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rivista di storia contemporanea · te, non può che rallegrarsi sapendo che nel vasto patrimonio di quella biblioteca, dove la grande sala di lettura è il luogo della ricer-ca che

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  • rivista di storia contemporaneaaspetti politici, economici, sociali e culturalidel Vercellese, del Biellese e della Valsesia

    l’impegno

    Istituto per la storia della Resistenza e della società contemporaneanel Biellese, nel Vercellese e in Valsesia

    a. XXXII, nuova serie, n. 2, dicembre 2012

  • l’impegnoRivista semestrale di storia contemporaneaDirettore: Enrico PaganoSegreteria: Marilena Orso Manzonetta; editing: Raffaella FranzosiDirezione, redazione e amministrazione: via D’Adda, 6 - 13019 Varallo (Vc)Registrato al n. 202 del Registro stampa del Tribunale di Vercelli (21 aprile 1981).Responsabile: Enrico PaganoStampa: Gallo Arti Grafiche, VercelliLa responsabilità degli scritti è degli autori.© Vietata la riproduzione anche parziale non autorizzata.

    Tariffe per il 2013Singolo numero € 12,00; abbonamento annuale (2 numeri) € 20,00 (per l’estero € 30,00);formula abbonamento annuale + tessera associativa € 32,00.Per i numeri arretrati contattare la segreteria dell’Istituto.

    Gli abbonamenti si intendono per anno solare e sono automaticamente rinnovati se noninterviene disdetta entro il mese di dicembre.

    Conto corrente postale per i versamenti n. 10261139, intestato all’Istituto.

    Il numero è stato chiuso in redazione il 10 dicembre 2012. Finito di stampare nel dicembre2012.

    In copertina: Tavo all’alpe Bügi, alta valle Elvo, 28 maggio 2009, foto di Giuseppe Pidello.

    Istituto per la storia della Resistenza e della società contemporaneanel Biellese, nel Vercellese e in ValsesiaAderente all’Istituto nazionale per la storia del movimento di liberazione in Italia“Ferruccio Parri”L’Istituto ha lo scopo di raccogliere, ordinare e custodire la documentazione di ognigenere riguardante la storia contemporanea ed in particolare il movimento antifascistanel Biellese, nel Vercellese e in Valsesia, di agevolarne la consultazione, di promuoveregli studi e la conoscenza della storia del territorio con l’organizzazione di ogni generedi attività conforme ai fini istituzionali.L’Istituto è associato all’Istituto nazionale per la storia del movimento di liberazionein Italia.Associazione individuale all’Istituto: soci ordinari € 15,00; soci sostenitori € 30,00; gra-tis per studenti.

    Consiglio direttivo: Marcello Vaudano (presidente), Giuseppe Rasolo (vicepresidente),Mauro Borri Brunetto, Giorgio Gaietta, Orazio PaggiRevisori dei conti: Luigi Carrara, Giovanni Cavagnino, Giovanni GualaComitato scientifico: Pierangelo Cavanna, Alberto Lovatto, Marco Neiretti, PietroScarduelli, Andrea Sormano, Edoardo Tortarolo, Maurizio VaudagnaDirettore: Enrico Pagano

    Sede: via D’Adda, 6 - 13019 Varallo (Vc). Tel. 0163-52005, fax 0163-562289E-mail: [email protected]. Sito internet: http://www.storia900bivc.it

  • l’impegno 3

    Sommario

    Minoranze e libertà. Convegno sulle “battaglie” di Tavo BuratPatrizia Bellardone, Una bibliografia ragionata su Gustavo BurattiMichela Zucca, La catena alpina: una montagna di problemiAlbina Malerba, Tavo Burat, antich sivalié, poeta corsaro e squisito inlingua piemonteseFederico Battistutta, Essere eretici oggi. Gli studi dolciniani di Tavo BuratEnrico Pagano, La Resistenza, pratica contemporanea. Tavo Burat ne“l’impegno”Giuseppe Pidello - Maurizio Pellegrini, Attualità dell’Om Salvèi

    Filippo Colombara, Penne, bambole e farfalle: la guerra ai bambini.Immaginario e realtà dei giocattoli esplosivi

    Angela Regis - Enrico Pagano, Guerra e pane. L’alimentazione in Val-sesia durante il secondo conflitto mondiale. Seconda parte

    Marilena Vittone, «Quando un giorno i tedeschi avrem cacciato, quan-do un giorno più liberi saremo...». Tre racconti tratti dalle memorie ine-dite di Mario Arena

    Donato D’Urso, I prefetti di Vercelli dal 1927 al 1946. Note biografiche

    Rolando Magliola, Don Giuseppe Vernetti dopo Radio Baita

    Pietro Ramella, Libro bianco spagnolo. L’invasione italiana di Spagna

    Sabrina Contini, L’archivio della didattica

    Memorie di Piemonte. Intervista a Leonardo Forgnonea cura di Marta Nicolo

    Recensioni e segnalazioni

    p. 5” 9

    ” 35

    ” 55

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  • Storia della Resistenza in Valsesia

    a fumetti

    Disegni di Giorgio Perrone

    Testi di Luca Perrone

    2012, pp. 59, € 25,00 Isbn 978-88-905952-8-8

    L’opera, in formato 23 x 33, propone gli episodi salienti dei venti mesi della guerra diliberazione, interpretati secondo la creatività artistica di Giorgio Perrone, che siesprime in più di 230 illustrazioni e migliaia di figure disegnate e collocate in am-bientazioni che ricostruiscono, con sobria incisività e grandi suggestioni, gli sce-nari degli eventi resistenziali; i testi, scritti da Luca Perrone, sono il risultato di ampiee approfondite consultazioni dei materiali editi e della raccolta di numerose memo-rie di protagonisti diretti e di testimoni.Con la pubblicazione di questa storia della Resistenza l’Istituto intende aggiungerealla bibliografia locale un contributo di novità nel genere e di immediatezza nellacomunicazione: la valutazione sulla qualità dell’opera deve tenere conto dei canonidel codice espressivo adottato, che richiede una selezione necessariamente arbi-traria degli episodi e dei protagonisti rappresentati e una sintesi comunicativa chenon lascia campo a discussioni o specificazioni. La fusione di testi e immagini nonè una somma, ma un complesso prodotto di didascalie, disegni, colori, prospettive,montaggio e ritmi narrativi.

  • saggi

    l’impegno 5

    Presentare una bibliografia ragionata sul-l’attività di pubblicista e di studioso di Gu-stavo Buratti non è semplice: si tratta di re-perire testi di cui Tavo è autore o collabora-tore, talvolta estensore di un saggio entrouna collezione di interventi, talvolta autoredi una prefazione; insomma, una sorta discatola cinese in cui perdersi, copia di quelvulcanico e ribollente attivismo che ha ca-ratterizzato tutta la sua vita.

    Quando digitiamo “Gustavo Buratti” suGoogle compaiono 184.000 notizie: un maremagnum di dati che, seppure sfoltiti da ripe-tizioni e riferimenti scorretti, attesta una pre-senza massiccia.

    Se poi cerchiamo le pubblicazioni di Tavonegli Opac nazionali (italiani, francesi, ingle-si, americani) e cioè nei cataloghi online deisistemi di biblioteche, troviamo davverosorprese che dimostrano come il percorsodei libri racconti storie a volte curiose, chestupirebbero anche il nostro autore.

    Il catalogo online della biblioteca civicadi Biella contempla 76 notizie, 38 la bibliote-ca della Camera del lavoro, 15 la bibliotecadi Pollone, 10 quella di Andorno, 8 Città stu-di, a cui si aggiungono le notizie di altre bi-blioteche biellesi per un totale, esclusi i dop-pioni, di 95 notizie condivise fra le realtà delterritorio.

    Se analizziamo il catalogo nazionale dellebiblioteche (Opac Sbn) troviamo 125 noti-

    zie, di cui ben 122 in cui Buratti è l’autore:logicamente i dati si riferiscono all’aprile2012, e con ogni probabilità il numero puòanche essere incrementato con nuove noti-zie dovute a schedature in corso.

    Un dato come questo ora descritto devefarci riflettere: sono poche o sono tante lenotizie bibliografiche relative a Buratti, secalcoliamo circa cinquant’anni di attività?Io credo che ci sia ancora molto lavoro darealizzare, soprattutto per gli estratti, lo spo-glio degli interventi sparsi in riviste, anto-logie, prefazioni di opere di altri autori, ecc.

    Certamente i libri di Buratti, intesi comemonografie, hanno una diffusione moltoarticolata sul territorio italiano: se il numeropiù elevato si riscontra, come è logico, a Biel-la, molte opere si trovano nelle bibliotechedi Torino, Roma, Firenze, Padova, Bolognae Nuoro. Solo a Potenza e a Biella troviamoun estratto della rivista “l’impegno” dell’a-gosto 1997, intitolato “L’Albania e l’Italia”.

    La possibilità che Internet ci offre di con-sultare i cataloghi online delle altre biblio-teche ci consente di scoprire che la BritishLibrary di Londra possiede l’opera “Fra Dol-cino e gli apostolici”, pubblicata nel 2000con Corrado Mornese, mentre la prestigio-sa Library of Congress di Washington haben sette titoli. Molti di noi, cresciuti conuna memoria filmica che collega la Libraryof Congress ad una famosa zoomata nel film

    PATRIZIA BELLARDONE

    Una bibliografia ragionata su Gustavo Buratti

  • Patrizia Bellardone

    6 l’impegno

    “Tutti gli uomini del presidente” (1976), di-retto da Alan J. Pakula, con Robert Redforde Dustin Hoffman, sullo scandalo Waterga-te, non può che rallegrarsi sapendo che nelvasto patrimonio di quella biblioteca, dovela grande sala di lettura è il luogo della ricer-ca che svela i retroscena di una brutta storiapolitica, siano conservati i testi dell’ereticoe del poeta Buratti. Sugli scaffali della biblio-teca americana troviamo “Banditi e ribelli di-menticati” (Milano, 2006), “Eretici dimenti-cati” (Roma, 2004), “L’anarchia cristiana diFra Dolcino e Margherita” (Pollone, 2002),“Fra Dolcino e gli apostolici tra eresia, rivol-ta e roghi” (Roma, 2000). Accanto ai testi cherispecchiano il sentimento di libertà che hacontraddistinto tutta la vita di Buratti, tro-viamo anche il Buratti lirico e più intimo, masempre vicino alle minoranze, anche se lin-guistiche, come in “Finagi. Poesìe an pie-montèis” (Torino, 1979) e “Poesìe” (Torino,2008) e “Il libero comporre e il dialetto”(Gubbio, 1968), opera di Orlando Spigarellicon una bella nota introduttiva di Tavo - te-sto che troviamo anche fra le opere in dota-zione alla biblioteca dell’Accademia dellaCrusca. “Eretici e dimenticati” si trova an-che nel catalogo collettivo Libris svedese.

    Nel catalogo francese Sudoc, che riunisceil patrimonio di numerose biblioteche e cen-tri di documentazione, sono segnalati: lospoglio dell’articolo “Bestiario”, pubblicatonella rivista “L’alpe” del 2000, nella versionefrancese, il libro “Poesìe” (Torino, 2008) el’introduzione di Buratti al libro in patoisprovenzale dell’Alta valle Chisone di Remi-gio Bermond, “Pancouta e broussée” (No-vara, 1971).

