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1 Rahner I° Papa? Maurizio Blondet – 12 Dicembre 2013 Da sempre più parti si segnala negli atti di Pa- pa Bergoglio l’influsso di Karl Rahner, il gesui- ta teologo e perito del Concilio; anzi c’è chi descrive l’elezione di Francesco come un col- po di Stato dei gesuiti ormai ridotti ad una setta rahneriana: «È la loro scuola che domi- na tutte le cattedre negli atenei cattolici, dove si è sostituito l’insegnamento del cristianesi- mo con il rahnerismo, e in America latina». La brutale soppressione dei Francescani del- l’Immacolata sarebbe una vendetta contro un ordine dal quale «si sono visti per la prima volta fare a pezzi, con un rigore stringente, i loro idoli di carta, i Rahner e compagni». Non so cosa pensare, non ho abbastanza in- formazioni interne, né letture teologiche per giudicare. So di un alto prelato, uno degli epurati da papa Francesco, che sta rileggendo con rinnovata attenzione le profezie della beata Caterina Emmerich («Vedo due papi...»), so che qualcosa di inqueto e minaccioso ribolle nella curia, e sono angosciato come credente. Per quel poco che so, intravvedo inquietanti consonanze rahneriste nell’impazienza del Papa at- tuale verso quei cristiani preoccupati della Tradizione, dei dogmi e delle eresie pullulanti con evi- denza nella Chiesa, che lui chiama «cristiani ideologici». Karl Rahner, durante tutto il Concilio di cui era ascoltatissimo «perito», esprimeva la seguente sardonica preghiera: «Che lo Spirito San- to guidi la Chiesa in modo che rinunci ai dogmi e alle condanne; allora i teologi potrebbero, col tempo, trovare ciò che è giusto». Per Rahner «gli enunciati della fede tradizionale [i dogmi] sono inadeguati, in buona parte, per lo meno per quanto concerne ciò che è necessario prima di ogni altra cosa: l’annuncio della fede (…)». Pare proprio qualcosa di molto simile all’idea di Chiesa come ospedale da campo dove ai feriti mortalmente non si fa l’esame del colesterolo. Il che sembra buono, ma solo se si dimentica che cosa è, per Rahner, «l’annuncio della fede» che ritiene così urgente da non dover essere inceppato dalla dogmatica. Ricordiamo che Rahner è un esponente terminale di quella patologia del pensiero detta «idealismo tedesco» nella versione Heidegger. E nel gergo filosofico, la parola ha tutt’altro significato da quello usato dalle persone comuni («Signora, cosa vuole, io sono un idealista»). No. Idealismo è la teoria metafisica che comincia con l’affermare che all’esperienza dell’io sono dati solo i suoi stati soggettivi, che vengono chiamati «idee». Sicché la realtà esterna, gli oggetti, non hanno realtà se non in quanto sono ideati dal soggetto, individuale o astratto. Così, per Kant che inaugura l’idealismo, il mondo esterno è inconoscibile «in sé», ma solo per quanto «appare» alla coscienza del soggetto. Né bisogna preoccuparsi della «cosa in Sé», bastando sapere il conte- nuto della coscienza (che Hegel poi eliminerà del tutto), il proprio caro io. L’opposto di Rom 1.20. Parimenti, Rahner nella sua «scienza» teologica non si occupa di Dio, la cui esistenza per lui non è dimostrabile, ma dell’uomo, nella cui coscienza il concetto di Dio appare. Senza l’uomo Dio non può essere conosciuto : è la «svolta antropologica» di Rahner in teologia, analoga alla «rivolu- zione copernicana» che Kant si attribuì: la conoscenza non è più «adeguamento della mente al reale» (come in San Tommaso), ma è l’intelletto umano che impone le sue leggi agli oggetti. Dio dunque esiste solo nella mente ... Quale sarebbe dunque l’annuncio della fede che la Chiesa rahneriana deve con tanta urgenza proclamare? Quale contenuto, se Dio ne è escluso?

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Rahner I° Papa?

Maurizio Blondet – 12 Dicembre 2013

Da sempre più parti si segnala negli atti di Pa-pa Bergoglio l’influsso di Karl Rahner, il gesui-ta teologo e perito del Concilio; anzi c’è chi descrive l’elezione di Francesco come un col-po di Stato dei gesuiti ormai ridotti ad una setta rahneriana: «È la loro scuola che domi-na tutte le cattedre negli atenei cattolici, dove si è sostituito l’insegnamento del cristianesi-mo con il rahnerismo, e in America latina». La brutale soppressione dei Francescani del-l’Immacolata sarebbe una vendetta contro un ordine dal quale «si sono visti per la prima volta fare a pezzi, con un rigore stringente, i loro idoli di carta, i Rahner e compagni».

Non so cosa pensare, non ho abbastanza in-formazioni interne, né letture teologiche per giudicare. So di un alto prelato, uno degli epurati da papa Francesco, che sta rileggendo con rinnovata attenzione le profezie della beata Caterina Emmerich («Vedo due papi...»), so che qualcosa di inqueto e minaccioso ribolle nella curia, e sono angosciato come credente.

Per quel poco che so, intravvedo inquietanti consonanze rahneriste nell’impazienza del Papa at-tuale verso quei cristiani preoccupati della Tradizione, dei dogmi e delle eresie pullulanti con evi-denza nella Chiesa, che lui chiama «cristiani ideologici». Karl Rahner, durante tutto il Concilio di cui era ascoltatissimo «perito», esprimeva la seguente sardonica preghiera: «Che lo Spirito San-to guidi la Chiesa in modo che rinunci ai dogmi e alle condanne; allora i teologi potrebbero, col tempo, trovare ciò che è giusto». Per Rahner «gli enunciati della fede tradizionale [i dogmi] sono inadeguati, in buona parte, per lo meno per quanto concerne ciò che è necessario prima di ogni altra cosa: l’annuncio della fede (…)».

Pare proprio qualcosa di molto simile all’idea di Chiesa come ospedale da campo dove ai feriti mortalmente non si fa l’esame del colesterolo. Il che sembra buono, ma solo se si dimentica che cosa è, per Rahner, «l’annuncio della fede» che ritiene così urgente da non dover essere inceppato dalla dogmatica. Ricordiamo che Rahner è un esponente terminale di quella patologia del pensiero detta «idealismo tedesco» nella versione Heidegger. E nel gergo filosofico, la parola ha tutt’altro significato da quello usato dalle persone comuni («Signora, cosa vuole, io sono un idealista»).

No. Idealismo è la teoria metafisica che comincia con l’affermare che all’esperienza dell’io sono dati solo i suoi stati soggettivi, che vengono chiamati «idee». Sicché la realtà esterna, gli oggetti, non hanno realtà se non in quanto sono ideati dal soggetto, individuale o astratto. Così, per Kant che inaugura l’idealismo, il mondo esterno è inconoscibile «in sé», ma solo per quanto «appare» alla coscienza del soggetto. Né bisogna preoccuparsi della «cosa in Sé», bastando sapere il conte-nuto della coscienza (che Hegel poi eliminerà del tutto), il proprio caro io. L’opposto di Rom 1.20.

Parimenti, Rahner nella sua «scienza» teologica non si occupa di Dio, la cui esistenza per lui non è dimostrabile, ma dell’uomo, nella cui coscienza il concetto di Dio appare. Senza l’uomo Dio non può essere conosciuto: è la «svolta antropologica» di Rahner in teologia, analoga alla «rivolu-zione copernicana» che Kant si attribuì: la conoscenza non è più «adeguamento della mente al reale» (come in San Tommaso), ma è l’intelletto umano che impone le sue leggi agli oggetti. Dio dunque esiste solo nella mente...

Quale sarebbe dunque l’annuncio della fede che la Chiesa rahneriana deve con tanta urgenza proclamare? Quale contenuto, se Dio ne è escluso?

