratelli frequentaronoentrambi il seminario: Giampaololo finì, Lorenzo lasciò. «Per andarea studiare usavano la mia auto. Miafiglia e Giampaolo hanno solo 8 annidi differenza, sono cresciuti insieme.Siamo una grande famiglia» rac-conta la sorella.

È stato proprio Lorenzo, il fra-tello più giovane, ad avvertire RosaEmma del rapimento, sabato scor-so.«Era a Milano, mi ha chiamataverso le 6. Ero sveglia dalle 5, incre-dula, come se sentissi qualcosa».

Insieme a tutta la diocesi in que-sti giorni sta pregando per Giam-paolo il parroco di Molina di Malo,don Martino Prandina, che cono-sce bene entrambi i rapiti. «Giam-paolo fu ordinato nel 1992 - rac-conta - io dal ‘90 al ‘94 frequentavoil Mandorlo, al Seminario minore.Ci conoscevamo bene. Doveva tor-nare a casa in ottobre. Spero tantoche la vicenda abbia lo stesso epi-logo di quella del prete francese,Georges Vandenbeusch».

Vicino al campanile della parroc-chiale, abita il cugino di Giampaolo,Giuseppe Meda, sceso in Cameroun,nel 2011, con don Arrigo Grendele,direttore dell’Ufficio missionario dio-cesano. «Mi viene da piangere sepenso a tutto quello che è stato fat-to, solo chi ha visto può capire l’im-portanza dei preti fidei donum (dallatino, letteralmente “Dono dellafede”. Sono i presbiteri, i diaconi e ilaici diocesani, inviati a realizzareun servizio temporaneo in terra dimissione, sulla base di quanto sta-bilito dall'omonima enciclica, dipapa Pio XII, il 21 aprile 1957, ndr),se non ci fossero loro, non ci sareb-be niente - racconta seduto in salo-ne con la moglie e il fratello Pier-paolo -. Non so neanche come face-vano a vivere lì. È una fascia di ter-ra abbandonata, molto lontana dal-la capitale. C’è chi fa e chi disfa».

Molina di Malo è il fulcro degliaiuti al Cameroun: dalla parrocchiain questi anni sono partiti tre con-tainer, carichi soprattutto di generialimentari. L’ultimo, partito a dicem-bre, arrivato 20 giorni fa circa, tra-sportava anche la campana per lachiesa della parrocchia di Loulou,imbottita di completini da calcio:magliette, pantaloncini, calzettoni,un regalo del Molina Calcio, per lepartite nelle giornate che, in alcunezone dell’Africa, trascorrono tutteuguali. Le fondamenta e i muri del-la chiesa, sono stati costruiti damuratori di Molina e zone limitrofe.Oggi è ancora senza tetto. «Gli ope-rai dovevano partire due giorni dopoil rapimento del francese, ma donMaurizio Bolzon decise per lo stop»spiega Giuseppe. «Una sberla in fac-cia avrebbe fatto loro meno male -aggiunge la moglie - avevano ibiglietti in tasca, ci rimasero malis-simo». Le valigie erano già pronte, dilà in garage, c’era anche la sopressa,tanto amata da Giampaolo -. «Altelefono l’ho sempre sentito sereno,felice di essere in missione - conti-nua il cugino -. Non mi ha mai det-to di aver paura, di sospettare qual-cosa, ma lui è fatto così. È brillante,decisamente di poche chiacchiere,dinamico e molto attivo. Era adora-to soprattutto dai bambini». «All’ini-zio pensavo ad uno scherzo! Mi sem-bra ancora che non sia vero» inter-viene l’altro cugino, Pierpaolo, sce-so in Camerun due volte.

«Giù è meraviglioso, è come se miavessero portato via del “mio”. Ladiocesi ha costruito così tanto. Lapossibilità che tutto possa esserepiantato lì è terribile. Anche se lilibereranno - cosa che spero contutto me stesso - sarà uno scom-penso enorme per i rapiti - conclu-de Giuseppe -. La faccenda avràuno strascico enorme. Rientrerannoa casa senza salutare nessuno, nien-te sarà più come prima». «C’è undisegno divino in tutto questo?».«C’è - risponde la moglie - solo cheadesso non lo vediamo».

Marta Randon

Quella valigiain stile “Eta Beta”piena di biscotti

La missione in Cameroun All’Estremo nord di un Paese che da cinquant’anni vive in pace

“Una parola è troppa e due sono poche”: è la primacosa che mi è venuta in mente - facendo mia una fra-se del celebre Nonno Libero -, quando sabato 5 apri-le, alle 7 di mattina, mentre ero in auto, sono stata rag-giunta da una telefonata dal Cameroun, che mi infor-mava che due sacerdoti della diocesi di Vicenza eranostati rapiti. Il cuore ha sobbalzato. Non ci potevo cre-dere. Il mio primo pensiero è andato a don MaurizioBolzon, che avevo intervistato per Famiglia Cristiana,lo scorso novembre, poco dopo il rapimento del padrefrancese, Georges Vandenbeusch.