    Presso la Biblioteca apostolica vaticanaabbiamo, come è immaginabile, due libri cheindagano il tema dell’eresia: “Della ribellio-ne dei barbets” (Roma, 1992) e “BernardinoNegroni (Padre Barnaba)” in “Studi roma-gnoli” (1989).

    Da questo panorama di opere distribuitein varie biblioteche emergono i filoni in cuiBuratti ha investito le sue forze intellettualie le sue passioni: la poesia e l’impegno perla valorizzazione della letteratura piemonte-se, compresa la ricerca puntigliosa di unediting moderno sull’opera della scrittricebiellese Maria Giusta Catella; la ricerca lin-guistica e la difesa delle lingue minori; l’amo-re per le parlate tedesche walser; il rappor-to fra dialetto e lingua, che lo porta anche aredigere un dizionario ornitologico piemon-tese. Il Buratti linguista partecipa a incontridi grande rilievo scientifico e fra questi, aLecce, il 21 ottobre 1975, organizza, in qua-lità di presidente dell’Associazione interna-zionale per la difesa delle lingue e delle cul-ture minacciate, un dibattito con Pasolini,in quella che fu l’ultima apparizione pubbli-ca del poeta e regista. L’incontro è all’inter-no di un corso di aggiornamento per inse-gnanti intorno al tema delle lingue e delleculture subalterne. Per l’occasione vieneutilizzata l’aula magna del Liceo classico“Palmieri” di Lecce, affinché oltre ai docen-ti corsisti possano partecipare anche gli stu-denti. Pasolini inizia con la lettura del mo-nologo finale del suo dramma “Bestia da sti-le” (all’epoca ancora inedito). Tra i primi ver-si che Pasolini legge, compare l’espressio-ne “volgar’eloquio” di ascendenza poun-diana, scelta dall’autore appunto come ti-tolo del suo intervento, ma dopo questa bre-ve premessa, si passa al dibattito: la lezionesi sviluppa attraverso le risposte dello scrit-tore ai quesiti e ai dubbi proposti da docen-ti e studenti sullo stato delle parlate dialet-tali, per Pasolini condannate a una condi-zione di “sopravvivenza” marginale. Dal suoincontro con Pasolini Buratti trarrà spuntoper uno straordinario articolo apparso nel-la rivista “l’impegno” (a. XIV, n. 3, dicembre1994) dal titolo “Pasolini: dialetto rivoluzio-nario e minoranze linguistiche”, che merita

  • Una bibliografia ragionata su Gustavo Buratti

    a. XXXII, n. s., n. 2, dicembre 2012 7

    di essere riletto con attenzione anche per laricaduta sul nostro quotidiano contempora-neo.

    Altro filone che Buratti indaga è quello delfolklore, delle tradizioni popolari, compresequelle culinarie, tema vasto ed esplorato perdecenni.

    Il Buratti sociale e politico lo troviamonelle opere su fra Dolcino, gli eretici, i ban-diti, i sovversivi, per giungere ai temi di trat-tazione civile e storica sulla Resistenza, ilfederalismo e i movimenti politici.

    Ciò che emerge dall’elenco di queste pub-blicazioni è che ritroviamo Buratti autore dimonografie o coautore, mentre non compa-re l’uomo delle “piccole ricerche”, i cui arti-coli e saggi, brevi ma ricchi di grande scien-tificità, sono destinati a riviste, annuari, ca-taloghi. Il Buratti della “letteratura grigia”,cioè di interventi sparsi in pubblicazioni

    minori, ha un valore documentario enormee consente di definire a tutto tondo la suafigura di studioso e letterato.

    Cosa può fare allora la biblioteca per ri-comporre la produzione a stampa di Burat-ti? In primis verificare con la famiglia quan-to è conservato nella biblioteca personale,poi avviare una schedatura sistematica deicontributi apparsi in riviste locali e non, in-troduzioni, ecc., accogliendo anche suggeri-menti e segnalazioni dalle persone che sonostate vicine ai temi e alla cultura di Tavo.Infine creare un database, una lista che dalnostro catalogo ricostruisca attraverso lenotizie bibliografiche il mondo di Buratti.

    Ci aspettiamo che l’università, le fonda-zioni affidino ad un laureando una tesi checi aiuti in questo lavoro, affinché gli obiet-tivi che prima siamo andati a descrivere ab-biano gambe su cui camminare.

  • SILVIO MOSCA

    Tenere alta la fronte

    Diario e disegni di prigionia di un Ufficiale degli Alpini1943-1945

    a cura di Enrico Pagano e Marcello Vaudano

    2012, pp. 239, € 20,00 Isbn 978-88-905952-7-1

    Il volume propone l’esperienza dell’internamento militare di Silvio Mosca, giovaneindustriale biellese, nei campi di prigionia della Germania di Hitler durante la secon-da guerra mondiale.L’autore, scomparso nel 2005, affida al suo racconto sentimenti e riflessioni sulladignità della scelta della prigionia e il rifiuto di continuare la guerra dalla parte deitedeschi, sui valori religiosi e culturali che, insieme agli affetti familiari, gli hannoconsentito di conservare la propria identità nonostante le privazioni e di coltivarela speranza del ritorno. Accompagnano le pagine del diario i pregevoli disegni rea-lizzati nei campi di prigionia.Il volume, pubblicato per volontà di Fabrizio e Nicolò Mosca, figli di Silvio, si avva-le di un robusto apparato critico curato da Marcello Vaudano ed Enrico Pagano,rispettivamente presidente e direttore dell’Istituto.

  • saggi

    l’impegno 9

    La montagna copre il 78 per cento dellasuperficie italiana. Quanto ad estensione diterritorio montuoso, in Europa l’Italia è la se-conda nazione: la prima è la Svizzera, consi-derata alpina al 100 per cento.

    Nonostante la percezione inadeguata delproprio territorio della maggioranza degliitaliani (che si considerano abitanti di unanazione di città, mari, sole e pianure), le Alpi,con il loro paesaggio fantastico, la straor-dinaria varietà culturale e linguistica, il re-taggio della società contadina e un immagi-nario ricchissimo e arcaico, sono all’origi-ne di un senso di identità forte condivisafra i popoli che abitano la montagna.

    Oltretutto, per le Alpi esistono dati certi,mentre mancano per gli Appennini, ma lepercentuali del numero dei comuni che sitrovano in montagna o in collina dimostra-no che in Italia centrale, meridionale e insu-lare, la situazione potrebbe essere ancorapeggiore, in quanto i comuni di pianura alCentro sono solo il 4,2 per cento; in Meri-dione, il 17,7 per cento; e nelle isole, il 15,6per cento, contro il 33,6 per cento del Nord-Ovest e il 41,9 per cento del Nord-Est1 (v.tabella 1 a p. 33). È vero che i rilievi sonopiù bassi e il clima tendenzialmente più cal-

    do, ma, ogni inverno, l’“opinione pubblica”si stupisce alle notizie delle autostrade chiu-se e dei paesi rimasti isolati per la neve. Leinfrastrutture di supporto e la protezionecivile sono molto meno organizzate che sulleAlpi e spesso i danni sono anche maggiori.Inoltre, non esiste la percezione culturalegeneralizzata della specificità montana equindi di bisogni particolari per cui sono ne-cessari servizi e infrastrutture adatte ad af-frontare clima e dissesto idrogeologico.

    Cose come queste non si dicono, si fa fin-ta di dimenticarle, si discutono solo fra ad-detti ai lavori. E questi sono soltanto alcuniflash di un rapporto che, negli ultimi decen-ni, si è evoluto in modo sempre più sfavore-vole alle popolazioni che non vivono incontesti metropolitani, da ogni punto di vi-sta: economico, sociale, culturale. È in attoun etnocidio silenzioso, che toglie a granparte della gente che ancora resiste sul ter-ritorio montano non solo e non tanto la pos-sibilità di lavorare, ma le basi culturali, emo-tive e simboliche della sua stessa esistenza,fatta di orgoglio di appartenenza e di quali-tà della vita.

    Malgrado ogni tentativo di valorizzare la“cultura popolare”, parole come “montana-

    MICHELA ZUCCA

    La catena alpina: una montagna di problemi

    1 Fonte: Censimenti della popolazione italiana.

  • Michela Zucca

    10 l’impegno

    ro”, “campagnolo”, “contadino” mantengo-no inalterata la loro carica negativa, il lorovalore insultante, il loro significato di arre-tratezza, stupidità, incapacità di adeguarsial mondo che cambia.

    L’area alpina è popolata da circa tredicimilioni di abitanti che vivono su un’area di190.919 kmq2. Ma non solo: la zona monta-gnosa alpina è visitata, ogni anno, da qual-cosa come cento milioni di persone. Pren-dendo in considerazione che gran parte diquesta massa di visitatori viene dalla pianu-ra e dalle grandi aree metropolitane ai mar-gini della catena, e che passa periodi di tem-po più o meno lunghi nelle zone costiere me-diterranee della Liguria, della Provenza, dellaCosta Azzurra, e sui grandi laghi, lo spazioalpino è, senza alcun dubbio, la prima de-stinazione turistica mondiale3. Molti di que-sti “ospiti”, quindi, devono essere conside-rati, sotto molti aspetti, dei veri e propri re-sidenti part time, con seconda casa, dove,specie quando sono in pensione, possonotrascorrere anche diversi mesi all’anno.

    Per quanto riguarda l’Italia, le Alpi, che siestendono per oltre un migliaio di chilome-tri dalle Alpi Cozie alle Giulie, rappresentanoil 42 per cento dell’intera ampiezza delle zo-ne montane italiane ed un terzo di tutta laloro estensione completa. Qui vivono, al2001, oltre quattro milioni e mezzo di perso-ne, un valore di poco inferiore al 40 per cen-to dei cittadini “montani”.

    I comuni considerati montani sono nell’ar-co alpino 1.851, pari al 22,8 per cento dei co-muni italiani ed al 44 per cento nelle otto re-gioni prese in esame.

    Le Alpi, però, costituiscono un territorio

    estremamente diversificato e complesso.Dall’interno, da parte della sua gente, sonohabitat e devono essere occasione di svi-luppo economico. La necessità primaria ri-siede nell’accrescimento della qualità dellavita e nell’uso indipendente delle sue risorseeconomiche e naturali. Da parte degli abi-tanti delle pianure, la catena alpina è carat-terizzata da ben altri fattori: sensazione diinaccessibilità (difficoltà di trasporti e di at-traversamento); percezione di fragilità delterritorio, da preservare perché ecologica-mente sensibile, in pericolo di degrado; giar-dino d’Europa, da utilizzare a proprio piaci-mento per il divertimento e il tempo libero;oppure semplicemente non esistenza o gra-ve sottovalutazione: quando si chiede a unaclasse di studenti universitari, anche pro-venienti interamente da zone alpine, diquanti abitanti possano disporre le Alpi, larisposta media varia fra i trecentomila e unpaio di milioni di residenti. Ciò dimostra lamarginalità di fatto in cui sono relegate lemontagne e la sua gente, ancora oggi.

    Si passa da zone a forte espansione eco-nomica e demografica ad altre in via di spo-polamento, e in grave crisi sociale e cultu-rale. Grosso modo, si può parlare di Alpioccidentali, più alte ed impervie, che stan-no attraversando un periodo di decadenza,e di Alpi centro-orientali, più basse, più vi-cine alle grandi metropoli, che stanno cor-rendo sulla via dello sviluppo. In realtà, nonesiste regione europea in cui la diversità siapiù alta, anche su piccola scala. Le dispari-tà sociali ed economiche, anche a piccoledistanze, possono essere profonde.