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«Rahner – scrive De Mattei – afferma che la salvezza non è un problema, perché è assicurata a tutti, senza limiti di spazio, di tempo e di cultura. La chiesa è una comunità vasta come il mon-do, che include i «cristiani anonimi», i quali, benché possano dirsi non-cattolici, o addirittura atei, hanno la fede implicita. Chiunque infatti «accetta la propria umanità, costui, pur non sa-pendolo, dice di sì a Cristo, perché in lui ha accettato l’uomo». Tutti, dunque, anche gli atei, in quanto atei, si salvano se seguono la propria coscienza. Qualsiasi uomo, quando conosce se stesso, anche nel male che compie, se si accetta come tale, allora è auto-redento ed ha fede. E quanto più conosce e accetta la propria «esperienza trascendentale» tanto più ha fede».

È così che la pensa anche lei?, chiederei al Santo Padre con angoscia. Con mite perfidia intellettuale, gli amici Palmaro & Gnocchi (2) hanno citato un passo dal saggio Fatica di Credere di Karl Rahner:

«Chiunque segue la propria coscienza, sia che ritenga di dover essere cristiano oppure non-cristiano, sia che ritenga di dover essere ateo oppure credente, un tale individuo è accetto e ac-cettato da Dio e può conseguire quella vita eterna che nella nostra fede cristiana noi confessia-mo come fine di tutti gli uomini». «In altre parole: la grazia e la giustificazione, l’unione e la co-munione con Dio, la possibilità di raggiungere la vita eterna, tutto ciò incontra un ostacolo solo nella cattiva coscienza di un uomo».

Ohimè, ciò sembra coincidere esattamente con quello che lei, Padre Santo, ha ripetutamente comunicato ad Eugenio Scalfari, prima per iscritto e poi nell’intervista in seguito alquanto ripu-diata. Rahner non credeva al sacerdozio consacrato, al peccato originale, alla frase «Gesù è Dio», al dogma della transustanziazione. Quello di Rahner è soggettivismo, relativismo e moder-nismo sfrenato. Fra i dogmi che ritiene «inadeguati per ciò che è necessario come prima cosa, l’annuncio della fede», Rahner elenca questi: «Proposizioni come «vi sono tre persone in Dio», «noi siamo salvati dal sangue di Gesù Cristo» sono puramente e semplicemente incomprensibili per un uomo moderno (…) esse fanno la stessa impressione della pura mitologia di una religione del tempo passato».

Ora, come ho già raccontato, a Buenos Aires, nella parrocchia Santa Maria, in avenida La Plata 286, è avvenuto fra il 1992 e il 1996 un miracolo eucaristico (3). Un’ostia gettata a terra e messa dentro il tabernacolo in un boccale perché si sciogliesse nell’acqua, s’è mutata in un brandello san-guinante: esaminato, s’è rivelato un pezzo di muscolo cardiaco umano vicino al ventricolo sinistro; «la persona era viva quando è stato prelevato», ha sancito il perito settore che lo ha analizzato; un cuore che ha subito «un intensissimo stress, come picchiato sul petto»; (forse il colpo di lancia).

Ora, è chiarissimo che questo fatto – questo nudo fatto – smentisce frontalmente la «teologia» di Rahner. Quella secondo lui è «mitologia sorpassata», a cui «l’uomo moderno» non può più cre-dere, appare a Buenos Aires come miocardio sanguinante; un fatto nient’affatto «idealista»; un cuore materiale, che dà la più spaventosa realtà alla frase «siamo stati salvati dal sangue di Cris-to» che a Rahner sembra ormai improponibile. Una realtà letterale e non metaforica, non un mito o un modo di dire, ma un oggetto che al microscopio rivela globuli bianchi ancora palpitanti.

Questo bruto fatto avvenuto in Argentina non solo conferma la scandalosa realtà delle parole di Gesù. Smentisce ogni «idealismo», ossia la pretesa che noi, quando conosciamo, contempliamo la nostra conoscenza o nostre idee, e non l’oggetto che sta al di là del nostro io. Esso conferma invece il «realismo» cristiano: non solo la realtà esiste oggettivamente e fuori di noi, ma pure che la vera conoscenza è adeguare la mente al reale, alla «cosa» – quel realismo che, disse Tommaso, è il primo atto d’umiltà: non siamo noi a creare la realtà, l’abbiamo trovata già qui, Dio l’ha fatta ed è nostro compito conoscerla come l’ha fatta Dio. È inoltre una realtà «dura», che sfata le nostre illusioni, anche le illusioni dell’incredulità.

Perché, non sarà inutile ricordarlo, non è che gli uomini «antichi» abbiano accettato facilmente, da superstiziosi, questa cosa, che Rahner consiglia alla Chiesa di abolire perché «l’uomo moder-no» non riesce a crederci. Quando Gesù dichiarò: «se non mangiate la carne del Figlio dell’uomo e non bevete il suo sangue, non avete in voi la vita», i giudei «si scandalizzano chiedendosi: "Come può costui darci la sua carne da mangiare?». Anzi persino molti, forse la maggior parte dei suoi seguaci, esclamano: «Questa parola è dura! Chi può ascoltarla?». E da quel momento «molti dei suoi discepoli tornarono indietro e non andavano più con Lui».

Secondo Rahner e i rahneriani, che sono legione a quanto pare, a questo punto Gesù avrebbe

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dovuto attenuare, pensando «a ciò che è necessario prima di ogni cosa, l’annuncio della fede». Invece rincara, e sfida egli stesso i dodici apostoli: «Non volete andarvene anche voi?».

Certo, Gesù non ci ha reso le cose facili. Ho sempre avuto comprensione per gli ebrei: si aspet-tavano il Messia re, il potente vincitore e liberatore politico, e gli arriva questo che afferma : «il mio Regno non è di questo mondo» . Eppure, la Sacra Scrittura aveva promesso quell’altro, non questo; avevano tutto il diritto di sentirsi ingannati. E quante cose inutili, per una fede pura e razionale, ci tocca accettare. Un Dio unico che è tre persone, una Persona divina che si fa uomo, partorito da una Vergine, un morto che risorge... tutte cose «puramente e semplicemente in-comprensibili all’uomo moderno»; Rahner ha ragione.

O meglio, avrebbe ragione se non ci fosse quel brandello dei Cuore umano apparso a Buenos Aires , a disturbare la svolta antropologica. È assurdo, è indigeribile, è persino rivoltante: ma è «la realtà», quel bruto dato di fatto che l’autocoscienza umana, l’io idealista, non è riuscito a prevedere, anzi che riteneva di escludere.

«Con il progredire della storia della grazia, il mondo diviene sempre più indipendente, maturo, profano, e deve pensare ad auto-realizzarsi. Questa crescente mondanità storica (…) non è una sventura che si contrappone ostinatamente alla grazia e alla chiesa, ma è invece il modo nel quale la grazia si realizza a poco a poco nella creazione», ha scritto Rahner.

Come dire: «Son cose che non accadono». Ma invece è accaduto. Nei nostri tempi, 1992. A Buenos Aires. Ebbene, è la Realtà a cui ci dobbiamo inchinare. E non è solo difficile per noi da credere. È una difficoltà, eh sì, per l’apostolato; difficile metterci a convincere chi vogliamo convertire di tutto questo: la transustanziazione, la particola che, consacrata, diventa realmente carne e sangue... Tutto ciò è assurdo, ma è la Realtà che l’ha voluta così. Il messaggio l’ha volu-to dare in questa carnale, spaventevole, rivoltante maniera : «chi non beve il Mio sangue non ha la vita eterna»… E noi, se siamo credenti, abbiamo l’obbligo di diffondere la fede non come ge-nerico «annuncio», ma dentro queste assurde realtà di fatto, con questi limiti... che chiamiamo dogmi e ci danno fastidio, ci sembrano mitologici, residui autoritari di epoche passate, «ideolo-gia» tradizionalista, di antiquate monarchie...

Per questo ritengo e insisto a dire che, per capire Bergoglio, il fatto eucaristico di Buenos Aires è dirimente. L’ostia ha sanguinato nella sua città, mentre lui era vescovo. È un messaggio chiaro per lui, per il futuro Papa. Come l’ha vissuto? Come l’ha accettato? Ha capito l’avvertimento? È stato lui a mettere la sordina a questo evento? O è stata la «comunità» parrocchiale di Avenida la Plata? I miracoli eucaristici, spesso a quanto pare, sono stati una risposta ad incredulità di sacerdoti nella Presenza Reale. È questo il caso, o no?

