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Il manifesto 16/09/2011 Natura umana in tre mosse La pubblicazione di «Jules Verne o il racconto in difetto» e «Da Canguilhem a Foucault. di Fabio Raimondi Pierre Macherey non è molto noto in Italia, ad eccezione degli addetti ai lavori, dato che ben poco della sua vasta produzione (si veda il suo sito personale: stl.recherche.univ-lille3.fr) è stato tradotto nella nostra lingua. Allievo del filosofo e storico della scienza francese Georges Canguilhem, si è affermato molto giovane col suo contributo a Leggere il Capitale (1965), per poi sviluppare una riflessione sempre più autonoma da quella althusseriana. Ne è un esempio il volume Per una teoria della produzione letteraria (1966), tradotto, parzialmente, da Laterza nel 1969. Mancano all'appello, però, almeno Hegel ou Spinoza (1979), i cinque volumi dell'Introduction à l'Éthique de Spinoza (1994-98), la raccolta Histoires de dinosaure. Faire de la philosophie (1999), Marx 1845. Les "Thèses" sur Feuerbach (2008), Petits riens. Ornières et dérives du quotidien (2009). Con riferimento al testo del 1966, rimedia adesso la traduzione del primo capitolo della terza parte espunta (restano da tradurre l'Annesso su Robinson Crusoe e gli altri due capitoli su Borges e Balzac): Jules Verne o il racconto in difetto, curato da Fabrizio Denunzio (Mimesis, pp. 108, euro 12), con Prefazione dell'Autore. Il distacco, parziale ma significativo, dalla teoria althusseriana della letteratura come ideologia, è sancito precisando che il lavoro su Verne ha lo scopo di mostrare i «poteri propri della letteratura che, presentandosi tutta su di uno sfondo ideologico al quale presta i suoi materiali, non si accontenta di ripeterlo in modo identico, di "rifletterlo" offrendone un'immagine conforme, ma lo fa apparire sotto un'angolazione diversa». Essa, infatti, fornendo «gli strumenti per prendere le distanze dalle idee dominanti della propria epoca, consente di coglierle al rovescio, illuminandole criticamente e facendone emergere il volto nascosto». Finzione del reale Operazione importante perché, spiega Denunzio nella Postfazione, mostra che la «cultura di massa è il luogo in cui si elabora l'ideologia di una classe» grazie a scrittori «operai», di cui Verne è esempio, sancendo che «solo nella forma organizzata di un lavoro operaio si formalizza il senso avanguardistico della borghesia». Sempre grazie a questo lavoro, aggiungerei, l'ideologia, in questo caso quella positivistica della «borghesia francese» ottocentesca e del «popolo dell'Unione sovietica», lanciati alla conquista scientista più che scientifica della natura, è però deformata, consciamente o meno, tanto che, a dispetto della sua immagine «piena», ne emerge il «difetto» costitutivo, che, simbolicamente almeno, la fa inabissare come accade all'Isola misteriosa, «tema rivelatore» di tutta l'opera di Verne. Il difetto non è una mancanza, ma l'eccessiva compattezza: la volontà di rendere forzatamente coerente il «quadro ideologico» rivela l'«impossibilità di riempirlo». All'interno del tema generale della «conquista della natura da parte dell'industria», possibile perché l'uomo non è un intruso, ma «è in completa armonia con essa» (ecologia e industrializzazione non si escludono), frutto di una concezione in cui la scienza è il «punto di congiunzione del reale con l'immaginario», ragion per cui «il reale è la finzione compiuta», Verne innesta la finzione dell'isola, per correggere l'immaginario del Robinson Crusoe di Daniel Defoe, producendo «un romanzo su un romanzo». Se «la trasformazione della natura è l'opera della natura stessa» in vesti umane, ciò non significa che l'uomo plasmi la natura a sua immagine, ma, al contrario, che è «l'uomo che si fa sul modello degli oggetti naturali», che non sono distinguibili dalle macchine e dagli «oggetti tecnici»: la «vera casa» dell'uomo (un'idea che avrebbe fatto felice Gilbert Simondon). La simbiosi uomo-

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Il manifesto 16/09/2011

Natura umana in tre mosse La pubblicazione di «Jules Verne o il racconto in difetto» e «Da Canguilhem a Foucault. di Fabio Raimondi

Pierre Macherey non è molto noto in Italia, ad eccezione degli addetti ai lavori, dato che ben poco della sua vasta produzione (si veda il suo sito personale: stl.recherche.univ-lille3.fr) è stato tradotto nella nostra lingua. Allievo del filosofo e storico della scienza francese Georges Canguilhem, si è affermato molto giovane col suo contributo a Leggere il Capitale (1965), per poi sviluppare una riflessione sempre più autonoma da quella althusseriana. Ne è un esempio il volume Per una teoria della produzione letteraria (1966), tradotto, parzialmente, da Laterza nel 1969. Mancano all'appello, però, almeno Hegel ou Spinoza (1979), i cinque volumi dell'Introduction à l'Éthique de Spinoza (1994-98), la raccolta Histoires de dinosaure. Faire de la philosophie (1999), Marx 1845. Les "Thèses" sur Feuerbach (2008), Petits riens. Ornières et dérives du quotidien (2009).

