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NOZIONI GENERALI Gli scopi della Cominità europea Art. 2 TCE definisce gli obiettivi che la Comunità è chiamata a promuovere e gli strumenti di cui essa dispone a tal fine. Per quanto riguarda gli obiettivi, è importante sottolineare che il loro numero è aumentato dai 5 iniziali agli attuali 9. Tra i primi 5 prevalevano obiettivi dalla caratterizzazione economica: - sviluppo armonioso delle attività economiche; - espansione continua ed equilibrata; - stabilità accresciuta; - miglioramento del tenore di vita. Le modifiche apportate dall’ art 2 hanno aumentato l’importanza degli obiettivi di tipo: - ambientale la Comunità è ora impegnata a promuovere un elevato livello di protezione dell’ambiente e il miglioramento della qualità di quest’ultimo; - sociale gli obiettivi consistono nella promozione di un elevato livello di occupazione e di protezione sociale e della parità tra uomini e donne, oltre che tendere a migliorare il tenore e la qualità della vita. L’aumento degli obiettivi non economici è stato giudicato tale da giustificare il mutamento stesso dell’originaria denominazione della Comunità da Comunità economica europea a Comunità europea. Quanto agli strumenti a disposizione della comunità per perseguire gli obiettivi definiti dall’art. 2, anch’essi 1

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NOZIONI GENERALI

Gli scopi della Cominità europea

Art. 2 TCE definisce gli obiettivi che la Comunità è chiamata a promuovere e gli strumenti di cui essa dispone a tal fine.

Per quanto riguarda gli obiettivi, è importante sottolineare che il loro numero è aumentato dai 5 iniziali agli attuali 9.

Tra i primi 5 prevalevano obiettivi dalla caratterizzazione economica:

- sviluppo armonioso delle attività economiche;- espansione continua ed equilibrata;- stabilità accresciuta;- miglioramento del tenore di vita.

Le modifiche apportate dall’ art 2 hanno aumentato l’importanza degli obiettivi di tipo:

- ambientale la Comunità è ora impegnata a promuovere un elevato livello di protezione dell’ambiente e il miglioramento della qualità di quest’ultimo;

- sociale gli obiettivi consistono nella promozione di un elevato livello di occupazione e di protezione sociale e della parità tra uomini e donne, oltre che tendere a migliorare il tenore e la qualità della vita.

L’aumento degli obiettivi non economici è stato giudicato tale da giustificare il mutamento stesso dell’originaria denominazione della Comunità da Comunità economica europea a Comunità europea.

Quanto agli strumenti a disposizione della comunità per perseguire gli obiettivi definiti dall’art. 2, anch’essi hanno subito nel tempo alcune importanti variazioni. Nella versione originaria, tali strumenti erano soltanto due:

- l’instaurazione di un mercato comune;- il graduale ravvicinamento delle politiche economiche: questo è

stato sostituito da un nuovo e più avanzato strumento consistente nell’instaurazione di un’unione economica e monetaria.

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Lo stesso Trattato dell’Unione Europea (TUE) ha provveduto ad inserire nell’art. 2 anche un terzo strumento, consistente nell’attuazione delle politiche e azioni comuni, di cui ai successivi artt. 3 e 4.

Le azioni e politiche previste sin dall’inizio hanno caratterizzazione economica; esse comportano:

- libera circolazione delle merci, delle persone, dei servizi e dei capitali;

- 3 politiche comuni ( politica commerciale comune, politica comune nei settori dell’agricoltura e della pesca, politica comune nel settore dei trasporti);

- un regime di libera concorrenza;- il riavvicinamento delle legislazioni nazionali;

L’unica azione di natura sociale prevista sin dall’origine è quella che si riferisce a una politica nel settore sociale comprendente un Fondo sociale europeo.

Completano il quadro alcune nuove azioni e politiche di tipo economico come il rafforzamento della competitività dell’industria comunitaria, la promozione della ricerca e dello sviluppo tecnologico e l’incentivazione della creazione e dello sviluppo di reti transeuropee.

Alle azioni e politiche previste dall’art. 3, si aggiungono quelle contemplate dall’art. 4 che si riferiscono più direttamente all’instaurazione di un’unione economica e monetaria.

L’art I – 3 della Costituzione definisce gli obiettivi dell’Unione:

- obiettivi di carattere economico,sociale, ambientale e culturale; politica commerciale ed estera;

- indica gli obiettivi principali attraverso cui gli obiettivi interni vanno realizzati: “uno spazio di libertà, sicurezza e giustizia senza frontiere interne e un mercato interno nel quale la concorrenza è libera e non è falsata”.

Le competenze comunitarie: il principio della competenza di attribuzione

L’art. 5 TUE dice che la Comunità agisce soltanto nei limiti delle competenze e degli obiettivi che le sono espressamente conferite dai trattati.

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Ciò significa che nelle Comunità opera il c.d. principio delle competenze di attribuzione secondo il quale, la Comunità, non essendo un soggetto originario di diritto internazionale ma un soggetto derivato, dispone solo di quei poteri che gli Stati membri hanno deciso di conferirle. Essa può intervenire solo nei settori in cui ciò sia contemplato dal trattato e solo per gli obiettivi che il trattato stesso indica.

La rigidità del principio della competenza di attribuzione è stata mitigata, da un lato, dall’ intervento della Corte di giustizia che ha affermato che la comunità può essere considerata competente quando l’esercizio di un certo potere risulti indispensabile per l’esercizio di un potere espressamente previsto (Teoria dei poteri impliciti).

Dall’altro lato, l’ art. 308. TCE prevede che, qualora un’azione della Comunità risulti indispensabile al raggiungimento di uno degli scopi previsti dal Trattato, senza che le sue norme abbiano attribuito alle istituzioni poteri espressi d’azione, il Consiglio, deliberando all’unanimità previa proposta della Commissione e parere del Parlamento europeo, possa adottare le disposizioni del caso.

A differenza della teoria dei poteri impliciti, che permette di esercitare poteri già previsti, anche se non espressamente attribuiti dal Trattato, il ricorso all’art. 308 come fondamento di un atto permette di conferire alle istituzioni dell’Unione Europea nuovi poteri, anch’essi limitati al perseguimento degli obiettivi comunitari. Le condizioni poste dall’art. 308 sono alquanto restrittive:

- Dal punto di vista procedurale, è richiesta una delibera unanime del Consiglio con il coinvolgimento della Commissione e del Parlamento;

- Dal punto di vista sostanziale, occorre, da un lato la NECESSITA’ della nuova azione in relazione ai fini della comunità, dall’altro la MANCATA PREVISIONE di poteri d’azione da parte del trattato;

L’art. 308, infine, affida alle istituzioni la scelta del tipo di atti da adottare; nella prassi sono stati fondati sulla norma in esame direttive, regolamenti e anche accordi internazionali.

Ci si chiede poi se esistano dei limiti intrinseci alla possibilità di ricorrere a questa norma. In primo luogo va osservato che la norma in esame

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consente nuove azioni, ma non deroghe o deviazioni rispetto alla disciplina materiale fissata dallo stesso trattato: non sarebbe possibile adottare disposizioni che contraddicano le regole relative alla libertà di circolazione, o che vogliano modificare la struttura istituzionale della Comunità. E’ possibile, invece, riconoscere alla comunità nuovi poteri, purchè non si vada al di là dell’ambito generale risultante dalle disposizioni del trattato.

I vari tipi di competenza comunitaria

L’art. 5 TUE opera una distinzione tra:

- Competenze ESCLUSIVE nei settori di competenza esclusiva, la competenza degli Stati membri è preclusa anche qualora la competenza comunitaria non sia esercitata pienamente. Gli interventi degli stati membri hanno carattere transitorio e devono essere autorizzati dalla Comunità.

- Competenze CONCORRENTI nei settori di competenza concorrente, inizialmente Comunità e Stati membri, possono esercitare ciascuno i propri poteri, ma si tratta di una situazione che potrebbe modificarsi nel tempo a favore della Comunità, perché a mano a mano che questa agisce, diminuisce lo spazio di azione degli Stati membri. Nei settori di competenza concorrente, dunque, l’estensione della competenza degli Stati membri dipendono dai tempi e dai modi con cui la competenza comunitaria viene esercitata.

Il trattato non precisa se una determinata competenza comunitaria è esclusiva o soltanto concorrente, quindi il problema di come classificare una determinata competenza, va risolto in via interpretativa. La Corte ha considerato come esclusiva la competenza comunitaria nel settore della politica commerciale comune ma mancano affermazioni giurisprudenziali circa l’esclusività della competenza comunitaria in altri settori.