Non sono insinuazioni. Sono domande. Domande che pongo con angoscia, con tremore e timore, pregando per il Santo Padre.

E, come comune credente di poche letture, domando: come ha potuto avere tanto seguito nella Chiesa, nella gerarchia, un Karl Rahner? Come hanno potuto lasciargli la cattedra di teologia?

Ci rivela che qualcosa di spaventoso è accaduto nella gerarchia, per lasciarsi convincere e se-durre e intimidire da un simile personaggio. Dalle poche cose che ho letto sue, heideggeriane-mente e ipocritamente contorte per sfuggire all’accusa di eresia, una cosa risulta invece chiaris-sima: la immane superbia intellettuale, la presunzione sprezzante, da professore tedesco, il dar-si importanza per motivi che non ne hanno alcuna sul piano della fede.

Una volta mi capitò di intervistare Hans Kung: la sua presunzione, superbia e vanità erano addi-rittura insopportabili; citava i suoi libri e solo i suoi, dava per scontato che tutti li conoscessero, e si fece insultante perché non li avevo letti (avevo di meglio da fare), da quel momento non rispose più alle mie domande se non con derisioni e auto-citazioni, come si fa con un verme.

Riconosco lo stesso atteggiamento in Rahner. In una disputa avuta nel 1971, il cardinal Hoeffner gli ricordò mitemente: «Chi dice: non credo che Gesù è risorto dai morti, non fa più parte ella Chiesa cattolica... rispetti ella (Rahner) la Fede della Chiesa, e sia tanto onesto da uscire pubbli-camente dalla Chiesa cattolica...».

Rahner rispose con derisione al cardinale: «Dove hanno imparato la loro teologia i vescovi?».

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Frase fin troppo rivelatrice: per lui i Vescovi non sono l’autorità, ma lo sono «i teologi». I suc-cessori degli apostoli devono umilmente imparare «la teologia», intesa ovviamente come la «scienza» di professori tedeschi che si danno importanza e polemizzano fra loro in linguaggi in-comprensibili, a fare, come lavoro intellettuale e stipendiato, «una reinterpretazione continua del dogma per escludere l’errore», parole sue. Stessa malattia dell’ebraismo talmudico. È pure la malattia intellettuale tedesca, la stessa per cui, da Kant in poi, la filosofia non è più la libera ri-cerca che serve a tutti gli uomini, la tentata continua risposta alla «domanda di essere», bensì una materia universitaria riservata a tecnici in possesso della giusta terminologia.

Alla domanda insultante «ma dove hanno imparato la loro teologia i vescovi?», il cardinale avrebbe dovuto replicare: «Ma lei, gesuita e sacerdote Rahner, dove ha imparato la santi-tà?». Perché è questo il punto: quando s’è cominciato fare della teologia una materia che pote-va esulare dalla santità? I nostri veri teologi sono padre Pio, San Francesco, sono Santa Teresa, san Massimiliano Kolbe, la piccola Giacinta di Fatima… loro sanno qualcosa su Dio e Gesù, che possono insegnarci.

Rahner invece, proprio quando partecipava come perito al Vaticano II, insieme a Ratzinger, Danié-lou, Haering, Congar, De Lubac ed altri «scienziati in teologia» di cui lui era il principe e il pavone, tempestava di lettere roventi la sua amante Luise Rinser: 1800 lettere infocate, a suon di «cocco-lina» e «ricciolina», e lei di «pesciolino mio», di «mi spaventa che tu mi ami con questa passione» e «non mangiare troppo altrimenti ingrassi e non mi piaci più». Questa Rinser era una «intellet-tuale» progressista, che ha finito per simpatizzare con i terroristi rossi della Baader-Meinhof, all’e-poca distribuiva la sua focosa carne fra il celebre divo-gesuita e un abate benedettino bavarese, ed ha pubblicato il carteggio fra lei e il gran teologo Rahner. Come ricorda De Mattei, la donna l’11 maggio 1965 gli scriveva: «Sai qual è la maggior difficoltà che mi viene da parte tua? Che sei un relativista. Da quando ho imparato a pensare come te non oso affermare nulla con sicurezza».

Per forza: quando si vive a qual modo e non si lascia la Chiesa (né la cattedra, e lo stipendio) si crea la teologia giustificativa adatta. Rahner era un personaggio orribile. Come ha potuto essere tanto influente sul Concilio? E veramente la Chiesa d’oggi è in mano ai suoi seguaci? Sono davve-ro loro che hanno stroncato i Francescani dell’Immacolata? Possiamo stare tranquilli, Santo Padre?

1) www.papalepapale.com/develop/annientate-i-francescani-dellimmacolata-la-pulizia-etnica-senza-fare-prigionieri-e-iniziata

2) Alessandro Gnocchi e Mario Palmaro, Rahner Kaputt, il Foglio 20/11/2013

3) Qui trovate l resoconto dell’evento, come descritto nel foglio illustrativo che la parrocchia di Buenos Aires distribuisce a chi faccia domande sul miracolo.

4) Roberto De Mattei, «Karl Rahner, maestro del Concilio, di Martini e della coscienza relativa» Il Foglio, 16 giugno 2009. Vale la pena di riportare per intero il sommario, che profeticamente indi-ca i nemici interni di Benedetto XVI: «Dietro l’opposizione intra-ecclesiale all’insegnamento di B-XVI c’è il pensiero di un altro influente gesuita - Il nome di Karl Rahner è un passaggio obbli-gato per chi voglia entrare nel cuore del dibattito intraecclesiale dei nostri giorni. Come perito conciliare del cardinale Franz König il gesuita tedesco svolse, dietro le quinte, un ruolo cruciale nel Vaticano II, fino a essere definito dall’allora decano della Gregoriana, Juan Alfaro, «il massimo is-piratore del Concilio». Di certo ha dominato il post-concilio come conferenziere di grido e scrittore dalla alluvionale produzione, pronto a intervenire disinvoltamente su tutti i problemi del momento: i suoi titoli sono oltre quattromila, le sue opere, tradotte e diffuse in tutto il mondo, continuano a esercitare una larga influenza sul mondo cattolico contemporaneo. Sembra giunta però l’ora di «uscire da Rahner», come implicitamente auspicato da Benedetto XVI nell’ormai storico discorso alla Curia Romana del 22 dicembre 2005, sulle «ermeneutiche» del Concilio Vaticano II. Lo «spiri-to del Concilio» a cui si richiamano gli ermeneuti della «discontinuità» ha infatti la sua fonte nel Geist in Welt di Rahner, quello «Spirito nel mondo» che è il titolo del suo primo importante libro, pubblicato nel 1939. Se in questo volume Rahner delinea la sua concezione filosofica della conos-cenza, nel successivo, «Uditori della parola» (Hörer des Wortes), pubblicato nel 1941, espone la sua visione propriamente teologica. Le tesi di questi due libri e dei successivi, già lucidamente cri-ticate dal padre Cornelio Fabro («La svolta antropologica di Karl Rahner», 1974), sono ora oggetto