Mi aveva raccomandato di prestare attenzione alleparole, e a me sembrava di aver fatto un pezzo digrande diplomazia. Ma quella telefonata mi ha mandatoin crisi. Se quella testimonianza fosse risultata sco-moda? Avevo riportato davvero una parola di troppo?Qualche volta, la delicatezza delle situazioni fa a pugnicol mestiere. Ma la seconda telefonata, giunta pocodopo, ha chiarito che non si trattava di don Maurizio,bensì di don Giampaolo Marta, don Gianantonio Alle-gri e suor Gilberte Bussiére.

La preoccupazione non veniva meno, cambiava solonome. Don Giampaolo l’ho conosciuto bene, nel gen-naio 2011, quando con don Arrigo Grendele, diretto-re dell’Ufficio missionario diocesano, abbiamo accom-pagnato don Leopoldo Rossi, che prendeva servizionella parrocchia di Loulou, per dare man forte a donMaurizio, da un anno e mezzo rimasto solo. Con noic’erano anche tre dei fratelli di don Damiano Meda

(all’epoca assieme al cugino don Giampaolo nella par-rocchia di Tchére-Thakidjebè, poi rientrato a Vicenzalo scorso giugno, e sostituito da don Gianantonio):Pierpaolo, Rosetta e Giuseppe. Venivano per la primavolta a vedere dove viveva il fratello. Rosetta mi fecetanta tenerezza, fin dalla prima notte, trascorsa inun’N’Djamena, totalmente avvolta dal buio, perché lì lacorrente elettrica va a singhiozzo. Allora si atterravaall’aeroporto della capitale del Ciad, per poi prose-guire in auto fino in Cameroun. Saranno 300 chilo-metri, ma oggi quella strada non è più praticabile, ameno di non essere scortati. Quando arrivammo aTchéré, una delle valigie dei fratelli Meda ricordavaquella di Eta Beta. Ne uscirono sacchetti di biscotti,scatole di pasta, vasetti di nutella, e ogni sorta di bendi Dio, perché quando si vive in posti così lontani, midisse Rosetta, «si ha bisogno di qualche “coccola”». Inquell’occasione conoscemmo anche suor Gilberte,canadese, della congregazione di “Notre Dame deMontreal”: è una donna di ottant’anni, dinamica, tena-ce, piena di amore verso quei bambini ai quali da 35anni fa da insegnante. Bimbi che si devono destreg-giare fin dalla più tenera età tra il mofu (idioma loca-le) e il francese (dal XVII secolo il Paese venne colo-nizzato dagli europei, attirati dal commercio deglischiavi e dall’avorio. Prima arrivarono i tedeschi, poi,dopo la prima guerra mondiale, le forze alleate pose-ro la colonia sotto mandato francese, a eccezione diuna piccola parte, a ovest, affidata alla Gran Bretagna,

ndr). Suor Gilberte era stata qualche settimana acasa, in Canada, per un problema di salute, ma, comequasi sempre accade con i missionari, nonostante leconsorelle le avessero consigliato di non tornare nelPaese africano, lei non aveva voluto sentire ragioni. «Èun bene che sia con i due nostri sacerdoti, perché, sepur fisicamente è la più debole, è una donna di gran-de fede, e questa è la sua forza», dice don ArrigoGrendele.

«Mi sembra di vedere la gente di Tchéré - dice donLorenzo Zaupa, che quella parrocchia l’ha aperta nel1994, e vi è rimasto quattro anni -. Immagino unalunga fila, silenziosa, che da tutte le comunità si incam-mina verso la parrocchia per avere notizie. Dimostracosì, con la presenza, l’affetto per i suoi preti scom-parsi, per suor Gilberte, maestra di due generazioni.Questo è il popolo camerunese ».

Che idea ti sei fatto della situazione? «Lo ripeto. Lagente non c’entra nulla, nutre grande attaccamento peri missionari, ne riconosce il valore e l’impegno. Ma inquella zona, a 80-90 chilometri dal confine con laNigeria, si sviluppano grossi traffici. In Nigeria si com-pra di tutto con poco: petrolio, benzina, pezzi di ricam-bio, carburante, e poi si rivende in Cameroun. Lì, lanostra parrocchia è esposta a troppi sguardi».

Quando andai lì, mi colpì l’isolamento di quella ter-ra, l’Estremo Nord del Cameroun, al confine con ilCiad (a nord), la Nigeria (a nord-ovest, per quasi1.700 chilometri), la Repubblica Centrafricana (a est),

lontanissimo da Yaoundé, la capitale, che sta a sud, equindi dal governo centrale. Il fatto che il Paese vives-se stabilità politica da cinquant’anni, metteva una cer-ta tranquillità, ma la non distribuzione della ricchezzaè un fattore esplosivo. Quando la pancia è vuota, è faci-le diventare preda del fondamentalismo, dell’idea chequalsiasi straniero sia un nemico da combattere.