Con riferimento al testo del 1966, rimedia adesso la traduzione del primo capitolo della terza parte espunta (restano da tradurre l'Annesso su Robinson Crusoe e gli altri due capitoli su Borges e Balzac): Jules Verne o il racconto in difetto, curato da Fabrizio Denunzio (Mimesis, pp. 108, euro 12), con Prefazione dell'Autore. Il distacco, parziale ma significativo, dalla teoria althusseriana della letteratura come ideologia, è sancito precisando che il lavoro su Verne ha lo scopo di mostrare i «poteri propri della letteratura che, presentandosi tutta su di uno sfondo ideologico al quale presta i suoi materiali, non si accontenta di ripeterlo in modo identico, di "rifletterlo" offrendone un'immagine conforme, ma lo fa apparire sotto un'angolazione diversa». Essa, infatti, fornendo «gli strumenti per prendere le distanze dalle idee dominanti della propria epoca, consente di coglierle al rovescio, illuminandole criticamente e facendone emergere il volto nascosto».

Finzione del reale

Operazione importante perché, spiega Denunzio nella Postfazione, mostra che la «cultura di massa è il luogo in cui si elabora l'ideologia di una classe» grazie a scrittori «operai», di cui Verne è esempio, sancendo che «solo nella forma organizzata di un lavoro operaio si formalizza il senso avanguardistico della borghesia». Sempre grazie a questo lavoro, aggiungerei, l'ideologia, in questo caso quella positivistica della «borghesia francese» ottocentesca e del «popolo dell'Unione sovietica», lanciati alla conquista scientista più che scientifica della natura, è però deformata, consciamente o meno, tanto che, a dispetto della sua immagine «piena», ne emerge il «difetto» costitutivo, che, simbolicamente almeno, la fa inabissare come accade all'Isola misteriosa, «tema rivelatore» di tutta l'opera di Verne. Il difetto non è una mancanza, ma l'eccessiva compattezza: la volontà di rendere forzatamente coerente il «quadro ideologico» rivela l'«impossibilità di riempirlo».

All'interno del tema generale della «conquista della natura da parte dell'industria», possibile perché l'uomo non è un intruso, ma «è in completa armonia con essa» (ecologia e industrializzazione non si escludono), frutto di una concezione in cui la scienza è il «punto di congiunzione del reale con l'immaginario», ragion per cui «il reale è la finzione compiuta», Verne innesta la finzione dell'isola, per correggere l'immaginario del Robinson Crusoe di Daniel Defoe, producendo «un romanzo su un romanzo». Se «la trasformazione della natura è l'opera della natura stessa» in vesti umane, ciò non significa che l'uomo plasmi la natura a sua immagine, ma, al contrario, che è «l'uomo che si fa sul modello degli oggetti naturali», che non sono distinguibili dalle macchine e dagli «oggetti tecnici»: la «vera casa» dell'uomo (un'idea che avrebbe fatto felice Gilbert Simondon). La simbiosi uomo-

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macchina, cioè l'essenza tecnica dell'umano, è ciò che consente il «viaggio» nella natura, il cui scopo è colmare velocemente il suo «vantaggio» su di noi abolendo il ritardo temporale che ci separa da essa. La scienza è il progetto d'abolizione del tempo attraverso il tempo.

L'iniziale contrapposizione con Robinson svanisce così un po' alla volta. Se l'isola in cui naufraga Robinson è piena d'ogni ben di dio (dai resti della nave a Venerdì) consentendogli di non cominciare dal nulla, l'isola di Verne, al contrario, è caratterizzata da «una miseria assoluta» e il compito dei nuovi eroi è «arrivare a tutto, dal nulla». L'idea di Verne di svelare la natura fittizia della genesi robinsoniana, mostrandone il carattere «profondamente storico» di presente idealizzato come origine (passato), a cui sostituire il vero inizio, che è privo di beni e di tempo (di qui la «fretta» di imitare la natura tramite l'industria per riuscire a sopravvivere), «è profondamente sconvolta e anche rovesciata» proprio dai suoi sviluppi. Man mano, infatti, viene in luce che l'isola è «l'ultima traccia di un continente scomparso» e che, dunque, come quella di Robinson, non è «deserta», ma solo una «scena», un «laboratorio». Il fine non è più la conquista di una terra vergine, ma la scoperta della «volontà» che ha fabbricato l'isola: «Nemo, nascosto nel fondo del vulcano, costruttore segreto dello scenario». È sempre un artificio che gli uomini hanno di fronte: ogni origine è nella storia e da essa segnata. La natura (ri)comincia in continuazione e gli uomini con essa dai loro fallimenti precedenti, perché la storia, come diceva Marx, procede sempre «dal lato cattivo».