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di un importante volume, a cura di padre Serafino M. Lanzetta, che raccoglie gli atti del convegno tenutosi a Firenze nel novembre 2007, con la partecipazione di eccellenti studiosi, provenienti da diverse parti del mondo: Ignacio Andereggen, Alessandro Apollonio, Giovanni Cavalcoli, Peter M. Fehlner, Joaquín Ferrer Arellano, Brunero Gherardini, Manfred Hauke, Antonio Livi, H. Christian Schmidbaur, Paolo M. Siano, («Karl Rahner. Un’analisi critica. Le figure, le opere e la recensione. Teologia di Karl Rahner, 1904-1984». Cantagalli). Oggetto della scienza teologica, per Rah-ner, non è Dio, di cui non può essere dimostrata l’esistenza, ma l’uomo, che costituisce l’unica esperienza di cui abbiamo l’immediata certezza. Non si può dunque parlare di Dio al di fuori del processo conoscitivo dell’uomo. Dio, più precisamente, esiste «autocomunicandosi» all’uomo che lo interpella. Rahner afferma che nessuna risposta va al di là dell’orizzonte che la domanda ha già precedentemente delimitato. L’orizzonte di Dio è misurato dall’uomo che, delimitando nella sua domanda la risposta divina, diviene la misura stessa della Rivelazione di Dio. Rahner non dice che l’uomo è necessario a Dio perché Dio possa esistere, ma poiché senza l’uomo Dio non può essere conosciuto, la conoscenza umana diviene la chiave di quella che egli definisce la «svolta antropo-logica» della teologia. Rahner si richiama spesso a san Tommaso d’Aquino, ma di fatto riduce la metafisica ad antropologia e la antropologia a gnoseologia ed ermeneutica. La «teologia trascen-dentale» di Rahner appare, in questa prospettiva, come uno spregiudicato tentativo di liberarsi della tradizionale metafisica tomista, in nome dello stesso san Tommaso. Ciò naturalmente può avvenire solo a condizione di falsificare il pensiero dell’Aquinate. Fabro non esita a definire Rahner «deformator thomisticus radicalis», a tutti i livelli: dei testi, dei contesti e dei principi. L’esito è un «trasbordo» dal realismo metafisico di Tommaso all’immanentismo di Kant, di Hegel e soprattutto di Heidegger, acclamato dal gesuita tedesco come il suo «unico maestro». Rahner accetta il punto di partenza cartesiano dell’io come auto-coscienza. L’uomo, spogliato della sua corporei-tà, è innanzitutto coscienza, puro spirito, immerso nel mondo. Come per Cartesio e per Hegel, anche per Rahner è il conoscere che fonda l’essere, ma la conoscenza ha il suo fondamento nella libertà, perché «nella misura in cui un essere diventa libero, nella medesima misura esso è conos-cente». La coscienza coincide con la volontà dell’uomo e la volontà dell’uomo è l’attuarsi dell’Io. L’Io a sua volta non è sottomesso a nulla che lo possa condizionare, perché il suo fondamento sta proprio nella sua incondizionatezza e dunque nell’assenza di ogni oggettiva limitazione esterna. La conseguenza della riduzione dell’uomo ad auto-coscienza è la dissoluzione della morale. La libertà prevale sulla conoscenza perché, come afferma Heidegger, dietro il cogito cartesiano irrompe la libertà. L’uomo è coscienza che si auto-conosce e libertà che si auto-realizza. Per Rahner, come per il suo maestro, l’uomo conosce e vive il vero facendosi libero. Il valore morale dell’azione non ha una radice oggettiva, ma è fondato sulla libertà del soggetto. Forzando il n. 16 della «Lumen Gentium», in cui si parla della possibilità di salvezza di coloro che «non sono giunti a una conos-cenza esplicita di Dio», Rahner afferma che la salvezza non è un problema, perché è assicurata a tutti, senza limiti di spazio, di tempo e di cultura. La chiesa è una comunità vasta come il mondo, che include i «cristiani anonimi», i quali, benché possano dirsi non-cattolici, o addirittura atei, hanno la fede implicita. Chiunque infatti «accetta la propria umanità, costui, pur non sapendolo, dice di sì a Cristo, perché in lui ha accettato l’uomo». Tutti, dunque, anche gli atei, in quanto atei, si salvano se seguono la propria coscienza. Qualsiasi uomo, quando conosce se stesso, anche nel male che compie, se si accetta come tale, allora è auto-redento ed ha fede. E quanto più conosce e accetta la propria «esperienza trascendentale» tanto più ha fede. Questo, osserva giustamente il padre Andereggen, significa che ha più fede un individuo che si sia psicanalizzato freudianamente durante dieci anni, piuttosto che un religioso che preghi (p. 35). Il cardinale Franz König, uomo di punta del progressismo conciliare, fu il grande «sdoganatore» di Rahner, in odore di eresia fino agli anni Sessanta. Tra i numerosi e illustri discepoli del gesuita, bisogna ricordare l’ex presi-dente della Conferenza episcopale tedesca Karl Lehmann e, in Italia, il cardinale Carlo Maria Mar-tini. Le ultime interviste-confessioni di Martini, con Georg Sporschill («Conversazioni notturne a Gerusalemme», Mondadori) e con don Luigi Verzé («Siamo tutti nella stessa barca», Edizioni San Raffaele), sono di impronta rahneriana, per l’universalismo salvifico e la «morale debole». Martini, come Rahner, ritiene che la missione della chiesa sia aprire le porte della salvezza a tutti, compre-si coloro che si discostano dalla fede e dalla morale cattolica. Lo stesso Martini, istituì a Milano una «cattedra dei non credenti», per ascoltare il loro contributo alla salvezza del mondo. Il successore di san Carlo Borromeo, rinunciava così al compito di portare Cristo a chi non crede, per affidare ad atei dichiarati come Umberto Eco la missione di «evangelizzare» i fedeli della diocesi ambrosiana».

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Denzinger, e il mondano dimezzato

di Alessandro Gnocchi e Mario Palmaro – 20 novembre 2013 - ore 13:42

E’ durata poco l’intervista volterriana. Francesco contro lo spirito del mondo. Denzin-ger, pioniere del dogma. Rahner : buona coscienza e libero esame. Si assolvono i pec-catori, non i peccati, ecco il punto.

Accolta “con gioia” come si usa nella chiesa d’oggi, difesa senza “se” e senza “ma”, ermeneutizzata come si conviene e poi, alla fine, ritirata dal sito internet vaticano, dove era ri-masta un mese e mezzo: da famosa che era, l’intervista di Papa Francesco a Eugenio Scalfari è stata archiviata con un semplice click. Attendibile nel suo complesso, ha spiegato il direttore del-la sala stampa padre Lombardi, non lo è in alcune singole parti, anche se il controverso passag-gio sulla coscienza sarebbe “del tutto compatibile con il Catechismo della chiesa cattolica”.

Pur deposta nei faldoni della semplice cronaca, tale vicenda rimane a indicare un tasso di confusione eccessivo persino per un ospedale da campo. E’ davvero strano che nessuno si sia chiesto, preventivamente e prudentemente, se l’intervistatore della stampa volterriana fos-se un malato venuto a farsi curare o un untore neanche troppo mimetizzato. Riconoscere cosa vi sia nell’animo dell’interlocutore mondano è questione che lo stesso Papa Francesco, nell’omelia di Santa Marta di lunedì scorso, ha indicato come essenziale. Commentando un passo del “Libro dei Maccabei” ha messo in guardia dal rischio di fare mercimonio della fedeltà al Signore, poiché lo spirito del mondo negozia tutto. Ma l’istantanea della chiesa postmoderna ritrae da decenni un luogo di mediazione più che una cittadella decisa a resistere. Un posto dove molti agiscono con aria di sufficienza nell’adozione di criteri, metodi e strumenti necessari per comprendere tanto le lusinghe del mondo quanto i lamenti della chiesa.