L’Estremo nord è una regione montagnosa e pienadi sassi, dove case di terra e tetti di paglia si confon-dono con le rocce. Il miglio è l’alimento quotidiano, dacui si ricavano la polenta, la birra, il foraggio per lecapre, la corda per i tetti di paglia, e viene utilizzatoanche come offerta agli antenati. Ma spesso, l’uomo ilmiglio se lo beve, sottoforma di bil-bil, un intruglioresponsabile dell’alcolismo dilagante.

Il clima alterna stagioni molto secche a periodi dipiogge torrenziali, e ad altri “spazzati” dall’harmattan(il tipico vento), che rende il terreno duro e aspro.Durante la stagione delle piogge (giugno-settembre)si lavora sodo per mettere nel granaio miglio sufficientealla sopravvivenza durante la lunga stagione secca.Chi può, emigra in città, in cerca di lavoro, oppure siindebita, o si mette a servizio di padroni senza scrupoli.Quando la pioggia tarda, oppure è scarsa, oppure arri-vano le cavallette, il raccolto non è buono. Alloraregna la fame. In tale contesto, se non ci fossero imissionari, non ci sarebbe nessuno. La gente lo sa, pre-ga, e aspetta.

Romina Gobbo

Prima e dopoogni messasi pregaper i rapiti

«Quando lo libereranno mi chiamipure, così viene qui a scattare unabella fotografia con mio cugino».Marcella Allegri è l’unica parentestretta che risiede vicino a Magrè,comunità che don GiannantonioAllegri, orfano di padre e di madree figlio unico, ha condotto conamore dal 2002 al 2013, prima dipartire per il Cameroun come pre-te fidei donum. «Sono stataavvertita del rapimento da donArrigo Grendele, direttore del-l’Ufficio missionario diocesanosabato mattina presto - racconta ladonna al telefono -. Purtroppo nonci sono novità. Sono giorni diffici-li, l’apprensione è terribile, siamochiusi nel nostro dolore e non pos-siamo fare altro che pregare».

Nel bar piazzetta di fronte allacanonica, sulle strade, nei negozidel paese, tutti ricordano don Gia-nantonio con grande affetto.

«Da sabato mattina il telefonocontinua a squillare e molte per-sone sono venute a trovarmi - rac-conta il parroco don Luigino Perin,già rettore del Seminario minore.I parrocchiani sono affranti, incre-duli. È stato portato via un fratel-lo, un amico. Ho detto messa saba-to mattina e ho dato la notizia alleventi, trenta persone che c’eranoin chiesa. Nel giro di un’ora la vocesi è sparsa. Dobbiamo vivere l’av-venimento con fede e pregare».«Ci siamo dati una regola - conti-

nua il sacerdote -: prima e dopoogni messa chi vuole può fermar-si a pregare per i due rapiti».

Gianantonio era già stato in mis-sione, sempre in Cameroun, dal1991 al gennaio 2002. «Mi avevadetto che la situazione era cam-biata, che il Cameroun non erapiù lo stesso - racconta Agnese,una laica che ha prestato servizioin Ciad e in Palestina per tantianni -. Aveva nostalgia e quando ilVescovo gli ha chiesto di partire hadetto sì con il cuore in mano. Ven-t’anni fa si poteva dormire con labranda sotto le stelle. Oggi ci sonotroppe armi».

Don Bruno Stenco, parroco diSchio, città natale di Gianantoniosta coordinando i vari gruppi par-rocchiali per la preghiera. «La pre-occupazione è altissima - raccon-ta -. Ma sono fiducioso. Siamo incomunicazione con i due fratelliattraverso la preghiera e la loroforza si riflette su di noi».

Don Gianantonio ha ancoraalcuni oggetti personali in canoni-ca, che è stata la sua casa per tan-ti anni. Oggi è la cugina Marcelladepositaria di tutto quello che halasciato in Italia. Fu ordinato pre-te nel 1982, a 25 anni, fu cappel-lano a Sandrigo e poi cappellano aValdagno fino al 1991.

«Non solo è molto amato - rac-conta don Luigino -. È un parrocogeneroso e di grande equilibrio.Non credo ci fosse un timore con-creto, ma sapevo che era statoavvertito del pericolo. Era a cono-scenza di alcune infiltrazioni. Halasciato una parrocchia moltoorganizzata, vivace e io ho mante-nuto la sua impostazione. Ci sonomolti gruppi: gruppo fidanzati,gruppo battesimi, gruppo scout.Abbiamo vissuto insieme per loscambio di consegne per quasi unmese ed è stata una bellissimaesperienza».

«Lo caratterizza uno stile moltogiovanile - conclude il prete -. Lasua forza è la sintonia con i ragaz-zi. Credo che in Africa fosse lostesso».

«Perché non li fanno rientraretutti in Italia? - chiede ad alta voceun parrocchiano al bar, visibil-mente commosso-. Servono tantipreti qui da noi, soprattutto comedon Giannantonio. Spero di poter-lo riabbracciare presto».

Ma.Ra.

MAGRÈ DI SCHIO Nella comunità di don Gianantonio

Don Gianantonio, a destra, assieme a mons. Beniamino Pizziol

Don Giampaolo Marta

La comunità di Dogbà assieme alVescovo di Vicenza e ai missiona-ri fidei donum vicentini