Una natura, che non è l'universo infinito di Bruno, ma «un unico territorio», in cui si trova un «gruppo», perché, per Verne, «il soggetto della modernità si presenta sotto la forma di un materiale umano gerarchizzato»: una «famiglia fatta di uomini», un'«élite», il cui compito è quello di (ri)scoprire l'armonia con la natura. L'isola è una "pienezza" in potenza, si tratta solo di attuarla col sapere e l'industria. Ovviamente, che la natura sia così ben disposta è da dimostrare: ma è proprio dandolo per dimostrato che l'ideologia si forma pretendendo di colmare lo «scarto» su cui costruisce la sua narrazione.

Tra spontaneità e artificio

L'opera letteraria, «lungi dall'essere illusoria, dà a una mitologia storicamente attestata la sua esatta posizione»: quella del Padre, perché «un nuovo Robinson esiste solo nella misura in cui esiste sempre l'altro e lo fa durare», mostrando l'incapacità di «pensare e rappresentare l'avvenire» se non per mezzo del passato: la «resurrezione dei morti» di cui parlava Marx.

Da qui è possibile collegarsi a un secondo testo di Macherey, Da Canguilhem a Foucault. La forza delle norme (trraduzione di Paolo Godani), Ets, pp. 134, euro 12 (anch'esso con prefazione dell'Autore), che raccoglie una serie di saggi pubblicati tra il 1964 e il 1998. Il filo rosso è dato dalla ricerca di un'origine immanente delle norme. Non la loro «trascendenza, che si realizza nell'anteriorità della causa rispetto all'effetto e in cui deve esserci qualcosa di più che nell'effetto», ma l'essere «animate da una potenza in virtù della quale esse si producono da sé e definiscono il loro funzionamento nel corso della loro stessa azione, essendo così causate e causanti». Le due grandi figure di questa ricerca che Macherey analizza nelle loro somiglianze e differenze sono Canguilhem e Foucault, perché entrambi rifuggono dal contesto giuridico e dissolvono l'«alternativa tradizionale tra spontaneità e artificio» sfidando, inoltre, il «determinismo meccanicista». Se per Canguilhem «il polo principale della riflessione è il naturale, cioè il biologico, per Foucault il polo principale è costituito dal culturale e dal sociale». I due approcci, però, per quanto diversi sono complementari o, comunque, si parlano (come facevano i loro autori) ed è dalla loro intersezione che dovrebbe uscire l'idea di una storia della normatività (e non della normalità, che è l'ideologia di una norma).

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Ciò che emerge è l'indagine sulla produzione della norma «come espansione» vitale e non come «restrizione o imposizione». È qui che il confine tra soggetto e oggetto sfuma, perché il soggetto «agisce solo in quanto è agito e pensa solo in quanto è pensato secondo qualche norma»: essere «soggetto», infatti, «significa essere assoggettato, non però nel senso della sottomissione a un ordine esteriore che suppone una relazione di pura dominazione, ma nel senso dell'inserimento degli individui, senza eccezione né esclusione, in una rete omogenea e continua, in un dispositivo normativo che, producendoli o piuttosto riproducendoli, li trasforma in soggetti»: una norma che essi stessi producono e che, dunque, cessa di essere imposta, perché è produttiva del loro stesso essere, in conformità alla lezione spinoziana dell'Etica. Essere soggetti significa «appartenere, cioè intervenire al contempo come elemento e come attore in un processo globale», perché «ciò che fa da norma alla norma è la sua stessa azione». Le norme, dunque, sono «necessarie e naturali», perché bisogna «riconoscere l'originale normatività della vita». È la vita che produce le norme a cui poi si sottopone e non è, come spesso si crede, la norma, prodotta da chissà chi, a imporsi sulla vita.

L'incompiuto vivente

Tutte le passioni sono occasioni per l'emergere di una norma, tanto più se produttrici di «valori negativi» o «anomalie», perché «la vita non si lascia conoscere e riconoscere se non attraverso i suoi errori». Sono questi che segnano il limite di una norma, costringendola a riconoscerli e a modificarsi, mostrando, al contempo, «l'incompiutezza di ogni essere vivente». Questo implica che «non è il vitale che impone il proprio insuperabile modello al sociale, ma è piuttosto il sociale che, nel mondo umano, trascina il vitale oltre se stesso, non foss'altro perché uno degli "organi" che nascono dalla sua "invenzione" è la conoscenza del vitale stesso, conoscenza sociale nel suo stesso principio». La storia è «al contempo naturale e sociale», sempre collettiva, e la posta in gioco è il «passaggio dal normale al normativo», perché le «norme sono schemi vitali alla ricerca delle condizioni della loro realizzazione». Una normatività che dovremmo imparare a recuperare presto.

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