La tensione al ragionevole rigore di moda sotto Benedetto XVI, che insieme all’ascesi e alla preghiera mette al riparo dalle sirene del mondo, pare evaporata. Oggi, basta solo ri-chiamare la precisione affilata e caritatevole con cui la chiesa si è sempre espressa su fede, dottrina e morale per passare come ideologizzati specialisti del Logos. Guai a chi osi evocare l’opera di un benemerito pioniere della teologia dogmatica come Heinrich Denzinger: si viene tacciati di voler sos-tituire il Vangelo con il suo “Enchiridion Symbolorum”, quel cristallino compendio dei principali testi del magistero che dovrebbe fare da argine là dove il mondo interroga, provoca, negozia, corrompe. Aggiornato costantemente nel corso dei decenni, il “Denzinger”, che ha preso il nome del suo primo autore, è uno dei riferimenti più sicuri per chiunque voglia conoscere e praticare il perenne pensiero della chiesa: ma non piace più, irrita, infastidisce. Per scoprire la ragione di tale avversità baste-rebbe andare su Wikipedia, dove, in un’impietosa, sinteticissima riga, si legge: “Il grande teologo fondamentale gesuita Karl Rahner ha tuttavia messo in guardia studenti e studiosi sul rischio ridu-zionistico di una ‘teologia del Denzinger’”. Se si considera che, nella chiesa contemporanea, l’inventore della teoria dei “cristiani anonimi” ha sostituito san Tommaso come doctor communis, diviene comprensibile l’universale avversione per il “Denzinger”, severo giudice di chiunque ami ab-bandonarsi a un qualunque incontro personale con il Vangelo. In qualche modo, ritorna in superficie il tema della coscienza personale che Rahner, confratello di Papa Francesco, ha descritto nella “Fati-ca di credere” in termini che hanno indubbiamente fatto scuola, e che scuola: “Chiunque segue la propria coscienza, sia che ritenga di dover essere cristiano oppure non-cristiano, sia che ritenga di dover essere ateo oppure credente, un tale individuo è accetto e accettato da Dio e può conseguire quella vita eterna che nella nostra fede cristiana noi confessiamo come fine di tutti gli uomini”.

“In altre parole: la grazia e la giustificazione, l’unione e la comunione con Dio, la pos-sibilità di raggiungere la vita eterna, tutto ciò incontra un ostacolo solo nella cattiva coscienza di un uomo”.

Posto davanti al Vangelo, un pensiero simile non può che rifuggire il cogente rigore del “Denzin-ger”, che è il cogente rigore della chiesa. Ma la fede cattolica non può risolversi nel semplice in-contro personale con il Vangelo. Lo spiega il domenicano padre Roger-Thomas Calmel nella

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“Breve apologia della chiesa di sempre”: “Che ci sia dunque un andirivieni frequente dalla lettera della Scrittura alle formule dei Concili e del Catechismo e viceversa. Passiamo dalla lettera del-l’Antico o del Nuovo Testamento alle definizioni conciliari o pontificie per meglio coglierne il con-tenuto esatto, il vero significato del testo sacro. Poi ritorniamo dai Concili e dal catechismo al semplice testo scritturale per non perdere mai di vista il dato vivo, concreto, soprannaturale, inesauribile, del quale le formulazioni del magistero ecclesiastico esprimono, con tutta la preci-sione necessaria, la profondità e il mistero”.

La guerra al “Denzinger”, e quindi all’armonioso dipanarsi e manifestarsi della dottrina perenne della chiesa, viene da lontano. Non a caso Rahner spiega che “gli enunciati della fede tradizio-nale sono inadeguati, in buona parte, per lo meno per quanto concerne ciò che è necessario pri-ma di ogni altra cosa: l’annuncio della fede (…) Proposizioni come ‘vi sono tre persone in Dio’, ‘noi siamo salvati dal sangue di Gesù Cristo’ sono puramente e semplicemente incomprensibili per un uomo moderno (…) esse fanno la stessa impressione della pura mitologia di una religione del tempo passato”. Secondo il teologo gesuita, dunque, al palato dell’uomo contemporaneo, Gesù che resuscita Lazzaro ha lo stesso sapore di Ercole che sconfigge l’Idra o di Teseo che uc-cide il Minotauro. Quindi non rimane che riformare l’annuncio e sintonizzarsi sulla lunghezza d’onda della modernità, trarre le parole dai desideri del nuovo uditorio.

Giuseppe Siri, un cardinale che rischiò di diventare Papa, coglie lucidamente la ques-tione, quando in “Getsemani” scrive: “Il grande principio di morte è il principio di secolarizza-zione: il mondo contiene la forza della plenaria realizzazione degli uomini e ne è anche l’ambiente, in cui lo scopo della vita dell’uomo deve essere raggiunto; occorrerebbe dunque abolire ogni dis-tinzione tra sacro e profano, tra chiesa e mondo”. Diagnosi confermata da quanto Edward Schille-beeckx andava dicendo nel 1970: “In Cristo è ora possibile dire Amen alla realtà mondana e considerarla come culto poiché, dopo l’apparizione di Gesù, sulla terra abita la pienezza di Dio”.

Se l’oggetto del nuovo culto è il mondo, diventa impossibile entrarvi in conflitto. I vescovi ameri-cani che contestano Barack Obama, evidentemente, non seguono Rahner o Schillebeeckx. Ma centinaia di gesuiti con le loro università cattoliche e centinaia di suore in rivolta dicono Amen al presidente e rendono culto al mondo. Il vero problema dell’ospedale da campo è distinguere chi vi distribuisce la medicina buona e chi fa eutanasia al paziente.

Se è vero che lo spirito mondano induce a negoziare finanche la fedeltà a Dio, come ha detto il Papa nell’omelia del 18 novembre, bisognerebbe avere anche il coraggio di denunciare chi, nell’accampamento cattolico, si macchia di intelligenza col nemico. Non è possibile additare le lu-singhe del mondo e tollerare un Rahner che dice: “Con il progredire della storia della grazia, il mon-do diviene sempre più indipendente, maturo, profano, e deve pensare ad auto-realizzarsi. Questa crescente mondanità storica (…) non è una sventura che si contrappone ostinatamente alla grazia e alla chiesa, ma è invece il modo nel quale la grazia si realizza a poco a poco nella creazione”.

Sulla scia dell’ambiguo e ossessivo “primato della Parola” e del “sola fide” di matrice luterana, la chiesa ha finito per specchiarsi nell’orizzonte ribaltato di un pelagianesimo che nega il senso del peccato e osanna il mondo. L’esito è comunque il depotenziamento della tradizione e della fun-zione di mater et magistra. Il libero esame, il soggettivismo, la “sola scriptura” prendono la sce-na svuotando di significato il ruolo dei vescovi e del Papa. Ma l’orizzonte logico di tale operazione è debolissimo poiché è la tradizione a precedere e definire la parola: è la chiesa a stabilire quali siano i testi sacri e come vadano interpretati. Fatto che determina l’impossibilità di parlare di “religione del libro”, posto che i testi sacri sono oggettivamente diversi nella lettera e nella loro interpretazione. La chiesa precede storicamente e logicamente la scrittura e per questo, spiega il cardinale Siri, “colui che relativizza la tradizione relativizza la scrittura”.

La bellezza perenne e unica del cattolicesimo sta nella capacità di comporre e armo-nizzare tutti questi elementi. Sta nella continua tensione tra ragione e mistero, tra anelito terreno e risposta celeste che, pazientemente, crea un calco nel quale la creatura si adagia, magmatica e informe, per risorgerne solida e levigata, come la farfalla da una crisalide. Perché conoscere la dottrina significa amarla e pregarla assecondandone forme e definizioni. E’ come un dire le preghiere secondo formule dettate da altri con precisione ispirata e insondabile. Allora, lontano dai sentimenti, dalle divagazioni, dagli inutili discorsi, senza uno iota di troppo, sgorga

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quel che della beatitudine è concesso su questa terra, che è un dire sottovoce, un fare e un vi-vere invece che un discorrere: “I molti discorsi non appagarono l’anima” insegna l’“Imitazione di Cristo” “ma la vita buona dà ristoro alla mente”.

L’annuncio a Maria narrato da San Luca non produrrebbe nelle anime oranti la stessa tensione verso il “partorire Dio” predicato da sant’Ambrogio se il Concilio di Efeso, nel 431, non avesse affilato la lama della dottrina definendo la Vergine Theotokos, Madre di Dio: “Se qualcuno non Confessa che l’Emmanuele è Dio nel vero senso della parola, e che perciò la Santa Vergine è madre di Dio perché ha generato secondo la carne il Verbo che è da Dio, sia anate-ma”. Non vi è nulla di più amato dalla gente cristiana aliena al mondo che un tale rigore. “Tutto il popolo della città rimase in attesa dal mattino alla sera, aspettando il giudizio del santo sino-do” racconta san Cirillo d’Alessandria, che fu l’artefice di quella decisione. “(…) Alla nostra uscita dalla chiesa, fummo ricondotti fino alle nostre dimore. Era la sera, tutta la città si illuminò, donne camminavano innanzi a noi con incensieri. A coloro che bestemmiavano il suo Nome, il Signore ha dimostrato la sua onnipotenza”.