Accanto alle competenze esclusive e quelle concorrenti, il trattato prevede inoltre un terzo tipo di competenze. In alcuni settori infatti viene specificato che la competenza comunitaria deve essere esercitata in parallelo con la competenza degli Stati membri, attraverso azioni destinate a sostenere, coordinare e integrare quelle degli Stati membri e

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senza che la competenza comunitaria possa sostituirsi a quella degli Stati membri.

Il principio di sussidiarietà

Secondo tale principio, previsto all’art 5 del Trattato CE, la Comunità interviene nei settori che non sono di sua esclusiva competenza soltanto se e nella misura in cui gli obiettivi dell’ azione prevista non possono essere sufficientemente realizzati dagli Stati membri e possono essere realizzati meglio a livello comunitario.

Il principio di sussidiarietà è previsto solo per le materie che non rientrano nella competenza esclusiva comunitaria. Dato che nei settori di competenza concorrente, la sopravvivenza della competenza statale dipende dalla maniera con cui la competenza comunitaria viene esercitata, il principio di sussidiarietà costituisce una garanzia per gli stati membri che le loro competenze non vengano limitate.

Si è discusso a lungo se il rispetto del principio di sussidiarietà possa essere oggetto di controllo giurisdizionale. La Corte ha operato tenendo conto che la scelta di considerare un atto comunitario conforme al principio di sussidiarietà appartiene alla sfera di discrezionalità politica che deve essere riservata alle istituzioni e nella quale il giudice non intende intromettersi (salvo i casi di travalicamento dei limiti della discrezionalità o di errore manifesto.

Inizialmente la violazione del principio di sussidiarietà è stato invocato dalle parti come vizio della motivazione. Successivamente la Corte è stata chiamata a verificare l’esistenza della violazione di tale principio quanto vizio autonomo. La verifica del rispetto del principio di sussidiarietà va effettuata sotto due profili:

- verificare se l’obiettivo dell’azione potesse essere meglio realizzato a livello comunitario;

- verificare che l’azione comunitaria non abbia oltrepassato la misura necessaria per realizzare l’obiettivo cui tale azione è diretta;

Il principio di sussidiarietà è ripreso dalla Costituzione, l’unica differenza riguarda il riferimento al “livello regionale o locale” accanto a quello “centrale”: entrambi vanno presi in considerazione per valutare se gli

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stati membri siano in grado di raggiungere gli obiettivi dell’azione prevista. Un apposito Protocollo sull’applicazione dei principi di sussidiarietà e di proporzionalità è stato allegato alla Costituzione per il rispetto di tali principi.

Il principio di proporzionalità

Ultimo dei principi richiamati dall’art. 5, il principio di proporzionalità regola l'esercizio delle competenze esercitate dall'Unione europea. Esso mira a limitare e inquadrare l'azione delle istituzioni dell'Unione. In virtù di tale regola l'azione della Comunità deve limitarsi a quanto è necessario per raggiungere gli obiettivi fissati dal presente trattato.

Gli Stati membri non hanno esitato ad utilizzare il principio di proporzionalità per contestare la legittimità di atti delle istituzioni giudicati eccessivamente invasivi delle loro competenze.

L’esigenza di rispettare la proporzionalità comporta restrizioni:

- sia per quanto riguarda la scelta del tipo di atto da adottare: le direttive dovrebbero essere preferite ai regolamenti;

- sia per quanto riguarda il contenuto di quest’ultimo: le misure comunitarie dovrebbero lasciare spazio alle decisioni nazionali, purchè siano soddisfatte le prescrizioni del trattato;

Occorre ora chiarire il rapporto tra principio di proporzionalità e principio generale di proporzionalità. Quest’ ultimo è uno strumento di protezione dei singoli nei confronti delle istituzioni comunitarie quando queste agiscono in un settore retto dal diritto comunitario. Il principio esige che i sacrifici e le limitazioni di libertà imposti ai singoli:

- siano idonei a raggiungere l’obiettivo perseguito;- siano necessari a questo stesso fine, evitando di imporre ai privati

sacrifici superflui;

La cittadinanza dell’Unione

La cittadinanza dell'Unione europea è stata istituita dal Trattato di Maastricht del 1992. È regolata dalla seconda parte del Trattati di Roma (artt. 17 - 22) e l’art. 17 dice: “E’ cittadino dell’Unione chiunque abbia la cittadinanza di uno Stato membro”.

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La cittadinanza dell’Unione deriva quindi dalla cittadinanza nazionale di uno stato membro.

Secondo l’art. 17 al cittadino dell’Unione spettano i diritti e i doveri previsti dal Trattato, ma in esso non figurano doveri che gravino specificamente sui cittadini dell’Unione; per quanto riguarda i diritti, essi sono stabiliti dagli art. 18-22 e hanno natura eterogenea:

- alcuni conferiscono DIRITTI DI MOBILITA’, poiché legati alla circolazione del cittadino nei paesi dell’Unione. Tra essi figurano il diritto di circolazione e il diritto di soggiorno (art.18)

Ora si tratta di stabilire se la norma sia dotata di efficacia diretta, cioè se sia atta a produrre effetti diretti a favore dei soggetti interessati ad invocarla. La Corte si è espressa in modo affermativo (almeno per il diritto di soggiorno), affermando nella sentenza “Baumbast”, che il diritto di soggiorno è riconosciuto direttamente ad ogni cittadino dell’Unione da una disposizione chiara e precisa del Trattato.

Per quanto riguarda i limiti e le condizioni, esse dipendono dalla situazione particolare del soggetto interessato: se si tratta di persone rientranti nel campo dell’applicazione della libera circolazione dei lavoratori, o in quello del diritto di stabilimento e libera prestazione di servizi, assumeranno rilievo le disposizioni del trattato; se si tratta di persone non rientranti in queste categorie, le condizioni e i limiti del diritto di soggiorno verranno ricavati da alcuni atti adottati dalle istituzioni.

Se analizziamo il diritto di soggiorno in combinazione con il divieto di discriminazione in base alla nazionalità previsto dall’art. 12, osserviamo che i cittadini dell’Unione che soggiornino legittimamente in uno Stato membro diverso dal proprio, rientrano del campo di applicazione del Trattato e quindi gli Stati membri non possono più discriminare questi soggetti rispetto ai propri cittadini, perché violerebbero l’art. 12 del Trattato.

Circa il diritto di circolazione, l’atteggiamento della Corte sembra ispirato a notevole cautela. Nella sentenza “Wijsenbeek”, essa ha escluso che un cittadino dell’Unione possa invocare l’art. 18 per opporsi alla richiesta

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delle autorità di polizia aeroportuali del proprio stato di esibire un documento di identità a prova della sua nazionalità.

- altri si riferiscono a DIRITTI POLITICI, poiché attengono alla partecipazione del cittadino alla vita politica dell’Unione e degli Stati membri. Tra questi figurano il diritto di voto e di eleggibilità nelle elezioni comunali e in quelle per il parlamento europeo che si svolgono nello Stato di residenza (art. 19), il diritto di presentare petizioni al Parlamento europeo e rivolgersi al Mediatore europeo (art. 21). A questi diritti il Trattato di Amsterdam ha aggiunto il diritto di scrivere alle istituzioni e agli organi comunitari in una delle lingue ufficiali della Comunità e il diritto di ricevere risposta nella medesima lingua.

Della cittadinanza dell’Unione e dei diritti da essa derivanti, la Costituzione parla a più riprese. Essa è infatti oggetto anche della parte II della Costituzione, che riproduce la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea.

Mercato comune e mercato interno

Nonostante l’importanza centrale dell’instaurazione di un mercato comune, di tale locuzione manca una definizione normativa.

Il Trattato sembra utilizzare il termine “mercato comune” per designare l’area geografica risultante dalla somma dei territori degli Stati membri.

Nonostante l’introduzione della nuova nozione di mercato interno, non sarebbe corretto affermare che sia stata soppressa quella di mercato comune, poiché di quest’ultimo si parla ancora in numerosi articoli del Trattato.

Bisogna chiarire il rapporto tra queste due nozioni.