    Per tutti i comuni dell’arco alpino italiano

    2 Si vedano i dati su www.cipra.org.3 Rapporto dell’Unione Europea, Alpine Space Programme - Interreg III B Community

    Iniziative, Bruxelles, novembre 2001.

  • La catena alpina: una montagna di problemi

    a. XXXII, n. s., n. 2, dicembre 2012 11

    sono stati raccolti i dati dei censimenti dal1951 al 2001, sono stati elaborati graficamen-te e trasformati in mappe che sono diventa-te vere e proprie “carte dello spopolamen-to” in numero assoluto e diviso per genere.Si è proseguito il lavoro di Werner Bätzing,uno dei più famosi geografi alpini che, perprimo, negli anni ottanta elaborò mappe de-mografiche alpine per l’intera catena.

    In base a questi rilevamenti, le Alpi italia-ne possono essere, grosso modo, divise indiversi settori: quelle occidentali, trannealcune zone limitate, sono quelle più in cri-si; la stessa cosa capita in Friuli e in ampiezone del Veneto. Fanno eccezione l’AltoAdige, in cui gran parte del territorio si ri-popola. Il Trentino si situa in posizione in-termedia.

    Analizzando invece l’andamento demo-grafico differenziato per decenni, si può no-tare come la situazione si mostri in tenden-ziale miglioramento, anche se permangonodelle aree di criticità molto forti ed estese: sitratta delle zone più alte e interne, lontaneda grossi bacini di impiego e dalle “metro-poli di fondovalle”, e dei comuni più piccoli,che hanno raggiunto quella che alcuni stu-diosi definiscono come una specie di “so-glia del non ritorno”.

    La montagna abbandonata

    Per capire in realtà quali sono gli spazidell’abbandono, però, bisogna fare un di-scorso di “pari opportunità demografiche”:ovvero riconoscere allo spazio alpino italia-no il diritto a una crescita comparabile aquella del resto del territorio italiano. In que-sto modo si confrontano i comuni delle Alpicon l’incremento demografico medio regi-strato nel resto della penisola; e si eviden-ziano le zone che si sono tenute al passonegli ultimi cinquant’anni.

    Si tratta di una decisa minoranza: circa il

    26,9 per cento del numero totale dei comu-ni. Spiccano l’Alto Adige e vaste zone delTrentino, che si sono tenute al passo con iltrend nazionale, in cui si può parlare di svi-luppo endogeno (ovvero la gente lavoranella stessa provincia in cui abita). La stes-sa cosa si può dire di alcuni “picchi” di va-lore nelle valli lombarde più industrializza-te, in cui sono rimaste aziende di trasforma-zione del settore metallurgico o una produ-zione industriale-artigianale di alto livello (ildistretto delle armi nelle valli bresciane, peresempio).

    Per quanto riguarda invece la fascia insu-brica, dalla provincia di Varese a quella diVerona, lo sviluppo è in gran parte esoge-no, ovvero le fonti di lavoro e di occupazio-ne si trovano lontano dalle zone di residen-za e obbligano al pendolarismo, non sonoquindi legate al territorio, che rimane “po-vero”. Lo stesso accade nelle zone di confi-ne in crescita (il Bormiese e la val Susa), incui gran parte della forza lavoro gravita sullaSvizzera, e nella fascia di residenza legata aTorino e ai capoluoghi della fascia ligure(Genova, Savona, Imperia), in cui il pendo-larismo è alto.

    Altri dati confermano queste considera-zioni: le mappe di Werner Bätzing e l’Istitutodi geografia di Zurigo hanno messo in rilie-vo che i comuni più colpiti dal crollo demo-grafico sono:

    1) quelli situati ad altitudini più elevate;2) quelli più lontani da un nucleo abitato

    che contenga i servizi ritenuti necessari, ipoli di aggregazione, i negozi, le scuole, idivertimenti minimi, e che è stato individua-to all’epoca dello studio in un’area urbanadi almeno cinquemila abitanti: la soglia di ri-schio decorre dai 20-30 km di distanza, ovve-ro dalla mezz’ora di tempo di percorrenza inmacchina;

    3) quelli più piccoli: la soglia di rischio èstata individuata prima nei cinquecento abi-

  • Michela Zucca

    12 l’impegno

    tanti, per poi essere abbassata ai trecento4.L’emergenza investe gran parte del terri-

    torio alpino italiano. Persino le regioni cheda tempo avevano avviato una “politicadella montagna”, ovvero un’elargizione co-piosa di fondi, anche ingenti, agli addetti delsettore agricolo sopra una certa quota, pri-ma fra tutte la Svizzera, hanno constatato,con amara sorpresa, che, sebbene profuma-tamente pagata, la gente accetta sempremeno di vivere negli insediamenti più mar-ginali. Da ciò è possibile sostenere che esi-ste anche una componente culturale: se siintende non dico risolvere, ma per lo menocontenere il problema, bisognerebbe studia-re a fondo, interpretare la situazione ed ela-borare idee, a partire da chi si discosta daicomportamenti maggioritari, perché vuoldire che esiste un modo diverso di vedere edi vivere le cose.

    Come evidenziato dai dati relativi al cen-simento del 2001 (v. tabella 2 a p. 34), il 79,7per cento dei comuni valdostani contameno di duemila abitanti. In Piemonte si su-pera il 73 per cento; in Trentino siamo aquota 67,8 per cento; in Liguria al 59,6 percento; in Lombardia, al 45,5 per cento; inFriuli, al 42,5 per cento; in Veneto, al 22,1 percento. Di questi, più della metà sono staticonsiderati, per varie ragioni, “a disagio in-sediativo”. In Liguria, il 40,9 per cento deicomuni appartiene a questo gruppo; in Friuli,il 15,1 per cento; in Val d’Aosta, il 13,5 percento; in Trentino, il 10,9 per cento; in Lom-

    bardia, il 9,4 per cento; in Veneto, il 3,4 percento. Ma, se si facesse l’indagine specifi-ca sulle provincie alpine, queste percentualiaumenterebbero. D’altra parte, più del 97 percento delle città alpine è al disotto dei die-cimila abitanti. Grenoble, con cinquecento-mila abitanti, è la città più abitata in conte-sto alpino.

    Il comune alpino medio italiano al censi-mento 2001 è composto da 2.436 abitanti: maquesto dato è fuorviante, in quanto vi sonocompresi anche i capoluoghi delle provin-ce alpine e i comuni che ormai sono diven-tati periferie dei centri urbani di fondovalle(fino ad essere considerati “quartieri dormi-torio”). I comuni con meno di mille abitantisono 864 pari al 46,7 per cento di tutti i comu-ni alpini, attestandosi circa a un valore dop-pio rispetto a quello nazionale5.

    I comuni “a grande rischio” sono quellisotto i trecento abitanti che, nell’arco alpi-no italiano, sono duecentosessanta, pari al14,05 per cento del totale.

    La maggioranza dei comuni alpini è indecremento demografico (v. tabella 3 a p.34). Le percentuali in alcuni casi sono spa-ventose: oltre l’85 per cento dei comuni friu-lani, circa il 77 per cento di quelli piemonte-si e Veneto e Liguria con percentuali supe-riori al 60 per cento. Ma anche in Trentino,Valle d’Aosta e Lombardia non si può direche la situazione sia rosea: in queste regio-ni sono in fase di spopolamento circa la metàdei comuni. Questo denota che anche le re-

    4 WERNER BÄTZING - MANFRED PERLIK, Le Alpi tra urbanizzazione e spopolamento, inGUGLIELMO SCARAMELLINI (a cura di), Montagne a confronto: Alpi e Appennini nella tran-sizione attuale, Torino, Giappichelli, 1998, pp. 119-154.

    5 Al censimento della popolazione dell’anno 2001 in Italia erano 1.974 i comuni con menodi mille abitanti per una percentuale media assoluta pari al 24,4 per cento. Il valore più ampioè registrato nei territori nord-occidentali con il 37 per cento, mentre tutte le altre ripartizionisi attestano tra il 16 e 18 per cento.

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    gioni che godono di uno statuto specialenon sono immuni dall’esodo; dai dati si e-vince che solo in Alto Adige la percentualedi comuni in spopolamento si attesta a cifremolto basse, pari a circa il 16 per cento.

    Sicuramente non è un caso che propriol’Alto Adige, che in questi passati decenniha affrontato una politica culturale di raffor-zamento dell’identità alpina a ogni livello,riesca a mantenere la popolazione in mon-tagna. Non si può, come nel caso della Sviz-zera, attribuire ogni merito alle sovvenzionie, in ultima analisi, ai soldi, perché la stessacosa, in presenza di aiuti esterni anche mag-giori in termini di elargizioni pro capite, è av-venuta in Valle d’Aosta, dove la percentualeassoluta di spopolamento è quasi tripla.

    Dove va la gente

    La gente delle Alpi si sta concentrando incontesti metropolitani di fondovalle, chehanno acquisito tutti gli svantaggi delle zo-ne densamente urbanizzate senza ottener-ne i vantaggi: traffico, aree di insediamentoperiferiche marginalizzate, inquinamento,perdita di identità. Con una peculiarità: ri-spetto alle città di pianura, dove il centro èpiù o meno equidistante dalle periferie, per-ché l’espansione è avvenuta a “macchiad’olio”, le zone metropolitane alpine sonocresciute nei fondovalle stretti, e quindihanno acquistato una caratteristica urbani-stica molto allungata, inglobando via via icomuni rurali che si trovavano lungo i prin-cipali assi di transito.

    Così, alcuni quartieri si trovano decisa-mente lontani dall’unico centro storico “cit-tadino”, in cui si concentra la vita culturalee civile, sia geograficamente che socialmen-

    te, e sono diventati veri e propri “dormitori”,in cui, fra l’altro, esistono conflitti latenti fragli antichi abitanti originari “di lì”, e quelli“venuti da fuori”, che dai locali sono tenutilontani dai processi decisionali e quindi di-ventano ancora più estraniati dal contestodi residenza.

    Montagne vicine e montagne lontaneCon la crescita economica e l’aumento

    dell’integrazione sociale all’interno dell’Eu-ropa, i confini nazionali gradatamente han-no perso, e stanno perdendo sempre più, latradizionale funzione di divisione e sbarra-mento. Stanno emergendo relazioni intensee interdipendenze nuove fra le regioni alpi-ne. Dagli anni novanta è cominciata in ma-niera massiccia la cooperazione economicatransfrontaliera con fondi dell’Unione Eu-ropea. Questo ha portato a un’ulteriore dif-ferenziazione fra le diverse aree alpine, al-l’approfondirsi del divario fra province fa-vorite e sfavorite, all’allargarsi e all’intensi-ficarsi di flussi di traffico e di vie di comuni-cazione più o meno veloci.