A saperlo leggere, a studiarlo in amorevole andirivieni con la Scrittura, il “Denzinger” racconta queste storie e alimenta la vita buona che, a sua volta, nutre la mente. E’ la vita della chiesa che corre lungo i secoli dandovi forma, è la tradizione che bussa imperiosa-mente alle anime chiamandole a scegliere. Non vi è alternativa nella guerra allo spirito monda-no: alla tentazione di negoziare persino sulla fede si può opporre solo l’immutabilità e l’irrefor-mabilità del magistero. Per tutta la sua vita, la chiesa lo ha fatto, contendendo al mondo il tem-po e lo spazio, le due dimensioni in cui si espande la tradizione. Le definizioni raccolte dal “Den-zinger” si sono tramandate senza mutare nel corso dei secoli e, senza mutare, hanno raggiunto gli avamposti più remoti della fede. Quelle stesse pagine che ora si trovano facilmente a stampa in libreria, hanno corso il mondo in itinerari avventurosi che Harold Innis ha raccontato nel suo epico “Impero e comunicazioni”. Hanno viaggiato su pergamena, “supporto pesante” adatto al permanere della verità religiosa irreformabile e perenne, a differenza di ciò che viaggiava su pa-piro e su carta, “supporti leggeri” che alimentavano la burocrazia civile caduca e fallace.

Così, la chiesa di Roma ha propagato il regno di Cristo e ha conquistato, anima per ani-ma, le intelligenze più semplici e quelle più laboriose, tutte bisognose dello stesso nu-trimento. Se John Henry Newman non si fosse trovato al cospetto di verità e pronunciamenti im-mutabili nello spazio e nel tempo, non avrebbe mai avuto la forza e l’esigenza di lasciare la comu-nione anglicana per entrare nella chiesa di Roma. Nell’“Apologia pro vita sua”, il cardinale spiega che compì il gran passo verso casa solo quando si rese conto che gli argomenti degli anglicani con-tro i padri del Concilio di Trento erano gli stessi di quelli contro i padri del Concilio di Calcedonia, che condannare i Papi del Sedicesimo secolo voleva dire condannare anche quelli del Quinto: “Il dram-ma della religione, il combattimento della verità e dell’errore erano sempre gli stessi. I principi e i procedimenti della chiesa d’oggi erano identici a quelli della chiesa d’allora; i principi e i procedimen-ti degli eretici di oggi erano quelli dei protestanti di oggi. Lo scopersi quasi con terrore”.

Ma la chiesa non lascia da sola anima alcuna davanti a una verità che possa atterrire. A ciascuno porge la carezza rigorosa e soave del rito. La tradizione si presenta sempre all’uomo attraverso un poema sacro che nel cattolicesimo, come scrive Domenico Giuliotti, ha la sua es-pressione celeste nella celebrazione eucaristica: “La Messa, e non già la ‘Divina Commedia’, è il ‘poema’ veramente ‘sacro al quale hanno posto mano e cielo e terra’. (…) Dio, la Trinità e tutti gli Angeli ne formano l’argomento. La Consacrazione, che rinnova l’Incarnazione, è il punto culminante di questo immenso mistero. E il Prete n’è, al tempo stesso, il taumaturgo e il poeta”.

Emanazione del Cielo in terra, tradizione e liturgia sono quasi consustanziali persino nel metodo con cui gli uomini hanno contribuito alla loro formazione. Mentre una è il repertorio di pensieri da cui è decaduto tutto, tranne ciò che dice definitivamente il divino, l’altra è la composizione di gesti e di parole immutabili depurati da ciò che è solo umano. Sono due ingressi allo stesso mondo, dove ciascuno riceve perennemente ciò che gli spetta, in qualunque luogo si trovi e in qualunque tempo viva. Sulla terra non vi è nulla di più equo. Lo racconta con soave precisione Newman nel romanzo “Perdita e guadagno”, là dove descrive i pensieri e le sensazioni del giovane protagonista che, per la prima volta, assiste a una celebrazione cattolica: “Quello che lo colpì più di tutto fu che, mentre nella chiesa d’Inghilterra l’ecclesiastico oppure

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l’organo erano tutto e la gente non era niente, salvo che veniva rappresentata al funzionario lai-co, qui era esattamente il contrario. Il prete diceva poco o niente, almeno in modo da farsi sen-tire, invece l’assemblea era come un solo vasto strumento un panharmonicum che suonava in-sieme; cosa ancora più mirabile, pareva che suonasse da solo. (…) Le parole erano in latino, ma tutti le capivano benissimo, e offrivano le loro preghiere alla Santissima Trinità, e al Salvatore incarnato, e alla grande Madre di Dio, e ai santi nella gloria del Paradiso, con nel cuore un’ener-gia pari a quella con cui davano voce al suono. Vicino a lui c’era un ragazzino, e una povera don-na, che cantavano a squarciagola. No, qui non ci si poteva sbagliare, Reding disse fra sé e sé: ‘Questa sì che è una religione popolare’”.

A quei tempi, nella chiesa, la stessa dottrina e la stessa liturgia erano buone per tutti, per i santi e per i peccatori, per i vivi e per i morti, per i romani e per i barbari. Per questo la religione cattolica era equanime e misericordiosa: era popolare. Ancora non risuonava il lamento che più tardi avrebbe vergato Nicolás Gómez Dávila: “La chiesa un tempo assolveva i peccatori, oggi ha deciso di assolvere i peccati”.

di Alessandro Gnocchi e Mario Palmaro

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Questo Papa non ci piace –– Orgoglioso lamento cattolico –– Cristo senza dottrina né verità –– L’ospedale da campo dei follower –– Epater le bourgeois catholique –– Il questionario di Pietro –– Il silenzio dei giornali mondani sul Papa che non si uniforma

Cristo senza dottrina né verità

di Alessandro Gnocchi e Mario Palmaro – 22 ottobre 2013 - ore 06:59

Ridotti a sans papiers della chiesa, ricordiamo che il cardinale Biffi ha ricordato: “Gesù talvolta è un pretesto per parlare d’altro”. Una pastorale dell’intimo, senza mediazione razionale del dogma? No.

Povera bisnonna Antonia, che ha passato una vita fatta di pater-ave-gloria, rosari, messe alle cin-que di mattina, segni di croce a ogni santella, catechismo imparato a memoria e precetti morali da praticare scrupolo-samente e insegnare con zelo. Povera bisnonna Antonia, e poveri i suoi ottantaquattro anni trascorsi a “dire preghiere” e a osservare “prescrizioni” nella speranza di abbracciare un giorno Gesù, a cui dava del Voi, come usavano le genera-zioni perbene. Povera bisnonna Antonia e povera la sua fede che, non fosse per il candore ingenuo e inerme delle vec-chine di campagna, oggi potrebbe essere presa per una cri-stiana ideologica, moralistica, farisaica, senza cuore. Eppu-re, quella donnina sempre vestita di nero che parlava solo dialetto e un latino tutto suo, aveva mos-trato quanto amore per Dio e per gli uomini sgorghi da una vita passata a “dire preghiere”. Al mari-to, che in punto di morte le chiedeva perdono per quante gliene aveva fatte e lei aveva sopportato nel silenzio e nella pazienza, la povera bisnonna Antonia aveva risposto di non avere paura, “quan-do sarete di là, vedrete quanto bene avranno fatto le preghiere che vostra moglie ha detto per voi”.