- la Costituzione segna l’abbandono definitivo della nozione di mercato comune, sostituita da quella di mercato interno;

- la Corte afferma che la nozione di mercato comune mira ad eliminare ogni intralcio per gli scambi intracomunitari al fine di fondere i mercati nazionali in un mercato unico il più possibile simile ad un vero e proprio mercato interno;

MERCATO COMUNE

8 sono trattati come se fossero del tutto equivalenti

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MERCATO UNICO

MERCATO INTERNO viene richiamato come metro di paragone e di confronto, nel quale l’aggettivo “interno” sottintende un implicito riferimento alla realtà di un mercato nazionale.

Il mercato comune viene gradualmente instaurato attraverso l’attuazione delle azioni e delle politiche elencate nell’art. 3, ma non è detto che l’attuazione di tutte le azioni e di tutte le politiche basti a rendere il mercato comune sufficientemente simile ad un mercato interno: per il raggiungimento di questo ulteriore traguardo dipende dal contenuto e dall’intensità di tali azioni e di tali politiche.

L’art. 14 afferma che il mercato interno comporta uno spazio senza frontiere interne, nel quale è assicurata la libera circolazione delle merci, delle persone, dei servizi e dei capitali: tale affermazioni non aggiunge nulla sul piano giuridico, l’unico elemento di novità potrebbe semmai essere individuato nel riferimento all’abolizione delle “frontiere interne” nel senso di confini nazionali.

Tale articolo è di carattere programmatico e tale programmaticità è confermata dalla non perentorietà del termine.

Si è assistito nel linguaggio comune all’identificazione di mercato interno con l’intero campo d’azione della Comunità: in altre parole, il mercato interno non è limitato alle quattro libertà di circolazione, ma ad esso tendono ad essere ricondotte tutte le politiche comunitarie che contribuiscono a rimuovere gli ostacoli alla unificazione dei mercati nazionali.

L’Unione doganale

L’Unione doganale assume un’importanza centrale ai fini della realizzazione del mercato comune. La nozione non è nata con il Trattato, ma è contenuta nell’Accordo Generale sulle Tariffe e sul Commercio (GATT) concluso a Ginevra il 30 ottobre 1947.

UNIONE DOGANALE la sostituzione di un solo territorio doganale a due o più territori doganali. I dazi doganali tra gli Stati membri, tanto all’importazione, quanto all’esportazione, sono interamente soppressi, così come lo sono le tasse d’effetto equivalente.

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Per quanto riguarda le regolamentazioni commerciali restrittive vanno ricordati gli artt. 28 e successivi, che proibiscono tra gli Stati membri le restrizioni quantitative sia all’importazione che all’esportazione.

Tanto al divieto dei dazi doganali e tasse d’effetto equivalente, quanto quello delle restrizioni quantitative e misure d’effetto equivalente, si applicano sia ai prodotti originari degli Stati membri che ai prodotti provenienti da paesi terzi che si trovano in libera pratica negli Stati membri.

Per quanto riguarda gli scambi con i paesi non appartenenti all’Unione doganale, l’art. 26 prevede la fissazione di una vera e propria tariffa doganale comune in sostituzione delle preesistenti tariffe nazionali.

LA LIBERA CIRCOLAZIONE DELLE MERCI

Disciplina della libera circolazione delle merci all’interno della Comunità è contenuta nel Trattato. L’art. 25 vieta i dazi doganali e le tasse d’effetto equivalente fra gli Stati membri, mentre gli art. 28-31 vietano le restrizione quantitative e le misure d’effetto equivalente tra gli Stati membri.

Tutte le norme richiamate prevedono a carico degli Stati membri divieti assoluti. Inoltre le norme relative alla circolazione delle merci sono considerate come dotate di efficacia diretta, poiché sono redatte in termini precisi ed assoluti.

Il divieto di dazi doganali e tasse d’effetto equivalente

Negli scambi tra Stati membri, i dazi doganali sono oggetto di un divieto assoluto, sia per le importazioni, sia per le esportazioni. (art. 23-25)

Dubbi interpretativi non nascono tanto riguardo al concetto di dazio, che costituisce un tributo di tipo particolare, caratterizzato da modalità di percezione diverse rispetto ad ogni altro tributo, quanto a quello di tassa di effetto equivalente. La Corte dice che: “qualsiasi onere pecuniario imposto unilateralmente, indipendentemente dalla sua denominazione e dalla sua struttura, che colpisca le merci in ragione del fatto che esse varcano la frontiera, se non è un dazio doganale vero e proprio, costituisce una tassa d’effetto equivalente ai senso degli art. 9, 12, 13, 16 del Trattato, anche se non sia riscosso a profitto dello Stato”.

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Di questa definizione occorre evidenziare alcuni punti:

- deve trattarsi di un onere PECUNIARIO;- deve trattarsi di un onere IMPOSTO ALLE SOLE MERCI CHE

VARCHINO LA FRONTIERA NAZIONALE;

- deve trattarsi di un onere IMPOSTO AL SOGGETTO OBBLIGATO AL PAGAMENTO;

- deve trattarsi di un onere IMPOSTO UNILATERALMENTE DALLO STATO MEMBRO di importazione;

La portata del divieto di tasse d’effetto equivalente riguarda soltanto gli scambi tra Stati membri.

Il divieto di imposizioni interne discriminatorie o protezionistiche

Le norme relative all’abolizione dei dazi doganali e delle tasse d’effetto equivalente vanno integrate dall’art. 90, relativo alle “imposizioni interne”, che svolge una funzione complementare rispetto alle norme sull’abolizione dei dazi doganali: “Nessuno Stato membro applica direttamente o indirettamente ai prodotti degli altri Stati membri imposizioni interne, di qualsivoglia natura, superiori a quelle applicate direttamente o indirettamente ai prodotti nazionali similari.

Inoltre, nessuno Stato membro applica ai prodotti degli altri Stati membri imposizioni interne intese a proteggere indirettamente altre produzioni.”

Occorre distinguere tra “imposizione interna” e tassa d’effetto equivalente”. Quest’ultima è vietata sic et simpliciter, mentre la prima è vietata solo se discriminatoria nei confronti dei prodotti importati. Secondo la giurisprudenza la differenza essenziale tra una tassa d’effetto equivalente a un dazio doganale e un tributo interno consiste nel fatto che la prima colpisce esclusivamente il prodotto importato in quanto tale, mentre il secondo grava ad un tempo sulle merci importate e su quelle nazionali.

Andiamo ora al contenuto dell’art. 90:

- il primo comma vieta agli Stati membri di applicare, direttamente o indirettamente, ai prodotti importati da altri Stati membri,

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imposizioni interne superiori a quelle applicate, direttamente o indirettamente, ai prodotti nazionali similari. Perché questo divieto possa trovare applicazione è necessario che ci si trovi in presenza di due prodotti similari;

- il secondo comma, invece vieta agli Stati membri di applicare ai prodotti importati da altri Stati membri imposizioni interne intese a proteggere indirettamente altre produzioni; Perche questo divieto possa trovare applicazione è sufficiente che il prodotto importato si trovi in concorrenza con quello nazionale e tale rapporto sussiste quando tra i vari prodotti esiste una certa sostituibilità;

Il divieto di restrizioni quantitative e misure d’effetto equivalente

Riguardo alle restrizioni quantitative e alle misure d’effetto equivalente, il Trattato ha previsto due distinte disposizioni:

- la prima (art. 28) vieta le restrizioni quantitative e le misure d’effetto equivalente all’importazione;

- la seconda (art. 29) vieta le restrizioni quantitative e le misure d’effetto equivalente all’esportazione;

Accanto agli artt. 28 e 29 il Trattato ha previsto un espressa deroga a tale divieto: si tratta dell’art. 30, a norma del quale i cittadini lasciano impregiudicati i divieti e le restrizioni all’importazione, all’esportazione e al transito. La portata dei divieti riguarda soltanto gli scambi intracomunitari e non quelli con Stati terzi.

Non è difficile definire una restrizione quantitativa: il divieto di restrizioni quantitative riguarda le misure aventi il carattere di proibizione, totale o parziale, di esportare o far transitare a seconda dei casi, determinate merci. La Corte dice che rientrano nella nozione di restrizione quantitativa:

- i provvedimenti di uno Stato membro che vietano l’importazione o l’esportazione di una certa merce;

- i provvedimenti che vietano l’importazione o l’esportazione di una merce oltre un certo quantitativo massimo;

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Più difficile è invece definire una misura d’effetto equivalente: conviene esaminare separatamente che cosa si intende per:

- misura tale termine copre qualsiasi atto o comportamento che sia riferibile ai pubblici poteri. Inoltre sono “misure” le disposizioni legislative e regolamentari di uno Stato membro, ma anche le norme non scritte derivanti da una prassi amministrativa;

- effetto equivalente a una restrizione quantitativa limitazione della quantità di importazioni o esportazioni, quindi misure d’effetto equivalente sono tutti quei provvedimenti di uno Stato membro che producono lo stesso risultato.