    Negli ultimi decenni, i centri della prospe-rità tedesca si sono spostati verso sud, nelleimmediate vicinanze delle Alpi, tra Monacoe Friburgo. Istituti di ricerca di alta tecnolo-gia situati in ambienti ecologicamente “at-traenti” evocano l’immagine di una “SiliconValley alpina”6. Gli assi di produzione delcapitale (monetario e commerciale) tra il Ba-den Württenberg e Milano attraversano laSvizzera. La Germania è area di transito fraEst e Ovest dell’Europa, così come lo spa-zio alpino italiano, che viene tagliato anchedagli assi di scambio più importanti fra ilNord e il Sud, fra la Mitteleuropa e il Medi-terraneo. In Francia, come in Germania, le

    6 Istituti come il Fraunhofer Institut, Max Planck Institut e così via.

  • Michela Zucca

    14 l’impegno

    città che si sono maggiormente sviluppatedopo Parigi stanno a sud, a ridosso della ca-tena alpina: Lione e Marsiglia. Anche le re-gioni dell’Alsazia, di Strasburgo, di Nizza,di Cannes, la Costa Azzurra e la Provenzahanno rivelato doti di grande dinamismoeconomico. Grenoble e soprattutto SophiaAntipolis, grande parco tecnologico co-struito nel rispetto dell’ambiente e dell’ar-chitettura tradizionale, fuori dalle città, stan-no emergendo nel settore dell’high-tech.

    Ma le disparità rimangono altissime, e ri-siedono soprattutto nella differenza fra ver-sante settentrionale e meridionale delle Alpi.Il prodotto interno lordo dell’area alpina ècirca il 30-40 per cento in meno di quello me-tropolitano corrispondente (per esempio: seil pil di Milano è 130, quello di Sondrio è75)7. Le Alpi meridionali hanno dovuto fron-teggiare una competizione più dura con lepianure e le aree urbane, aggravate dai cam-biamenti climatici recenti.

    Ai confini dello spazio alpino, e talvoltaanche al suo interno, esistono poi distrettiindustriali all’avanguardia nel mondo perproduttività, per qualità e per tecnologia. Sipensi, in Italia, alle valli bresciane, alla valleStrona, alla Valsesia, a Biella, a Belluno. Maanche alle grandi fabbriche lombarde e pie-montesi, alle piccole e medie imprese brian-zole e venete, che sorgono al limite dellePrealpi. Da dieci anni a questa parte, sononati numerosi poli universitari e diversi cen-tri di ricerca in zona alpina e perialpina: ciò

    dimostra la capacità, quanto meno potenzia-le se non effettivamente realizzata, di inno-vazione di queste aree8.

    Questa situazione ha portato a un’inten-sificazione dei flussi di traffico impensabilee imprevedibile fino a poco tempo fa, chenon solo non accenna a diminuire, ma chesta aumentando vertiginosamente, in ma-niera incontrollata. Basti dare qualche cifra:se nel 1965 l’87 per cento delle merci era tra-sportato con la ferrovia, e solo il 13 per cen-to su gomma, nel 1988 il 55 per cento dellemerci era trasportato con mezzi pesanti; nel1994, il 60 per cento. Nel frattempo, la quan-tità assoluta dei beni trasportati è aumenta-ta di decine di volte, e quindi il traffico sustrada è cresciuto in maniera spaventosa.Non basta: le previsioni di crescita tra il 1992e il 2010 danno un aumento dei flussi di tra-sporto di merci del 75 per cento, con una cre-scita annuale del 3 per cento. Per quanto ri-guarda i passeggeri, le persone che si muo-vono aumenterebbero del 36 per cento nel-lo stesso periodo, con un tasso di crescitaannuale dell’1,7 per cento9.

    Per lungo tempo, il transito e il movimen-to di uomini e merci è stato considerato mo-tore di sviluppo delle economie locali e re-gionali nelle Alpi. Fino a pochi anni fa, la po-sizione (di un insediamento, un paese, unacittà) su uno dei maggiori assi di transito traNord e Sud era considerato un vantaggio.Oggi come oggi, con il crescere delle velocitàdi trasporto, si può passare da Verona a

    7 Alpine Space Programme - Interreg III B Community Initiative, cit., p. 26.8 Il Centro di ecologia alpina, per esempio, che si è occupato sia degli ecosistemi che dello

    sviluppo sostenibile delle regioni alpine, è nato nel 1993. Ma il gruppo che si occupava diantropologia alpina è stato sciolto - per ragioni politiche e di spartizione del potere - nel 2007.

    9 Rapporto dell’Unione Europea, Study of the Development of Transalpine Traffic (Goodsand Passengers), Horizon, 2010, citato in Alpine Space Programme - Interreg III B Commu-nity Initiative, cit., p. 33.

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    Monaco senza fermarsi neanche una volta.Le recenti proteste contro la riapertura deltunnel del monte Bianco e contro le linee dialta velocità della val di Susa, le grandi mo-bilitazioni di questi ultimi anni contro laTav10, i blocchi dell’autostrada del Brenne-ro, i referendum svizzeri, promossi e portatiavanti dalle popolazioni locali, testimonia-no che i flussi di uomini e merci, sulle Alpi,rendono solo dove si fermano, e danneggia-no gravemente, a livello sociale, economi-co, ambientale, le zone che attraversano.

    Sfortunatamente, questo è vero non sol-tanto per gli assi di grande scorrimento, maanche per le vie di comunicazione locale. Lestrade reclamate a gran voce, e concesse,pagandole spesso a caro prezzo (anche intermini di dissesto idrogeologico), per age-volare gli spostamenti in zone già disagia-te, in assenza di una politica di sviluppo edi offerta di lavoro in loco, hanno accelera-to e favorito lo spopolamento. Sulle Alpi,così come sui Pirenei, la prima generazionedi persone che hanno potuto usufruire del-la strada asfaltata e della macchina, si è sob-barcata i sacrifici del pendolarismo verso lecittà vicine, reso possibile dalla maggiorvelocità di percorrenza, che consentiva dilavorare fuori e di tornare a casa a dormire,mentre le donne mandavano avanti la pic-cola agricoltura di sussistenza. I loro figli, especialmente le loro figlie, invece, hannoabbandonato i paesi dei genitori, e si sono

    trasferiti nel fondovalle, trasformando le ca-se di famiglia in case di vacanza. I loro ni-poti, forse, trascorreranno le ferie al mare,con la scusa che al paese dei nonni “nonc’è niente da fare...”.

    La nostra analisi di campo e dei dati demo-grafici, che individua nei comuni piccoli elontani quelli più a rischio, è confermata dal-l’evidenza dei fatti e dell’analisi statistica.Abbiamo messo in evidenza tutte le cittadi-ne superiori a cinquemila abitanti, sebbenealcune (per esempio Cortina, o Livigno) ri-sultino oltrepassare questa soglia solo sul-la carta, in quanto molti hanno fissato là lapropria residenza senza effettivamente abi-tarvi, quindi il numero effettivo di abitantipuò essere notevolmente più basso. Ma sitratta comunque di località “ad alto conte-nuto turistico”, e quindi sicuramente poli diattrazione professionale per tutto il circonda-rio. Abbiamo fissato il limite a cinquemilaperché, se in altre zone d’Italia un insedia-mento anche più grande è considerato an-cora un paese, sulle Alpi si tratta invece diuna città ad ogni effetto, con la presenza del-la maggior parte dei servizi che dall’imma-ginario collettivo vengono percepiti come“urbani” (dal supermercato al cinema). InTrentino, su 223 comuni, solo 12 superanoquesta soglia: ancora una volta, i numeriparlano chiaro.

    Abbiamo successivamente calcolato ladistanza non solo chilometrica, ma in tem-

    10 Le prime ipotesi del progetto “Treni ad alta velocità” (meglio conosciuto come Tav) so-no del 1988 e rappresentano la versione italiana del programma di modernizzazione e velo-cizzazione della rete ferroviaria francese denominata Tgv (Train grand vitesse), già attivoda parecchi anni nello stato transalpino. Generalmente parlando di Tav si fa riferimento allatratta Lione-Torino, parte del corridoio ferroviario Lisbona-Kiev, e, come sopra accennato,al percorso ferroviario da realizzare in val di Susa e nella zona di confine. Le caratteristichegeomorfologiche e strutturali della tratta porterebbero, secondo alcuni studi indipendenti,alla realizzazione di una linea “ad alta capacità” (Ac) rispetto all’auspicata Tav.

  • Michela Zucca

    16 l’impegno

    po di percorrenza. Abbiamo calcolato mez-z’ora di automobile d’inverno: la durata, coimezzi pubblici, normalmente deve esserealmeno raddoppiata se non, in molti casi, tri-plicata. In alcuni comuni poi, suddivisi sudiverse frazioni, la fermata dell’autobus dilinea è molto distante, e, specie nei giorni digrande freddo, neve o pioggia battente, de-ve essere raggiunta in macchina o il tragittoa piedi può comportare disagi notevoli. An-cora oggi, il possesso di un’autovettura, ingran parte dei paesi alpini, costituisce, di fat-to, un obbligo, e la componente della po-polazione che non può guidare, principal-mente i minorenni, gli anziani e molte don-ne, è penalizzata. Abbiamo quindi control-lato se fosse vero che i comuni “lontani”perdessero popolazione più facilmente diquelli “vicini”.

    I risultati cartografici confermano che icomuni “lontani” sono quelli che più facil-mente si spopolano. Con alcune eccezioni,di cui due in territorio trentino: la fascia insu-brica, le zone di confine con la Svizzera, levalli di Fiemme e di Fassa, la valli Giudicarie.

    Un primo dato balza agli occhi: con po-che eccezioni, le città che raggiungono lasoglia dei cinquemila abitanti incrementanola loro popolazione.

    Ma ci sono anche casi di città che raggiun-gono questa soglia e continuano a diminui-re di abitanti: ecco l’elenco regione per re-gione.

    Le città che perdono popolazione si tro-vano spesso in zone di crisi molto grave: peresempio in Friuli o in Carnia, dove è eclatanteil caso di Tarvisio, che doveva la propriaimportanza e floridità alla presenza della do-gana e al grande mercato settimanale che visi svolgeva, da secoli. Gorizia, Cividale, Tar-cento, Gemona, sono sempre state - dal Me-dioevo - città importanti, ma non sono riu-scite a reggere alla crisi di un intero territo-rio. In Veneto, Asiago e Recoaro Terme ci

    ricordano che località anche turisticamentemolto sviluppate, e famose in Europa, pos-sono “passare di moda” ed avviarsi sullastrada del declino, specie se la crisi non havoluto essere riconosciuta e non si sono av-viate politiche di sostegno. Talvolta poi leiniziative arrivano quando è già tardi: è il ca-so di Feltre, in cui si è impiantata addiritturaun’università. In Piemonte, Varallo, Rimel-la, Rassa scontano lo smantellamento dellegrandi fabbriche della Valsesia, una delleprime zone di industrializzazione del tessilein Italia. Barghe e Peveragno si trovano nellastessa situazione delle città della Carnia: allespalle il territorio è stato così violentementedeprivato di popolazione e risorse negli ul-timi cent’anni, che non sono riuscite a riac-quistare la popolazione perduta. In Liguria,Vado Ligure ha probabilmente risentito dellaristrutturazione industriale che ha portatoalla chiusura di diverse fabbriche che costi-tuivano grossi bacini di impiego e quindimolti ex operai sono stati spinti a trasferirsialtrove. In Lombardia, Lovere e Vestonehanno risentito della crisi industriale che hacolpito il settore del ferro e che ha portatoalla chiusura di molte aziende. La stessa crisideve aver coinvolto anche Cernobbio, vici-no a Como, città in cui la tradizionale attivi-tà manifatturiera basata sulla produzionedella seta è stata in gran parte delocalizzatain Cina e nei paesi dell’Est europeo.