La durezza dell’omelia di Santa Marta in cui Papa Francesco stigmatizza una fede che passa “per un alambicco e diventa ideologia” e in cui giudica le coscienze di chi, oggi, si ostina a vivere un cristianesimo come quello dei suoi vecchi, finisce per travolgere il passato che continua a vivere nel presente. Risulta difficile ipotizzare che il bersaglio non sia quel sentire tradizionale a cui si intende impedire di diventare un movimento capace di aggregare uomini e idee. Lo ha felice-mente spiegato la gioiosa macchina da guerra degli ermeneuti del giorno dopo. Ma lo aveva ine-quivocabilmente anticipato il Papa stesso, nell’intervista a Civiltà Cattolica, fulminando un “uso

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ideologico” del rito tradizionale riportato in onore da Benedetto XVI, uno “specialista del Logos” ormai archiviato dagli ermeneuti del suo successore.

Anche se parla delle ideologie di ogni segno, è chiaro a chi miri Papa Bergoglio dicendo: “Quan-do un cristiano diventa discepolo dell’ideologia, ha perso la fede: non è più discepolo di Gesù, è discepolo di questo atteggiamento di pensiero (…). E per questo Gesù dice loro: ‘Voi avete por-tato via la chiave della conoscenza’. La conoscenza di Gesù è trasformata in una conoscenza ideologica e anche moralistica, perché questi chiudevano la porta con tante prescrizioni”.

Non passa omelia, non passa intervista, non passa bagno di folla in cui il Papa non scrolli le spalle davanti a una fede che si oggettivizza nel rigoroso rapporto con la ragione. “Nomina nuda tene-mus”, sembra questo il messaggio di Francesco, lo stesso del francescano Gugliemo di Occam di cui Umberto Eco produsse un gradevole bigino con “Il nome della rosa”. La fede non cerca più un intelletto che ritiene inabile a conoscere veramente, produttore di oggettivazioni che rischiano di divenire un ostacolo all’incontro con Cristo. Come se ci si trovasse in una zona di rimozione forzata dei precetti permeabili all’intelligenza, un vicolo cieco nel quale non amava sostare un cristiano in-namorato della ragione come Gilbert Keith Chesterton: “Per quanto un uomo può essere orgoglioso di una religione fondata sull’umiltà, io sono molto orgoglioso della mia religione. Sono particolar-mente orgoglioso di quelle sue parti che sono molto comunemente chiamate superstizioni. Sono fiero di essere stato nutrito da dogmi antiquati ed essere schiavo di una fede morta, come i miei amici giornalisti ripetono con tanta insistenza, perché so benissimo che sono le eresie ad essere morte e che soltanto il dogma razionale vive abbastanza a lungo da essere chiamato antiquato”.

Ma dove non c’è ragione c’è contraddizione e risulta difficile mettere al riparo le idee, e chi le sos-tiene, dall’aggressione che si sostituisce all’argomentazione. Chi critica errori dottrinali, confusioni, silenzi sui grandi temi della teologia e della morale, viene marchiato come un derelitto senza fede, un fariseo che non prega, un ipocrita che non crede in Cristo e lo usa per alimentare un’ideologia. E’ la “nuova chiesa della misericordia”, bellezza. E’ la chiesa che proclama di accogliere tutti e di non volere giudicare nessuno, ma che si mostra senza pietà per i suoi figli innamorati e insieme perplessi. Adotta schemi politici cari al Novecento, secondo cui il positivismo giuridico si mangia la verità e la legge naturale. Se fra l’intuizione di Dio e la vita quotidiana viene tolto di mezzo l’appa–rato razionale che contraddistingue l’uomo, il potere finisce per autolegittimarsi a prescindere da ciò che dice e che fa. Jean Bodin e Niccolò Machiavelli lo avevano ben spiegato.

La strumentalizzazione del Nazareno per altri scopi, va detto, è un problema antico. Il cardinale Giacomo Biffi ha denunciato tempo fa che “Gesù è diventato un pretesto che i cristiani usano per parlare d’altro”. Ma è da decenni che questo “altro” è rappresentato da ecologismo, promozione della legalità, ecumenismo mediatico, lotta alle narcomafie, protezione della foresta amazzonica e altre amenità. A tutto discapito della dottrina morale, della bioetica, del rigore liturgico e dot-trinale. Con il rischio di trovarsi al cospetto di un Cristo senza dottrina e senza verità, un perso-naggio buono per tutte le stagioni, un contenitore da riempire con quanto desideri ogni consu-matore della religione fai da te.

Un simile fenomeno non è giustificabile in nome della cosiddetta pastoralità. Perché non può esis-tere pastorale che non sia preceduta dalla dottrina, a meno che non se la sia divorata e non sia di-venuta dottrina essa stessa finendo per mortificare il robusto rapporto con la ragione e la legge na-turale. Per duemila anni la Chiesa ha difeso la vera fede dall’eresia: a spada tratta, con impegno as–soluto e a prezzo del sangue. Papi e cardinali, teologi e religiosi sapevano bene come una tesi ete-rodossa fosse la peggior malattia che potesse minacciare il Corpo Mistico. “La Chiesa e le eresie”, dice il magnifico duellante cattolico inventato da Chesterton nel romanzo, “La sfera e la croce” “han–no sempre combattuto sulle parole perché sono le uniche cose per le quali valga la pena di battersi”.

Da ciò si ricava quanto sia sorprendente e irrazionale, perché estraneo alla storia della chiesa, che oggi chi solleva domande e obiezioni dottrinali sia tacciato di essere rigido, moralista, eticis-ta, senza bontà. Un’accusa che, a ben guardare, potrebbe essere trasferita su papi del recente passato. Paolo VI, nel 1968, scrive l’enciclica “Humanae vitae” per ribadire la condanna morale della contraccezione: un rigido eticista senza bontà. Giovanni Paolo II redige nel 1995 una sum–ma della bioetica nella “Evangelium Vitae”: ma così facendo dimostra di insistere su tesi dure e difficili, che allontanano invece che avvicinare gli uomini alla chiesa. Benedetto XVI spiega al

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Bundestag, in un memorabile discorso, che quando le leggi civili contraddicono la legge naturale, non sono più leggi ma solo simulacri cui si deve disobbedienza: un intollerante che chiude la porta della chiesa in faccia allo stato laico e se ne va con la chiave in tasca.

Ma l’artificio dialettico che trasforma quanti vogliono difendere la dottrina cattolica in farisei spietati, privi di un cuore che palpita per il Cristo ferito e crocifisso, è debole. Gesù non invita i farisei ad andarsene perché professano una fede sbagliata, ma a essere i primi a osservare la legge. Mentre qui pare proprio che l’obiettivo finale, oltre il giudizio temerario sull’intimità della coscienza, sia il principio stesso, ritenuto un ostacolo al dialogo col mondo. Invece, fede e ra-gione, legge e carità possono solo stare insieme o si dissolvono entrambe: nell’irrazionalità di un fideismo luteraneggiante o nel gelo di un razionalismo volterriano, che oggi vanno volentieri a braccetto verso il nulla.

Portato nel perimetro della chiesa, tutto questo produce un cattolicesimo senza dottrina, emotivo, empatico, pneumatico. Si sarebbe tentati di dire alla Enzo Bianchi, se persino lui non fosse stato oscurato dalla stella mediatica di Papa Bergoglio. Parafrasando Zygmunt Bauman, ciò segna la nascita di un cattolicesimo liquido, che diguazza nelle zone grigie evocate da Carlo Maria Martini. Una religione che, nell’incapacità di dare risposte, impone con prepotenza dubbi e domande e par-torisce un cattolicesimo che “sa di non sapere”, di gusto prearistotelico. Qui dentro si trovano le coordinate dell’incontro con il mondo moderno da cui escono plotoni di cattolici che non credono nel credo perché non lo conoscono, ma accorrono festanti in piazza San Pietro o a Copacabana.

Scriveva il cardinale Ratzinger che la fede in Cristo e il mettersi alla sua sequela dentro una vi-sione morale rigorosa, esigente e seria, sono la stessa cosa: non si oppongono, ma l’una non è possibile senza l’altra e, proprio per questo richiedono rigore, fatica, ascesi. Al contrario, una volta varato il cattolicesimo liquido, la vita diventa più facile per tutti, dal confessore al peni-tente: un assessore e un commercialista, un ginecologo e un politico possono discettare di tan-genti, di aborto e di tasse concludendo con l’unica consolante morale di non fare i moralisti.