Ma quella che continua ad essere considerata la vera definizione di misura di effetto equivalente, è quella contenuta nella sentenza Dassonville (tanto da essere stata coniata la dicitura "formula Dassonville") in cui la Corte del Lussemburgo ha chiarito che: "ogni normativa commerciale degli Stati membri che possa ostacolare direttamente o indirettamente, in atto o in potenza, gli scambi intracomunitari va considerata come una misura di effetto equivalente a restrizioni quantitative".

Occorre fare una distinzione tra misure restrittive che si applicano ai solo prodotti importati (misure distintamente applicabili) e le misure che invece sono previste per qualsiasi merce che si trovi nel territorio dello Stato membro, indipendentemente dall’origine (misure indistintamente applicabili).

Tra quelle della prima categoria vanno ricordati:

- I controlli operati al momento e in occasione dell'importazione (come ad esempio quello sanitario);

- Le misure che impongono una documentazione specifica per l'importazione o l'esportazione;

- Ritardi frequenti e rilevanti nell'espletamento di procedimenti amministrativi;

- Pratiche volte ad ostacolare le cd. importazioni parallele, ovvero indirizzate in canali diversi da quelli connessi ad importatori (cd.) ufficiali;

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Tra quelle delle seconda categoria, invece, vanno ricordati:

- Misure sulla disciplina dei prezzi, che fissano un minimo o un massimo. Tali provvedimenti sono frequenti soprattutto in periodo di alta inflazione;

- Misure sulla qualità e la presentazione del prodotto;

Un altro esempio di misure d’effetto equivalente indistintamente applicabili è legato al problema dei cosiddetti ostacoli tecnici agli scambi, quegli ostacoli alla circolazione delle merci che sono provocati dalla persistente diversità delle normative con cui ciascuno Stato disciplina le modalità di fabbricazione, composizione, denominazione, ecc… (norme tecniche).

Questo fa si che il prodotto fabbricato e confezionato secondo le norme vigenti nello stato di produzione non possa essere posto in vendita nel territorio di un altro Stato se non previo adattamento alle norme vigenti in quest ultimo. Inizialmente si discuteva se i provvedimenti nazionali che determinano tali ostacoli potessero rientrare nella nozione di misura d’effetto equivalente: il dubbio è stato chiarito con la sentenza del caso “Cassis de Dijon” che riguardava un liquore francese la cui importazione in Germania era impedita dalla sua non conformità alla legislazione tedesca sul contenuto alcolico minimo delle bevande.

La Corte ha dichiarato che la normativa di uno Stato membro riguardante i requisiti tecnici dei prodotti può essere applicata a prodotti importati ad altri Stati membri, solo qualora tale normativa sia giustificata da esigenze imperative di ordine generale: la Corte ha accettato per esigenze imperative quelle attinenti all’efficacia dei controlli fiscali, alla protezione della salute pubblica, alle lealtà dei negozi commerciali.

Lo Stato membro che intende imporre ai prodotti la propria normativa tecnica, oltre a sostenere che questa sia giustificata da una o più esigenze imperative, deve dimostrare la presenza delle seguenti condizioni:

- la normativa in questione deve applicarsi indiscriminatamente tanto ai prodotti importati, quanto ai prodotti nazionali;

- non devono esistere disposizioni comunitarie che rendano superflua la normativa nazionale;

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- la normativa in questione deve essere necessaria per il perseguimento dello scopo prefisso;

In applicazione della giurisprudenza Cassis de Dijon, innumerevoli normative nazionali sono state considerate vietate dall’art. 28 nella misura in cui lo Stato membro in questione ne pretendeva il rispetto da parte dei prodotti importati.

Un ultimo tipo di misure indistintamente applicabili è rappresentato dalle disposizioni che disciplinano, in ciascuno Stato membro, le modalità di vendita dei prodotti. Tali disposizioni, a differenza delle normative tecniche considerate dalla giurisprudenza Cassis de Dijon, non riguardavano il prodotto in sé, ma le modalità secondo le quali esso può essere posto in vendita

Inizialmente la giurisprudenza si era orientata nel senso di considerare le misure del tipo descritto alla stessa stregua delle normative tecniche. Ma la Corte, con la sentenza Keck, ha invertito l’approccio seguito fino a quel momento e ha dichiarato che di norma le disposizioni nazionali relative alle modalità di vendita dei prodotti non costituiscono una misura d’effetto equivalente ad una restrizione quantitativa a condizione che si tratti d disposizioni:

- applicabili a tutti gli operatori interessati;- che non pregiudicano la vendita dei prodotti importati più di quanto

avviene nei confronti dei prodotti nazionali;

La giurisprudenza inaugurata con la sentenza Keck dà luogo a non poche difficoltà. La prima riguarda proprio la distinzione tra norme tecniche e norme sulle modalità di vendita: le norme tecniche sono, di norma, vietate dall’art.28, mentre le norme sulle modalità di vendita sono, di norma, sottratte del tutto dall’art. 28.

La Corte, in situazioni del genere, sembra ricorrere al criterio dell’ostacolo all’accesso al mercato.

Le normative tecniche in vigore in uno Stato membro non possono mai costituire misure d’effetto equivalente allo all’esportazione nel momento in cui ne viene imposto il rispetto a tutti i prodotti fabbricati in quello stesso Stato.

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Le deroghe al divieto di restrizioni quantitative

Un provvedimento nazionale qualificabile come restrizione quantitativa o come misura d’effetto equivalente può sottrarsi a tale divieto invocando l’art. 30.

La logica che sottende a tale articolo è che la protezione degli interessi generali qui contemplati può richiedere l’imposizione alle merci importate ( o esportate) di misure di salvaguardia, nonostante che da ciò possa derivare una restrizione degli scambi; tale articolo deve essere oggetto di interpretazione restrittiva: in particolare, la seconda frase dell’articolo chiarisce che gli Stati membri non godono di un potere illimitato per quanto riguarda la scelta delle misure necessarie per salvaguardare gli interessi generali menzionati nella prima frase; al contrario le loro scelte in proposito sono soggette al controllo della Commissione e al giudizio della Corte di Giustizia.

L’interpretazione restrittiva adottata dalla Corte porta ad escludere che l’art. 30 possa essere invocato per giustificare misure di tipo diverso da quelle espressamente contemplare dalla norma, come la riscossione di tasse d’effetto equivalente a dazi doganali.

L’art. 30 non può essere invocato riguardo a misure miranti a tutelare esigenze nazionali di carattere economico, come provvedimenti destinati a risanare la bilancia dei pagamenti.

L’elencazione degli interessi generali contenuta nell’art. 30 è considerata tassativa: gli Stati membri non possono invocare tale norma per giustificare misure restrittive che perseguono obiettivi, pur qualificabili come d’interesse generale, ma diversi da quelli espressamente menzionati.

È da supporre che proprio il rifiuto di estendere l’art. 30 in maniera da coprire altri obiettivi d’interesse generale abbia indotto la Corte ad elaborare la giurisprudenza Cassis de Dijon o delle esigenze imperative.

giurisprudenza Cassis de Dijon Art. 30

- detta criteri utili per stabilire se una determinata misura costituisca o meno una misura d’effetto equivalente

- è invocabile solo di fronte a misure la cui contrarietà all’art. 28 è già stata accettata

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all’importazione;- è rilevante soltanto nel caso

di normative tecniche attinenti ai prodotti;

- l’art. 30 potrebbe giustificare misure di qualsiasi tipo e vere e proprie restrizioni quantitative

- tale giurisprudenza richiede che la normativa tecnica sia indistintamente applicabile ai prodotti nazionali ed importati

- potrebbe giustificare misure discriminatorie, purchè la differenza di trattamento tra le merci importate e quelle nazionali non sia arbitraria

Del tutto analoghe si presentano invece le altre condizioni d’applicazione. Secondo la giurisprudenza, anche lo Stato membro che invoca l’art. 30 per giustificare una propria misura restrittiva deve infatti dimostrare che tale misura non è soltanto è finalizzata a tutelare uno degli interessi generale ivi previsti, ma anche che essa è “necessaria” a tal fine. In particolare, la Corte esclude che vi sia carattere di necessarietà di una misura restrittiva in due ipotesi:

- quando gli effetti restrittivi non sono proporzionati rispetto agli interessi generali che la misura stessa intende tutelare;

- quando esistono sufficienti misure adottate a livello comunitario per proteggere i medesimi interessi.