    Le eccezioni da indagareLa prima eccezione al modello “comune

    lontano-comune in declino demografico”coinvolge diverse centinaia di migliaia dipersone: viene definito dagli studiosi il“modello insubrico”. Si tratta del sistema divita delle popolazioni che vivono nella fa-scia alpina-pedemontana che dal lago Mag-giore arriva fino al lago di Garda, accentuan-dosi verso le valli bergamasche e bresciane(la fascia insubrica, appunto). Sono zone

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    che, per quanto riguarda gran parte dell’oc-cupazione, gravitano su Milano: gli uominilavorano in gran parte in edilizia, e spessopercorrono, per raggiungere i cantieri, circa100 chilometri (Milano-Brescia sono esat-tamente 100 chilometri) di autostrada, più itratti di montagna fino ai caselli: talvolta, sifanno anche 300 chilometri al giorno, par-tendo e tornando di notte, nei cosiddettipullmini della morte, dandosi il cambio perguidare e sottoponendosi a gravi rischi diincidenti stradali per colpi di sonno e, unavolta arrivati al cantiere, alle possibilità diinfortuni sul lavoro per stanchezza, distra-zione, voglia di fare in fretta per poter tor-nare a casa prima. La Lombardia è la regio-ne in cui, tendenzialmente, si osservanomaggiormente le regole di sicurezza sul po-sto di lavoro, ma è anche quella in cui per-centualmente ci sono più morti nel settoredelle costruzioni: proprio perché muratori emanovali arrivano sul posto di lavoro giàstanchi, dopo due-tre ore di viaggio dallevalli alpine.

    In altre province della Lombardia e delPiemonte è diffusissima l’emigrazione set-timanale verso la Svizzera. Sul posto sonostate mantenute piccole aziende, che dan-no lavoro a maestranze femminili, a mae-stranze maschili poco qualificate e, semprepiù spesso, a extracomunitari che non rie-scono a trovare altro. Ma quando possono,anche loro se ne vanno: è rimasto celebre,fra gli addetti ai lavori, il caso delle famigliealbanesi trasferite a Sondrio, che non han-no voluto fermarsi per nessuna ragione.Anche in Trentino, molte famiglie di immi-grati “capitate” per varie ragioni in piccolipaesi, appena possono cercano di trasferirsiin contesti più grandi. La gente del postoinvece, tenacemente legata al proprio terri-torio, cerca in ogni modo di non andarsenee, se esiste nelle vicinanze un bacino dioccupazione all’altezza delle aspettative,

    ovvero in cui il lavoro viene valorizzato eben pagato, si sottopongono a ritmi di pen-dolarismo anche molto stressanti, con diver-se ore di strada al giorno, pur di non trasfe-rirsi altrove. Non è un mistero che i datori dilavoro svizzeri, sia pubblici che privati, pre-feriscano, oggi più che mai, i lavoratori ita-liani, e soprattutto quelli provenienti da con-testi alpini, a chiunque altro. Non solo: seuna volta gli italiani erano impiegati solo incompiti di basso profilo professionale, oggisvolgono anche mansioni di alto livello: in-segnamento nelle scuole, fino all’università;personale medico e paramedico negli ospe-dali. Vengono pagati circa il doppio che inItalia, vengono messi in regola e possonospesso avere un posto di lavoro sicuro percui in Italia dovrebbero spostarsi, vista lararefazione dei servizi in arco alpino. Ciòvuol dire che, se nei paesi “lontani” esistes-sero possibilità di occupazione all’altezzadegli standard urbani, molti giovani profes-sionisti non esiterebbero a fermarsi. Nelcontesto lombardo, piemontese e altoatesi-no la vicinanza della Svizzera aumenta il dre-naggio dalle zone alpine dei pochi lavoratoriqualificati e i paesi si impoveriscono sem-pre più anche di servizi.

    Un altro caso di mantenimento della po-polazione in montagna, quello delle valli diFiemme e di Fassa, è facile da spiegare: sitratta di uno dei comprensori turistici piùattivi e più ricchi a livello alpino, che hapotuto godere dei privilegi connessi all’ap-partenenza a una regione autonoma, conser-vare un proprio contesto produttivo fattodi piccole aziende che hanno saputo valoriz-zare le specificità collegate al territorio: stu-fe ad olle, mobili tipici che si sono evoluti insenso moderno, abbigliamento “tirolese”,formaggi doc, come il puzzone di Moena.

    Sulle Giudicarie, invece, la situazione èdiversa: fino a pochi anni fa erano una zonamarginale a tutti gli effetti, e per alcuni fattori

  • Michela Zucca

    18 l’impegno

    ne conservano ancora i tratti. Nell’ultimoventennio, in queste valli si è fatto un granlavoro di valorizzazione del territorio, che siè espresso nella “creazione” di un prodottodoc come la farina di Storo, alimento che siè imposto a livello di Nord Italia con il solopotere del marchio, visto che la produzionevera e propria della materia prima (il grano-turco) non viene fatta in valle per ovvi pro-blemi di spazio. È in questa zona che si è e-spresso il maggior bisogno di formazionespecializzata per i giovani professionisti“spinti” dalle amministrazioni comunali di ri-ferimento, che hanno richiesto corsi in euro-progettazione per poter accedere autono-mamente ai fondi. La formazione, prima o poi,dà i suoi frutti. Infatti, se vengono elevatele competenze di un territorio, in tempi varia-bili ma comunque medi si verifica un “ritor-no di fondi” semplicemente perché si sonocreate le capacità di ottenerli. Ciò porta allacreazione di un circolo virtuoso che si espri-me nella nascita di tante piccole aziende ocooperative di produzione e di servizio, fon-date da giovani anche laureati che posso-no anche lavorare fuori ma che si fermano avivere nel paese di provenienza; e lentamen-te, il valore aggiunto e la qualità della vitadi una valle viene elevata, fino a quando sifrena lo spopolamento.

    Problemi e prospettive

    Qui più o meno sono tutti uguali...“Vedi, qui da noi più o meno siamo tutti

    uguali”: questa la percezione del sé che èemersa in tutti i paesi che abbiamo indaga-

    to. Rigorosamente falsa, anche a prima vi-sta; ma creduta vera anche contro l’eviden-za, perché corrisponde alla perpetuazione diun sistema di valori diverso da quello chein questi ultimi due secoli si è sviluppato inambito urbano, dalla Rivoluzione francesein poi. Ovvero: malgrado i nostri paesi sianoinseriti in un contesto di stato democrati-co, in cui virtualmente valgono le leggi del-la maggioranza, degli schieramenti politici,della libertà individuali, le regole che la gen-te segue, rapportandosi con i componentidella propria comunità, appartengono a unordine diverso: sono quelle di una societàsegmentaria, non democratica ma collettivi-sta, tendenzialmente egualitaria, in cui diver-sità e volontà di emergere vengono dura-mente penalizzate.

    La classificazione dei sistemi politici cheoppone due tipi di società, quella segmenta-ria e quella statuale, è stata proposta da Émi-le Durkheim11 ed elaborata da E. E. EvansPritchard e da M. Fortes12. Secondo la loroanalisi, la politica si definisce, in entrambi icasi, come l’agente di integrazione nel con-testo sociale globale, che si realizza però inmaniera differente.

    Nelle società statuali, la funzione integra-trice è manifesta ed evidente, perché si tra-duce attraverso il lavoro, osservabile imme-diatamente, di strutture amministrative, bu-rocratiche, giuridiche, militari e repressive,controllate e legittimate, a loro volta, daun’autorità centrale. In compenso, nelle so-cietà segmentarie, la funzione integrativanon è direttamente osservabile, perché cor-risponde a meccanismi regolatori interni,

    11 ÉMILE DURKHEIM, La divisione del lavoro sociale, Roma, Newton Compton,1972 (ed.or. Paris, 1893).

    12 MEYER FORTES - EDWARD EVAN EVANS-PRITCHARD, African Political System, London,Oxford University Press, 1940.

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    non percepibili se non attraverso un’anali-si teorica e un’osservazione approfonditae prolungata che metta in evidenza il fun-zionamento stesso del sistema nella sua to-talità. È suddivisa in segmenti e sottoseg-menti (clan, sottoclan, “famiglie forti”) chesi coalizzano e si fondono, uniti da principidi solidarietà, o viceversa si combattono fraloro, secondo determinate regole, che pos-sono anche assumere l’aspetto della com-petizione democratica, come le campagneelettorali per l’elezione del sindaco. Secon-do tale struttura, la fusione dei lignaggi con-sente di risolvere il problema del manteni-mento dell’ordine. In tal senso, è interessan-te notare come in molti paesi i voti coinci-dano con il numero dei membri delle variefamiglie. Lo studio puntuale del loro funzio-namento, cioè l’identificazione delle relazio-ni fra le loro unità costitutive, rivela l’esi-stenza di un “principio d’ordine” implicito,fondato su principi culturali, che non vienené trasgredito né contestato, a cui tutti siadeguano, che le rende organiche, coerentie unite, e le fa continuare nel tempo.

    Sistemi come questi richiedono aggrega-zioni apparentemente omogenee, in cui ognimembro della comunità aderisca volontaria-mente e pienamente ad una scala di valoricondivisa, che impone l’appartenenza in-condizionata al gruppo. Il risvolto negativo,il prezzo da pagare per la parità sociale (sol-tanto di facciata, si badi bene; non esisto-no società senza differenze, perfettamenteegualitarie) è l’annullamento di ogni prete-sa di distinzione dalla massa. L’accumula-zione di ricchezze individuali, o, per esem-pio, l’ambizione personale possono rompe-re l’equilibrio e costituire un vero e propriopericolo. Perché ciò che fa emergere unapersona rispetto a un’altra è concepito co-me un furto o una privazione di un bene col-lettivo. Inoltre, l’egualitarismo è soltantoapparente: le differenze di sesso, e/o quelle

    di età, permettono di imporre una gerarchiadi fatto, talvolta molto autoritaria, con laquale non è possibile dissentire, o mantene-re un’idea propria. In più permangono, al-l’interno del contesto sociale, in cui la qua-lità della vita è buona, di sicuro superiorealla media italiana, alcune famiglie tradizio-nalmente considerate potenti (“forti”), a cuiin maniera tacita viene delegato l’accessoalle cariche di rappresentanza e vengonoconcesse libertà che ad altri sono negate,che i loro componenti maschi si sentono le-gittimati a usare per poter gestire il potere.Per esempio, durante una campagna eletto-rale per l’elezione del primo cittadino, unodegli sfidanti dichiarava, tranquillamente,che lui “aveva il diritto” di fare il sindacoperché “l’aveva fatto suo nonno”. Egli, è danotare, era un libero professionista, laurea-to, affermato e aveva passato gran partedella sua vita in grandi città. I suoi interlo-cutori consideravano in un certo qual modogiustificata la sua pretesa.

    Il conflitto aperto, o un più semplice “con-fronto democratico”, si rivela spesso pro-blematico e si cerca di evitarlo in ogni modo,anche da parte delle amministrazioni. Gene-ralmente, a livello individuale, si tenta di nonschierarsi con nessuno, di non dichiarare lapropria appartenenza politica. Tanto che,quando si svolge una campagna elettoralecon più liste all’interno del paese, spessoquesta viene percepita come devastante etalvolta chi perde si rifiuta di portare il pro-prio contributo alla nuova giunta.