Così, finisce la significanza del cattolicesimo come fatto anche civile, politico, pubblico. Il diritto, che nel Novecento ha galoppato tenuto per le briglie da Hans Kelsen e dal suo positivismo, si affranca definitivamente da qualsiasi influsso razionale del cattolicesimo. Se a Cristo si giunge senza pream-bula fidei, senza argomentazioni apologetiche, senza le cinque vie di san Tommaso, fra mondo mo-derno e chiesa l’incomunicabilità è totale. Si dissolve l’idea di regalità sociale di Cristo, che il calen-dario liturgico riformato si è affrettato a relegare nel dimenticatoio dell’ultima domenica del tempo ordinario, mentre in quello precedente era collocata nel mese dedicato alle missioni. Evapora persi-no la più modesta prospettiva di uno stato pluralista ma rispettoso della legge naturale, nel quale tutte le religioni sono tollerate, ma uccidere l’innocente non nato o ammalato è delitto per tutti.

Eppure, è questo il panorama evocato quando un Papa duetta con la stampa volterriana conve-nendo che: “Ciascuno di noi ha una sua visione del Bene e anche del Male. Noi dobbiamo incitar-lo a procedere verso quello che lui pensa sia il Bene”. E poi, richiesto di precisare la sua lezione sull’autonomia della coscienza precisa: “E qui lo ripeto. Ciascuno ha una sua idea del Bene e del Male e deve scegliere di seguire il Bene e combattere il Male come lui li concepisce. Basterebbe questo per migliorare il mondo”. Ma la coscienza non può essere una guida arbitraria e bizzosa, senza alcun riferimento alla verità. Non si può parlare di verità come relazione invece che come assoluto, quando la legge naturale si fonda proprio su degli assoluti morali, cioè l’esistenza di atti che sono sempre e comunque intrinsecamente malvagi. La verità per il cattolico è Cristo stesso: via, verità, e vita. Vladimir Solov’ev chiude i suoi “Fondamenti spirituali della vita” con un capitolo sull’immagine di Cristo come verifica della coscienza in cui spiega che: “Il compito finale della morale individuale e sociale consiste nel fatto che Cristo sia formato in tutti e in tut-to. (…) Si può non uccidere mai, non rubare, non infrangere nessuna legge criminale ed essere tuttavia disperatamente lontani dal regno di Dio”.

La coscienza non è uno strumento infallibile, può sbagliare. E quando è erronea, il soggetto agente è normalmente colpevole poiché, di solito, non ha fatto tutto il possibile per formarsi cor-rettamente e riconoscere l’errore. La coscienza erronea diventa argomento di esclusione della colpa del soggetto solo quando l’errore è invincibile: questa condizione può, forse, riguardare un indigeno della Papuasia, ma difficilmente si può riferire a uomini nati cresciuti e vissuti a contat-

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to con la Chiesa, con l’annuncio del Vangelo, con la sua dottrina, come è il caso dell’intervistato–re volterriano cresciuto dai gesuiti. Secondo la dottrina cattolica è dovere dei pastori formare le coscienze, insegnando a chiunque la verità tutta intera. Se invece la nascondono per “giustifi-care con l’ignoranza” il singolo che pecca, si assumono una grave responsabilità: lo spiegava con forza lo “specialista del Logos” Joseph Ratzinger in un libro del 1997, “Cielo e Terra”.

Per quanto siano estemporanee le omelie di Papa Francesco, si sbaglierebbe a non riconoscere una coerenza del pensiero che esprimono. C’è un solido legame tra l’esaltazione della coscienza, l’enfasi su un cristianesimo a scarso tasso dottrinale e quanto dice sulla preghiera. “La chiave che apre la porta alla fede è la preghiera” ha spiegato nell’omelia dedicata ai cristiani ideologici. “Quando un cristiano non prega, succede questo. E la sua testimonianza è una testimonianza superba… è un superbo, è un orgoglioso, è un sicuro di se stesso. Non è umile. Cerca la propria promozione… Quando un cristiano prega, non si allontana dalla fede, parla con Gesù… Dico pre-gare, non dico dire preghiere, perché questi dottori della legge dicevano tante preghiere… Una cosa è pregare e un’altra cosa è dire preghiere… Questi non pregano, abbandonano la fede e la trasformano in ideologia moralistica, casuistica, senza Gesù”.

Una fede ipodottrinale, risolta in un semplice incontro, finisce per vedere nell’aspetto formale della chiesa un ostacolo al proprio manifestarsi. E sarebbe difficile dimostrare che Papa Bergoglio, fin dalla sera della sua elezione, non abbia mostrato con le parole e i fatti la sua avversione alla for-ma e alla formalità. Da qui scende la contrapposizione tra il “dire preghiere” e il “pregare”, che è ben più di un calembour perché mette in discussione l’armonia tra lex orandi e lex credendi. “Dire preghiere” è sempre stato un pregare con la chiesa, tanto per la vecchina con il rosario in mano, quanto per il cardinale Newman o un monaco di clausura. Ognuno per la sua parte e la sua com-petenza, ma tutti insieme, membri dello stesso Corpo Mistico, come in coro, senza sapere l’uno dell’altro ma sicuri di essere lì insieme, nello stesso momento, a pregare nello stesso modo come vuole la lex orandi e a confessare la stessa fede, come vuole la lex credendi.

Ma serve disciplina, serve l’ascesi che l’attuale Pontefice salta a piè pari volgendosi subito alla mistica. “Colui che smette di pregare con regolarità” scrive il cardinale Newman in un sermone sulla preghiera del 1829 “perde il mezzo principale per ricordarsi che la vita spirituale è obbe-dienza al Legislatore, non un semplice sentimento o gusto”. E poi ancora, nel 1835, dice che chi “desidera portare nel suo cuore la presenza di Cristo deve solo ‘lodare Dio’ e far sì che le parole del santo salterio di Davide le siano familiari, un servizio quotidiano, sempre ripetute e tuttavia sempre nuove e sempre sacre. Preghi e soprattutto permetta l’intercessione. Non dubiti del fatto che la forza della fede e della preghiera agisce su tutte le cose con Dio”.

Suona impietoso il giudizio di chi disprezza il “dire preghiere” senza immaginare che, in fondo a quelle formule di cui nessuno può mutare uno iota, c’è chi vede le piaghe di Cristo e magari arri-va a toccarle e baciarle. In quelle parole considerate pietre d’inciampo a una fede autentica, è invece racchiusa una sapienza che apre al senso più profondo degli attimi terribili che ogni crea-tura dovrà vivere fin sulla soglia dell’ultimo respiro. Sono ritmi celesti che incantano l’anima e la strappano al mondo e la nutrono con quell’anticipo di vita soprannaturale che è la cerimonia. “Penso di poter parlare a nome di molti altri convertiti” scriveva Chesterton “quando dico che l’unica cosa che può suscitare in qualche modo nostalgia o rimpianto romantico, un vago sentore di mancanza per la propria casa in uno che la casa l’ha trovata veramente, è il ritmo della prosa di Cranmer”. Il “Libro delle Preghiere comuni” anglicano del XVI secolo aveva ancora una musi-calità tale da essere una sirena. “La ragione” continuava il convertito inglese “può essere ripor-tata in una frase: ha stile, tradizione, religiosità; venne redatto da cattolici rinnegati. E’ efficace, ma non in quanto primo libro protestante, bensì in quanto ultimo libro cattolico”.

I cattolici della Cornovaglia e del Devon si fecero massacrare, pur di non accettare il “Book of Common prayer”. Mette i brividi il solo pensare come li possa giudicare il pensiero dominante della chiesa di oggi, dove viene celebrata la messa su un messale che somiglia da vicino a quello di Cranmer. Forse “cultori di format ideologici in versione cristiana”, come quei bigotti mendicanti di tradizione ridotti a clandestini dal cattolicesimo della tenerezza, come i sans-papiers de l’Eglise.

di Alessandro Gnocchi e Mario Palmaro

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