Soluzioni particolarmente originali sono state raggiunte dalla Corte in materia di protezione della proprietà industriale e commerciale.

In mancanza di misure d’armonizzazione a livello comunitario, i diritti di proprietà industriale e commerciale hanno carattere territoriale:ciascuno Stato membro accorda diritti del genere per quanto riguarda il rispettivo territorio nazionale. Il titolare di un diritto di proprietà industriale o commerciale ha il potere esclusivo di sfruttarlo economicamente sul territorio dello Stato membro secondo la cui legislazione il diritto gli è stato accordato.

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Fra i diritti che spettano al titolare vi è quello di opporsi all’importazione di prodotti provenienti da altri Stati membri in violazione del suo diritto esclusivo.

La giurisprudenza distingue tra esistenza del diritto e esercizio dello stesso.

Libera circolazione delle merci e monopoli pubblici

Al fine di liberalizzare la circolazione delle merci è stata istituita l’unione doganale, un accordo in base al quale alcuni Stati si impegnano a sopprimere reciprocamente qualsiasi barriera doganale e ad adottare, nei confronti dei paesi terzi, una tariffa doganale comune.

Come conseguenza dell’unione doganale si è avuto la costituzione di un unico territorio doganale ai confini degli Stati membri e l’unificazione dei dazi doganali.

Con la completa realizzazione del mercato interno, l’attraversamento di una frontiera di uno Stato membro non è più un evento che dà necessariamente luogo ad un controllo delle merci in transito: ciò non significa che i controlli sono soppressi, ma che ora avvengono in modo non più sistematico. È stato uniformato anche il regime esistente per le merci destinate o importate da paesi terzi.

Per quanto riguarda le esportazioni, le formalità possono essere espletate in un ufficio doganale all’interno della comunità o direttamente alla frontiera, ricevendo una bolletta che consente l’uscita delle merci dal territorio comunitario.Relativamente alle importazioni, sarà possibile pagare presso la dogana interna sia i dazi doganali che le imposte interne esistenti nel luogo di destinazione finale delle merci.

La libera circolazione delle merci ha introdotto il principio della non discriminazione fiscale, che vieta di variare la tassazione in base alla nazionalità di provenienza delle merci.

Inoltre l’idea di uno spazio senza frontiere (fiscali) è stata nuovamente riconfermata e teorizzata nel Libro Bianco: in questo documento è stato espresso il convincimento che a tale risultato potrà giungersi solo

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attraverso il riavvicinamento delle aliquote IVA e delle accise (imposte di fabbricazione), perché solo la parità di aliquota tra i vari stati dell’Unione potrà portare all’abolizione delle frontiere fiscali.

LA LIBERA CIRCOLAZIONE DEI LAVORATORI

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Trattato disciplina la libera circolazione dei lavoratori agli art. 39 e 42. Insieme agli art. relativi al diritto di stabilimento (art. 43-48) essi definiscono la “libera circolazione delle persone”, alla quale fanno riferimento gli art. 3 e 14, distinguendola dalla libera circolazione delle merci, dei servizi e dei capitali.

Art. 39 da un lato assicura ai lavoratori il diritto di svolgere un’attività di lavoro subordinato in uno qualsiasi degli Stati membri, dall’altro prevede l’abolizione di qualsiasi discriminazione a danno dei lavoratori dello Stato membro occupato.

Questi principi comportano un obbligo preciso per gli Stati membri, i quali non hanno alcuna discrezionalità nella loro attuazione. Tale articolo è quindi dotato di efficacia diretta e può essere invocato in giudizio dai lavoratori interessati.

Art. 40 autorizza il Consiglio ad adottare le misure necessarie per l’attuazione dei principi definiti dall’art. 39. La normativa adottata ai sensi dell’art. 40 è stata sostituita in parte dalla direttiva 2004/38/CE del Parlamento europeo, relativa al diritti dei cittadini dell’Unione e dei suoi familiari di circolare e soggiornare liberamente nel territorio degli Stati membri.

La direttiva unisce la disciplina sulla libera circolazione e soggiorno dei lavoratori subordinati e autonomi, dei cittadini dell’Unione e dei rispettivi familiari, introducendo elementi di novità come ad esempio il diritto di soggiorno permanente in uno Stato membro diverso dal proprio, riconosciuto dall’art. 16 ai cittadini dell’Unione e ai loro familiari “che abbiano soggiornato legalmente e in via continuativa per cinque anni nello Stato membro ospitante”.

Art. 42 autorizza il Consiglio ad adottare misure specifiche in materia di sicurezza sociale finalizzate a rendere possibile l’instaurazione della libertà di circolazione.

La Costituzione europea disciplina la libera circolazione dei lavoratori agli art. 136-139 che riproducono gli art. 39-46 senza variazioni.

I beneficiari

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I soggetti che possono usufruire della libera circolazione sono i lavoratori subordinati. Essi devono essere anche "lavoratori migranti", ovvero devono esercitare o aver esercitato i diritti compresi nella libera circolazione.

Riconoscendo ai lavoratori subordinati la libertà di circolazione, i redattori del Trattato si ponevano principalmente obiettivi di carattere economico, ma questa visione del lavoratore come fattore di produzione, del quale bisognava favorire uno sfruttamento ottimale, è stata ben presto abbandonata in favore di una considerazione del lavoratore come persona umana.

Un lavoratore subordinato è una persona che:

- svolge un lavoro reale ed effettivo per un periodo prolungato di tempo;

- sotto la direzione di qualcun altro;

- dietro compenso;

Sentenza Lawrie - Blum sono stati considerati come lavoratori anche coloro che svolgono un’attività subordinata ad orario ridotto e che percepiscono una retribuzione inferiore a quella minima garantita nel settore considerato. Lavoratore è anche colui che svolge un tirocinio retribuito o il lavoratore stagionale., purchè si tratti di attività reali ed effettive.

La libera circolazione può essere invocata anche da un ex lavoratore. Infatti, ai sensi dell’art.39, una volta acquisita, la qualità di lavoratore subordinato non si perde se l’attività lavorativa viene interrotta.

Per effetto dell’art.18 e delle direttive in materia di soggiorno, i diritti conferiti ai lavoratori subordinati dall’art.39 e dagli atti di diritto derivato, sono stati estesi a tutti i cittadini dell’Unione.

Sentenza Singht le norme sulla libera circolazione (nonostante siano state concepite per i casi in cui un cittadino di uno Stato membro si rechi a lavorare in uno Stato membro diverso) possono essere invocate anche nei confronti del proprio stato nazionale, qualora il lavoratore, anche se cittadino dello Stato in cui intende esercitare i diritti di libera circolazione, abbia avuto esperienze lavorative in un altro Stato membro.

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Se la situazione del lavoratore non presenta collegamenti effettivi con altri Stati membri, l’art. 39 non trova applicazione.

Il contenuto della libera circolazione dei lavoratori

Libertà di circolazione dei lavoratori ha un duplice contenuto:

- da un lato al lavoratore è attribuito il diritto di accedere ad una attività lavorativa subordinata in qualsiasi Stato membro diverso dal proprio (più altri diritti complementari);

- dall’altro lato il lavoratore non può subire discriminazioni rispetto ai lavoratori nazionali;

Questi due aspetti (divieto di discriminazioni in base alla nazionalità e principio di parità di trattamento) costituiscono il filo conduttore dell’art. 39.

La libera circolazione non consiste sono nel divieto di discriminazione, ma comporta anche il divieto di applicare ai lavoratori migranti normative che abbiano l’effetto di ostacolare l’esercizio dei diritti compresi nella libera circolazione.

Il diritto di accedere ad un’attività di lavoro subordinato in Stati membri diversi dal proprio, non è enunciato espressamente dall’art. 39, ma è facilmente ricavabile (paragrafo 2).

Il paragrafo 3 enuncia i diritti complementari rispetto al diritto di accesso al lavoro:

- rispondere a offerte di lavoro effettive;- spostarsi liberamente a tal fine nel territorio degli Stati membri;

- prendere dimora in uno degli Stati membri per svolgervi un’attività di lavoro;

- rimanere nel territorio dello Stato membro dopo avervi occupato un impiego;

Ma non sono questi gli unici diritti che devono essere riconosciuti agli interessati; la Corte ha affermato che ai cittadini degli stati membri spetta anche il diritto di circolare liberamente sul territorio degli altri Stati membri e di prendervi dimora al fine di cercarvi un lavoro.