    Fin da piccoli, si viene educati a non ma-nifestare il proprio dissenso in pubblico, a“non far vedere che si fa il proprio interes-se”, anche quando è perfettamente legitti-mo, a “non credersi di più degli altri”, a non“farsi vedere”. In molti casi, la paura di mo-strare che si sono “fatti i soldi” ha portato ainvestire fuori dal paese, a depositare i ri-sparmi nella banca della città più vicina piut-

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    20 l’impegno

    tosto che nella Cassa rurale della propriavalle, anche se la filiale è aperta sotto casa,“per non far vedere agli altri i propri affari”.Dentro al paese non bisogna farsi vedere a“spendere”: fino a un certo punto la spesaè accettata; poi si ha paura di essere “criti-cati”.

    L’invidia è uno dei sentimenti maggior-mente citati dagli intervistati. Dal punto divista antropologico, funziona come regola-tore sociale, impedendo di mostrare troppedifferenze di censo per timore di pettegolezzie maldicenze. Ma funziona come agente li-vellatore anche su un piano più pratico: nelcaso di proprietà molto frazionate, divise fraparenti, in cui c’è bisogno di acquisire leporzioni di immobile per poterlo restauraree tirarci fuori un appartamento abitabile, oaddirittura per case intere, in alcuni casi èstato notato che si preferisce vendere a “chiviene da fuori” o a immobiliari piuttosto cheai congiunti, per invidia appunto, per evita-re che “si mettano a posto”, per “fargli undispetto”. Questo comportamento è dovu-to anche al fatto che, fra conoscenti o pae-sani, si è tenuti all’osservanza di regole nonscritte che impongono, nel caso di una ven-dita, un prezzo “giusto” (ovvero basso), al-trimenti si viene criticati, mentre se la tran-sazione avviene con un estraneo è lecitocercare di avvantaggiarsi il più possibiledella situazione, acquisendone merito neiconfronti della collettività, dimostrandosi“furbi” di fronte all’opinione pubblica.

    Non bisogna pensare, però, che l’invidiasia un sentimento caratteristico della culturaalpina. In realtà, si tratta di una reazione tipi-ca dei piccoli gruppi tendenzialmente chiusi,anche urbani. Basti pensare che gran partedelle cause discusse dagli avvocati riguar-dano liti di condominio. Per non parlare delmobbing negli ambienti di lavoro, che spes-so ricordano le caratteristiche di piccolecomunità. Per le motivazioni adottate per le

    molestie fra colleghi una delle più ricorrentiè l’invidia. Quindi non si può imputare que-sto sentimento alla cultura alpina ma, piut-tosto, ai gruppi umani piccoli, chiusi, in cuisi praticano attività quasi uguali per tutti eripetitive, dove ogni minima differenza vie-ne vissuta negativamente e penalizzata.

    Malgrado le affermazioni di egualitarismo,di fatto uno dei valori universalmente rico-nosciuti nelle nostre comunità è quello del-la “roba” che significava, principalmente, lacasa e la terra, anche se nell’ultima genera-zione, il suolo agricolo ha perso di valore.Comunque, quando si analizza a fondo qualisono le famiglie che ancora oggi gestisco-no il potere, si capisce che sono quelle chepossono contare su una gran quantità dimetri quadri di terreno. Oggi la “roba” signi-fica la casa di proprietà (senza non è quasisocialmente permesso sposarsi), altre caseo appartamenti per eventuali figli o da affit-tare o da tenere liberi, ma intanto ci sono, lemacchine (più di una per famiglia e, normal-mente, grosse, cambiate di frequente). Tut-te cose di cui però è proibito vantarsi, dafar valere soltanto al momento opportunosenza tanti giri di parole e senza “farsi ve-dere troppo”: si potrebbe definire un model-lo di comportamento basato su un under-statement che però è solo esteriore.

    L’apparente equilibrio interno si mantie-ne attraverso la forza della vita comune,l’uguaglianza delle condizioni materiali divita, la potenza delle credenze religiose, loscambio di “favori”. L’autorità viene eser-citata all’interno della famiglia, è legata allaparentela e non al territorio. I legami di soli-darietà sono basati sulle reti familiari, paren-tali, claniche, e devono essere rispettati: nelcaso di un lavoro che ha bisogno dell’appor-to di più persone (per esempio, la ristruttura-zione o la costruzione di una casa) tutti imembri della famiglia allargata sono tenutia “dare una mano”, anche quando ci sareb-

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    bero i mezzi per pagarsi un aiuto. Chi si di-chiara indisponibile al lavoro viene non solorimproverato all’interno della propria fami-glia nucleare e allargata, ma anche da tutti imembri della comunità, che lo descrivonocome un “disgraziato” e spesso allarganola critica all’intera famiglia di provenienza,che la percepisce su di sé come una man-canza, una vergogna, e ne fa una colpa gravea chi non si è voluto adeguare alle regole.

    I conflitti sembrano ridotti al minimo conl’azzeramento dei motivi di rivalità: nessu-na differenza sociale evidente; impossibili-tà di prevaricare sugli altri; obbedienza alletradizioni. Le sanzioni della disobbedienzasono per lo più solo morali (la disapprova-zione collettiva), ma temutissime. “Ciò chedice la gente” è ancora oggi una preoccu-pazione continua e un deterrente difficile dacapire per chi vive in contesti culturali di-versi; il controllo sociale è un meccanismoche determina spesso l’abbandono di quan-ti non sono d’accordo con la civiltà di paesema, piuttosto che vivere “sotto gli occhi ditutti”, se ne vanno. Si tratta in gran partedelle forze migliori, cioè gli elementi piùistruiti e le donne.

    Una simile mentalità contrasta con proget-ti di sviluppo basati sull’autoimprenditoria-lità e sull’iniziativa personale. Solo perso-ne di carattere molto forte riusciranno adessere apertamente “diversi”, superare lecritiche della propria comunità e assumersiil rischio di diventare agenti di cambiamento.

    Questa situazione di conflitto non dichia-rato, come la paura dell’invidia e della san-zione sociale, la mancanza della possibilitàdi confronto esplicito perché qualunque di-scussione o divergenza di idee è vissuta co-me “litigio” (che poi diventa irrisolvibile), iltimore del pettegolezzo, generano assenzadi fiducia fra gente dello stesso paese, quin-di difficoltà estrema di avviare attività eco-nomiche condivise.

    Una società frammentariaUna delle caratteristiche presenti nelle

    culture segmentarie è la frammentazione so-ciale: in clan, tribù, ma, nel nostro caso, infrazioni di uno stesso comune, o in paesi dipoche centinaia di abitanti che non riesconoa vedere un interesse condiviso, anche quan-do questo è evidente a un osservatore e-sterno, e che, letteralmente, agiscono a pro-prio svantaggio, perdendo fondi o occasio-ni di sviluppo, a causa di litigi e rivalità cheappaiono inconsistenti o senza ragioni forti.

    Per tentare di capire situazioni che sem-brano al limite dell’assurdo bisogna, anco-ra una volta, fare un salto indietro. Nei secolie nei millenni passati, il sistema di sfrutta-mento dell’ambiente sulle Alpi imponeva untipo di insediamento che si potrebbe defini-re “a stella”: perché ogni minuscola porzio-ne del territorio fosse utilizzata al meglio(cioè col minimo sforzo per il massimo pro-fitto), riducendo, per quanto possibile, itempi di spostamento (a piedi), gli abitati u-mani erano sparsi un po’ ovunque. Il paesag-gio alpino, lungi dall’essere selvaggio, erain realtà insediato e frequentato fin negli an-goli più remoti. Ma, a differenza delle regionidi lingua tedesca, dove la gente viveva infattorie isolate l’una dall’altra e praticamen-te autosufficienti, nelle zone latine si rag-gruppava in piccoli agglomerati che faceva-no capo a un comune più grande: le frazio-ni. In periodi in cui le comunicazioni eranodifficili, specie d’inverno, le frazioni funzio-navano in effetti come entità autonome:ognuna poteva disporre della parrocchia colprete, della scuola, del negozio, dell’osteria,della latteria per fare il formaggio. Spesso, imatrimoni avvenivano fra le famiglie di unastessa frazione: così si rinsaldavano legamiche andavano oltre l’interesse meramenteeconomico. In alcuni casi, ad esempio a Sa-molaco, in val Chiavenna, per ribadire l’au-tonomia, addirittura la sede del consiglio

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    comunale ruotava di anno in anno fra unafrazione e l’altra. Così nessuno poteva “cre-dersi di più degli altri”. Esiste ancora oggiun orgoglio, un’identità di frazione; e la ten-denza a sentirsi discriminati se la sede co-munale sta da un’altra parte.

    Citerò un’altra esperienza personale: co-me Centro di Ecologia alpina, assieme adaltri enti, abbiamo organizzato, per quattroanni, una manifestazione internazionale dicultura alpina, “La sera intorno al fuoco:sette giorni di cultura alpina”, dal 1994 al1998 a Garniga Terme, paese diviso in più diuna mezza dozzina di frazioni. Il primo anno,abbiamo “spalmato” l’evento fra tutti gli in-sediamenti, ottenendo una buona parteci-pazione da parte della popolazione e l’ade-sione all’iniziativa. Ma, viste le dimensioniridottissime del comune (che non arrivavaai quattrocento abitanti) nelle edizioni suc-cessive abbiamo deciso di raggruppare spet-tacoli e dibattiti nella frazione principale, da-vanti al municipio: dove, fra l’altro, esiste-va l’unico spazio grande abbastanza per farcistare un palco e un impianto voci. Da quelmomento, gran parte di quelli che stavanoin posti diversi, non hanno più partecipato,e non si sono sentiti più coinvolti.

    Storie come queste evidenziano un’esi-genza di localismo, ovvero di possibilità diautogestione da parte delle frazioni, che malsi concilia con le richieste di amministrazio-ne accentrata che si è sviluppata nei comu-ni dal dopoguerra ad oggi. Uno dei freni allosviluppo maggiori nei paesi alpini è datoproprio dalla difficoltà di superare localismie campanilismi di frazione e di paese per riu-nirsi attorno a un problema e portare avantiun progetto comune.

    La mentalità di un piccolo paese alpinoricorda quello di una comunità assediata:siamo “noi” contro “gli altri”, che “non sisa che cosa ci vogliono fare, ma quello chevogliono proporci non è mai del tutto chia-

    ro”, “c’è sempre un secondo fine”, lo fan-no “per i loro interessi non per i nostri”,quindi è sicuramente negativo e “noi” co-munque dobbiamo lottare per non “farci fre-gare”. È come se nel subconscio si agitasseinespressa la paura che qualcuno possa“rubare” la “roba” accatastata con una fati-ca immensa, o portare via diritti di uso chesi sono affermati in secoli di lavoro terribile.

    Al campanilismo bisogna aggiungere ri-valità ataviche fra famiglie e gruppi di fami-glie, che si sono create non si ricorda nem-meno più per quale motivo e che stentano aessere risolte.

    Tanto per fare degli esempi che riguarda-no i paesi dove abbiamo lavorato: nella val-le del Chiese esistono due consorzi turisti-ci, che non riescono a lavorare assieme (olo fanno con grande difficoltà). A SagronMis, tutto è doppio, perfino il gruppo delledonne che fa volontariato: a seconda dellafrazione di nascita. A Cimego (poco più diquattrocento abitanti) da sempre non si rie-sce a lavorare con quelli di Castel Condino(5 chilometri di distanza, poco più sopra,centocinquanta abitanti o poco più). Il per-ché, è ancora da scoprire. Le rivalità di pae-se poi raggiungono l’apice quando, a cau-sa dello spopolamento, si decide di chiude-re quell’edificio che, forse a volte più del mu-nicipio, sicuramente di più della parrocchia,rappresenta l’identità condivisa della comu-nità: la scuola. Anni fa i genitori di Praso,per non far andare i propri figli alle elemen-tari fuori dal paese, hanno fatto le barricate,anche se poi la scuola l’anno dopo è statachiusa ugualmente.