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Perché ci sia violazione dei diritto garantito dall’ art. 39 non è necessario che le disposizioni impediscano al lavoratori di esercitarli, ma è sufficiente che li dissuadano dal farlo.

Direttiva 68/360 dopo aver ribadito che gli Stati membri devono sopprimere le restrizioni al trasferimento e al soggiorno dei loro cittadini, stabilisce i documenti che sono necessari per l’esercizio di tali diritti (documento di identità valido + carta di soggiorno di cittadino di uno Stato membro della CEE).

Regolamento n. 1612/68 del Consiglio ha provveduto a dare un contenuto più preciso e dettagliato agli aspetti della libera circolazione che riguardano

- l’accesso all’impiego ogni cittadino di uno Stato membro ha diritto di accedere ad un’attività subordinata di esercitarla sul territorio di un altro Stato membro, conformemente alle disposizioni legislative, regolamentari, e amministrative che disciplinano l’occupazione dei lavoratori nazionali di detto Stato;

- le condizioni per l’esercizio dell’attività lavorativa art. 7 prevede l’inapplicabilità di qualsiasi disposizione legislativa, regolamentare o amministrativa e la nullità di clausole di contratti che comportino discriminazioni a danno dei lavoratori cittadini di un altro Stato membro;

L’ art. 8 riguarda il godimento da parte del lavoratore migrante dei diritti

sindacali e di partecipazione agli organi di rappresentanza dei lavoratori.

L’ art. 9 è relativo al diritto di alloggio.

Esistono anche diritti riconosciuti a familiari del lavoratore cittadino di

uno Stato membro occupato in un altro Stato della comunità: trattasi,

però,di diritti derivati,nel senso che ne è titolare il lavoratore. Tali diritti

sorgono solo a condizione che il lavoratore eserciti la libera circolazione.

L’ art. 10 prevede il c.d. diritto di ricongiungimento familiare. I familiari

del lavoratore possono stabilirsi presso il loro congiunto qualunque sia la

loro cittadinanza, si richiede però che il lavoratore disponga per la

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propria famiglia di un alloggio considerato normale nella regione in cui è

occupato. Tale diritto spetta soltanto ai seguenti soggetti:

il coniuge (non include il partner dello stesso sesso,nemmeno

qualora si tratti di unioni registrate);

i discendenti minori di anni 21 o a carico;

gli ascendenti del lavoratore o del coniuge che siano a carico;

Il coniuge e i figli minori o a carico godono inoltre del diritto di accesso

alle attività subordinate. I figli residenti possono infine frequentare i corsi

di insegnamento generale o professionale alle stesse condizioni previste

per i cittadini dello Stato di occupazione.

Il principio del trattamento nazionale

Il par. 2 dell’ art. 39 prevede a favore del lavoratore il principio del

trattamento nazionale, disponendo che la libertà di circolazione “implica

l’abolizione di qualsiasi discriminazione fondata sulla nazionalità, tra

lavoratori degli Stati membri, per quanto riguarda l’impiego, la

retribuzione e le altre condizioni di lavoro”.

Il divieto di discriminazione si applica anche se la fonte della

discriminazione è costituita da una clausola contenuta in contratto

collettivo o individuale di lavoro.

Bisogna soffermarsi sull’applicazione del divieto di discriminazioni alle

ipotesi di discriminazioni indirette. Di discriminazioni indirette può

parlarsi nel caso di disposizioni di uno Stato membro che, pur

applicandosi indipendentemente dalla nazionalità, hanno comunque l’

effetto di sfavorire i lavoratori di altri Stati membri rispetto ai lavoratori

nazionali,trattando in maniera deteriore categorie cui appartengono

soprattutto lavoratori stranieri.

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Indirettamente discriminatorie sono state considerate anche disposizioni

che subordinavano la possibilità di usufruire di trattamenti più favorevoli

a requisiti di residenza nel territorio nazionale. Una discriminazione

indiretta può derivare anche da norme che prevedono trattamenti

differenziati in base alle conoscenze linguistiche, come ad es. i lettori

universitari che venivano assunti con condizioni di contratto annuale

rinnovabile fino a 5 anni.

Le deroghe alla libera circolazione dei lavoratori

I diritti indicati nel par. 3 dell’ art. 39, in particolare il diritto all’ ingresso

e al soggiorno nello Stato d’occupazione, sono soggetti alle limitazioni

giustificate da motivi di ordine pubblico, pubblica sicurezza e sanità

pubblica.

Nella misura in cui i datori di lavoro privati sono tenuti a rispettare la

libera circolazione dei lavoratori, gli stessi possono anche invocare i

motivi di deroga attinenti all’ ordine pubblico,pubblica amministrazione e

alla sanità pubblica. Onde evitare discrepanze è stata emanata una

direttiva che stabilisce che la deroga in esame non può essere invocata

per fini economici.

Quanto ai provvedimenti basati su motivi di ordine pubblico e pubblica

sicurezza, essi devono essere adottati esclusivamente in relazione al

comportamento personale dell’individuo e non possono fondarsi né sulla

solo esistenza di condanne penali né sulla scadenza del documento

d’identità che ha permesso l’ingresso nel Paese ospitante e il rilascio del

permesso di soggiorno. La corte ha precisato che, per poter invocare la

clausola dell’ordine pubblico in relazione alla condanna penale, occorre

l’esistenza di una minaccia effettiva ed abbastanza grave degli interessi

della collettività. In particolare, il comportamento di uno straniero deve

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essere considerato nello stesso modo del comportamento di un cittadino

dello Stato in questione.

Quante alle misure giustificate da ragioni di sanità pubblica, la direttiva

prevede che solo le malattie o infermità figuranti nel suo allegato

possono essere invocate al riguardo, sempre che siano insorte prima del

rilascio del primo permesso di soggiorno.

Il par. 4 dell’ art. 39 prevede un’altra deroga riguardo alla pubblica

amministrazione stabilendo che “le disposizioni del seguente articolo non

sono applicabili agli impieghi nella pubblica amministrazione”.

La Corte ha ritenuto che vi rientrano soli “i posti che implicano la

partecipazione, diretta o indiretta, all’ esercizio dei pubblici poteri e alle

mansioni che hanno ad oggetto la tutela degli interessi generali dello

Stato e delle altre collettività pubbliche”

Non è invece sufficiente che l’accesso ad un determinato impiego

conferisca al titolare lo status di pubblico dipendente, così è stato

escluso che cittadini di altri stati membri potessero accedere a posti di

infermiere negli ospedali pubblici.

In generale, la Corte non ritiene che uno Stato membro possa continuare

ad escludere cittadini stranieri da settori come le poste e le

telecomunicazioni,distribuzione gas ed elettricità, trasporti e

radiodiffusione.

Una volta ammesso ad occupare un posto nella pubblica

amministrazione il lavoratore straniero non può subire discriminazioni in

materia di retribuzioni o di altre condizioni di lavoro.

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IL DIRITTO DI STABILIMENTO E LA LIBERA PRESTAZIONE DI SERVIZI

Trattato della Comunità Europea:

- art. 43-48 per lo stabilimento;- art. 49-55 per i servizi;

pone i principi base dei due istituti:

- diritto di ogni cittadino di uno Stato membro di esercitare, sotto forma di stabilimento o prestazione di servizi, un’attività autonoma nel territorio di un altro Stato membro;

- principio del trattamento nazionale (no discriminazione);

Sono previste dallo stesso Trattato, agli art. 45 e 46, due categorie di deroghe ai principi di base.

Gli artt. 43 e 49 sono dotati di efficacia diretta; sul piano normativo il riconoscimento della diretta efficacia dei principi di base ha reso inutile adottare direttive che si limitassero a ribadire tali principi. Restano però necessari interventi di formazione derivata.

Art. 47 è prevista adozione di direttive per agevolare l’accesso alle attività non salariate e l’esercizio di queste. Tali direttive sono finalizzate, oltre che a permettere il reciproco riconoscimento dei diplomi, certificati ed altri titoli, a coordinare le disposizioni legislative, regolamentari ed amministrative degli stati membri relative all’accesso alle attività non salariate e all’esercizio di queste.