    Il campanilismo sembra diminuire fra lefasce più giovani della popolazione.

    Associazionismo e volontariatoMalgrado le credenze di senso comune,

    che ribadiscono che alcune fra le caratteri-stiche della “città” consisterebbero nell’in-

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    tensità e nella frequenza dei momenti di vitacollettiva, nella presenza di molteplici occa-sioni di incontro, nella condivisione dell’or-ganizzazione di attività da parte degli abi-tanti, la partecipazione ad associazioni ecomitati della gente dei paesi è decisamen-te maggiore. Ogni piccolo comune alpinocontiene una gran quantità di gruppi (daglialpini al consiglio pastorale; dai pompierialla pro loco; dalla polisportiva al gruppocultura; dalla banda al gruppo giovani...) neiquali è inclusa la maggior parte della popo-lazione adulta. Quasi tutte le attività che sisvolgono in paese sono organizzate e ge-stite dalla gente, attraverso le associazioni,ed è tramite la partecipazione alla vita asso-ciativa e alle sue regole che avviene, di so-lito, l’ingresso nelle strutture politiche di ge-stione dell’amministrazione pubblica: dalconsiglio comunale agli organi direttivi dicooperative e casse rurali locali.

    La popolazione è abituata alla condivisio-ne e all’autogestione da secoli di disinteres-se dei governi centrali: tanto è vero che il“far da soli” è una delle qualità più apprez-zate anche nella vita privata delle persone.La partecipazione alla gestione della cosapubblica è su base assolutamente volonta-ristica e spesso sentita come un dovere: ciòdovrebbe presupporre un alto livello di fi-ducia fra i membri della comunità, quindifavorire il passaggio dal volontariato allacreazione d’impresa fra compaesani, primoe principale presupposto di sviluppo soste-nibile interno.

    Purtroppo questo non succede quasi mai:perché la paura del conflitto, dell’assumer-si responsabilità, dell’attribuzione di meritiche devono essere monetizzati, porta al ri-fiuto netto, quasi con sdegno e assunto conorgoglio, del “guadagno” o perfino del so-spetto che qualcuno possa “guadagnarci”.Addirittura, quando si creano delle associa-zioni che, da puramente volontarie, potreb-

    bero trasformarsi in piccole imprese artigia-nali, il blocco sociale è tanto forte che, purdi non aprire partita Iva e rendersi autono-mi, si preferisce rinunciare all’eventualitàdell’impiego.

    Per questa ragione, in molti casi non si èriusciti ad aprire il negozio di souvenir chesarebbe tanto utile alla promozione turisti-ca: il volontariato può funzionare da frenoalla crescita economica delle piccole comu-nità, inibire la creazione di autoimprendito-rialità nella produzione di beni tipici che,invece, sono richiesti sul mercato e favori-scono la costruzione di un senso di identi-tà forte proprio perché sono caratteristicidel luogo. E se lavorare senza farsi pagarepoteva essere giustificato in periodi in cuiesisteva la certezza del posto di lavoro, inquesti ultimi anni, in cui la precarietà, spe-cialmente per le fasce deboli e le donne, èdiventata non l’eccezione ma la regola, que-sta situazione si ritorce contro un eventua-le progetto di sviluppo.

    Perché il processo riesce e di solito de-colla, nel momento in cui dall’inizio si è im-posta la creazione d’impresa come obietti-vo imprescindibile: ma le sue conseguenzepossono essere poco piacevoli. Il percorsodi sviluppo inizia normalmente attraversoun’associazione culturale di volontari dipersone di mezza età tendente all’anziano,pensionati o lavoratori a posto fisso: l’atti-vità nel gruppo cultura è cosa importantis-sima, a cui si può anche dedicare la vita, mal’introito per andare avanti nel quotidianoviene da altro, ed è garantito. I suoi membrichiedono spesso grande impegno e dedizio-ne e sono disposti a dare quanto chiedonodagli altri, se non di più: in cambio però pre-tendono la gestione delle iniziative, che vie-ne loro concessa senza nessun problema.

    Quando però si decide di formare una coo-perativa, un consorzio, un ente di giovaniprofessionisti opportunamente formati, che

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    porti avanti il progetto culturale in modo taleche si crei lavoro e quindi un utile, le con-traddizioni esplodono. La prima è quellagenerazionale: “Questi qui fino ad ora nonhanno fatto niente e guarda adesso cosapretendono, noi l’abbiamo sempre fatto gra-tis”. La seconda riguarda l’assunzione di ri-schio d’impresa: chi è abituato al posto fis-so, ovvero la componente “anziana”, non èdisponibile a prendersi responsabilità cheincidano sul proprio patrimonio personale;sono abituati ad avere prima “i soldi in ta-sca”, forniti dalle sovvenzioni dell’ente pub-blico, e poi ad agire. Ciò è ovviamente con-trario a un’ottica d’impresa: così talvolta ac-cade che, per poter affrontare certi proget-ti, alcuni degli elementi che erano stati atti-vi in passato cerchino di mettere dei freni equindi, se si vuole andare avanti, debbanoessere eliminati. Esiste poi un terzo ordinedi conflitti, che potremmo definire di gene-re, e di cui parleremo anche più avanti: spes-so per creare impresa nei piccoli paesi gliunici elementi coinvolgibili sono le donne.Ma i loro uomini non sono abituati ad ave-re mogli imprenditrici, che, se vogliono far-si strada sul mercato, devono dedicare all’a-zienda le disponibilità di tempo, di soldi, dilavoro, di testa, di entusiasmo che una voltariservavano alla famiglia. Se si vuole far cre-scere un’attività, la scelta fra casa e profes-sione è inequivocabile e implica un impegnoinnegabilmente molto maggiore di quellorichiesto a donne che comunque lavorano,ma a orari e stipendi fissi. Una conseguenzaimmediata ed evidente che può provocarescandali e accuse reciproche fra coniugi ecomponenti della famiglia allargata riguar-da per esempio l’affido a pagamento deglielementi deboli come vecchi, bambini e in-validi, tradizionalmente affidato gratis alledonne.

    Può quindi accadere che le famiglie si sfal-dino, che si creino divisioni e conflitti che

    accrescono le rivalità in paese, in contestiimpreparati ad accettare rapporti dialettici diconfronto-scontro. Anche perché la dinami-ca dello sviluppo è tutt’altro che democrati-ca, fa emergere i migliori e penalizza chi nonriesce ad essere all’altezza, provoca scon-volgimenti di potere e riassestamento di clandirigenti. Quando il processo riesce, di solitoi “vecchi” vengono soppiantati da genera-zioni più giovani. Accade anche che il pro-cesso si inceppi, per mancanza di coraggioda parte di chi è riuscito a conquistarsi il po-tere, che non può “pestare i piedi” a “trop-pa gente”: e allora bisogna ricominciare dacapo.

    Questo è il costo sociale dello sviluppo,che è sempre altissimo: se il contesto non èdisposto a pagarlo, molti dei piccoli comunialpini, nei prossimi vent’anni, semplicemen-te spariranno dalla carta geografica, o si tra-sformeranno in insediamenti di secondecase.

    Pendolarismo e senso di vuotoNon è possibile addossare alle multinazio-

    nali del trasporto su gomma, ai tour opera-tor o alle politiche dell’alta velocità ognicolpa dell’aumento della congestione nellevallate delle Alpi. Perché gran parte dei vei-coli che si mettono in coda la mattina e lasera per raggiungere le città alpine di pic-cole e medie dimensioni, i centri commerciali,i luoghi turistici o di divertimento e svago,spesso con una sola persona a bordo, ap-partengono ai residenti, i quali sono menodisposti dei turisti a utilizzare i mezzi pub-blici (spesso inesistenti, inefficienti o sman-tellati, come gran parte delle piccole ferrovielocali).

    Le gente dei paesi è obbligata al pendola-rismo, specie nei piccoli centri e nella com-ponente giovane della popolazione. Peresempio, Cimego, uno fra i pochi comunisotto i cinquecento abitanti, attraverso un

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    piano di sviluppo sostenibile che va avantigià da quasi vent’anni, è riuscito perfino afrenare lo spopolamento e a incrementare isuoi abitanti. Ma le cifre del pendolarismolavorativo sono quanto meno preoccupanti:della sua componente giovane, il 50 percento percorre fra i 5 e i 70 chilometri per rag-giungere il posto di lavoro (distanza che ov-viamente va raddoppiata per costruire la me-dia giornaliera); il 25 per cento gravita suTrento, Rovereto, Brescia e quindi, dopo uncerto periodo in cui fa avanti e indietro sob-barcandosi tre ore di strada al giorno, si tra-sferisce in maniera definitiva, in quanto inTrentino generalmente una distanza di mez-z’ora dal posto di lavoro è già percepita co-me sufficiente per cercarsi un’altra casa; il10 per cento sta a Milano, o, addirittura, al-l’estero.

    Chi rimane nei paesi, a parte poche ecce-zioni, si accontenta di professionalità dibasso livello: microimprese di edilizia, in cuila qualificazione è limitata, ma, a fronte diesigenze di vita tutto sommato limitate, ilreddito è abbastanza elevato; spesso le ra-gazze rimangono a casa, o fanno pulizie, ola stagione. In molte famiglie, quelle chehanno avuto minori opportunità di confron-tarsi con l’esterno, che sono poi quelle i cuimembri rimangono con più facilità in paese,la tendenza ad “accontentarsi” porta ad unascarsa considerazione per lo studio, sia daparte dei genitori, che da parte dei giovani,che non si sforzano troppo per entrare in unmondo che oltre tutto li considera già infe-riori. Chi conosce i ragazzi delle valli sa che,quando arrivano alle scuole superiori, equindi si staccano per la prima volta dalgruppo dei paesani, devono sopportare ungrande sforzo di inserimento, perché in tanticasi, negli istituti delle città perialpine, sonodiscriminati, non sono inseriti nel circolodelle amicizie dei compagni, i quali fannosemplicemente finta che non esistano, e fan-

    no gruppo fra loro. Ancora una volta, ven-gono apostrofati con appellativi tipo “con-tadino”, “montanaro”, “paesano” come si-nonimo di arretrato, ignorante, rozzo.

    Comunque, anche da parte di chi lavorafuori, l’attaccamento al territorio rimane alto,nei limiti del possibile però, e per motivazioniutilitaristiche: comprare casa in città è trop-po caro. Così quando si torna la sera, al finesettimana, o per le vacanze, si è troppo stan-chi per impegnarsi nella vita del paese, spes-so si viene percepiti dagli altri come “chi sene è andato”, quindi si preferisce rintanarsiin un rassicurante ambito familiare, che nonfa nulla per spingere alla partecipazione.

    Sempre più, i paesi si trasformano in quar-tieri dormitorio, appendici funzionali dellecittà, deserti, in cui ci si muove in macchi-na, dove la sensazione prevalente è “nonc’è niente, non c’è nessuno, se ne sono an-dati tutti, se ne vanno tutti”: e questo succe-de, come a Ronzone, anche dove la popola-zione è in crescita! D’altra parte, non è larealtà materiale ciò che conta in un processodi sviluppo, ma la realtà percepita, che con-sente di mettersi in gioco e di rischiare.

    L’abbandono mentale e la volontà di fugaLa variabile che consente la scelta fra l’ab-

    bandono e la costruzione di qualche cosadi diverso per poter sopravvivere nei paesidi origine è antropologica: passa attraversola mentalità.

    Dalla fine degli anni cinquanta in poi siassiste, nella maggior parte degli insedia-menti alpini che traggono il loro sostenta-mento dall’alpicoltura, al manifestarsi di verie propri shock culturali, conseguenza dell’e-migrazione massiccia (verso l’America, l’Au-stralia, la Svizzera, il Belgio, la “città”), cheacuisce i traumi psichici da spaesamento-sradicamento, che, forse, erano già in atto.L’impatto della nuova cultura industriale emetropolitana sul tessuto socioculturale

  • Michela Zucca

    26 l’impegno

    alpino assume i caratteri di un evento forte-mente destabilizzante. Le comunità delleAlpi sono letteralmente colonizzate, sotto-poste a processi rapidi di acculturazione,che non possono essere rielaborati e meta-bolizzati perché troppo rapidi. Il mutamen-to di valori è stato veloce e devastante. Peri giovani, si profila un orizzonte svuotato deipunti di riferimento consolidati e accettati ela sensazione di essere subalterni nei con-fronti della società urbana (assolutamenteaccettata e condivisa da parte dei metropo-litani, che non perdono occasione di far pe-sare una propria presunta superiorità).

    Basti pensare alla percezione degli accen-ti: mentre le inflessioni dei dialetti di pianu-ra sono spesso e volentieri ascoltati alla te-levisione nazionale, la parlata alpina non sisente mai ed è considerata spiacevole, dura,caratteristica di persone arretrate, poco in-telligenti, rozze. Ancora oggi, la parola“montanaro”, come, d’altra parte, “contadi-no”, è comunemente usata come insulto oin segno di scherno.

    D’altra parte, gli anziani non vivono unacondizione migliore: devono sopportarel’angosciante constatazione del crollo deipropri “universi di riconoscimento” conso-lidati, che conferivano allo stile di vita deipropri antenati un valore di verità assolu-ta13.

    Il modello di riferimento culturale, impor-tato dall’esterno, diffuso dalla scuola dimassa e dai media, mal si adatta a un tessu-to sociale frammentario, debole, privo diun’identità forte. Che spesso viene, letteral-mente, fagocitato, provocando fratture non

    più sanabili, perché non regge il confrontoe non si sa difendere.

    Nessuno nega l’enorme progresso, in ter-mini di economia, qualità della vita, livellodi istruzione, salute, di cui hanno potutobeneficiare gli alpini. Ma lo sviluppo ha por-tato con sé costi sociali che stanno presen-tando il conto: il prezzo della crescita eco-nomica è la marginalità crescente di moltezone estranee ai grandi flussi di produzio-ne e riproduzione culturale. Il lavoro con glianimali, sporco e “puzzolente”, è precipita-to al grado più basso della desiderabilità so-ciale, specialmente in Italia, dove, a diffe-renza delle altre zone alpine, il numero delleaziende agricole (che altrove si è stabiliz-zato) è tuttora in caduta libera e costante.Stesso discorso per la superficie agricolautilizzata: la percentuale di abbandono del-la terra in Italia è la più alta fra le nazioni al-pine14. Nessun giovane che nutre una qual-che aspettativa sul proprio futuro sogna diportare le mucche a pascersi di erba fresca.I pochi imprenditori agricoli vanno a cercarsila manodopera là dove possono reperirla aprezzi bassi (e quasi sempre, è straniera).Dall’altra parte, i genitori di quei ragazzi chenon hanno mai raccolto una palata di leta-me di vacca, né mai ammazzato un pollo, loroche le bestie al pascolo le hanno portatedavvero, per anni, anche se magari si lamen-tano per “il bosco che ritorna e fa sparire iprati”, fanno di tutto perché i loro figli nonfacciano quell’antico mestiere. Mostrandochiaramente come siano loro i primi a di-sprezzare la propria cultura di origine e noni tanto esecrati cittadini metropolitani.

    13 ANNIBALE SALSA, La molteplice unità delle Alpi, in AA. VV, Commissione internazio-nale per la protezione delle Alpi. Secondo rapporto sullo stato delle Alpi, Torino, Centrodocumentazione alpina, 2002, p. 29.

    14 Ibidem.

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    a. XXXII, n. s., n. 2, dicembre 2012 27

    L’isolamento sociale, la mancanza di con-tatti col resto dei coetanei che in estate van-no in ferie, l’assenza di divertimenti sono frale giustificazioni che adducono i giovanimontanari per non salire più in alpe. Si resi-ste dove, in un modo o nell’altro, ci si è orga-nizzati per vincere la solitudine: in Francia èintervenuto il governo, finanziando inizia-tive culturali e sindacati che difendono leesigenze (anche aggregative) dei lavorato-ri stagionali di montagna; in altri luoghi, l’al-peggio è utilizzato, oltre che per la montica-zione delle bestie, per le vacanze degli abi-tanti del paese, che non hanno più le vacchema si sono rimessi a posto le baite e consen-tono di ricreare un insediamento vitale inquota, che permette a chi lavora di non sen-tirsi fuori dal mondo, come succede in val-late alpine come la Valtellina e la val Chia-venna. Ma dove la struttura del lavoro affi-dava a un malghese di professione la curadegli animali di tutti, la crisi è veramente pro-fonda. Ancora una volta, il problema non ètanto economico, in quanto oggi chi si fa lastagione all’alpeggio guadagna di più di chiva negli alberghi, e, molto probabilmente, losforzo fisico è minore. E perfino la scarsasocialità, tanto lamentata, non so quanto siaeffettivamente minore: in periodi di intensoflusso turistico, in albergo il lavoro è senzainterruzioni, per mesi senza pause; anche seci si trova in mezzo alla gente, spesso nonsi riesce neppure a ritagliarsi uno scampolodi tempo e di spazio per scambiare quattrochiacchiere coi colleghi. In alpe, invece, og-gi nessuno è più da solo; esauriti i compitigiornalieri, i ritmi sono più lenti, e ci si puòdedicare a se stessi: parlare, leggere un libro.Ma questi vantaggi, non si riesce a vederli.Questo il motivo per cui, se si vuole rivaluta-

    re questo antico mestiere, bisogna ripropor-lo come occupazione temporanea, associa-ta ad altre cose che procurino “più soddi-sfazioni”15.

    La questione della perdita delle identitàlocali è tipica della marginalizzazione cultu-rale, provocata da un certo tipo di evoluzio-ne storica, che ha fatto scendere ancor dipiù nella scala sociale chiunque svolga unlavoro manuale, specialmente se a contattocon sostanze organiche puzzolenti. Le aspi-razioni oggi considerate socialmente e poli-ticamente legittime, per quanto riguarda illavoro, a livello generale, si possono tradur-re in: occupazione fissa e stipendio a finemese; sicurezza del posto di lavoro; ruoli ecompiti ben definiti, che corrispondano altitolo di studio e alla qualità della formazio-ne raggiunta, pensata e perseguita per otte-nere un determinato impiego; nessuna ne-cessità di aggiornamento o di studio aggiun-tivo dopo il lavoro; orari per quanto possi-bile regolari; pulizia e sicurezza sanitaria;periodi di ferie e di lavoro separati, in mododa lasciare un buon margine al tempo libe-ro, per sviluppare un qualche hobby, perandare in vacanza o per dedicarsi al relax.

    Chi non riesce a raggiungere questi “o-biettivi di vita”, si sente un marginale, unescluso, un poveretto. D’altra parte, si pensache difficilmente si potranno raggiungere ri-manendo in paese: e questa idea viene spes-so confermata e ribadita anche dalla fami-glia di origine, che, se nutre qualche ambi-zione sulla carriera dei figli, li spinge ad an-darsene.

    L’abbandono è prima mentale e soltantoin un secondo tempo assume forma fisica. Igiovani, specie quelli che hanno studiato,gli elementi più sensibili, la componente

    15 Ibidem.

  • Michela Zucca

    28 l’impegno

    femminile della popolazione, ovvero i gruppigravemente discriminati nella società tradi-zionale, cominciano a disprezzare la culturadi origine, paragonandola a quella della cit-tà, più libera e aperta, più attenta alle esi-genze individuali, in cui le aspettative posso-no essere soddisfatte con meno sforzi e sa-crifici. Piano piano se ne vanno: in principiosolo mentalmente e poi anche fisicamente.

    Dal periodo dell’esodo di massa, però,molte cose sono cambiate. Sono quasi ven-t’anni, ormai, che in diverse zone le Alpi,stando alle statistiche e ai numeri crudi, so-no diventate un’area di immigrazione, tantoche si potrebbe credere che problemi comela carenza di strutture sociali nei comuni, ilrinselvatichimento della natura in luoghiprima coltivati, o l’esodo dai villaggi e dallevalli non esistano. Del resto, il fatto che mol-te aree montane lamentino una densità dipopolazione ormai bassissima non è sempredovuto primariamente al calo della natalità,ma piuttosto ai vari fenomeni di abbando-no in atto già da tempo. Soprattutto i gio-vani dotati di un titolo di studio elevato nonriescono a resistere al richiamo esercitatodai grandi centri urbani, dove possono con-tare su migliori opportunità formative, sboc-chi occupazionali più interessanti, più pos-sibilità di realizzarsi e, non ultimo, su unventaglio molto più ampio di proposte ri-creative, di occasioni di aggregazione, di in-contro e di scambio culturale.

    È inevitabile che la prima conseguenza diquesta fuga di cervelli sia il minor utilizzodelle infrastrutture degli insediamenti col-piti dall’abbandono: non ci sono più abba-stanza bambini da giustificare il mantenimen-to dell’apertura della scuola elementare,non ci sono più clienti a sufficienza per un

    negozio, per la farmacia, troppo pochi utentiper l’ufficio postale, la guardia medica, gliimpianti sportivi; non si trovano operai perle aziende, soci per le associazioni, i pochiche ci sono sono vecchi e fanno fatica amandare avanti le cose. A sua volta, poi,questo fenomeno rende sempre meno inte-ressanti le località e i territori coinvolti, siaagli occhi di chi già ci abita sia di coloro che,eventualmente, potrebbero andare a stabi-lirvisi, trascinandoli in un circolo vizioso chegià da parecchio tempo avrebbe dovuto al-larmare le istituzioni politiche deputate allagestione sostenibile del territorio16 .

    Questa situazione non fa che aggravarealcuni tratti caratteristici e tipici della socie-tà alpina: la frammentazione sociale, il cam-panilismo, le rivalità tra paesi e tra frazioni,tra famiglie, tra fazioni, tra persone, che im-pediscono la composizione attorno a unproblema, la costruzione di un fronte comu-ne, la realizzazione collettiva e condivisa diun progetto. Cresce la diffidenza verso chiviene da fuori, e quindi la difficoltà di accet-tare aiuti, pareri, consulenze esterne. Anchein questo caso, si genera un circolo vizioso,che non fa che rafforzare l’isolamento socia-le, culturale, politico, esistenziale di chi ri-mane nelle valli.

    Quel che dice la gente: il controllo socialeUno dei più importanti fattori di freno allo

    sviluppo e di abbandono dei paesi da partedelle forze giovani è di evidente natura an-tropologica: si tratt