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La distinzione tra stabilimento e prestazione dei servizi

Il Trattato si occupa dei soggetti che svolgono un’attività non salariata sotto due profili:

- diritto di stabilimento (art. 43-48) in questo caso il Trattato prende in considerazione il soggetto che intende esercitare un’attività autonoma in uno Stato membro, nel quale non era stabilito in precedenza.

- libera prestazione dei servizi (art. 49-55) in questo caso il Trattato si riferisce alla possibilità che il soggetto presti la propria attività in uno Stato membro diverso da quello dove è stabilito, ma senza stabilirsi nello Stato della prestazione;

Il criterio discretivo è quello della temporaneità dell’attività svolta in un certo Stato. L’art. 50 autorizza il prestatore a svolgere la propria attività a titolo temporaneo e per l’esecuzione della sua prestazione, che deve essere determinata.

In alcune pronunce la Corte aveva fatto riferimento a criteri di tipo quantitativo, ma il riferimento a questi ultimi, troppo generici, può dare luogo a confusione. La Corte stessa, nella sentenza Gebhard ha utilizzato come unico criterio discretivo quello della temporaneità dell’attività svolta.

In una pronuncia successiva, ha precisato che il criterio decisivo ai fini dell’applicazione del capitolo del Trattato relativo ai servizi ad un’attività economica è l’assenza di carattere stabile e continuativo della partecipazione dell’interessato alla vita economica dello Stato membro ospitante.

Con la sentenza Schnitzer, la Corte ha giudicato che rientrano nella nozione di “servizi” ai sensi dell’art. 49 tanto servizi la cui prestazione si estende per un periodo di tempo prolungato (più anni), quanto prestazioni che un operatore economico stabilito un uno Stato membro fornisce in maniera più o meno frequente o regolare.

Infine, sembrerebbe che la prova del carattere non temporaneo di una determinata attività indipendente, ai fini dell’applicazione dell’art. 43 o dell’art. 49, potrebbe essere data dal tipo di infrastruttura di cui si dota il

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prestatore nello Stato membro della prestazione, nonché dal tipo di clientela cui le sue attività professionali si rivolgono.

I beneficiari

Occorre innanzitutto definire la nozione di “attività autonoma” si tratta di un’attività economica svolta senza vincolo di subordinazione rispetto al destinatario della prestazione, cioè in maniera autonoma e indipendente. L’attività deve consistere in prestazioni fornite normalmente dietro retribuzione.

OGGETTO dell’attività non deve essere necessariamente definito con certezza e può essere il più diverso.

I beneficiari sono innanzitutto le persone fisiche in possesso della cittadinanza degli Stati membri, vale a dire essenzialmente gli artigiani e i professionisti, ma anche le persone giuridiche, stabilite sul territorio di uno Stato membro, in particolare le società.

L'art 48 TCE equipara le società costituite conformemente alla legislazione di uno Stato membro e aventi la sede sociale, l'amministrazione centrale o il centro di attività principale all'interno della Comunità, alle persone fisiche aventi la cittadinanza degli Stati membri.

Ma in realtà l’assimilazione non è del tutto completa, almeno per quanto riguarda il diritto di stabilimento. La Corte ha ritenuto che le società godono solo del diritto di stabilimento secondario, dal momento che possono aprire agenzie, succursali o filiali in uno Stato diverso da quello della sede ma non possono trasferire la loro sede legale.

Sentenza Luisi la Corte ha affermato che rientra nel campo d’applicazione delle norme del Trattato sulla libera prestazione di servizi sia il caso del prestatore che si reca nello Stato membro in cui il destinatario è stabilito, sia il caso inverso del destinatario che si reca nello Stato di stabilimento del prestatore.

Il diritto di stabilimento

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Per diritto di stabilimento si intende la possibilità di costituire e gestire un'impresa o intraprendere una qualsiasi attività economica in un paese della Comunita Europea, tramite l'apertura di agenzie, filiali e succursali. È inoltre garantito il diritto esercitare attività non salariate.

La libertà di stabilimento pone il divieto di discriminare un imprenditore in base alla nazionalità e si divide in diritto di stabilimento:

- PRIMARIO diritto di stabilimento vero e proprio che si realizza quando un soggetto stabilisce in uno Stato membro diverso dal suo, il proprio centro di attività.

- SECONDARIO diritto di aprire agenzie, succursali o filiali che si realizza quando un soggetto, che ha già esercitato il diritto di stabilimento primario in uno Stato membro, crea un ulteriore centro di attività in un altro Stato membro.

Per comprendere il diritto di stabilimento primario occorre fare riferimento al secondo comma dell’art. 43. La norma ha un doppio contenuto:

- conferisce ai cittadini il diritto di accesso alle attività non salariate nel territorio di un altro Stato membro, vietando qualsiasi normativa che impedisca ai cittadini di altri Stati membri di svolgere determinate attività non salariate, oppure le riservi ai cittadini nazionali (clausole di nazionalità);

- definisce le condizioni di esercizio che lo Stato membro dello stabilimento può imporre ai cittadini di altri Stati membri che intendono stabilirsi nel proprio territorio, prescrivendo che i cittadini di altri Stati membri possono svolgere un’attività non salariata con il rispetto delle stesse disposizioni normative applicabili ai cittadini dello Stato dello stabilimento. Viene così consolidato il principio del trattamento nazionale, che risulta violato nei seguenti casi: a) in presenza di disposizioni che assoggettano i cittadini di altri Stati membri a condizioni diverse e meno favorevoli dei cittadini nazionali (discriminazione diretta); b) se la normativa di uno Stato membro discrimina di fatto i cittadini di altri Stati membri, poiché per questi risulta più difficile soddisfare i criteri di applicazione della norma che non per i cittadini nazionali (discriminazione indiretta); c) in presenza di una norma applicabile sia ai cittadini nazionali, sia

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ai cittadini di altri Stati membri, nel caso in cui questi ultimi siano sfavoriti (discriminazione materiale).

Il diritto di stabilimento secondario

Anche riguardo a diritto di stabilimento secondario si può fare riferimento ad un doppio contenuto; l’art. 43 primo comma:

- garantisce ai soggetti già stabiliti in uno Stato membro ove esercitano una determinata attività non salariata, il diritto di aprire, in un altro Stato membro, un’agenzia, una succursale, una filiale o un altro centro stabile di attività (diritto di apertura);

- definisce le condizioni di esercizio, imponendo il principio del trattamento nazionale, indipendentemente dalla forma che lo stabilimento assume. Per questo il principio del trattamento nazionale si risolve nel divieto di discriminazioni basate sulla nazionalità;

La libera prestazione dei servizi

Per definire il contenuto della libera prestazione di servizi è necessario rifarsi agli artt. 48 e 50 TCE. Anche la libera prestazione di servizi, così come il diritto di stabilimento, ha un duplice contenuto:

- attribuisce al prestatore stabilito in uno Stato membro il diritto di esercizio temporaneo della propria attività nello stato dove la prestazione è fornita, qualora i due Stati non coincidano; gli articoli citati non comportano solo il divieto delle clausole di nazionalità, ma anche delle disposizioni che riservano l’esercizio di una determinata attività ai soggetti residenti o stabiliti sul territorio dello Stato in questione (clausole di residenza o stabilimento).

- definisce le condizioni alle quali lo Stato della prestazione può subordinare l’esercizio di tale diritto facendo riferimento al principio del trattamento nazionale. Gli artt. 49 e 50 non impediscono ad uno Stato membro di disciplinare l’esercizio nel proprio territorio di un’attività indipendente. Esaminando i vari casi analizzati dalla giurisprudenza, notiamo che in alcuni di essi la normativa in causa prevedeva espressamente un trattamento diversi e meno favorevole per i liberi prestatori rispetto a quello applicabile ai soggetti stabiliti (discriminazione diretta o palese). In altri casi la

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Corte ha giudicato che una norma apparentemente neutra comportava una discriminazione indiretta a danno dei liberi prestatori ed era perciò vietata.

Normative nazionali indistintamente applicabili e ostacoli alla libera circolazione di persone e servizi

Attualmente la Corte non sembra più interessata a distinguere tra i vari casi di discriminazione, ha, infatti, sviluppato un orientamento giurisprudenziale secondo cui possono costituire restrizioni alla libera prestazione di servizi anche misure applicabili, senza alcuna discriminazione, a tutti coloro che svolgono una determinata attività autonoma (misure indistintamente applicabili).

Libera circolazione delle persone e dei servizi garantita dagli artt. 39,43 e 49 non si esaurisce nel semplice divieto di discriminazione, ma comporta il divieto di applicare ai beneficiari di tale libertà normative che, benché indistintamente applicabili,abbiano l’effetto di ostacolare l’esercizio dei diritti compresi nella libera circolazione. La Corte ha scelto un approccio globale per individuare la presenza di un ostacolo alla libera circolazione dei lavoratori, tanto salariati quanto autonomi, o alla libera prestazione di servizi.

La Corte considera che una normativa applicabile tanto ai prestatori stabiliti quanto a quelli agenti in regime di libera prestazione, può comportare una restrizione alla libera prestazione dei servizi vietata dall’ art. 49. Si tratta delle norme che nello Stato della prestazione disciplinano l’esercizio di una certa attività professionale(c.d. normative professionali).

Occorre inoltre dimostrare che:

a) che le condizioni d’esercizio cui il prestatore è soggetto nel proprio Stato di stabilimento sono insufficienti a tutelare l’interesse pubblico in questione;

b) che le condizioni d’ esercizio imposte dallo Stato della prestazione al prestatore non stabilito non eccedono quanto è necessario per garantire la protezione dell’interesse pubblico in causa.

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La Corte ha persino articolato il test a cui sottoporre la normativa professionale nazionale. Affinchè essa possa essere estesa ai prestatori non stabiliti, senza creare una restrizione contraria all’art. 49, essa:

a) deve applicarsi in modo non discriminatorio;b) deve essere giustificata da motivi imperativi di interesse pubblico;c) deve essere idonea a garantire il conseguimento dello scopo

perseguito;d) non deve andare oltre quanto necessario per il raggiungimento di

questo;

La Corte ha cercato di individuare dei parametri comuni per verificare la presenza di un ostacolo alla libera circolazione in generale e ha esteso questo orientamento anche al diritto di stabilimento. E’ giunta poi a considerare che l’applicazione ai cittadini di altri Stati membri di norme professionali indistintamente applicabili possa costituire una restrizione al diritto di stabilimento, a meno che lo Stato membro interessato non sia in grado di provare che si tratti di norme giustificate da motivi di interesse generale.

La Corte ha cercato di individuare dei parametri comuni per verificare la presenza di un ostacolo alla libera circolazione in generale. Non si può però parlare di un vero e proprio approccio globale, poiché l’approccio seguito in materia di circolazione di lavoratori e servizi presenta notevoli varianti rispetto a quello seguito in materia di circolazione delle merci.

Una prima variante si riscontra circa il campo d’applicazione della nozione stessa di restrizione o ostacolo alla circolazione. Un’altra differenza si riscontra per quanto riguarda l’atteggiamento relativo alle normative dello Stato di produzione rispettivamente della merce e del servizio.

Le deroghe al diritto di stabilimento e alla libera prestazione di servizi

Non tutte le attività suscettibili di rientrare nella nozione di servizi possono essere oggetto di diritto di stabilimento o di libera prestazione di servizi.

L’art. 45 giustifica l’esclusione dei cittadini di altri Stati membri da determinate professioni che costituiscono una partecipazione diretta e specifica all’ esercizio dei pubblici poteri.

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Un’ altra deroga al diritto di stabilimento, estesa alla libera prestazione dei servizi in virtù dell’ art. 55, è prevista dall’ art. 46 che si riferisce a provvedimenti restrittivi relativi a persone il cui accesso o soggiorno sul territorio nazionale costituirebbe un pericolo per l’ordine pubblico,la pubblica sicurezza e la sanità pubblica. Inoltre, nell’ambito dell’art. 46 non possono essere invocate considerazioni di ordine economico, ne possono scegliersi mezzi sproporzionati agli scopi perseguiti o inutilmente discriminatori.

Il principio della libera prestazione di servizi subisce le limitazioni derivanti dall’ art. 51 la libera prestazione dei servizi nel settore dei trasporti non è regolata dalle disposizioni esaminate, ma da quelle contenute nel Trattato relativo ai trasporti (paragrafo 1).

Il paragrafo 2 dell’art. 51 lega la liberalizzazione dei servizi bancari e assicurativi vincolati a movimenti di capitale alla liberalizzazione realizzata in questo settore.

Il riconoscimento dei diplomi

È essenziale che i titoli di studio e i titoli professionali posseduti da un soggetto possano valere in tutti gli Stati membri. Se ciò non fosse,la possibilità di esercitare una determinata attività indipendente o di lavoro subordinato sarebbe inevitabilmente limitata al territorio dello Stato membro ove il soggetto interessato ha acquisito i propri titoli.

Il ritardo con cui le direttive sono state adottate e l’incompletezza della loro portata ha spinto la corte a interrogarsi se il riconoscimento dei diplomi non costituisca l’oggetto di un obbligo derivante direttamente dal trattato, con la conseguente possibilità per i soggetti interessati i poterlo invocare dinanzi ad un giudice.

Gli Stati membri erano tenuti a concedere ai cittadini di altri Stati,che intendessero esercitare il diritto di stabilimento, il riconoscimento dei diplomi acquisiti in altri Stati membri, tutte le volte che ciò risulti possibile in applicazione di norme nazionali; quest’ultime devono essere applicate dalle autorità nazionali in conformità agli obiettivi del TCE.

L’ obbligo di prendere in considerazione i titoli e diplomi,nonché l’esperienza professionale acquisita, vale anche per le professioni non regolamentate, cioè per le professioni il cui accesso ed esercizio non sia disciplinato da disposizioni legislative, regolamentari o amministrative

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che li riservino alle persone rispondenti a determinati requisiti. Può infatti accadere che la riserva di certi impieghi non sia prevista da disposizioni di legge, ma operi in base alle clausole di un contratto collettivo di lavoro.

Nel corso degli anni il Consiglio ha emanato per alcune professioni (medici, infermieri, dentisti, veterinari, ecc...) direttive per agevolare l’esercizio effettivo del diritto di stabilimento (direttive settoriali).

Il processo d’armonizzazione resta largamente incompleto, visto che x numerose professioni non è intervenuta alcuna direttiva. Dinanzi a queste difficoltà si è deciso di mutare strategia e puntare su strumenti di carattere generale.

La direttiva si fonda sulla presunzione che il livello e la durata della formazione alla quale è subordinato l’accesso alle professioni siano sostanzialmente equivalenti nei vari stati membri.

Gli studi post-secondari devono avere una durata di minimo 3 anni compiuti in università o istituti equivalenti.

Occorre, però, richiamare la particolare disciplina degli avvocati. Il riconoscimento del titolo professionale in uno Stato membro diverso dal suo può esserci ma solo temporaneamente, per una durata massima di 5 anni. Dopo un periodo di 3 anni, in cui darà prova di aver esercitato la professione, il soggetto acquisisce il diritto ad esercitare nello Stato membro ospitante in modo definitivo, senza bisogno di superare la prova attitudinale.

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LA LIBERA CIRCOLAZIONE DEI CAPITALI E DEI PAGAMENTI

Il trattato di Roma non prevedeva alcun obbligo formale relativo alla liberalizzazione dei movimenti di capitali; ai sensi dell'articolo 67, la liberalizzazione doveva realizzarsi "nella misura necessaria al buon funzionamento del mercato comune".

Tali disposizioni, che disciplinavano la materia in termini alquanto prudenti, (art. da 67 a 73), sono state sostituite dagli articoli da 54 a 60 a partire dal 1° gennaio 1994.

L’adozione di nuove norme costituisce un notevole progresso, infatti la situazione attuale è ben diversa. La Corte ha affermato che il divieto di restrizioni al movimento dei capitali tra Stati membri e paesi terzi può essere invocato dinanzi al giudice nazionale e determinare l’inapplicabilità delle norme nazionali in contrasto con esso. Si tratta di una norma con efficacia diretta.

Il divieto di restrizioni ai movimenti di capitali e ai pagamenti

Art. 56 direttamente applicabile, introduce il principio della piena libertà dei movimenti di capitali e dei pagamenti, tanto fra gli Stati membri quanto fra gli Stati membri e i paesi terzi.

Secondo la Corte i pagamenti sono trasferimenti di valuta che costituiscono una controprestazione nell’ambito di un negozio sottostante, mentre i movimenti di capitali sono operazioni finanziarie

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che riguardano essenzialmente la collocazione o l’investimento di cui trattasi e non il corrispettivo di una prestazione.

Recentemente la Corte si è trovata a sanzionare come contrarie all’art. 56 normative nazionali considerate restrittive in quanto discriminatorie. Si trattava di normative che vietavano determinate operazioni se erano presenti elementi di transnazionalità.

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